Il crociato infedele - Davide Mosca

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Il vento che soffia dal deserto toglie il fiato. Intorno ai protagonisti si prepara l’assedio più impressionante di tutto il medioevo: niente è paragonabile all’armata giunta dall’Europa per rimpossessarsi della Terrasanta. Da questa sfida dipenderà una delle grandi svolte della Storia. "Il crociato infedele" è l’epopea delle crociate e degli uomini che, a dispetto dei loro vent’anni, le hanno combattute. Pronti a morire per un ideale, a gettarsi in battaglia armati soltanto del proprio spirito, in quell’unione folle di ebbrezza e tormento che è la guerra.

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Rizzoli

Davide Mosca

Il crociato infedele

1099, l’assedio di Gerusalemme

Proprietà letteraria riservata© 2014, Davide Mosca

Edizione pubblicata in accordo conPNLA / Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-07205-2

Prima edizione: febbraio 2014

Realizzazione editoriale: studio pym /Milano

Il crociato infedele

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Genova l’abbiamo fondata io e Guglielmo Embriaco Te-

stadimaglio su una spiaggia di Giaffa, in Terrasanta, una

mattina di giugno dell’anno del Signore millenovantanove.

Avevamo vent’anni.

La mente di un vecchio è uno strano scrigno, capita spes-

so di trovarvi qualche monile che ci si era dimenticati di

possedere.

Nelle chiare giornate d’autunno scendo al porto a os-

servare le navi, e per ozio o vanità mi domando se si pos-

sa considerare il vero fondatore di una città colui che ha

posto la prima pietra o piuttosto chi l’ha resa grande: Ro-

molo e Remo, oppure Scipione; Teseo, oppure Platone e

Pericle. Mentre attendo che siano le onde o le barche a

portarmi la risposta, ripenso a tutti i ruoli che ho recitato

nella mia lunga vita: console, infedele, mercante, guerriero,

pellegrino, diplomatico, generale, scrittore, ammiraglio; e

alle persone con cui ho trattato: papi, duchi, conti, vesco-

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vi, imperatori, re, cadì, emiri, visir. Ogni volta mi sovvie-

ne un personaggio di cui mi ero dimenticato, oppure un

mestiere che non ricordavo di aver svolto, ma sempre la

mia mente ritorna a quella mattina di oltre sessant’anni fa,

quando su una piccola spiaggia si decise il destino di tutto

il nostro mondo.

Millenovantanove anni dopo la nascita di nostro Signo-

re, morimmo e rinascemmo a Gerusalemme.

Casa. Fu la prima parola che mi salì alle labbra quando

vidi profilarsi la costa della Terrasanta, su cui sventolava la

composita bandiera del Mediterraneo, la stessa che puoi

trovare su una spiaggia della Liguria come su una dell’Asia

Minore: il bianco abbagliante della luce, l’azzurro del cielo

intessuto con luminosi fili d’oro e il colore del mare, qua-

lunque esso sia. Omero lo paragonava spesso a quello del

vino, e non me la sento di contraddirlo, visto che davvero

puoi ubriacartene.

Ero salito su una nave a sette anni e da allora avevo na-

vigato prima con mio zio e poi con mio padre per buona

parte di quel Mediterraneo che come una toppa cuciva in-

sieme tutte le variopinte vesti che lo circondavano.

Casa. Fu la seconda parola che mi venne in mente men-

tre ci avvicinavamo alla baia di Giaffa. Non l’avremmo ri-

vista più, Genova, perché nessuno di noi sarebbe tornato

indietro. Se fossimo morti o se invece fossimo sopravvissu-

ti non avrebbe avuto alcuna importanza. Era uno di quei

viaggi da cui nessuno fa ritorno.

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Genova e il mondo erano assai diversi all’epoca del-

la spedizione in Terrasanta, molto più piccola la prima

e molto più grande il secondo. La nostra inaspettata e

miracolosa espansione ha poi reso il mondo meno vasto:

basta un ponte per domare un fiume e noi ne abbiamo

gettate svariate decine nel corso degli ultimi lustri. Se

il Mediterraneo era allora un oceano, oggi è un lago. Il

nostro lago.

A quei tempi, però, eravamo come uno squalo in una

tinozza. Che senso aveva essere potenzialmente l’animale

più pericoloso del mare, se non avevi un mare? Il Me-

diterraneo orientale era saldamente in mano alla flotta

dell’impero bizantino, con cui i rapporti non erano buoni

come un tempo, mentre quello occidentale era infestato

dalla pirateria saracena.

L’unica rotta almeno in parte sicura era quella verso la

Francia meridionale, perché i provenzali erano riusciti

a distruggere quasi tutte le basi dei pirati berberi, ma

un’unica destinazione non era sufficiente per imbastire

un vero traffico marino. Ogni rotta commerciale deve in-

fatti formare un triangolo per diventare redditizia: vendi

panni a Marsiglia in cambio di sale che poi scambi ad

Alessandria d’Egitto per argento e avorio da rivendere

infine a Genova. Poiché non era quasi mai facile trova-

re il terzo angolo, il più delle volte dovevamo affidarci

alla buona sorte e alla nostra temerarietà. I saraceni non

sapevano mai se indossare i panni dei commercianti o

dei pirati, e spesso facevano entrambe le cose: capitava

così di concludere buoni affari all’emporio del Cairo per

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poi essere depredati al largo delle coste iberiche dai pirati

berberi.

