"IL CINEMA DI ALBERTO CIMA" (2014) Julio Pollino Tamayo

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1 JULIO POLLINO TAMAYO IL CINEMA DI ALBERTO CIMA Lo stupore della vita, l’incanto della bellezza

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JULIO POLLINO TAMAYO

IL CINEMA DIALBERTO CIMAL o s t u p o r e d e l l a v i t a , l ’ i n c a n t o d e l l a b e l l e z z a

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L o s t u p o r e d e l l a v i t a , l ’ i n c a n t o d e l l a b e l l e z z a

ALBERTO CIMAIL CINEMA DI

Julio Pollino Tamayo

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Alla mia famigliaper la sua complicità e appoggio costante e incondizionato

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INTRODUZIONERegista umanista, vitalistaLa vita, la bellezzaIl cinema è una finestra non uno specchioLo stile invisibileIl primo grande regista 2.0

AUTOBIOGRAFIA: ALLORA ERA COSÌ

BIOGRAFIA

LA SUA IDEA DI CINEMA

COME DICE ROBERT BRESSON

LA CRITICA

FILM SCELTIDe Gaulle e Gronchi a Brescia (1959)Alla ricerca della pace (1962)Uomini al forno (1963)Solo tra il verde (1964)Giorno di mercato (1966)La Loggetta (1966)L´isola (1968)Distinti saluti (1974)Brescia quale? (1975)Erba d´Imagna (1980)Collezione privata (1992)Bortolo Belotti, tra storia e lettere (1994)Giacomo Quarenghi, Architetto a Pietroburgo (1994)Una città che cambia. Il volto di Bergamo nell´Ottocento (1995)Il tempo del maglio (1996)La stanza delle Rondini (1999)Tutti fratelli. L'utopia di Henry Dunant (1999)Mani (2000)Tallinn Lieve (2002)Una vita altrove (2004)Il giardino di Lucia (2005)Contatti (2006)Permission (2008)Ora (2010)Angelo in Francia (2011)Only Wave (2012)Il vecchio e la ragazza (2014)

SCHEDE DEI FILM

FILMOGRAFIA RAI

I LIBRI

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INTRODUZIONE

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Alberto Cima in Sardegna durante le riprese di “Ora”

Regista umanista, vitalista

Un francescano laico, cioè sensuale e partecipe. Non mi stancherò di ripeterlo fino al giorno del giudizio universale, si perde molto a frequentare il mondo del cinema senza conoscere, come merita, Alberto Cima, un regista di valore come i geniali Frederick Wiseman, Robert Kramer o Franco Piavoli. Non intendo un regista locale, provinciale, che possono comprendere e fare proprio soltanto i cinefili del suo paese. Il suo linguaggio è universale, trasparente, cinema allo stato puro, senza mediazioni, senza inciampi. Ma siccome dolersene non serve a niente, e meno che mai in Spagna, il paese dove viveva Caino, tenterò allora di fare una piccola introduzione a Cima e ai suoi film. Sono pochi i registi che si possono riconoscere con sicurezza in un assaggio casuale, lui è uno di quelli. Dal suo primo film all’ultimo, possiede una forma, uno stile, inconfondibile, personale, unico. Nessuno monta come Alberto Cima, nessuno ha il suo respiro, il suo tempo, che è interno, non è un processo esterno, intellettuale. Non c’è un secondo di troppo nei suoi film, tutto è essenziale, imprescindibile. La struttura la compongono le sue immagini, i suoi suoni, non una narrazione letteraria teatrale secondo la moda del momento.

Il cinema di Alberto Cima è quello di un osservatore curioso, attivo, impulsivo. Di chi non è unicamente testimone o spettatore delle immagini, ma si confonde con quelle, si lascia portare. La camera è lui, noi, non un mediatore. Non c’è distanza tra il suo sguardo e il nostro, stanno sul medesimo piano temporale e spaziale. Come si può conseguire questa trasparenza, questa spontaneità, questa complessa semplicità, costituisce il segreto della maestria di Cima, la sua umile grandezza. Il regista di cinema meno pretenzioso del mondo, e invece il più profondo. Seguendo i postulati della mistica pagana, che deifica ogni presenza di vita, Cima rende attuale e moderno il neorealismo italiano. La stessa via di perfezione morale, etica, Alberto Cima porta a compimento nella sua traiettoria professionale, che ha di tutto ma non la convenienza. Invece di portare avanti una carriera commerciale e insieme una culturale come hanno fatto molti registi, Cima taglia di netto con un prestigioso lavoro di regista in televisione e pubblicità, per dedicarsi anima e corpo a progetti personali del tutto lontani dai circuiti commerciali, dalle mode festivaliere. Un cammino di

