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LA POESIA RELIGIOSA Il panorama della letteratura italiana del Duecento è particolarmente vario e complesso. L'atmosfera culturale di questo periodo appare in generale unitaria. All'inizio del XIII secolo, in Umbria, sbocciò, per opera di San Francesco, la poesia religiosa, piena di ardente sentimento mistico. La concreta situazione storica dell'Umbria, condizionata dalla presenza temporale della Chiesa nella vita comunale e dai numerosi movimenti religiosi presenti nella regione, spiega la comparsa di una figura così singolare come quella di San Francesco, che può essere compresa, appunto, solo alla luce della realtà della vita del suo tempo e della sua regione. San Francesco d'Assisi (1182-1226) Nato ad Assisi, da Pietro Bernardone, ricco mercante, è da Madonna Pica, di origine provenzale, condusse una giovinezza gaia e dissipata. A 21 anni Francesco combatté contro i Perugini, ma fatto prigioniero, rimase per oltre un anno in carcere a Perugia; tornato ad Assisi, soffrì di una grave malattia che gli procurò indicibili pene fisiche e spirituali; arruolatosi tra gli armati di un cavaliere di Assisi diretto in Puglia, provò più che mai vivo il senso della vanità di ogni grandezza umana e giunto a Spoleto, ritornò il giorno stesso ad Assisi completamente trasformato nell'animo. Qui cadde in una profonda crisi religiosa che lo portò a rinunciare, davanti al padre e al vescovo di Assisi a ogni ricchezza terrena. Si ritirò a vita ascetica e cominciò a restaurare la Chiesetta di S. Damiano; più tardi colpito dalla lettura di un passo del Vangelo di S. Matteo nella Chiesetta di S. Maria della Porziuncola (Andate per il mondo annunciando che il Regno dei Cieli è imminente...), decise di raccogliere intorno a sé alcuni seguaci, con i quali prese dimora in una casupola abbandonata, chiamata Rivotorto, ma poi cacciato da un contadino, si rifugiò nella chiesetta della Porziuncola. S. Francesco fondò l'ordine dei francescani o frati minori, di cui la prima regola, più intransigente fu approvata oralmente da Papà Innocenzo III nel 1210, e la seconda più mite per l'intervento della Chiesa fu approvata per iscritto da Papa Onorio III nel 1223. Nel 1219 si recò in Oriente, ben accolto dal sultano Malek al Kamel, ma non riuscendo a diffondere, come sperava, la religione cristiana, tornò in Italia: qui dopo aver ricevuto nel 1224, le stigmate nella solitudine della Verna in Toscana, morì nella chiesa della Porziuncola il 3 ottobre del 1226. S. Francesco ha una grandissima importanza nella storia del Basso Medioevo. La sua predicazione contiene un fervido messaggio d'amore e di fraternità. Per il suo impulso, nel campo religioso si ebbe una purificazione dei costumi ecclesiastici; nella vita civile, un invito alla pace e alla giustizia sociale, in nome della carità cristiana; nel campo artistico, un richiamo profondo all'interiorità del sentire, che animò poi la pittura di Giotto e la grande poesia di Dante.

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LA POESIA RELIGIOSA

Il panorama della letteratura italiana del Duecento è particolarmente vario e complesso. L'atmosfera culturale di questo periodo appare in generale unitaria. All'inizio del XIII secolo, in Umbria, sbocciò, per opera di San Francesco, la poesia religiosa, piena di ardente sentimento mistico. La concreta situazione storica dell'Umbria, condizionata dalla presenza temporale della Chiesa nella vita comunale e dai numerosi movimenti religiosi presenti nella regione, spiega la comparsa di una figura così singolare come quella di San Francesco, che può essere compresa, appunto, solo alla luce della realtà della vita del suo tempo e della sua regione.

San Francesco d'Assisi (1182-1226)

