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Il fascismo urbano a Venezia Origine e primi sviluppi 1895-1922 di Luca Pes “Lo sviluppo del fascismo nelle aree urbane ed industriali è un campo di ricerca ancora trascurato” osservava Adrian Lyttelton dieci anni fa1. Se si confrontano i pochi studi lo- cali sui primi fasci cittadini con il grande in- teresse suscitato dalle origini del fascismo agrario si può dire che l’osservazione dello storico inglese non abbia ancora perso del tutto il suo significato. È comprensibile che l’aspetto agrario venga privilegiato poiché, nel primo dopoguerra, l’Italia è ancora un paese contadino2 ed è nelle zone rurali che il movimento fascista ottiene molti dei finan- ziamenti, ingrossa le file e conta un forte nu- mero di successi ‘militari’ contro le leghe bracciantili. È però altresì vero che i primi fasci nascono nelle città e che, prima ancora di essere strumento della reazione agraria, riflettono istanze proprie all’ambiente urba- no che molti tra gli stessi fascisti ritengono di primaria importanza. Il fascismo accede a Palazzo Chigi e alle amministrazioni locali soprattutto grazie ad un rapporto privilegiato con la borghesia, che sussiste non solo perché la violenza fa- scista è utile a gran parte degli agrari e degli industriali per reprimere le organizzazioni operaie e contadine, ma anche perché il fa- scismo svolge un ruolo politico e sociale nel- la gestione della società borghese che diven- ta ‘di massa’ e nell’integrazione delle classi subalterne. Questi aspetti sono maggiormen- te visibili nel più dinamico ambiente urbano dove il fascio sviluppa la sua ‘diplomazia’ politica, la sua strategia elettorale, la sua at- tività sindacale ed il suo stretto rapporto con i ceti medi. Sotto il profilo interpretativo è proprio lo studio di questi aspetti che evi- denzia il nesso tra il primo fascismo e i pro- cessi storici di lungo respiro: modernizzazio- ne, industrializzazione, democrazia liberale, socializzazione, suffragio universale, movi- mento operaio e sindacale. Tanto che ver- rebbe da dire che lo studio del fascismo ur- bano mette in risalto aspetti di ‘continuità’ con l’evoluzione complessiva della storia d’Italia. E aspetti di continuità sono ben vi- sibili nel fascismo urbano di Venezia non appena lo si assuma come oggetto di analisi. Il fascio veneziano di combattimento, nel momento della sua fondazione, nel marzo- aprile 1919, dà l’impressione di essere una forza ‘trapiantata’ da Milano. A fondarlo è infatti un agente di Mussolini, Amedeo Giu- rin, inviato espressamente per raccogliere adesioni al manifesto di San Sepolcro. Con l’aiuto di un tenente foggiano questi raduna un primo nucleo di una quindicina di soste- 1 Adrian Lyttelton, Italian fascism , in Walter Laqueur, Fascism. A reader's guide, London, Weindenfeld and Ni- colsson, 1982, p. 93. 2 Ancora nel 1921 l’Italia conta 10.354.000 addetti nel settore primario contro i 4.391.000 del secondario (i dati sono ricavati da Bonner R. Mitchell, European Historical Statistics 1750-1970, London, Mac Millan Press, 1978, p. 561). “Italia contemporanca”, dicembre 1987, n. 169

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Il fascismo urbano a VeneziaOrigine e primi sviluppi 1895-1922

di Luca Pes

“Lo sviluppo del fascismo nelle aree urbane ed industriali è un campo di ricerca ancora trascurato” osservava Adrian Lyttelton dieci anni fa1. Se si confrontano i pochi studi lo­cali sui primi fasci cittadini con il grande in­teresse suscitato dalle origini del fascismo agrario si può dire che l’osservazione dello storico inglese non abbia ancora perso del tutto il suo significato. È comprensibile che l’aspetto agrario venga privilegiato poiché, nel primo dopoguerra, l’Italia è ancora un paese contadino2 ed è nelle zone rurali che il movimento fascista ottiene molti dei finan­ziamenti, ingrossa le file e conta un forte nu­mero di successi ‘militari’ contro le leghe bracciantili. È però altresì vero che i primi fasci nascono nelle città e che, prima ancora di essere strumento della reazione agraria, riflettono istanze proprie all’ambiente urba­no che molti tra gli stessi fascisti ritengono di primaria importanza.

Il fascismo accede a Palazzo Chigi e alle amministrazioni locali soprattutto grazie ad un rapporto privilegiato con la borghesia, che sussiste non solo perché la violenza fa­scista è utile a gran parte degli agrari e degli industriali per reprimere le organizzazioni operaie e contadine, ma anche perché il fa­scismo svolge un ruolo politico e sociale nel­

la gestione della società borghese che diven­ta ‘di massa’ e nell’integrazione delle classi subalterne. Questi aspetti sono maggiormen­te visibili nel più dinamico ambiente urbano dove il fascio sviluppa la sua ‘diplomazia’ politica, la sua strategia elettorale, la sua at­tività sindacale ed il suo stretto rapporto con i ceti medi. Sotto il profilo interpretativo è proprio lo studio di questi aspetti che evi­denzia il nesso tra il primo fascismo e i pro­cessi storici di lungo respiro: modernizzazio­ne, industrializzazione, democrazia liberale, socializzazione, suffragio universale, movi­mento operaio e sindacale. Tanto che ver­rebbe da dire che lo studio del fascismo ur­bano mette in risalto aspetti di ‘continuità’ con l’evoluzione complessiva della storia d’Italia. E aspetti di continuità sono ben vi­sibili nel fascismo urbano di Venezia non appena lo si assuma come oggetto di analisi.

Il fascio veneziano di combattimento, nel momento della sua fondazione, nel marzo- aprile 1919, dà l’impressione di essere una forza ‘trapiantata’ da Milano. A fondarlo è infatti un agente di Mussolini, Amedeo Giu- rin, inviato espressamente per raccogliere adesioni al manifesto di San Sepolcro. Con l’aiuto di un tenente foggiano questi raduna un primo nucleo di una quindicina di soste-

1 Adrian Lyttelton, Italian fascism , in Walter Laqueur, Fascism. A reader's guide, London, Weindenfeld and Ni- colsson, 1982, p. 93.2 Ancora nel 1921 l’Italia conta 10.354.000 addetti nel settore primario contro i 4.391.000 del secondario (i dati sono ricavati da Bonner R. Mitchell, European Historical Statistics 1750-1970, London, Mac Millan Press, 1978, p. 561).

“Italia contemporanca”, dicembre 1987, n. 169

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nitori. Poco a poco il nucleo si allarga, ma è difficile pensare che alla fine dell’anno esso superi i cento tesserati3.

Da dove provengono i primi sostenitori del fascio? Dove e come questa iniziativa milanese ha trovato terreno fertile a Vene­zia? Uno studio delle componenti del fasci­smo veneziano4 ci induce a rilevare che i pri­mi fascisti sono sì “piccolo-borghesi” nel­l’accezione di Luigi Salvatorelli5, ma che tra di loro primeggia una componente di profes­sionisti, soprattutto medici e avvocati, che in gran parte non sono nuovi all’attivismo politico. Nel complesso su quaranta ‘dician- novisti’ del fascio veneziano la cui occupa­zione è nota, sedici sono professionisti, nove dei quali hanno militato in qualche organiz­zazione politica interventista, soprattutto nel partito radicale6. Questi primi dati, per quanto approssimativi7, sono più che signifi­cativi. Prima di tutto, la componente dotata di esperienza politica è molto importante in

quanto guida il fascismo politicamente e ideologicamente e gli fornisce quei preziosis­simi rapporti con le altre forze politiche e le autorità che lo fanno sopravvivere e poi cre­scere. In secondo luogo, l’esperienza politica di cui si parla ha una matrice specifica: quel­l’area di militanza politica patriottica, so- cialriformista e radicale che si autodefinisce “democratica” e “piccolo-borghese”8. Ora, anche se non bisogna dimenticare l’esistenza dell’altra componente formata dagli studen­ti e dagli ex combattenti, diventa difficile in­terpretare il fascismo veneziano esclusiva- mente come conseguenza della guerra. La prima componente usa infatti un linguaggio, ha un suo piano politico che, per quanto confuso, è parte della tradizione democrati­ca. Negare il significato di questa continuità significa negare il valore di quelle esperienze politiche e culturali che sono invece espres­sioni di processi storici infrastrutturali di grande importanza.

3 L’atto di fondazione del fascio veneziano ed il numero dei primi iscritti sono documentati dall’Archivio centrale di Stato, Direzione generale della Pubblica sicurezza (d’ora in poi Acs, Ps), 1922, b. 101, rapporto del 21 febbraio 1921 e da Giorgio Alberto Chiurco, Storia delta rivoluzione fascista, voi. Ili, Firenze, Vallecchi, pp. 359-363.4 L’archivio del fascio veneziano è introvabile e probabilmente non esiste più. L’Archivio di stato di Venezia non permette la consultazione dei documenti prefettizi sull’ordine pubblico del periodo in questione. Le carte di Pietro Marsich, leader del fascismo veneziano sono irreperibili. I dati qui esposti, ancora incompleti, sono ricavati da di­verse fonti, tra cui Acs, Ps 1919, 1920, 1921 e 1922\ G. A. Chiurco, Storia, cit.; i giornali “La Gazzetta di Venezia” e “Il Gazzettino” del 1919; Raffaele Vicentini, Diario di uno squadrista, Venezia, Stamperia Zanetti, 1934.5 Vedi Luigi Salvatorelli, Nazionalfascismo, Torino, Einaudi, 1977, pp. 10-16, dove la piccola borghesia viene fat­ta comprendere “i professionisti tecnici [...] e le masse degli impiegati dello stato e degli altri enti pubblici (burocra­zia) e dei minori esercenti le cosiddette professioni liberali (avvocatura, medicina, insegnamento ecc.)” .6 Su sedici professionisti, sei sono avvocati, cinque dottori, due professori, uno preside ed uno pedicure. Di questi, cinque risultano iscritti al partito radicale, due alla associazione nazionalista, uno al partito repubblicano ed uno al partito socialista. La componente socialista del fascio è dunque assai scarsa. Questo è dovuto anche al fatto che l’interventismo non intacca il socialismo veneziano che rimane massimalista e fedele alla formula “non aderire né sabotare” (vedi Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia 1919-1922, Venezia, Marsi­lio, 1977, pp. 34-45).7 Si suppone che le fonti segnalino con molta più facilità l’occupazione del professionista. C’è il rischio, dunque, che la componente dei professionisti risulti sovrastimata. Secondo il prefetto, nel febbraio 1921, il fascio conta cir­ca 500 soci (Acs, Ps 1922, b. 101, rapporto del 25 febbraio 1921). Finora sono stati raccolti 112 nominativi di fasci­sti del 1919-20. I fascisti la cui occupazione è nota sono dunque un po’ più di un terzo di quelli raccolti e quasi un decimo del totale del febbraio 1921.8 “Area democratica”, “democrazia” e “democratici”, qui stanno ad indicare un’area di militanza politica articola­ta attorno ad una costellazione di club anticlericali le cui organizzazioni di punta, a cavallo tra la fine dell’Ottocen­to e l’inizio del Novecento, sono l’Associazione radicale e l’Unione democratica che si collocano all’Estrema sini­stra ormai costituzionale. Vedi Letterio Briguglio, La vita politica e sociale dei veneziani dopo il 1866, in Aa.Vv. Venezia nell’Unità d'Italia, Firenze, Sansoni, 1961.