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Franco Piavoli

Robert Kramer

Frederick Wiseman

perfezione, di ascetismo cinematografico, quasi di creativo eremita, anacoreta, che ha dato come frutto alcune delle migliori pellicole della storia del recente cinema italiano, e non solo, Tallinn Lieve, Permission, Ora, Una vita altrove, Il giardino di Lucia…

La vita, la bellezza

Ci sono cognomi che imprimono un carattere, che predispongono al fallimento o al successo artistico. Se sei regista e ti chiami Bresson, Bres-son, Bres-suono, è più che probabile che la tua ossessione, il tuo punto forte, sia il trattamento del suono. Chiamarsi Cima, e essere creativo (regista, scrittore, fotografo, poeta) è avere un marchio raro. Cima nel senso di portare il tuo lavoro creativo alla massima espressione, alla purezza. Cosa che lui, facendo onore al suo cognome, consegue con disinvoltura. La sua traiettoria cinematografica, fotografica, letteraria, è un fedele riflesso di questa metafora alpinistica. Il suo processo di depurazione narrativa, comunicativa, è un continuo passo avanti, da “L’isola” a “Il vecchio e la ragazza”. Una evoluzione senza grandi interruzioni, scalate, salti nel vuoto, perché Cima non è partito dal campo base, dal cinema commerciale, ma dal cinema

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Robert Bresson

d’amatore o di avanguardia. Un cinema con un livello d'impegno, con un linguaggio cinematografico, con una sintassi, molto superiore al comune. Già da “L’isola” c’è un profondo rispetto per lo spettatore, per la sua intelligenza. Invece di tentare di compiacerlo, di cercare la sua immedesimazione, insiste a provocarlo, a svegliare la sua coscienza. La critica delle convenzioni, della morale cristiano-capitalista socialmente accettata, Alberto Cima la trasmette con identica vocazione di ribellione, di trasgressione. Rifuggendo sempre dalla narrazione classica, dalla asettica correttezza formale, dalle continue ellissi, digressioni, tempi morti. La forza del suo montaggio, della fluidità, è un'ossessione, una passione, che va perfezionando, affinando di pellicola in pellicola. La differenza tra il montaggio dinamico, essenziale, di “Distinti saluti” e quello frenetico di “Permission” è solo

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Alberto Cima in Plaza Mayor a Salamanca

di gradazione, in entrambi i casi non è un capriccio del regista, coincide con il tema trattato. La routine demenziale del lavoro d’ufficio, impiegatizio, e il folle e disumano ritmo della città di Londra.

Quando il tema richiede un ritmo, un tempo più lento, come nei film sull’emigrazione, “Una vita altrove”, “Il giardino di Lucia”, ecc. Cima si adatta al suo respiro, senza abbandonare per quello la sua prodigiosa abilità di andare al cuore delle cose senza indugiare nemmeno un secondo su piani superflui, decorativi. Lo stesso nei suoi film e libri di viaggio, “Tallinn lieve”, “Only Wave”, Prospettiva N”, “Una semana no más en la Habana” ecc., nei quali la sua portentosa capacità di osservazione, per mimetizzarsi con il girato, riesce a estrarre e visualizzare il ritmo proprio di ciascuna di queste città, dei suoi abitanti, senza però cessare di essere film di Alberto Cima, pienamente riconoscibili, personali. E non solo nella forma, la coerenza si estende

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Da “Angelo in Francia”

pure al contenuto, ai protagonisti, di tutte le sue pellicole. Perché il centro dei suoi film, il nucleo, non è il copione o una storia previamente elaborata, come accade in un racconto o in un’opera teatrale, sono invece le persone, senza distinzioni tra figure storiche e umili, tutti sono fratelli. Nei suoi film le modelle sono belle, e belli sono i mendicanti, Cima a tutti permette di esprimersi con la stessa libertà, tutti li ascolta con uguale interesse. Tra la nostalgia degli emigranti italiani di “Una vita altrove” e quella di Giacomo Quarenghi non c’è differenza, come non c'è differenza tra la dignità e onestà di Lucia, di Lorenzo e nemmeno di Henry Dunant. Cima di film in film, passo dopo passo, è riuscito a toccare la cima, a porre la sua bandiera nella storia del cinema, senza ramponi e senza corde, con austerità, in silenzio, in maniera indipendente, ai margini dell’avvilente mercato. Utilizzando come armi, come mezzi, l’autenticità, l'integrità, la purezza, l’impegno etico, cinematografico, e la costante ricerca della bellezza, che non sono cose incompatibili. Alberto Cima, un regista, un artista senza compromessi, un uomo.