Nato ad Assisi, da Pietro Bernardone, ricco mercante, è da Madonna Pica, di origine provenzale, condusse una giovinezza gaia e dissipata. A 21 anni Francesco combatté contro i Perugini, ma fatto prigioniero, rimase per oltre un anno in carcere a Perugia; tornato ad Assisi, soffrì di una grave malattia che gli procurò indicibili pene fisiche e spirituali; arruolatosi tra gli armati di un cavaliere di Assisi diretto in Puglia, provò più che mai vivo il senso della vanità di ogni grandezza umana e giunto a Spoleto, ritornò il giorno stesso ad Assisi completamente trasformato nell'animo. Qui cadde in una profonda crisi religiosa che lo portò a rinunciare, davanti al padre e al vescovo di Assisi a ogni ricchezza terrena. Si ritirò a vita ascetica e cominciò a restaurare la Chiesetta di S. Damiano; più tardi colpito dalla lettura di un passo del Vangelo di S. Matteo nella Chiesetta di S. Maria della Porziuncola (Andate per il mondo annunciando che il Regno dei Cieli è imminente...), decise di raccogliere intorno a sé alcuni seguaci, con i quali prese dimora in una casupola abbandonata, chiamata Rivotorto, ma poi cacciato da un contadino, si rifugiò nella chiesetta della Porziuncola. S. Francesco fondò l'ordine dei francescani o frati minori, di cui la prima regola, più intransigente fu approvata oralmente da Papà Innocenzo III nel 1210, e la seconda più mite per l'intervento della Chiesa fu approvata per iscritto da Papa Onorio III nel 1223. Nel 1219 si recò in Oriente, ben accolto dal sultano Malek al Kamel, ma non riuscendo a diffondere, come sperava, la religione cristiana, tornò in Italia: qui dopo aver ricevuto nel 1224, le stigmate nella solitudine della Verna in Toscana, morì nella chiesa della Porziuncola il 3 ottobre del 1226.

S. Francesco ha una grandissima importanza nella storia del Basso Medioevo. La sua predicazione contiene un fervido messaggio d'amore e di fraternità. Per il suo impulso, nel campo religioso si ebbe una purificazione dei costumi ecclesiastici; nella vita civile, un invito alla pace e alla giustizia sociale, in nome della carità cristiana; nel campo artistico, un richiamo profondo all'interiorità del sentire, che animò poi la pittura di Giotto e la grande poesia di Dante.

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Oltre al Cantico scrisse la Regula, le Laudes de virtutibus e le Laudes Dei in latino.

Poco dopo la morte del Santo si diffusero in Italia centrale, specialmente in Umbria, le compagnie dei Flagellandti (Laudesi, Disciplinati, ecc.), tra i quali erano cosiddetti Giullari di Dio, cui si deve la diffusione tra le masse popolari di una nuova poesia religiosa. Si tratta di Laudi: commossi canti religiosi, di carattere lirico o drammatico, composti in lode di Cristo, della Vergine, dei Santi e in genere della tradizione cristiana, nelle forme metriche della ballata.

Scrisse il Cantico di Frate Sole (o Laudes Creaturorum), composto secondo una tradizione che risale ai primi ingenui seguaci, dopo una notte passata nella celletta di S. Damiano (1224), in cui il Santo, tormentato dal mal d'occhi e dai topi, parve udir una voce celeste di conforto. È una prosa ritmata in dialetto umbro, una specie di salmo, in cui il Santo invita tutte le creature, il sole e la luna, le stelle e il vento, l'aria e l'acqua, la terra e il fuoco a lodare il Signore. I versi rivolti a coloro che perdonano sarebbero poi stati aggiunti quando il Santo riuscì a mettere pace tra il vescovo e il podestà di Assisi. L'ultima strofa per Sora nostra morte corporale, fu forse composta negli ultimi giorni di vita alla Porziuncola.

Il Cantico ha un alto valore artistico: si tratta di un intimo messaggio di amore e di fraternità, in cui si riflette tutta la vita spirituale, la cultura e la fantasia di Francesco.

La bellezza del canto è nella sua fervida intonazione di preghiera, modellata sui salmi e sui cantici della Bibbia, e, soprattutto, nella serena letizia delle immagini colorite e luminose: lo splendore del sole bellu e radiante, la trasparenza dell'acqua molto utile e umile e preziosa e casta, la luce del fuoco bella et iocunda et robustosa et forte.

Jacopone da Todi (1236-1306)

Jacopo de' Benedetti da Todi, detto Jacopone, nacque a Todi nel 1236. Fu procuratore legale e condusse dapprima una vita scioperata e gaudente, ma la tragica morte della moglie Vanna dei conti di Colmezzo, avvenuta in una festa da ballo (le fu trovato addosso un cilicio), lo indusse alla conversione (1268). Dopo vari anni di rigorose penitenze, non prive di eccessi e stranezze, che gli meritarono il titolo di Pazzo di Dio. Si fece francescano schierandosi nel partito più rigoroso e combattuto dalla Chiesa (francescani spirituali). Partecipò anche a una ribellione dei cardinali Colonna contro Bonifacio VIII, firmando il manifesto di Longhezza contro la sua elezione (1297) e, per quanto incarcerato e scomunicato, non depose mai il suo fiero animo contro quel pontefice.

