Il Criterio Della Natura e Il Futuro Della Famiglia

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Consiglio di Istituto - “Il criterio della natura e il futuro della famiglia” 30 giugno- 1 luglio 2009 Un apporto dalle pratiche psicologiche di cura Mario Binasco Una posta in gioco antropologica Il contesto nel quale ci misuriamo con il tema del “criterio della natura e il futuro della famiglia”, è un contesto culturale, sociale e politico nel quale domina da tempo la tendenza a disconoscere – e dunque praticamente a sopprimere – l’oggetto stesso di cui vogliamo parlare, cioè l’essere umano in quanto legato alla propria realtà, radicato nel campo di una qualche natura che lo identifichi come tale. Dunque la discussione sul criterio della natura, nel caso dell’essere umano e dei suoi legami famigliari, non può prescindere dalla messa in discussione della realtà umana, che oggi l’alleanza dei poteri con l’ideologia tecnoscientifica sta operando pervasivamente. Eufemisticamente diciamo che essa “mette in discussione” che nell’uomo ci sia qualcosa di reale che non dipenda cioè dalla azione umana programmata, un reale dal quale invece gli esiti della sua azione dipendano, almeno per una parte essenziale. Mi pare evidente il carattere radicale della posta in gioco antropologica: se l’uomo non è reale, o è meno reale delle tecniche biologiche o politiche che lo maneggiano e producono, allora non c’è niente in nome del quale si possa fare ragionevolmente obiezione e resistenza a questi poteri e alla loro azione, che resterebbe l’unico fattore reale nell’esistenza umana sociale, compiendo l’antico sogno totalitario di ogni potere. Sarebbe però fattore reale di un potere irrazionale ed arbitrario – proprio come quello che molti accusano la Chiesa di esercitare, incredibilmente e non a caso. Se c’è posta in gioco, c’è un dramma in atto, dramma che non ha trovato ancora il suo esito e la sua soluzione, dramma che è reale perché è inevitabile viverlo, e perché da esso non ci possiamo riparare rifugiandoci nell’immaginazione di qualche altrove animata da wishful thinking, tanto più che questo dramma tocca appunto l’oggetto/realtà fondamentale, basilare del pensiero cristiano, cioè l’Incarnazione del Logos e il senso della sua azione di salvezza. Insisto su questo perché sono colpito dall’impressione di “insostenibile leggerezza” che mi provocano discorsi che a volte si sentono fare, nell’ambito della Chiesa, anche da uomini di medicina che parlano di questi temi, come se in queste discussioni non fosse in gioco alcuna posta reale e vitale per gli esseri umani e cristiani: come se le sfide e i problemi si risolvessero con qualche piccolo aggiustamento del “software” sociale ed ecclesiale che dovrebbe “girare” nella testa delle persone: e che alla fine non propone altro che l’ideologia antropologica dominante. A me pare che questi atteggiamenti, a volte davvero un po’ autoreferenziali e perfino un po’ “autistici”, implichino, se non un rifiuto, una specie di rinuncia a sapere dell’uomo e della totalità dei suoi fattori: una rinuncia che è anche il prodotto del tutto paradossale non dell’etica della 1

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Consiglio di Istituto - “Il criterio della natura e il futuro della famiglia”30 giugno- 1 luglio 2009

Un apporto dalle pratiche psicologiche di curaMario Binasco

Una posta in gioco antropologicaIl contesto nel quale ci misuriamo con il tema del “criterio della natura e il futuro della famiglia”, è un

contesto culturale, sociale e politico nel quale domina da tempo la tendenza a disconoscere – e dunque praticamente a sopprimere – l’oggetto stesso di cui vogliamo parlare, cioè l’essere umano in quanto legato alla propria realtà, radicato nel campo di una qualche natura che lo identifichi come tale.

Dunque la discussione sul criterio della natura, nel caso dell’essere umano e dei suoi legami famigliari, non può prescindere dalla messa in discussione della realtà umana, che oggi l’alleanza dei poteri con l’ideologia tecnoscientifica sta operando pervasivamente. Eufemisticamente diciamo che essa “mette in discussione” che nell’uomo ci sia qualcosa di reale che non dipenda cioè dalla azione umana programmata, un reale dal quale invece gli esiti della sua azione dipendano, almeno per una parte essenziale.

Mi pare evidente il carattere radicale della posta in gioco antropologica: se l’uomo non è reale, o è meno reale delle tecniche biologiche o politiche che lo maneggiano e producono, allora non c’è niente in nome del quale si possa fare ragionevolmente obiezione e resistenza a questi poteri e alla loro azione, che resterebbe l’unico fattore reale nell’esistenza umana sociale, compiendo l’antico sogno totalitario di ogni potere. Sarebbe però fattore reale di un potere irrazionale ed arbitrario – proprio come quello che molti accusano la Chiesa di esercitare, incredibilmente e non a caso.

Se c’è posta in gioco, c’è un dramma in atto, dramma che non ha trovato ancora il suo esito e la sua soluzione, dramma che è reale perché è inevitabile viverlo, e perché da esso non ci possiamo riparare rifugiandoci nell’immaginazione di qualche altrove animata da wishful thinking, tanto più che questo dramma tocca appunto l’oggetto/realtà fondamentale, basilare del pensiero cristiano, cioè l’Incarnazione del Logos e il senso della sua azione di salvezza.

Insisto su questo perché sono colpito dall’impressione di “insostenibile leggerezza” che mi provocano discorsi che a volte si sentono fare, nell’ambito della Chiesa, anche da uomini di medicina che parlano di questi temi, come se in queste discussioni non fosse in gioco alcuna posta reale e vitale per gli esseri umani e cristiani: come se le sfide e i problemi si risolvessero con qualche piccolo aggiustamento del “software” sociale ed ecclesiale che dovrebbe “girare” nella testa delle persone: e che alla fine non propone altro che l’ideologia antropologica dominante.

A me pare che questi atteggiamenti, a volte davvero un po’ autoreferenziali e perfino un po’ “autistici”, implichino, se non un rifiuto, una specie di rinuncia a sapere dell’uomo e della totalità dei suoi fattori: una rinuncia che è anche il prodotto del tutto paradossale non dell’etica della scienza, ma della sua attuale ideologia, che oggi di quest’etica è il continuo tradimento.

