Il crociato infedele - Davide Mosca
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Transcript of Il crociato infedele - Davide Mosca
Proprietà letteraria riservata© 2014, Davide Mosca
Edizione pubblicata in accordo conPNLA / Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07205-2
Prima edizione: febbraio 2014
Realizzazione editoriale: studio pym /Milano
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Genova l’abbiamo fondata io e Guglielmo Embriaco Te-
stadimaglio su una spiaggia di Giaffa, in Terrasanta, una
mattina di giugno dell’anno del Signore millenovantanove.
Avevamo vent’anni.
La mente di un vecchio è uno strano scrigno, capita spes-
so di trovarvi qualche monile che ci si era dimenticati di
possedere.
Nelle chiare giornate d’autunno scendo al porto a os-
servare le navi, e per ozio o vanità mi domando se si pos-
sa considerare il vero fondatore di una città colui che ha
posto la prima pietra o piuttosto chi l’ha resa grande: Ro-
molo e Remo, oppure Scipione; Teseo, oppure Platone e
Pericle. Mentre attendo che siano le onde o le barche a
portarmi la risposta, ripenso a tutti i ruoli che ho recitato
nella mia lunga vita: console, infedele, mercante, guerriero,
pellegrino, diplomatico, generale, scrittore, ammiraglio; e
alle persone con cui ho trattato: papi, duchi, conti, vesco-
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vi, imperatori, re, cadì, emiri, visir. Ogni volta mi sovvie-
ne un personaggio di cui mi ero dimenticato, oppure un
mestiere che non ricordavo di aver svolto, ma sempre la
mia mente ritorna a quella mattina di oltre sessant’anni fa,
quando su una piccola spiaggia si decise il destino di tutto
il nostro mondo.
Millenovantanove anni dopo la nascita di nostro Signo-
re, morimmo e rinascemmo a Gerusalemme.
Casa. Fu la prima parola che mi salì alle labbra quando
vidi profilarsi la costa della Terrasanta, su cui sventolava la
composita bandiera del Mediterraneo, la stessa che puoi
trovare su una spiaggia della Liguria come su una dell’Asia
Minore: il bianco abbagliante della luce, l’azzurro del cielo
intessuto con luminosi fili d’oro e il colore del mare, qua-
lunque esso sia. Omero lo paragonava spesso a quello del
vino, e non me la sento di contraddirlo, visto che davvero
puoi ubriacartene.
Ero salito su una nave a sette anni e da allora avevo na-
vigato prima con mio zio e poi con mio padre per buona
parte di quel Mediterraneo che come una toppa cuciva in-
sieme tutte le variopinte vesti che lo circondavano.
Casa. Fu la seconda parola che mi venne in mente men-
tre ci avvicinavamo alla baia di Giaffa. Non l’avremmo ri-
vista più, Genova, perché nessuno di noi sarebbe tornato
indietro. Se fossimo morti o se invece fossimo sopravvissu-
ti non avrebbe avuto alcuna importanza. Era uno di quei
viaggi da cui nessuno fa ritorno.
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Genova e il mondo erano assai diversi all’epoca del-
la spedizione in Terrasanta, molto più piccola la prima
e molto più grande il secondo. La nostra inaspettata e
miracolosa espansione ha poi reso il mondo meno vasto:
basta un ponte per domare un fiume e noi ne abbiamo
gettate svariate decine nel corso degli ultimi lustri. Se
il Mediterraneo era allora un oceano, oggi è un lago. Il
nostro lago.
A quei tempi, però, eravamo come uno squalo in una
tinozza. Che senso aveva essere potenzialmente l’animale
più pericoloso del mare, se non avevi un mare? Il Me-
diterraneo orientale era saldamente in mano alla flotta
dell’impero bizantino, con cui i rapporti non erano buoni
come un tempo, mentre quello occidentale era infestato
dalla pirateria saracena.
L’unica rotta almeno in parte sicura era quella verso la
Francia meridionale, perché i provenzali erano riusciti
a distruggere quasi tutte le basi dei pirati berberi, ma
un’unica destinazione non era sufficiente per imbastire
un vero traffico marino. Ogni rotta commerciale deve in-
fatti formare un triangolo per diventare redditizia: vendi
panni a Marsiglia in cambio di sale che poi scambi ad
Alessandria d’Egitto per argento e avorio da rivendere
infine a Genova. Poiché non era quasi mai facile trova-
re il terzo angolo, il più delle volte dovevamo affidarci
alla buona sorte e alla nostra temerarietà. I saraceni non
sapevano mai se indossare i panni dei commercianti o
dei pirati, e spesso facevano entrambe le cose: capitava
così di concludere buoni affari all’emporio del Cairo per
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poi essere depredati al largo delle coste iberiche dai pirati
berberi.
Insomma, il Mediterraneo non era il più sicuro dei luo-
ghi e molte galee genovesi abbellivano il suo fondale: non
erano state costruite per quello.