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Fu liberato dal carcere nel 1303 da Benedetto XI, ma mori tre anni dopo nel 1306 nel convento di Collazzine.

Compose numerose Laudi (in origine canti volgari recitati dai fedeli dei movimenti dell'Alleluja, dei Disciplinati dei Laudesi, in origine quindi orali con scambi continui di battute, in seguito scritte secondo lo schema metrico di una canzone a ballo; sul piano formale l'adozione del metro della ballata è fondamentale, sul piano tematico la lauda abbraccia argomenti religiosi che vanno dalla meditazione sulla vanità della vita alla deprecazione del peccato , dalla celebrazione dell'amor versi Dio alla descrizione di episodi evangelici. Tra le varie raccolte che ci sono pervenute c'è grande varietà di Toni e di prevalenze tematiche. Sul piano formale, da una certa struttura dialogica o di contrasto presente in qualche lauda, si sviluppa e si imporrà una dimensione teatrale del componimento con vari personaggi dialoganti tra loro, che nel '300 diventerà la lauda drammatica; questa evoluzione nella seconda metà del '300 e nel '400 sfocerà nella sacra rappresentazione) sia liriche che drammatiche, dove intervengono numerosi interlocutori.

Donna de Paradiso è la poesia più intima e profonda di Jacopone, in cui l'ardore mistico si traduce in una forte tensione drammatica e in una vivace concretezza di immagini e di sentimenti: la crocifissione di Cristo, l'incontro labile dolore di Maria. Veramente indimenticabili sono i versi in cui il dolore della madre si sfoga in un'onda di pianto: Figlio l'alma t'è uscita figlio del la smarrita figlio de la sparita figlio attossicato!...

Jacopone scrisse anche laudi didattiche, nelle quali l'esortazione morale è animata da un magnanimo fervore psicologico, e politiche che assumono i toni della satira e dell'invettiva, violenta, specialmente contro Bonifacio VIII. Le più belle e personali composizioni dell'autore sono però le Laudi mistiche, nelle quali l'amore verso Dio diventa slancio assoluto di dedizione. Sono i momenti della "Santa pazzia", quando la lingua barbaglia e la gioia di possedere Dio deve sfogarsi in uno scomposto grido d'amore.

Gli studiosi hanno considerato a lungo Jacopone un poeta "primitivo". Anche il De Sanctis era dell'opinione che egli volesse dar sfogo a un'anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso, e ignorasse teologia e filosofia. La critica moderna, naturalmente, non nega la sincerità di Jacopone, ma si rifiuta di ammettere che egli possa essere un artista rozzo e ignorante. In realtà la sua è una poesia colta (in cui non mancano echi della Bibbia e della lirica d'arte), nutrita di sapienza teologica e di filosofia (San Bonaventura), ed esperta delle più sottili tecniche letterarie. La critica storica definisce oggi Jacopone un mistico-poeta, che parte da una larga esperienza mistica per giungere quasi inavvertitamente alla poesia. Il sentimento religioso prorompe nella sua schiettezza, non prima di un certo senso della misura, sebbene a volte si passi dal delicato al plebeo senza alcuna minima fusione dei due elementi.

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LA SCUOLA SICILIANA

Il movimento letterario della Scuola Siciliana

Il primo vero e proprio movimento letterario che si costituì con un'esplicita consapevolezza di propositi artistici e culturali, fu quello della Scuola Siciliana. La Scuola Siciliana si forma a Palermo, alla corte di Federico II di Svevia, che vuole presso di sé poeti, pittori, musicisti, danzatori; ne fecero parte scrittori non solamente siciliani, ma d'ogni regione d'Italia. La denominazione di siciliana si spiega non con il luogo di nascita dei suoi componenti, ma con la sua stretta soggezione alla corte di Federico, re di Sicilia, che fondò l'Università di Napoli (1224), fece tradurre scritti arabi e greci e compose egli stessi un libro di caccia, il De arte venandi cum avibus.