La scienza moderna ha certamente modificato il senso del termine “natura” fino al punto di mettere in questione radicalmente il suo uso a riguardo del vivente umano: infatti essa è interessata a ricavare un sapere che sia formulabile totalmente e senza soggetto, e non le interessa come il vivente mette in esercizio questo sapere nel suo vivere singolare, cioè nel rapporto vitale con se stesso, in particolare in quella parte del rapporto vitale con se stesso che non è oggettivabile né manipolabile: che è poi il livello nel quale si annida la questione della natura.

Ma poiché è proprio a questo livello del rapporto con se stesso che il soggetto vivente umano trova il problema fondamentale da affrontare sul quale la scienza non ha nulla da dire, allora forse non è inutile cercare nelle esperienze umane ciò che testimonia – pur secondo un realismo che tenga conto della scienza – che la questione del “criterio della natura” non è un’astrazione da filosofi e teologi, ma appunto un nome delle poste in gioco reali, prossime ed ultime, della vita umana: e una posta in gioco è qualcosa di essenziale che si può perdere, quando magari la si vorrebbe salvare, come ben sperimentano le singole persone nelle difficoltà delle loro vite.

Ritengo che le pratiche psicologiche di cura – a partire dalla psicoanalisi, che di fatto ne ha aperto il campo – diano apporti incontestabili alla nostra consapevolezza di questo problema. Che titoli hanno esse per dirne qualcosa? Che cosa esse documentano di una qualche natura dell’uomo? E che cosa dicono della realtà e pertinenza delle relazioni famigliari a questa “naturalità”?

Una natura divisaAnzitutto l’esperienza della cura è un’esperienza sociale – anche quando si tratta di auto-terapia, e cioè del

trattamento che facciamo continuamente di noi stessi, e nel quale siamo sempre in parte sdoppiati: è sociale perché mostra la presenza inevitabile e strutturale della Alterità al cuore del rapporto anche più intimo del vivente umano con se stesso. Nel caso poi della sofferenza, della patologia o del sintomo, questa divisione appare pienamente,

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nella misura in cui la persona non si riconosce in essi, ma li vive come tracce o effetti estranei di qualcosa d’Altro dentro di lei e dentro la sua vita.

Ora, questi effetti si mostrano sempre, al soggetto, come presenza nel suo sentimento della vita, nella sua azione, nei suoi pensieri, di tendenze che contrastano con ciò che egli crede di volere e di desiderare: sono tendenze – quindi sempre in qualche misura vitali anche quando spingono alla morte – contro altre tendenze o contro l’intenzione vitale nella quale il soggetto si riconosce.

Quindi nelle pratiche psicologiche di cura sia il soggetto che il terapeuta si tengono vicini al cuore di una divisione della natura da se stessa che è propriamente umana, che ha dimensioni solo umane.

L’esperienza pratica e teorica delle relazioni di cura potrebbe offrirci molte documentazioni e molti spunti per pensare a riguardo della questione del criterio della natura nell’essere umano in quanto soggetto vivente, e cioè del rapporto di questi con la propria stessa natura. In questa sede ne toccherò solamente tre:

1) l’evidenza che l’essere umano può trovarsi ad andare contro se stesso; 2) la documentazione del fatto che c’è un reale della vita umana legato al linguaggio e al fatto che parla; 3) che nella documentazione di questo reale entrano essenzialmente quelle che possiamo chiamare le

“funzioni famigliari”, in quanto fin qui sostenute primariamente da quel fatto di trasmissione della soggettività che è stata finora la famiglia.

Quanto detto più sopra potrebbe anche essere considerato una ovvietà, ma certamente non è banalizzabile, perché si riferisce ad una sfida in atto, ad una messa alla prova radicale di ciò che sarebbe “natura” nell’essere umano e nei suoi legami: in fondo si pensa che se in essi c’è qualcosa di naturale, questo dovrebbe affermarsi comunque nel modo di vita: e dunque ad essi si chiede oggi di dimostrare la propria esistenza resistendo, se possono, all’attacco che tende a dissolverli.

Questa messa alla prova e questo attacco però confondono l’irriducibilità di ciò che è umano con la sua indistruttibilità; ora, tutto si può tentare di distruggere, e riuscirvi, ma distruggere un vivente non è detto sia il modo migliore di farsi un’idea della sua “natura” irriducibile.

Perciò quella tra irriducibilità e indistruttibilità è una confusione o un equivoco, anche perché questa capacità di distruggersi, di operare distruttivamente su di sé che distingue l’uomo, è proprio uno dei fattori irriducibili della sua natura.

La sua vita infatti è totalmente caratterizzata (e distinta da quella dei viventi non umani) proprio dalla macroscopica capacità di sapere di sé e insieme di operare contro di sé, come se il sapere di sé che lo caratterizza non lo rendesse per questo più amico di sé, più legato alla propria vita, ma anzi rendesse la sua morte un fattore della sua vita.

Ricordiamo che l’uomo è l’unico vivente che sa di essere mortale e che insieme si suicida. Le “dimensioni” della sua vita dunque sono così aldilà della vita da includere la morte nella vita stessa.

Egli può dunque andare contro la sua vita: questo è anche andare contro la sua natura? Da un lato è difficile dire di no, dato che è difficile pensare ad una natura che non sia vitale e non tenda ad esserlo; dall’altro lato questo “contro di sé” non è forse proprio ciò che ci aspetteremmo da un essere umano, o meglio, non è proprio un segno comunque rivelatore di una capacità per lui essenziale o naturale? Non è forse naturale, nella vita umana, questa mortificazione di qualcosa di vitale, dato che è proprio uno dei fattori che umanizzano la sua vita?

Questo odio di sé che egli può manifestare (soggettivamente e oggettivamente), e che può manifestarsi anche come odio della propria natura, sarebbe dunque esso stesso naturale? Questa possibilità è frutto diretto e individuale di una sorta di corruzione della natura, di un incidente contingente e innaturale (nel singolo), oppure è iscritta necessariamente nella natura come un suo aspetto?

In questo caso “natura” per l’umano dovrebbe includere anche questi esiti, e la possibilità del “contro natura” dovrebbe far parte della natura stessa. Si vede qui che anche l’idea di natura nell’uomo è impensabile senza che includa anche quel dissidio interno da sé e dalla propria natura appunto che lo caratterizza.

