IL CODICE DELL’ANIMA -...
Transcript of IL CODICE DELL’ANIMA -...
IL CODICE DELL’ANIMA
Hillman e il rifiuto della psicoanalisi tradizionale
Il codice dell'anima (The soul's code) è un saggio del 1996 dello psicoanalista americano James
Hillmann, uno dei più importanti pensatori post-junghiani ed ex direttore dell’Istituto C. G. Jung
di Zurigo, dove fu allievo di Carl Jung stesso. Fondatore della “psicologia archetipica”, una scuola
rivoluzionaria diretta a revisionare e “reimmaginare” la psicologia, Hillman è stato selezionato
dalla Utne Reader tra le prime 100 persone che sono in grado di cambiare la vita del loro lettore.
"Questo libro - dichiara programmaticamente l'autore - vuole riportare indietro di duecento
anni la psicologia, al tempo in cui l’entusiasmo romantico smantellava l’Età della ragione". E il
punto di partenza scelto da Hillman per questo processo di smantellamento è Platone.
Hillman, scomparso nel 2011, viene comunemente descritto come "psicologo indipendente", in
quanto considerato un sovversivo, troppo distante dalla psicologia tradizionale e dalla
psicoanalisi di Freud per essere considerato uno psicologo rispettabile dai suoi colleghi che invece
lo credono un filosofo visionario, più vicino per molti versi all'antroposofia di Rudolf Steiner che
alla psicologia vera e propria. La sua denuncia nei confronti della psicologia è forte e chiara: “la
psicologia si è ridotta ad una ricerca banale ed egocentrica, piuttosto che ad un'esplorazione dei
misteri della natura umana".
Michael Parkes, The Game
Ne Il Codice dell'Anima Hillman afferma che dentro ognuno di noi, ancor prima della nascita, vi è
un seme unico e particolare che ci chiama a realizzare qualcosa di altrettanto unico e particolare; è
quello che Hillman chiama "teoria della ghianda": l’idea che ciascuna persona sia portatrice di
un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente (innata) prima di poter essere vissuta.
Come la ghianda contiene in sé il potenziale destino di quercia, in ognuno di noi è racchiusa una
distinta vocazione che chiede di essere realizzata.
Per riuscire ad ascoltare e a cogliere questa “chiamata”, Hillman propone di accantonare gli schemi
psicologici generalmente usati in terapia che si limitano ad adattare le vite allo schema studiando
la biografia come la successione di una fase dopo l’altra della vita: infanzia, crescita come sviluppo,
giovinezza, mezza età, vecchiaia, morte. Gli eventi sono frantumati come in un curriculum vitae
organizzato esclusivamente sulla base della cronologia. Una vita simile è come una narrazione
priva di trama. Hillman si contrappone in particolare all’analisi della psiche in base ai traumi
infantili, che vede la guarigione attraverso l’autobiografia come percorso delle fasi dell’infanzia.
Hillman pensa che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dalla
modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati
da cause esterne che ci hanno plasmati male. Secondo Hillman abbiamo smarrito il senso della
nostra vocazione, la ragione per cui siamo vivi, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte
a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia.
Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il
suo ricorso alle terapie psicoanalitiche. Chi è in terapia è alla ricerca di una biografia soddisfacente;
la domanda che si pone è sostanzialmente questa: "Come posso mettere insieme in un’immagine
coerente i pezzi della mia vita?"
Siamo stati derubati della nostra vera biografia ed entriamo in analisi proprio per
riappropriarcene. Ma, ed è questo il punto, il tentativo sarà sempre fallimentare se si procede
con i mezzi convenzionali, freudiani: l’immagine innata non si potrà mai trovare, finché non
disporremo di una teoria psicologica che attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata
del destino. La rimozione, che tutte le scuole terapeutiche considerano la chiave d’accesso
alla struttura della personalità, non riguarda il passato, bensì la "ghianda" e gli errori che in
passato abbiamo compiuto nel rapportarci ad essa.
