IL CONFINE ORIENTALE M ICHELUTTI S TEFANO V AER B I.T.I. A. MALIGNANI – UDINE

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IL CONFINE ORIENTALE MICHELUTTI STEFANO V AER B I.T.I. A. MALIGNANI – UDINE MATURITÀ 2010

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IL CONFINE ORIENTALE

MICHELUTTI STEFANO

V AER BI.T.I. A. MALIGNANI – UDINE

MATURITÀ 2010

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«Il confine è l’organo periferico dello Stato, che delimita il territorio su cui una popolazione,

costituita in gruppo politico, esercita la sovranità. Esso è quindi un fatto politico localizzato

sulla superficie terrestre in stretta relazione con altri fatti geografici, fisici e umani,

organizzati dall’uomo in modo da costituire un paesaggio tipico.»Giorgio Valussi

Il confine nordorientale d’Italia1

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1866 – 1915

Dall’irredentismo al nazionalismo

1915 – 1921

La Prima guerra mondiale e il trattato

di Rapallo

1921 - 1941

Il fascismo di confine

1941 – 1945

La Seconda guerra mondiale

1945 – 1954

La «corsa per Trieste» e il Memorandum di

Londra

1954 – OGGI

La «normalizzazione», il Trattato di Osimo, la

dissoluzione della Jugoslavia e

l’UNIONE EUROPEA

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1866 – 1915

DALL’ IRREDENTISMO AL NAZIONALISMO

“Nel periodo tra il 1866 e lo scoppio della Prima guerra mondiale, il problema del confine orientale del Regno d’Italia si iscrive nell’ambito del fenomeno irredentista, che vede la

rivendicazione della Venezia Giulia ai fini del compimento dell’unità nazionale.”2

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TERRITORI IRREDENTI

Friuli orientale, Trieste, Istria e

(Dalmazia)

Motivazioni del movimento

irredentista

Composizione della popolazione nei

territori irredenti

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COMPOSIZIONE DELLA POPOLAZIONE NEI TERRITORI IRREDENTI

Popolazioni di lingua italiana erano stanziate:

•in Friuli orientale, Trieste e Istria prevalentemente nei centri urbani della costa, mentre all’interno risiedevano popolazioni in maggioranza slave;•in Dalmazia dove componevano esclusivamente un pezzo dell’élite urbana nell’area costiera.

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Censimento del 1910 e carta etnografica della Venezia Giulia (tratto da DE CASTRO, La questione di Trieste).

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MOTIVAZIONI DEL MOVIMENTO IRREDENTISTA

•Difendibilità dei confini

•Legame storico-culturale con i territori della Venezia Giulia

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Le Alpi Giulie son nostre come le Carniche delle quali sono appendice.

Il litorale istriano è la parte orientale, il compimento del litorale

veneto. Nostro è l’alto Friuli. Per condizioni etnografiche, politiche,

commerciali, nostra è l’Istria: necessaria all’Italia come sono necessari

i porti della Dalmazia agli slavi meridionali. Nostra è Trieste: nostra è la

Postoina o Carsia or sottoposta amministrativamente a Lubjana. Da

Cluverio a Napoleone, dall’Utraeque (Venezia e Istria) pro una

provincia habentur di Paolo Diacono fino al «due gran montagne

dividono l’Italia dai barbari, l’una dimandata monte Caldera l’altra

monte Maggiore nominata» di Leandro Alberti, geografi, storici, uomini

politici e militari assegnarono all’Italia i confini assegnati dall’Allighieri

e confermati dalle tradizioni e dalla favella. Ma s’anche diritti e doveri

fossero or poca cosa per gli italiani, perche dimenticherebbero l’utile e

la difesa? Dai passi dell’Alto Friuli scesero nel 1848 le forze che ci

sconfissero in Lombardia e isolarono Venezia. E l’Istria è la chiave della

nostra frontiera orientale, la Porta d’Italia dal lato dell’Adriatico, il

ponte ch’è fra noi, gli ungaresi e gli slavi. Abbandonandola qui popoli

rimangono nemici nostri: avendola sono sottratti all’esercito nemico e

alleati del nostro.3

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VENEZIA GIULIA

Il termine Venezia Giulia fu coniato dal glottologo goriziano Graziadio Ascoli nel 1863 con l’intento di attribuire un’identità unitaria italiana a territori che erano stati la risultante di accorpamenti di possedimenti asburgici e veneziani. In un articolo pubblicato l’8 agosto 1863 sull’«Alleanza» di Milano e intitolato Le Venezie, Ascoli enunciava che «Venezia Giulia ci sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare, rinserra Gorizia, Trieste e l’Istria».

