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45 D. DEMARCO, Il Risorgimento e la “Questione sociale” (e altri saggi), Edizioni Scientifi- che Italiane, Napoli 2002. «L’Europa è in fermento per l’uguaglianza, come un tempo lo era per la libertà». Questa frase di Giuseppe Mazzini, datata 1841, apre il testo di Domenico Demarco: “Il Risorgimento e la questione sociale”. Il Risorgimento, inteso come risveglio delle coscienze e avvicinamento della bor- ghesia alla politica, da un punto di vista strettamente politico, si può ritenere abbia interessato prettamente solo gli stati italiani e tedeschi. Se invece si allarga l’orizzonte alla discussione dei temi sociali come l’uguaglianza, la lotta allo sfruttamento ed alla povertà dei lavoratori, e come essi furono proposti e rivendicati da classi sociali stori- camente in ombra, allora non si può fare a meno di considerare l’influenza che esercitò in tutta l’Europa. Potremmo giungere ad un’osservazione. L’assolutismo ebbe vita facile, con violen- te repressioni, finché gli intellettuali, nelle loro aspirazioni di libertà furono isolati; quando, invece, come teorizzava Mazzini, agli ideali di libertà si sommarono quelli del- l’uguaglianza, la partecipazione fu tanto estesa da destabilizzare i regimi più conserva- tori. Tale è il principale senso dello studio condotto dal Demarco, di evidenziare lo strettissimo legame tra il “Risorgimento” e la “questione sociale”. Non fu, come detto, un fenomeno che interessò solo l’Italia. Fu un graduale ma irreversibile movimento che attraversò tutta l’Europa. Una rivoluzione diversa da quel- la del 1789, più lenta ma più partecipata. Meno intensa ma più coinvolgente. E proprio per questo, alla fine, decisiva nel definitivo abbattimento dei regimi reazionari. A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, fecero la loro comparsa parole come: socialismo, sindacato, unità dei lavoratori. Le vicende parigine, nel fatidico biennio 1847-48, furono il crocevia per quelle dell’Europa tutta. Le illusioni e le delusioni, la partecipazione soprattutto del popolo francese, si diffusero e coinvolsero tutte le mag- giori capitali europee. La maggiore produttività industriale, la ripresa degli investimenti e del commercio internazionale e, soprattutto, le opere ferroviarie, confermavano l’inizio di una nuova epoca, in cui l’opinione pubblica era destinata ad assumere un ruolo determinante nella politica dei governi. Le tendenze egualitarie, rivoluzionarie socialiste, talvolta palese- mente repubblicane, non erano ancora ideali generalizzati, eppure i governi erano costretti ad ammettere che l’epopea napoleonica aveva reso possibile ottenere e difen- IV. RECENSIONI

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D. DEMARCO, Il Risorgimento e la “Questione sociale” (e altri saggi), Edizioni Scientifi-che Italiane, Napoli 2002.

«L’Europa è in fermento per l’uguaglianza, come un tempo lo era per la libertà».Questa frase di Giuseppe Mazzini, datata 1841, apre il testo di Domenico Demarco: “IlRisorgimento e la questione sociale”.

Il Risorgimento, inteso come risveglio delle coscienze e avvicinamento della bor-ghesia alla politica, da un punto di vista strettamente politico, si può ritenere abbiainteressato prettamente solo gli stati italiani e tedeschi. Se invece si allarga l’orizzontealla discussione dei temi sociali come l’uguaglianza, la lotta allo sfruttamento ed allapovertà dei lavoratori, e come essi furono proposti e rivendicati da classi sociali stori-camente in ombra, allora non si può fare a meno di considerare l’influenza che esercitòin tutta l’Europa.

Potremmo giungere ad un’osservazione. L’assolutismo ebbe vita facile, con violen-te repressioni, finché gli intellettuali, nelle loro aspirazioni di libertà furono isolati;quando, invece, come teorizzava Mazzini, agli ideali di libertà si sommarono quelli del-l’uguaglianza, la partecipazione fu tanto estesa da destabilizzare i regimi più conserva-tori.

Tale è il principale senso dello studio condotto dal Demarco, di evidenziare lostrettissimo legame tra il “Risorgimento” e la “questione sociale”.

Non fu, come detto, un fenomeno che interessò solo l’Italia. Fu un graduale mairreversibile movimento che attraversò tutta l’Europa. Una rivoluzione diversa da quel-la del 1789, più lenta ma più partecipata. Meno intensa ma più coinvolgente. E proprioper questo, alla fine, decisiva nel definitivo abbattimento dei regimi reazionari.

A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, fecero la loro comparsa parole come:socialismo, sindacato, unità dei lavoratori. Le vicende parigine, nel fatidico biennio1847-48, furono il crocevia per quelle dell’Europa tutta. Le illusioni e le delusioni, lapartecipazione soprattutto del popolo francese, si diffusero e coinvolsero tutte le mag-giori capitali europee.

La maggiore produttività industriale, la ripresa degli investimenti e del commerciointernazionale e, soprattutto, le opere ferroviarie, confermavano l’inizio di una nuovaepoca, in cui l’opinione pubblica era destinata ad assumere un ruolo determinante nellapolitica dei governi. Le tendenze egualitarie, rivoluzionarie socialiste, talvolta palese-mente repubblicane, non erano ancora ideali generalizzati, eppure i governi eranocostretti ad ammettere che l’epopea napoleonica aveva reso possibile ottenere e difen-

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dere le conquiste della rivoluzione francese. E proprio la Restaurazione che li aveva dicolpo negati, come se mai fossero esistiti, coagulava l’opinione pubblica intorno ad essi.

I conservatori moderati capirono, ben presto, che talune riforme erano necessarieper la sopravvivenza stessa del regime, per non essere travolti. La maggiore lungimiran-za fu mostrata dalla classe dirigente britannica che, sia pure saldamente conservatrice,avvalendosi della incontrastata potenza industriale poté concedere concrete riformepolitiche. Un esempio furono le riforme elettorali del 1867, che estesero il diritto alvoto agli operai ed agli artigiani delle città, l’introduzione dei concorsi pubblici e lariduzione dei benefici della Chiesa anglicana. Il ministro Disraeli inaugurò il “conser-vatorismo sociale”, fornendo un esempio di preveggenza politica, grazie al quale l’In-ghilterra non fu coinvolta nel crollo dell’assolutismo. La metà del XIX secolo vide fio-rire nuove conquiste e principi. La Francia acclamò come Imperatore Napoleone III informa plebiscitaria. Negli Stati Uniti, la motivazione della guerra di secessione e la ces-sazione dello schiavismo, rappresentano un patrimonio della dottrina liberale. J.S. Milliniziava a predicare l’emancipazione femminile. In Italia, era il Piemonte a perseguire ilriformismo moderato, che troverà poi in Cavour la sua massima espressione. Tali risul-tati furono conseguiti in modo tutt’altro che indolore, a prezzo di sanguinosi scontrisociali o bellici. Oltre alle agitazioni sociali, l’Europa era turbata dai conflitti tra i suoistati. Dal regno delle Due Sicilie, dalla Francia, dalla Germania e dall’Austria, sembròche fosse arrivato ineluttabile il tempo delle libertà, dell’emancipazione, dell’indipen-denza e delle costituzioni. In verità, la maggior parte degli eventi legati al 1848, puravendo una incubazione precedente, durarono ben poco. Le spinte più radicali, salvomarginali eccezioni, furono represse già in estate. Ma dopo il 1849, anche se le agita-zioni apparivano ridimensionate, alcuni fatti nuovi erano oramai reali. La Francia eraridiventata una Repubblica nella quale Napoleone III rinverdiva il bonapartismo e lagrandèur, e tanto avrebbe, in seguito, influito nelle cause delle indipendenze tedesca eitaliana. Proprio in Italia, il Piemonte aveva portato guerra all’Austria e ne era uscitosconfitto. Eppure, nel generale ritorno all’assolutismo, aveva mantenuto, la sua formacostituzionale, mentre l’Impero Asburgico, era minacciato da rivendicazioni interne,slave, ungheresi, boeme per non dire di quelle italiane.

Questa è l’argomentazione principale del testo del Demarco. Il legame tra il Risor-gimento, con le sue spinte liberali ed unitarie, e la “questione sociale” con le sue velleitàegualitarie, costituzionali ed economiche, con particolare riferimento, naturalmente,alle vicende italiane. L’autore ha, prevalentemente, concentrato la sua attenzione sull’a-nalisi dell’economia degli stati italiani pre-unitari e sulle rivoluzioni italiane del 1848 e,focalizzando l’attenzione sui singoli stati, ha evidenziato come, in Piemonte, le agitatevicende napoleoniche avessero profondamente mutato l’assetto agrario. L’esilio di largaparte della proprietà terriera e l’esproprio dei beni ecclesiastici determinò un forte fra-zionamento della proprietà. Ne derivò un cospicuo numero di piccoli proprietari ter-rieri. Lo Stato destinava al settore agrario (bonifiche, incentivi) solo una piccolissimaparte del bilancio. Per tale ragione il rapporto tra la resa e le forze produttive era moltobasso.

In Lombardia, l’agricoltura molto aveva beneficiato dell’introduzione del catasto edalla messa a coltura di terreni bonificati, inoltre furono varate leggi per l’abolizione

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della manomorta, per la cessazione dei calmieri e delle regalie ed un migliore assettodella proprietà rurale. Anche nel napoletano le riforme volute da Murat avevano segna-to la fine del feudalesimo. Malgrado tali innegabili tentativi di rinnovamento, al termi-ne dell’era napoleonica, le condizioni dell’agricoltura italiana erano sempre critiche eda notevole rischio di carestia. La mannaia della Restaurazione, inoltre, ristabilì il siste-ma vincolistico del vecchio regime. Un esempio può essere fornito dalla Toscana, che,considerata solo nel 1814 un’oasi della politica economica liberista, innalzò gradual-mente – come lo Stato Pontificio – le proprie tariffe doganali. Anche nel Meridione sitornò al protezionismo salvo una breve interruzione con l’incoronazione di FerdinandoII, che incentivò i commerci con la costituzione delle Società economiche, dando ancheimpulso all’arrivo di capitali dall’estero.

Il testo non manca di presentare un’ampia trattazione sulla situazione finanziariadei singoli stati italiani. Dallo studio, in proposito, risulta che nel bilancio napoletano,un ruolo fondamentale fu svolto dall’imposta fondiaria a fronte di un preoccupantedebito pubblico. Dal 1827, erano sorte una Cassa Rurale ed una Banca Fruttuaria, peri prestiti a favore degli impiegati e degli agrari. Diffusi erano anche i monti frumentari,che prestavano soprattutto beni agricoli. Infine, nel 1808, per volere di Murat, dallafusione dei sette banchi pubblici napoletani nacque il Banco delle due Sicilie che dispo-neva di una Cassa Depositi, che aveva diritto ad emettere le ben note “Fedi di Credito”girabili. Dal 1816, furono costituite anche la Cassa di Corte, dei Privati e quella diSconto, la quale compiva operazioni di sconto, anticipazioni su titoli e gioie. Nel 1843,vennero varate le succursali siciliane, che confluirono, successivamente, in occasionedell’autonomia amministrativa siciliana, nel Banco Regio dei reali Domini al di là delFaro (il futuro Banco di Sicilia). Sia questi che il Banco, non emettevano biglietti pro-pri ma le fedi di credito.

L’elemento comune delle economie dei diversi stati era l’incremento industriale ecommerciale (sia pure in diversa misura e modalità) di cui il rafforzamento di unanuova borghesia, una borghesia d’affari, era, al tempo stesso, causa ed effetto. Lanobiltà pur tenendo ferme le proprie posizioni era costretta a tenerne conto. Il divarioeconomico tra la borghesia ed i nobili si andava assottigliando e le richieste di riformecostituzionali, di uguaglianza e libertà facevano sperare in un livellamento delle diverseclassi sociali. Il mito delle imprese napoleoniche e della letteratura d’oltralpe (Rous-seau, Fourier e Saint Simon su tutti) conquistava gli studenti ed i giovani che a migliaiainiziavano a riunirsi e discutere.

Questi, essenzialmente, i fattori che generarono i moti del 1848.Furono due, però, le scintille che prepararono le insurrezioni: la crisi economica

del 1847 e la rivoluzione parigina del febbraio ’48. La carestia nel 1846 provocò una forte frustrazione nei ceti popolari, mai tanto

vicini alle speranze di emancipazione e benessere. Fu soprattutto la regione tosco –emiliana ad esserne colpita e non a caso fu in tale area che si diffusero rapidamente leidee socialiste. Ma anche a Napoli, gli operai scesero in piazza per rivendicare i “dirittial lavoro” professati da Albert e Louis Blanc.

Le notizie che arrivavano da oltralpe alimentavano la spinta rivoluzionaria. LaSeconda Repubblica, proclamata dopo gli scontri parigini il 24 febbraio 1848, vide l’im-

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mediata costituzione degli “Atelieux Nationaux” e l’estendersi, per opera del governoprovvisorio, del suffragio universale a tutti i lavoratori, dimostrando che le speranzedemocratiche e costituzionali potevano essere realizzate. Con esso il popolo assumevaun ruolo fondamentale, come mai era accaduto prima, dopo appena pochi mesi, lo stes-so governo provvisorio, pur essendo composto da sinceri repubblicani, forse temendooltre misura l’anarchia ed il socialismo o, forse, ancora cedendo alle pressioni di unacerta nobiltà “influente”, frenò le proprie riforme assumendo posizioni più moderate.

Le elezioni dell’aprile successivo videro la parziale sconfitta delle sinistre, per effet-to, soprattutto, dei timori della classe rurale, in verità molto condizionata dal clero. Neconseguirono violente agitazioni operaie con scontri ed occupazioni generando un con-flitto di classe, che molto influì nel pensiero di Marx ed Engels.

Agli occhi dei moderati gli operai erano solo ribelli e, grazie all’isolamento dellecampagne, l’ordine a Parigi fu facilmente ripristinato. La nuova Costituzione riuscì afondere i principi della prima Rivoluzione e l’esempio della democrazia americana cer-cando di smorzare le velleità rivoluzionarie. Le prime elezioni a suffragio universaleportarono all’elezione, come Presidente, di Carlo Luigi Napoleone. Elezione accoltacon sorpresa sia dai repubblicani che dai liberali e definita “un esempio di analfabeti-smo politico”, perché dovuta non alle prospettive riformiste ma ad un “nome attaccatoad una leggenda” (M. Agulhon).

Le ripercussioni di tali avvenimenti – come non manca di osservare l’autore – siestesero in Italia, Germania e nell’impero Austro-Ungarico. Anche in questi paesi laborghesia, tradita dalla Restaurazione, sposò la causa operaia mirando al suffragio uni-versale ed all’imposta progressiva.

Le agitazioni operaie, frequenti nel tosco-emiliano e nel Sud, rivendicavano salaripiù alti e dismissione dei macchinari, giudicati responsabili della disoccupazione. Siapure tanto virulente, queste agitazioni rapidamente andarono esaurendosi, principal-mente per il ruolo svolto dai clericali, dai reazionari e dai moderati, che agitavano iltemutissimo spauracchio comunista, creando un solco insanabile tra borghesia e classeoperaia. Tutte le correnti riformiste venivano generalmente inquadrate come comunistee lo stesso Mazzini dovette, più volte, chiarire la propria posizione nei riguardi dellarivoluzione sociale. Il termine “repubblica” era inteso come sinonimo di socialismo o,peggio, di anarchia. E ciò – secondo l’autore – fu forse determinante nel “coagulo diinteressi” tra la borghesia piemontese e la Casa Savoia. La monarchia piemontese eral’unica, in Italia, ad assicurare un indirizzo democratico e costituzionale, senza penaliz-zare “l’esistenza e l’avvenire della Torino industriale” (pg. 156). Non a caso la politicadi D’Azeglio e Cavour fu tracciata proprio su tali binari.

A fronte di una corrente riformista molto diversificata (dal moderato al rivoluzio-nario) vi erano i conservatori disposti a rinunciare alle libertà costituzionali preferendol’ordine sociale. Nel mezzo i liberali e le classi rurale e operaie. I primi si spostaronoverso i conservatori all’acuirsi degli scontri, le seconde restarono fuori dalle discussioniideologiche lasciandosi solo andare ad estemporanee agitazioni, non comprendendoche il processo riformista pretendeva un lungo lavoro di riforme e di pacificazionesociale.

Fin qui il lungo saggio di Demarco dedicato alla questione sociale. Seguono altri

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contributi di non minore interesse riguardanti l’economia degli stati italiani preunitari;le rivoluzioni italiane del 1848; e l’opera delle “società economiche” meridionali.

Nella parte seconda del volume, figura un saggio sul costo dell’epidemia di pestedi Reggio Calabria del 1743, un secondo sulla politica finanziaria e monetaria dellaRepubblica Romana del 1798-99 e sulla fiera di Senigallia al tempo dell’occupazionenapoletana del 1814.

Questi studi condotti con chiarezza, arricchiti di dati statistici non facilmente repe-ribili, offrono al lettore una occasione sull’interessante periodo storico del secolo XIX.

STEFANO BORGNA

G. ANCONA-F. BOTTA (a cura di), Sviluppo e impresa in Albania, Cacucci Editore, Bari, 2002.

Le considerazioni che ci sentiamo di svolgere dopo avere letto il volume potrebberofare discutere. Questo non sarebbe un male, un male sarebbe se una ricerca originale, cheviene a colmare un vuoto nella letteratura economica sull’argomento, recente e menorecente, fosse ignorata da specialisti e non. L’intera raccolta è basata su di una estesabibliografia, oltre che sul vivo di esperienze dirette. Né poteva essere diversamente, con-siderata la vicinanza e la contaminazione degli scenari geografico – culturali tra il paesedelle Aquile – proteso verso i lidi dell’Europa e da questa tenuta lontana per un destinoavverso, come annota, con malcelata tristezza, Fatbarda Shytaj nel suo lavoro sulla Priva-tizzazione delle imprese statali – e la regione pugliese, che è tutt’uno con il Mediterraneo.

È possibile, dopo un lungo periodo di subordinazione all’imperialismo staliniano,prima, e alle ideologie della Cina di Mao, poi, spiegare i tentativi di riforme economi-che e sociali realizzate o tuttora in atto in un paese di piccole dimensioni, ma con unapropria fisionomia linguistica, letteraria ed artistica?

Le componenti del modello di analisi di G. Ancona, che si desumono dalla Prefa-zione, oltre che dal saggio Un breve quadro macroeconomico del processo di trasformazio-ne in corso, che apre il volume, sono ispirate alle non dimenticate letture dell’opera diFederico Caffè, incentrata sull’economia del benessere come logica della politica economi-ca e, ancora più, alla visione integrale del sistema sociale, come Vilfredo Pareto l’avevaconcepito. I punti chiave del saggio, cui R. Patimo ha dato la sua collaborazione, scon-tate le premesse dottrinarie, riflettono la natura della gravità della crisi albanese, seguitaalla caduta del regime totalitario. Una crisi che difficilmente può essere contestata e cheha le sue origini, vicine e lontane, nel regime. Le perdite che il Prodotto Interno Lordofa registrare, nel 1992 (30 per cento in meno rispetto al 1990 e 40 per cento rispetto al1989, anno base), costituiscono il punto di partenza della ricerca.