Se spiego la mia esistenza sulla base di qualcosa che è già presente nei miei cromosomi, o sulle
scelte dei miei genitori, o di altri fattori esterni, la vita che io vivo sarà una sceneggiatura
immodificabile, scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti
traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali. Il libro di
Hillman vuole smascherare la mentalità della vittima: noi siamo vittime delle teorie, ancor prima
che vengano messe in pratica. Più in particolare, noi siamo vittime della psicologia accademica,
della psicologia scientistica, della psicologia terapeutica, i cui paradigmi, ancora saldamente legati
alla visione positivistica del mondo, non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente - cioè
rimuovono - il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita
umana, portatore di un’unicità che chiede di essere vissuta e che - è questo il punto - è già
presente prima di essere vissuta.
Quest'ultima frase solleva dei dubbi su un altro importante paradigma: quello temporale. Anche il
tempo per Hillman va accantonato: altrimenti, il prima determinerà sempre il dopo, e noi
rimarremo incatenati a cause remote sulle quali non possiamo intervenire. La vita deve quindi
poter essere letta a ritroso. Hillman non vede la persona come un processo o un’evoluzione. La
persona è l’immagine stessa del nostro destino innato, ed è solo quell’immagine che si sviluppa, se
lo fa. Come disse Picasso: “Io non mi evolvo, io sono”. Questo aspetto della teoria hillmaniana
ricorda da vicino la concezione del tempo di pensatori distanti fra di loro nel tempo, ma
accomunati da un identico scetticismo circa la concezione del tempo "lineare", come Sant'Agostino
e Henri Bergson.
Hillman nell’esporre le sue tesi si rifà ad un mito molto antico: il mito di Er di Platone raccontato
nella Repubblica. Il mito racconta che ancor prima della nascita ognuno di noi sceglie un’immagine
o un disegno che poi vivremo sulla terra e riceve un compagno che ci guidi, un daimon che è unico
e tipico nostro. Quando veniamo al mondo dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere
venuti vuoti. Il daimon ci risveglia e porta alla luce il nostro destino e la nostra immagine: la
cosiddetta Vocazione. Platone usa in specifico la parola paràdeigma o forma fondamentale, che
abbraccia l'intero destino di una persona.
Questa immagine portatrice del nostro destino non va confusa con una guida morale o la voce
della coscienza: Socrate ad esempio parla di un daimon o spirito-guida che lo assiste in ogni sua
decisione (si veda ad esempio l'Apologia di Socrate platonica), ma i critici sono profondamente in
disaccordo sull’esatto significato di questo termine, tanto più che Platone afferma chiaramente che
si tratta di una presenza che si fa avvertire non già per indurre Socrate a compiere certe azioni, ma
solo per distoglierlo: «C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco […] Ed è come una
voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade
da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte» (Apologia di Socrate, 31 d).
Michael Parkes, Returning Home
Secondo Plotino, il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il
luogo e la situazione di vita adatti all’anima e alle sue necessità. Il motivo di tale scelta lo abbiamo
dimenticato nascendo.
Si è cercato il termine più appropriato per definire questo tipo di chiamata. I latini parlavano del
nostro genius, visto semplicemente come un agente della sorte personale; gli si poteva chiedere di
realizzare qualunque tipo di desiderio malvagio o egoistico. I Greci credevano nel daimon e i
cristiani nell'angelo custode. Keats avvertiva la chiamata provenire dal cuore: “Vorrei che capissi
a fondo il mio pensiero riguardo al Genio e al Cuore” scrisse. C’è chi lo associa alla dea Fortuna,
chi ad un genietto malefico. Per i popoli che praticano lo sciamanesimo, come gli eschimesi, è il
nostro spirito guida. L’etnologo Ake Hultkrantz afferma che secondo i popoli amerindi l’anima
“trae origine da un’immagine ed è concepita sotto forma di immagine”.
Hillman, di tutti questi termini specifici fa un uso intercambiabile; a seconda del contesto definisce
la nostra ghianda come immagine, carattere, genio, destino, daimon, anima.
I1 concetto di immagine individualizzata dell'anima ha una storia lunga e complicata: compare
sotto le più svariate forme in quasi tutte le culture. Soltanto la nostra psicologia e la nostra
psichiatria, osserva polemicamente Hillman, l'hanno espunto dai loro testi. Nella nostra società, le
discipline che si occupano dello studio e della terapia della psiche ignorano l'oggetto centrale
della psicologia: la psiche o anima. La psicologia tradizionale ammette l'individualità e
l'irripetibilità di ciascuno di noi, ma non dà conto di questa unicità alla vocazione che ci richiama
ad essa. Alcune scuole di psicologia, addirittura, eliminano il problema attribuendo i casi di
“vocazione” a fenomeni paranormali o a follia. Questo libro rifiuta invece categoricamente
qualunque spiegazione schematica e statistica dell'unicità di ciascuno di noi.