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1915 - 1921

LA PRIMA GUERRA MONDIALE E IL TRATTATO DI RAPALLO

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LA MOBILITAZIONE

Forse come in nessun altro paese europeo l’adesione al conflitto si presentò in Italia come adesione alla guerra in sé, alla guerra per la guerra, percepita come antidoto-toccasana rispetto alla minaccia della temuta decadenza per una società che sembrava avviata sulla via di un pacifico e svirilizzante riformismo. Riemergeva ora […] la convinzione che la guerra avrebbe finalmente indotto l’agognata rigenerazione della comunità nazionale determinandone la fusione delle diverse componenti al di là delle differenze di ceto.

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PATTO DI LONDRA Il 26 aprile 1915 l’Italia stipulava con l’Inghilterra, la Francia e la Russia il cosiddetto Patto di Londra, con cui si impegnava a «impegnare la totalità delle sue risorse per condurre la guerra in comune con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici».Era previsto che alla stipula del trattato di pace l’Italia ottenesse il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua frontiera geografica e naturale (il Brennero); inoltre Trieste, le contee di Gradisca e Gorizia, tutta l’Istria fino al Quarnaro, compresa Volosca e le isole istriane di Cherso (Cres) e Lussino (Losinj) nonché alcune isole minori. Il confine avrebbe avuto il seguente percorso: da Tarvisio avrebbe seguito la linea di partizione delle Alpi Giulie attraverso il Predil, il Mangart, il Tricorno e lo spartiacque dei passi di Piedicolle (Podbrdo) e Idria. Da qui la frontiera si sarebbe volta a sud-est verso il Nevoso, lasciando fuori del territorio italiano il bacino della Sava. Dal Nevoso la frontiera sarebbe scesa verso la costa, includendo Castua, Mattuglie e Volosca nel territorio italiano. In Dalmazia l’Italia avrebbe dovuto ottenere un’area che andava da Lisarica e Tribania a nord, fino a capo Planka a sud. Sarebbero dovuti rimanere in territorio italiano le valli e i corsi d’acqua che scendevano verso Sebenico.

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Tra le isole l’Italia avrebbe dovuto ottenere tutte quelle situate a nord e a ovest.La parte della Dalmazia tra capo Planka e la penisola di Sabbioncello sarebbe stata neutralizzata. Neutralizzata sarebbe stata pure la zona immediatamente dietro Dubrovnik vecchia, fino a Cattaro, Antivari, Dulcigno, San Giovanni di Medua e Durazzo, senza pregiudicare i diritti del Montenegro risultanti dalle dichiarazioni delle potenze dell’aprile e del maggio 1909. I territori dell’Adriatico non attribuibili all’Italia sarebbero stati ceduti dalle potenze alleate alla Croazia alla Serbia e al Montenegro. Sull’alto Adriatico tali territori comprendevano il litorale ungherese e la costa croata con il porto di Fiume e i porti minori di Novi e Carlopago, nonché le isole di Krk, Pervichio, Goli e Rab. Il porto di Durazzo avrebbe dovuto essere attribuito ad uno Stato albanese indipendente. All’Italia sarebbe stata riconosciuta la piena sovranità su Valona, sull’isola di Saseno e su un territorio sufficientemente esteso per assicurarne la difesa.

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• Il patto di Londra impegnava l’Italia a entrare in guerra al fianco dell’Intesa entro un mese dalla firma.

• Per facilitare lo sforzo bellico italiano la Gran Bretagna metteva a disposizione un prestito immediato di 50 milioni di lire.

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LA GUERRA AL CONFINE ORIENTALEIl fronte italiano lungo circa 600 km, si estendeva dallo Stelvio all’Adriatico settentrionale. Ad oriente correva lungo l’Isonzo e terminava sul mare, ad ovest della foce del Timavo. Questo era lo spezzone più importante delle operazioni, quello su cui si esercitava il massimo impegno bellico e la massima mobilitazione di uomini e mezzi, teatro di una sanguinosissima guerra di posizione. Nei quattro anni di guerra, costati all’Italia più di 600.000 morti, il fronte si mosse di poco: l’Austria aveva abbandonato al nemico una striscia di territorio nella pianura friulana, con Gradisca, Grado e Aquileia. Questi territori vennero quindi a contatto con i soldati italiani fin dall’inizio del conflitto. I rapporti tra popolazione ed esercito furono improntati ad una certa riservatezza e diffidenza. L’atteggiamento della popolazione di lingua italiana ma in ampia misura contadina e fedele alla dinastia, non corrispondeva alle aspettative dei “liberatori”. La maggioranza dei soldati italiani combatté la guerra a ridosso dei territori orientali e conobbe le regioni rivendicate attraverso il paesaggio lunare del Carso, nelle trincee del San Michele, del Sabotino, del Monte Santo nella no man’s land delle pietraie disseminate di cadaveri. Il Carso assurse attraverso la memorialistica e la diaristica bellica a luogo della memoria nazionale.