L'atmosfera culturale della Scuola Siciliana è dominata dall'influenza della lirica provenzale, con il suo ideale del fino amore: amore come umile adorazione (inteso come una specie di vassallaggio del poeta verso la dama), donna esaltata nella sua perfezione ideale, descrizione dell'amante che povertà nel suo cuore l'immagine della sua dama e si sente morire d'amore. Anche la lingua dei rimatori non era propriamente il dialetto siciliano, ma il volgare illustre, nobilitato dall'influenza del latino e del provenzale. Non si può però escludere del tutto un fondo linguistici siciliano, che oggi appare celato dal travestimento toscaneggiante operato dai copisti. La limitatezza della scuola è legata a una certa freddezza sentimentale e povertà di riferimenti reali. Si pensi, per esempio, alla scarsa eco che trovano i grandi avvenimenti del tempo (come la formazione del Comune, la lotta fra la Chiesa e lo Stato, le eresie, le esigenze di giustizia sociale) nelle rappresentazioni dei poeti siciliani. Al contrario, il suo maggior pregio consiste nel riconoscimento della disciplina artistica e nell'elaborazione di un linguaggio corretto elegante e selezionato, che nasce sul fondamento di una vita culturale ricca e profonda. L'importanza della Scuola Siciliana è soprattutto storica: per la prima volta si può parlare in Italia di un movimento letterario e di una elaborazione comune della lingua poetica.

I rimatori della Scuola Siciliana

I principali poeti della Scuola Sicilia, che pur nell'atmosfera comune, spiccano per la loro personalità sono: Federico II di Svevia (1194-1250) che fu il vero promotore della nuova cultura e scrisse, oltre al già ricordato libro di caccia, alcune poesie, piuttosto convenzionali. Enzo (1220-1272), figlio di Federico II e re di Sardegna, che, in una canzone a lui attribuita si esprime con un'immagine di profonda risonanza: giorno non ho di posa - come nel mar l'onda. Pier delle Vigne (1180-1249), che nacque a Capua, fu segretario e gran cancelliere dell'imperatore, e morì suicida in carcere dopo essere stato accusato di tradimento. Scrisse varie Epistole in latino, composte con

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magistrale stile oratorio, e rime, nelle quali rivela sottile preparazione retorica e cultura artistica. Meritano di essere ricordati, per il loro felice abbandono lirico, almeno due versi di una sua canzone: Or potess'eo venir e a voi, amorosa- com' lo ladine ascoso, e non paresse. Giacomo da Lentini, caposcuola, che fu notaio presso la corte di Federico, come la maggior parte di questi poeti. Gli si attribuisce l'invenzione del sonetto, che sarebbe derivato dalla stanza della canzone. Da rilevare un suo sonetto sulla natura d'Amore, Amor è un disio che vien da core; un altro sonetto sul desiderio di essere in Paradiso con la Madonna (Io m'aggio posto in core a Dio servire) e la canzonetta Meravigliosamente un amor mi stringe, che svolge con grazia il motivo dell'amore nascosto. Il suo prestigio letterario fu certo grande, tanto che gli valse di essere citato con lode da Dante. Odo delle Colonne, autore di un lamento di una fanciulla abbandonata (Oi lassa 'nnamorata). Rinaldo d'Aquino, che appartiene forse alla stessa famiglia di San Tommaso, autore di un lamento d'amore per la partenza del crociato (Già mai non mi conforto). Degna di nota è poi la canzone Amorosa donna fina, in cui il poeta canta la stupenda visione di un mondo di neve tutto incendiato dal fuoco d'amore. Giacomo Pugliese, che scrisse Donna, di voi mi lamento, un contrasto fra un amante e la sua donna, e Morte perché m'hai fatta sì gran guerra, una canzone di rigoroso impianto stilistico e di dolce intonazione musicale.

Ci restano migliaia di rime, ma questo amore di ispirazione trova dorica e provenzale è povero di realtà sentimentale: si una fredda imitazione, che si compiace di ripetizioni monotone (la donna è sempre la stessa creatura scialba e astratta), di sottigliezze e preziosità (giochi di parole, rime interne, allitterazioni...).

Non alla lirica d'arte siciliana, ma alla lirica popolare (forse era un giullare) appartiene il famoso contrasto di Cielo d'Alcamo, Rosa fresca aulentissima. Si tratta di un contrasto tra l'amante e la sua donna, in cui una strofa confine le parole dell'amante, l'altra la risposta della fanciulla: egli dichiara il suo amore, ella resiste lungamente, schernisce, minaccia, ma alla fine cede. Tutto il dialogo è vivacissimo, in una lingua che contiene molto delle forme dialettali; e per certe indicazioni storiche (vi si cita una degenza o legge bandita da Federico II nel 1231 e delle monete dette agostani, coniate nello stesso anno; vi si trova nominato come vivo Federico) si può ritenere composto tra il 1231 e il 1250. Si tratta di una composizione piena di naturalezza e di brio e di movimento drammatici, ma condotta avanti con arte controllata ed esperta.