Sebbene, dopo la crisi, ci sia stata la transizione verso l’economia di mercato,seguita dalla crescita del PIL, il sistema economico dell’Albania presenta delle incertez-ze che, se pur non paralizzano l’azione economica, la rendono inadatta a confrontarsicon il contegno effettivo del mercato. La caduta delle attività industriali e la persisten-te predominanza dell’attività agricola, che stenta a modernizzarsi, sono, per G. Ancona,il frutto dell’assenza, nel contesto storico in esame, di “esperienze manageriali e

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imprenditoriali”. Questa affermazione è in linea con l’approccio metodologico di Anco-na, ed in armonia con la Prefazione, là dove si richiamano, con nostalgia, gli economistidell’Est europeo, che, negli anni ’60, “discutevano del possibile ruolo del mercato e delprofitto all’interno dei sistemi pianificati” (p. 8).

E se dibattito c’è stato, esso non può che essersi svolto sulla base delle grandiopzioni della storia, che rilevano quanto grande e insopprimibile sia il bisogno dellalibertà di azione in un contesto esemplare, quello della Russia e della sua industria diStato, basata sul sistema della pianificazione centralizzata, in cui, a cominciare dallarivoluzione di ottobre (1917) e per finire al 1987, si sono costituite ben 8.000 coopera-tive (un numero destinato a crescere in maniera vertiginosa), piccole unità produttiveche ripropongono con ostinatezza il binomio manager – imprenditore.

Del resto sperimentazioni cooperativistiche non sono mancate nella stessa Albaniasotto il regime comunista. Ma, come hanno rilevato P. Iaquinta e F. Losurdo, in un con-tributo che ha attinenza specifica allo studio delle Dinamiche insediative e delle Tra-sformazioni territoriali, si tratta di cooperative rurali, sorte su terreni collettivizzati e perragioni di mera sussistenza, che nulla hanno a che vedere con le dinamiche del merca-to agricolo e della stessa terra.

Il contributo che presenta F. Botta, Per lo sviluppo delle imprese agroalimentari, aldi là della specificità del tema, è animato da spunti di riflessione sulle teorie dello svi-luppo (le trasformazioni strutturali). E la prima sottolineatura che viene in evidenza,partendo dall’esempio della crisi dell’economia albanese, non sorretta da istituzioniadeguate ed esposta a nuovi rischi, è che se, in nuovi rischi non si vuole incorrere, biso-gna ripartire dalla sfera istituzionale. è questa la chiave di lettura che Botta propone,riferendosi sia alla transizione che al processo di sviluppo albanese, una posizione, lasua, aliena da pregiudizi e ambiguità. I riferimenti occasionali all’occidentalismo, all’an-tieconomia e alle tematiche ecologiche di S. Latouche, in questo caso, hanno rilevanzain funzione dell’ipotesi o del tentativo di legittimare ricerche di laboratorio, che, nelcaso dell’Albania, si tradurrebbero in “divagazioni metafisiche”, come direbbe Pareto.

Gli effetti della mondializzazione sull’agricoltura e soprattutto nell’industria agroa-limentare non sono il diavolo, essi devono entrare a fare parte del nostro patrimoniocognitivo in uno con l’esame attento dei pregressi aspetti strutturali – diversificati delsistema economico albanese. L’analisi di Botta si concentra, così, sulla dimensione loca-listica sia dei programmi che delle azioni economiche, in cui la rete familiare (l’auspicioè che non dia luogo alla formazione di clan e foyer) dispone di forza tanto più grandequanto più deboli sono il mercato e lo Stato. Pur nella concretezza della proposta di unallargamento del mercato dei prodotti agricoli, zootecnici o agroalimentari, Botta pro-spetta, concludendo, la necessità della formazione di un maggiore numero di imprendi-tori, partendo “sempre, e in ogni caso, dalle caratteristiche che specificano non solo lastruttura produttiva agricola ma anche quella sociale e culturale esistente in Albania” (p.82). Per un’economia in transizione questo è più di un auspicio.

I limiti imposti da una recensione non consentono un esame minuzioso dei novecontributi che compongono la raccolta, bene organizzata intorno ad un tema estrema-mente delicato. Di questo va dato merito ai curatori, ma anche agli autori dei contribu-ti che si sono armonicamente compattati tra di loro.

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L’importanza dei problemi legati ai trasporti e alla loro incidenza nell’economiadell’intera area balcanica è al centro dell’attenzione che M. Valleri riserba, con notevo-le impegno e coerenza, al ruolo del cosiddetto Corridoio 8 nel suo contributo: The roleof Corridor N.ro 8 and Transport Integration in the Balkan Area. Un contributo nonmarginale alla conoscenza di un settore strategico per l’economia in generale e per lastrutturazione economica delle regioni portuali.

Spunti originali di riflessione, anche in prospettiva storica, per l’approfondimentodelle tematiche relative alla istituzione delle imprese offre il contributo di M. Capriati, Lafiducia nei processi di creazione e sviluppo delle imprese. Oggetto singolare di analisi è ilgrado di fiducia che i paesi in transizione nutrono nei confronti degli altri, fiducia generi-ca, nella famiglia e negli amici. Ad avere la prevalenza è la fiducia nella famiglia, che si con-figura come il riflesso di “un importante fattore nazionale”, se non si identifica con la sto-ria dell’Albania. Dalla famiglia, insomma, difficilmente si esce, dentro e fuori i confini ter-ritoriali. La scarsa incidenza delle misure adottate nella sfera creditizia, ove autofinanzia-mento e risparmio familiare hanno il sopravvento, non fa che confermare l’elevatezza deirischi insiti nel quadro generalizzato dell’economia dell’incertezza, sino a lambire la sogliadella corruzione. E questo nonostante l’incremento del numero delle banche commerciali.

A completare il quadro relativo all’attività d’impresa, V. Massari ha tracciato lelinee di un primo bilancio sull’entità dell’Impresa italiana in Albania. Tra le realtàimprenditoriali straniere, quella italiana detiene il primato, in quanto a numero di unitàproduttive. Della storia decennale dell’impresa italiana si evidenziano gli aspetti piùsignificativi, quali la tipologia, l’associazionismo, il rapporto con le istituzioni locali, ita-liane ed internazionali, il fattore lavoro, l’organizzazione del credito.

L’analisi dei Processi di adeguamento all’economia di mercato del settore agricolooffre a M. Distaso l’occasione più favorevole per esercitare le sue capacità critiche,basate su alcuni fondamenti della teoria economica, in ordine alla natura del processodi transizione in atto in Albania. Per l’interpretazione dei meccanismi di mercato,Distaso risale ad Adam Smith e alle sue regole, che hanno a fondamento i principi eticiuniversalmente accettati, ed in compagnia di Hirschman ricalca il concetto di “disso-nanza cognitiva”, calato in un contesto caratterizzato da un processo di sviluppo“disordinato” rispetto alle formulazioni “moderne” dei modelli classici. In linea con ilconcetto hirschmaniano, l’autore del contributo, dotato di sensibilità storico - dottrina-ria, affronta con spirito sereno l’intreccio delle problematiche che sono alla base dellafase di transizione da una economia pianificata ad una economia di mercato. Per con-cludere, Distaso esprime la convinzione che se si riuscisse a fare crescere, attraverso l’a-dozione di sistemi razionalizzati, la produttività delle imprese agricole, la crescita delreddito pro capite sarebbe assicurata e con essa lo sviluppo umano e civile.

Le idee di fondo e la loro possibile estensione ad un certo numero di casi concreti,l’esemplificazione storica delle problematiche in atto, la correttezza dell’approccio meto-dologico fanno del contributo di Distaso, come dell’intera raccolta di saggi, un punto diriferimento obbligato per comprendere il portato di una svolta cruciale, come è quelladell’economia albanese e di gran parte dei sistemi economici dell’area balcanica.

GIUSEPPE DE GENNARO

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Sul periodico aumento delle popolazioni, di Luca de Samuele Cagnazzi; Edizione criticaed introduzione di Marco Santillo, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici; Napoli2003.

Gli studi di Luca de Samuele Cagnazzi e la questione demografica, sono l’argo-mento dell’ottimo testo curato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a cura diMario Santillo. Il Cagnazzi, “scienziato sociale”, studiò le variabili demografiche delRegno. Per questa ragione la riedizione critica che il presente testo fa della sua memo-ria “Sul Periodico aumento della popolazione” rappresenta un’utile occasione diapprofondimento della materia demografica.

La riedizione critica ed annotata della memoria ha posto in risalto una teoria eco-nomica che fu propria degli illuministi e dei risorgimentali italiani. Una teoria che vede-va in Cagnazzi un convinto precursore dell’impraticabilità delle politiche popolazioni-ste senza una parallela crescita della produzione industriale e agricola e, quindi, senzaun miglioramento delle condizioni economico – sociali. La variabile demografica erafrutto di tre fattori: 1) nascite, 2) decessi, 3) matrimoni, e variava in funzione dei fatto-ri produttivi a disposizione. In tal senso Cagnazzi non prescindeva dagli studi di Geno-vesi e Galiani, i quali proponevano uno sviluppo demografico, al contempo, causa edeffetto dell’ordine sociale e del benessere economico, che avrebbe consentito a tutti ilavoratori di godere i frutti del proprio lavoro.

Il testo si apre con un’ampia nota introduttiva sulla vita di Cagnazzi i cui annicoincisero con eventi di rilievo, quali l’esperienza repubblicana del ’99, la reazione san-fedista, il governo napoleonico, la restaurazione ed i moti del 1820-21 e del 1848 che lovidero protagonista o attento osservatore.

Nato e cresciuto ad Altamura sotto la tutela del marchese Carlo De Marco, che dilui fu istruttore, completò gli studi universitari nella sua città, indi si trasferì a Napoli doveebbe modo di dialogare con il meglio della cultura napoletana per poi tornare ad Alta-mura occupando la cattedra universitaria di “Matematica, Fisica e Filosofia naturale”.

Coinvolto, forse non in modo del tutto convinto, nell’esperienza repubblicana del’99, dopo il suo precoce epilogo fu costretto ad un doloroso esilio, trovando rifugio aFirenze ove divenne socio dell’Accademia dei Georgofili e nominato docente della cat-tedra di Economia nell’Università fiorentina.

Riebbe nuove soddisfazioni con il periodo napoleonico potendo tornare a Napolied elaborando un progetto di una “Società nazionale del bene pubblico”, precursoredel “Real Istituto di Incoraggiamento” di Napoli. Curò anche, con il governo di Muratdi cui divenne un fidato consigliere, una “Statistica Generale del Regno”. Fu assertoredel libero scambio, riuscendo anche a far autorizzare, dal regnante Murat, svariatelicenze commerciali, in deroga al blocco e attuando, in pratica, una forma legalizzata dicontrabbando.

Il ritorno dei Borbone, anche per le pressioni del Congresso, non fu seguito dauna repressione particolarmente cruenta ed il Cagnazzi trascorse indenne il tempo delleepurazioni occupandosi di saggistica e realizzando un testo assai apprezzato: “Sullatemperatura di Napoli” dove si cimentò anche nelle apprezzare vesti di metereologo.

Senza svolgere alcun ruolo attivo, ma in maniera convinta, partecipò ai moti del

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’20-21. Al loro fallimento, però, non poté questa volta sottrarsi alle epurazioni perden-do finanche il beneficio di una pensione minima. Pur in ristrettezze economiche, riuscìa dare alle stampe un saggio “Sulla popolazione del Regno in Puglia”

Furono i moti del 1848 a restituire al Cagnazzi, ormai anziano, un nuovo ruoloattivo. Infatti, in qualità di membro più anziano, fu nominato reggente del “Comitatodi Pubblica Sicurezza” con sede, a Napoli, in via Monteoliveto. Tale carica fu causa delsuo definitivo esilio che terminò solo negli ultimi anni della sua vita. Pur potendo tor-nare a Napoi fu però sottoposto alle umiliazioni degli arresti domiciliari, senza sussidi esotto la scure di un processo cui lo sottrasse solo la morte, evitandogli il dolore di unacondanna che arrivò comunque postuma.

Il suo rappresentò un classico caso di dissociazione tra i Borbone e la borghesiailluminata. Dissociazione che indeboliva, inesorabilmente, la Corona, cui alla metà delXIX secolo bastava solo una spallata per cadere, essendo isolata dentro e fuori il pro-prio Regno. I Borbone non riuscirono mai a capire le profonde ragioni di una borghe-sia, che chiedeva spazio nel chiuso panorama sociale occupato, in prevalenza, da ari-stocratici e clero, insensibili ad ogni riforma che potesse mettere in dubbio il loro pote-re. Fattore importante furono quelle che il Santillo chiama “le napoleonici”, ossia quel-l’insieme di riforme attuate dai francesi, con Giuseppe Bonaparte prima, ma soprattut-to con Murat dopo. Nel 1806, ad esempio, furono realizzate importanti riforme politi-che e sociali. Era necessario formare una nuova classe sociale, una nuova forma di bor-ghesia attiva con un ruolo guida nel Regno ed in tal senso la legge abrogativa del feu-dalesimo fu accolta con notevole entusiasmo. Anche se nella realtà non determinò l’ef-fettiva scomparsa del feudalesimo, è indubbio che alimentò la crescita di un nuovo cetodi proprietari terrieri. Ma il periodo riformista fu sempre interrotto da bruschi ritornialla realtà conservatrice e reazionaria ed il “grido di dolore” lasciò insensibili i regnan-ti sempre tentati dai rigurgiti repressivi.

Il secondo capitolo del testo illustra i capisaldi della riflessione teorica del Cagnaz-zi economista, e non manca un attento richiamo alle dottrine economiche dalla metàdel XVII e al XIX secolo. In tal senso, la crisi del 1764 formò uno spartiacque tra glieconomisti “di prima generazione” (Genovesi, Galiani, Filangieri) e la generazione suc-cessiva (Palmieri, Galanti, Longano). I primi affermarono le teorie mercantilistiche,mentre i secondi favorirono una fusione tra l’economia positiva (ciò che si dovrebbefare) e quella normativa (ciò che si può fare).

Il testo illustra gli scritti principali del Cagnazzi, economista “versatile ed ecletti-co”, oltre che studioso di pedagogia, storia del diritto, scienze naturali e statistica. Nelcampo della teoria economica, Cagnazzi elaborò una teoria che scindeva il prezzo natu-rale (dato da costi di produzione e trasporto) dal prezzo corrente, frutto della contratta-zione di mercato. Molto lucide le teorie monetarie, con il principio che la massa di dena-ro dovesse essere sufficiente a garantire il commercio del paese. Inoltre, se il benesseredi una nazione dipendeva dalla forbice tra produzione e consumo, il capitale accantona-to diveniva una sorta di “consumo differito”. Nel 1806, fu pubblicata “La Mappa stati-stica”, un’opera in cui il Cagnazzi studiò il censimento degli uomini abili alle armi.

Alla materia demografica, l’economista prestò molta attenzione. Affermò che l’in-cremento della popolazione avrebbe innalzato il livello della ricchezza nazionale e tale

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teoria era in parte già nota nel Regno essendo stata trattata da economisti come Petty ,D’Aveunont e Melon.

In Francia, trovavano consenso le teorie popolazioniste che videro nella crescitademografica un vantaggio economico, ma anche militare. Per la scuola demografical’aumento della popolazione doveva essere sorretto, in uguale proporzione, dalla pro-duttività agricola, industriale e commerciale. In caso contrario, le risorse pro-capitesarebbero diminuite, rendendosi necessaria l’invasione di altri paesi con la guerra o conl’emigrazione. Per tale ragione, in Francia, si prestava attenzione al colonialismo comemezzo di impiego delle risorse umane in produzioni di beni e risorse compatibili e utiliall’economia della madrepatria. Il popolazionismo era un elemento fondamentale nelmercantilismo, che vedeva nell’uomo una risorsa”quantitativa” per il paese. La fisiocra-zia, che, dalla metà del ‘700, sostituì il mercantilismo, capovolse questa concezione,vedendo nell’agricoltura la chiave dello sviluppo economico. L’incremento demograficonon poteva essere una variabile indipendente, bensì un fattore in stretta relazione conla produzione agricola. Genovesi, in tal senso, nelle sue “Lezioni di Commercio”, espo-se il concetto della “giusta popolazione”, ossia quella che un paese «per la sua esten-sione, clima e bontà, per sito e l’ingegno degli abitanti, può alimentare». Lo stesso inte-resse per la materia lo dimostrò Galiani nel suo “Della Moneta”, pubblicato nel 1750.Da segnalare anche Jannacci e Palmieri, nonché Filangieri, che, nella sua “Scienza dellaLegislazione”, scriveva: «Tutto quel che rende difficile la sussistenza, tende a diminuirela popolazione».

La parte centrale del testo entra nel vivo dell’argomento con la trattazione analiti-ca del pensiero di Cagnazzi. Erano tre le variabili demografiche: le nascite, i decessi esoprattutto i matrimoni, questi ultimi da preferirsi tra persone abbienti, perché avreb-bero potuto proliferare con maggior tranquillità. Cagnazzi si pose in antitesi con la teo-ria di Malthus, considerato un luminare della materia, il quale considerava la massa deibeni disponibili come il tetto oltre il quale non potesse spingersi il livello della popola-zione, anche a costo di attuare una politica di “birth control”. Cagnazzi, nel Regno, potégodere di un credito più ampio proprio perché rigettò da subito tale politica piuttostoinvisa al clero. Non era necessario ancorare la crescita demografica, bensì spingere aimassimi livelli la produzione agricola. Dopo aver soddisfatto i bisogni primari, l’uomoavrebbe potuto dedicarsi a quelli “dell’intelletto e dell’animo”, favorendo un “ordinesociale” che avrebbe reso possibile il libero esercizio delle “libertà individuali”. ComeDavid Ricardo, Cagnazzi, confidava nell’ingegno e nella tecnologia, più che nella gene-rosità del suolo, destinata a decrescere con la progressiva messa a coltura. In tal modo,sarebbe stato possibile un controllo quantitativo della produzione al fine di evitare crisideflattive che avrebbero posto il prezzo di mercato al di sotto di quello naturale.

Il nodo centrale della sua teoria era la “formula del prodotto industriale” al cuinumeratore pose il tasso d’impiego del travaglio produttivo, l’intelligenza, il grado diutilizzazione degli altri fattori (terra e capitali), l’insieme delle circostanze naturali. Taleprodotto era inversamente proporzionale agli ostacoli – fisici, politici e morali – posti aldenominatore.

Il testo illustra ottimamente tale teoria, ponendo in relazione i singoli coefficienti,analizzandone le interazioni. Comparata ad essa Cagnazzi elaborò anche la “Teoria

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degli stadi di sviluppo”, secondo cui il vivere sociale sarebbe andato progressivamentemigliorando grazie al raggiungimento, da parte degli individui che compongono la col-lettività, di graduali conquiste di benessere.