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Queste stesse osservazioni acquistano an­cor maggiore significato qualora si analizzi la natura delFattivismo dei diciannovisti. In un primo tempo i fascisti non considerano la loro militanza come qualcosa che precluda l’attività politica in altri gruppi. Anzi, molti di loro sono tesserati e militano in altre asso­ciazioni9. Quelli che hanno militato in qual­che organizzazione democratica nell’ante­guerra sono iscritti a Democrazia sociale, la forza politica che li rappresenta: ben sei dei suoi militanti di spicco sono anche fra i do­dici esponenti più in vista del fascio10. Molti dei fascisti che hanno combattuto in guerra sono iscritti a una o più delle tante associa­zioni per la difesa degli interessi degli ex combattenti. Gli studenti fascisti frequenta­no le organizzazioni patriottiche e irrédenti­ste cittadine come la Dante Alighieri e la Trento-Trieste. Alcuni sono anche iscritti al movimento nazionalista ‘ufficiale’, altri so­no legionari fiumani che combattono a fian­co di Gabriele D’Annunzio. Questi frequen­tissimi intrecci dimostrano innanzitutto che esiste un’area politico-culturale interventista della quale il fascio fa pienamente parte. Al­l’interno dell’area interventista Democrazia sociale svolge un ruolo importante soprat­tutto perché viene riconosciuta come porta­voce politico delle organizzazioni degli ex combattenti. Il fascio svolge invece per tutto il 1919 un ruolo ancora subalterno. Nel no­vembre la sede del fascio è nei locali della associazione democratica. I democratici atti­vi nel fascio considerano preminente la loro presenza nella Democrazia sociale. Il fascio ancora non ha pretese elettorali e alle elezio­ni appoggia la lista democratica. È poco or­ganizzato, segue le iniziative delle altre asso­

ciazioni patriottiche e agisce solo in collabo- razione con una o più di esse11.

Non solo, dunque, la componente del fa­scio con esperienza politica proviene dalla tradizione democratica. Ma il fascio stesso, come organizzazione, nel 1919 è parte del­l’area politico-culturale interventista che è egemonizzata dalla forza che eredita proprio questa tradizione. Queste considerazioni ba­stano per far sorgere la necessità di indagare sui rapporti che intercorrono tra la tradizio­ne democratica dell’anteguerra ed il fascio, non perdendo di vista però l’importanza dei processi oggettivi, ovvero la funzionalità che questi movimenti politici possono assumere all’interno del ‘sistema’ delle forze operanti nella società. Seguendo questo premesse si può già indicare un primo percorso di ri­cerca.

Area democratica, metapolitica borghese, cooperative interclassiste

Nell’Ottocento Venezia vive un processo di socializzazione diffusa che è tipico delle città nell’era industriale e che dopo l’incorpora­zione nel regno si esprime col sorgere di moltissime forme di associazione che si estendono a tutti i campi del vivere colletti­vo. In particolare le elezioni politiche, l’e­stensione del suffragio e la legge sull’attività del sindaco, portano alla costituzione di club di ‘notabili’ che amministrano le cam­pagne elettorali in un clima di battaglia poli­tica che vede affermarsi anche i gruppi e i giornali di quei borghesi che sono ancora esclusi dal potere. Questi ultimi si organizza­no in associazioni informali e pur venendo

9 Quindici su quaranta dei fascisti analizzati risultano iscritti ad altre organizzazioni.10 II dottor Ferruccio Fiorioli della Lena, l’avvocato Piero Marsich, il chirurgo Davide Giordano, l’avvocato Gio­vanni Giuriati, l’avvocato Raffaele Levi e l’ingegner Ippolito Radaelli.11 “In sostanza” , spiega Piva, “il fascio si presenta come un’appendice secondaria dell’area interventista egemoniz­zata dalla Democrazia sociale” . E tale è il giudizio de “Il Popolo”, giornale democratico, che vede il fascio “del tut­to inserito nella strategia del partito democratico” (F. Piva, Lotte, cit., p. 135).

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tutti egualmente identificati col termine di “democratici” mantengono spesso tra di lo­ro posizioni molto diverse, tanto che posso­no venir distinti in un’ala moderata che si ri­conosce nell’Unione democratica e un’ala radicale cui fa capo il partito radicale. I de­mocratici propongono la piccola borghesia come classe dirigente, dopo che questa, for­te della crescita del settore bancario e assicu­rativo, dell’impiego statale e privato, delle libere professioni e del settore turistico, ha aumentato la consapevolezza della propria forza. Questa piccola borghesia che com­prende professionisti, impiegati statali e pri­vati, artigiani, negozianti e stipendiati, cre­scerà infatti fino a comprendere, nel 1921, il 24,51 per cento della popolazione attiva a Venezia12.

L’insediamento delle prime fabbriche mo­derne, la scomparsa di vecchi mestieri anco­rati alla struttura economica tradizionale, come la figura del “battellante”, i fenomeni di inurbamento, di affollamento, di disoccu­pazione, miseria, malattia, alcoolismo e ghettizzazione formano il terreno fertile per un altro tipo di associazione. Complice an­che il tradizionale paternalismo della classe dirigente veneta, la ‘questione sociale’ dopo la metà dell’Ottocento impegna infatti quasi tutta la borghesia cittadina, piccola e gran­de, in un vivace dibattito sull’integrazione

del ceto operaio che prende forma con la fondazione di numerosissime associazioni benefiche e di mutuo soccorso interclassiste. Alla testa i queste iniziative troviamo perso­ne che indubbiamente hanno ottimi rapporti con le élites veneziane, come il conte Angelo Papadopoli, Alberto Errera ed Emilio Mor- purgo13. Ma, come dimostra l’assidua attivi­tà dei vari Alberto Mario, Antonio Marson e Adolfo Dostenich, sono le forze democra­tiche e non quelle altoborghesi a svolgere un ruolo essenziale nella nascita e nello svilup­po delle associazioni di mestiere cittadine pur caratterizzate qua e là da spinte autono­me proprie o dalle iniziative dei cattolici e dei socialisti14. Queste forze ritengono di es­sere l’avanguardia dell’intera classe borghe­se, coscienti della necessità di adattamento al ‘processo sociale’, ma anche i portavoce ideali del proletariato e di un socialismo borghese e riformista che si reputa in questo superiore al socialismo rivoluzionario che a fine Ottocento fa già capolino nelle file ope­raie cittadine. In termini di programma elet­torale questo significa, almeno dal 1890 in poi, la richiesta dell’introduzione del suffra­gio universale, di una politica fiscale pro­gressiva, della giornata di otto ore, del dirit­to degli operai di organizzarsi. E significa anche rappresentare gli interessi espressi da quella parte del movimento operaio e dei ce-

12 Censimento generale deI dicembre 1921 sulla popolazione di Venezia, Comune di Venezia, 1923.13 Errera, Papadopoli e Morpurgo, sono a livello regionale i personaggi più significativi per quanto riguarda l’asso­ciazionismo operaio borghese, sia a livello organizzativo (nel quale si distinguono principalmente i primi due) che a livello teorico. Cfr. Angelo Papadopoli, Della necessità di un nuovo indirizzo nella pubblica beneficienza, Venezia, Tipografia del commercio di M. Visentini, 1871; Alberto Errera, Monografie degli istituti di previdenza e di credito della industria e del commercio, Venezia, coi tipi dello stabilimento Antonelli, 1870; Emilio Morpurgo, // proleta­riato e le società di mutuo soccorso, Padova, Tipografia A. Bianchi, 1859.14 Per quanto riguarda la figura di Alberto Mario si veda L. Briguglio, Caratteri de! movimento operaio a Venezia dopo l ’Unità (l’opera di Alberto Mario), in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, Edizioni di storia e lette­ratura, 1958, vol. Ili, pp. 355-379. Brevissimi cenni a Marson e Dostenich in Emilio Franzina, L ’eredità dell’Otto­cento e le origini della politica di massa in Venezia, a cura di E. Franzina, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 128. Fino a che punto le prime associazioni di mutuo soccorso siano espressione di una certa autonomia operaia è ancora una questione aperta, mancando veri e propri studi sul movimento operaio a Venezia. Certo è che la storia dell’associa­zionismo operaio a Venezia è caratterizzata anche e soprattutto dalla presenza della tutela borghese che lo piega su posizioni interclassiste (vedi per esempio le osservazioni in riguardo di L. Briguglio, La vita, cit.).

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ti subalterni che, constatata la capacità dello stato capitalistico di intervenire a favore di un miglioramento delle loro condizioni eco­nomiche e giuridiche, cercano compromessi anziché lo scontro di classe. Diventa presto facile per le forze democratiche trovare pun­ti in comune con il socialismo riformista.

Nel 1895, dopo l’elezione a sindaco del conte clerico-moderato Filippo Grimani, si consolida una situazione politica che vede un blocco conservatore al potere ed un bloc­co ‘popolare’ democratico-socialista all’op­posizione15. È all’interno di questo schiera­mento bipolare che i democratici vivono le loro contraddizioni, muovendosi per ottene­re vantaggi in favore dei lavoratori della cit­tà e organizzandoli in cooperative stretta- mente interclassiste, conseguendo anche noti successi e non solo tra i ‘colletti bianchi’.

Il caso della difesa degli interessi degli ar­senalotti e delle tabacchine in cui si distin­guono i deputati radicali Antonio Fradelet- to, presidente della Biennale, e Sebastiano Tecchio, direttore del giornale democratico “L’Adriatico” è, da questo punto di vista, esemplare. Agli inizi del Novecento questi riescono ad ottenere l’abolizione della tan­to odiata sorveglianza dei carabinieri nelle officine dell’Arsenale e l’allontanamento del

commissario e del direttore dello stabilimen­to tabacchi e la nomina di un ispettore che indaghi sulle condizioni delle tabacchine16. La felice opera di mediazione dei democrati­ci non è priva di riscontri pratici visto che le loro cooperative vantano, ancora ai primi del Novecento, un’invidiabile roccaforte nell’unica grande ‘fabbrica’ della città, l’Ar­senale. Questi successi vengono ottenuti so­prattutto attraverso i tradizionali canali clientelari nei quali conta ancora l’influenza della persona. Non sfugge a nessuno infatti il carattere paternalista delle figure del Fra- deletto e del Tecchio17. “Del resto è più che naturale”, dirà “Il Radicale” , “per ottenere miglioramenti agli operai bisogna essere de­putati influenti. L’influenza si ottiene con la propria autorità”18.

Le associazioni operaie democratiche non sono organizzazioni di classe, né mirano a formare un sindacato centralizzato e coordi­nato, ma associazioni che forniscono un ponte tra istituzioni e classi subalterne urba­ne, ovverosia un canale legale, cioè parla­mentare, attraverso il quale queste classi possano convogliare i propri malesseri senza possedere organizzazioni pericolosamente incontrollabili che adottino proposte sovver­sive19. Di qui l’ostilità verso l’ala più rivolu-

15 L’elezione del sindaco Grimani, detto poi “sindaco d’oro”, è il primo vero frutto dell’alleanza tra clericali e libe­rali. L’alleanza è possibile dopo l’attuazione di un mini-concordato che garantisce il ripristino dell’insegnamento religioso nelle scuole ed il ritorno della presenza di autorità dell’amministrazione cittadina alle feste religiose (la fe­sta della Madonna della Salute e del Redentore). Vedi Francesco Saccardo, Filippo Grimani, Venezia, 1924. Il mini-concordato sancisce a Venezia una situazione che si ufficializza nel resto d’Italia diciotto anni dopo per quan­to riguarda l’alleanza politica, e trentaquattro anni dopo per quanto riguarda l’accordo tra le autorità secolari e cle­ricali. Il blocco popolare era entrato in funzione cinque anni prima, con l’elezione del primo sindaco progressista, Riccardo Selvatico.16 Vedi per esempio Prodromi elettorali, “L’Adriatico” , 5 aprile 1904. Ma vi sono altri esempi dell’assidua attività da parte dei democratici nella difesa dei lavoratori. Gli scaricatori della stazione ferroviaria, notoriamente sottova­lutati dai sindacati rossi (vedi Acs, Ps 1919, b. 132, lettera datata 31 gennaio 1919), regalano una pergamenta a Fra- deletto perché “rivendicò a giustizia i loro diritti offesi” (AHa vigilia della lotta, “L’Adriatico, 23 marzo 1912).17 I socialisti li accusano di essere “conservatori in veste di democratici” (“Il Secolo nuovo”, 24 giugno 1904).18 Citato in Musatti giudicato dagli amici, “L’Adriatico”, 24 marzo 1912.19 Antonio Fradeletto spiega che “mirando a togliere o perlomeno diminuire le occasioni e le ragioni di conflitto tra interessi diversi [...] i sodalizi cooperativi offrono quotidiana opportunità di combattere il cieco egoismo (La ban­diera degli scaricatori di sale, “L’Adriatico”, 20 novembre 1911).