Ma questo dissidio che facilmente si evidenzia nel cuore dell’uomo, fin dove si estende? Fino al punto da eliminare ogni logica nel legame dell’uomo a se stesso e alla sua vita? Il vivente umano mostra di potere allontanarsi da se stesso, ma fino a che punto, se egli può distruggersi, ma non può ridursi a non-umano? Chi si suicida mostra per ciò stesso di non essere uno scimpanzé, irriducibilmente: non è questa dunque un’affermazione indiscutibile della sua realtà umana?

Qualunque cosa essa abbia significato in passato, oggi comunque l’idea di natura applicata all’essere umano così tanto diviso in se stesso, conserva il significato minimo di un ancoraggio al proprio reale, di ormeggi che vincolano l’essere umano al proprio stesso essere vivente da cui pure si allontana, e che stabiliscano l’impossibilità di superare certi limiti senza subire effetti di ritorno di questo reale: come ormeggi che, per quanto flessibili siano, esistano tuttavia e non possano superare una certa lunghezza, facendo sentire la loro trazione su chi cerca di andare aldilà.

Ciò che le pratiche psicologiche di cura dell’umano possono testimoniare in proposito, sono proprio questi effetti di ritorno, nei quali consiste il patologico: l’interessante è che sono effetti di ritorno non tanto della trasgressione di una norma vitale positiva o formulabile positivamente, dunque di una forma data, ma sono gli

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effetti di un rifiuto o di una rinuncia ad assumersi una responsabilità vitale che era richiesta per poter vivere, la responsabilità di dare una forma.

Un breve caso di ADHDA questo punto credo che riferire un piccolo caso clinico concreto sia la cosa più utile per impostare la

discussione e per trarne una serie di spunti, che non potrò trattare in extenso, ma che cercherò di enumerare più completamente possibile.

Una madre si presenta ad una consultazione ambulatoriale con un bambino di circa 7 anni, per problemi posti dal bambino. Il bambino – non saprei dire se “soffre” di una sindrome, comunque “rientra” in una sindrome oggi molto di moda, individuata e nominata di recente, ADHD Attention Deficit Hyperactivity Disorder, considerata da molti con forti basi neurologiche e che viene trattata con dosi industriali di un’amfetamina chiamata Ritalin, prima in America, e ora anche nella psichiatria europea più tecnicizzata: fino al 5% dei bambini vengono considerati affetti da questa sindrome.

I sintomi potremmo definirli sinteticamente come un incessante ed attivissimo far nulla, non concludere nulla, sia sul piano della percezione, che su quello dell’azione, che su quello della conversazione e del dialogo: impossibilità di fermarsi un po’ a lungo su un compito o su un’azione concludente e costruttiva, impossibilità di fermarsi sull’ascolto o sull’osservazione di qualcuno o qualcosa, continua interruzione di qualunque discorso, in genere discorso altrui perché difficilmente questi soggetti impostano loro stessi un dialogo. Il bambino in questione era un esempio notevole di questa sindrome: non mostrava alcuna apparente ricerca di rapporto con lo psichiatra, nessuna capacità o volontà di stare nel dialogo o nell’attività che gli venivano proposti, ma un’incapacità di fermarsi in un posto e una continua mobilità, tendenzialmente distruttiva, nel luogo di consultazione: in somma, mostrava un’esistenza ingombrante a livello della sua presenza reale corporea, e un’inesistenza altrettanto marcata a livello del suo rapporto simbolizzato, parlato con l’Altro.

Vista l’impossibilità di parlare con un bambino che non entrava in rapporto in quanto soggetto, lo psichiatra che è anche analista, decide di parlare con l’unico soggetto che non può smentirsi e sottrarsi del tutto, dato che ha preso l’iniziativa di chiedere una consultazione al posto del bambino, e cioè la madre.

Egli dunque chiede alla madre di parlargli del bambino; la madre racconta che il bambino comincia a incontrare problemi di rapporto a scuola per il modo della sua presenza percepita come aggressiva e intrattabile da compagni e maestri; aggiunge che anche a casa è tendenzialmente poco trattabile, specialmente dall’attuale compagno della madre, che cerca di educarlo e di coltivare un rapporto con lui, ma che di fatto è totalmente incapace di imporre alcun ordine al bambino: solo lei, la madre, riesce a ottenere quello che vuole dal bambino, riesce a imporsi – e dicendo questo essa mostra la stessa espressione di compiacimento e di fierezza che essa aveva avuto in precedenza parlando dell’impotenza “educativa” del suo compagno nei confronti del figlio.

L’analista allora formula questa questione alla madre: “da dove viene questo bambino?” A quel punto la madre, sorpresa, racconta che anni prima aveva conosciuto un uomo di cui si era follemente innamorata, che l’aveva messa incinta e che quando aveva saputo della gravidanza se ne era andato via bruscamente lasciandola sola. La rabbia che la madre mostra parlandone, fa capire quanto si senta ancora fissata a quella circostanza e a quel rapporto disdetto o mancato: proprio per la sua rabbia, essa dice, aveva deciso che quell’uomo non avrebbe più dovuto esistere nella sua vita, e che perciò lei non avrebbe mai parlato di lui al bambino nato dal loro rapporto, decisione che in effetti aveva mantenuto.

L’analista spiega alla madre di averle chiesto da dove veniva il bambino, perché si vedeva che il suo bambino non sapeva dove andare e non aveva alcun posto che potesse scegliere come suo. La madre, colpita, gli dice che in effetti forse è vero che per il bambino, il fatto di non sapere da dove viene poteva aver effetti sulla sua vita, e che avrebbe cercato di parlargli.

Naturalmente il discorso che la madre faceva all’analista poteva essere udito da chi era nella stanza, perciò anche dal bambino: e anche se questo discorso non era diretto a lui, di fatto lo raggiungeva, e il bambino era legittimato o autorizzato ad ascoltarlo dal semplice fatto che l’analista avesse posto quella domanda alla madre, ma anche dal fatto che la madre avesse accettato di rispondere svelando una verità nascosta.

Durante questi discorsi il bambino instabile e sofferente di Attention deficit, deficit di attenzione, mostrava di essere totalmente centrato sulle proprie orecchie e su ciò che vi entrava, si era seduto al tavolo, aveva preso dei fogli e delle matite e, sempre ascoltando, aveva fatto un disegno: alla fine della consultazione, al momento di andare via aveva dato il disegno in mano all’analista, dicendogli “grazie”.