In appendice al commento dell’opera del Cagnazzi, il curatore ha inserito il testooriginale del “Periodico aumento delle popolazioni”, la Memoria letta, nella R. Accade-mia delle Scienze di Napoli, il 16 aprile 1819. In esso sono esposte le tabelle e le dimo-strazioni matematiche alla teoria di Cagnazzi. Il lettore potrà trarne un sicuro interessedal rileggere la dialettica originale, la convinzione dimostrativa e la lucidità culturalecon cui l’Autore espose le sue teorie.

L’intento del testo curato dal Santillo, è pienamente raggiunto nel momento in cuial lettore viene trasmessa ed evidenziata la primaria convinzione di Cagnazzi, ossia chela buona produzione agricola, un’attività produttiva sapientemente distribuita tra idiversi settori produttivi ed una nutrita produzione avrebbero assicurato al Regno, oltrealla prosperità interna, anche un ruolo importante nel commercio (e quindi nella poli-tica) internazionale.

STEFANO BORGNA

G.M.C. LECOUR, Una scommessa per l’America latina. Memoria e destino storico di uncontinente, casa editrice Le Lettere, Firenze, 2003.

In questi mesi i temi – cruciali e ricchi di spessore storico ed economico – che gra-vitano attorno all’America Latina si sono arricchiti di due importanti avvenimenti. Ilprimo – assai noto – è il ricordo del trentesimo anniversario della morte del presidenteSalvador Allende e l’instaurarsi in Cile della dittatura militare di Pinochet. Il secondo– forse meno noto ma altrettanto rilevante – è la conferenza internazionale di Cancunin Messico promosso dal WTO – l’Organizzazione Mondiale del Commercio – cheraduna i rappresentanti di 146 nazioni provenienti da tutti i continenti del pianeta.

Ed in effetti questi due avvenimenti toccano due pregnanti questioni che fin dalleprime pagine del bel libro di Carriquiry Lecour sono di gran lunga trattate: la demo-crazia e lo sviluppo economico. Infatti democrazia e sviluppo economico fanno dacanovaccio all’intero volume, intrecciandosi e completandosi a vicenda, insieme all’al-tro fondamentale tema ampiamente analizzato nel libro che è la cattolicità. Proprio per-ché l’autore si muove con perizia e ricchezza di argomenti entro questo preciso oriz-zonte, mi sembra corretto soffermarmi su come in particolare oggi democrazia e svi-luppo economico possano concorrere a creare una società più giusta e umana in Ame-rica Latina.

Ai fini della scelta di un termine di confronto adeguato e persuasivo su comedemocrazia e sviluppo debbano intendersi e assiduamente intrecciarsi, l’autore sentel’esigenza di richiamarsi all’indice di libertà sostenibile teorizzato dall’economistaAmartya Sen, premio Nobel dell’Economia nel 1998. Questo parametro, in varie sediinternazionali presentato e ampiamente discusso ed apprezzato, vuole superare una let-tura meramente economicista del progresso di una civiltà, basata soltanto sui risultaticonseguiti dal prodotto interno lordo. In particolare l’esigenza di un tale superamento

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si è avvertita ancora più forte dopo gli attentati alle torri gemelle dell’11 settembre2001: mai come in quella tragica occasione si è visto che qualsiasi area del mondo –anche quella che risultava nell’ambito delle statistiche economiche internazionali la piùpotente economicamente e militarmente – è vulnerabile in qualsiasi momento. All’in-terno di questo scenario – in continuo mutamento – risulta dunque essenziale una piùcomplessiva e nuova definizione dell’idea di progresso economico di una determinatasocietà, che vada ben oltre letture meramente economiciste.

Il parametro elaborato da Sen ambisce a comprendere al suo interno molteplicifattori, tra cui i principali sono il reddito pro-capite, l’aspettativa di vita, il rispetto dellalegalità, la discriminazione nei confronti del sesso femminile, l’istruzione. Nella visionedi Carriquiry proprio quest’ultimo elemento – l’istruzione – segna più di ogni altro lamarcata differenza fra l’America Latina e le aree più sviluppate del mondo. E d’altraparte non potrebbe essere diversamente: come è noto, oggi la tecnologia è il vero moto-re della storia, tanto che si è parlato di un’era profondamente caratterizzata dalla cono-scenza e dall’informazione. In particolare, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazio-ne, il vero fattore discriminante fra una società sviluppata e una segnata dall’arretratez-za non è la disponibilità o meno di determinate materie prime, ma è invece l’acquisi-zione e l’utilizzo appropriato di un aggiornato patrimonio di conoscenze in grado dimettere a frutto il massimo delle opportunità e risorse reperibili anche in zone remotegeograficamente.

Né con il trascorrere del tempo il divario tra chi possiede il sapere tecnologico e chinon lo ha è destinato a rimanere sempre lo stesso. Infatti nell’evoluzione del nostromondo globalizzato il solco educativo e tecnologico – senza opportune strategie di inve-stimenti nei Paesi più poveri – è destinato a divenire sempre più profondo. Basti pen-sare – solo per citare alcuni dati – che mentre nel nostro mondo ricco abbondano digiorno in giorno le innovazioni tecnologiche e le continue esaltazioni ai riferimenti allarivoluzione delle comunicazioni e dell’informatica, circa il 60% della popolazione mon-diale non ha mai fatto una telefonata e circa un terzo non ha accesso all’elettricità.

Certo fa riflettere che proprio coloro che sono i più vivaci sostenitori dei processidi globalizzazione in atto sono allo stesso tempo tra i più tenaci oppositori alla liberacircolazione degli individui – in particolare dei giovani provenienti dai Paesi in via disviluppo – al fine di consentire che queste persone possano formarsi culturalmente eapprendere nelle nazioni economicamente più sviluppate il tanto pubblicizzato nuovosapere tecnologico. Chi scrive sperimenta di persona – con una qualche amarezza – dianno in anno la progressiva provincializzazione delle università italiane – e fra questesoprattutto di quelle campane – che sempre più impongono umilianti restrizioni e vin-coli insopportabili nei confronti degli studenti che provengono dalle aree più svantag-giate del pianeta.

Con quanto appena rilevato non si vuole in alcun modo demonizzare il processo diglobalizzazione in atto: la globalizzazione è da intendere come un fattore reale, struttu-rale, ineliminabile. Ma è allo stesso tempo un processo che deve essere accuratamentee tempestivamente guidato e coordinato su base internazionale, soprattutto per evitareche la violenza dell’economia faccia il suo corso, accentuando disuguaglianze e ingiu-stizie fra un ristretto mondo ricco e un sempre più esteso mondo povero. Infatti – è

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bene ribadirlo con nettezza - l’economia da sola, se non è saldamente guidata, è violen-ta e tende ad acuire ancor di più le differenze piuttosto che armonizzarle.

Proprio al fine di mediare e – perché no – di cercare di arginare il processo di glo-balizzazione in atto, vaste aree del mondo si vanno attrezzando, in primo luogo realiz-zando processi di integrazione e riorganizzazione delle loro economie. La motivazioneessenziale che spinge a tale ristrutturazione in corso è la ferma convinzione che soltan-to organismi su scala regionale – e ancor di più continentale – siano in grado di rende-re compatibili e complementari le diverse economie delle varie nazioni aderenti, e dicontrattare adeguatamente con altre vaste aree del mondo. L’Unione Europea, cheaffonda le sue origini nei trattati di Roma del marzo del 1957 ne è un esempio illumi-nante, da cui tra l’altro l’Italia stessa ne ha tratto enormi vantaggi economici. Ma altriaccordi di questa natura sono facilmente riscontrabili in Asia, e più recentemente nelcontinente americano.

In particolare, l’attenzione dell’autore si concentra sull’accordo che nell’area del-l’America Latina ha segnato la nascita del Mercato comune del Sud (Mercosur). Taleaccordo è così importante da essere considerato come la prima forma di Stato conti-nentale sudamericano. Attualmente il Mercosur rappresenta un mercato comprensivodi 250 milioni di consumatori, con un’estensione del territorio intorno ai 12 milioni diKmq, e con un grande potenziale di ricchezza produttiva da esportare. In essi vi sonocompresi Paesi fondamentali quali l’Argentina e il Brasile, ma anche realtà nazionali piùpiccole, che possono comunque grandemente giovarsi di una politica di integrazionedelle proprie economie.

D’altronde nell’arco di un decennio i risultati positivi non sono mancati a verifi-carsi: i Paesi aderenti al Mercosur hanno ottenuto un significativo ridimensionamentodell’inflazione, alcuni di essi hanno conseguito importanti successi di crescita economi-ca, oltre a dare vita a importanti progetti di costruzione di nuovi mezzi infrastrutturali,in primo luogo stradali e ferroviari su scala intercontinentale. E anche laddove si sonomanifestate gravissime crisi – si pensi soltanto a quanto è accaduto poco tempo fa inArgentina – nell’insieme le istituzioni democratiche hanno mostrato – a differenza dialtre volte – una buona capacità di tenuta, riuscendo a reggere l’urto provocato dall’in-nescarsi di pesanti congiunture economiche. Ed in effetti se qualche insegnamento sipuò trarre dalla tragica esperienza argentina è che comunque, malgrado tanti problemi,la democrazia si è rivelata nei fatti il migliore motore per cercare di riprendere la viadella stabilità e dello sviluppo. Inoltre, – pur tra tentennamenti e timori – si sono messiin moto meccanismi di solidarietà e di aiuto reciproco fra i vari Paesi aderenti chehanno ancor di più rafforzato la rotta dell’integrazione e armonizzazione degli interessieconomici. Certo molta strada vi è ancora da compiere, soprattutto nella volontà – piùdecisa che nel passato – di trasformare singoli mercati nazionali in mercati integrati,completando l’eliminazione delle barriere doganali al fine di fare sì che il Mercosur sipossa sempre più caratterizzare come un unico grande mercato comune.

Motivi comunque di ragionato ottimismo non ne mancano, anche perché l’accor-do – come si è evidenziato in precedenza – ha conseguito importanti successi. Ma risul-ta pressoché scontato e consequenziale che un accordo di tale natura non può guarda-re soltanto all’interno della cerchia dei Paesi aderenti, ma deve necessariamente fare i

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conti con l’esterno, segnatamente con le altre aree integrate del mondo e con i grandiorganismi economici internazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale, la BancaMondiale e la già citata Organizzazione Mondiale per il Commercio.

In primo luogo tale accordo mette in primo piano l’evoluzione delle relazioni traAmerica Latina e America settentrionale, che come è noto storicamente sono spessostate segnate da forti incomprensioni e mortificanti subordinazioni, tanto da sfociare inalcuni casi in accese conflittualità. Un’eredità che ha lungo condizionato il passato èstata la diversa interpretazione e applicazione della dottrina di Monroe: gli Stati Unitid’America, proclamando nel 1823 la non intromissione europea nelle faccende dell’in-tero continente americano, si sono assicurate per lunghi decenni l’espansione economi-ca e l’influenza politica in gran parte del sub-continente latinoamericano.

È pressoché impossibile che oggi i rapporti possano continuare a essere instauratisulla base della dottrina di Monroe, anche perché la stessa storia delle relazioni fra le dueparti del continente – segnata in più occasioni da crisi ed eventi traumatici, si pensi sol-tanto alla crisi di Cuba agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso – ha dimostratol’insostenibilità di potere dare vita a duraturi processi di integrazione e di pacificazione.L’autore dunque avverte l’esigenza che sia impressa in fretta una svolta alle relazioni frale due parti. Né l’alternativa è rompere drasticamente qualsiasi tipo di relazione con l’e-misfero più ricco del continente: è sotto gli occhi di tutti che da soli i Paesi latinoameri-cani non potranno mai farcela. Basti pensare ancora una volta alla drammatica crisiargentina, o al fatto che in seguito all’emarginazione dal commercio mondiale il calodella partecipazione dei Paesi latino americani alle esportazioni internazionali è stato viavia più netto, tanto da passare dal 10,9% nel 1950 ad appena il 3% nel 1990.

Un modo nuovo di intensificare i rapporti fra le due aree del continente è la crea-zione dell’area di libero commercio delle Americhe (Alca). In particolare tale progettoha conosciuto un rinnovato slancio sotto la presidenza Clinton. In realtà l’Alca è unprogetto molto ambizioso e di grandi dimensioni e pertanto necessita di molto tempoprima che si possa pienamente realizzare. Tuttavia le motivazioni a che si intraprendafino in fondo questa strada non mancano: si pensi al solo dato che con essa si potrebbecostruire un immenso e assai variegato mercato di 791 milioni di persone. Per i Paesilatino americani, poi, si tratterebbe di potere accedere al mercato più importante delmondo, quale è appunto quello nord-americano. È un progetto che raccoglie grandientusiasmi, anche perché in tal modo si andrebbe a costituire il maggior blocco econo-mico-regionale del pianeta, ma che allo stesso tempo richiede una buona dose di corag-gio e di rischio nell’accettare da entrambi i versanti del continente le novità – prevedi-bili o meno – imposte da accordi così estesi e onnicomprensivi.

Se i rapporti con l’America settentrionale – e in particolare con gli Stati Uniti d’A-merica – hanno una grande centralità, non sono assolutamente da trascurare le relazio-ni – altrettanto centrali – con l’Europa. Il vecchio continente ha contribuito largamen-te all’affermazione di modelli occidentali in America Latina: anzi è legittimo affermareche il sub-continente latino americano ha mantenuto vincoli storici e culturali moltopiù intensi con l’Europa occidentale piuttosto che con gli Stati Uniti. Inoltre, anchequando gli Usa hanno assunto un ruolo egemone nell’intero continente, l’America Lati-na ha continuato a mantenere intensi contatti e legami con l’Europa, contatti e legami

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ulteriormente rafforzati in seguito alla massiccia immigrazione europeo-mediterranea.Infine, le stesse modalità di partecipazione politica sembrano maggiormente accomu-nare l’America Latina all’Europa. Spesso nei Paesi latinoamericani il coinvolgimentodei cattolici alla vita politica è stata strutturata alla stessa maniera così come avveniva oavviene in varie nazioni dell’Europa, si pensi alla Spagna, all’Italia e alla Germania.

Pertanto, all’interno di questo scenario caratterizzato da fortissimi legami, le rela-zioni tra Mercosur e Unione Europea sono da ritenersi assolutamente centrali. Tuttavia,qui è in gioco tutto il ruolo di grande potenza – perché no anche e soprattutto econo-mica oltre che politica e culturale – che l’Europa è chiamata ad esercitare. Infatti siriscontrano da vaste zone del mondo – soprattutto dalle aree più svantaggiate – grandiattese e aspettative verso il vecchio continente, anche se forse noi europei siamo spessopresi da una logica di ripiegamento e di paura del rischio, tanto da fare fatica a render-ci direttamente promotori o partecipi di situazioni particolarmente inedite e innovative,o quando esse si verificano – indipendentemente dalla nostra volontà – rifiutiamo diconfrontarci.

Ed in effetti l’autentico banco di prova tangibile di quanto si va ragionando è pro-prio l’accettazione da parte degli europei, ma anche degli statunitensi, di fare sì che neipropri mercati possano penetrare liberamente i prodotti agricoli latinoamericani. Laquestione agricola per i Paesi in via di sviluppo, quali sono appunto le nazioni latinoa-mericane, è di assoluta rilevanza: tuttavia ciò che colpisce è che in Europa, come negliUsa, si fa un gran parlare di nuove tecnologie e di incontrastata egemonia dell’era infor-matica, ma si continua a tenere in piedi in modo assai pervicace un sistema basato sul-l’innalzare artificiosamente i prezzi agricoli, il quale è fortemente dannoso per i Paesi invia di sviluppo. Tale sistema poggia essenzialmente su due cardini: i sussidi offerti agliagricoltori europei e la contemporanea chiusura dei mercati. Entrambe le misure impe-discono di fatto che i prodotti latinoamericani possano entrare nei mercati europei e inbuona parte in quello statunitense.

A questo punto sembra più che lecito porsi degli interrogativi di fondo: se l’Euro-pa aspira ad esercitare un’influenza su scala mondiale – come d’altronde sarebbe viva-mente auspicabile visto il ruolo fortemente dinamico esercitato nel corso della storia ela vitalità economica di cui attualmente pur tra vari problemi è dotata – deve farsi cari-co dei problemi dell’America Latina, come di altre aree svantaggiate del mondo, rinun-ciando alla mera difesa di interessi di parte, abbattendo al proprio interno roccafortieconomicamente protette, e facendo in modo che nel mondo sia sempre più possibileuna progressiva liberalizzazione dei mercati e un sistema di scambi commerciali basatisulla multilateralità. D’altronde la stessa storia del processo di integrazione europea, dacui noi italiani abbiamo tratto e traiamo ancora oggi pace e crescente benessere, si ècaratterizzato per il prevalere di economie aperte e l’abbandono di politiche protezio-niste.

Ma a questo punto appare quanto mai opportuno porsi alcuni interrogativi difondo, senza tentennamenti di sorta: si tratta soltanto di un atto di deliberata generositàe di straordinaria magnanimità che i Paesi più ricchi devono compiere nei confronti deiPaesi in via di sviluppo? Insomma noi europei siamo davvero irreparabilmente danneg-giati dalla progressiva apertura dei nostri mercati nei confronti dei prodotti che vengo-

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no dai Paesi dell’America Latina come da altre aree del mondo, quali l’Africa e il MedioOriente? È bene sollevare queste domande con onestà e franchezza, anche per liberar-ci una volta e per tutte da presunti sensi di bontà o ancor peggio da ipotetici atti disacrificio che ci dovrebbero spingere ad adottare simili misure!

Ebbene, la verità è profondamente diversa. L’ultimo rapporto della Banca mon-diale – dunque una fonte sicuramente non sospetta perché come si sa si tratta di unorganismo internazionale dominato dai Paesi più ricchi del pianeta – smentisce secca-mente un’interpretazione così benevola e unilaterale. Questo rapporto mette in tuttaevidenza che conviene senz’altro a entrambi – sia ai Paesi dell’occidente che ai Paesipoveri – una maggiore integrazione e armonizzazione delle proprie economie, incre-mentando scambi e relazioni reciproche, sia di merci che di persone. Infatti sempre inquesto rapporto si ipotizza che una riduzione delle tariffe doganali da compiersi in cin-que anni nella misura del 10% nei Paesi ricchi e del 15% in quelli poveri, accrescereb-be il reddito dei primi di 170 miliardi di dollari all’anno e quello dei secondi di oltre ildoppio, cioè di 350 miliardi di dollari, entro il 2015. In un simile contesto di progressi-va apertura dei mercati e di conseguente abbassamento dei dazi doganali su scala pla-netaria, il commercio mondiale potrebbe espandersi di un ulteriore 10% annuo e leesportazioni dei Paesi in via di sviluppo del 20%. Risultato: in poco più di un decennio140 milioni di persone potrebbero uscire dallo stato di povertà, mentre nei Paesi ricchiuna crescente quota di reddito disponibile potrebbe essere destinato all’acquisto diprodotti tecnologicamente avanzati. Inoltre l’uscita di un così vistoso numero di perso-ne dalla condizione di povertà determinerebbe effetti a catena, tra cui fra l’altro la pos-sibilità da parte delle nazioni ricche di dirottare crescenti quantità della propria produ-zione tecnologicamente avanzata nei Paesi in via di sviluppo, con la speranza di un rapi-do assorbimento.