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zionaria del partito socialista cittadino, ca­peggiato dal temuto “milionario ebreo” Elia Musatti. Come spiega il professor Giovanni Bordiga, matematico, dirigente del partito radicale e grande amico di Fradeletto, i de­mocratici vogliono “coordinare ad uno sco­po eminentemente pratico tutte le falangi che sono mosse in modo essenziale dal parti­to rivoluzionario” e cioè “arginarle, guidar­le”20. Vogliono offrire dunque il modo nel quale il liberalismo possa finalmente diven­tare liberalismo di massa, moderno e adatto alla mobilitazione delle masse ormai in atto, in sintonia con lo spirito se non la prassi po­litica di Giolitti che, non a caso, come emer­ge dai suoi carteggi21, è in ottimi rapporti con Tecchio e “L’Adriatico” . E persino Fra­deletto, leader riconosciuto dell’opposizione a Giolitti, in un suo celebre discorso parla­mentare contro la “dittatura” dello statista piemontese, riconosce a quest’ultimo il me­rito di aver reso utili servigi al movimento democratico assicurando la libertà di orga­nizzazione e di lotta per il proletariato quan­do questa era ancora “argomento di contro­versia”22.

Il capitale veneziano più avanzato, legato al finanziere Giuseppe Volpi e alla Banca commerciale, interessato ad una visione più dinamica e moderna della gestione della eco­nomia e della politica, ben presto individua nella democrazia una forza positiva per lo sviluppo dei propri interessi, tanto da finan­ziare “L’Adriatico” e mantenere buoni rap­

porti con gli elementi democratici più mode­rati tra cui Fradeletto, con il quale Volpi ri­mane in contatto fin dopo la guerra23. D’al­tra parte il punto di riferimento delle forze democratiche non è il lavoratore manuale, ma la piccola borghesia “intelligente, fatti­va, vera aristocrazia intellettuale”24 e questo significa che per loro il potere decisionale nel mondo del lavoro deve restare ben saldo nelle mani di una gerarchia di tecnici. La lo­ro è una lotta volta a rendere più efficiente il funzionamento di questa gerarchia attraver­so un sistema che escluda i privilegi e premi il merito.

Dopo il primo sciopero generale nazionale del settembre 1904 che spaventa l’opinione pubblica borghese, compresi ampi settori della democrazia veneziana, il sindacalismo socialista che è più conflittuale del coopera­tivismo democratico e viene coordinato dal­la Camera del lavoro, si espande fino al punto di assorbire molte delle associazioni che prima gravitavano nell’orbita democra­tica, comprese quelle importantissime del­l’Arsenale (1909).

Il socialismo veneziano a livello sindacale sembra difendere indiscriminatamente i la­voratori iscritti alle organizzazioni ‘rosse’, spesso favorendo o confermando la creazio­ne di vere e proprie corporazioni25. Il caso dei gondolieri e degli scaricatori di porto è, sotto questo punto di vista, esemplare. I gondolieri svolgono la loro attività secondo un sistema di licenze limitate e di privilegi

20 Intervista a Bordiga, “L’Adriatico”, 27 giugno 1914.21 Cfr. E. Franzina, Tra Ottocento e Novecento, in Storia d ’Italia. Le regioni. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, pp. 818-820.22 Antonio Fradeletto, La fine d ’un parlamento e la dittatura di un ministro, Milano, Treves, 1911, pp. 29-39; cita­to in Emilio Gentile, Il mito dello stato nuovo dall'antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 36.23 Cfr. F. Piva, Lotte, cit., p. 28, per quanto riguarda i finanziamenti di Volpi. Dopo la guerra Fradeletto si farà portavoce delle mire di Volpi sull’arsenale (ibidem, pp. 83 e 84).24 / / pensiero dell’onorevole Pietriboni, “L’Adriatico”, 12 giugno 1914.23 “Ai primi del Novecento i socialisti tentavano infatti di impadronirsi dei più importanti sodalizi operai [...]. Il ri­cambio peraltro è abbastanza indolore se viene emblematizzato, come a Treviso e a Vicenza, dalla ‘conquista’ di as­sociazioni artigiane che tendono a rimanere ciononostante corporative e interclassiste” (E. Franzina, Tra Ottocento e Novecento, cit., p. 816).

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che, tra l’altro, dal 1887 garantiscono alle gondole ‘l’esclusiva’ sui servizi privati di co­municazione acquea interna alla città. La tentazione degli albergatori e dei turisti di smantellare tale sistema con l’uso di mezzi motorizzati, le cosiddette lance, incontra la resistenza dei gondolieri difesi dai consiglieri comunali socialisti che si fanno così sosteni­tori del monopolio26. Sono proprio i sociali­sti, poi, che ai primi del Novecento ottengo­no un sistema fisso di nove cooperative di lavoratori di ruolo al porto, forzando le au­torità a vietare l’impiego di scaricatori in­gaggiati dagli imprenditori e dai commer­cianti27. Più di una volta i lavoratori esclusi da questo monopolio si trovano a fianco della protesta degli esercenti e degli alberga­tori per reclamare la mancanza di “libertà economica e di lavoro”. Ciò nonostante a li­vello politico nel movimento socialista si af­ferma sempre più una dirigenza rivoluziona­ria e intransigente attorno alle figure di Ce­sare Alessandri ed Elia Musatti a scapito del minimalista Eugenio Florian, l’uomo allora più vicino ai democratici. Alessandri e Mu­satti, fiduciosi nella forza del movimento sindacale, appoggiano infatti la linea ‘ope­raista’ di Costantino Lazzari, insofferente ai giochi parlamentari e alle alleanze a scopi e- lettorali28.

I deputati democratici e le loro organizza­zioni entrano in oggettiva concorrenza con i socialisti, anche perché presto le cooperative classiste dirette dal partito di Musatti hanno la preminenza. Diventa allora troppo forte per i democratici la tentazione di difendere i lavoratori esclusi o meno avvantaggiati dal monopolio rosso. Così, nonostante perman­

gano pur discontinui accordi elettorali, non mancano scontri polemici violenti tra le due componenti, tanto che, ad esempio, dopo lo sciopero del 1904, Fradeletto giunge a de­scrivere il socialismo come “l’aizzamento degli istinti più bassi”29.

La Venezia del Novecento non solo assiste a questa crescente competizione tra compo­nente ‘borghese’ e componente ‘operaia’ del movimento dei lavoratori, ma vede anche svilupparsi un associazionismo borghese ra­dicalmente patriottico. Tra il 1903 ed il 1910, infatti, sorgono tra le tante la sezione veneziana della Trento-Trieste, il Circolo Garibaldi pro Venezia Giulia, il gruppo na­zionalista d’avanguardia “Il Mare Nostro” e la sezione locale dell’Associazione nazionali­sta. Questa associazionismo presenta sin dall’inizio una natura metapolitica poiché è espressione di problematiche, interessi e idee che vanno oltre le divisioni politico-elettorali del mondo borghese e raccoglie e unisce per­sonaggi di diversissima estrazione e di diver­se tendenze. Questo tipo di associazionismo nasce nel clima caldo della crisi dell’area adriatico-balcanica e Venezia è in quegli an­ni il centro dell’immigrazione dalle terre ir­redente. Ospita una colonia dalmata, una cadorina, una giuliana, e un gruppo di stu­denti istriani e dalmati iscritti alla Scuola su­periore di commercio. Mantiene scambi commerciali con Fiume e Trieste. Ha contat­ti abbastanza continui con due porti “irre­denti”, tanto da costituirvi vere e proprie colonie di “regnicoli” residenti nelle terre dell’impero austro-ungarico. La politica del governo austriaco che danneggia il commer­cio triestino e favorisce l’elemento sloveno a

26 Vedi soprattutto Gino Damerini, Amor di Venezia, Bologna, Zanichelli, 1920, pp. 147-149.27 Acs, Ps 1920, b. 129, missiva del 9 aprile 1920, con un utilissimo promemoria.28 Un ritratto dei leader socialisti in Gino Bertolini, Italia. Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, Venezia, Istituto veneto di arti grafiche, 1912, pp. 106-112. Cfr. anche F. Piva, Lotte, cit., p. 98 e Al­berto Aquarone, L ’Italia giolittiana, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 253.29 Violenti e timidi, “L’Adriatico”, 7 maggio 1904.

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scapito di quello italiano sulle coste adriati- che allarma la popolazione italofona e i “re­gnicoli” lì residenti30. La città lagunare di­venta ben presto un importante centro per l’attività antiaustriaca. La pubblicistica cit­tadina esaspera i riferimenti al ruolo di ba­luardo di italianità che la repubblica veneta avrebbe svolto e dovrebbe continuare a svol­gere, una tematica che a lungo caratterizza la letteratura locale di inizio del secolo. Que­sto preludio di guerra etnica investe tutta la borghesia e rinasce all’interno dell’associa­zionismo borghese il mito garibaldino dell’ “uomo d’azione” .

Ma non si tratta solamente di fermenti pa­triottici. Pur facendo torto alla complessità di questi processi, si può dire che questo as­sociazionismo è anche espressione di una confusa ma diffusa richiesta che i maggiori problemi non vengano risolti da disarticolati compromessi clientelari, ma da una politica lungimirante e se necessario aggressiva, che favorisca i settori più dinamici dell’econo­mia, il profitto rispetto alla rendita e la com­petenza piuttosto che il privilegio. Richiesta che trova concretezza nei dibattiti sul pro­blema della casa e dello sviluppo edilizio della città31, sulle scelte industriali con la co­struzione del porto a Marghera32, sul rinno­vo delle convenzioni marittime, sulla difesa degli interessi italiani nei Balcani e su tutto l’Adriatico e, infine, nel dibattito sul potere sindacale ed elettorale di un partito sociali­sta più rivoluzionario e internazionalista nel

l’imminenza dell’introduzione del suffragio universale maschile.

Dietro a queste richieste di rinnovamento stanno soprattutto gli interessi del nuovo ca­pitalismo veneziano — rappresentato da Volpi, Gaggia, Cini e Foscari — che oltre a sviluppare il porto industriale in terraferma, si propone di intensificare le iniziative di pe­netrazione economica nei Balcani. Il vero motore delle attività di questo associazioni­smo è però una non compiutamente realiz­zata coscienza di classe borghese evidente nell’intreccio tra le associazioni. E il nuovo associazionismo infatti non stona affatto a fianco delle associazioni ottocentesce che, come la Dante Alighieri e la Ginnastica Reyer, già raggruppano borghesi di diversa estrazione e vedute per specifici scopi bene­fici, sportivi e culturali, ma che sono espres­sione di volontà protese verso la creazione di una ‘coscienza nazionale’ di cui il lavoro e l’interclassismo sono le colonne portanti.

Colui che meglio rappresenta in sé questo ‘movimento’ è il conte Piero Foscari. Fon­datore della patriottica Canottieri Querini, presidente della Ginnastica Reyer, deputato liberale dal 1909 e primo presidente della Trento-Trieste, diventa presidente del grup­po nazionalista cittadino33. A lui si affianca­no personalità di diversa estrazione come Gino Damerini, critico letterario della “Gaz­zetta di Venezia”, giornale della grande bor­ghesia, di cui nel dopoguerra assumerà la di­rezione con aperte simpatie fasciste e nazio-

30 Portavoce della colonia giuliana a Venezia è il “Pro Venezia Giulia”, il foglio ufficiale del Circolo Garibaldi Pro Venezia Giulia. Particolarmente informativi sono i seguenti articoli: La festa del primo maggio, 5 maggio 1913; Quanti sono gli italiani in Austria, 11 gennaio 1914; La marea incalza, 5 aprile 1914; La disoccupazione a Trento e la manodopera slava, 15 febbraio 1914; Trieste e i suoi traffici qualora avvenga l ’annessione al Regno, 3 marzo 1914. Cfr. anche “La Voce della Patria”, organo della Trento-Trieste: La questione economica a Trieste, 15 giugno 1914 e II problema di Gorizia, 15 maggio 1914. Per quanto riguarda l’attività illegale della Trento-Trieste vedi Gio­vanni Giuriati, La vigilia, Milano, Mondadori, 1930, pp. 165-279. Un accenno alle varie colonie di irredenti a Ve­nezia in Per una associazione di trentini, triestini e dalmati a Venezia, “Pro Venezia Giulia”, 3 maggio 1914.31 Si discute infatti in quegli anni sulla costruzione di case comunali a Sant’Elena.32 Cesco Chinello, Porto Marghera. 1902-1926. Alle orìgini del problema di Venezia, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 69-91 e Richard A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Torino, Einaudi, 1975, pp. 357-436.33 Armando Odenigo, Piero Foscari, Bologna, Cappelli, 1959.