Il cinema è una finestra non uno specchio

Più di 100 anni di cinema, e le cattive pellicole, i cattivi registi, i cattivi critici, i cattivi spettatori, l'hanno portato a un autentico vicolo cieco. Il cinema è nato con l'intento di conoscere gli altri, di scoprire il mondo, e si è trasformato in un atto di egocentrismo, narcisismo, vanità. I cineasti dell'ego, quelli che vogliono imporre le loro idee, la loro visione del mondo agli spettatori, hanno sequestrato il cinema, sia commerciale che indipendente, soprattutto festivaliero. Dimenticando che il miglior modo, l'unico, di esprimere ciò che si ha dentro, è di abbandonarsi, cancellarsi. Cima si lascia toccare da ciò che riprende, e grazie a questo contatto con l'altro, con gli altri, lascia affiorare la sua propria personalità, la sua personale visione della vita e del cinema.

Sono le immagini, i suoni, ciò di cui deve parlare il regista. I discorsi, i diari parlati, raccontati, sono di troppo nel cinema, il cinema è una finestra, non uno specchio. Lo dimostrò Robert Bresson, la quintessenza dell'autore grande è la ricerca della purezza, dell'obbiettività, il modo perfetto per trovare la propria via. La via del

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Esterni a Timisoara, Romania

linguaggio, il liquido amniotico del cinema. Tutto il cinema soggettivo, intellettuale, letterario, teatrale, è il vero cancro del cinema in metastasi molto avanzata, e finisce per assomigliarsi. Tutte le storie inventate, alla fine sono sempre la stessa, con piccole variazioni aristoteliche, mentre non esistono due persone uguali, due gesti uguali. Cogliere questi istanti irripetibili di bellezza, di tenerezza, di sublime quotidianità, è la missione reale del cinema, è il cinema di Alberto Cima.

Spogliare il cinema di tutti i suoi falsi orpelli, ancoraggi: la retorica, tanto formale quanto letteraria, la successione dei piani, i dialoghi, i controcampi, gli attori, la direzione artistica, la messa in scena, l'estetismo vacuo, gli inutili movimenti di camera, la musica decorativa. Un processo senza ritorno, che Cima è andato depurando a poco a poco, con la pazienza dell'orafo, fino a sublimare i suoi film alla loro sapienza, alla loro essenza più pura, immagine, suono, montaggio, persone.

Operazione che nemmeno a Robert Bresson, il più grande teorico cinematografico di tutti i tempi, ("Note sul cinematografo") riesce del tutto, anche se è la Bibbia del cinema. Non riuscì ad essere trasparente all'estremo, mai riuscì a prescindere dal jolly dei tre atti. Nemmeno a Piavoli, o al primo Olmi, i registi che sembrano avere più punti di contatto con Cima, perlomeno nel loro umanesimo di vicinanza, di partecipazione con la natura, e nella capacità di montare eliminando tutto il superfluo, cioè operando ellissi.

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Ermanno Olmi

Alberto Cima a Londra per le riprese di “Permission”

C'è da aggiungere l'altro concetto fondamentale che si attribuisce al cinema, al buon cinema, il contrappunto. Senza contrappunto e neppure senza bellezza non c'è cinema, né poesia, né vita.

I migliori film di Alberto Cima dimostrano che il miglior copione è la sua mancanza, che l'immagine bella è quella necessaria, quella non forzata, che si incontra, che le migliori storie, i grandi personaggi, non stanno nei libri, nei film di fiction, stanno in strada, e aspettano che un prezioso, umile, saggio, si lasci impregnare di loro.

Disfatto questo verso,Tolte le frange della rima

la metrica, la cadenza,e perfino l'idea stessa.Far volare le parole,

e se poi resta ancora qualcosa,questo

sarà la poesia.

León Felipe

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All’Avana per il libro fotografico “Una semana no más en La Habana”

Lo stile invisibile

L'espressione "stile invisibile" che associamo automaticamente al cinema classico americano, consisteva nel cancellare la camera, per conseguire una tale fluidità, trasparenza narrativa, che lo spettatore provasse la percezione di un tutto continuo, di una ripresa in diretta. Questo concetto raramente è utilizzato quando si parla di documentari, dato per scontato che un documentario non è cinema, ma è qualcosa di più sciatto, come ciondolare per casa, e perciò non ci si deve attenere alle stesse regole, esigenze creative, della fiction. E certamente la maggior parte dei documentari, diciamo un 90%, contengono poco cinema, e lo stesso si potrebbe dire del 90% o 95% dei film di fiction. In entrambi i casi, documentario-fiction, l'interesse della maggioranza dei registi per il linguaggio cinematografico è nullo. Perciò invece di parlare di cinema di fiction o di documentario, dovremmo parlare unicamente di film buoni, pochi, e di cattivi, la maggioranza, di quelli che hanno cura amorevole del linguaggio e della sintassi, e di quelli che non ce l'hanno.