Sul continente le cose non andavano molto meglio, se
è vero che lotte e guerre imperversavano per tutta Euro-
pa falcidiando intere generazioni. O, per lo meno, ave-
vano imperversato fino al novembre dell’Anno Domini
millenovantacinque quando, a Clermont, il papa Urbano
ii aveva chiamato i guerrieri europei al pellegrinaggio in
Terrasanta.
L’appello arrivava in risposta all’accorata lettera di Ales-
sio Comneno, imperatore romano d’Oriente, che chiedeva
l’invio urgente di truppe per aiutare i bizantini a respingere
l’attacco devastante dei turchi selgiuchidi. Secondo le ulti-
me notizie, erano dilagati in Terrasanta occupando i luoghi
sacri, opprimendo le popolazioni cristiane e rendendo pra-
ticamente impossibili i pellegrinaggi, e ora avanzavano in
Anatolia puntando addirittura su Costantinopoli. Il passo
successivo sarebbe stata l’Europa.
La voce del papa si trasformò in un tifone e nel giro di
pochi mesi migliaia di persone si misero in marcia dietro
a predicatori itineranti e cavalieri solitari; erano per lo più
contadini, popolani, donne, chierici, ragazzini, una schie-
ra composita e rutilante priva di disciplina militare, armi e
vettovaglie: non avevano nulla se non il cuore, e quello fu
il loro unico bagaglio. Non era a costoro che l’appello era
stato rivolto, ma chi poteva fermarli ormai? I principi con i
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loro séguiti partirono appena qualche settimana dopo: fran-
chi, provenzali, normanni, fiamminghi, nonché tedeschi e
italiani delle città libere. Un continente in marcia.
In quei giorni del millenovantasei, io e Guglielmo Em-
briaco eravamo troppo giovani per partire e tre anni dopo
non eravamo certo più maturi, quando ci radunammo
nell’antica chiesa genovese di San Siro per accogliere i no-
stri concittadini reduci dalla Terrasanta, dove erano andati
per portare soccorso all’esercito occidentale di liberazione.
Erano salpati in duemila l’estate prima, ma appena una cin-
quantina erano rientrati. Raccontavano di aver partecipato
alla riconquista di Antiochia e portavano documenti per
testimoniare il successo dell’impresa, ma la loro nave era
vuota: nessuna ricchezza, nemmeno una cassa di merci, sol-
tanto un pugno di ceneri che giuravano fossero quelle di
Giovanni il Battista. Magri, come se avessero patito la fame,
ma negli occhi una luce che a noi ragazzi fece impressione.
La luce di chi ha visto qualcosa o qualcuno che nessun altro
ha mai visto, una luce che ardeva più intensamente delle
candele.
In quei tre anni gli occidentali giunti in soccorso dei bi-
zantini erano riusciti a respingere i turchi dalla penisola
anatolica e appunto a riprendere Antiochia, dopo un ter-
ribile assedio durato un anno, ma le buone notizie finiva-
no lì: molti uomini erano caduti, l’alleanza con i bizantini
scricchiolava, i rifornimenti erano difficili, il tempo ostile e
i luoghi santi ben lungi dall’essere liberati.
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Sebbene coloro che erano tornati dalla spedizione an-
nunciassero una grande vittoria, ai più sembravano gli am-
basciatori di una terribile sconfitta. A nulla valsero i loro
appassionati appelli: l’invito ad armare navi per portar soc-
corso ai fratelli in Terrasanta cadde nel vuoto. Erano tempi
cupi a causa delle faide interne e le vacillanti autorità citta-
dine si rifiutarono di investire in un’impresa chiaramente
fallimentare. Dov’erano le ricchezze? Quali merci portava-
no i reduci? Se la guerra andava bene, perché erano ritorna-
ti in così scarso numero e in quelle condizioni?
Chi avesse voluto recarsi in Palestina per andare in aiuto
dell’esercito occidentale e guadagnarsi il paradiso, avreb-
be dovuto farlo come privato cittadino. La compagine che
dirigeva in quel momento la città non avrebbe partecipato.
Meglio crogiolarsi in purgatorio, che arrostire all’inferno.
Era un periodo di insanguinate lotte intestine tra i con-
sorzi di famiglie per il controllo del governo e a nessuno
andava di lasciare Genova, dove imperversava una sorta
di tacita guerra civile. C’erano agguati, rappresaglie, imbo-
scate, piani segreti, e chiunque aspirasse al consolato della
città reclutava uomini. A tutti sembrava che andarsene in
quel momento avrebbe significato perdere ogni possibilità
di carriera e di potere. Un vero suicidio.
Solo una persona la pensava diversamente. E per uno stra-
no caso del destino quella persona era il mio migliore amico.
Guglielmo Embriaco era il figlio cadetto del ramo mino-
re di una potente famiglia di origine viscontile che lottava
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in quel momento per assicurarsi il controllo di Genova.