LA SCUOLA GUITTONIANA O TOSCANA

1. La Scuola Siciliana inizia la sua decadenza al tempo della Battaglia di Benevento (1266), che segna la vittoria degli Angioini contro gli Svevi, ma continua nella scuola guittoniana, che eredità le consuetudini

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retorico-artistiche della tradizione letteraria siculo-provenzale, aprendosi anche a nuovi interessi politici e morali. 2. I principali poeti di questa Scuola furono: -Guittone d'Arezzo (1235-1294) caposcuola, scrisse nel corso della sua vita circa trecento componimenti. Guelfo impegnato nelle lotte partigiane della sua città, visse probabilmente un periodo di volontario esilio nel 1256. Attorno al 1265 maturò una crisi religiosa, che lo portò ad abbandonare la famiglia e a entrare nell'ordine dei Cavalieri di Santa Maria (i famosi Frati godenti); questa esperienza influì profondamente sul suo tenore di vita e sui modi e i motivi della sua poesia. L'autore presenta nella sua vita è nelle sue opere due distinti periodi: -un pr imo per iodo , i n cu i s c r i s se r ime d 'amore d i tono provenzaleggiante; si tratta di componimenti piuttosto intellettualistici e concettosi, privi di calore sentimentale. Da notare che, accanto alle poesie dell'amore "cortese", c'è un gruppo di sonetti ispirati all'amore sensuale; -un secondo periodo (dopo essere entrato nell'ordine dei Cavalieri di Santa Maria), in cui scrisse rime morali e religiose, nelle quali l'autore acquista qualcosa della robustezza dantesca e raggiunge il suo tono poetico più alto. Scrisse anche una vigorosa canzone politica sulla rotta di Firenze a Montaperti e varie lettere che tentano di riprodurre il ritmo del periodo latino. Dante non tralascia occasione per darne giudizio negativo, accusandolo di usare vocaboli e costruzioni plebee. Tuttavia dobbiamo tenere presente il giudizio di De Sanctis: "in Guittone è notabile questo: che nel poeta senti l'uomo; quella forma aspra e rozza ha pure una fisionomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, un certa energia d'espressione...E c'è anche l'uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento". -Chiaro Davanzati, fiorentino, che, pur imitando i provenzali, rivela già qualcosa di personale (immagini e sentimenti reali). Scrisse gentili rime d'amore, e appassionate canzoni politiche. -Bonagiunta Orbicciani da Lucca, che scrisse eleganti poesie di tono provenzaleggiante, al quale Dante nel Purgatorio rivelerà al poetica del "Dolce Stil Novo". -La Compiuta Donzella di Firenze, che raggiunge una sua nota poetica nel più noto dei suoi tre sonetti, Alla stagion che il mondo foglia e fiora, soprattutto nella chiusa malinconica e triste.

IL DOLCE STIL NOVO

La scuola del Dolce Stil Novo

1. La scuola del Dolce Stil Novo nacque a Bologna; ne fu caposcuola Guido Guinizzelli, chiamato "il saggio" da Dante e da lui riconosciuto come "il padre /mio e della miei miglior che mai / rime d'amor issar dolci e leggiadre". Viene ripresa la tradizione provenzale , ma si assiste a un approfondimento dell'indagine psicologica nella direzione sentimentale già accennata dagli ultimi poeti di Provenza: l'amore (la donna ideale dei