Condizioni della natura: il parlare, il dire.È un piccolo frammento di caso, iniziale e preliminare a un trattamento che è finito lì, almeno per il

momento: e tuttavia esso mostra come al microscopio alcuni importanti fattori in gioco e la logica che li lega, utili, credo, per le nostre interrogazioni.

Anzitutto ciò che sorprende in questo caso è la rapidità e la profondità degli effetti della conversazione dell’analista con la madre – attenzione, non della conversazione dell’analista col bambino, che era stata un

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completo insuccesso, ma con la madre e attraverso la madre –; gli effetti dicevo sul comportamento del bambino: ripeto che questa sindrome viene di solito trattata con amfetamine ed è letta da molti in chiave solo neurologica.

Si noti che in questo caso un evento che è puramente di parola e di linguaggio, la conversazione madre-analista, per il solo fatto di essere avvenuta ha mostrato di poter rettificare una serie di funzioni superiori anche corporee del bambino: o forse, meglio, di rettificare non il funzionamento del bambino, ma il suo rapporto in quanto soggetto con l’insieme delle sue funzioni. Il bambino si è mostrato “privo di attenzione” per tutto… tranne che per qualcosa, e quando questo qualcosa si è verificato il suo deficit d’attenzione è scomparso, cosi come la mancanza di finalizzazione – diciamo pure di senso – dei movimenti.

Non è che il bambino fosse incapace di attenzione, è che una volta eliminata (e dunque proibita) dal discorso dell’Altro la cosa fondamentale a cui essere attenti e che permetteva al bambino di orientarsi, tutto il resto dei discorsi e della realtà diventa per lui ugualmente imprendibile e insopportabile: cosa che lui manifesta anche diventando insopportabile agli altri, come un testimone che non sa di esserlo, muto e inconsapevole e in-volontario.

Una volta autorizzata e re-introdotta nel discorso dell’Altro questa verità essenziale, non solo si è pacificata la sua agitazione, ma lui stesso è entrato in un’attività regolata simbolicamente e socialmente come il disegno, un’attività di rappresentazione della propria vita soggettiva e di comunicazione di essa ad un altro nella parola, nel discorso nel quale prima non poteva o non voleva entrare.

E ancora: non è entrato in questo discorso, comunicazione, solo come oggetto di esso, ma come partner attivo di uno scambio simbolico del quale assumeva le leggi: come il suo ringraziamento finale ha dimostrato, il bambino ridiventava capace di riconoscere un debito, cioè un dono. Una trasformazione stupefacente e inattesa, prodotta da un semplice racconto sull’origine del bambino, sull’esistenza di un padre e di un rapporto della madre con questo padre.

Perciò è di estremo interesse capire sia qual è il qualcosa che ha potuto aprire le orecchie del bambino e permettergli di riprendere o trovare posto nello scambio simbolico con gli altri e contemporaneamente nella stessa sua vita corporea, sia come questo qualcosa ha potuto operare.

Quel qualcosa non può essere il semplice parlare degli altri o della madre: la madre gli parla già abitualmente, e ciò non risparmia la sindrome al bambino. La madre gli parla, certo, ma che cosa gli dice? E soprattutto, che cosa non dice? Un’etica scientifica ci costringe a riconoscere che qui il sintomo è un effetto dell’assenza di qualcosa dal discorso della madre, dato che – controprova – quando la madre, quasi senza volerlo, ha rimesso nel suo discorso quel “qualcosa”, il sintomo è caduto.

Che cosa c’entra tutto ciò con la questione del criterio della natura? Ci dice qualche effetto o conseguenza reale nella vita, di un cedimento di fronte alla responsabilità di dire e di dire bene – agli altri ma prima di tutto a se stessi – ciò che si vive.

Di qui due considerazioni: 1) l’ordine di realtà costituente proprio ed esclusivo dell’essere umano, che può permettere ad un’assenza di agire come causa presente di effetti soggettivi, è soltanto il discorso, il dire, il linguaggio: solo in questo ordine una certa assenza (rimozione, negazione, ecc.) può agire come una presenza, può essere vissuto come una forma paradossale di presenza efficace o causante. 2) in questo ordine, come questo caso suggerisce, l’elemento significante, simbolico, “padre” sembra avere una funzione specifica e speciale, una funzione chiave, dato che l’esperienza mostra che la sua assenza, la sua rimozione dal discorso della madre non equivale alla rimozione di un qualunque altro elemento, ma ha effetti – e dunque una funzione? – di natura unica.

Infatti tutto ciò che la madre dice sembra aver reso questo bambino capace di un certo rapporto con la realtà: ma è ciò che essa non dice, e specificamente della sua origine, del padre, che lo rende incapace di muoversi in una realtà esterna e interna visibilmente insensata e senza orientamento.

Noto di passaggio che il simbolico è lo stesso ordine di realtà che rende possibile che esista il peccato – o l’atto – di omissione: l’omissione è un non compiere un certo atto, è un’assenza di azione, ma non è una pura assenza o una non-esistenza, perché alla base dell’omissione c’è un atto che esiste positivamente come tale e che fa diventare reale il soggetto che lo compie. Allo stesso modo, a rovescio, l’astenersi dell’analista è un atto e non un’assenza d’atto.

Solo nell’ambito del linguaggio e del dire possiamo concepire l’atto di omettere un atto, possiamo concepire che il soggetto si affermi, si realizzi con l’atto di sottrarsi, di ritirarsi, di negarsi, di cancellare le sue tracce.

Nel caso di questa madre sembra evidente che il suo atto ha conseguenze di ritorno patogene per il bambino, non tanto perché la sua apparente “decisione” di non dire mai nulla del padre trasgredisca un comandamento positivo, ma perché essa in realtà traveste una viltà, la fuga da una responsabilità, la rinuncia a dire e quindi a sapere che cosa quell’uomo era anzitutto per lei – e dunque che cos’era per il bambino.

Così facendo essa impedisce al bambino di reperirsi e di orientarsi rispetto ad un asse della sua esistenza che si rivela fondamentale proprio quando non è simbolizzato, per le conseguenze che ciò produce nella vitalità del bambino.