Altro errore molto comune è considerare autore grande il regista che possiede dei tic formali molto marcati, che molti chiamano stile, e che non è altro che un insieme di elementi superficiali e decorativi. La trasparenza, come in letteratura, è infinitamente più complessa, e poiché esercita tutto il suo impegno a far sì che non si noti, i critici e gli spettatori sono incapaci di valutarla, di apprezzarla. Fare sciocchezze con la camera, movimenti assurdi, allungare senza necessità la durata delle inquadrature, fare tagli velleitari, d'effetto, ridicole inquadrature soggettive, lo può fare chiunque, per farsi notare, rendersi visibile, è la cosa più facile del mondo. È solo da eletti fare in modo che lo spettatore si dimentichi che esiste una camera senza stordire, senza opprimere con la musica, con le parole, alle quali molti ricorrono facilmente per nascondere i tagli. Per registi come Lionel Rogosin, Frederick Wiseman o Alberto Cima, che riescono a cancellare del tutto le illusorie frontiere tra fiction e documentario, tra oggettività e soggettività, grazie a un coscienzioso, meticoloso, magistrale, lavoro di montaggio, a un personale senso del ritmo, che elimina tutto il superfluo, tutto il retorico. E se Alberto Cima è superiore a Frederick Wiseman è perché ha un maggior equilibrio, ha più misura, ha maggior

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Lionel Rogosin

John Ford

capacità di andare al nocciolo, tende meno al didattico, all'opportuno. Wiseman punta a un obbiettivo, un principio, e si attiene a quello, è molto razionale, Cima invece va disvelando i suoi film mentre li fa, è molto più istintivo, naturale.

I due sono grandi registi di cinema, punto. Perché, qual è la differenza tra una pellicola di fiction e un documentario? Che il documentario parte dalla realtà? Allora è fiction solamente la fantascienza estrema e il cinema porno documentario? O per caso un documentario è un film senza attori professionisti? Bresson, De Sica, sono documentaristi? Se un film è buono quando ha una buona storia, dei grandi personaggi e una brillante fattura formale, tanto buono, tanto umano, è "Ladri di biciclette" come "Il giardino di Lucia" o "Una vita altrove". Tanto formalmente smagliante è "Blow-Up" come "Tallinn Lieve" o "Permission". Ci fu un tempo in cui la denominazione documentario poteva avere qualche senso pratico, per qualificare quelle pellicole che si facevano fuori dagli studi, in scenari naturali, ma oggi manca completamente di logica, dopo la irruzione della serie B americana, il neorealismo, la nascita della televisione, le videocamere, e poi le camere digitali. Tanto umanista è Ford, Ozu, come Cima o Piavoli, e se preferisco Alberto Cima è perché il suo approccio al mistero umano è più diretto, più fluido.

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Yasujiro OzuMichelangelo AntonioniVittorio De Sica

Il primo grande regista 2.0

Nello scorso secolo XX, secolo analogico, i metodi per farsi vedere erano quelli convenzionali, alla portata solo di pochi privilegiati: sale, cineclub, festival, televisioni, editori. Con l'avvento dell'era internet, e questo miracolo chiamato youtube, le possibilità di controllare il percorso, di raggiungere un pubblico universale di massa, a costo zero, sono diventate realtà, almeno in teoria. Il problema? Che all'incrementarsi esponenziale dell'offerta, non così la domanda, questa maggiore visibilità, senza pubblicità, è quasi un'utopia, o questione di fortuna. Alberto Cima è uno di questi registi pionieri del secolo XXI. Tra i primi a utilizzarlo come mezzo esclusivo di esposizione, controllando lui stesso tutto il processo. Metodo la maggior parte delle volte frustrante, perché anche se favorisce la visione gratis, se lo spettatore non sa che esisti, difficilmente ti va a cercare e trovare. Può succedere per caso, cercando altro, come accadde a me, mentre cercavo aggiornamenti su Franco Piavoli, credo di ricordare per un commento su youtube di qualcuno che riscontrava parallelismi con Piavoli. Senza questa menzione isolata, mai sarei arrivato al canale youtube di Cima, e la cosa non cessa di essere spiacevole, fonte di indignazione, perché lui dovrebbe essere conosciuto, riconosciuto, con i mezzi tradizionali, bocca a bocca, stampa, riviste, programmi di cinema radiofonici o televisivi, forum, blog, pagine web, libri, ecc. Il noto effetto palla di neve che si produce quando qualcosa è di valore, importante. E i film di Alberto Cima lo sono, valore che si comprova in appena cinque minuti di visione di alcune delle sue migliori pellicole.