La teoria della ghianda
La teoria della ghianda sostiene, come abbiamo visto, che siamo venuti al mondo con
un'immagine che ci definisce. L'individualità risiede quindi in una causa formale, per usare il
linguaggio filosofico risalente ad Aristotele. E questa forma, questa idea, questa immagine non
tollerano eccessive divagazioni. E' facile notare come questa tesi si ponga in radicale
controtendenza rispetto alla concezione del principium individuationis di Schopenhauer, fatta
propria anche da Nietzsche, secondo la quale l'individualità è puramente illusoria, un effetto del
Velo di Maya. Si tratta di un tema che assillava anche Edgar Allan Poe, che ne fece oggetto di uno
dei suoi più celebri racconti dell'orrore: Morella.
Abbiamo visto inoltre come la teoria hillmaniana attribuisca all'immagine innata un'intenzionalità
angelica, o daimonica: l'immagine ha a cuore il nostro interesse perché ha a cuore il suo
interesse: infatti ci ha scelti per realizzare, attraverso di noi, il proprio scopo.
L'idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l'aspetto della teoria più
difficile da accettare. A ciò che ci salvaguarda noi "moderni" diamo ora il nome di istinto,
autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale. Nei tempi antichi, ciò che sapeva
proteggere era uno "spirito custode" e ci si guardava bene dal mancargli di rispetto. Lo scopo di
Hillman è quello di far entrare nell’ambito della psicologia quello che un tempo si chiamava
Provvidenza, una presenza e protezione invisibile, che ci guida e accorre in nostro aiuto nella
disgrazia: proprio il concetto-guida dei Promessi sposi manzoniani, già oggetto di
approfondita indagine nel mondo greco. Esso infatti è presente nella visione del mondo di Eschilo
e, in forma decisamente più problematica, di Sofocle (si pensi a Edipo re), che afferma la sua
esistenza ma, come Erodoto, nega la sua comprensibilità; ed è il concetto portante della filosofia
stoica (si veda ad esempio Seneca), mentre è risolutamente negato dagli epicurei come Lucrezio, a
riprova di una difficoltà di accettazione che non è certo solo moderna.
Il daimon nei bambini
I bambini costituiscono, a parere dell'autore, la miglior dimostrazione pratica di una psicologia
della Provvidenza: tutto ad un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono.
Dobbiamo quindi prestare particolare attenzione all'infanzia, per cogliere i primi segni del
daimon all'opera e non bloccargli la strada. La “teoria della ghianda” propone un nuovo modo di
pensare alle patologie di un bambino, per capirne più a fondo le eventuali sofferenze o i
disadattamenti. Infatti certe azioni che noi riteniamo di poter sottovalutare, oppure pensiamo di
poter guarire con eventuali terapie, potrebbero essere in realtà segno dei primi passi dell’emergere
del daimon. In un'intervista rilasciata al giornalista Scott London, l'autore afferma: “quello che dico
deve far desiderare ai genitori di prestare più attenzione al loro figlio, a questo straniero
particolare che è "atterrato" tra di loro. Invece che dire: "questo è mio figlio", devono chiedersi:
"Chi è questo figlio che risulta essere mio?" Così possono sviluppare molto più rispetto per il
bambino e cercare di stare vigili per occasioni nelle quali il suo destino possa mostrarsi, come una
resistenza alla scuola, per esempio, o degli strani sintomi, o un'ossessione verso qualcosa.”
Hillman sceglie come punto di partenza quindi l’infanzia; analizzando alcune biografie, smonta e
rielabora le interpretazioni freudiane che vi si potrebbero applicare.
Il guaio è che queste urgenze del destino sono spesso frenate da percezioni distorte e da un
ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si manifesta attraverso i sintomi del bambino difficile,
del bambino autodistruttivo, del bambino «iper», tutte espressioni inventate dagli adulti in difesa
della propria incapacità di comprendere.