Responsabilità, verità e loro rifiuto

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Notiamo che la responsabilità di fronte a cui questa madre sfugge, è una responsabilità oggettiva, impostale dalla sua natura di essere parlante e dalle circostanze dei suoi rapporti e dei suoi atti (amore, seduzione, abbandono, ecc.): è la responsabilità oggettiva di essere razionale, cioè semplicemente di leggere e di sapere che cosa le accade, per sapere che cosa essa stessa sta facendo: e questo “sapere” – che non ha granché a che fare con la scienza – non si può articolare senza dire.

Questa responsabilità è condizione vitale umana essenziale, e possiamo ben dire che trovarsi all’interno di questa responsabilità appartiene alla natura del vivente umano, che infatti non può vivere come soggetto senza un discorso in cui sia legato ad Altri e senza un sapere sulla sua stessa vita – un sapere che non ha niente a che fare con i nervi: sfuggendo questa responsabilità oggettiva di dirsi e dire bene la propria esperienza con quell’uomo, questa madre finisce per confermare e raddoppiare la viltà e il ritiro del padre dalle proprie responsabilità: e il bambino resta simbolicamente handicappato.

Certo anche lui stesso ha contribuito a ciò: in sette anni non ha trovato il modo di sollecitare la madre a parlargli del padre: e la sua patologia è sicuramente frutto anche di questa viltà del bambino, di questa sua complicità con le viltà materna e paterna.

Credo sia impossibile ragionare sulla questione della natura nella vita soggettiva e di legame degli esseri umani e sulle conseguenze dei loro atti, senza tenere conto della struttura del parlare e senza prendere in conto e sviluppare le conseguenze di ciò che questo frammento clinico mette in evidenza.

In primo luogo: il fatto che la verità è una dimensione concreta, un fattore concreto della vita del soggetto, è un fattore essenziale delle sue norme vitali (le norme vitali sono quelle che un organismo vivente applica o pone per mantenersi in vita e riprodursi, cioè affrontare il rapporto drammatico con la realtà, ritorno dopo su questo).

Ma la funzione della verità non ci sarebbe e non avrebbe né senso né effettività senza la dimensione del parlare, del dire, del discorso: questo è il fondamentale ordine di fattori che distingue il vivente umano, come soggetto, dall’animale: l’umano è affetto dal dire, ma è anche generato come soggetto dal logos che egli incontra in quell’Altro che lo introduce al mondo.

L’idea stessa di introduzione alla realtà implica che il vivente umano, in quanto umano, sia anche in parte al di fuori della realtà, non coincida del tutto con la realtà. Certamente egli ha il problema del rapporto vitale con essa, compresa la sua stessa realtà, il rapporto vitale con se stesso in quanto reale: questo rapporto e il suo problema si pongono per l’umano ad un livello totalmente aggiuntivo e diverso che per l’animale: il livello appunto determinato dal parlare e dall’ordine di realtà che questo suscita, generando il soggetto (“natura” ha il senso di nascita, generazione del soggetto dentro l’organismo animale vivente).

Questo «altera», per così dire, da un punto di vista puramente animale, tutto l’ordine della soddisfazione dei bisogni, tipico del vivente: lo «altera» perché «tutti i bisogni dei parlanti sono contaminati dall’essere implicati in un’altra soddisfazione» (Lacan): quest’altra soddisfazione è la soddisfazione delle esigenze del soggetto nel rapporto con l’Altro, esigenze legate al discorso e alla parola, al simbolico, al fatto che qualcosa di umano, per un parlante umano, non esiste realmente se non è detto.

Non ci sono eventi, fatti, né atti, senza la dimensione del dire: eventi fatti e atti sono tutte realtà che esistono in quanto dicono qualcosa e noi possiamo dirne qualcosa: per qualcuno a cui essi non dicono niente, essi non esistono come tali: il cane o il gatto di casa non sono influenzati nel loro essere dal tenore dei discorsi tra il marito e la moglie; mentre il modo in cui marito o moglie riescono a godere o a soffrire del senso, del significato e finanche del sesso è fortemente legato ai loro discorsi.

Tra parentesi, senso, significazione e sesso, che sono tre dimensioni del dire la vita o della vita come dire, hanno una cartteristica in comune: l’impossibilità di chiudersi su se stessi.

Le esigenze soggettive legate alla parola sono ipso facto esigenze sociali, comunque che riguardano il legame umano, perché la parola è l’ambito e lo spazio dei legami propriamente umani.

Detto in positivo, che forma di esistenza reale ha questo spazio e questo ambito? In ogni caso noi sappiamo per certo e come minimo, come mostra il caso riferito, che i viventi umani non

sono indifferenti a ciò che accade in quest’ambito del discorso e alle sue leggi. Quando dico «leggi della parola» non intendo, evidentemente, soltanto le leggi interne alla struttura del

linguaggio, quelle per cui il linguaggio è strutturato e non è un blob, non è per niente liquido, ma intendo anche le leggi che strutturano i rapporti e i legami umani in quanto legami fondati sulla parola, ma non solo come rapporti di comunicazione.

Conviene infatti ricordarci che c’è qualcosa di incomunicabile nella persona, che è essa irriducibile alle comunicazioni, e ciò che ci interessa oggi è proprio ciò che accade al soggetto al livello della sua incomunicabilità: sono le leggi per le quali, anche se è vero che possiamo fare qualunque cosa col linguaggio, tuttavia resta impossibile per noi non subire i suoi effetti sui nostri rapporti con gli altri, con la realtà e con noi stessi.

Possiamo parlare di leggi proprio perché il parlare, il dire, ci fa soggetti, nei due sensi del termine: è impossibile non dipendere dal logos più di quanto il logos dipenda da noi.

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Insomma, da un lato il logos sembra essere a nostra totale disposizione come uno strumento per produrre enunciati di qualunque tipo: lo vediamo nel diritto oggi, possiamo creare tutte le fictiones giuridiche, le finzioni legali che vogliamo, inventare e definire tutti i diritti che ci vengono in mente. (L’inevitabilità della fictio nella vita e i legami umani, è ciò che fa problema sulla questione della natura: se immaginiamo la natura come un reale senza artificio o senza fictio, allora la vita umana non può essere naturale).