Nel mio caso "Una vita altrove", quello che mi spinse immediatamente a cercare di pormi in contatto con lui, prima ancora di aver visto per intero una sua pellicola, il che comunemente si chiama presentimento. O non tanto, perché in questi cinque minuti di "Una vita altrove" ho potuto constatare che aveva qualcosa di speciale, che mi si proponeva come un montatore eccezionale, qualcuno che affrontava la pratica cinematografica con una purezza, una verità, impressionanti. Prima impressione che si trovò rafforzata, esaltata, con la visione integrale dei suoi film, una rivelazione dopo l'altra, tanto da divenire automaticamente Cima il mio regista preferito, anche se Antonioni, Piavoli, Bresson avevano un posto già molto alto nell'elenco. Era

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A Kosice, in Slovacchia per “Only Wave”

evidente che non era una ammirazione transitoria, da spettatore inesperto, ma frutto di una cinefilia, di uno sguardo, molto affinato, evoluto, maturo. Una gioia del tutto insperata, che da sola rende degna, giustifica, la nascita di youtube, di internet.

Il primo gran regista 2.0 non solo ad usare internet come mezzo di diffusione, ma anche tra i primi a utilizzare tutti i vantaggi del cinema digitale. Cima impiega la non intrusiva camera digitale, per facilitare il suo accostamento intimo, cristallino, alla vita, alle persone. Cosa impossibile con le camere cinematografiche 35 mm che, oltre all'ingombro, richiedono la presenza di una troupe. I film di Alberto Cima con una equipe professionale di varie persone sarebbero proprio irrealizzabili, la sua camera, e quindi lui, non potrebbe mai scomparire, annullarsi, e i suoi interlocutori non potrebbero mai stabilire una relazione di fiducia, di complicità con lui, e con noi. Il cinema digitale umanista di Alberto Cima riesce a sviluppare pienamente quello che preannunciò il neorealismo, cercare di costruire un rapporto diretto tra la vita e il cinema, senza intermediari, senza grandi budget. Cima ridà voce al popolo, alle persone in carne e ossa, dà spazio alle loro storie, alla loro quotidianità, e queste, come ringraziamento, gli regalano la loro anima, il loro sguardo, i loro sorrisi, le loro parole, nel reciproco rispetto. Digitale: appartenente o relativo alle dita.

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In Sardegna per le riprese di “Ora”

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AUTOBIOGRAFIA: ALLORA ERA COSÌ

S'INNAMORANOMa il sesso delle quattro sorelle olezzava nei pannolini. E di pannolini era piena la casa. Allora non esistevano gli usa e getta, ma semplici pezze di cotone. Quando entravo in bagno ero strabiliato di fronte alla imponente esposizione di bianche pezze dovunque era possibile: sui bordi della vasca, del bidet, del lavabo. Dal water assistevo con sconforto allo spettacolo spudorato e protervo di una femminilità che ostenta i suoi bisogni come una bandiera. A pensarci la mia era proprio una famiglia patriottica. Era tutto uno sventolio di bandiere. Ciascuno la sua, e la doveva agitare forte se voleva esistere.

La mamma si chiamava Rosa e per il papà era il profumo della sua vita. L’estate del 1933 Cesare s’infatuò della sua Rosa. Brevi, intense lettere d’amore. Pura poesia. Che chiede scusa dell’invadenza del sentimento. Accennava alle interminabili emozionate pause al telefono. Le risposte di Rosa si facevano attendere, ma erano lunghe. Alla quarta pagina adornavano il perimetro del foglio, con rimandi e saluti capovolti. Lei faceva la giudiziosa, aveva buon gioco: l’innamorato era lui. Un amore tardivo: trentotto Cesare, Rosa trenta. Sì, nel ’33 lei aveva ancora entrambi i genitori. Il papà, Enrico Quarenghi, eccellente medico condotto appassionato di oculistica e ostetricia, la mamma, Emma, sposina diciassettenne che sognava una vita dinamica e scintillante: teatro, musica, letteratura, beneficenza. Ma presto Enrico s’ammalò di sclerosi multipla (in casa si diceva sclerosi a placche) e finì in carrozzella. I sogni della povera Emma si cacciarono in un imbuto.

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Con mamma e le sorelle Costanza, Augusta, Rosanna, Ornella a Viserba nel 1952