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provenzali) viene inteso come perfezionamento morale, amore non è peccato. La donna è un angelo che passa fugacemente sulla terra per la salvezza degli uomini, ma è attesa nel Cielo (il motivo dell'amore si conclude e si confonde con quello della morte); l'amore non può nascere che in "cor gentile", cioè disposto a virtù. Per questa nuova immagine della donna e dell'amore è interessante la canzone di Guinizzelli sull'origine e la natura dell'Amor (Al cor gentile rempaira semper Amore), che si può considerare il manifesto del Dolce Stil Novo: vi è posta l'identità tra amore e gentilezza (o nobiltà d'animo); e questo è il centro della canzone, che si schiude con la teoria della donna angelo; in realtà non si tratta di una teoria ma di una rapida immagine che rappresenta, senza complicazioni concettuali, la bellezza fisica e la purezza della donna amata. 2.Nella poesia del Dolce Stil Novo si nota l'entusiasmo di un profondo contenuto sentimentale, la complessità di una cultura viva e concreta (cui non sono estranei gli studi filosofici) e la raffinata eleganza del linguaggio e delle forme espressive. La poetica del movimento è quella che Dante rivela nel Purgatorio a Bonagiunta, che gli chiede se sia stato lui a dare inizio alle "nove rime". Dante gli risponde: I' mi son un, che quando Amor mi ispira, noto, e a quel modo ch'è ditta dentro vo significando Bonagiunta non può fare a meno di riconoscere l'evidente distacco che esiste tra la vecchia e la nuova scuola. Egli si rende conto che c'è stato come un impedimento (un "nodo" dice Dante) che ha trattenuto il Notaro (cioè Giacomo da Lentini), Guittone e se stesso "di qua dal dolce stil novo". In questi versi l'accento non batte soltanto sulla spontaneità, ma più sul "noto" e sul "vo significando", e c'è la coscienza di un progresso intellettuale e tecnico-letterario. 3.Per comprendere a fondo i caratteri dello stilnovo è consigliabile studiarne la genesi storica, indagando con attenzione la cultura e la civiltà del tempo. Il rifiorire degli studi retorici e filosofici e la diffusione del pensiero di San Tommaso favorirono, per esempio, il risveglio della vita universitaria bolognese. A questo si unisce una nuova vivacità di esperienze politiche e religiose, che animano tutta la vita italiana (e, più specificamente, toscana) del tempo. Dal punto di vista letterario, permane l'influenza della tradizione. Siciliana e provenzale, alla quale lo stilnovo deve sia l'elaborazione dei propri schemi letterari, sia la forte trama di interessi psicologici intorno al problema dell'amore. 4.Lo stilnovo dunque è profondamente legato all'ambiente culturale del suo tempo; ciò nonostante questo movimento letterario presenta alcuni caratteri distintivi e un nucleo innegabile di novità. Non si tratta di una verità filosofica, espressa nel motivo della donna-angelo, mediatrice tra la terra e il cielo, tra gli uomini e Dio.

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Al contrario nel Dolce Stil novo non c'è nessuna nuova concezione amorosa: il mito del donna angelicata va interpretato come una felice immagine poetica, non ignota, del resto, alla lirica precedente. La novità dello stilnovo non è il contenuto, ma la forma. Essa consiste in un approfondimento e raffinamento dell'indagine psicologica nel cui ambito trovano rilievo il nuovo mito della gentilezza del cuore e un raffinamento del linguaggio, che si fa più dolce e delicato, più sottile e squisito. È in questa direzione tecnico-stilistica che si può precisare meglio l'originalità della scuola, in cui si fissa il nuovo gusto poetico-letterario delle rime dolci e leggiadre. In conclusione, la scuola del Dolce Stil Novo esalta l'entusiasmo di un profondo e autentico contenuto sentimentale, la complessità di una cultura viva e concreta e la raffinata eleganza del linguaggio e delle forme espressive. I principali poeti del Dolce Stil Novo furono Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia e pochi altri minori (Lapo Gianni, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi).

Guido Guinizzelli (1230-1276) Nacque a Bologna dove esercitò la professione di giureconsulto. Fu bandito dai Guelfi con la fazione ghibellina dei Lambertazzi nel 1274, e morì a Monselice, nel padovano, due anni dopo, nel 1276. È il fondatore della scuola e Dante stesso lo definisce il saggio (nella Vita Nova) e lo riconosce come il padre di tutti coloro che rime d'amore usar dolci e leggiadre in un famoso passo del Purgatorio. Dopo avere seguito la maniera guittoniana, infatti Guinizzelli si staccò da essa cantando l'amore con affetto vero e delicato. Scrisse canzoni e sonetti quasi esclusivamente d'amore. Il suo piccolo canzoniere (24 componimenti), folto di reminiscenze provenzali e guittoniane, è caratterizzato da un prevalente interesse letterario. La sua è una poesia colta, che si ricollega alla tradizione, ma allo stesso tempo si discosta dai modelli guittoniani, trovando accenti propri, nuovi e inconfondibili. Veramente nuovo e originale è, per esempio, il tono di profonda serietà morale e intellettuale, che anima le sue rime, e la vibrante intimità che acquista in lui il motivo della gentilezza (o nobiltà) dello spirito. Decisamente nuova è anche la tonalità stilistica e la musicale dolcezza dei ritmi e delle immagini. La poesia più nota del Guinizzelli è la canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore, animata da un genuino entusiasmo lirico. La canzone descrive l'origine e la natura dell'amore, e che si può considerare come il manifesto e il programma del nuovo movimento. Essa ha il suo centro ideale nell'affermazione dell'identità dell'amore e del cuore gentile, espressa in immagini luminose e splendenti. La canzone si conclude con il tenero paragone della donna, che tenne d'angel sembianza (quando Dio gli chiederà conto del suo amore, il poeta potrà rispondere che la sua donna sembrava proprio un angelo e perciò amandola non commise alcuna colpa), una rapida immagine che rappresenta, senza