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naliste34. In una città però dove i liberal- clericali hanno il monopolio del potere dal 1895 e il partito socialista è operaista queste aspirazioni che mescolano irredentismo, modernizzazione, revisionismo ed anti- operaismo, sono congeniali soprattutto ai democratici. AlPinterno dell’area democra­tica emergono così malumori contro il bloc­co popolare e già nel 1904 c’è chi propone un “blocco di forze costituzionali” che in­cluda i liberali e che presenti come suo can­didato Fradeletto35. È un primo segno che il radicalismo antisocialista può anche svolge­re funzioni più vaste di quante ne abbia svolte fino a quel momento.

Nel 1910, quando il partito socialista ha ormai acquisito l’egemonia sul proletariato cittadino, viene eletto il primo deputato so­cialista veneziano, Elia Musatti. Avvicinan­dosi il momento dell’introduzione del suf­fragio universale maschile il Psi rompe gli accordi elettorali con i democratici. In vista delle elezioni straordinarie indette per il 1912 nel collegio comprendente i quartieri popolari di Castello, i democratici filolibera­li, che dalla pubblicistica del momento ven­gono definiti “radico-liberali”, propongono l’idea del blocco borghese, che da tempo ve­niva vagheggiata, disorientati anche dai ri­sultati delle elezioni del 1910 che avevano vi­sto Tecchio perdere il suo seggio contro Mu­satti e Fradeletto mantenere il proprio solo grazie all’intervento del sindaco Grimani che aveva ottenuto il ritiro del maggiore candi­dato liberale, Ettore Sorger36. Altrettanto di­

sorientati restano quei democratici che, co­me Ernesto Pietriboni, fondatore dell’Asso­ciazione radicale, si rifiutano di stringere un’alleanza con i tradizionali nemici della democrazia. Essendo preclusa la possibilità di trovare un nuovo accordo elettorale con i socialisti a questi non resta che proporre di presentare una lista autonoma terzaforzi- sta37. Dal dibattito38 che ne scaturisce è faci­le identificare i personaggi di spicco. Tra i “radico-liberali”, oltre Fradeletto e Tecchio, si distinguono i futuri leader del fascismo moderato: l’ingegnere capo provinciale Ip­polito Radaelli, l’avvocato Giovanni Giuria- ti, entrambi dirigenti della Trento-Trieste, e l’avvocato israelita Raffaello Levi. Tra i “radico-socialisti”, ossia i terzaforzisti, spic­ca invece il bolognese Massimo Fovel, colla­boratore de “La Voce della Patria”, (l’orga­no della Trento-Trieste), e de “Il Mare No­stro” (foglio del nazionalismo non ‘ufficia­le’), e in ottimi rapporti con il Circolo Gari­baldi pro Venezia Giulia. Fovel viene segui­to con interesse da Piero Marsich, poi leader del fascismo ‘ribelle’, allora socio dell’Asso­ciazione radicale e già insofferente ai com­promessi parlamentari.

Radico-socialisti e radico-liberali hanno in comune lo slancio dato dalla sicurezza che le forze democratiche abbiano un ruolo storico da svolgere per contrastare la nuova politica del partito socialista e per egemonizzare le organizzazioni borghesi a carattere metapo­litico attraverso l’uso di una politica patriot­tica ed interclassista e dalla certezza che l’area

34 G. Damerini, Amor, cit. e Venezia e la guerra, “Il Dovere Nazionale” , 22 novembre 1914.35 È Ettore Della Zonca della Giovane Re (“La Gazzetta di Venezia”, 27 ottobre 1914).36 G. Bertolini, Italia, cit., pp. 107-110.37 Secondo Pietriboni, l’alleanza con i conservatori sarebbe “un fatto nuovo”, un autentico “suicidio” per la demo­crazia, perché significherebbe che “il sentimento nazionale” la porta ad una convivenza coi “preti” (La democrazia contro Musatti, “L’Adriatico”, 6 marzo 1912).38 11 dibattito interno alla democrazia è interessantissimo. Vedi soprattutto “L’Adriatico”: Intervista a Fovel, 21 agosto 1911; Intervista a Pietriboni, 12 giugno 1914; Dopo il congresso, 1 maggio 1914; Intervista a Bordiga, 27 giu­gno 1914; La tattica dei radicali, 29 maggio 1914; Ciò che l ’ora presente ammonisce, 9 ottobre 1914. Vedi anche l’a­nalisi di F. Piva, Lotte, cit., pp. 19-20, con un raffronto con la democrazia padovana.

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democratica abbia tutti i diritti di rivendica­re una sua natura popolare e ‘di massa’, au­tonoma del partito socialista, all’interno dei ceti subalterni. “La democrazia parlò al po­polo prima che il socialismo nascesse” — scrive proprio in quegli anni “L’Adriatico” — “per prima pensò ai sogni e ai diritti dei lavoratori”39. È la parte più antisocialista della democrazia che nel 1912 stringe un blocco d’ordine con i liberal-clericali di Gri- mani ed i nazionalisti di Foscari per eleggere (e l’iniziativa sarà coronata da successo) il democratico Pietro Orsi al seggio vacante del primo collegio40. Presidente della com­missione elettorale è proprio Giovanni Giu- riati e al suo interno vi sono Levi e Radael- li41. “Non importa se scendiamo a combatte­re senza programma politico [...] la parola antimonarchico suona in quest’ora offesa all’Italia intera (ovazione) basta da sola per riunire tutti gli elettori a votare Pietro Orsi, simbolo e rivendicazione della idea naziona­le”42. Tra i promotori dell’iniziativa vi sono anche Tecchio e Fradeletto e alcuni esponen­ti della proprietà terriera e industriale come il conte Treves de’ Bonfili e Giovanni Chig- giato, nazionalisti e liberali che negli anni venti non nasconderanno le loro simpatie per l’ala moderata del fascio43.

39 Dopo il congresso, “L’Adriatico”, 12 giugno 1914.40 Pietro Orsi, allora professore di storia al liceo classico M. Foscarini, diventa in seguito podestà.41 Elettori del primo collegio votate per Pietro Orsi," L’Adriatico”, 14 marzo 1912.42 Guglielmo Marangoni, Il comizio democratico al Marco Polo, “L’Adriatico”, 21 marzo 1912.43 La lotta politica nel primo collegio, “L’Adriatico”, 3 marzo 1912.44 Le elezioni del 1912 sono avvolte da una vera e propria tempesta polemica tra i democratici che aderiscono al blocco e i socialisti. 11 socialista Alessandri accusa Fradeletto di essere stato comprato da una compagnia di assicu­razioni. Fradeletto cita Alessandri per calunnia. Il giornale di Tecchio, “L’Adriatico”, si lancia in una crociata, se non proprio antisocialista, antimusattiana. Ne consegue uno scambio di insulti tra il giornale democristiano e quel­lo socialista, “Il Secolo Nuovo”. Alessandri, persa la causa in tribunale, si rende latitante. Longobardi, altro diri­gente socialista, si dimette. Vedi in particolare Le accuse contro Fradeletto, “L’Adriatico”, 5 ottobre 1911, e La si­tuazione politica a Venezia, ivi, 21 novembre 1911.45 Giuriati diventa presidente della Trento-Trieste nel 1913. Piero Marsich è consigliere della sezione veneziana del­l’associazione dal 1915 (La nuova presidenza, “La Voce della Patria” , 17 gennaio 1915). Socio della Trento è anche Renzo Suppiej (G.A. Chiurco, Storia, cit, vol. III, p. 360). Segretario della sezione studentesca della Dante, invece, è Ippolito Radaelli (Dante Alighieri, “L’Adriatico” , 20 dicembre 1911). Nel 1920, presidente dalla Dante è Raffaele Levi (L ’unione esercenti per il blocco, “L’Adriatico”, 21 ottobre 1920). Il ruolo della Dante nell’irredentismo viene declamato dall’opuscolo Società Nazionale Dante Alighieri, 7 aprile 1940 XVIII, Venezia, 1940.

La formazione del blocco d’ordine segna il momento in cui diventa esplicita una ten­denza che ha caratterizzato la vita politica veneziana tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, quando da una lotta politica locale tra frazioni borghesi le­gate a gruppi clientelari diversi si passa ad un confronto diretto tra socialisti e blocco d’ordine, cioè tra la nuova forza più spicca­tamente operaia e ‘di massa’, che rivendica la propria autonomia, ed una borghesia sempre più mobilitata e unita all’interno del­la quale i vecchi dirigenti liberali gradual­mente perdono la leadership44. Nella febbre della guerra libica e dopo, punto di con­fluenza delle associazioni della borghesia con l’irredentismo e la democrazia diventa­no infatti due organizzazioni metapolitiche della borghesia veneziana, la Dante Alighieri e la Trento-Trieste, ambedue volte ad educa­re le masse all’italianità e al solidarismo ge­rarchico antisocialista. E non è un caso che proprio la Trento-Trieste e la sezione stu­dentesca della Dante Alighieri siano presie­dute rispettivamente dall’avvocato Giuriati e da Piero Marsich45. Giuriati, allora poco più che trentacinquenne, è il vero simbolo della metapolitica borghese essendo, oltre che presidente della Trento-Trieste, uomo di

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punta dell’Associazione radicale e fino al 1910 del gruppo nazionalista di Foscari e dopo “pro foro interno, un convinto e ar­dente nazionalista”46. È a lui che bisogna prestare attenzione poiché farà strada diven­tando ministro delle terre liberate (1922-23) e dei lavori pubblici (1925-29) nel governo Mussolini, presidente della Camera dei de­putati (1929-34) e segretario del Pnf (1930- 31)47. La campagna interventista del 1914-15 dà la possibilità agli ambienti democratici di promuovere la sospirata iniziativa antisocia­lista. E la campagna a favore dell’entrata in guerra a fianco dell’Intesa è una campagna politicizzata in quanto il patriottismo e l’en­trata in guerra sono sì gli elementi più imme­diati ed importanti, ma vogliono essere an­che la base di una futura politica volta a coordinare le forze interventiste e a cemen­tarle con le idee democratiche.

In questo intreccio di iniziative si esplici­tano i primi fenomeni palesemente protofa­scisti. È la Trento-Trieste che rapidamente diventa il centro focale della campagna. L’associazione organizza e segue quasi tutte le iniziative. La sua sede fornisce ai futuri fascisti la possibilità di stabilire contatti con personalità come Gabriele D’Annunzio, Oscar Sinigaglia, Cesare Battisti, e di svilup­pare i loro ‘metodi’, tant’è vero che lo ‘sto­rico’ ufficiale del regime fascista Giorgio Al­berto Chiurco vanta che l’organizzazione abbia anticipato il fascio con spedizioni vio­lente, premeditate contro assemblee e dimo­strazioni socialiste48. Sotto il patrocinio del­

la Trento-Trieste, Giuriati fonda, oltre al Comitato pro Irredenti, al Comitato pro in­tervento e ad una squadra armata di rifugia­ti dalle terre irredente49, un partito patriotti­co su scala nazionale (1917). Questo partito, denominato Patto nuovo, è accesamente in­tollerante nei confronti della spinta autono­ma dei ceti subalterni al punto di proporre l’epurazione ed il controllo sugli insegnanti di tutto il regno e di prefiggersi di condurre “una lotta strenua e irriducibile” contro quelle forze “che mirino o conducano ad una diminuzione della forza spirituale e ma­teriale della nazione”50. L’organizzazione non sopravvive più di qualche mese, ma rac­coglie ampi consensi tra i nazionalisti e da Benito Mussolini.