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Dopo la fine dell’immane strage, i cimiteri di guerra di cui era disseminata la linea del fronte divennero luoghi di culto non solo per i familiari dei caduti ma per l’intera nazione. Vi si celebrava la religione della patria attraverso il ricordo del sacrificio di centinaia di migliaia di suoi figli. Sorsero ovunque in Italia monumenti ai caduti. Il più grande cimitero era quello di Redipuglia dove erano sepolti circa 40.000 caduti. In un primo tempo il cimitero venne costruito come un Purgatorio. Il colle S. Elia venne scavato a terrazze concentriche. Su ogni cornice trovavano luogo le sepolture di un certo numero di caduti identificati e no. Il fascismo si appropriò rapidamente del mito della Grande Guerra e dei riti per gli anniversari dell’intervento e della vittoria. La Grande Guerra andava definendosi, nell’immaginario religioso fascista quale mito della resurrezione della nuova Italia, consacrato dal sangue dei caduti. Nel 1938 il comprensorio di Redipuglia assunse un carattere più monumentale. In linea con gli orientamenti del regime, Redipuglia fu trasformato in una gigantesca scalinata.

La morte collettiva assurse ad una dimensione solo eroica ed astratta.

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1921- 1941

IL FASCISMO DI CONFINE

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FASCISMO DI

CONFINE

Limitazioni all’uso della

lingua slovena

Incidenti di

Spalato

Incendio del

Balkan

Incendio del Narodni

Dom di Pola

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L’IMPRESA DI FIUMEA Fiume scoppiavano ripetutamente gravi incidenti tra le truppe italiane e francesi, per lo più di colore. In seguito agli scontri e al loro esito le truppe italiane erano invitate ad abbandonare Fiume.In questa situazione G. D’Annunzio, rivendicando addirittura tutta la Dalmazia, si metteva a capo di un movimento di ufficiali e truppe sediziosi. Per D’Annunzio che viveva con accidia la fine della guerra, l’avventura fiumana fu l’occasione buona per riprendere il proprio ruolo di incarnazione dell’eroe-superuomo. Estetismo, decadentismo e narcisismo sfrenato venivano così a mescolarsi ad una contesa internazionale, attribuendole la propria specifica impronta. A Ronchi ufficiali, truppe ribelli e volontari si davano ritrovo e marciavano su Fiume avendo anche rapidamente ragione del personale ai posti di blocco italiani. Per protesta le forze dell’Intesa abbandonavano la città. Aveva così inizio l’avventura fiumana, una delle vicende più singolari del dopoguerra italiano, ricca di valenze non solo di politica estera, ma anche di elaborazione di rituali e miti propri del fascismo. Fiume fu una specie di laboratorio per la nuova cultura politica basata sul mito, sulla mobilitazione delle masse, sulla liturgia della nazione e dell’azione.

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I legionari si davano a disordini di ogni tipo e addirittura alla pirateria.Il comune denominatore dell’impresa restava quella «configurazione più bella della vita», in nome di un superomismo estetizzante e di una fusione fra duce e masse che per la prima volta veniva sperimentata nel microcosmo fiumano. Fiume sembrava incarnare l’esaudirsi della promessa di una rigenerazione della nazione attraverso la guerra: le speranze che l’interventismo aveva collegato alla partecipazione al conflitto sembravano ora inverarsi nella «città olocausta».A Fiume venne praticata l’idea della vita come festa inebriante, come continua trasgressione delle norme e liberazione degli istinti. Danze spontanee e musica permeavano la realtà fiumana. Badoglio prendeva tutta una serie di misure volte ad evitare altre defezioni nell’esercito di stanza nelle terre liberate e a rinsaldarne la disciplina. Fiume veniva isolata dalle comunicazioni telefoniche e telegrafiche e venivano introdotti blocchi stradali. A Fiume e in Dalmazia la situazione andava precipitando. Fra il 13 e il 14 novembre 1919, 600 uomini del presidio fiumano guidati da D’Annunzio sbarcavano a Zara dove le truppe regolari aderivano al movimento.

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L’8 settembre 1920 Fiume si dotava di una propria costituzione, la Carta del Quarnaro. Dopo la firma del Trattato di Rapallo la situazione fiumana non era tuttavia più tollerabile. Una volta che anche Mussolini aveva preso le distanze da D’Annunzio, Giolitti intervenne a por fine all’occupazione. Con un paio di cannonate l’impresa venne sbaraccata. D’Annunzio aveva però aperto a Fiume il vaso di Pandora della manipolazione di massa con mezzi parareligiosi. Fiume fu il laboratorio per le più importanti tecniche del consenso messe in atto dal regime fascista.

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IL TRATTATO DI RAPALLO

Il Trattato di Rapallo fu firmato dall’Italia e dalla Jugoslavia con la mediazione di Inghilterra e Francia.Stabilì i nuovi confini della Venezia Giulia e della Dalmazia.