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complicazione concettuali, la bellezza fisica e la purezza morale della donna amata. Interessanti sono anche i versi della quarta stanza, in cui Guinizzelli, riecheggiando le nuove idee della società comunale, afferma risolutamente che la nobiltà non deve essere intesa come un privilegio ereditario, ma come una dote individuale del cuore e dell'animo umano. Degni di nota sonno anche il sonetto Vedut'ho la lucente stella diana, con la visione del poeta assalito dall'amore e il sonetto Voglio del ver la mia donna laudare.

Guido Cavalcanti (1259-1300)

I nuovi ideali letterari vennero raccolti e portati a perfezione da Guido Cavalcanti che nacque a Firenze da famiglia nobile e ricca, e godette di grande considerazione presso i suoi concittadini. Fu un uomo solitario e sdegnoso, aristocraticamente assorto nei suoi studi e nei suoi pensieri, e perciò fu tacciato di ateismo. Nella Firenze del suo tempo Guido Cavalcanti ebbe tutta la statura di un capo e fu ammirato dai contemporanei. Fu amico di Dante, che gli dedicò il libro della Vita Nova: e quando Dante parve allontanarsi dalla via della rettitudine, Guido nobilmente lo rimproverò. Cavalcanti partecipò attivamente anche alla vita politica militando tra i Bianchi: fu perciò nemico di Corso Donati, che tentò più di una volta di farlo assassinare; nella vigilia di San Giovanni del 1300 partecipò a un sanguinoso scontro tra i Bianchi e i Neri, tanto che i Priori allora in carica, tra i quali Dante, furono costretti a confinarlo a Sarzana. Richiamato in patria, perché ammalatosi di febbri malariche, morì nel 1300, verso la fine di agosto. Scrisse canzoni, ballate, sonetti. Nella poesia di Cavalcanti possiamo distinguere due tematiche: -poesia filosofica, come la canzone Donna mi prega, perch'io voglio dire, molto famosa in quei tempi, che è una vera e propria indagine scientifica e filosofica intorno alla natura dell'amore. In essa si insiste sull'amore come cosa sensuale e terrena, che nasce dalla vista della donna. Per lui l'esperienza d'amore ha qualcosa di smarrito e di tormentato e si associa angosciosamente all'idea della morte. -poesia sentimentale, come le liriche semplici e delicate, ove è cantata Monna Vanna (Fresca rosa novella), la Mandetta Tolosa (Una giovane donna in Tolosa), ecc.; molto famose sono anche le due ballate delle pastorello (In un boschetto trova' pastello; Era in pensar d'amor quond'i' trovai) e il sonetto Avete 'n voi li fiori e la verdura. Indimenticabile è poi il tono estatico e quasi irreale con cui si apre un altro famoso sonetto: Chi è questa che ven, ch'ogn'om mira, che fa tremar di chiaritate l'âre... Il vero spirito del poeta si rivela però quando canta la sua angoscia interiore, il dramma di uno spirito dominato dal dolore e dal senso della morte. Ne è un esempio la cosiddetta ballata dell'esilio (Perch'io non spero di tornar giammai), inviata alla propria donna come estremo saluto. In

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quest'ultima ballata l'angoscia si placa nell'armonia e sfuma in un tono di trepida malinconia.

LA POESIA REALISTICA E BORGHESE

La nuova tendenza letteraria della poesia "giocosa"

La poesia dei rimatori comico-realistici fiorisce in Toscana nello stesso periodo del dolcestilnovo. Si tratta di una poesia fatta di cose, di descrizioni concrete, di scenette rappresentate con stile "comico", cioè medio e con gustosa vena realistica. I versi sono scritti con un tono spregiudicato e scherzoso, il modo di esprimersi rispecchia la vita libera e movimentata del nuovo comune borghese. Fra i poeti di questa nuova tendenza ricordiamo: Rustico di Filippo (1230-1295), Folgòre da San Giminiano (1270 circa-1332), e Cecco Angiolieri (1260-1313).