Si concretizzerebbe in tal modo la scommessa non solo di un mondo più giusto edumano, ma di un’economia globalizzata più aperta e dinamica in una congiuntura eco-nomica – come quella presente – peraltro caratterizzata da una persistente fase di incer-tezza, se non di stagnazione e di espliciti timori per il futuro.

Da questo punto di vista il bel libro di Carriquiry Lecour illumina in modoapprofondito e al tempo stesso con uno stile gradevole e a tratti avvincente l’esigenzache di fronte alle sfide della globalizzazione si possano trarre risposte positive e fecon-de di prospettiva per sia un’area del mondo così vasta, come quella dell’America Lati-na, sia per l’intero nostro pianeta.

FRANCESCO DANDOLO

AA. VV., Alle origini della banca. Etica e sviluppo economico, a cura di Tommaso Fanfa-ni, Bancaria Editrice, 2002.

Una vera e propria storia delle origini della banca è quella che emerge dopo unaattenta lettura dei numerosi saggi raccolti nell’opera. Si discetta molto di più sullamoralità del comportamento degli operatori economici che sulle pratiche modalità dielargizione del credito. Si evidenziano, nei saggi raccolti, i primigeni motivi che porta-

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rono alla nascita ed all’inconfutabile successo dei monti di pietà, tra il XV sec. ed ilXVII, mentre si tralascia l’analisi dell’evoluzione dei singoli monti sorti nella penisola.

Due sono i focus principali della raccolta: in primo luogo, fornire al lettore (prefe-ribilmente ad un lettore in grado di cogliere i messaggi crittografati dietro ciascun sag-gio) una sapiente rielaborazione delle origini del credito attraverso lo studio della nasci-ta e l’evoluzione strutturale dei monti di pietà nel corso dei secoli; in secondo luogo,rimarcare le divergenze tra le pratiche usuraie dell’epoca e l’attività dei monti tesa allaconcessione di prestiti con tassi modici alle persone più bisognose. Il fine ultimo èallontanare, definitivamente, dal lettore le attuali insinuazioni che vedono le operazionidi finanziamento bancario come delle pratiche usuraie con tassi di interesse a livelli net-tamente superiori a quelli legali.

L’idea alla base dell’opera è, infatti, quella di allontanare siffatte insinuazioni dalpubblico dei risparmiatori: se oggi si parla tanto di banche “usuraie” gli studiosi rifa-cendosi ad altri eminenti personaggi mostriamo l’inconsistenza delle attuali accuse,mostrando le origini etiche del credito e l’eticità che ha sempre accompagnato l’opera-tore economico giusto. La sporadicità di alcuni casi bancari del passato non deve getta-re fango su un’istituzione, che tanto ha fatto per incentivare lo sviluppo economico el’aumento di benessere della popolazione.

Efficace la tecnica escogitata, per una migliore comprensione dei brani, di intro-durli con una breve nota biografica dell’autore ed una piccola parentesi introduttiva.

Nei secoli precedenti la nascita dei monti, il cristianesimo cominciò a considerarela necessità di un istituzione, che combattesse il flagello dell’usura andando incontroalle necessità delle classi più deboli. La rigidità delle denunce cristiane contro l’usura,fu poi fortemente attenuata, proprio nei secoli in cui più vivida fu l’attività dei monti. Iseguaci dell’ordine francescano, a cui si deve la nascita dei monti, furono interessati asostenere la diffusione dei monti nei diversi stati regionali della penisola piuttosto checontinuare nell’opera sterile di univoca persecuzione delle pratiche usuraie. Ciò con-sentì che per lungo tempo il fenomeno dell’usura fosse tollerato, anche se la grossacompetitività dei tassi praticati dai monti portò gradualmente ad un automatico restrin-gimento del fenomeno.

I primi monti esordirono, nel XV secolo, effettuando prestiti dietro garanzia dioggetti preziosi ad un plafond abbastanza ristretto di persone. Si trattava di personepovere, ma non poverissime, che richiedevano denaro in prestito per il soddisfacimen-to di primari bisogni e, molto spesso, per investire in piccole attività artigianali e mani-fatturiere. Il capitale del monte era costituito da donazioni e da depositi pubblici e pri-vati. Il risultato che si ripromettevano i monti ed i loro più strenui sostenitori era di eli-minare quanto più possibile l’enorme gap economico-sociale esistente allora tra ricchi epoveri. A partire dal Quattrocento, nel giro di un secolo circa, i monti di pietà si distri-buirono in tutte le principali città della penisola diventando parte significativa deimutamenti politici, economici e sociali che si registrarono un po’ in tutta Europa esegnando il passaggio ad un’economia capitalistica. Non bisogna sottovalutare che lapenisola italiana stava attraversando un intenso periodo di floridezza economica. Perl’intensificarsi degli scambi, anche sul piano internazionale, il Mediterraneo generò unaclasse di agiati mercanti ed imprenditori, che si andarono ad affiancare alla classe dei

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1 Vedi il saggio di HERIBERT HOLZAPFEL, Moneta e povertà: il lungo cammino dei Monti, pp.117-167.

disagiati. Fu proprio questo dualismo che generò l’esigenza di creare un’istituzione chesostenesse le categorie più deboli.

Dopo il saggio introduttivo di Tommaso Fanfani, che passa in breve rassegna isaggi della raccolta antologica, mostrando al lettore le dinamiche interne che hannoispirato l’impianto dell’opera, il volume offre immediatamente una panoramica com-pleta e molto articolata sulle origini del credito e la sua inconfutabile eticità attraversouna sequenza di brani alquanto “datati”, a volte un po’ complessi, ma estremamenteefficaci a delineare un quadro esauriente sulla realtà creditizia remota.

Dai libri dell’Antico Testamento, ai filosofi di età classica, agli evangelisti, fino aipadri della Chiesa ed agli scolastici, tutti gli antesignani della nascita dei monti soste-nevano il principio aristotelico della “sterilità del denaro”, per cui condannavano qual-siasi forma di anticipo di denaro volta all’interesse egoistico del profitto. Il superamen-to di simili rigidità avvenne molto lentamente, e precisamente, il punto di rottura contale tesi si deve al grande aquinate (S. Tommaso d’Aquino) che portò avanti, con gran-de successo, la tesi dell’utilità del credito per lo sviluppo economico di un paese. Inparticolare, riguardo al concetto di usura, rispetto al passato la rivoluzione dell’aquina-te fu di aver accettato l’interesse in sé come forma remunerativa spostando la condan-na al modo in cui l’interesse può essere ottenuto.

Spicca, per ricchezza di aneddoti e completezza di analisi, il saggio di HeribertHolzapfel (Moneta e povertà: il lungo cammino dei monti) commentato da TommasoFanfani. La panoramica abbastanza esauriente dei monti sorti nel XV secolo insiemealla particolareggiata analisi della loro evoluzione strutturale fino alla trasmissione brevimanu della loro mission alle moderne casse di risparmio è il risultato finale del saggio.

I monti di pietà sorsero, tra il XV ed il XVI secolo, per opera, soprattutto, deiseguaci di San Francesco D’Assisi. L’interesse come forma remunerativa del capitalenon veniva totalmente condannato tanto che, secondo fonti documentarie autorevoli,sin dal primo monte, sorto a Perugia, i prestiti venivano concessi a persone bisognosedietro pagamento di un modico interesse. L’interesse richiesto oscillava fra il 4 ed il 12per cento ed era sempre meno oneroso rispetto ai tassi praticati dalle “antiche usure”.Secondo i primi statuti, al momento del riscatto del pegno doveva corrispondersi l’in-teresse. I monti ebbero origine proprio per combattere l’usura che era severamente per-seguita dalla Chiesa.

La sequenza di saggi che costruisce l’impianto dell’opera è dettata da scelte inca-suali che abilitano ad una lettura che esige un ritmo estremamente serrato lasciandopoco spazio alle distrazioni e insinuando nel lettore profonde riflessioni.

In particolare, colpisce la centralità del saggio di Heribert Holzapfel1 che analizzail periodo immediatamente antecedente la nascita dei monti, la nascita di questi ultimied il loro processo evolutivo con tutti i dibattiti sollevati sull’argomento. La corpositàdel testo risponde alle notevoli ambizioni dell’autore di fornire un esauriente studio suimonti di pietà. In particolare, lo studioso si concentra sul XV secolo e sull’analisi dei

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2 Per il concetto di “educazione al risparmio” come uno dei principali effetti beneficiderivanti dalla diffusione dei Monti nei piccoli centri si veda il saggio di Filippo Marongiu, pp.169-193.

3 Cfr. G. GARRANI, Dai monti alla banca moderna, pp. 233-257.

precursori e dei primigeni monti di pietà. I lontani precursori dei monti di pietà erano,in effetti, delle istituzioni di beneficenza, senza alcun fine di lucro, che si accontentava-no di ottenere la restituzione della somma prestata senza conteggiare alcun interesse.Questi precursori non ebbero, però, un felice riscontro, poiché spesso consentironograndi privilegi ai propri depositanti e furono accusati di favorire, per questo, l’oziosità.La cattiva riuscita di quei”precursori” portò, intorno alla metà del XV secolo, al gene-rale rimpiazzamento con istituti di prestito durevoli che ricevettero poi il nome di“Montes Pietatis”.

Segue il saggio di Filippo Marongiu, che si concentra su quel delicato periodo (apartire dal XVII secolo) in cui il processo di diversificazione portò lentamente ad assi-milare sempre più i monti a degli ordinari istituti di credito. L’evoluzione dei montipassa attraverso varie fasi: dapprima il prestito era concesso dietro pegno di oggetti, poigradualmente si passò ad un prestito ad interesse, affinché i costi di gestione non intac-cassero il patrimonio ed i capitali. Alla fine dell’Ottocento, oltre ad esigere un interes-se, i monti prestavano denaro a tutti, esercitavano cioè una forma ordinaria di credito.Sul finire del XIX secolo, svolgevano ormai un importante ruolo economico nei picco-li centri dove le classi meno abbienti ricorrevano raramente al deposito bancario. Fuproprio lì che cominciò una stimata opera di educazione al risparmio2.

In che momento e con quali modalità si manifestò l’inversione di tendenza nel pro-cesso evolutivo dei monti attestandoli entro le ordinarie forme di credito? L’evoluzionedei monti verso la banca moderna cominciò con una intensa opera di sconfinamento(dei limiti di competenza territoriale) e di ampliamento delle operazioni concesse aduna schiera, sempre più folta, di risparmiatori. Si trattò di infrazioni abbastanza fre-quenti giustificate dalla sempre più agguerrita concorrenza bancaria. Si tende a parlaredi “infrazioni tollerate”, perché, come afferma nel saggio G. Garrani, i dirigenti deimonti e le autorità preposte alla vigilanza degli stessi assunsero un comportamentodeviante, ovvero “tollerarono o addirittura autorizzarono sconfinamenti e deviazioni,lacerando nella sostanza parte delle tavole di fondazione”3.

Il cerchio si chiude, virtuosamente, con alcuni saggi di sintesi sulla funzione dellabanca nell’economia moderna e contemporanea. Gli istituti di credito, in senso latoquelli del passato come i monti e quelli del presente, svolgono un compito essenzialeper l’economia drenando nel sistema il capitale necessario per gli investimenti e quindiper lo sviluppo economico, ma svolgono anche una funzione sociale. L’erogazione delcredito, infatti, deve rispondere a criteri di giustizia sociale, altrimenti si genererebberodegli strati diffusi di malcontento nella popolazione.

Il messaggio crittografato diventa più chiaro nelle ultime pagine del volume: il cre-dito come volano di crescita deve essere il più possibile vicino alle esigenze dei rispar-miatori piccoli o grandi che siano. Nei piccoli centri è preferibile che vi siano piccole

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banche più vicine ai bisogni dei piccoli risparmiatori, mentre le grandi banche dovreb-bero evitare di dislocare il denaro raccolto nei piccoli centri verso le grandi città. L’ir-raggiamento di sportelli, agenzie e succursali sparsi sul territorio per raccogliere il capi-tale e concentrarlo nelle mani di pochi clienti privilegiati è una politica che mal si con-cilia con il concetto di “eticità” del credito.

TERESA SISA SANSEVERINO

G. PROVASI (a cura di), Le istituzioni dello sviluppo. I distretti industriali tra storia, socio-logia ed economia, Donzelli, Roma, 2002

Storia, sociologia ed economia, sono queste le tre prospettive di analisi – cosi comeindicato nel titolo del volume – di uno dei fenomeni più consistenti, vitali e di succes-so nel panorama economico italiano dal secondo dopoguerra in poi: i distretti indu-striali e, più in generale, le aree-sistema a economia diffusa. Studiarne lo sviluppo signi-fica, tra l’altro, focalizzare l’attenzione “sullo stretto intreccio tra processi economici econtesto sociale, culturale e istituzionale che ne sta alla base, e al cui interno essi pren-dono corpo e si sostengono” (pp. XI-XII).

Si tratta di un insieme di vari saggi raccolti da Giancarlo Provasi, che firma ancheil saggio conclusivo, suddivisi in tre parti. La prima, denominata «Il quadro teorico»,evidenzia una sorta di convergenza fra sociologia economica, storia economica ed eco-nomisti neoistituzionalisti là dove si afferma che “la presenza di un quadro istituzionalepiuttosto di un altro può favorire o danneggiare lo sviluppo economico. Se virtuoso,infatti, un quadro istituzionale porta a stabilire regole favorevoli alla risoluzione positi-va dei conflitti tra gli attori, a generare quadri cognitivi capaci di fronteggiare l’incertez-za sociale ed economica, a instaurare motivazioni che favoriscono l’impegno, l’assunzio-ne di responsabilità e l’innovazione” (p. 8). L’individuazione delle suddette istituzioni, diispirazione weberiana, segna un passaggio importante nel saggio di Leonardo Parri, chele raggruppa in due tipologie: le istituzioni economiche (i diversi tipi di mercati e azien-de, nonché le forme ibride tra questi) e le istituzioni economicamente rilevanti (le fami-glie, i legami reticolari, l’associazionismo economico e quello non economico, le agen-zie governative, i consorzi, le cooperative, le camere di commercio, le banche locali eduna serie di elementi attinenti alla religione, mentalità economica, livelli fiduciari e diistruzione). Esse presentano una diversa capacità di generare l’innovazione e la varietàdei fattori economici e delle istituzioni stesse da un lato e dall’altro di favorire il coor-dinamento e l’ordine economico. Tutti elementi, questi, indispensabili per assicurare losviluppo economico che è caratterizzato però da una disomogenea e mutevole relazio-ne inversa in quanto all’aumento dell’ordine corrisponde una diminuzione della varietàe viceversa, di conseguenza “ogni modello di sviluppo economico deve essere …. capa-ce di dosare sapientemente il proprio grado di ordine e varietà, avanzando in bilico trala Scilla della disarticolazione e la Cariddi della sterile routine” (p. 16).

La seconda parte è intitolata «La ricerca empirica» in quanto prende in esame –anche attraverso indagini sul campo con interviste a testimoni privilegiati e a responsa-

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bili di istituzioni operanti all’interno delle aree – quattro distretti che possono essereconsiderati casi di scuola: Vigevano, Montebelluna, Sassuolo e Casarano. Per ognuno diessi gli autori tratteggiano con accortezza e precisione: le coordinate geografiche, le ori-gini storiche, la struttura produttiva, l’organizzazione, le dinamiche e il ruolo rivestitodalle istituzioni nello sviluppo. La loro scelta non è stata casuale ma perché dotati di“un diverso grado di vitalità” e perchè “significativamente diversi sia per strutturad’impresa sia per quadro istituzionale” (p. 277).

Proprio in relazione a quest’ultimo punto, la terza parte del volume, cioè «L’anali-si storica e comparativa», accoglie il contributo di Carlo Marco Belfanti e Sergio Onger,storici della distrettualistica, che indagano sul contesto storico, indispensabile se sivuole riflettere sul ruolo e sulle funzioni svolte sia dalle istituzioni economiche che daquelle economicamente rilevanti in considerazione del fatto che occorre “confrontarsicon dotazioni di quadri normativi, assetti politici e culture istituzionali che cambianoprofondamente a seconda del periodo storico….” ed inoltre, “le varie fasi del ciclo divita del distretto….. sono connotate da peculiari esigenze di coordinamento e regola-zione che richiedono risposte appropriate” (p. 245). Alle origini dei distretti gli autoricollocano una serie di soggetti: mezzadri, contadini, mercanti, artigiani e operai che conmodalità e tempi diversi decidevano di lanciarsi in un’attività imprenditoriale. Comunea questi soggetti è l’esistenza di una tradizione artigianale o di imprese medio-grandiche hanno assicurato “l’acquisizione e la disseminazione di «saper fare», necessario peril dispiegamento del sistema economico locale” (pag. 251). Va sottolineato, poi, che lascelta imprenditoriale non faceva capo ai singoli ma maturava all’interno delle rispetti-ve famiglie mobilitando tutte le risorse, economiche e umane, disponibili al loro inter-no; famiglie contadine capaci di ridisegnare, al mutare delle condizioni economiche, leproprie strategie “che si dipanavano a partire da un patrimonio di forte identità dimestiere accumulato nel corso del tempo e fondato appunto sul saper fare” (p. 255).L’accumulazione di saperi, di conoscenze produttive non codificate e di relazioni fidu-ciarie, sono incorporate nelle istituzioni di base: famiglia e società, definite dagli autori“capitale sociale originario” che insieme alle “istituzioni intermedie”, preposte al coor-dinamento delle imprese del distretto, o meglio, alla loro efficace “sincronizzazione” neconsentono il successo.

L’ultimo saggio pone un interrogativo di fondo che attraversa indirettamente illibro: “perché alcune aree-sistema sono dotate di una forte vitalità che non appartieneinvece ad altre?” (p. 271). Vitalità – capacità di fare proprie le opportunità favorevoli,rigettare quelle contrarie unitamente ad una capacità progettuale strategica a lungo ter-mine – che è legata a due fattori: le diverse propensioni motivazionali degli individui adintraprendere e le diverse capacità di selezione/regolazione delle istituzioni in meritoalle iniziative imprenditoriali prospettate. Proprio il rapporto fra questi due fattori,diventa particolarmente delicato in relazione all’assunzione, gestione e, soprattutto,“socializzazione del rischio imprenditoriale”; su quest’ultima incidono non solo le isti-tuzioni economiche ma anche quelle politiche e sociali capaci di dirottare i rischi sualtri soggetti, anche se la cautela è d’obbligo, bisogna stare attenti, in quanto “la vitalitàproduttiva – come afferma l’autore – può essere indebolita sia da un difetto che da uneccesso di socializzazione”(p. 275). Grazie ad un’analisi comparativa dei quattro casi di

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studio, è possibile pervenire ad una tipologia delle aree esistenti in Italia basandosi sudue dimensioni: l’imprenditorialità e il grado di influenza delle istituzioni economica-mente rilevanti. Ed è possibile elaborare diversi modelli di sviluppo che tengono conto,di volta in volta, della funzionalità del capitale sociale originario, dei rapporti che siinstaurano fra i vari soggetti operanti, dell’azione dei governi e dell’organizzazione degliinteressi economico-sociali. Le considerazioni di un certo interesse, in merito all’evolu-zione distrettuale, raggiunte da questi modelli sono diverse ma due vanno segnalate.Innanzitutto l’intreccio dell’approccio cognitivista ed evoluzionista evidenzia la possibi-le esistenza “di una molteplicità di equilibri e soluzioni tra loro equifinali, frutto dellacombinazione tra contingenza storica e meccanismi di selezione”(p. 305). In secondoluogo più che a modelli teorici con i quali misurare la realtà, occorre che ”qualsiasi pra-tica di intervento che voglia avere qualche probabilità di successo, [si dedichi] soprat-tutto agli elementi di forza e di debolezza che ciascuna area-sistema manifesta nella suaunicità e ai punti di leva che si rendono di volta in volta concretamente e contingente-mente disponibili” (p. 307).