I nonni materni Enrico e Emma, Brescia 1896

MAMMA E PAPA'Rosa era fresca, audace, bizzarra. Sbocciò al mondo nel 1903 e fu subito un peso per i genitori e i fratelli Aldo e Mario. Crebbe timida e incapace di responsabilità. Quando c’erano visite si rintanava sotto il tavolo. Amava molto lo scherzo galante, i giochi di società. I lunghi capelli d’oro, lo sguardo innocente, il petto ardimentoso, lasciava al suo passaggio una scia inebriante per i baldi giovanotti dell’epoca, che cantavano: “Quanto è bello far l’amore con la figlia del dottore!” Neanche i preti erano indifferenti alla Rosa, a quell’ondeggiare di spighe mature, a quella natura candida e spavalda. Al cinema della Pace, a Brescia, un sacerdote la pregò di non frequentare più la sala, perché la sua presenza in platea sconvolgeva un novizio su in galleria. Ma tutto finiva lì. Credo si appagasse di essere desiderata, furtivamente, almeno fuori casa. Giocava a cerchietti, e godeva ad andare sui trampoli. E - a trent’anni - se la stava appunto spassando sui trampoli, quando fu imprevedibilmente trafitta dalla passione di Cesare. Un uomo alla Buster Keaton, intelligente e distaccato. Mio padre. Di lui e dei suoi so molto poco. È vero che nella vita d’una persona contano di più le donne. Gli uomini sono come fotografie ben sviluppate ma fissate male, fanno fatica ad esistere, a durare.

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Mamma e papà, Brescia 1933

Cesare nacque in una bella casa di Concorezzo, in via Agrate Brianza, l’anno 1895, il quindici agosto, da Augusto e Linda Juvalta. All’anagrafe di Concorezzo risulta che all’epoca Cima Augusto, di quarantaquattro anni, industriale, era domiciliato in Monza con la moglie Juvalta Teodolinda, d’anni quaranta, agiata. Il dichiarante fu dispensato, a causa della giornata calda, di presentare il bimbo al quale vennero dati i nomi di Cesare Luigi. Così iniziò la storia tribolata di mio padre. Afa da togliere il respiro il giorno ch’è nato, afa da togliere respiro il giorno ch’è morto, il dodici luglio 1957. Puff, se n’è andato che avevo tredici anni. Un infarto, e via. Ma procediamo con ordine, e torniamo ai miei nonnini, che ho visto solo in fotografia, foto impresse su lastre scattate e stampate da mio padre. Mi pare incredibile ma il nonno Augusto nacque a Monza prima dell’unità d’Italia, nel 1851. Augusto aveva ereditato dal padre un’attività di vendita e forse anche di produzione di chincaglieria, che dirigeva a Monza. Costanza Maria Teodolinda Juvalta, nata a Villa di Tirano, era baronessa e sorella del filosofo kantiano Erminio Juvalta. Ho conservato un suo libro, stampato a Pavia nel 1901: "Prolegomeni a una Morale distinta dalla metafisica”, che ho trovato in solaio nella nostra grande casa di Via Somalia. Passavo molto tempo in solaio, da ragazzino. Mi piaceva rovistare nelle cassette di legno lunghe e basse che contenevano strani aggeggi del lavoro di mio padre: cannelli e manometri per la saldatura, elettrodi, vecchie radio, accessori per la fotografia, libri malandati, riviste, quaderni fitti fitti della scrittura ordinata del nonno Enrico. Lasciavo alle spalle la rude quotidianità di mia madre che questionava con le donne di servizio e sbaraccava l’intero appartamento per le pulizie, il viavai delle sorelle, mio padre che era sempre incazzato, e trovavo rifugio nel silenzio del mio vasto solaio. Lì mi rintanavo per sfuggire all’infermiera Maria Vergine – sì così si chiamava – quando doveva farmi l’iniezione. Avevo il terrore della siringa: una volta ero talmente teso che s’è spezzato l’ago nel muscolo della natica.

IL SOLAIOIl solaio era la mia zona franca. E lì c’era anche il batticuore delle lussureggianti donnine di "Epoca" dai rigogliosi seni impreziositi da reggipetti in maglia dorata... Lassù non giungeva l’odiato clangore delle bombole di gas compresso: ossigeno, acetilene, idrogeno. Bombole che scivolavano sfregando sulla lamiera dei camion, e battevano aspramente sul cemento. L’uomo poi cingeva la sua bombola alta quasi quanto lui, e la faceva piroettare danzando finché occupava il posto che

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Papà con i suoi genitori Augusto e Linda, Monza 1902

le era assegnato, cozzando rigida e ferrigna contro le rigide e ferrigne compagne. Detestavo quel mondo di ferro, così rozzo e disumano. Il commercio, gli affari, la religione del lavoro: ecco il futuro cui ero destinato. Mi sentivo perduto. La mia testa, la mia natura, risucchiavano peso ai piedi che lievemente tendevano a staccarsi da terra. Al mio amico Fausto Venturini, figlio di un conciatore, confidavo un sogno: vivere dentro un aereo che vola vola e non atterra mai. Fausto era piccolo e gracile, viveva in un palazzone di fronte a me. Un giorno sono andato da lui: abitava in soffitta, un solaio simile al mio. Le pareti erano di assi accostate e filtrava poca luce. Ho provato vergogna. Insopportabile. Anni dopo ho rivisto Fausto: gran macchina, se la passava molto meglio di me. I "Prolegomeni a una Morale" recano a penna sul frontespizio la dedica del prozio: “Alla sua cara e buona sorella Linda ricordando la povera mamma” e sulla pagina successiva, a stampa: “Alla memoria di mia madre ch’era felice quando faceva del bene”. Felice è una parola che circolava spesso in casa Cima. Felice è il secondo nome di mio nonno Augusto e anche di suo fratello Ernesto. Solo di nome Felice, il povero Augusto. Ultimo di otto figli, bello ed elegante, con baffi e barba, occhi fermi e liberi. A ventitré anni sposa la sua Linda dalle lunghe trecce, vent’anni, dolce e impertinente.