Ma dall’altro lato, poiché esso non è un fattore optional o strumentale della nostra vita, ma una condizione essenziale di essa che sposta la natura vivente su un altro piano, noi non possiamo non subire le naturali (e logiche) conseguenze di questo. Per cui, ad esempio, se il parlare, il linguaggio, il simbolico, ci specifica come umani perché fa ex-sistere il nostro essere al di là dei confini della vita animale (prima della nascita e dopo la morte: infatti gli antropologi riconoscevano il gruppo umano dalla sepoltura e dai suoi riti): se è così, allora può essere naturale avere il pensiero e anche la tentazione di morire; se dipendiamo da un altro ordine di soddisfazioni, può essere naturale rifiutare il cibo. Ovviamente ciò non significa che poiché «Cristo al morir tendea», allora egli fosse un melanconico suicidale, o che, poiché digiunava e diceva «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola ecc.», allora Cristo fosse un anoressico: il logos introduce come naturale la possibilità di questi atti che sembrano rifiuti della vita, ma è chiaro che ciò che qualifica questi atti e li differenzia tra loro è il criterio che sta alla loro base, la logica-etica in cui si generano.

In ogni caso è chiaro che la logica per cui Cristo assume consapevolmente queste posizioni di sacrificio è perché dice di sì a qualche fattore della vita e della verità, perché dice di sì davanti alla responsabilità di portare a soddisfazione la sua vita, e non nega né rifiuta alcun fattore di essa. Questa logica è ben diversa da quella per cui il soggetto melanconico o quello anoressico si trovano costretti a subire gli effetti inconsci di ritorno per aver dovuto o voluto dire di no a qualche verità, ignorare o rifiutare qualche fattore umano per loro inaccettabile.

Segnalo che la psicoanalisi non è sola nel mostrare l’efficacia delle leggi della parola sul soggetto e sui suoi legami, anche nel suo corpo: l’idea di pragmatica della comunicazione umana e le pratiche sistemiche che ne sono derivate, insistono proprio su questo fattore delle leggi della comunicazione e sugli effetti appunto pragmatici, cioè non solo comunicativi, di certe situazioni che esse chiamano per esempio paradossi: i cosiddetti paradossi mettono il soggetto in una situazione in cui deve necessariamente dare una risposta che avrà necessariamente qualcosa di sbagliato, di patologico: l’esempio più semplice è quello dell’ingiunzione «sii spontaneo!» o «sii libero!» (o ancora, in questo nostro contesto di discorso: “sii naturale!”): con essa si comanda al soggetto di non subire né seguire alcun comando: perciò questa ingiunzione è un comando a cui è strettamente impossibile per il soggetto obbedire, il soggetto disobbedirà comunque: anche solo perché si trova di fatto e in atto – e dunque realmente – soggetto a un comando senza e prima che lui lo decida o lo voglia.

Diciamo comunque che anche se possiamo dire sempre un po’ metaforicamente “seguire i dettami della natura, ciò che la natura detta o comanda”, comportarsi “secondo natura” non è riducibile al (e)seguire un comando, la dimensione del comando non può risolvere e ridurre la problematica della natura: la questione della natura per ciascun vivente umano è sempre strettamente drammatica (come d’altronde ogni obbedienza): è drammatica perché 1) riguarda sempre una vita in atto e in corso che deve affrontare e decidere continuamente le proprie operazioni e i loro effetti su se stessa, 2) ogni enunciato in cui si formula una prescrizione un comando o un consiglio un’indicazione un suggerimento, in quanto enunciato lascia sempre una parte di significato non enunciabile, non dicibile né determinata né realizzata né prevedibile che dunque 3) lascia inevitabilmente uno spazio di rischio al soggetto, perché nessun enunciato può contenere e tanto meno pre-decidere ( impossibilità) tutti gli effetti che il soggetto subirà dal proprio atto.

Il “criterio della natura” e l’inconscioCiò implica che il criterio della natura, nel vivente umano, per sua stessa natura non possa essere

completamente enunciato, ma possa essere detto solo a metà, perché quel criterio si applica, nell’uomo, anche a quella parte di sé che per natura e per logica non può essere a sua disposizione.

La psicoanalisi ha chiamato inconscio questo livello non solo comunicativo, non enunciato né enunciabile, in cui il soggetto subisce gli effetti di ritorno degli eventi e degli atti propri e delle sue risposte a quelli degli altri: questo livello è decisivo sia nelle formazioni patologiche che nella strutturazione dei legami umani.

Questo ci permette di evidenziare un aspetto che credo importante per la nostra discussione: le leggi che riconosciamo nei loro effetti inconsci o pragmatici, non sono enunciabili in enunciati, non sono riducibili a enunciati, ed è questo che oggi ci crea difficoltà sul piano sociale e culturale e giuridico, e nella concezione della patologia propriamente umana (la patologia ci interessa come testimonianza del fatto che la questione di natura nell’essere umano è un fattore reale della vita umana, nel quale realmente il vivente inciampa o si imbatte).

Quanto ora detto ci suggerisce che come la nozione di natura, anche la nozione di patologia – nella quale vediamo i ritorni di esigenze della natura tradite – deve essere rivista e adeguata: se deve essere la patologia di un soggetto vivente non possiamo considerarlo come il malfunzionamento di una macchina, anzitutto perché questo ci fa sfuggire la cosa più importante, e cioè il fatto che la patologia è sempre del singolo vivente, anche se in essa c’è una logica riconoscibile e comune.

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Infatti che cosa è patologia? Seguo in questo il lavoro di G.Canguilhem, Il normale e il patologico, che si fonda sul fatto che il vivente non è una macchina che applica semplicemente uno schema di funzionamento, ma che mostra invece di essere dotato di una capacità normativa, cioè la capacità di elaborare e porre in essere norme vitali che gli permettono di affrontare vantaggiosamente le situazioni della realtà, esterna e interna.