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FASCISMO DI

CONFINE

Golpe di Fiume

“Genocidio culturale”

4Patti lateranensi

Resistenza nazionale slovena e croata

Patto di Roma

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IL GOLPE DI FIUMENello Stato Libero di Fiume, costituito con il trattato di Rapallo aveva luogo già il 3 marzo 1922 un colpo di Stato fascista. I fascisti distrussero quasi tutta la documentazione relativa alle operazioni elettorali e assunsero temporaneamente il potere a Fiume. Tuttavia, vennero convalidati i risultati favorevoli agli autonomisti e venne eletto il presidente della Costituente. Il 3 marzo allora i fascisti attuarono un concentramento in città, mentre il palazzo del governo veniva sottoposto a cannoneggiamento. I carabinieri assecondarono il golpe, sparando dalla legazione italiana. Il palazzo del governatore non fu affatto difeso, anzi la fanteria fece posto ai fascisti. Il golpe fu portato a termine grazie all’acquiescenza delle autorità tutorie italiane.Nel golpe di fiume i fascisti per la prima volta furono in grado di assumere direttamente il potere politico, suffragati dall’appoggio delle autorità civili e militari.

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GENOCIDIO CULTURALEIl fascismo di confine si distinse inoltre per la precoce applicazione di leggi restrittive della libertà personale.•1923 – venne impedita l’uscita di giornali sloveni e croati;•1924 – vennero sciolte d’ufficio più di 500 associazioni fra sale di lettura, società corali, teatri, gruppi ginnici ecc.•1925 – venne esclusa la possibilità di insegnare lo sloveno e il croato nelle scuole, inoltre i maestri sloveni che avessero voluto restare in servizio dovevano conseguire l’abilitazione per l’insegnamento in lingua italiana;•1927 – con il r.d. 7 aprile 1927 si procedette d’ufficio alla modifica dei toponimi e dei cognomi di origine slava;•1928 – con la legge 383 dell’8 marzo 1928 veniva vietata l’imposizione di nomi ridicoli, amorali o che potessero oltraggiare l’opinione pubblica. Di fatto impediva ai genitori di battezzare i propri figli con nomi di origine slava.Particolarmente odiose risultavano le intimidazioni e le vere e proprie aggressioni contro passanti rei di conversare nella propria lingua, il divieto di esprimersi in sloveno nei locali pubblici o l’espulsione da tutte le scuole del Regno di studenti sloveni che avevano intonato per strada canzoni nella propria lingua. Lo zelo italianizzatore andava tanto oltre, da reprimere innocue tradizioni dei villaggi sloveni, come quella di cantare al sabato sera serenate sotto la finestra della propria bella.

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PATTI LATERANENSII Patti lateranensi del 1929 favorirono il regime sull’annoso problema del clero slavo orientato in senso nazionale. L’articolo 22 prevedeva infatti che non potessero essere investiti di benefici gli ecclesiastici non in possesso della cittadinanza italiana. Inoltre i titolari di diocesi e parrocchie dovevano essere a conoscenza della lingua italiana. Ci furono numerosi contrasti tra fascisti del luogo e fedeli sloveni a cui si cercava di imporre la liturgia in lingua italiana.

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RESISTENZA NAZIONALE SLOVENA E CROATABen presto operarono nella Venezia Giulia gruppi clandestini irredentisti sloveni e croati che misero a segno una serie di attentati terroristici. Nel 1925 nell’Istria interna un esponente dell’Orjuna aveva ammazzato due carabinieri. A partire dal 1926 si intensificarono assalti ai treni, rapine, aggressioni a finanzieri e carabinieri, attentati alle caserme della milizia e uccisioni di sloveni considerati traditori della causa nazionale. Vennero appiccati incendi a scuole e asili italiani, e sloveni considerati collaborazionisti vennero giustiziati.Secondo l’inchiesta di polizia i gruppi avrebbero compiuto tra il 1926 e il 1930 ben 99 azioni terroristiche, tredici attacchi a pattuglie squadriste e caserme, tredici attentati contro confidenti e poliziotti sloveni, diciotto incendi di scuole e asili.

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Con il Patto di Roma si mise fine alla condizione di Stato libero di Fiume

divenuta ormai insostenibile sia dall’Italia sia dalla Jugoslavia.

I territori di Fiume vennero equamente distribuiti tra i due Stati.

PATTO DI ROMA

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1941 – 1945

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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Il piano di aggressione alla Jugoslavia maturò rapidamente dopo che l’ingresso del paese nel Patto tripartito era stato seguito, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1941, da una rivolta di ufficiali serbi di orientamento filo inglese che deponevano il reggente Pavle e dichiaravano la maggiore età dell’erede al trono. Come risposta la Jugoslavia veniva aggredita il 6 aprile 1941 da truppe tedesche che già il 13 aprile occupavano Belgrado. L’Italia, l’Ungheria e la Bulgaria si annettevano a loro volta parti del paese. Il 17 aprile l’alto comando jugoslavo era costretto a firmare la resa incondizionata.