I bambini si trovano in una situazione difficilissima: cercano di vivere due vite
contemporaneamente, quella con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a
cui sono nati. La voce interiore che li chiama è altrettanto imperiosa delle voci repressive
dell'ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle
ritrosie che sembrano indirizzare il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a
proteggere il mondo che egli porta con sé.
Senza una teoria che lo sostenga dai suoi inizi e senza una mitologia che lo riconnetta a qualcosa
che viene prima di tali inizi, il bambino fa il suo ingresso nel mondo come mero prodotto,
casuale o pianificato, ma privo della sua autenticità. Anche i suoi disturbi saranno privi di
autenticità, trattati asetticamente come "incapacità di adattamento" ad un ambiente la cui positività
(o inevitabilità) è data per scontata dagli adulti anche quando palesemente infondata.
Analizzando dettagliatamente alcune biografie, da quella del filosofo inglese R. G. Collingwood a
quella della biologa statunitense Barbara McClintock, o ancora quella della scrittrice francese
Colette o quella della first lady americana Eleanor Roosvelt, Hillman dedusse che il genio dentro
ognuno di noi non è un bambino, e non vuole essere trattato come tale; il genio non è limitato
dall’età, status, taglia, istruzione, tutti i bambini nutrono un’ambizione smodata, e sembrano
sapere esattamente quello che vogliono. Inoltre notò come nella maggior parte di queste biografie
il genitore abbia un ruolo importante; mentre un occhio freudiano attribuirebbe tutte le cause a
quest'ultimo, Hillman invece va contro la psicologia classica, smentendo come la presenza dei
genitori possa influire sulla vocazione del bambino. Questo concetto lo chiama “superstizione
parentale”: siamo così perché i nostri genitori ci hanno fatti così o hanno voluto che fossimo così.
Un’altra teoria contro la quale Hillman si scontra, è la cosiddetta “Teoria della compensazione”.
Questa teoria afferma che le future superiorità siano date dalle inferiorità e limitatezze iniziali; ad
esempio, i bambini esili e malaticci sono indotti, per compensazione, a diventare capi forti e
autoritari. Per esempio, Gandhi da bambino era magro, malaticcio e timoroso; aveva paura dei
serpenti, del buio e degli spiriti (“Cradles of Eminence, Victor Goertzel e Mildred Goertzel, Little
Brown, Boston, 1962), e avrebbe sviluppato la sua eccezionale forza a partire dal superamento
delle sue debolezza. La teoria della compensazione nasce con Alfred Adler, terzo membro del trio
terapeutico Freud-Jung-Adler. Tutto ciò si connette alla teoria freudiana della “sublimazione”, che
sostiene che le debolezze iniziali non sono semplicemente trasformate in punti di forza, ma in
prodotti d’arte e della cultura, al cui fondo rimarrebbero le scorie di quelle offese infantili, che
costituiscono il vero germe originario dei prodotti artistici.
Ebbene, secondo Hillman la teoria della compensazione “uccide lo spirito, derubando le persone e
le azioni eccezionali della loro precipua autenticità”. Questa teoria tende a svilire quindi tutti i
talenti, le particolarità, gli eroismi, considerandoli semplicemente come inferiorità
sovracompensate. Rifiutando questa teoria, Hillman reinterpreta le paure di Gandhi secondo la
“teoria della ghianda”: Gandhi aveva paura del buio perché il daimon portatore del suo destino
sapeva che sarebbe stato a lungo incarcerato in celle buie; aveva paura degli spiriti perché il suo
daimon sapeva che la morte sarebbe stata sua compagna di strada.
Crescere = discendere
La moralità occidentale, la cui bussola è fortemente attratta dallo spirito, tende a situare tutte le
cose migliori in alto e le peggiori in basso. La stessa teoria dell'eros di Platone, espressa soprattutto
nel Simposio e nel Fedro, considera l'ascesi come il fine ultimo della vita umana, e l'ascesi avviene
attraverso una progressiva ascesa dalle cose materiali verso l'idea del Bello.
Con l'Ottocento, la teoria di Darwin per cui l'uomo "discende" dalla scimmia è diventata, nella
nostra testa, l'«ascesa» dell'uomo. L'idea della crescita verso l'alto è ormai diventata un luogo
comune: essere adulti è essere grandi, avere raggiunto l'altezza definitiva.