Insomma, il Mediterraneo non era il più sicuro dei luo-

ghi e molte galee genovesi abbellivano il suo fondale: non

erano state costruite per quello.

Sul continente le cose non andavano molto meglio, se

è vero che lotte e guerre imperversavano per tutta Euro-

pa falcidiando intere generazioni. O, per lo meno, ave-

vano imperversato fino al novembre dell’Anno Domini

millenovantacinque quando, a Clermont, il papa Urbano

ii aveva chiamato i guerrieri europei al pellegrinaggio in

Terrasanta.

L’appello arrivava in risposta all’accorata lettera di Ales-

sio Comneno, imperatore romano d’Oriente, che chiedeva

l’invio urgente di truppe per aiutare i bizantini a respingere

l’attacco devastante dei turchi selgiuchidi. Secondo le ulti-

me notizie, erano dilagati in Terrasanta occupando i luoghi

sacri, opprimendo le popolazioni cristiane e rendendo pra-

ticamente impossibili i pellegrinaggi, e ora avanzavano in

Anatolia puntando addirittura su Costantinopoli. Il passo

successivo sarebbe stata l’Europa.

La voce del papa si trasformò in un tifone e nel giro di

pochi mesi migliaia di persone si misero in marcia dietro

a predicatori itineranti e cavalieri solitari; erano per lo più

contadini, popolani, donne, chierici, ragazzini, una schie-

ra composita e rutilante priva di disciplina militare, armi e

vettovaglie: non avevano nulla se non il cuore, e quello fu

il loro unico bagaglio. Non era a costoro che l’appello era

stato rivolto, ma chi poteva fermarli ormai? I principi con i

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loro séguiti partirono appena qualche settimana dopo: fran-

chi, provenzali, normanni, fiamminghi, nonché tedeschi e

italiani delle città libere. Un continente in marcia.

In quei giorni del millenovantasei, io e Guglielmo Em-

briaco eravamo troppo giovani per partire e tre anni dopo

non eravamo certo più maturi, quando ci radunammo

nell’antica chiesa genovese di San Siro per accogliere i no-

stri concittadini reduci dalla Terrasanta, dove erano andati

per portare soccorso all’esercito occidentale di liberazione.

Erano salpati in duemila l’estate prima, ma appena una cin-

quantina erano rientrati. Raccontavano di aver partecipato

alla riconquista di Antiochia e portavano documenti per

testimoniare il successo dell’impresa, ma la loro nave era

vuota: nessuna ricchezza, nemmeno una cassa di merci, sol-

tanto un pugno di ceneri che giuravano fossero quelle di

Giovanni il Battista. Magri, come se avessero patito la fame,

ma negli occhi una luce che a noi ragazzi fece impressione.

La luce di chi ha visto qualcosa o qualcuno che nessun altro

ha mai visto, una luce che ardeva più intensamente delle

candele.

In quei tre anni gli occidentali giunti in soccorso dei bi-

zantini erano riusciti a respingere i turchi dalla penisola

anatolica e appunto a riprendere Antiochia, dopo un ter-

ribile assedio durato un anno, ma le buone notizie finiva-

no lì: molti uomini erano caduti, l’alleanza con i bizantini

scricchiolava, i rifornimenti erano difficili, il tempo ostile e

i luoghi santi ben lungi dall’essere liberati.

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Sebbene coloro che erano tornati dalla spedizione an-

nunciassero una grande vittoria, ai più sembravano gli am-

basciatori di una terribile sconfitta. A nulla valsero i loro

appassionati appelli: l’invito ad armare navi per portar soc-

corso ai fratelli in Terrasanta cadde nel vuoto. Erano tempi

cupi a causa delle faide interne e le vacillanti autorità citta-

dine si rifiutarono di investire in un’impresa chiaramente

fallimentare. Dov’erano le ricchezze? Quali merci portava-

no i reduci? Se la guerra andava bene, perché erano ritorna-

ti in così scarso numero e in quelle condizioni?

Chi avesse voluto recarsi in Palestina per andare in aiuto

dell’esercito occidentale e guadagnarsi il paradiso, avreb-

be dovuto farlo come privato cittadino. La compagine che

dirigeva in quel momento la città non avrebbe partecipato.

Meglio crogiolarsi in purgatorio, che arrostire all’inferno.

Era un periodo di insanguinate lotte intestine tra i con-

sorzi di famiglie per il controllo del governo e a nessuno

andava di lasciare Genova, dove imperversava una sorta

di tacita guerra civile. C’erano agguati, rappresaglie, imbo-

scate, piani segreti, e chiunque aspirasse al consolato della

città reclutava uomini. A tutti sembrava che andarsene in

quel momento avrebbe significato perdere ogni possibilità

di carriera e di potere. Un vero suicidio.