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L’annessione italiana della Dalmazia ebbe un effetto provvidenziale sia per i pochi ebrei del luogo che per una parte di quelli rifugiativisi dallo stato croato, dove imperversavano le deportazioni ai campi della morte e i massacri in loco nei campi di concentramento eretti per serbi ed ebrei da parte dei collaborazionisti ustascia. Anche molti serbi rifugiatisi nella zona d’occupazione italiana riuscirono a sottrarsi al vero e proprio genocidio perpetrato nei confronti dell’elemento serbo dagli ustascia. L’esercito italiano mise in atto una serie di rinvii e pretesti per non consegnare gli ebrei della Dalmazia all’alleato germanico. Una parte degli ebrei stranieri rifugiatisi nella zona di occupazione italiana, circa 4000, vennero concentrati nel campo di Rab al fine di proteggerli dalla deportazione e da morte certa. Dopo l’8 settembre 1943 circa 300 di essi vennero catturati dagli occupanti tedeschi; tuttavia la maggioranza riuscì a sfuggire e sopravvivere. L’atteggiamento dell’esercito italiano nei confronti della popolazione civile ebraica, manifestato in Dalmazia, in Grecia, in Francia e in Nord Africa, rappresenta una delle poche pagine luminose della storia militare italiana nella Seconda guerra mondiale.

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L’ECLISSE DELLO STATO ITALIANO. La fuga dei vertici militari a Brindisi a seguito della famiglia reale dopo la stipula segreta dell’armistizio, provocava lo sbandamento dell’esercito italiano sia nel paese sia nei territori occupati della Grecia, della Francia, dell’Albania e della Jugoslavia. Dove gli ufficiali tentavano la resistenza, o si opponevano alla consegna delle armi, venivano sopraffatti dalle forze tedesche come a Lero, Cefalonia o a Corfù. Circa 650.000 militari italiani, che rifiutavano di combattere con la Wehrmacht e di continuare la guerra al fianco del Reich, venivano avviati ai campi di concentramento in Germania, senza avere riconosciuto lo status di prigioniero di guerra. Sottoposti a durissime condizioni di prigionia, almeno 20.000 trovavano la morte nei lager. A questi vanno aggiunti altri 25.000 morti tra gli internati in zona di operazioni (fronte orientale), tra le vittime dell’affondamento delle navi di trasporto e tra i trucidati per vari motivi.Tuttavia, in breve, si ricostruivano sia a sud sia a nord dei monconi di statualità, in ambedue i casi sottoposti però in larga misura alla discrezione delle rispettive forze occupanti.

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Così si ricostruiva a Brindisi il Regno del Sud, quasi un governo in esilio sul proprio territorio, tanto ridotto ne era, almeno in un primo tempo, l’esercizio della sovranità . Dopo la rocambolesca liberazione di Mussolini sul Gran Sasso ad opera di un’unità paracadutista tedesca, si costituiva al nord la Repubblica sociale italiana, che riproponeva il fascismo estremista delle origini.Rispetto alla condizione in cui versava il paese, tuttavia, la situazione che venne a crearsi nella zone di confine era ben diversa. Qui andò infatti dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana: l’8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell’esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentava in forma assai più accentuata che nel resto d’Italia. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell’armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. A Fiume, dove erano concentrate 50.000 unità, il comandante Gastone Gambara si arrendeva a un colonnello tedesco accompagnato da due motociclisti. A Gorizia ci fu invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città. La maggioranza dei soldati italiani veniva internata in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi.

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In Istria le cose andarono diversamente. Qui ebbero luogo infatti diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati, sfociate nella costituzione di organismi di unità antifascista. A Pisino , considerato il centro dell’Istria croata, si riuniva in assemblea il 13 settembre 1943 il neo istituito Comitato popolare di liberazione. Il Comitato proclamava l’unione dell’Istria alla madrepatria croata. Il 20 settembre venne emesso dallo Zavnoh (Zemaljsko antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Hrvatske - Consiglio territoriale antifascista per la liberazione popolare della Croazia) un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulati con l’Italia. L’Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia.Nella memoria dei croati dell’Istria l’insurrezione del settembre 1943 rappresenta il momento culminante della propria epopea di liberazione nazionale.