Con caratteristiche diverse, ma nello stes­so ambito cresce proprio quell’iniziativa po­litica che sfocia nella formazione di un nuo­vo partito politico nel 1918-19, denominato (si è già visto) Democrazia sociale, nel quale si muovono figure di grande prestigio come Silvio Trentin. Espressione della linea terza- forzista, unisce in lista unica tutto il com­battentismo di sinistra, inclusa l’Associazio­ne combattenti di Venezia, che alle elezioni del novembre 1919 non presenta una propria lista autonoma51. Democrazia sociale è frut­to di un compromesso tra le tendenze già emerse all’interno dell’area democratica nel 1912 e che, se si seguono le concezioni di Ni- cos Poulantzas, ricalcano le possibili strate­gie politiche della piccola borghesia intesa come classe-non classe52. Si può dire infatti

46 Citato in E. Gentile, Introduzione a G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. XVI-XVIII.4 E. Gentile, Introduzione, cit.48 G.A. Chiurco, Storia, cit., vol. Ili, pp. 359-360.49 G. Giuriati, La vigilia, cit., pp. 167-248.50 Citato in E. Gentile, Introduzione, cit., pp. XVI-XVIII.51 L’Anc altrove presenta liste proprie. Per un’analisi della democrazia degli anni venti, vedi Moreno Guerrato, Sil­vio Trentin. Un democratico all’opposizione, Milano, Vangelista, 1981, p. 37 e sgg.52 Nicos Poulantzas, Fascismo e dittatura, Milano, Jaca Book, 1971, in particolare p. 248. Poulantzas dice che i grup­pi della piccola-borghesia “pencolano molto spesso, a seconda della congiuntura, sia dalla parte della borghesia

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che mentre Giuriati rappresenta l’elemento moderato egemonizzato dalla cultura alto­borghese, Fovel rappresenta quello egemo­nizzato dal partito socialista poiché rimpian­ge ancora il blocco popolare. Marsich, inve­ce, che si fa ben presto sostenitore di una li­nea di intransigente equidistanza tra le vec­chie forze clerico-moderate ed il partito so­cialista, rappresenta le aspirazioni autonome della piccola borghesia. Il compromesso tra questi tre elementi è reso possibile dalla scel­ta di una linea di equidistanza da liberali e socialisti, ma che, come vuole Fovel, non escluda un ritorno a politiche meno antiso­cialiste e che, forte della vasta gamma di forze che riesce a comprendere, rassicuri an­che i moderati più scettici sulla possibilità di un’affermazione elettorale autonoma. I pri­mi fascisti che sono o moderati (Giuriati) o terzaforzisti intransigenti (Marsich), e sono accomunati da un forte antisocialismo, ac­cettano così la politica di Democrazia socia­le: il fascio funge solamente da appendice, da strumento di pressione aH’interno e fuori del movimento democratico, in modo da rappresentare questo aspetto di intolleranza verso il movimento classista, anche per evi­tare ritorni ad alleanze popolari.

È così che a Venezia il fascio nasce con un programma identico a quello di Democrazia sociale anche se con tematiche patriottiche

più accentuate53. A Milano, invece, dove la tradizione riformista all’interno del partito socialista è più forte e dove vi è una più for­te presenza operaia, i democratici rimango­no più vicini al Psi e l’iniziativa autonoma e antisocialista viene portata avanti dal fascio di azione rivoluzionaria e poi dal fascio di combattimento, dove è attivo Mussolini. A Milano perciò il fascio ha un ruolo politico autonomo già nel 1919, mentre a Venezia solo dopo le elezioni il fascio si configura come una forza politica con obiettivi auto­nomi, ma soprattutto con una militanza più piena e attiva. Sono gli insuccessi di Demo­crazia sociale a favorire questa tendenza. Vi­sto l’andamento delle elezioni del 1919, il convegno provinciale del partito, tenutosi nel gennaio 1920, approva un “nuovo cor­so” di riavvicinamento all’area socialista54. Il compromesso tra gli elementi più antiso­cialisti e gli altri viene così a saltare e i primi si allontanano dalla militanza demosociale: Marsich prende in mano la presidenza del fascio nel giugno 1920 per imprimergli una linea più radicale, decisa e ‘politica’, inten­dendo proseguire l’iniziativa di una linea au­tonoma sia dal Psi che dai partiti d’ordine55; Giuriati propone al fascio la costituzione di un nuovo blocco d’ordine; Fradeletto si av­vicina, invece, all’Associazione liberale. Queste dissociazioni56 pongono i presupposti

che dalla parte della classe operaia”, anche se ci possono essere momenti in cui svolgono “la parte di un’autentica forza sociale”. Cfr. con Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, Q. 19 (X), p. 2010.53 Appello al fascio veneziano di combattimento, “La Gazzetta di Venezia”, 19 aprile 1919 e Acs, Ps 1922, b. 101, “Il fascio veneziano di combattimento, programma originale” .54 Per il “nuovo corso” vedi M. Guerrato, Silvio Trentin cit., pp. 70-75.55 Marsich non crede che il fallimento della Democrazia sociale alle elezioni del 1919 significhi che la carta dell’in­terventismo abbia perso la sua validità. È ancora possibile, secondo lui, che la sinistra interventista si candidi come gruppo dirigente nazionale. Il fascio di Marsich eredita la linea della democrazia. Secondo Marsich il movimento fascista deve costruire lo stato nuovo, governato da un’élite tecnocratica. Questo può venire istituito dopo una ri­voluzione violenta che elimini le due forze “antinazionali”: il partito socialista e la borghesia classista. Non potendo affrontare le due forze nemiche in un sol colpo, Marsich sostiene che bisogna sconfiggere prima il movimento so­cialista, considerato ben più pericoloso. Forte della sua ostinazione e, come avrebbe detto lui, della sua fede, riesce a riorganizzare il fascio, a fondare un periodico fascista, “Italia nuova”, e a lanciare i fascisti in una campagna a favore delle imprese dannunziane a Fiume. È proprio la sua ostinazione che lo porta all’opposizione a Mussolini e, in seguito, all’isolamento e alla sconfitta. Mussolini difatti ha ben altri piani: la conquista legale del governo con l’assenso della borghesia.

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per un ritorno alla politica del blocco bor­ghese del 1912, pregiudicando la possibilità di successo della politica terzaforzista. Esse indicano però un fenomeno più importante: il fascio, fin da principio, è formato da per­sonaggi di diverse tendenze e vi è un nesso tra “radico-liberalismo” e fascismo modera­to e tra “radico-socialismo” e fascismo radi­cale.

Fascio, Alleanza nazionale, sindacati econo­mici

Nella primavera del 1920, assieme al sinda­calista interclassista e fascista Igino Magrini, volontario e pluridecorato al valore, Giuriati fonda l’Alleanza nazionale, un’organizza­zione il cui scopo è formare un fronte eletto­rale che includa tutte le forze non-socialiste “per salvare Venezia da ogni moto rivolu­zionario”56 57. Ancora una volta Giuriati ed al­tri fascisti agiscono in simbiosi con le altre forze borghesi. E Giuriati è il personaggio ideale per condurre in porto un’iniziativa che unisce forze spesso in competizione tra loro: ha contatti con l’ambiente cattolico e quello conservatore, intessuti nel 1912, è co­nosciuto come al disopra dei conflitti eletto­rali tra le forze borghesi e si è distinto come presidente della Trento-Trieste durante l’ar­co del conflitto. La sua iniziativa è bene ac­

colta da una borghesia che vuole a tutti i co­sti mantenere il potere municipale dopo che alle elezioni del 1919 il partito socialista ha ottenuto la maggioranza assoluta58. L’intro­duzione del suffragio universale e la nascita del partito popolare hanno fatto perdere al mondo borghese la possibilità di mantenere una pluralità di rappresentanze politiche senza perdere il potere. I liberali ed il cardi­nale La Fontaine ne sono preoccupati e per­mettono che la loro rappresentanza venga assunta dalle componenti ex democratiche più antisocialiste. Tutto ciò si realizza in una atmosfera di rivalsa borghese alimentata dai giornali cittadini che incitano la borghesia a prendere coscienza di sé come classe dirigen­te e a “dare un esempio di energia”, rinun­ciando all’“opaca tolleranza” per salvare le “conquiste della civiltà”59.

Per le élites veneziane il socialismo è una forza ‘scomoda’. Ha quasi ottenuto il mo­nopolio delle organizzazioni operaie, tanto da forzare alcuni facchini di una cooperati­va ‘bianca’ al porto ad avere anche la tessera della Camera del lavoro60. È estraneo agli interessi del grande capitale, è conflittuale, aspira alla gestione dell’economia. Questo avviene in un momento in cui il grande capi­tale ha raggiunto i primi accordi con il Gri- mani ed il governo sulla costruzione del por­to industriale di Marghera61 e cerca di priva­tizzare l’Arsenale dopo che il ministero ha

56 Per quanto riguarda questi allontanamenti dalla democrazia vedi F. Piva, Lotte, cit., pp. 137-139 e nota 89 a p. 158 e M. Guerrato, Silvio Trentin cit., pp. 70-75 e 150-151.57 “Ritenevo necessario”, spiega Giuriati, “un collegamento occasionale e perciò transitorio, senza altra bandiera che quella nazionale e con un programma apparentemente negativo: intendo dire l’impegno a ripudiare e combattere determinati princìpi contrari agli interessi economici e politici della nazione vittoriosa”. (G. Giuriati, La parabola, cit., p. 20). Cfr. R. Vicentini, Diario, cit., 20 maggio 1920 e “Italia Nuova”, 21 ottobre 1920; diario del cardinale La Fontaine citato in Silvio Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma, Cinque Lune, 1975, p. 18.58 Liberali e nazionalisti ottennero il 16,4 per cento; i popolari il 16,1 per cento; i demosocialisti il 17 per cento e i socialisti il 50,5 per cento (“Il Secolo Nuovo”, 18 novembre 1919).59 “La Gazzetta di Venezia”, 16 gennaio 1920, 3 aprile 1920 e 6 marzo 1921. Cfr. Gianni Boldrin, Aristocrazie ter­riere all’assalto della stampa, in Aa.Vv., Giornali del Veneto fascista, Padova, Marsilio, 1976.60 Diario del cardinale La Fontaine, 28 aprile 1921, citato in S. Tramontin, Cattolici, cit., p. 36.61 La convenzione tra governo, comune e Società Porto Marghera, viene firmata il 23 luglio 1917 ed “è la prima di una serie” attraverso le quali “Volpi non solo si impadronisce di Marghera, di fatto senza spendervi una lira, ma ad-

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deciso di chiuderlo62. È il momento in cui il capitale commerciale e turistico diventa sem­pre più importante ed esige una diminuzione delle tariffe del porto e la cessazione degli scioperi soprattutto nel settore dei traspor­ti63. In questo quadro il blocco riesce a costi­tuirsi, comprendendo fascio, liberali, popo­lari, nazionalisti. E a vincere64. Nel novem­bre 1920 viene così eletto sindaco il fascista Davide Giordano, chirurgo di fama interna­zionale, anche lui ex democratico moderato e “uomo d’azione” .

La maggior parte dei fascisti, pur avendo aderito al blocco, continua a considerare più importanti le altre attività sicché, nonostan­te il successo elettorale ottenuto dai fascisti moderati, il vero leader del fascio diventa e rimane il ‘rivoluzionario’ Piero Marsich.