Solo una persona la pensava diversamente. E per uno stra-

no caso del destino quella persona era il mio migliore amico.

Guglielmo Embriaco era il figlio cadetto del ramo mino-

re di una potente famiglia di origine viscontile che lottava

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in quel momento per assicurarsi il controllo di Genova.

Nella stessa consorteria di famiglie c’era anche la mia. De-

gli otto consorzi cittadini, ciascuno ancorato a una porzio-

ne di città, il nostro era quello che poteva vantare l’origine

più antica, e forse proprio per questo accusavamo il colpo:

se avessi dovuto scommettere su chi l’avrebbe spuntata alla

fine, noi saremmo stati la terza scelta. E il terzo posto non

era male, peccato che i gruppi che avessero reali possibilità

di successo fossero appunto tre.

Guglielmo ed io eravamo perciò cresciuti insieme, e chi

ci vedeva correre per i vicoli della zona di Castello, il no-

stro quartiere roccaforte, ci chiamava l’orso e la volpe. La

cosa buffa è che io non ero affatto basso, ma quando si

cresce all’ombra di un gigante non sempre è facile farsi

notare. Non che la cosa mi dispiacesse. Più di una volta lo

avevo usato come scudo.

Sebbene le vicende del mare ci avessero portato spesso

e volentieri a non vederci per mesi, io sulle rotte per Ales-

sandria d’Egitto e lui verso quelle di Provenza, eravamo

rimasti legatissimi e ogni volta che ci si ritrovava a Genova

era un’occasione per far baldoria, e in quello non eravamo

secondi a nessuno.

Quando lo vidi arrivare sotto casa mia quella mattina

di aprile capii subito che aveva preso una decisione, e non

era una buona notizia. Guglielmo è uno di quegli uomini le

cui scelte hanno sempre un peso e una ricaduta. Un conto

è quando cade una rosa, un conto quando cade un albero.

E Guglielmo era una quercia secolare.

In quei giorni terribili, poi, le persone normali, e per nor-

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mali intendo quelle consapevoli di essere mortali, usavano

le passerelle mobili di legno per andare da una casa all’al-

tra, da una finestra a quella di fronte: i vicoli erano troppo

pericolosi e le imboscate all’ordine del giorno. Una delle

definizioni di genovesi che mi divertivo a coniare per il mio

personale dizionario: uomini che non hanno il benché mi-

nimo timore a percorrere il vasto mare con tutti i suoi peri-

coli, ma senza il coraggio di passeggiare in città.

«Non dirmi che hai deciso di farti monaco» gli dissi quan-

do me lo vidi davanti, un uomo di otto palmi e trecento

libbre che si muoveva con la rapidità di un gatto.

Mi guardò come se avessi indovinato le sue intenzioni

segrete. «Ho deciso di farmi monaco, guerriero, mercan-

te, ma anche diplomatico, marinaio, contadino, falegname,

medico. E qualsiasi altra cosa sarà necessaria per salvare

noi e la città.»

«Guarda che carnevale è passato da un pezzo.»

«Sono serio.»

«E quando mai non lo sei stato?»

«Puoi esserlo anche tu per una volta?»

«E poi chi chiameremmo a bilanciare la coppia?»

«Per favore, Caffaro.»

Sospirai. Fin dall’infanzia avevo sempre avuto l’impres-

sione che un giorno quell’uomo mi avrebbe legato a lui.

Così come lui era legato alla ruota del destino. Avevo ma-

turato quell’idea quando a undici anni mi aveva salvato la

vita: ci sono momenti nell’infanzia in cui il futuro fa capo-

lino e quel giorno avevo intuito che tra me e Guglielmo

non sarebbe finita lì. Finché morte non vi separi, avevo

sentito bisbigliare una voce quella mattina di nove anni

prima.

«Vuoi guidare una rivolta?» gli domandai, immaginan-

do che avesse deciso di impegnarsi in prima persona nella

battaglia cittadina.

«Non è qui che si decide il destino di Genova.»

«Ah no? E dove mai si deciderebbe secondo te?»

«A Gerusalemme.»

«A Gerusalemme?» La parola mi si incastrò in gola.

«Scusa se te lo ricordo, ma è dall’altra parte del mondo.»

«Ti sbagli, è di strada. Sulla nostra strada.»

Dato che la geografia non era il suo forte, provai con la

politica. «Non hai sentito le autorità?»

«Se le autorità pubbliche voltano le spalle alla giustizia,

saranno i privati cittadini ad abbracciarla.»

«Guglielmo, non verrà organizzata alcuna spedizione in

Terrasanta.»

«Invece verrà organizzata.»

«E da chi, si può sapere?»

«Da due persone che conosci molto bene.»

Per quanto mi sforzassi di pensare non riuscii a trovare

tra i miei amici due uomini così folli, e dire che di pazzi

testardi ne avevo incontrati un bel po’. Ma poi all’improv-

viso capii, e credo che sbiancai perché Guglielmo sorrise

e annuì con felicità fanciullesca. «Proprio così. Tu ed io.»

Ed io. Sì, Dio. Ecco quello che ci sarebbe voluto.