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I fidanzatini Augusto e Linda , Monza 1873

L’anno successivo, il 3 luglio 1875, la felicità del primo figlio: Rinaldo. Rinaldo morirà ventitré giorni dopo, forse soffocato per distrazione dalla balia. In agosto del ’76 nasce Rita: morirà a cinque mesi. Nel ’78, ancora in agosto, nasce Alberto, del quale io porto il nome. Conservo la sua pagella dell’anno scolastico 1884/85 con votazioni super: una sequela di nove e dieci (per la precisione venti volte dieci, sei volte nove). Nelle Osservazioni dell’Insegnante c’è scritto: “Ha bisogno di migliorare la scrittura” e la maestra E. Pasquali conclude: “Il detto giovane, avendo nell’esame finale ottenuto punti trenta su trenta e una media di 10/10 in lingua italiana, venne promosso alla classe Ia Sup.re a norma dell’art. 49 del Regolamento 15 Settembre 1860. Monza 1/7 1885.” Un anno e mezzo dopo – non aveva ancora compiuto i nove anni - era già morto. Tre figli, tutti morti. Quando penso ad Augusto e Linda mi chiedo come sia possibile sopravvivere a tanto immane strazio. Don Fausto Galli, amico di mio padre, li ha conosciuti. Dice che Linda era molto riservata, parlava sempre a bassa voce; passando ad Augusto, prima sorride come a prenderlo per il culo, poi lo descrive come un tipo brusco, che s’accende. A quanto mi risulta non gli andavano a genio i preti. Nella miniera ch’era il mio solaio ho trovato alcune annate della "Cronaca di Monza", periodico settimanale liberale a cui Augusto era abbonato. Non andava tanto leggero con “il pretume”. Sul n°2 si legge sotto il titolo "Intolleranza religiosa": “Il cronista che, se non istriscia per le chiese e non biascica paternostri ed avemarie, si picca d’essere un galantuomo...” Il direttore, Carlo Brusa, espone nel primo numero – il 15 luglio 1871 – “i criteri ai quali sarà informato il giornale” e fra questi: “Ogni tentativo indirizzantesi al rialzamento morale delle infime classi sociali troverà sempre nei nostri cuori e nel nostro giornale un’eco fedele. Siamo persuasi che la diffusione presso gli operai dell’istruzione primaria e dell’educazione professionale e lo sviluppo degli istituti di previdenza, avranno nella lotta contro la miseria maggior efficacia che la carità pubblica o privata, la quale mentre soccorre umilia.” E conclude: “Non transigeremo mai coi principi di onestà e d’indipendenza, che sono i requisiti necessari d’ogni pubblicista.” I NONNI CHE NON HO CONOSCIUTOAll’archivio storico del Comune di Monza restano poche tracce del nonno Augusto. Figlio di Gio.Maria e Beretta Margherita si trasferisce più volte all’interno del territorio comunale: in via Lambro 326, in Via Posta Vecchia 194, in Piazza Mercato 218, in Via Carlo Alberto 372, in