Le piante però, mentre si innalzano verso la luce, affondano e ramificano sempre più le loro radici.
La grande difficoltà che il bambino piccolo mostra nel far parte del mondo, la sua paura, la fatica
ad adattarsi, ci dimostrano quotidianamente come sia difficile discendere sulla Terra, cioè
crescere. Anche Sant'Agostino, nelle Confessioni, là dove ci parla dei suoi disperati tentativi di
trovare un senso alla vita, riconosce il suo errore nel fatto di avere cercato Dio "fuori di sé" e
genericamente "in alto", mentre Dio abita "in basso", nella parte più profonda dell'anima umana.
Michael Parkes, Ceremony to the Sun
L'anima è restia a discendere e a contaminarsi col mondo, come ribadisce anche Platone nel mito
della biga alata del Fedro: la biga, spinta dal cavallo nero nel mondo sensibile, a seconda di quanto
è rimasta nel mondo delle idee avrà visto una quantità maggiore o minore di idee che nel
momento dell’incarnazione, dimenticherà. Per riuscire a nascere, l’uomo deve per forza tendere al
mondo empirico: infatti se non compisse il proprio percorso di discesa e se rimanesse nell’elevato
mondo delle idee l’uomo non avrebbe il senso della realtà e non nascerebbe mai. Questo è il
concetto portante delle Metamorfosi di Apuleio, come pure della stessa Divina Commedia
dantesca. Anche l'albero della qabbalah ebraica ha le radici nel cielo e immagina una graduale
discesa verso le cose umane.
E' facile vedere le conseguenze sul piano etico di questa immagine capovolta: la virtù
consisterebbe nel rivolgersi verso il basso, come nell'umiltà e nella carità.
Finché la cultura non riconoscerà che crescere è in realtà discendere, gli uomini si troveranno ad
annaspare alla cieca per dare un senso agli obnubilamenti e alle disperazioni di cui l'anima ha
bisogno per penetrare nello spessore della vita.
Due dei più durevoli miti della creazione della civiltà occidentale, quello biblico e quello platonico,
confermano questa impressione: la Bibbia dice che Dio impiegò sette giorni a creare tutto
l'universo. Dio affronta prima le grandi astrazioni e le operazioni più elevate, come separare la
luce dalle tenebre, fino al sesto giorno; soltanto allora si arriva alla molteplicità degli animali e
infine all'uomo. La creazione procede all'ingiù, dal trascendente all'immanente.
Della "teoria della ghianda" Hillman porta numerosissimi esempi: da Ella Fitzgerald a Yehudi
Menuhin a Colette al torero Manolete a Golda Meir a Josephine Baker a Adolf Hitler, la carrellata
delle sue "vocazioni" è impressionante, e tutti i personaggi presi in esame mostrano in modo
inequivocabile i segni della loro predestinazione nei loro comportamenti infantili, spesso
stravaganti quando non aberranti. Del resto, come fa notare l'autore, non dissimile era
l'atteggiamento di biografi antichi come Plutarco e Svetonio, che sempre davano il massimo risalto
alle manifestazioni precoci della personalità dei "grandi uomini": si pensi ad esempio al racconto
plutarcheo dell'infanzia di Alessandro Magno o a quello svetoniano delle perversioni giovanili di
Caligola o Nerone.
Conclusioni
Quello cui mira Hillman con quest'opera e con la sua teoria è una vera e propria "ristrutturazione
della percezione", soprattutto per quanto riguarda la psicologia infantile: "voglio che vediamo il
bambino che eravamo, l’adulto che siamo e i bambini che per qualche motivo richiedono le nostre
cure in una luce che sposti la valenza da sciagura a benedizione o, se non proprio benedizione,
almeno a sintomo di una vocazione." Ma decifrare il senso dell'immagine è lavoro di tutta una
vita: se pure è percepita tutta in una volta e visibile già nel bambino, la si comprende solo
lentamente. Il tempo può renderla manifesta soltanto come «futuro». Del resto ne vale la pena:
l'alternativa è brancolare nel buio alla cieca, senza mai percepire l'esistenza di un senso.