In conclusione, nella ricerca di un nuovo equilibrio, adatto ad affrontare le com-plesse e molteplici sfide del futuro, se da un lato occorre favorire la crescita dimensio-nale delle imprese, dall’altro occorre che il sistema politico-istituzionale sia in grado dimediare tra imprese medio-grandi e realtà distrettuale tutelando al tempo stesso varietàe autonomia dei soggetti economici. Un puzzle, questo, di non facile e agevole compo-sizione.

LIVIO DOINO

M. BELFANTI (a cura di), Tecnici, empiristi, visionari. Un secolo di innovazioni nell’eco-nomia bresciana attraverso i brevetti (1861-1960), Grafo, Milano, 2002

Il volume curato da Carlo Marco Belfanti, come lo stesso autore afferma nella pre-sentazione, vuole essere una dimostrazione della capacità di innovazione dell’economiabresciana, attraverso l’analisi delle privative concesse dall’Unità alla seconda metà delNovecento.

La prima parte del volume è composta da una serie di saggi che riguardano l’evo-luzione normativa in materia di brevetti, ma che, soprattutto, tracciano il percorso del-l’economia bresciana dai primi decenni dell’Ottocento, sottolineando i settori dove lacapacità innovativa è stata maggiore e evidenziando la distribuzione geografica dei bre-vetti.

Lo studio condotto attraverso l’analisi dei brevetti rende necessario fornire il qua-dro normativo di riferimento, considerata la stretta correlazione tra economia e diritto,che nel campo delle invenzioni industriali diviene più forte. L’evoluzione delle normeche tutelano l’inventore e la sua invenzione è oggetto di studio del saggio di ElisabettaFusar Poli. L’Autrice, sulla base di una ricca bibliografia, traccia un articolato excursusstorico che va dalle prime forme di tutela, risalenti al secolo XV nella Repubblica Vene-ta, fino all’inizio della Grande Guerra. L’antesignano del brevetto si può ritrovare pro-prio a Venezia, emancipata non solo da un punto di vista economico, ma anche per le

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articolate istituzioni e per l’elasticità del diritto. Qui il Senato creò una disciplina gene-rale per la concessione delle patenti industriali; la tutela, limitata ai confini della Sere-nissima e con durata decennale, era concessa per gli «artifici de non piccola utilità etbeneficio al stado nostro», la cui caratteristica di novità era giudicata limitatamente alterritorio della Repubblica («non facto per avanti dominio nostro»).

Con le leggi americane e poi con quelle francesi di fine Settecento, si superò il con-cetto di tutela intesa come «privilegio concesso quale atto di magnanimità dell’auto-rità», a favore dell’idea di «proprietà», valida anche per le idee prodotte dalla menteumana. Questa concezione si diffuse anche nell’Italia pre-unitaria, dove i diversi gover-ni avevano previsto differenti forme e procedure per la concessione della tutela. Conl’unificazione, la legge piemontese del 1855 presentata in Parlamento dal Ministro delleFinanze Scialoja venne estesa all’intero Regno d’Italia; essa consentiva all’inventore lafacoltà esclusiva di utilizzare la propria invenzione una volta conseguito il brevetto,concesso dopo un’ispezione preventiva, che comunque non entrava nel merito dell’in-venzione. Nella convenzione di Parigi del 1883, infine, venne istituita un’Unione per laprotezione delle proprietà industriali, per risolvere eventuali contrasti tra le diversediscipline nazionali.

Dopo l’esame degli aspetti giuridici, lo studio si rivolge principalmente alla pro-vincia di Brescia. La ricerca effettuata da Sergio Onger ripercorre l’attività della Com-missione bresciana, attraverso la consultazione dei verbali e della documentazione cu-stoditi presso l’Archivio di Stato e l’Archivio storico dell’Ateneo di Brescia (prima Ac-cademia di scienze, lettere, agricoltura ed arti meccaniche).

Nel secolo XIX, la Commissione, composta soprattutto dai membri dell’Accade-mia, aveva il compito di esprimere i pareri in merito alle invenzioni da presentare alle«Esposizioni annuali di arti e mestieri» che si tenevano a Milano dai primi anni del-l’Ottocento. Dal 1810, l’Accademia di Brescia stabilì di «premiare ogni utile invenzio-ne spettante le arti e principalmente l’agricoltura»; dal 1830 cominciò ad organizzareannualmente le Esposizioni, assegnando essa stessa dei riconoscimenti. L’autore descri-ve, inoltre, alcune delle invenzioni presentate nel tempo, che riguardavano prevalente-mente il settore agricolo, della manifattura e della panificazione, e arricchisce il propriosaggio anche con curiosità riguardanti gli inventori stessi, che a volte erano sempliciagricoltori o artigiani che apportarono innovazioni nel corso dello svolgimento delleloro attività abituali.

Lo studio dell’area bresciana prosegue nel saggio di Carlo Marco Belfanti. L’auto-re sottolinea i limiti di un’analisi condotta attraverso i brevetti: essi non possono esseregli unici indicatori della capacità di innovazione di un’economia, perché condizionatidal sistema giuridico di cui fanno parte, dai diversi criteri in base ai quali sono rilascia-ti e dalla mutabile convenienza che spinge a brevettare un’invenzione. Perciò, la ricer-ca è stata condotta sulla base delle serie storiche annuali e quinquennali delle privativeconcesse nella provincia, dalla cui analisi emerge come il rilascio dei brevetti dell’ulti-mo secolo sia correlato ai cicli economici. Nei periodi di congiuntura favorevole, infat-ti, essi aumentarono notevolmente e nel secondo dopoguerra la gamma delle invenzio-ni divenne più ampia, coinvolgendo anche le imprese più piccole.

I settori maggiormente interessati dalle invenzioni sono oggetto del lavoro di Eli-

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sabetta Merlo ed Erica Morato. Sul finire dell’Ottocento, le innovazioni brevettate veni-vano utilizzate soprattutto nel campo agricolo ed estrattivo, considerato anche il lentoprocesso di industrializzazione dell’economia bresciana come del resto d’Italia. Neiprimi decenni del Novecento, oltre al settore delle armi, i brevetti più consistenti ri-guardarono il settore della meccanica e dei trasporti, mentre nel dopoguerra fu il setto-re tessile a rivestire un ruolo importante. Risalgono a questi anni anche le figure di alcu-ni inventori, legate a innovazioni relative all’automobile, all’aereo, al cinema. Infine,negli anni del miracolo economico, la parte del leone venne fatta dai macchinari per ilsettore tessile, dagli elettrodomestici e da nuovi materiali e fibre. L’innovazione tecno-logica riceveva nuovi impulsi, rispondendo ai bisogni di una società che usciva dalleristrettezze dovute alla guerra e si avviava verso i consumi di massa.

L’ultimo aspetto, considerato nel lavoro di Antonella Pietta, è la distribuzione geo-grafica dei brevetti. L’autrice sottolinea come l’aspetto morfologico del territorio abbiainciso sulla diffusione dello spirito innovativo e sulla circolazione delle idee. Infatti, lezone più alte (come la Val Camonica e la Val Trompia, caratterizzate da poche infra-strutture e da un’agricoltura di sussistenza) facevano registrare un minor numero dibrevetti, che invece aumentavano notevolmente nelle zone costiere e di pianura. I duedecenni più significativi risultano gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, quando leattività industriali divennero più consistenti. La città di Brescia possedeva il numeromaggiore di brevetti; seguivano altri cinque Comuni della provincia (Lumezzane, Gar-done Val Trompia, Agnosine, Palazzolo sull’Oglio e Desenzano sul Garda), dove la pre-senza dei distretti industriali aveva stimolato particolarmente l’attività innovativa.

Nella seconda parte del volume in esame, la ricerca segue un percorso particolare.Sulla base dei fascicoli dei bollettini ufficiali del ministero (il Bollettino delle privativeindustriali del Regno fino al 1901 e il Bollettino della proprietà intellettuale), l’autorericostruisce «un secolo di invenzioni», raccogliendo in un elenco la descrizione delleinvenzioni (oltre quattromila), il nome e la sede del titolare, la data di rilascio e il nume-ro del brevetto. Sono anche riportate le illustrazioni che venivano presentate quando sirichiedeva l’attestato di privativa, relative ad alcune delle invenzioni contenute nell’e-lenco; questa parte iconografica del volume rende ancora più interessante lo studioeffettuato.

ERMINIA CUOMO

M. TACCOLINI, Una crisi annunciata? L’inchiesta sulla produzione del Bureau internatio-nal du travail (1920-1925), Vita e Pensiero, Milano, 2001.

Il volume di Mario Taccolini analizza le modalità di svolgimento e i risultati rag-giunti dall’Inchiesta sulla produzione, per gli anni 1920-1925, condotta dal Bureauinternational du travail (BIT) che, assieme alla Conferenza generale ed al Consiglio diamministrazione, era un organismo costitutivo dell’International Labour Organization,istituito con gli accordi di Parigi seguiti alla fine della prima guerra mondiale.

L’Inchiesta costituisce una fonte importante per ricostruire la congiuntura econo-mica degli anni Venti e la crisi economica e sociale che investì l’intera Europa. I docu-

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menti custoditi negli Archivi del BIT a Ginevra consentono, infatti, di esaminare i com-portamenti e le scelte dei soggetti istituzionali.

Gli anni 1919-1920 furono anni di crescita per i Paesi occidentali. La domandaveniva stimolata dai consumi privati, dagli investimenti e dalle esportazioni; i prezzierano in aumento a causa di un’offerta non sempre adeguata e della maggiore circola-zione monetaria, mentre la manodopera, in situazione di quasi occupazione, riusciva adottenere aumenti salariali. L’inflazione avvantaggiava soprattutto gli agricoltori e gliindustriali che, grazie alla svalutazione della moneta, vedevano aumentare le esportazio-ni. Di fronte a tale situazione, il Consiglio di amministrazione del BIT, nel giugno del1920, decise di avviare un’inchiesta sui problemi della produzione, con particolare atten-zione al fattore lavoro. Subito dopo tale decisione, la congiuntura economica subì un’in-versione di marcia: la crisi di sovrapproduzione e la conseguente crisi dei prezzi e del-l’occupazione, dal Giappone e dagli Usa investì anche l’Europa. L’Inchiesta allargò allo-ra la propria analisi fino al 1925, poiché ci si accorse che «non si era più di fronte ad unasituazione determinata, ma ad un’evoluzione, a due situazioni differenti, opposte, inver-se. Bisognava o abbandonare l’inchiesta o prendere in esame i fatti nuovi» (p. 20).

Nella prima parte del lavoro, Taccolini ricostruisce il dibattito che seguì all’avviodell’Inchiesta, nonché il suo svolgimento e i risultati conseguiti. Già poco prima dellapubblicazione del primo volume (in bozza di stampa nell’ottobre del 1921), il gruppopadronale del Consiglio del Bit espresse le proprie riserve sull’oggetto dell’Inchiesta,che andava oltre quanto stabilito inizialmente, dovendosi limitare ad un rapporto sul-l’applicazione della giornata di otto ore e ad un’indagine sulla produzione «in relazionecon le condizioni del lavoro», senza proporre rimedi e soluzioni, e concentrandosi sullequestioni del lavoro senza occuparsi di quelle economiche. Tuttavia, l’Inchiesta con-servò l’impostazione di un’indagine molto più ampia e approfondita, capace di indivi-duare gli elementi che caratterizzavano i meccanismi della produzione mondiale, cosìcome voluto da molti membri del Consiglio di amministrazione (tra cui Schindler, Pirel-li, Jouhaux e lo stesso Thomas, direttore del BIT).

Per descrivere i fatti, le cause e le esperienze dei diversi stati, i collaboratori dell’In-chiesta effettuarono viaggi di studio in diverse parti dell’Europa; il direttore Milhaudebbe colloqui con personalità dell’economia internazionale, una serie di questionari ven-nero inviati ai governi, alle organizzazioni padronali, ai lavoratori e ad organismi di varianatura intenzionati a collaborare. Le variabili considerate erano, dunque, molteplici e lefonti molto ricche.

Dal 1922 cominciò la fase di elaborazione dei dati. La pubblicazione richiese alcu-ni anni. Innanzitutto furono costruite le serie storiche riguardanti la produzione dal1913 al 1922; i paesi erano divisi in belligeranti, neutrali ed extra-europei. In un secon-do momento fu effettuata un’analisi delle cause della crisi, considerando, da una parte,i motivi più strettamente economici (crisi delle materie prime, dei macchinari e dellacapacità produttiva, dei trasporti e dei capitali) e dall’altra i fattori prettamente sociali(crisi della formazione professionale, condizioni di vita dei lavoratori, riduzione dell’o-rario di lavoro). Seguiva una descrizione delle misure adottate dai diversi paesi perrisolvere i problemi presentatisi.

La pubblicazione dei risultati in Italia diede vita ad un dibattito che si estese oltre

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il nostro Paese. Gino Baldesi, segretario nazionale della Confederazione Generale delLavoro, riteneva che erano state le grandi questioni economiche dei singoli stati le realimotivazioni che avevano portato al conflitto mondiale, da cui poi si originavano i pro-blemi del dopoguerra. Il sistema capitalistico si era preoccupato solo della produzione,senza considerare che il fenomeno era correlato alla mancanza di capacità di acquistodovuta alla miseria generale. Secondo Baldesi, i risultati dell’Inchiesta avrebbero potu-to dare un importante contributo per la comprensione dello stato dell’economia in que-gli anni e auspicava «l’elaborazione di una nuova cultura della produzione e del lavoro»(p. 98).

Alcune critiche all’impostazione metodologica e ideologica dell’Inchiesta furonoinvece mosse da Corrado Gini, secondo il quale la diminuzione dei salari, a differenzadi quanto sostenuto nell’Inchiesta, non era collegata con la crisi degli sbocchi, chedipendeva invece dal livello della produzione degli stati. La disoccupazione era vistacome un «fenomeno di assestamento» conseguente alla riduzione della produzione. Laminore solidarietà internazionale (in termini di crediti e sussidi) e fra le classi socialierano tra i motivi alla base della crisi.

Nella seconda parte del lavoro, l’autore affronta le questioni legate al mondo dellavoro messe in luce dall’Inchiesta, che aveva raccolto l’esigenza (a quei tempi diventa-ta di interesse pubblico) di comprendere le variabili condizionanti il rendimento delfattore lavoro. Vennero, infatti, raccolti una serie di dati quantitativi riguardanti ilnumero di mobilitati per la guerra, le vittime e i mutilati.

Per quanto riguardava, poi, la formazione professionale, le difficoltà erano dovuteall’interruzione causata dalla guerra, ai cambiamenti delle professioni seguiti al conflit-to e alla crisi dell’apprendistato soprattutto nei paesi belligeranti. Ad una deficienzaqualitativa del fattore lavoro corrispondeva, invece, un’abbondanza quantitativa dimanodopera e dal 1921 il problema della disoccupazione diventava più forte. Riguardoai salari, un aspetto importante era costituito dall’atteggiamento degli operai verso isistemi salariali proporzionali al rendimento. Dalla vasta documentazione raccoltaemergeva che la resistenza dei lavoratori in merito veniva meno in presenza di organiz-zazioni operaie e contratti collettivi che funzionassero.

Nella sua analisi, l’Inchiesta non riuscì a giungere ad una valutazione conclusivasulla riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore, poiché tale esperienza era avvenuta inun’economia che risentiva della guerra. Sulla base delle informazioni raccolte sembravache la giornata di otto ore rappresentasse comunque uno stimolo per il progresso tec-nico (dei macchinari e dell’organizzazione del lavoro) e per il rendimento dell’operaio.In ogni caso, la riduzione dell’orario di lavoro non fu considerata uno dei fattori dellacrisi di produzione, ma piuttosto «una necessità del momento per ragioni di recuperofisico come anche per ragioni morali» (p. 154).

Tra gli interventi da realizzare per risolvere il problema del lavoro, vi era il miglio-ramento delle condizioni di vita: governi, associazioni ed enti cercarono di intervenirecon diverse misure per risolvere il problema della scarsità e del costo delle derrate ali-mentari. Un secondo problema era quello degli alloggi e del livello degli affitti. Il ruolopreminente per risolvere questa questione venne rivestito dallo Stato, anche se in alcu-ni paesi, come in Italia, un ruolo importante lo ebbero le associazioni sindacali.

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Altro fattore considerato dall’Inchiesta fu l’adattamento del livello salariale alcosto della vita, condizionato dagli scioperi, dalla contrattazione collettiva (che potevaperò risultare troppo rigida in una situazione economica in rapido mutamento) e dalleindennità del caro vita. L’indicizzazione dei salari era considerata uno strumento assaiefficace per risolvere questo problema, ma non era stata adottata da tutti i paesi.

Fondamentale era poi la prevenzione degli scioperi e delle serrate. Si consideravala possibilità di prevenire i conflitti con misure diverse nei vari paesi: maggiore adesio-ne ai sindacati, maggiore collaborazione con le imprese, valorizzazione del lavoro, maanche misure coercitive come in Germania. Erano previsti, inoltre, due strumenti isti-tuzionali: le commissioni miste di conciliazione ed i tribunali di arbitrato.

Per quanto riguarda la disoccupazione, le linee di intervento erano rappresentatedal collocamento, dal reclutamento locale ed internazionale, dal sostegno alla disoccu-pazione, dalle politiche short time, dai lavori pubblici e dal sostegno alle imprese.

Un ultimo aspetto riguardava gli strumenti per incentivare il lavoro dell’operaio: ilsistema di remunerazione commisurato al rendimento e la partecipazione del lavorato-re alla gestione dell’impresa, che incontravano scarsa diffusione per la diffidenza degliimprenditori e a volte dagli stessi sindacati.

A questa seconda parte del volume, interamente dedicata alle questioni del lavoroe ai rimedi previsti, Taccolini fa seguire alcune appendici. La prima riproduce uno sche-ma rappresentante la struttura dell’Inchiesta, la seconda concerne l’inchiesta sulle mate-rie prime di Corrado Gini, l’ultima raccoglie una serie di dati relativi all’economia ita-liana riguardanti la crisi dei fattori produttivi, con particolare attenzione al lavoro.