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Nella memoria degli italiani della diaspora le vicende del settembre 1043 hanno conservato invece una valenza fortemente traumatica; neo istituiti tribunali popolari, alle dipendenze dei Comitati popolari di liberazione e con la partecipazione determinante del Servizio informazioni del movimento partigiano (primi rudimenti di quella che diverrà la temutissima polizia politica Ozna), eseguirono in forma più o meno clandestina e del tutto irregolare da 500 a 600 condanne a morte contro rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici e maggiorenti della comunità italiana. La maggior parte dei condannati venne scaraventata nelle cavità carsiche (FOIBE) della zona, profonde alcune centinaia di metri, alcuni mentre erano ancora in vita.In Dalmazia, il corso degli eventi era simile. A Spalato una breve occupazione partigiana era accompagnata dall’esecuzione di 106 italiani e croati ustascia. Zara era occupata dai partigiani già il 31 ottobre 1944, dopo devastanti bombardamenti alleati. Buona parte degli italiani veniva evacuata dai territori occupati durante la guerra e alcune migliaia di zaratini si rifugiavano in Italia sia a causa dei bombardamenti sia a seguito dell’occupazione della città da parte dell’esercito di Tito.

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Cominciava così a manifestarsi il fenomeno dell’esodo, destinato ad assumere dimensioni di massa in concomitanza con la stipula del trattato di pace e del più tardo Memorandum di Londra. Nella prima metà dell’ottobre 1943 tutto il territorio delle Venezia Giulia e della provincia di Lubiana assieme al Friuli, Gorizia, Fiume e le isole del Quarnaro passava progressivamente sotto il controllo dell’occupante tedesco. Un’ordinanza di Hitler del 10 settembre 1943 istituiva, qui e nella provincia del Trentino-Alto Adige, due zone di operazioni, sottratte completamente al controllo della Repubblica di Salò.Prendevano piede, così, le persecuzioni antiebraiche anche nel litorale adriatico. Le persecuzioni furono particolarmente aspre, anche rispetto al resto dell’Italia, probabilmente a causa dello status particolare della zona di operazioni e della presenza attiva di unità delle SS già responsabili del genocidio degli ebrei polacchi, nonché della cosiddetta operazione Eutanasia contro i malati di mente tedeschi. Dal litorale partì un numero assai elevato di vagoni diretti ad Auschwitz con il loro carico di morte: ben 22 convogli partirono da Trieste su un totale di 43 convogli dall’Italia. Nell’insieme, 708 ebrei della comunità triestina vennero deportati ad Auschwitz e di questi solo 19 fecero ritorno. Da tutto il litorale gli ebrei deportati furono 1422.

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Di questi ne sopravvissero 83. sinistra fama spettò nel dramma del genocidio ebraico alla risiera di S. Sabba, Polizeilager, in cui i prigionieri ebrei venivano concentrati in attesa della deportazione. La risiera fungeva anche da carcere e centro di interrogatori per partigiani e antifascisti, che vi vennero uccisi in numero imprecisato, ma nell’ordine, comunque, di alcune migliaia. La deportazione della componente ebraica privò i centri del litorale (Trieste, Fiume, Gorizia) di un’importante componente borghese - intellettuale che ne aveva forgiato la peculiare cultura nel corso dell’ultimo secolo. Era la più tragica ed atroce delle forme di semplificazione etnica che quei territori subivano a partire dal 1918 e che avrebbe visto il proprio punto d’arrivo con l’esodo degli italiani dall’Istria nel corso del dopoguerra.Nell’aprile 1944 fu anche teatro di rappresaglie tedesche contro sloveni e italiani in seguito ad attentati partigiani: dopo che una bomba era scoppiata in un cinema di Opicina frequentato da soldati tedeschi uccidendone 7, 72 ostaggi ratti dal villaggio carsico furono condannati a morte e uccisi. Il 23 dello stesso mese una bomba fu fatta esplodere nella casa del combattente tedesco, provocando ulteriori morti.

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Come risposta, 51 prigionieri delle carceri del Coroneo vennero impiccati e i cadaveri appesi alla scalinata interna del conservatorio di musica Tartini. La macabra scena era visibile dalle finestre dell’edificio per chiunque passasse di là. A Udine solo tra il febbraio e l’aprile del 1945 vennero fucilati 52 partigiani. Nel solo comune di Trieste si calcola che i partigiani caduti siano stati 1138, 608 dei quali appartenenti alla resistenza italiana, 517 a quella jugoslava e 13 al Corpo italiano di liberazione.

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1945 – 1954

LA «CORSA PER TRIESTE» E IL MEMORANDUM DI LONDRA

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L’ESERCITO DI TITO A TRIESTEIl 20 marzo 1945 le truppe di Tito lanciarono la loro offensiva finale, le forze alleate in Italia, tre settimane dopo. L’avanzata jugoslava procedeva rapidamente: il 4 aprile cadeva Bihać, il 10 dello stesso mese Senj. I tedeschi arretravano verso nord, mentre la IV armata partigiana entrava a Sussak il 20 aprile. Qui i tedeschi organizzavano la loro ultima difesa, trincerandosi attorno a Fiume.Dal 28 aprile il Cln si trovava a Trieste in uno stato di febbrile attesa, pronto a dare l’ordine dell’insurrezione. La resistenza italiana era composta da un massimo di 3000 uomini male armati che non avrebbero potuto resistere in armi molto a lungo. Per questo la scelta del momento era di estrema importanza: era necessario insorgere non troppo prima dell’arrivo degli alleati occidentali, ma comunque prima che la città venisse occupata dagli jugoslavi. Alle 5.20 del 30 aprile le sirene di Trieste davano l’annuncio dell’inizio dell’insurrezione generale. Ad essa prendevano parte sia appartenenti al Cln sia alla filocomunista Unità operaia. I tedeschi si trinceravano in quattro roccheforti, rifiutando la resa se non alla presenza di ufficiali inglesi ed americani.