Cecco Angiolieri, nato a Siena, fu il più importante poeta giocoso del Duecento. Uomo bizzarro e spregiudicato, visse sempre nella miseria. Fu in rapporti con Dante, contro cui scrisse il sonetto Dante Alighier', s'i' so bon begolardo. La sua poesia esalta in genere "la donna, la taverna, e il dado", e costituisce in un certo senso il ritratto e la trascrizione letteraria della sua vita bizzarra e intristita dal rancore e dalla miseria. Amò Becchina, figlia di un "agevol cuoiaio", che rappresentò nelle sue rime con particolare vivacità espressiva. Nella descrizione di questo amore Cecco è estroso e vivace nello stesso tempo. La poesia di Cecco non è animata da nessun sentimento profondo, ma solo dal gusto dei motti arguti e della malizia verbale. Il suo capolavoro è il sonetto S'io fossi foco, ardere'il mondo, che è lo sfogo, letterariamente molto abile di un uomo arrabbiato contro sé e contro tutti gli uomini, che esagera per gioco il suo odio e furore. Il tonno burlesco è già evidente nelle iperboli enfatiche della prima quartina e continua, con coerenza e abilità letteraria, per tutto il sonetto, fino all'irriverente invettiva contro i genitori e alla scherzosa battuta finale.

La prosa del Duecento

Nella prosa gli scrittori del Duecento si servirono non solo del volgare italiano, ma anche del latino e del francese, ritenuti linguaggi più adatti a trattare argomenti elevati. Per quanto riguarda gli scrittori in lingua latina del secolo XIII, oltre alle già citate opere di carattere teologico (San Tommaso, San Bonaventura) e retorico, si può ricordare Fra Salimbene Adami da Parma (1221-1288), autore del Chronicon, opera storica scritta in latino di tono popolare, in cui sono narrate le principali vicende della vita italiana del Duecento. Nell'ambito della letteratura in lingua francese è da ricordare, invece, l'importante opera di Brunetto Latini.

Page 11: IL DUECENTO-DALLA POESIA RELIGIOSA (2) · PDF fileOltre al Cantico scrisse la Regula, le Laudes de virtutibus e le Laudes Dei in latino. Poco dopo la morte del Santo si diffusero in

Infine la prosa in volgare italiano del secolo XIII comprende principalmente opere di carattere dottrinale e retorico, composizione novellistiche, opere storiche. I prosatori più importanti del Duecento sono Brunetto Latini, l'anonimo autore del Novellino e Marco Polo. Brunetto Latini (1220-1294) era un notaio fiorentino, parteggiò per i Guelfi e ebbe vari incarichi pubblici, godette di grande notorietà tra i suoi concittadini. Compose: -il Trésor, grande enciclopedia in prosa scritto in francese; -il Tesoretto: poemetto allegorico didattico in versi in cui il protagonista è lo stesso autore che dà molte nozioni sulla filosofia naturale, sui problemi morali, sull'Amore, e sulle arti liberali. L'opera è incompiuta e scritta in volgare fiorentino. Un anonimo autore probabilmente fiorentino di idee ghibelline scrisse il Novellino. Si tratta di cento racconti che hanno come fonte il mondo antico, il mondo cavalleresco, la storia religiosa e la vita storica e politica del tardo Medioevo e del Duecento. Molte novelle sono dedicate a Federico II. La lingua usata è il volgare toscano. Marco Polo (1254-1324) ebbe una vita avventurosa, percorse per lunghi anni vaste regioni dell'Asia, fino in Cina e a Pechino. Fatto prigioniero dai Genovesi e dettò in carcere a Rustichello da Pisa Il Milione (così chiamato dal soprannome della sua famiglia), si tratta dei suoi ricordi di viaggio, che descrivono le meraviglie e i costumi dell'Estremo Oriente e del regno di Cublai. Il testo originale, non pervenutoci, era in francese, ma ben presto si diffuse anche in volgare italiano e ebbe notevole diffusione. Il pregio maggiore del libro consiste nell'esposizione accurata e circostanziata di quello che l'autore ha visto e che egli ha guardato con spirito pratico e con attenzione di acuto osservatore.