ERMINIA CUOMO

A. GIUNTINI, Il paese che si muove. Le ferrovie in Italia fra ’800 e ’900, Franco AngeliEditore, Milano, 2001.

Il saggio di Andrea Giuntini, dal suggestivo titolo, è dedicato al panorama ferro-viario italiano, in un periodo di grande rilevanza sia per la storia di tale mezzo di tra-sporto, sia per quella più generale del giovane Regno allora coinvolto in quella cheviene definita la seconda rivoluzione industriale. Il paese che si muove consiste nella rac-colta di un insieme di lavori dell’Autore, editi in diversi periodi, per differenti circo-stanze e non sempre in lingua italiana, rivisitati in occasione della pubblicazione deltesto in esame, e risponde ad uno spiccato interesse dello studioso per il settore, al cen-tro delle sue ricerche ormai da un ventennio.

Giuntini, come egli stesso dichiara, nel fornire il quadro in cui nasce e cresce taleimportante infrastruttura, utilizza un approccio narrativo – del resto dominante nellaletteratura sul tema. Allo stesso tempo, considerato lo stato di maturità storiograficaraggiunto dalla disciplina, ne traccia un bilancio d’insieme. Obiettivo: individuare conchiarezza quanto manca per un quadro esaustivo, fornire suggerimenti, chiavi di lettu-ra, spunti, suggestioni, soprattutto a livello di fonti, tracciare un possibile percorso per

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le future ricerche, a tutt’oggi carenti di studi d’insieme. Ciò anche perché risulta che,malgrado sia a disposizione degli studiosi “un panorama informativo pressoché com-pleto”, manca un vero e proprio dibattito sulla storia delle infrastrutture: quest’ultima,del resto, nonostante la sua rilevanza, fatica a trovare in Italia una sua autonomia.

Il libro è suddiviso in cinque parti. Dopo un primo capitolo sulle fonti, il secondotratta la storia delle ferrovie. Partendo dalla nazionalizzazione (1905), viene sottolinea-to come l’azienda ferroviaria seppe ottenere comunque una forte autonomia gestionale(fondamentalmente grazie all’opera di Riccardo Bianchi). Giuntini descrive le successi-ve ingerenze della politica culminanti con la nascita, nel 1924, del Ministero delleComunicazioni: fu così sanzionata la fine della libertà dei tecnici nella conduzione del-l’ente. Più avanti, viene analizzato il ruolo avuto dalle ferrovie durante la seconda guer-ra mondiale e l’occasione mancata in sede di ricostruzione post-bellica, quando si pri-vilegiarono gli interessi del trasporto su gomma. Si conclude l’indagine coi progettiodierni di “alta velocità” che, in un prossimo futuro, potrebbero rivalutare l’anticaimportanza del trasporto su ferro, e si integra il tutto con un corposo paragrafo sullacostruzione della rete ferroviaria toscana.

Nel terzo capitolo un ampio spazio è dedicato al management (tecnici, ingegneri),cui le ferrovie seppero restituire un ruolo di primo piano nella vita del paese. Vere eproprie biografie, nella stessa sezione, sono quelle di Raffaele De Corné (direttore gene-rale delle FS fino alla fine del 1920, succeduto nella carica a Riccardo Bianchi nel 1915)e del toscano Ubaldino Peruzzi (ministro dei Lavori Pubblici nei primi anni del Regno,figura di primo piano nella realizzazione della rete ferroviaria italiana).

Gli ultimi due capitoli trattano, rispettivamente, di stazioni e di archeologia indu-striale ferroviaria. Sulle stazioni sono fornite brevi note storiografiche e si scrive delcaso toscano; per l’archeologia industriale , la considerazione emergente è che, finora,nel nostro paese, la storiografia non ha brillato per attenzione nei suoi confronti, nono-stante il ruolo centrale delle ferrovie. Lo spazio lasciato libero è stato di fatto copertoda studiosi non di mestiere, i quali, ad oggi, sono da considerare come i custodi dellamemoria ferroviaria.

Questo, in rapidissima sintesi, lo schema del libro nel quale grande attenzione èportata sia ad una indagine nazionale (con spunti che allargano ulteriormente il quadroinserendolo in un contesto europeo), sia all’analisi locale. Particolarmente interessanti,perché propositivi, alcuni paragrafi del primo capitolo dove, oltre ad appunti storio-grafici e note critiche, l’autore dà conto delle fonti specifiche per lo studio della storiadelle ferrovie.

“Le ferrovie furono il più grande affare dell’Ottocento”, pur con le distinzioni esi-stenti fra i diversi paesi. Per una periodizzazione italiana del fenomeno, si deve partiredagli stati preunitari e dal diverso atteggiamento dei loro governanti nei confronti delnuovo mezzo di trasporto per arrivare, poco dopo la fine del XIX secolo, alla naziona-lizzazione delle ferrovie, nel 1905.

Il 1839 fu l’anno che vide l’inaugurazione della prima linea peninsulare, la Napo-li-Portici, voluta e realizzata, però, solo con l’intento di fornire un primato al Regnodelle Due Sicilie. All’opposto, troviamo la consapevolezza dello Stato Sabaudo, rappre-sentato da un uomo quale Cavour, che, con grande intuizione, allineò il piccolo paese

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1 A. PAPA, Classe politica e intervento pubblico nell’età giolittiana. La nazionalizzazione delleferrovie, Napoli, 1973, pp. 7 e ss.

agli stati europei di maggior peso politico-economico mediante un’adeguata miscela frapubblico e privato per la concessione, costruzione e gestione della rete: si ebbe così unosviluppo organico del servizio.

Tra 1839 e 1905, vi furono altre date di grande rilevanza per la storia del traspor-to ferroviario: il 1865 che, all’indomani dell’Unità, vide il primo tentativo di razionaliz-zazione del settore, mediante un provvedimento di legge che stabiliva l’accorpamentodella pletora di piccole compagnie del periodo preunitario, oramai non più adatte adun mercato ferroviario di mutate proporzioni, nei maggiori complessi ferroviari privati(Alta Italia, Meridionali, Romane, Vittorio Emanuele, Compagnia Reale Sarda), secon-do “la legge dei grandi gruppi”1; il 1885, quando venne sancito l’oligopolio ferroviarioridistribuendo la rete fra le tre Società Mediterranea, Meridionali e Sicula.

Nella penisola, del resto, non si assisté ad una vera e propria rivoluzione dei tra-sporti: ciò (e nonostante l’ideologia e la politica attuata dalla classe dirigente del nuovoRegno che sperava, attraverso le possibilità offerte dal nuovo mezzo, in una unificazio-ne non solo politica del paese) a causa del ritardo e della lentezza con le quali avvennela crescita delle strade di ferro.

Il termine “rivoluzione”, per Giuntini, andrebbe declinato; profonda, anche in Ita-lia, fu la rottura col passato, determinata dai nuovi impegni capitalistici, tecnologici,fisici (derivanti da difficoltà orografiche).

Per la periodizzazione novecentesca del fenomeno, invece, bisogna riferirsi a quel-la più generale che ha caratterizzato il secolo: prima guerra mondiale, fascismo, secon-da guerra, ricostruzione; si dovrebbero cercare, inoltre, per entrambi i secoli, poichémancano, le interrelazioni tra i vari paesi europei e i loro trend, per capire quanto essisi siano reciprocamente condizionati e far luce sulle basi di quanto oggi si sta proget-tando per il futuro.

La situazione archivistica preunitaria si prospetta più favorevole allo storico, chepuò contare sugli archivi di Stato locali; questi, assieme agli archivi minori e alle biblio-teche (quelle specializzate, in Italia, sono tre: due a Roma, una nella sede storica delleFS, presso la Direzione Generale, a Villa Patrizi, l’altra al Collegio Ingegneri FerroviariItaliani - CIFI, alla Stazione Termini; la terza a Milano, presso la Società di Mutuo Soc-corso fra Ferrovieri “Cesare Pozzo”), sono i luoghi d’elezione anche per chi si interes-sa di ferrovie secondarie (a tutt’oggi, il maggior numero di lavori è stato sollecitato daesse). Le ferrovie minori, specie quelle dimenticate dagli studiosi di professione, sonoanche l’oggetto della summenzionata rilevante storiografia amatoriale (appassionati,dilettanti, collezionisti).

Difficoltà si presentano agli studiosi che si occupano del primo periodo unitario(fino al 1905), a causa della mancanza degli archivi delle società private. Un discretosoccorso a tale lacuna, però, è fornito dalla mole di pubblicazioni minori a stampa daesse curate (opuscoli, pamphlet, articoli giornalistici ristampati in estratto, libri occasio-nati da polemiche e contese, relazioni di riunioni e dibattiti ferroviari, dati di bilancio– dai primi anni Ottanta –, guide, orari, etc.) e, più in generale, da atti parlamentari,

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relazioni di commissioni d’inchiesta, dalla pubblicistica ferroviaria e dalle riviste spe-cializzate.

L’Archivio Centrale dello Stato (ACS), sebbene offra buone possibilità alla ricerca,non è un riferimento decisivo (e del resto, il fondo relativo del Ministero dei LLPP nonvi è stato mai versato).

Particolare, perché in esso dominano prevalentemente disegni, è l’Archivio del ser-vizio Materiale e Trazione (aperto nel 1883), a Firenze; per quanto riguarda le immagi-ni, vi è la ricchissima Fototeca delle FS e per i reperti, quelli conservati al Museo nazio-nale ferroviario di Napoli Pietrarsa.

L’Archivio Storico delle Ferrovie dello Stato, ora oggetto di un progetto di recu-pero e definitiva sistemazione, una volta aperto al pubblico, consentirebbe una svoltadeterminante per la ricerca.

Di ordinato e consultabile, benché formalmente non fruibile e poco conosciutodagli studiosi, è l’Archivio del Consiglio di Amministrazione delle FS. Non è moltoconsistente, ma deve essere opportunamente considerato perché costituisce una dellepochissime fonti per lo studio dell’impresa ferroviaria. È dislocato presso il Ministerodei Trasporti ed è alle dirette dipendenze del C.d.A. dell’ente ferroviario. L’autore ciinforma che è completo in ogni sua parte, tranne che per sparute ed inevitabili man-canze. È composto di sei fondi più uno intitolato Repertorio pensioni (quest’ultimo soloper gli anni 1971-72). Il suo nucleo fondamentale è costituito dai Verbali del Consigliodi Amministrazione (dal 14.9.1907 al 10.12.1943, con la parentesi della “Gestione diVerona” dal 6.4.1944 al 27.3.1945, e poi dal 20.9.1945 in avanti, senza interruzioni).Giova soffermarsi su quest’archivio e sul suo contenuto, e non solo per invogliare quan-ti si occupano direttamente dell’azienda ferroviaria, i quali, consultandolo, potrebberoriportare alla luce una fetta di passato considerato troppo esiguamente rispetto alla suaimportanza oggettiva: tra i filoni storiografici maggiori, oltre quello chandleriano (labusiness history), pure quelli sociale e cliometrico si avvantaggerebbero di documentiqualitativi che tanto hanno da offrire anche sull’industria fornitrice (indotto).

La Legge che istituì le FS fu la n° 137 del 22.4.1905; ma il C.d.A. prese a funzio-nare in ritardo rispetto alla nascita dell’azienda: al suo posto, per i primi due anni,operò il Comitato d’Amministrazione, col compito di preparargli la strada: di taleperiodo si conserva memoria nel fondo Comunicazioni al Ministro dei Lavori Pubblici.Quando, nel 1907, nacque il C.d.A., fu composto di otto consiglieri e la sua strutturarimase sostanzialmente inalterata fino al RdL n° 130 del 2.2.1920. Sino ad allora la cari-ca di presidente del C.d.A. e di direttore generale coincisero.

Col RdL del 1920 il C.d.A. passò da otto a sedici membri, cinque dei quali eranorappresentanti del personale; il presidente fu nominato dal governo e la carica di diret-tore generale fu trasformata in quella di amministratore generale. Ancora, all’internodel C.d.A., veniva istituito un Comitato per trattare la normale amministrazione.

Con l’avvento del fascismo vi furono ulteriori cambiamenti rispondenti alla piùgenerale volontà accentratrice e riorganizzatrice del regime: alla fine del 1922, il C.d.A.fu sciolto e la carica di amministratore generale fu soppressa. Con successivo Rd n° del4.1.1923 fu nominato un commissario straordinario, Edoardo Torre: le sue deliberazio-ni sono conservate nell’omonimo fondo Deliberazioni del Commissario Straordinario,

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che copre il periodo dal 1.1.1923 al 30.4.1924. In quest’ultima data, con Legge n° 596,fu istituito il Ministero delle Comunicazioni (comprendente ferrovie, poste, telegrafi emarina mercantile): a capo di esso fu posto Costanzo Ciano, che sostituì Torre. IlC.d.A. fu ricostituito, di fatto solo con funzioni consultive e sotto la presidenza delministro delle Comunicazioni, col seguente Rd n° 863, del 22.5.1924. Tale provvedi-mento stabilì una rosa di dieci componenti (tra essi non figuravano più rappresentantidel personale), e il ripristino della carica di direttore generale. Risalgono a quest’epoca,e arrivano a tutto il 1985 (nel 1986 entrò in vigore la nuova riforma), i documenti con-tenuti nel fondo Decreti del Ministro delle Comunicazioni, trasformatisi in Decreti delMinistero dei Trasporti quando, nel 1944, fu creato tale Ministero.

Dall’8.9.1943, con l’Italia divisa, si verificò pure la separazione territoriale edamministrativa della rete ferroviaria. Furono create due direzioni: Salerno (Alleati) eVerona (Repubblica Sociale), l’organizzazione delle quali, però, rimase molto simileall’originaria (della “Gestione di Verona” si conservano documenti: nel 1944, tale Am-ministrazione introdusse le Approvazioni dirette del Ministro, mantenute anch’esse finoalla riforma del 1986 e custodite in un apposito fondo). Con Rdl, ad inizio del 1944, sisospese transitoriamente la normativa relativa al funzionamento del C.d.A. e si deferi-rono al ministro delle Comunicazioni le attribuzioni del direttore generale; il seguenteDlgt, di fine anno, sanzionò la scissione del Ministero delle Comunicazioni in Ministe-ro dei Trasporti – che assorbì la Direzione generale delle FS – e Ministero delle Poste eComunicazioni.

Il Dlgt n° 521 del 20.8.1945, infine, ricompose, su nuove basi, il C.d.A. della rina-ta azienda ferroviaria: furono previsti dodici membri più il direttore; furono ripristina-te le attribuzioni precedenti alla guerra.

Solo il fondo Verbali del Consiglio possiede, opportunamente catalogata, la listadelle materie trattate: la Rubrica delle Comunicazioni, in due edizioni: la prima dal 1905al 1946, con la parentesi della Gestione di Verona; la seconda dal 1947 ad oggi.

Tra le fonti, infine, Giuntini si sofferma su un progetto di cartografia computeriz-zata, un atlante storico delle ferrovie europee, da inizio del XIX secolo ad oggi, ideatosu iniziativa di Albert Carreras, presso l’Istituto Universitario Europeo. Nato per ana-lizzare la crescita dei trasporti in tale area al fine di comprendere i termini del ritardodel vecchio continente rispetto all’America (l’Europa, penalizzata nei confronti degliUSA dalla frammentazione politica e da questioni morfologiche, ha cercato da sempredi superare il suo relativo fallimento attraverso successivi tentativi di integrazione), esa-minando, con caratterizzazione transnazionale, intermodale e diacronica le reti (tutte leferrovie, anche i tratti dismessi) e l’organizzazione dello spazio globale, il progetto por-terebbe come risultato la visione dell’intero sistema ferroviario europeo nel suo pro-gressivo divenire.

Le ferrovie si prestano ottimamente ad una analisi del genere: la raccolta di dati ècomplessa, ma può usufruire di abbondanza di materiale (studi, carte storiche, guide,orari). Inoltre, rappresentano la prima rete moderna circoscritta tecnologicamente,strutturante lo spazio e producente un impatto molto incisivo sul territorio e sull’eco-nomia, anche se storicamente, a tutt’oggi, non hanno ottenuto una completa integra-zione.

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Oltre alle fonti tradizionali, per la realizzazione del progetto sono stati inviatinumerosi inviti a collaborare ad associazioni, enti, ministeri; ancora, gli appassionatidelle ferrovie hanno molto facilitato la raccolta dei dati.

Punto di partenza del progetto è stato l’Italia: scelta motivata dalla significativitàdel caso. Ed infatti, nel paese, oltre alla presenza di frontiere naturali (Alpi, Appenni-ni), si verificarono, nel periodo considerato, una tarda unificazione, diversi cambia-menti dei confini politici e di capitale, che determinarono un mutevole orientamentonell’espansione del sistema dei trasporti.

Le prime carte prodotte riguardano il periodo 1839-1880, con l’evoluzione dellarete, anno per anno, e con l’evidenziazione di ogni cambiamento avvenuto. Maggioresignificatività si è riscontrata al Nord del paese. L’atlante potrà essere un valido sup-porto per molte categorie di studiosi ma non solo: grande utilità ne potrebbero trarreanche l’insegnamento e soprattutto la programmazione.

LAURA CIULLO

G. BRANCACCIO, In Provincia. Strutture e dinamiche storiche di Abruzzo Citra in età mo-derna, ESI, Napoli, 2001.

L’Autore ripropone in questo volume alcuni suoi saggi apparsi tra il 1996 e il 2000,integrandoli con quattro nuovi, con il fine di ricostruire il proceso di definizione dello“spazio provinciale” dell’Abruzzo Citra in età moderna. Proprio la volontà di delinearela formazione di un’area omogenea, per caratteristiche sociali, politiche ed economichefornisce a Giovanni Brancaccio lo spunto per “allineare” 10 capitoli, frutto di un’atten-tissma analisi che l’Autore porta avanti da anni.