Il fascio veneziano fin da principio conta su un rapporto privilegiato col fiumanesimo e coordina lo smistamento delle numerose squadre di volontari provenienti da ogni parte d’Italia65. In un primo tempo, ampi settori della borghesia cittadina sono coin­

volti nell’impresa dannunziana: il palazzo di Piero Foscari funge da base logistica se non, come sostiene un rapporto della polizia, da deposito di armi66; Ludovico Toeplitz, figlio dell’illustre banchiere, è ambasciatore della “reggenza di Fiume”67; il conte Volpi finan­zia il fascio perché svolga propaganda fiu­mana68; Marsich assicura un ponte tra Mus­solini e D’Annunzio; Giuriati è capogabinet­to della reggenza; Magrini, infine, funge da ufficiale di collegamento tra D’Annunzio e gli arditi69. Però, mentre Giuriati si dissocia da D’Annunzio quando questi, rifiutando il trattato di Rapallo, dichiara la difesa ad ol­tranza70, Marsich rimane vicino al “coman­dante” . Egli conduce la sua battaglia su due fronti, contro la borghesia conservatrice da una parte e contro il socialismo classista dal­l’altra, diventando presto non solo il capo del fascismo antimussoliniano veneto degli anni venti, ma uno dei più interessanti teori­ci dell’idea fascista ‘pura’ e ‘rivoluzionaria’, restando coerente alle sue origini “radico-so- cialiste”71.

dirittura ci realizza sopra una grossa speculazione, avvia un meccanismo di lauti profitti e, per altro verso, se ne serve per costruire il suo potere neH’economia e nella politica italiana”. (C. Chinello, Porto Marghera, cit., p. 193). Secondo F. Piva (Lotte cit., p. 289) Volpi “dimostra di non voler stabilire con i poteri pubblici un tipo di rapporto che salta le mediazioni democratiche del confronto con le forze pubbliche e sociali”.62 Su questo tema possediamo una ricca documentazione, tra cui: Acs, Ps 1920, D5 b. 125; “Il Secolo Nuovo”, 13 luglio 1919; M. Guerrato, Silvio Trentin, cit., pp. 105-106; F. Piva, Lotte cit., pp. 83-84.63 A lagnarsi degli scioperi dei trasporti comunali sono soprattutto le ditte de! Lido. Il fascio viene pagato dalla So­cietà Incremento Lido perché sostituisca il personale in sciopero e crei una situazione nella quale i trasporti possano venir privatizzati (F. Piva, Lotte, cit., p. 140).64 L’Alleanza nazionale ottenne il 49,2 per cento dei voti, contro il 43,2 per cento dei socialisti e il 7,6 per cento dei demosociali (“Il Gazzettino”, 1 novembre 1920).65 Acs, Ps 1922, b. 101, “Venezia costituzione fascio”, rapporto del 25 febbraio 1921.66 G.A. Chiurco, Storia, cit., vol. II, p. 8; F. Piva, Lotte, cit., p. 140.67 Secondo la polizia Ludovico Toeplitz, durante i confusi eventi del Natale “di sangue”, è implicato in un tentati­vo di sommossa (Acs, Ps 1921, b. 6, “Pro Fiume”, missiva del 30 dicembre 1920).68 Acs, Ps 1920, b. 7, fascicolo personale “Giuseppe Volpi.” 26 novembre 1920. Volpi è al tavolo delle trattative a Rapallo per raggiungere su Fiume un accordo con gli jugoslavi. “Dunque Volpi finanziò un fascio tenacemente fi­lodannunziano e antislavo nel momento stesso in cui poneva le premesse per la fine dell’impresa fiumana” (F. Piva, Lotte, cit., p. 144).69 Nel febbraio 1919 Magrini si incontra con D’Annunzio e Host Venturi per discutere su un eventuale sbarco a Spalto e Sebenico dirottando un gruppo di arditi della prima divisione d’assalto che stava dirigendosi verso la Tri- politania. Impresa che verrà abbandonata (G.A. Chiurco, Storia, cit., vol. Ili, p. 359).70 Giurati infatti era stato partecipe alle trattative di Rapallo (vedi E. Gentile, Introduzione, cit., p. XXIII).71 Per apprezzare le teorie di Marsich cfr. i suoi articoli su “Italia Nuova”, in particolare Riedifichiamo lo stato, 2 settembre 1920 e 13 ottobre 1920; L ’avvenire, 6 maggio 1921; Fascismo, stato..., 24 agosto 1921. Vedi anche F. Piva,

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Le espressioni più violente, ‘ribelli’, ‘au­tonome’ e intransigenti del fascismo marsi- chiano sono però possibili solo all’ombra dei successi dell’Alleanza nazionale. Lo di­mostra il fallimento sul piano ‘militare’ del tentativo fatto da Marsich di conquistare e distruggere le sedi più importanti delle orga­nizzazioni operaie socialiste e di occupare con le armi il quartiere popolare di Castello. Tentativo che, raggiunto il suo culmine nel marzo-giugno 1921, suscita contro Marsich l’ostilità della borghesia benestante. Persino “La Gazzetta di Venezia” che solo pochi mesi prima dichiarava che la violenza fasci­sta era giustificata e legittima, finisce con l’ammonire che l’eccessiva violenza può di­ventare controproducente72. Queste ostilità e ammonizioni però non assumono, tranne poche eccezioni, un contenuto apertamente antifascista. Il vantaggio che il partito socia­lista conta nei confronti dei partiti del bloc­co borghese aumenta alle elezioni politiche del 1921, dal 6 all’l l per cento73. Alcuni consiglieri popolari, vista la mala parata, vogliono dimettersi e solo dopo le vivaci proteste delle altre componenti decidono di rimanere in carica74. Il fatto è che le forze borghesi dipendono sempre più dalla coesio­

ne della coalizione sorta per salvare il muni­cipio dai socialisti, per cui il fascio e l’Al­leanza diventano sempre più importanti. Tant’è vero che il giornale cattolico “Ban­diera bianca”, dopo aver pubblicato due corrispondenze che attaccano la violenza fa­scista nelle campagne veneziane, deve rapi­damente rettificare la propria posizione spe­cificando che se esiste un fascismo ‘cattivo’, ve n’è anche uno ‘buono’, quello che assicu­ra una maggioranza antisocialista in co­mune75.

Non sono da meno le autorità dello stato. Nell’aprile 1921, il ministero degli Interni comincia a protestare contro la forza pub­blica veneziana per l’inefficienza con cui af­fronta la violenza fascista. Persino il capo del governo, Giolitti, allora anche ministro degli Interni, interviene personalmente per far sì che il prefetto D’Adamo prenda dei provvedimenti contro la criminalità politica che imperversa in città76. D’Adamo giustifi­ca questa inefficienza spiegandola come una scelta politica, poiché la repressione delle squadracce secondo lui porterebbe alla “ca­duta dell’amministrazione comunale che ri­mase in minoranza nelle elezioni politiche e non sentirebbesi più sorretta”77.

Lotte, cit. pp. 137-138. David D. Roberts, The syndicalist tradition and italian fascism, University of Carolina Press. Chapel Hill, 1979 e Giorgio Rumi, Alle origini della politica estera fascista, Bari, Laterza, 1968, inseriscono il pensiero di Marsich in un quadro stimolante.72 “La Gazzetta di Venezia”, 27 gennaio e 24 maggio 1921.73 Alle elezioni politiche del 1921, l’Alleanza nazionale raggruppa il fascio, liberali e nazionalisti sotto la denomi­nazione “Unione nazionale”. I risultati furono i seguenti: Unione nazionale 27,3 per cento; popolari 10,3 per cento; Lista S. Marco 1 per cento; demosociali 10,9 per cento; repubblicani 0,9 per cento; socialisti 46 per cento; comuni­sti 3,6 per cento. (“Il Gazzettino”, 20 maggio 1921). Unione nazionale, Partito popolare, Lista san Marco (corri­spondenti al Blocco nazionale del 1920), ottennero complessivamente il 38,6 per cento dei voti; Partito socialista e Partito comunista il 49,6 per cento.74 S. Tramontin, Cattolici, cit., p. 38.77 Treporti. Lotta aperta e Sottomarina. La vertenza agraria su “Bandiera Bianca”, 5 marzo 1921; Ifascisti e noi, ivi, 12 marzo 1921. La rettifica avviene dopo l’apparizione di un articolo su “Italia Nuova” del 7 marzo 1921 dal ti­tolo Bandiera bianca. I fascisti esigono che i cattolici chiariscano la loro posizione: “o ci hanno solennemente truf­fato partecipando con noi al blocco che ha vinto le ultime elezioni amministrative oppure devono sconfessare atteg­giamenti di quel tipo” (F. Piva, Lotte, cit., p. 232).76 Acs, Ps 1921, b. 113, lettera di Giolitti datata 18 giugno 1921 dove si incita ad “agire con la massima energia”. Giovanni Giolitti è capo del governo e ministro degli Interni dal giugno 1920. Di lì a poco darà le dimissioni.77 Acs, Ps 1921, in data 19 giugno 1921. Il prefetto mette in chiaro di essere in grado di “garantire repressione” del­le squadracce.

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Da una parte dunque c’è un fascio violen­to con velleità rivoluzionarie che disturba oltremodo la vita cittadina e da un’altra ci sono gli alleati del fascio e le autorità che vogliono moderarlo senza rifiutarlo. I fasci­sti moderati, principalmente Giuriati e il sindaco Giordano, pienamente appoggiati da Mussolini, si pongono come intermediari tra le due parti, mantenendo così il ruolo di guida che attraverso l’Alleanza nazionale il fascio svolge all’interno del blocco conser­vatore78. La storia del fascio dal 1921 in poi può venir intesa come Io svolgersi di questa opera di mediazione che s’incastona perfet­tamente con le iniziative di pacificazione con i socialisti e di accordo con i cattolici che proprio Mussolini e Giuriati nello stesso anno conducono a livello nazionale79. A li­vello locale, tra aprile e giugno, si svolge una trattativa per la pacificazione. E a giu­gno ha luogo un importante incontro tra Giuriati e La Fontaine nella quale il primo, assicurando “la buona volontà” dei fascisti, rivela anche la disponibilità del fascismo moderato a risolvere la “questione ro­mana”80.

Il compromesso tra il fascismo moderato ed il fascismo radicale che finora aveva retto la politica del fascio non è più sostenibile nel momento in cui Marsich acuisse le puntate antiparlamentari ed anticonservatrici, espo­nendosi in prima persona nella lotta contro il patto di pacificazione e la trasformazione del fascismo da movimento a partito. La lotta di Marsich contro la corrente che se­condo lui “resuscita la mentalità della vec­chia destra storica con tutte le sue degenera­zioni”81, non trova alleati altrettanto intran­sigenti: dopo alterne fortune, Marsich si ri­trova isolato82. Non è allora difficile per i fascisti moderati e Mussolini, con la conni­venza dei loro alleati, defenestrare Marsich e i suoi nel giugno 1922, senza che lo scontro svaluti politicamente il fascio83. A questi ul­timi non resta che fondare un “fascio auto­nomo”, molto simile ad una nuova Dante Alighieri, con i suoi interessi pedagogici, ar­tistici e ginnici. Vista fallire anche questa nuova iniziativa, l’avvocato veneziano si ri­tira a vita privata, uscendo di scena come il “primo eretico nella storia del fascismo ita­liano”84.

78 Si confronti con la tesi di Adrian Lyttelton (La conquista de!potere, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 91) secondo il quale “nella generalità dei casi i fascisti non ebbero ancora che un ruolo marginale in questa ripresa e riorganizza­zione delle forze politiche della borghesia”. Secondo F. Piva (Lotte, cit., p. 149), invece, “a Venezia si sviluppò un processo inverso a quello delineato da De Felice” perché l’affermazione della leadership di Marsich “significò la vit­toria del fascismo rivoltoso sul fascismo moderato” . Una simile considerazione ritiene “fasciste” le sole attività del fascio. L’Alleanza nazionale è più che un alleato del fascio. Dice G.A. Chiurco (Storia, cit., voi. Ili, p. 361): “l’Al­leanza nazionale, quale forma di superamento dei partiti, veniva a confondere i suoi ideali con quelli del fascio, ri­manendo a questo la funzione di avanguardia combattente. [...] All’Alleanza nazionale fu dato il compito dell’or­ganizzazione elettorale propriamente detta, mentre il fascio di combattimento si riservò i compiti di propaganda e di tutela dell’ordine”. Per il punto di vista di De Felice vedi, dello stesso, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Ei­naudi, 1965, pp. 589-591.79 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, cap. Il; D.D. Roberts, Thesyndacalist tradition, cit., pp. 215-218; A. Lyttelton, La conquista, cit., pp. 114-119.8(1 Vedi S. Tramontin, Cattolici, cit., p. 65 e sgg.; G. Giuriati, La parabola, cit., pp. 22-24.81 “Italia Nuova”, 24 novembre 1921 e 24 marzo 1922.82 Marsich attacca persino Dino Grandi, che aveva fino ad allora appoggiato, dicendo che “le utopie sono destinate a crollare tanto più rapidamente quanto più lontane dalle realtà” (Dino Grandi, Il mio paese, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 185).83 Secondo R. Vicentini (Diario, cit., 27 ottobre 1921) l’espulsione di Marsich è il risultato di un’alleanza tra “ben­pensanti” (Giuriati e Giordano) e mussoliniani.84 Vedi “Italia Nuova”, 12 e 19 giugno 1922. È Ernesto Brunetta (Figure e movimenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di E. Franzina, cit., pp. 156-157) a definire Marsich come “il primo eretico”.