Quando le norme correnti non riescono ad affrontare situazioni eccezionali, il vivente cerca di sostituire e di inventare, entro certi limiti, altre norme che si rivelino più efficaci: le alterazioni che subisce in questo lavoro sono registrate come patologia (per esempio la febbre quando il corpo affronta l’assalto di batteri o virus), ma di fatto sono effetti e segni del tentativo di guarigione del vivente: Freud disse la stessa cosa del delirio e degli altri sintomi psichici. In italiano c’è l’espressione “inciampare nei propri piedi”: si usa quando qualcuno trova ostacolo alla sua vita o azione in una parte di se stesso: quando qualche fattore o norma vitale in un organismo viene meno, non si produce un puro vuoto o assenza di norme vitali: perché il resto dell’organismo che vive, proprio per la sua attività vivente “incontrerà” come ostacolo, positivamente anche quella parte o quell’organo le cui funzioni e le cui norme non sono più attive: come quando ci si “addormenta” un piede o una gamba e noi ci alziamo in piedi, allora “incontriamo” l’assenza temporanea di quell’organo come un ostacolo che ci fa cadere.

Dunque, nella patologia – che è sempre essenzialmente, naturalmente, singolare – ciò che è interessante e importante non è l’alterazione o lo scostarsi dalla media, ma capire in quale modo e secondo quali procedimenti e logiche quel vivente cerca di sopravvivere in una situazione drammatica per lui o di trarne vantaggio o soddisfazione.

Ciò vale ancora di più quando il vivente è umano: perché in lui il parlare, il dire, il logos si estendono aldilà di ogni misura misurabile, danno dimensioni altre a ciò che è sopravvivenza, vantaggio, soddisfazione, e dunque producono esigenze e domande assolutamente singolari (pensiamo ad esempio alla domanda di essere amato) e che non ammettono soluzioni e risposte universali (come l’esperienza dell’angoscia conferma), e che comunque nessuna soluzione universale, cioè nessuna soluzione concettuale, potrà risolvere. Se pensiamo a Hegel e a Kierkegaard, rispettivamente alla via del concetto e del sapere assoluto, e a quella dell’angoscia e della singolarità, dobbiamo dire che per capire l’apporto della patologia e della clinica alla questione della natura, è la via di Kierkegaard che dobbiamo prendere. È il logos che fa sì che ci sia per il soggetto qualcosa di singolare anche negli attaccamenti, nei legami, qualcosa che rende penoso e in parte irrimediabile il lutto, la perdita di qualcuno o qualcosa di caro, che rende un lavoro difficile il sostituire ciò che si è perduto perché esso contiene sempre qualcosa di non fungibile, di “personale” come diciamo comunemente.

E come ho già detto, la patologia è la conseguenza – naturale? – di qualche inadempienza alle esigenze logiche della vita di un soggetto: ma questa inadempienza non consiste quasi mai in una trasgressione di un norma enunciata, positiva (che non si dà mai tutta, come si è detto prima): essa sta piuttosto nel dire di no a un fattore del problema o del dramma, nel non voler sapere e non voler prendere in conto almeno uno dei suggerimenti dell’esperienza.

Insisto sulla questione della singolarità non solo perché ad essa si lega la patologia, ma soprattutto perché proprio ad essa si legano le funzioni famigliari, la funzione della madre e del padre, nella trasmissione di una costituzione soggettiva al bambino.

Identità, non-anonimato e funzioni famigliariNon possiamo pensare al criterio della natura per l’essere umano senza prendere in conto l’importanza

essenziale che ha per lui la questione dell’identità: solo l’essere umano si pone la questione della sua identità, o vive l’identità come una questione a cui qualcuno o lui stesso deve rispondere, all’inizio con insegne o simboli o significanti che vengono dall’Altro, poi con gli atti stessi del soggetto che renderanno la sua vita ciò che sarà stata: l’identità – sempre problema e mai soltanto soluzione – è dunque un sinonimo del dramma. In fondo alla questione dell’identità è strettamente correlativa una dimensione simbolica e linguistica sconosciuta alle nature viventi non umane, non trasformate dal logos: quella del nome.

È in questo contesto che possiamo accorgersi dell’importanza e della necessità, nella natura propriamente umana, della funzione e dell’esigenza del nome: tanto più che appunto le funzioni famigliari ruotano attorno a questa esigenza e questione, e non solo perché la famiglia è sempre stata l’istituzione che trasmetteva il nome civile.

Come tutte le funzioni vitali, nell’uomo anche la questione dell’identità si pone in modo radicalmente diverso dall’animale: essa è anzitutto la questione del rapporto singolare del soggetto con se stesso, e nessun fattore d’esperienza enunciato ed oggettivabile la risolve: la risolve soltanto qualcosa dell’ordine del nome, qualcosa che funzioni come nome proprio, come un significante speciale che non ha senso e il cui significato coincide con il suo essere pronunciato, o con la sua operazione stessa, con la sua funzione appunto di nominare.

È il logos a produrre l’esigenza del nome. Il nome proprio, la nominazione è una funzione del linguaggio del tutto speciale: non è comunicativa poichè il nome non ha significato né senso, non serve a trasmettere un sapere. Il nome non è solo un contrassegno sonoro di richiamo, che anche un cane può sentire riferito a sé o al padrone: il nome proprio è tutto ciò che permette al soggetto una qualche identità con se stesso, e cioè con la sua

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vita in atto, è ciò che gli permette di imputarsi i propri atti e i propri eventi vitali. Senza un nome un soggetto non riesce a vivere l’aspetto più abissale della sua vita stessa, non si tiene assieme, o non riesce a tenere assieme una parte essenziale di sé. Il caso raccontato più sopra mostra l’impasse in cui si trova un bambino trattenuto al di qua, sulla soglia, della questione del nome, perché è trattenuto al di qua della questione del padre.

Forse la questione è percepibile più facilmente se la prendiamo a contrario, cioè dal lato della carenza di nome, dell’anonimato. Questo è un termine chiave di quanto noi possiamo dire di certo sull’importanza della famiglia e delle funzioni, per il soggetto, che prendono il nome dalla madre e dal padre.

Queste funzioni, essenziali nella trasmissione della costituzione soggettiva umana ai figli, si fondano proprio sulla “relazione ad un desiderio che non sia anonimo” (Lacan): cioè, per essere umanizzante, il desiderio di chi introduce e accompagna il bambino nel mondo, non deve essere anonimo, cioè senza nome: Spitz studiò gli effetti devastanti delle cure buone, ma anonime, fornite nelle nurseries inglesi durante i bombardamenti di Londra, e le chiamò “sindromi d’ospedalismo”. La funzione della madre, se seguiamo Lacan, consiste nel fatto che “le sue cure portino il marchio di un interesse particolarizzato, fosse pure attraverso le sue mancanze”: la particolarizzazione, questo è il non anonimato richiesto alla madre perché svolga la sua funzione: e non sembrerebbe mancare nel caso che abbiamo riferito.