Il lavoro parte con un’accurata introduzione volta a ridefinire le caratteristichedella provincia, termine che affonda le proprie radici nella toponomastica imperialeromana, ma che si consolida, nel Mezzogiorno, solo con l’affermarsi del regno norman-no. Infatti, Brancaccio fa risalire la primitiva delimitazione dello spazio provinciale del-l’Abruzzo Citra agli anni 1140-1143, coincidenti con l’opposizione definitiva dei confi-ni nazionali del regno meridionale. A tale epoca, inoltre, si può datare anche la nascitadi nuovi rapporti sociali, basati sull’introduzione del feudalesimo normanno, costruitosu più stretti rapporti di assistenza militare fra vassalli e sovrano ma, contraddistinto daun forte potere centrale ancora non avversato dal baronaggio. In realtà, fa notare Bran-caccio, i normanni erano stati gli autori dell’unificazione di entità statali preesistenti nelMezzogiorno, e non i ripartitori, per fini amministrativi, di un territorio unitario. Difatto, la divisione del Regno in unità amministrative si concretizzò solo con il dominiosvevo. Fu Federico II ad operare la suddivisione del Mezzogiorno continentale in noveprovince, che Roberto d’Angiò portò a dodici. In tale fase, le province si vennero acaratterizzare come unità amministrative autonome, rette da un giustiziere regio concompiti di vero e proprio viceré e da un precettore ma, soprattutto, non ancora con-trassegnate da una presenza baronale forte. La situazione sperimenta un cambio dirotta a partire dalla metà del XIII secolo, con l’affermarsi delle grandi famiglie feuda-

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tarie che si radicano nelle aree periferiche del Regno e che, a causa della sopraggiuntainstabilità politico-militare, acquistano un peso sempre più rilevante nei confronti delre. Ad avvalorare tale tesi provvede la progressiva perdita di autonomia delle cittàabruzzesi, come L’Aquila e Sulmona, che godevano di libertà e privilegi, proprio deicomuni dell’Italia centro-settentrionale. In particolare, fa notare Brancaccio, l’Abruzzo,durante il Regno Normanno-svevo, cominciò a caratterizzarsi per un’economia duale,costituita dalla ricchezza pastorale, per le regioni interne, e dai traffici marittimi per laparte costiera. A tale conformazione economica si adattarono anche le famiglie feudaliche tesero sempre – al fine di consolidare la propria ricchezza – a preservare le prero-gative della pastorizia transumante ed i privilegi dei porti dell’Abruzzo adriatico. Insostanza, si comincia a delineare la struttura provinciale dell’Abruzzo Citra, proprio suineo formati rapporti feudali e sulle peculiarità economiche dell’area.

Il secolo XV e l’inizio del successivo consentono, a seguito della stabilizzazioneamministrativa conseguente all’acquisizione del regno meridionale da parte della Coro-na d’Aragona, il definitivo radicamento delle famiglie nobiliari nell’area abruzzese. Inquesto caso, secondo il Brancaccio, il radicamento ha basi solide, in quanto è poggiatosull’acquisizione, da parte dei feudatari dei poteri giurisdizionali e fiscali, prima di allo-ra di spettanza delle amministrazioni cittadine. Questa fattispecie, secondo il NostroAutore, mette in luce tutta la debolezza delle istituzioni comunitarie createsi in Abruz-zo fin dall’alto medioevo che, ad eccezione delle poche città demaniali presenti sul ter-ritorio, non riuscirono a reggere l’urto della feudalità incalzante. Del resto è facilmentecomprensibile come, in una fase di espansione demografica, i proprietari feudali fosse-ro alla ricerca di rendite ulteriori – costituite, appunto, dal possesso terriero – sfruttan-do l’ampliamento della produzione agricola. D’altro canto, ai contadini ed ai residentinelle molte università che passarono in dominio feudale, non si offrirono reali possibi-lità per una vita alternativa che non fosse quella legata alla produzione agricola.

Brancaccio conclude la prima parte del suo lavoro occupandosi dell’evoluzioneurbana dei maggiori centri cittadini dell’Abruzzo Citra, quali Vasto, Chieti, Lanciano eSulmona. Tali centri, nati grazie ad una forte componente commerciale legata alla vici-nanza agli scali adriatici, alla presenza dell’industria armentizia e dell’importante fieradi Lanciano, persero le proprie prerogative di autonomia amministrativa a vantaggiodel potere baronale ed ecclesiastico che, durante il XVI secolo si impadronì delle “levedi comando” dell’economia abruzzese. La trasformazione dei centri urbani è, per Bran-caccio, anche sostanziale trasformazione urbanistica, con l’accrescimento degli edifici,di quelli difensivi e di quelli dedicati al culto e alla sua amministrazione. Proprio gli edi-fici ecclesiastici sperimentarono un cospicuo accrescimento grazie al forte sentimentoreligioso diffuso nell’Abruzzo Citra, con l’esistenza di luoghi di culto legati alla presen-za di reliquie antiche ed importanti per il cattolicesimo, e grazie a tutta la ritualità col-legata all’attività agricola e pastorale che contraddistingueva l’area.

Giovanni Brancaccio dedica l’intera seconda parte del suo bel volume allo studiodella fase di trasformazione della provincia abruzzese a partire dalla raggiunta autono-mia del Regno di Napoli sotto Carlo di Borbone, e lo fa utilizzando un’interessantechiave di lettura – peraltro già utilizzata da quell’illustre storico abruzzese che fu Cor-rado Marciani – la stampa e la diffusione libraria. Il XVI ed il XVII secolo furono con-

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traddistinti dalla presenza, in Abruzzo, di numerosi tipografi e stampatori che, impian-tatisi sin dalla seconda metà del XV secolo, diedero la possibilità di realizzare unacospicua produzione letteraria, filosofica e storica. La seconda metà del XVII secolosegna il punto di declino dell’editoria abruzzese, schiacciata dal “mocentrismo” napo-letano. Infatti, il 1600 si presenta come il secolo nel quale Napoli accentra tutte le fun-zioni del Regno, compresa, ovviamente, quella culturale e, come ebbe ad affermare lostorico Giovanni Pansa, così come riportato da Brancaccio, l’editoria provinciale siridusse “a servire alle momentanee esigenze di menti volgari”. Il progressivo sposta-mento del baricentro culturale verso Napoli contribuì, altresì, all’allontanamento – inspecial modo durante il XVIII – delle più fervide menti abruzzesi verso la capitale. Laconseguenza per l’editoria abruzzese fu la “mancata partecipazione” all’accelerata dif-fusione editoriale del secolo dei lumi.

L’illuminismo settecentesco evidenziò tutti i limiti e le contraddizioni dello svilup-po economico e sociale abruzzese. L’inadeguatezza del sistema viario, già stigmatizzatada Genovesi e da Galanti, la scarsa manutenzione rivolta agli approdi adriatici e l’in-flessibile e rozza fiscalita che aveva sempre contraddistinto l’amministrazione del regnomeridionale, furono gli elementi frenanti di un processo di sviluppo commerciale checoinvolse l’intera Europa. Inoltre, a partire dal 1763-1764, l’economia abruzzese comin-ciò a risentire, dell’inadeguatezza del sistema del Tavoliere, la cui antieconomicità, lega-ta al rigido sistema della pastorizia transumante, e ampiamente deplorata dagli studiosicoevi, mise in luce tutti i suoi aspetti negativi, in occasione della terribile carestia diquegli anni.

Giovanni Brancaccio rivolge la terza ed ultima parte della sua analisi al processo diammodernamento dell’Abruzzo Citra a seguito della fallita rivoluzione del 1799 e delDecennio Francese, quest’ultimo vera e propria pietra angolare per comprendere la tra-sformazione del Mezzogiorno continentale. Il XVIII secolo si apre con una società edun’economia profondamentale trasformate, i commerci marittimi incentrati sull’espor-tazione delle eccedenze granarie sono stati accantonati a seguito dell’incremento demo-grafico, e la pastorizia transumante non riveste più alcun ruolo di rilievo. L’industrialaniera del Mezzogiorno fa rilevare un valore aggiunto molto basso e, da tempo, è statasoppiantata da quella inglese ed olandese, che con elevati indici di produttività, hannoinvaso il mercato europeo. Il Regno borbonico inizia a mostrare la corda dei suoi limi-ti amministrativi e politici, e il Decennio Francese ha dimostrato che non è più possibi-le il ritorno all’Ancient Regime. La borghesia meridionale è ormai una classe sociale edeconomica formata e consapevole delle proprie prerogative e, sempre con maggiorforza, chiede il riconoscimento del suo ruolo politico. Giovanni Brancaccio illustrachiaramente come il progressivo deteriorarsi della rendita feudale parassitaria di esclusi-vo beneficio nobiliare, apre le porte all’affermazione della borghesia urbana che, nono-stante il fallimento dei moti del 1848, si propone come la vera “classe dominante”.Ormai è solo questione di tempo!

In conclusione, Brancaccio riesce a delineare, mediante l’analisi diacronica di unlento ma inesorabile processo di trasformazione, la formazione di un’area, quella del-l’Abruzzo Citra, esplorando le vicende della riorganizzazione della proprietà feudale edel suo ruolo economico e sociale, dell’identità e delle funzioni dei centri urbani e del

ruolo della chiesa, facendo emergere “(...) Dal ricostruttivo [...] l’immagine di una pro-vincia complessa e difficile rappresentativa della storia del Regno”.

ROBERTO ROSSI

L. CODA, Ceti intellettuali e problemi economici nell’Italia risorgimentale, AM & D Edi-zioni, Cagliari, 2001.

A una prima lettura, il libro in esame può sembrare una raccolta di saggi eteroge-nei su argomenti che vanno dai congressi degli scienziati ai problemi economici dell’I-talia nel periodo risorgimentale, dall’istruzione primaria e tecnica allo sviluppo dell’a-gricoltura e del settore manifatturiero. A una lettura più attenta ci si accorge ben pre-sto che si tratta di un volume organico e compatto che s’incentra su alcuni interrogati-vi chiave del progresso economico dell’Italia ottocentesca, cui cerca di fornire unarisposta adeguata. Volume, perciò, densissimo e imperniato su un problema fondamen-tale, trattato nel primo capitolo, relativo alle Accademie, alle Società economiche ed aicongressi degli scienziati, complessivamente considerati “promotori” del progresso eco-nomico italiano. L’Autrice, offrendo una sua visione del tutto originale, propone un’ac-cezione del termine “intellettuale” piuttosto ampia, che comprende sia uomini di cultu-ra, studiosi o docenti di economia, che uomini pratici, come proprietari di aziende agri-cole, di bigattiere o manifatture e quanti, inoltre, erano effettivamente interessati ad unmiglioramento economico e si scambiavano considerazioni su nuove tecniche colturalio su esperimenti effettuati in campo manifatturiero.

Il denominatore comune al campo del progresso economico (sviluppo dell’agricol-tura e del settore manifatturiero) e a quello dell’istruzione primaria e tecnica è proprioquel pullulare di congressi di scienziati, di accademie, società agrarie o istituti di inco-raggiamento, di cui molti di quegli “intellettuali” erano soci. Attraverso tale denomina-tore è possibile stabilire quel ponte di comunicazione tra due campi solo in apparenzacosì lontani. Non è difficile seguire l’autrice nella sua ampia analisi che indaga paralle-lamente sulla natura del pensiero economico e sulle attività produttive durante il Risor-gimento. Il discorso è al tempo stesso sottile e profondo, senza che tuttavia venga maimeno la chiarezza espositiva.

Il problema centrale è il dibattito sullo sviluppo agricolo e industriale e il grandeinteresse per le dottrine economiche che occuparono un posto centrale nel quadro cul-turale europeo ed italiano. è importante sottolineare come accanto alle vecchie accade-mie e alle società agrarie ne sorgessero altre che divennero “più popolari” e tecnica-mente più agrarie. Il numero dei soci crebbe e si diversificò aprendosi ad altre catego-rie sociali; l’indirizzo, più pratico, degli studi manifestò maggiore attenzione alla terra,alla creazione di campi sperimentali, all’istituzione di concorsi a premi e all’allestimen-to di mostre ed esposizioni. Tutte iniziative rivolte a migliorare la produzione tanto nelsettore agricolo quanto in quello manifatturiero, ma che dovettero fronteggiare alcunedifficoltà oggettive presenti in vaste zone dell’Italia preunitaria, come il latifondo, lamancanza di capitali e l’arretratezza civile e tecnica delle masse rurali, nonché lo stret-

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to controllo esercitato dalle autorità centrali che spesso giudicarono tali istituzioni peri-colose riunioni di dissidenti. Tuttavia, nonostante tutto ciò costituisse un grosso ostaco-lo per l’avvio di un processo di sviluppo economico, gli esiti del loro operato, purvariando nel tempo e nello spazio, furono alquanto positivi, soprattutto laddove leautorità politiche tolleravano l’affermarsi dei sodalizi economici.

Nell’Italia settentrionale, le diverse società agrarie intrapresero numerose iniziativea favore dell’agricoltura e della pastorizia, suggerendo nuove tecniche di coltivazione,promuovendo indagini statistiche e intervenendo sull’istruzione dei contadini. Siespressero, inoltre, su importanti temi di economia rurale, combinando i problemi agri-coli e quelli manifatturieri e occupandosi contemporaneamente dello sviluppo dientrambe le attività. Alcune di esse bandirono concorsi annuali e promossero la fonda-zione di istituzioni ritenute utili, quali scuole di mutuo insegnamento e asili d’infanzia.Più difficile si rivelò l’attività del Regio Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali,fondato, a Napoli, nel 1806, con lo scopo di migliorare lo stato dell’agricoltura e dellamanifattura nei territori meridionali. L’Istituto fu promotore e coordinatore di tutte lesocietà economiche sorte nel Regno delle Due Sicilie. Tuttavia, l’impreparazione degliagricoltori e la mancanza di un ambiente sociale in grado di recepire gli sforzi e i sug-gerimenti di pochi uomini “di buona volontà e di alto valore” non riuscirono a modifi-care, in misura significativa, l’arretratezza meridionale.

La ristrettezza dell’ambiente, in cui le società agivano, contrastava con la necessitàdi coloro che operavano nell’agricoltura e negli altri settori produttivi di avere contatticulturali e di commerciare con una cerchia più ampia di paesi. Le barriere doganali epolitiche, infatti, limitavano fortemente questa espansione. Si registrò un’apertura sol-tanto alla fine degli anni ’30, con i congressi degli scienziati italiani, ai quali partecipa-vano rappresentanti degli stati della penisola e anche “esperti” stranieri. Tra le altre, gliintellettuali avvertirono la necessità di poter fruire di un valido supporto giuridico,ovvero un sistema completo di diritto rurale. La “materia agricola” andava tutelatanella sua interezza da una normativa ben precisa, dal momento che il mancato rappor-to di collaborazione tra i possidenti e i loro dipendenti, compresi gli affittuari, compro-metteva non poco l’andamento dell’azienda agricola e frenava il decollo dell’agricoltu-ra italiana.

Per migliorare le condizioni della classe dei coltivatori e dei piccoli industriali erainoltre necessario estendere i benefici degli istituti creditizi, prevenire gli abusi e facili-tare la concessione dei prestiti, dal momento che il problema del credito agrario riguar-dava tanto il “credito personale” dell’agricoltore e del fittavolo (già supportati daimonti frumentari, da quelli pecuniari di soccorso e da altre istituzioni simili), quanto il“credito reale” o “ipotecario” dei proprietari terrieri. Quest’ultimo tipo si presentavacome l’unico modo veramente capace di finanziare l’agricoltura con cospicui capitali.

Le discussioni congressuali ottennero, comunque, l’effetto di porre in evidenza lagravità del problema creditizio così come di quello dei sistemi di conduzione dei terre-ni. L’affitto, in particolare, era considerato capace di promuovere efficaci miglioramen-ti, ma il contratto di mezzadria era comunque preferito a tutti gli altri patti agrari.

Di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’economia era anche la possibilitàdi effettuare regolari scambi di merci con altri paesi. Il settore trainante nel periodo

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preunitario era quello dell’industria serica, il cui sviluppo fu dovuto alla revoca di divie-ti di esportazione della seta grezza, nel Lombardo-Veneto, nel Regno di Napoli e in Pie-monte. La seta era un prodotto importantissimo in Italia, in particolare nell’economiadella Lombardia e del Piemonte, in cui, con le esportazioni, determinava l’equilibriodella bilancia commerciale. Perciò, le società economiche, particolarmente interessateal progresso di questo settore produttivo, si adoperavano a divulgare i migliori sistemidi allevamento dei bachi e di trattura e torcitura. Esse incoraggiavano anche l’attivitàenologica, ritenuta un’ulteriore possibile fonte di ricchezza, ma penalizzata dalla prefe-renza, sullo stesso territorio italiano, per i vini stranieri. Le cause della sua mancata pro-sperità furono attribuite al prezzo elevato ed alla qualità non sempre pregevole dei vini.La gravità e la natura della lunga crisi, che l’industria enologica italiana attraversò neglianni ’50, emerge con chiarezza dagli scritti dei sodalizi economici che offrono, nel loroinsieme, un quadro dei problemi dell’industria e dei prodotti più diffusi.

La profonda convinzione dei “progressisti italiani”, che esistesse un nesso tra fat-tori economici e problemi educativi, rese preponderante, nelle riflessioni dei congressidegli scienziati, il tema dell’istruzione popolare e, in particolare, dei lavoratori, ritenutacondizione necessaria e indispensabile per lo sviluppo di nuove attività agricole e mani-fatturiere. L’istruzione scolastica primaria in Italia era alquanto lacunosa e impediva ladiffusione di libri di facile comprensione. Dai vari interventi emerge con sempre mag-giore insistenza la consapevolezza che la via migliore per istruire i giovani in una cor-retta lavorazione dei campi fosse, comunque, quella dell’esempio pratico dato da unapersona esperta.

Accanto al moltiplicarsi di iniziative per diffondere l’insegnamento dei sistemi dicoltivazione più idonei, si andava estendendo un analogo interesse verso l’insegnamen-to tecnico, in particolare per quello più utile alle varie manifatture. Il progressivo, sep-pur lento passaggio dalla manifattura al sistema di fabbrica, nell’Italia ottocentesca,poneva problemi enormi anche al sistema formativo. La condizione dell’industria italia-na dipendeva molto dall’ignoranza degli operai e di coloro che erano a capo della mani-fattura. Molti di essi non avevano frequentato la scuola primaria e quasi tutti difettava-no di un adeguato insegnamento tecnico. Si avvertiva forte l’esigenza di un maestroartigiano che indicasse le tecniche giuste di lavorazione del ferro e del legno e fornisserudimenti di chimica e di fisica necessari per capire il funzionamento di determinatimacchinari. L’apprendistato approntato negli orfanotrofi per istruire i giovani era spes-so l’unico sistema di insegnamento offerto alle classi più disagiate, che non potevanofrequentare le scuole tecniche della città o del territorio vicino; e quello svolto tradizio-nalmente nella bottega artigiana si rivelò ormai incapace di formare una manodoperasempre più tecnicamente qualificata e flessibile, richiesta dai nuovi metodi di produ-zione.

La creazione di istituti che accogliessero gli orfani e li avviassero ad un mestiererispondeva, si sa, al principio del renfermement, secondo cui l’apprendistato di unmestiere offerto ai giovani contribuiva, al tempo stesso, al recupero sociale ed econo-mico del territorio. Tuttavia l’aumento del lavoro minorile divenne oggetto di polemi-che e di dibattiti che posero in evidenza le conseguenze sulla salute e sull’educazione.Le manifatture della filatura e della tessitura del cotone furono giudicate le più nocive,

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sia per la maggior durata dell’orario di lavoro che per le alte temperature dei locali. Siritenne che molte malattie derivassero dal “precoce e soverchio lavoro”, per cui moltiricchi proprietari cominciarono a proibire ai loro coloni di mandare i figli nelle mani-fatture; i parroci pretesero il riposo notturno e condizioni più “morali” di lavoro;preoccupanti erano anche le denunce dei medici di campagna. Si avvertì così l’esigen-za, collegata al lavoro svolto negli opifici, di tutelare l’infanzia creando asili infantili peri figli delle donne lavoratrici. A Pisa, nel 1833, sorse una Società per gli Asili Infantili.Iniziativa analoga venne intrapresa anche da Firenze e Livorno e poi, man mano in tuttal’Italia. Si trattava di istituti che accoglievano bambini già svezzati, bisognosi di cure edi istruzione. Dell’utilità di tali istituzioni si parlò nel V Congresso degli scienziati, incui emerse che lo scopo principale degli asili infantili era quello di prevenire i “mali fisi-ci, intellettuali e morali procedenti dalla mancata o viziosa educazione dell’infanzia” eche l’esigenza di simili ricoveri era avvertita soprattutto nei luoghi in cui si sviluppava-no le fabbriche.