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L’attività sindacale del fascio non è affat­to di secondaria importanza. Quando la Cise (Confederazione italiana sindacati economi­ci) apre i battenti nel novembre 1920, essa se­gna una svolta nelle competizioni tra compo­nente classista e componente anticlassista del movimento operaio. Il fascio apre un vero e proprio ufficio del lavoro solo nel marzo 1921 ed il sindacato ottiene i suoi primi suc­cessi a luglio, durante l’offensiva militare di Marsich. Le prime organizzazioni che si as­sociano sono quelle tradizionalmente demo­cratiche, soprattutto del settore impiegati- zio85, alcune delle quali già da tempo vengo­no dirette da fascisti, come la federazione de­gli impiegati comunali retta da Igino Magri­ni86. La Cise diventa ben presto il punto di ri­ferimento delle associazioni di mestiere anti­socialiste, cioè una specie di anti-Camera del lavoro87. Prima dell’agosto 1922, i fascisti assorbono anche associazioni che prima gra­vitavano nell’orbita della Camera del lavoro. A settembre le hanno assorbite quasi tutte, comprese le roccaforti del sindacalismo ‘ros­so’, come le cooperative del porto88. Alla fi­ne di ottobre, il sindacalismo economico è penetrato in tutte le categorie89.

Spesso si sostiene che l’unica ragione del successo dei sindacati fascisti sia il terrori­smo delle squadre di combattimento. È in­negabile che la violenza spaventi molti: non

è un caso che due dei settori più colpiti dalla violenza fascista siano proprio quelli che si associano ai sindacati nazionali per primi90. Ma l’effetto della violenza si moltiplica ed ha efficacia solo con il concorso di fattori estranei all’offensiva militare.

Vittima di una sottovalutazione della pro­pria capacità di guida politica, il Psi venezia­no si trova in stato di ibernazione in attesa di sviluppi rivoluzionari nelle grandi città91. La sua rivoluzione è una rivoluzione ancora a parole, tant’è che sono sempre più i dibattiti teorici a svolgere un ruolo essenziale nella vi­ta del partito e del suo giornale, quasi avulsa dai gravissimi problemi quotidiani delle offi­cine e delle strade. Su questo sfondo, duran­te la crisi, la pratica della Camera del lavoro, allora capeggiata da Gioacchino Giordano, non può essere che quella di serrare i ranghi in difesa dei lavoratori ‘rossi’. È esattamente quello che succede al porto nell’immediato dopoguerra, quando, data la crisi economi­ca, trovano lavoro solamente le cooperative di ruolo a scapito di quelle avventizie, e i sin­dacati socialisti rifiutano di cambiare sistema per ripartire il lavoro più equamente. Questa pratica sindacale provoca non poche tensioni all’interno dello stesso campo socialista. Fautore delle più severe critiche a questo si­stema è Igino Borin, segretario della Lega avventizi del porto che, non a caso, diventa

85 Una utile sintesi dello sviluppo del sindacalismo fascista in F. Piva, Lotte, cit., pp. 216-218.86 Acs, Ps 1921, C l, b. 76, 16 novembre 1921.87 Sarebbe interessante capire fino a che punto le associazioni cattoliche finiscono con l’aggregarsi alle iniziative del­la Cise. Il cardinale La Fontaine nel 1921 propone a Giuriati la formazione di organizzazioni antisocialiste all’arse­nale (diario del cardinale, 21 e 22 giugno 1921, citato in S. Tramontin, Cattolici, cit., pp. 66-82). Alcune cooperative e sindacalisti bianchi sono coinvolti almeno nella fase iniziale dell’offensiva contro il monopolio rosso al porto (Acs, Ps 1920, b. 129, D17, missiva del 9 aprile 1920 e promemoria), offensiva che poi verrà capitanata dalla Cise.88 Acs, Ps 1920, b. 129; Acs, Ps 1920, C l, b. 109; Acs Ps 1922, 2, 3, 27 agosto 1922 e 12, 15 settembre 1922. Cfr. F. Piva, Lotte, cit., p. 274-277.89 Secondo il prefetto, “ai sindacati economici è riuscito di assorbire gran parte dei lavoratori ed a rendere assai limi­tata l’attività della Camera del Lavoro e delle organizzazioni che fanno capo al Partito popolare” (Acs, Ps 1922, C l, b. 81, rapporto del 18 ottobre 1922).90 Si tratta dei postelegrafonici e dei ferrovieri, maggiori vittime della violenza dell’aprile-giugno 1921 (Acs, Ps 1921, b. 113, “fascio veneziano di combattimento”).91 Acs, Ps 1920, b. I l l , 1 maggio 1920.

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presto il leader della frazione comunista92. Vi sono però dei dissensi all’interno della stessa dirigenza del partito. Girolamo Li Causi si dissocia da quella che per lui è una politica sindacale che si basa esclusivamente sulla lotta economica anziché sulla forma­zione della coscienza di classe, facendo sì che la Camera del lavoro finisca con l’assu­mere “una tendenza conservatrice e riformi­sta”93. Queste divisioni sfoceranno nella scissione comunista del gennaio 1921, nei tafferugli del settembre 1921 tra comunisti e socialisti alla Camera del lavoro e nell’espul­sione dei riformisti nell’ottobre 192294.

L’attesa del Psi che sia la condizione eco­nomica a condurre alla coscienza di classe produce però altri effetti, il più importante dei quali è senza dubbio l’impacciata e inef­ficace difesa del movimento socialista con­tro le aggressioni delle squadracce. “Il Seco­lo nuovo” studia il movimento fascista con curiosità fin dall’inizio e presto ha di esso una concezione che all’atto pratico risulta un po’ ambigua. Il fascismo viene concepito come un movimento utopistico oggettiva­mente al servizio di una borghesia che, stri­tolata dalle contraddizioni del capitalismo, deve ricorrere alla dittatura più scoperta per difendere il suo potere. Un movimento che, secondo il giornale, diventa anche storica­mente utile alla rivoluzione proletaria perché

mette a nudo l’asprezza della lotta di classe costringendo le masse a lottare per “la re­denzione dell’umanità”95.

Quando la violenza fascista è più aggressi­va, si istituiscono turni di guardia davanti alle sedi delle organizzazioni operaie, ma il partito e la Camera del lavoro rifiutano l’i­stituzione di veri e propri gruppi armati del tipo degli arditi del popolo poiché vogliono agire nella legalità96. Ed è nel pieno della le­galità che essi agiscono, rifiutando a priori però i vantaggi della protezione della legge. Così, mentre la stampa socialista protesta contro le infrazioni del diritto di sciopero e i deputati in parlamento sollecitano il gover­no perché prenda dei provvedimenti, i socia­listi aggrediti dai fascisti raramente denun­ciano i colpevoli97. L’unico mezzo adottato sistematicamente per affrontare la violenza fascista sono gli scioperi generali politici an­tifascisti. Una tattica, questa, che si rivela sterile poiché sia la polizia che il partito non possono che constatare la diminuzione del­l’adesione a questa forma di protesta. D’al­tra parte i militanti socialisti vengono chia­mati ad esprimere solidarietà al partito, ma ad arrangiarsi alla meglio con la polizia, il padronato e le squadre di Marsich, perché il partito non fornisce loro i necessari mezzi di difesa. Gli scioperi poi pregiudicano il for­marsi di un fronte antifascista che includa

92 La crisi portuario e la disoccupazione degli avventizi, “L’Eco dei Soviet” , 21 luglio 1921.93 Costituiamo i Soviets, “Il Secolo Nuovo”, 6 marzo 1920.94 Cfr. F. Piva, Lotte, cit., pp. 218-219 e 227.95 “Il fascismo movimento romantico della gioventù è mantenuto a spese del capitalismo, ne è l’avanguardia ardi­ta” afferma “Il Secolo Nuovo” il 12 febbraio 1921. Secondo il partito socialista, dice F. Piva (Lotte, cit., p. 226), il fascismo è l’ultima carta della borghesia incapace di governare, “alla fin fine un passaggio positivo, il parto doloro­so dell’avvento del socialismo”. Si guardi, per esempio, cosa scrive “Il Secolo Nuovo” il giorno della “marcia su Roma” (28 ottobre 1922): “la dittatura militare [...] finirà col dare al proletariato veneziano [...] quello spirito rivo­luzionario che da anni andiamo propugnando”.96 Questo atteggiamento è ben rappresentato da un articolo di Elia Musatti su “Il Secolo Nuovo” del 1 maggio 1919: “ma la guerra non è il nostro terreno, ma la violenza non è l’arma nostra. L’arma nostra è la forza. La forza del diritto, la forza dell’organizzazione, la forza della disciplina” . Cfr. anche F. Piva, Lotte, cit., pp. 224-225 e “Il Secolo Nuovo”, 23 luglio 1921.97 Non vengono denunciate alla polizia né le aggressioni ai deputati Galeno, Li Causi e Florian, avvenute tra il giu­gno 1921 e l’ottobre del 1922, né quelle subite da inermi cittadini nei quartieri popolari (Acs, Ps 1921, b. 113, 6-12 giugno 1921).

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popolari e demosociali, che cominciano an­che loro a preoccuparsi seriamente del dila­gare della violenza fascista come di un feno­meno quasi incontrollabile.

Piero Marsich sfrutta il disorientamento e le divisioni all’interno del movimento socia­lista e del mondo dei lavoratori per presen­tare un’organizzazione sindacale fascista che si propone di essere aperta a tutti i lavorato­ri e in special modo a settori, come quello del lavoro intellettuale, maggiormente tra­scurati dal sistema sindacale ‘rosso’. Pur presentandosi come rottura rispetto a tutti i sindacalismi, la nuova organizzazione rical­ca le vecchie tematiche dei sindacati inter­classisti e del socialismo borghese democra­tico dell’anteguerra: educazione del lavora­tore perché possa usufruire dei diritti della società borghese e perché il suo assorbimen­to nel sistema politico liberale sia più indo­lore; moderazione notevole negli scioperi; superiorità del lavoro intellettuale su quello manuale; priorità alle competenze e al meri­to98. Ed è proprio il settore impiegatizio, colpito anche severamente da inflazione e disoccupazione99, a dare per primo la sua adesione alla Cise. Il sindacalismo fascista ha successo là dove quello socialista crea di­visioni: tra gli impiegati delle ferrovie che già dall’anteguerra lamentano che il Psi ac­cusi “un conservatorismo nello stato econo­mico della classe”100, e tra le cooperative del porto, allorquando alla disputa tra scarica­tori di ruolo e avventizi si aggiungono le ri­vendicazioni di alcune cooperative escluse dal monopolio socialista che chiedono la re­visione del sistema di lavoro101.

Già si è dimostrato come in città sia la po­litica elettorale del fascio tramite l’Alleanza a permettere all’organizzazione di sopravvi­vere con le sue squadre e quindi con una cer­ta autonomia di azione. Anche in campo sindacale è il rapporto ottimale tra autorità, padronato e sindacati fascisti che permette a questi ultimi di dimostrarsi, nella situazione del 1921-22, cioè in piena crisi della Camera, più efficienti nella difesa degli interessi im­mediati del singolo lavoratore. I settori del mondo operaio e impiegatizio che sono in­soddisfatti vengono coinvolti in una alleanza con le autorità e il padronato volta a rifor­mare la pratica dei rapporti impresa-forza lavoro che si è venuta delineando dopo anni di lotte della Camera del lavoro.