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Il 1° maggio i primi effettivi dell’esercito jugoslavo entravano in città. Poiché l’VIII armata inglese non era ancora in vista, al Cln non restò altra scelta che ritirarsi dai combattimenti, per evitare scontri con gli jugoslavi. Sembra che il ritardo inglese nella «corsa per Trieste» fosse dovuto a cautela per non venir invischiati in scontri armati con l’esercito di Tito. Nonostante i disperati tentativi del Cln di consegnare la città al generale neozelandese, erano gli jugoslavi che prendevano possesso dei simboli del potere: la prefettura e il palazzo del comune, da cui veniva ammainata la bandiera italiana e issata quella jugoslava. Avevano così inizio i quaranta giorni di occupazione jugoslava della città.In seguito all’occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave, ripresero le trattative internazionali per la definizione dei confini e delle zone amministrative nella Venezia Giulia. Il compromesso elaborato alla riunione del 15 giugno 1946 corrispondeva quasi alla linea sovietica: la zona tra il confine previsto dai sovietici e quello previsto dai francesi a sud di Monfalcone sarebbe stata trasformata in un territorio Libero, retto da un governatore che avrebbe dovuto essere nominato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A nord venne accettato invece il percorso confinario tracciato dai francesi.

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Temporaneamente Trieste rimaneva occupata dalle potenze occidentali e la zona B del Territorio Libero rimaneva occupata dalle truppe Jugoslave. Dal 29 luglio al 15 ottobre si svolse a Parigi la Conferenza dei 21 paesi che avrebbero firmato il trattato di pace con l’Italia. Già il 3 luglio era stato conseguito un accordo per cui la linea francese diventava la frontiera occidentale della Jugoslavia, mentre ad ovest di tale linea da Duino ad occidente, a Cittanova d’Istria a oriente, si sarebbe dovuto costituire il TLT. La zona A del costituendo staterello rimaneva temporaneamente sotto l’amministrazione angloamericana, mentre la zona B era gestita dagli jugoslavi.Il trattato di pace veniva firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 ed entrava in vigore il 15 settembre dello stesso anno. In tale occasione la nuova Italia repubblicana dava scarsa prova di efficienza, permettendo alle truppe jugoslave di sconfinare in varie zone – sia pure poco estese – che sulla carta erano state assegnate all’Italia. La cessione definitiva dell’Istria dava inizio all’abbandono del territorio da parte della popolazione italiana passata sotto sovranità jugoslava, che faceva uso in modo quasi generalizzato del diritto di opzione previsto dal trattato di pace.

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L’articolo 19 della seconda parte del trattato prevedeva che i cittadini «la cui lingua usuale è l’italiano» residenti nei territori ceduti ad altri Stati avesse facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro un anno dall’entrata in vigore del trattato stesso. «Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza italiana e non si considererà aver acquistato la cittadinanza dello Stato al quale il territorio viene trasferito», recitava il punto due. «lo Stato al quale i territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell’opzione si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione viene esercitata», stabiliva invece il punto tre. L’allegato XIV regolava infine il diritto di proprietà degli optanti: essi sarebbero stati autorizzati a portare con sé i beni mobili e a trasferire i fondi bancari. Inoltre sarebbero stati autorizzati a vendere i loro beni mobili e immobili alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato successore. In realtà, data la situazione di profonda instabilità e illegalità affermatasi in Istria in seguito alla prese del potere da parte dei comunisti jugoslavi, coloro che abbandonarono il paese non poterono né vendere i beni immobili, né trasferire in Italia in modo regolare il loro patrimonio. Tale stato di fatto determinò l’apertura di un annoso contenzioso tra Italia e Jugoslavia, che a tutt’oggi si perpetua tra l’Italia e gli stati successori di Slovenia e Croazia.