Con il cambiamento delle economie locali, in particolare con lo sviluppo del set-tore secondario, le classi dirigenti dei vari Stati furono costrette ad affrontare nuoviproblemi, come la creazione di istituti per i lattanti e gli asili d’infanzia. Così, l’avvici-namento di due mondi, quello dell’istruzione e quello della produzione, apparente-mente lontani ed estranei l’uno all’altro, ma solo a uno sguardo distratto e superficiale,si rivela estremamente denso di prospettive. I due mondi si rivelano pertanto vicini e inqualche modo interrelati ed è proprio da questa relazione che si profila ed emerge intutta la sua evidenza e nella sua fecondità il metodo ermeneutico proposto dall’autrice.

In chiusura, il volume è ampiamente corredato d’indice dei nomi e bibliografia.Più in particolare, l’appendice biografica degli intellettuali appare una lodevole impre-sa che conferisce maggior completezza all’opera fornendo un ulteriore strumento diricerca.

ROSSELLA DEL PRETE

A. DI VITTORIO, Tra mare e terra. Aspetti economici e finanziari della Repubblica di Ragusain età moderna, Cacucci Editore, Bari, 2001.

Situata nella Dalmazia meridionale, Dubrovnik, l’antica Ragusa, è oggi una dellecittà turistiche della Croazia che meglio conserva la sua memoria storica in un signifi-cativo retaggio di civiltà e tradizioni.

A. Di Vittorio ne ha studiato la vita economica e finanziaria in dieci saggi pubbli-cati in tempi diversi ed ora raccolti nel volume in esame, che diventa simbolico omag-gio alla Città. Si tratta di un percorso di ricerca inaugurato nel 1977 e che per venticin-que anni ha impegnato l’Autore pur senza distoglierlo da altri campi d’indagine. La sto-ria di Ragusa si dipana così in dieci tappe che indagano l’impatto delle scoperte porto-ghesi sull’economia ragusea, rivelando gli interessi e gli orientamenti della politicafinanziaria e della marineria della piccola Repubblica che, per la sua particolare posi-zione geografica, vanno dall’Adriatico all’Atlantico.

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Per contiguità cronologica e assonanza tematica, il testo rivela il preciso intentodell’Autore di andare oltre la mera raccolta di saggi, per seguire un progetto unitarioche racchiuda gli aspetti più significativi dell’evoluzione della realtà economica e finan-ziaria dello Stato raguseo e della sua sorprendente capacità di adattamento al continuomutare della situazione di riferimento internazionale. Nel seguire le linee di ricerca det-tate dall’autore e confacendosi alla natura stessa dei fenomeni esaminati, si vuole tantoentrare nel dettaglio dei singoli contributi, quanto illustrare, nel complesso, lo svolgi-mento di un interessante progetto di ricerca.

La memoria storica di Ragusa è tutta racchiusa in un’imponente documentazionearchivistica, che va dal 1282 fino al 1808, anno della soppressione formale della Repub-blica ragusea ad opera della Francia napoleonica. Il Congresso di Vienna la inserirà nel-l’Impero Asburgico, dove rimarrà sino al 1918 quando lo Stato di Ragusa entrerà nelmondo statuale slavo. Il ruolo economico e finanziario della città è avvertito in tutta lasua pregnanza attraverso l’ampia e ininterrotta documentazione d’archivio, che l’Auto-re divide in quattro gruppi, cui si aggiungono gli Statuti della Città di Ragusa raggrup-pati in tre libri.

Dai documenti politici e diplomatici del primo gruppo emerge la conduzione poli-tica dello Stato, tanto all’interno quanto sul piano internazionale. Il secondo gruppo didocumenti consente di indagare l’articolata vita economica e finanziaria dello Statoraguseo. Aspetti più particolari sono affidati a specifiche serie documentali, come i libridella Zecca, preposta non solo alla coniazione della moneta, ma anche a fornire creditial governo. Dai documenti emerge, pertanto, anche un ricco quadro dei prezzi di der-rate alimentari e di materie prime. La documentazione relativa alla vita giudiziariamostra come la repubblica evitasse i conflitti armati, riuscendo comunque a difendersibene sul piano giuridico nei rapporti tra Stati, e come cercasse di mantenere la pacesociale all’interno con un’amministrazione della giustizia per quanto possibile rapida ecerta. L’attività mercantile e marinara della repubblica è affidata ad una quarta partedella documentazione.

Le scoperte portoghesi, che portarono alla creazione di un impero coloniale inAsia, ebbero, nel secolo XVI, un notevole impatto sull’economia di Ragusa. L’indivi-duazione portoghese della via delle Indie attraverso il Capo di Buona Speranza inserìun elemento di instabilità nel Mediterraneo nel ’500. La Repubblica di Venezia, princi-pale beneficiaria del commercio delle spezie sino ad allora, e la Repubblica di Ragusa,che svolgeva una funzione di intermediazione nel traffico delle spezie, subirono unabattuta d’arresto nei primi due decenni del ’500. La crisi di quegli anni spinse laRepubblica dalmata a dedicarsi sempre più al commercio terrestre nei Balcani (da cui iRagusei importavano soprattutto lana, bestiame, pelli, cera, miele e vi esportavano stof-fe carisee inglesi) e agli investimenti finanziari all’estero.

Nel corso del secolo XVII, il commercio marittimo raguseo fu compromesso dallacrescente presenza di Inglesi, Francesi e Olandesi nel Mediterraneo. Ma proprio il com-mercio terrestre avrebbe limitato i danni derivanti dalla crisi che si sarebbe abbattutasulla Repubblica nel corso degli anni trenta del Seicento.

Tra la metà ’400 e gli inizi ’500 la marineria ragusea aveva conosciuto una continuae crescente fase di espansione, che aveva investito con la sua spinta gran parte del

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restante secolo XVI. L’estensione territoriale della Repubblica di Ragusa era già defini-tiva a metà ’400 e i dati demografici toccano dei vertici mai più raggiunti proprio allametà del secolo XV. È il momento di massima crescita della Repubblica che coinvolgela cantieristica e la flotta, sia in tonnellaggio che per dimensione delle imbarcazioni. Neconsegue un significativo ampliamento del raggio di azione raguseo testimoniato dal-l’aumento e dalla dislocazione del numero di consolati. Partendo dall’analisi di unnucleo di viaggi documentati (41 navi che nell’arco di alcuni decenni del secolo XVI,alla media di uno per anno, hanno collegato Mediterraneo ed Atlantico, con destina-zione, o punti di partenza, l’Inghilterra) l’Autore perviene ad una serie di considerazio-ni tanto sulla navigazione ragusea tra Mediterraneo ed Atlantico, quanto sul commerciomarittimo effettuato da navi ragusee tra Mediterraneo ed Inghilterra, la principale metaatlantica in questo periodo.

La molla economica che orientò la marineria ragusea verso la navigazione atlanti-ca e l’Inghilterra in particolare fu la crescente fortuna che i tessuti inglesi incontravanonei Balcani: Ragusa non aveva una sua manifattura tessile, distrutta nel 1463 e mai piùriattivata. Essa, quindi, approfittando anche dell’indebolimento di Venezia agli inizi del’500, rifornitrice sino ad allora di tessuti inglesi nella suddetta area, cercò di approdaredirettamente sul mercato d’oltremanica.

Il successo delle navi ragusee nella navigazione dal Mediterraneo all’Atlantico fudovuto anche a fattori economici, quali i noli e le assicurazioni. I noli erano concorren-ziali non solo perché la flotta ragusea era una delle più cospicue del Mediterraneo masoprattutto perché a bordo di tali navi aveva un numero relativamente ridotto di mem-bri dell’equipaggio. Ciò significava da un lato meno spese, dall’altro aumento di capa-cità di carico. Si ritiene che il solo nolo di andata equivalesse al valore della nave e,quindi, ogni ulteriore viaggio avrebbe rappresentato per i proprietari un guadagnonetto. Naturalmente bisognava tener conto dei corsari, delle requisizioni del carico, deinaufragi e di altri incidenti a cui si poteva andare incontro in un viaggio così lungo.Tutto ciò portò all’adozione di tassi assicurativi più elevati rispetto a quelli mediterra-nei, più che per la lunghezza del viaggio, per l’onere dei pericoli.

Non è da sottovalutare il ruolo “europeo” di Ragusa in campo marittimo e com-merciale. Le fonti documentarie utilizzate dall’Autore, ricostruiscono, oltre al volumedegli investimenti ed ai flussi di rendita dalla fine del ’500 alla fine del ’700, il numeroe la qualità degli investimenti e, ovviamente, il luogo ove questi erano effettuati. Le areedi destinazione degli investimenti finanziari ragusei in Italia sono rappresentati, nellaquasi totalità da Roma, Napoli, Venezia, Genova e Palermo e Messina. Gli investimen-ti e le relative rendite sono fatti sempre nella moneta locale dei singoli Stati con cui iRagusei intrattenevano relazioni finanziarie. Il fattore “sicurezza”, molto più del tassod’interesse, sembrò essere l’elemento preponderante nel dirigere gli investimenti finan-ziari verso questo o quello Stato italiano. Ciò determinò la forte concorrenza veneta ecostrinse lo Stato raguseo ad allontanare i propri capitali da Venezia.

Tra le piazze italiane, quelle considerate più sicure, oltre che più facilmente rag-giungibili e controllabili, erano la piazza romana e quella napoletana. Il calo registratonegli investimenti ragusei a Roma fu dovuto essenzialmente al caos finanziario cheregnò a fine secolo nello Stato Pontificio. Nella sua globalità, comunque, l’investimen-

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to raguseo in Italia aumentò negli ultimi decenni del ’500 e nel primo ventennio del’600 era ancora in forte espansione a Napoli, che apparve di gran lunga la sede preferi-ta assorbendo ben l’84% del totale del capitale raguseo impiegato in Italia.

Negli anni ’30 del secolo XVII si registra l’inversione di tendenza del ciclo dell’e-conomia ragusea. La crisi economica, che aveva già toccato altri paesi dell’Europa, siabbatté anche su Ragusa, colpendola nella parte più vitale e delicata della sua strutturaeconomica, vale a dire la flotta e l’attività mercantile in genere. L’andamento del tassod’interesse sulle piazze finanziarie italiane ove si registrò un afflusso di capitale raguseoconferma che si è in presenza di un periodo inflazionistico. L’afflusso di metalli prezio-si in Europa permise, anche in Italia, un’espansione dell’offerta di moneta. Ma l’au-mento della disponibilità di capitali spinse verso il basso il tasso d’interesse(dall’8,21%, nel 1575-77 al 6,42% del 1621 a Napoli). La piazza partenopea offrì nelcorso del secolo XVIII, con esclusione degli anni ’90, un tasso medio di interessesostanzialmente stabile.

L’autore concentra poi la sua attenzione sulla politica finanziaria a Ragusa nell’‹‹etàdi transizione››, un momento cruciale della sua storia, vale a dire il periodo che segnòil passaggio dalla prosperità dei secoli XV-XVI alla crisi degli anni ’30 del Seicento. Sitratta di uno dei settori più trascurati dalla storiografia ragusea che Di Vittorio analizzainvece nei suoi presupposti teorici fondamentali per capire la politica economica efinanziaria di quegli anni. L’amministrazione finanziaria di Ragusa era per molti versicomplessa e sui generis. Essa era ripartita tra una serie di uffici, le cui competenze nonsempre rimasero le stesse nel corso degli anni. Se l’amministrazione finanziaria delloStato si presentava complessa, al contrario, agli inizi del Seicento, l’indirizzo di politicaeconomica e finanziaria fu molto lineare. I presupposti teorici cui si ispirò l’azionefinanziaria degli organi di governo ragusei furono espressi soprattutto da Nicola VitoGozze, che filtrò monetarismo e mercantilismo a Ragusa, tra fine ’500 e inizi del ’600,facendosi interprete, nella Repubblica dalmata, delle coeve correnti di pensiero econo-mico occidentale. Egli esaltava la funzione dello Stato nella vita economica e con la suaopera influenzò l’operato dei governi della Repubblica, specie in tema di politica fisca-le e d’intervento dello Stato nell’economia.

Uno dei fondi archivistici più cospicui ed importanti è costituito dalla corrispon-denza che non poteva non presupporre l’esistenza di un ben articolato ed efficientesistema postale. Lo Stato raguseo aveva messo in piedi un sistema postale tra i miglioridell’età moderna, allo scopo di essere prontamente informato di qualunque evento chepotesse aver ripercussioni sulla vita della Repubblica o da questa potesse essere utiliz-zato ai fini della propria espansione politica e commerciale, ma molto spesso, anche aifini della propria stessa sopravvivenza. Esso poggiava sulla vasta rete di consolati, dis-seminati in tutto il Mediterraneo e nei Balcani, il cui numero aumentava o si contraevaa seconda dell’espandersi o del contrarsi dell’economia ragusea. Accanto a questa cor-rispondenza ufficiale e politica in senso lato, che faceva capo ai vertici dello Stato, ilsistema postale raguseo si sostanziava in una corrispondenza privata a carattere preva-lentemente mercantile. Il principale itinerario terrestre, utilizzato sia dalla posta privatache da quella ufficiale ragusea, era rappresentato dalla grande direttrice che collegava,attraverso un percorso di oltre un migliaio di chilometri, completamente in territorio

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ottomano, Ragusa con Costantinopoli. Ma la maggior parte della posta ragusea, siapubblica che privata, viaggiava “via mare”, dal momento che solo per mare si potevanorealizzare le grandissime velocità (200 e più chilometri al giorno col bel tempo). Lerotte che maggiormente canalizzavano la posta ragusea erano quelle adriatiche, quelleioniche e siciliane, quelle verso il Mediterraneo orientale e quelle verso il MediterraneoOccidentale e l’Atlantico. Non esistevano tariffe fisse per le poste ragusee.

Il ruolo del sale nel secolo XVIII fu importantissimo: esso rappresentava l’unicoprodotto extra-agricolo di cui la Repubblica di Ragusa potesse disporre, in tempi nor-mali, in relativa abbondanza per il consumo interno. Per conseguenza, se la produzio-ne ed il commercio del sale giuocavano un ruolo importante nel regno di Napoli (conle saline di Barletta) o nella Repubblica di Venezia (con il sale di Cervia), nonché inaltre aree gravitanti sull’Adriatico, è comprensibile come tale ruolo divenisse addirittu-ra determinante allorché si consideri il sale nel contesto dell’economia e della finanzaragusea, tanto nei periodi di prosperità come in quelli di decadenza. Il sale continuò arappresentare una delle merci più richieste dall’interno balcanico e, quindi, uno deglielementi di collegamento più validi tra Ragusa e gli antichi e tradizionali mercatibosniaci, erzegovesi, serbi, ma anche montenegrini e macedoni. La capillarità dell’orga-nizzazione preposta all’approvvigionamento ed alla vendita del sale, l’attenzione all’in-terno ed all’esterno con cui se ne seguiva il commercio, la cura prestata alle saline loca-li, testimoniano in abbondanza il peso che il sale aveva nell’economia e nella finanzaragusee.

Le isole ragusee fanno parte, come regione geografica, della Dalmazia, parte a suavolta della Croazia, e rappresentano alcune delle 1185 tra isole e isolette costituenti l’ar-cipelago dalmata, di cui soltanto 66 sono abitate. L’economia delle isole poggiava sul-l’attività marittima (che consisteva essenzialmente nello svolgimento, da parte degli abi-tanti, del ruolo di marinai nella flotta mercantile della Repubblica, oltre ad un discretoimpegno nella pesca del corallo) e sull’agricoltura. L’attività agricola non solo sopperi-va ai bisogni delle isole, ma determinava la composizione sociale della popolazione equesto pesava sul ruolo politico che le isole avevano nel contesto della Repubblica.Determinante fu il loro contributo in termini di uomini, marinai e capitani marittimi, il“vero” esercito con cui la Repubblica dalmata fronteggiò la concorrenza commercialedi Inglesi, Francesi e Olandesi in Adriatico.

Sul piano economico, la Repubblica di Ragusa a fine Settecento, beneficiò di unperiodo di prosperità, avviatosi a metà secolo e fondato sulla ripresa delle tradizionaliattività economiche, quali la marineria, il commercio e le assicurazioni. I protagonistidella ripresa della marineria ragusea di metà ’700 furono borghesi e “popolani” cheinsieme detenevano il 75% circa della quota di proprietà della flotta della città dalma-ta. Ciò che dette slancio al commercio marittimo raguseo nella seconda metà del Sette-cento fu soprattutto il commercio d’intermediazione tra l’uno e l’altro bacino del Medi-terraneo. Punti nodali di questo traffico furono Livorno, Genova e Marsiglia. Sostan-zialmente stabili furono i cambi fino a tutti gli anni ’80 del secolo. Il ducato raguseo,equivalente a 40 grossi, era stabile nei confronti delle principali monete con cui era incontatto come il ducato napoletano, lo scudo anconetano, il ducato veneziano e il talle-ro austriaco. Altrettanto stabili furono prezzi e salari. Gli anni successivi si consumaro-

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no fino alla caduta di Ragusa nelle mani dei Francesi. Il tutto mentre l’economia ragu-sea dava crescenti segnali di difficoltà ai primi dell’800.

Il volume si chiude facendo il punto sulla situazione della Storiografia marittimaragusea, cui forze contemporanee e tutto sommato modeste, per metodologia non sem-pre raffinata, hanno tuttavia conferito una estrema vivacità che si è imposta all’atten-zione della storiografia marittima occidentale, stimolandone attenzione e apporti meto-dologici e di contenuto, estesi poi alla più generale storiografia ragusea.

L’edizione si presenta sobria, corredata soltanto dall’indicazione bibliografica delleprime pubblicazioni dei dieci saggi e da un’altrettanto scarna introduzione dell’esten-sore. L’essenzialità della veste editoriale si contrappone tuttavia ad una ricchezza diinformazioni inedite, spesso sintetizzate in grafici e tabelle, risultato di ricerca direttasulle fonti che, nel complesso, fanno luce non solo sugli aspetti storiografici delle vicen-de marittime di Ragusa, ma anche sulle modalità degli investimenti finanziari nellediverse aree geografiche, di cui alcune fin qui poco considerate o addirittura mai stu-diate. Importante appare dunque il contributo che il progetto di ricerca di Antonio diVittorio offre alla conoscenza della vita economica dello Stato di Ragusa dal Medioevoall’età moderna.

ROSSELLA DEL PRETE

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