La funzione del padre, invece, è di secondo grado, così come il suo non anonimato: il padre deve essere tale che “il suo nome sia il veicolo di un’incarnazione della legge nel desiderio”: basti solo notare che il padre per definizione non può essere anonimo perché svolge la sua funzione proprio come nome e come colui che “dà nome”. Ma come quale nome e come nome di che cosa? È chiaro che non si intende qui il nome dello stato civile: si intende il fatto che il padre esercita la sua funzione (inconscia) in quanto egli stesso con la sua presenza ed esistenza per la madre diventa o impersona il “nome” che specifica il desiderio della madre, “in nome del quale” la madre desidera, il “nome” che fa da legge al desiderio della madre, e che orienta così anche il desiderio del bambino. È proprio ciò che abbiamo visto silente e anzi rimosso nel caso considerato: silenzio sul padre, silenzio sulla sua presenza nel desiderio della madre, disorientamento totale del desiderio del bambino mascherato da un’iperattività senza alcuna legge né azione sensata, impossibilità del bambino di prendere posto in una forma di legame.

Ancora una volta notate che non è l’aspetto positivo ad essere decisivo e critico: non è che il bambino non abbia nessuna presenza e nessun “modello” genitoriale – il compagno della madre per esempio, e la madre stessa: ma è una presenza che è qualificata dal rifiuto sotteso ad essa più che da ciò che essa rende positivamente presente: è la negazione, il rifiuto, il non riconoscimento del patto (interrotto), del legame tra madre e padre, che ha effetti di insufficienza di norma e determina lo stile di questa insufficienza (come patologia o comunque come sintomo).

Ma queste funzioni che chiamiamo con nomi di famiglia, sono naturali? Naturale, perché reale, è certamente per il parlante la sua chiamata al di là della natura finita, della nascita e della morte, dunque l’esigenza di nome come unità e identità di un soggetto che include sempre un mistero. E naturali, perché logiche, sono le conseguenze del non rispondere (o del rispondere di no) a questa chiamata.

Tocchiamo qui l’aspetto strutturalmente religioso delle funzioni della famiglia, che curano e vigilano la soglia di un mistero; allo stesso modo in cui possiamo dire, con Lacan, che “il senso è sempre religioso”.

Per concludere, dico che ho parlato, in fondo in fondo, di una questione molto classica : anima e corpo. L’idea di natura deriva dal corpo vivente ed è legata all’anima come unità delle operazioni  del corpo: ma se alcune di queste operazioni non vengono dal corpo come genericamente animale, ma sono generate da un altro ordine – logos – allora la « natura » dell’uomo deve essere anche relativa a questo ordine: ma il nucleo e la “natura” di ciò che soddisfa questo altro ordine è impossibile: la soddisfazione della sua natura è impossibile all’uomo per sua naturalia, dice S.Tommaso (e non si tratta di impotenza, dunque, ma proprio di impossibilità): dunque se di “natura” si tratta o vogliamo ancora parlare (e come non farlo?), il suo “criterio” è l’ impossibile: il che non comporta, ovviamente, che siccome c’è dell’impossibile allora tutto si equivale: infatti l’impossibile implica una struttura, implica appunto il logos: per quel bambino non è la stessa cosa restare nella sindrome ADHD oppure rischiare per uscirne.

Per questo ogni enunciato positivo di questa natura e dei suoi fini non può comprendere né ridurre adeguatamente questi fini o questa natura: o lo enunciamo in un modo che includa comunque il mistero, quindi non tutto oggettivabile o giustificabile o deducibile, oppure lo riduciamo radicalmente. Per dirlo con una formula, la Trinità non è forse la fonte e il modello di questo livello della “natura” dell’uomo in quanto non solo corpo? Ma la Trinità è anche il modello stesso, nella sua logica di relazione, dell’eccedenza rispetto alla necessità. Non dimentichiamo che la Prima Persona ha per nome proprio Padre, e la seconda è Figlio: non è paternità solo umana perché nessun uomo, nessun soggetto umano come tale può essere totalmente Padre, perché è essenzialmente figlio dato che riceve il nome, che è generato: e quando è lui a dare il nome lo dà per di più solo attraverso una forma di fictio, che spesso vira all’impostura o all’indegnità. Ma ogni padre umano svolge la sua funzione non perché è padre, o imita il Padre, ma per il suo legame con una donna e con i figli che le dà e che riceve da essa.

Per tornare all’insostenibile leggerezza (o insensibilità antropologica) di cui parlavo all’inizio, il caso raccontato ci ha dimostrato che non possiamo considerare il bambino come un «hardware» biologico sul quale

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possono «girare» tutti i tipi di «software» : la sindrome mostra chiaramente che se nel «programma» (ad esempio il discorso materno) è mantenuto silente un certo fattore essenziale, questo «silenzio» ritorna come disturbo (inibizione, sintomo, angoscia, ma anche come delirio, allucinazione, addiction, depressione, ecc.).

Ed è importante notare che il disturbo sarebbe esistito anche se nessuno lo avesse lamentato e denunciato: ma poiché l’analista ha offerto e in certo modo imposto con il suo desiderio la possibilità di parlarne e poiché la madre ha risposto a questa offerta imposta dal desiderio dell’analista accettando e dunque chiedendo e desiderando anche lei di parlarne, poiché l’ha confessato anch’essa come disturbo chiedendo implicitamente aiuto, allora è accaduto che l’analista potesse operare restaurando un rapporto più vero e vantaggioso del soggetto smarrito con le esigenze della sua natura che il soggetto aveva dovuto patologicamente smentire.

L’esistenza stessa di queste pratiche di cura che lavorano offrendo al soggetto un recupero del suo rapporto con il fondo inconscio della propria natura singolare ci dice, credo, qualcosa di fondamentale sul fatto che la natura dell’essere umano è pensabile solo attraverso il rapporto del soggetto con l’Altro parlante e con l’offerta del suo desiderio, che permette e precede la domanda d’amore del soggetto, sia nei primi costituenti rapporti famigliari, sia in qualunque successiva relazione di cura.

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