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I profughi furono almeno trecentomila e la loro partenza lasciò pressoché deserte diverse località istriane. Le motivazioni furono complesse. Un ruolo centrale vi giocarono il clima di intimidazione instaurato dai nuovi poteri, le misure economiche da comunismo di guerra (tra cui l’introduzione del lavoro forzato), la semplificazione sociale attraverso gli espropri e le confische che colpì in primo luogo l’elemento italiano e le rappresaglie antitaliane ad opera dei quadri politici locali. Per diversi decenni il tema dell’esodo dall’Istria fu ignorato sia dalla storiografia sia dalla pubblicistica nazionale. In Italia gli esuli istriani vennero guardati con sospetto e talora con ostilità aperta dai comunisti e dall’opinione pubblica di sinistra.Il 5 ottobre 1954, con la stipula del Memorandum di Londra si arrivava alla suddivisione del TLT.Aveva luogo ora l’esodo della residua popolazione italiana della zona B con cui si concludeva, almeno per il momento, il processo di semplificazione etnica.

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1954 – OGGILA «NORMALIZZAZIONE», IL TRATTATO DI OSIMO, LA DISSOLUZIONE DELLA

JUGOSLAVIA EL’UNIONE EUROPEA

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Subito dopo il Memorandum di Londra venne istituito un Fondo di rotazione per le iniziative economiche a Trieste e a Gorizia, sostanzialmente uno strumento di credito agevolato alle imprese. Ad esso seguì nel 1958 la «legge dei 45 miliardi» per la costruzione di un’ampia rete di infrastrutture viarie che collegasse soprattutto il porto di Trieste con l’Austria. Nel 1963, l’istituzione della regione a statuto speciale favoriva l’apertura nei confronti dello stato jugoslavo. Già dal 1955 erano stati firmati diversi trattati per il traffico confinario, integrati da successivi accordi del 1957, 1962 e 1967 che facevano del confine italo - jugoslavo la linea di demarcazione più aperta tra paesi che si richiamavano alle ideologie contrapposte della democrazia parlamentare e del comunismo. Dopo la liberalizzazione dei viaggi all’estero, per la popolazione jugoslava Trieste divenne meta preferita dello shopping, facendo riscontrare un intensissimo flusso di presenze, che raggiungeva, nel 1978 i due milioni e mezzo di persone, base di un redditizio commercio al dettaglio per merci per lo più di qualità scadente, ma introvabili o quasi in Jugoslavia e nei paesi dell’est europeo. Tale importante ramo dell’economia sarà condannato al declino dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la transizione all’economia di mercato delle sue Repubbliche.

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Il picco dell’interscambio di confine venne toccato nel 1988 con 858 miliardi di lire nella zona di Trieste e 592 in quella di Gorizia. Nel 1993 tali valori crollavano per Trieste a 20,7 miliardi e per Gorizia a 2,4.Per fronteggiare la crisi internazionale della cantieristica il ceto politico democristiano negoziava con il potere centrale l’istituzione del piano CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica, centrata sulla produzione di motori diesel (società Grandi Motori), sulla localizzazione nel porto di Trieste del grande oleodotto per la Baviera e sul potenziamento del cantiere navale di Monfalcone. Tale piano, ad eccezione della parte riguardante i cantieri di Monfalcone, non sarebbe comunque mai riuscito a decollare veramente. Un fallimento si sarebbe rivelata soprattutto la Grandi Motori che di fatto non avrebbe mai fatto riscontrare una produzione regolare. In ogni caso, i cospicui investimenti (i maggiori per l’Iri nel dopoguerra) funsero da efficaci ammortizzatori sociali, permettendo di mantenere artificialmente elevato il livello occupazionale: Trieste accentuava il suo carattere di area assistita, analogamente ad ampi settori dell’economia del meridione d’Italia.

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L’ultimo capitolo di questa vicenda si compie tra il 1990 e il 2004. Nella crisi finale dello Stato jugoslavo l’indipendenza di Slovenia e Croazia venne robustamente sostenuta da esponenti politici di primo piano del Friuli Venezia Giulia. Il 15 gennaio 1992 l’Italia riconosceva la Slovenia come Stato indipendente.

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LA GIORNATA DEL RICORDONel 2004 ambedue i rami del parlamento italiano, con l’adesione dei partiti del centrodestra ma anche dei parlamentari dell’Ulivo, hanno votato una legge sull’istituzione della giornata del Ricordo, in memoria dei profughi dall’Istria. La legge prevede che il 10 febbraio venga dichiarato giornata del Ricordo per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». L’iniziativa è stata intesa come risarcimento morale per gli esuli, che dopo il trattato di Osimo si sono orientati elettoralmente verso le forze di destra e centrodestra. La giornata del Ricordo è stata celebrata nel 2005 in ben 86 località italiane grandi e piccole con convegni, tavole rotonde, proiezione di filmati, conferenze nelle scuole e in sedi universitarie. A Spalato e a Zara le autorità consolari hanno deposto delle corone al cimitero a ricordo delle vittime.

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1. Trieste, Edizioni Lint, 1972, p. 11 2. Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Ed. Il Mulino,

2007, p. 15 3. G. Mazzini, Scritti politici editi ed inediti, Imola, Galeati, 1940,

vol. 86, pp. 18 4. Elio Apih, Trieste, Roma - Bari, Laterza, 1988, p. 129