Nella stessa consorteria di famiglie c’era anche la mia. De-
gli otto consorzi cittadini, ciascuno ancorato a una porzio-
ne di città, il nostro era quello che poteva vantare l’origine
più antica, e forse proprio per questo accusavamo il colpo:
se avessi dovuto scommettere su chi l’avrebbe spuntata alla
fine, noi saremmo stati la terza scelta. E il terzo posto non
era male, peccato che i gruppi che avessero reali possibilità
di successo fossero appunto tre.
Guglielmo ed io eravamo perciò cresciuti insieme, e chi
ci vedeva correre per i vicoli della zona di Castello, il no-
stro quartiere roccaforte, ci chiamava l’orso e la volpe. La
cosa buffa è che io non ero affatto basso, ma quando si
cresce all’ombra di un gigante non sempre è facile farsi
notare. Non che la cosa mi dispiacesse. Più di una volta lo
avevo usato come scudo.
Sebbene le vicende del mare ci avessero portato spesso
e volentieri a non vederci per mesi, io sulle rotte per Ales-
sandria d’Egitto e lui verso quelle di Provenza, eravamo
rimasti legatissimi e ogni volta che ci si ritrovava a Genova
era un’occasione per far baldoria, e in quello non eravamo
secondi a nessuno.
Quando lo vidi arrivare sotto casa mia quella mattina
di aprile capii subito che aveva preso una decisione, e non
era una buona notizia. Guglielmo è uno di quegli uomini le
cui scelte hanno sempre un peso e una ricaduta. Un conto
è quando cade una rosa, un conto quando cade un albero.
E Guglielmo era una quercia secolare.
In quei giorni terribili, poi, le persone normali, e per nor-
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mali intendo quelle consapevoli di essere mortali, usavano
le passerelle mobili di legno per andare da una casa all’al-
tra, da una finestra a quella di fronte: i vicoli erano troppo
pericolosi e le imboscate all’ordine del giorno. Una delle
definizioni di genovesi che mi divertivo a coniare per il mio
personale dizionario: uomini che non hanno il benché mi-
nimo timore a percorrere il vasto mare con tutti i suoi peri-
coli, ma senza il coraggio di passeggiare in città.
«Non dirmi che hai deciso di farti monaco» gli dissi quan-
do me lo vidi davanti, un uomo di otto palmi e trecento
libbre che si muoveva con la rapidità di un gatto.
Mi guardò come se avessi indovinato le sue intenzioni
segrete. «Ho deciso di farmi monaco, guerriero, mercan-
te, ma anche diplomatico, marinaio, contadino, falegname,
medico. E qualsiasi altra cosa sarà necessaria per salvare
noi e la città.»
«Guarda che carnevale è passato da un pezzo.»
«Sono serio.»
«E quando mai non lo sei stato?»
«Puoi esserlo anche tu per una volta?»
«E poi chi chiameremmo a bilanciare la coppia?»
«Per favore, Caffaro.»
Sospirai. Fin dall’infanzia avevo sempre avuto l’impres-
sione che un giorno quell’uomo mi avrebbe legato a lui.
Così come lui era legato alla ruota del destino. Avevo ma-
turato quell’idea quando a undici anni mi aveva salvato la
vita: ci sono momenti nell’infanzia in cui il futuro fa capo-
lino e quel giorno avevo intuito che tra me e Guglielmo
non sarebbe finita lì. Finché morte non vi separi, avevo
sentito bisbigliare una voce quella mattina di nove anni
prima.
«Vuoi guidare una rivolta?» gli domandai, immaginan-
do che avesse deciso di impegnarsi in prima persona nella
battaglia cittadina.
«Non è qui che si decide il destino di Genova.»
«Ah no? E dove mai si deciderebbe secondo te?»
«A Gerusalemme.»
«A Gerusalemme?» La parola mi si incastrò in gola.
«Scusa se te lo ricordo, ma è dall’altra parte del mondo.»
«Ti sbagli, è di strada. Sulla nostra strada.»
Dato che la geografia non era il suo forte, provai con la
politica. «Non hai sentito le autorità?»
«Se le autorità pubbliche voltano le spalle alla giustizia,
saranno i privati cittadini ad abbracciarla.»
«Guglielmo, non verrà organizzata alcuna spedizione in
Terrasanta.»
«Invece verrà organizzata.»
«E da chi, si può sapere?»
«Da due persone che conosci molto bene.»
Per quanto mi sforzassi di pensare non riuscii a trovare
tra i miei amici due uomini così folli, e dire che di pazzi
testardi ne avevo incontrati un bel po’. Ma poi all’improv-
viso capii, e credo che sbiancai perché Guglielmo sorrise
e annuì con felicità fanciullesca. «Proprio così. Tu ed io.»
Ed io. Sì, Dio. Ecco quello che ci sarebbe voluto.