La Cise cresce e si sviluppa in città sotto l’ala dell’Alleanza nazionale. Le attività so­ciali delle sue sezioni si svolgono in gran parte negli edifici della stessa Alleanza102. Riceve l’esplicito appoggio della stampa al­toborghese, “La Gazzetta di Venezia” in te­sta, in quanto, spiega un articolista, “il fa­scismo può adoperarsi con le sue organizza­zioni sindacali ad educare i lavoratori al principio opposto a quello socialista”103. Il successo della Cise coincide con una offensi­va padronale volta a liberalizzare l’assunzio­ne del personale e le tariffe imposte dal “monopolio rosso” al porto minacciando la serrata e ad approfittare dello sciopero lega­litario dell’agosto 1922 per infliggere puni­zioni esemplari ai lavoratori spesso mitigate da un interessato paternalismo104. Dai docu­menti dell’epoca è possibile intuire come al­l’interno delle imprese venga favorita l’af-

98 “Italia nuova”, 29 luglio 1920.99 “Bollettino del lavoro e della previdenza sociale”, marzo 1921, p. 212; cfr. F. Piva, Lotte, cit., p. 236.100 L ’assemblea dei sindacati, “L’Adriatico”, 14 marzo 1914.101 Acs, Ps 1920, b. 129; Acs, Ps 1920, C l, b. 109; Acs, Ps 1920, b. 129, D7; Acs, Ps 1922, C l, b. 81.102 “La Gazzetta di Venezia”, numeri dell’agosto-settembre 1922 e R. Vicentini, Diario, cit., agosto-settembre 1922.103 “La Gazzetta di Venezia”, 25 ottobre 1922.104 Si pensi alle punizioni disciplinari imposte dalla Società veneta lagunare ai suoi dipendenti (“La Gazzetta di Ve­nezia”, 3 agosto 1922), o al ben dosato paternalismo che la Sade dimostra ai suoi dipendenti “vittime di torbidi agi-

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fermazione dei sindacati fascisti in sostitu­zione di quelli ‘rossi’ attraverso pressioni di ogni genere, riassunzioni condizionate alla iscrizione alla Cise o dalla rinuncia alla tes­sera Cgl. Curioso da questo punto di vista è ciò che avviene nel luglio 1921 allo stabili­mento meccanico Giuseppe Pagan, dove il titolare, noto leader del sindacalismo fasci­sta, dopo che oltre cento operai dello stabili­mento si iscrivono ai sindacati nazionali, de­cide di ripartire con essi gli utili dell’azien­da105. In almeno due occasioni anche il pre­fetto D’Adamo si fa interprete dei sindacati economici. Nel 1921 scrive al ministero degli Interni che sarebbe meglio soddisfare le ri­chieste dell’organizzazione impiegatizia di Magrini per “mantenere l’associazione nel­l’orbita dei partiti d’ordine”106. Nel 1922 chiede che vengano soddisfatte le richieste di abolizione della soprattassa di guerra da parte della Camera di commercio perché i commercianti hanno minacciato una serrata che “turberebbe i lavoratori del porto” , che sono ora passati ai sindacati economici107.

È naturale che tali provvedimenti e atteg­giamenti non facciano che sfaldare ancor di più la coesione dei lavoratori che finiscono appunto con l’iscriversi ai sindacati fascisti per proteggere “il loro ritorno al lavoro” dalle ritorsioni del padronato, dalle squadre del Pnf e dalla frustrazione dei lavoratori ancora in sciopero108. Il fascismo moderato

rafforza il suo ruolo di punto di riferimento della borghesia veneziana soprattutto dopo i successi della Cise. L’affiatamento tra le or­ganizzazioni della borghesia, fascio incluso, che si trovano fianco a fianco nella saga di manifestazioni patriottiche cittadine e man­dano rappresentanti alle riunioni dell’uno e dell’altro, è un processo che caratterizza già gli anni 1921-22. L’uscita di scena di Mar- sich favorisce questo affiatamento. Durante lo sciopero legalitario dell’agosto 1922, non solo il prefetto lascia di fatto via libera alle squadre di Giuriati, ma a fianco dei fascisti ci sono l’Associazione liberale, l’Alleanza nazionale e i nazionalisti109. Inoltre il 31 ot­tobre dello stesso anno nazionalisti, ex com­battenti, liberali, Pro Dalmazia, pensionati, l’associazione sportiva Bucintoro, i Piccoli italiani, i sindacati economici e l’ammiraglio Mortola, prendono parte assieme ai fascisti ad una manifestazione che, al grido di “Viva l’Italia e viva il fascismo”, sfocia nell’occu­pazione della sede della Federazione del li­bro e di quella dell’Associazione lavoratori alberghi e mensa, che non hanno ancora aderito ai sindacati economici110.

Il democratico, diventato liberale, Anto­nio Fradeletto, che sempre ha ritenuto im­portante mantenere la sua autonomia di ve­dute, è ostile ai fascisti, tant’è che questi gli impediscono, con la forza e davanti alle au­torità, di tenere un’importante conferenza111.

tatori”, imponendo loro “soltanto” una multa (ivi, 6 agosto 1922). All’Acni, saranno i lavoratori “già puniti” a ve­nir licenziati (ivi, 5 ottobre 1922).105 R. Vicentini, Diario, cit., 6 luglio 1921.106 Acs, Ps 1921, C l, b. 76, lettera al ministro degli Interni del 16 novembre 1921.107 Acs, Ps 1922, C l, b. 81, missiva del 23 agosto 1922. Si noti come l’atteggiamento del prefetto e del Pagan sia si­mile o per lo meno confrontabile con quello riscontrato tra gli agrari ferraresi e le leghe fasciste (Paul Corner, Il fa ­scismo a Ferrara, Roma-Bari, Laterza, 1974).108 “La Gazzetta di Venezia”, 3 agosto 1922.109 Dirà G. Giuriati (Laparabola, cit., p. 98): “abbiamo avuto mano libera per regolare la situazione”. Sullo scio­pero legalitario vedi “La Gazzetta di Venezia”, 2 agosto 1922.110 Imponente manifestazione patriottica, “La Gazzetta di Venezia”, 1 novembre 1922.111 Un discorso del senatore Fradeletto all'Ateneo Veneto, “La Gazzetta di Venezia”, 26 settembre 1922. Il giornale giustifica l’operato dei fascisti: “bisogna indulgere anche alle loro intemperanze quando queste appariscono con­nesse al sacro proposito di innalzare [...] la patria”.

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La leadership liberale, invece, ha ormai ri­posto la sua fiducia in Giuriati112: Giovanni Chiggiato, industriale e presidente della de­putazione provinciale, attivo nell’Alleanza, al congresso liberale dell’ottobre 1922 dimo­stra “viva solidarietà” al fascismo perché fa rinascere i “vecchi principi liberali sotto espressioni più nuove, più giovanili, più ar­denti”113; l’avvocato Piero Bon, presidente dell’Associazione liberale veneziana, gli fa eco sostenendo che il liberalismo “ha con l’i­dea precorso il fascismo”114. La stampa bor­ghese saluta la formazione del governo Mus­solini come “la vittoria dello spirito” e come “giornate storiche”115. Il fascismo modera­to, l’Alleanza e la Cise, sarebbe dunque l’a­vanguardia di una nuova cultura borghese o, meglio, per dirla con Chiggiato, della vec­chia cultura borghese meno timida e “più ardente”116.

Conclusioni

In una città con complessi industriali medi, a bassa concentrazione e a forte frammenta­zione della forza lavoro, avviata verso un processo di terziarizzazione, appare un fa­scismo diretto da personalità con precedenti esperienze e capacità politiche. Da qui emer­ge una visione del fascio con chiari aspetti di continuità rispetto al movimento democrati­co dell’anteguerra e quindi più ‘politico’,

meno ‘militare’ e meno ‘criminale’, ma so­prattutto più immerso nella dinamica sociale come forza inserita nella tradizione politica democratica e quindi piccolo-borghese, nel contesto degli scontri all’interno del movi­mento dei lavoratori e nel contesto delle problematiche del mondo borghese.

Non si è voluto sostenere che questo sia l’unico aspetto del fascio, bensì un aspetto alla luce del quale, attraverso l’uso di cate­gorie storiche che siano adatte anche ai tem­pi lunghi come ‘metapolitica borghese’, ‘sin­dacalismo interclassista’ ed ‘area democrati­ca’, si possono spiegare le caratteristiche es­senziali del primo fascismo veneziano, con l’ovvia riserva che comporta l’astrazione dal suo contesto agrario.

Dopo l’Unità, nonostante il processo di socializzazione, lo scontro politico-elettorale è solamente tra forze borghesi. Quelle picco­lo-borghesi si fanno portavoce dei malesseri del popolo e alle elezioni, in un primo tem­po, rappresentano anche il Psi, mentre quel­le altoborghesi rappresentano il vecchio po­tere sociale, politico ed economico. Tra lo sciopero del 1904 e le elezioni del 1912 pren­de quota un processo storico alla fine del quale il Psi assume una politica autonoma ed intransigente e assorbe gran parte delle organizzazioni operaie cittadine nell’orbita della Camera del lavoro. Le forze piccolo­borghesi cercano di riconquistare la leader­ship del movimento operaio nel momento in

112 II prefetto indica che le sezioni del fascio sono “costituite ed accresciute dagli elementi di partiti locali rimasti in minoranza” (Acs, Ps 1922, C l, b. 81, 18 ottobre 1922). Almeno due dirigenti liberali (G. Brandolin e A. Sandrini) sono passati al fascio.113 1 risultati del congresso di Bologna, “La Gazzetta di Venezia”, 26 ottobre 1922.114 Irisultati, “La Gazzetta di Venezia”, 26 ottobre 1922.115 “La Gazzetta di Venezia”, 31 ottobre 1922.116 II nesso tra liberalismo e fascismo come continuità nella cultura borghese è oggetto di importanti studi. Silvio Lanaro (Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 14-16) individua i “tratti distintivi e il senso generale della strategia liberale in Italia: nazionalista, protezionista, imperialista e tendenzialmente to­talitaria fin dai primi anni successivi all’unificazione” e afferma che alla fine è Giolitti “la vera parentesi della storia d’I­talia; non il fascismo”. E. Gentile, (Ilmito, cit., p. 29) definisce il fascismo come “massimalismo dei ceti medi”, molto si­mile all’“extremism of the center” di Seymour Martin Lipset (PoliticaiMan, London, Mercury Books, 1963, pp. 131-133). Vedi anche l’importanza che dà Guido Quazza (Storia del fascismo e storia d ’Italia, in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973, p. 8) allo studio del rapporto tra l’Italia liberale e l’Italia fascista.

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cui sono sempre più integrate con una cultu­ra e con un mondo più propriamente bor­ghese, che affronta le esigenze e i mutamenti dovuti alla rapida industrializzazione e al suffragio universale e che tenta confusamen­te di adattarsi a questi cambiamenti, stretto nella scelta tra assorbimento, repressione, capitolazione innanzi alla ‘mobilitazione primaria’ dei ceti subalterni che minaccia la sua pace sociale ed il monopolio del potere. Già nell’anteguerra molti democratici aspi­ravano alla leadership dell’antisocialismo e di una politica borghese moderna e ‘di mas­sa’ e presto si distinguono per il rapporto speciale che instaurano con le forze della metapolitica borghese sorte in città tra le aspirazioni di rinnovamento animate anche dai nuovi interessi monopolistici.

Il fascio nasce e cresce all’interno di que­sti processi storici. Il fascismo di Marsich e di quelli che possono venir definiti ‘gli irre­quieti’ è troppo estremistico ed intransigente perché altre forze politiche possano identifi­carsi in esso. L’adesione alla sua ideologia piccolo-borghese e ‘ribellistica’ infatti rima­

ne scarsa. Ma i fascisti, come uomini politici e come fautori di azioni intolleranti e violen­te, che però vengono considerate tutto som­mato legittime, attraverso l’Alleanza nazio­nale e la Cise, diventano portavoce e punto focale di riunione di tutte quelle forze che da tempo vogliono la ristrutturazione dello sta­to evitando il pericolo di una vittoria sociali­sta e revisionando il sistema sindacale ruo­tante attorno alla Camera del lavoro. E la natura del successo fascista a Venezia, le­gata ad una generazione di abili politici de­mocratici che fungono da capitalizzatori e legata più a queste due organizzazioni com­posite, con scopi precisi e limitati, piutto­sto che al fascio, racchiude dentro di sé par­te di quel processo che conferisce al fasci­smo come movimento e come regime il suo carattere metapolitico, ‘panborghese’ e con­traddittorio di forza revisionista, moder- nizzatrice ma conservatrice allo stesso tem­po, partecipe e risolutrice di alcune proble­matiche chiave del capitalismo italiano117.

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117 In questo senso cfr. S. Lanaro, Nazione e lavoro, cit., p. 9: “il fascismo rappresenta la cornice ultima di un flusso di modernizzazione”. Le origini del fascismo regime non si cercano, dunque, nel fascio in sé per sé, ma nella cultura e metapolitica borghese e nello sviluppo capitalistico italiano (cfr. idem, p. 87 e G. Quazza, Storia, cit., p. 8).