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Mio nonno Augusto

Via Italia 46. Lascia Monza per Concorezzo nel 1888. Fuggiasco, come inseguito da un atroce destino che falcia uno ad uno tutti i suoi figli. Anche l’attività lavorativa di mio nonno è sotto il segno dell’instabilità. È chincagliere, poi industriale, tessitore. Otto anni dopo la morte di Alberto, nel 1895 - come già detto - nasce il suo quarto e ultimo figlio, Cesare, che sarebbe poi mio padre. Quattro figli unici. Nessuno ha mai conosciuto l’altro. Cesare crebbe sorvegliato a vista, protetto come la piantina che la maestra faceva crescere nell’armadio della mia classe per spiegarci la fotosintesi clorofilliana. Anche il piccolo Cesare cresceva bianco e stento sotto la sua campana di vetro, come si diceva. In una cartolina illustrata inviata al signorino Cesare Cima (un panorama invernale con quattro case lontane e una chiesa illuminata, sulla neve un piccolo pastore incerto come le sue quattro pecorelle, tra alberi che protendono rami stecchiti) la zia paterna Adele nel febbraio del 1903 manifestava tutte le apprensioni legate alla sua salute: “Ti raccomando di non ammalarti almeno tu. Sta riparato dal freddo e dall’umidità.” Due anni dopo la piccola famigliola è a Quinzano d’Oglio, dove Augusto impianta con un socio una fabbrica di coperte, e nel 1909 hanno termine a Brescia le inquiete peregrinazioni con la costituzione in Via Francia di una società per la produzione di gas compressi e commercio di macchine e accessori per la saldatura dei metalli. Una svolta imprevedibile e modernissima per quei tempi. L’attività ebbe fortuna e si sviluppò con mio padre che ne aveva abbastanza di spostamenti e non si mosse più da Brescia. Delle poche cose che oggi so della mia famiglia, mica si parlava in casa. Tardivamente le ho tratte a fatica dalla polvere del tempo attraverso ricerche personali. Eppure non c’era nulla da nascondere: non ho antenati manigoldi. Era pacifico che i Cima e i Quarenghi erano persone ragguardevoli e perbene. Per la verità, per noi i Cima lo erano di più. Come valore, sensibilità, intelligenza. Papà era un sant’uomo, aveva una visione alta della vita, faceva silenziosamente del bene. La mamma e i suoi fratelli Aldo e Mario erano d’un’altra razza: pragmatici, commercianti, egoisti. Agli zii credo non sia mai capitato di sentire il bisogno di poesia prima di addormentarsi. Il papà invece mi chiedeva l’antologia e se ne andava a letto. Che strano! In casa non c’erano libri, se non di scuola. I libri c’erano, ma in soffitta. In casa non ho mai visto nessuno leggere. Era considerata una perdita di tempo. Esisteva solo il lavoro, l’affanno delle cose. I litigi, le schermaglie, le incomprensioni. E sbatter risentito di porte. Non si dialogava. Ognuno si teneva i cazzi suoi. I cazzi miei erano certo i meno importanti, essendo l’ultimo. "Alà"scemo! Era

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Mio papà Cesare, 1897

l’espressione usuale. Però succedeva anche che sarei diventato un famoso ingegnere quando ritagliavo qualche graziosa formina nell’emmenthal. A me sembrava una gabbia di matti, ma era la mia famiglia. Il mio pianeta, che escludeva tutti gli altri. Lo stile di casa portava il marchio di mia madre: disastroso. Ma anche lei poveretta, che cosa si può dirle? Strappata ai trampoli e ai cerchietti, e scaraventata a trent’anni nel letto. Non si poteva perder tempo e giù un figlio dopo l’altro. “Cinque gravidanze, cinque allattamenti, in dieci anni” raccontava sulla spiaggia di Viserba alle vicine d’ombrellone. E lo diceva con pathos, tra sospiri e musi lunghi, come avesse fatto il Vietnam. D’altronde, lei non c’era portata. Il suo uomo aveva la fissa del maschio. Lei non aveva colpa se ne uscivano solo femmine. E una, e due, e tre, e quattro. Oplà!

Finalmente il maschio, il principino, il reuccio, che continua l’azienda e il nome. Contento? Sicuramente era contento. Esorcizzati gli spettri che avvelenarono l’esistenza di Augusto e Linda! Una famiglia numerosa! Evviva! E quelle “passeggiate e soste” a Rota di dentro! “Grazie Rosa, anch’io ti amo tanto! Ieri sera, mentre seduto vicino al tavolo del salottino pensavo a te, ho sentito forte il bisogno di pronunciare a voce alta il tuo nome: mi sembrava di dover avere la tua risposta e dover vedere il tuo bel viso sorridente!... Nel giardinetto

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Io, il principino, 1946

incominciano a fiorire le ortensie: speravo di fare cogliere la prima dalle tue mani gentili. Mi sembrava questo di doverlo dire alla tua Mamma e di dirle: voglio bene anche a lei Signora, perché è la mamma della creatura che amo più di tutto sulla terra. Invece le ho offerto il fiore senza parlare. Dirai Rosa che sono molto strano. Vedo proprio che la mia bocca è tarda, e tante volte non sa esporre quello che sente l’animo mio.” Così dal giugno del ’33, cinque mesi d’una passione intensa, la volontà del cuore. Mentre lo scatenato pittore dilettante vegetariano a Monaco faceva i pompini alle folle. Un fidanzamento rapido, e il 6 novembre Monsignor Bongiorni, vescovo di Brescia, celebra le nozze. Sospirate e favorite dietro le quinte dai fratelli della sposina, che s’alleggeriscono d’un fardello.

Viaggio di nozze a Venezia, da lì in volo a Roma. Papà amava volare. Anni dopo avrebbe preso il brevetto per divertimento, se lei di nascosto non gliel’avesse impedito. Andò a parlare con i membri della commissione per farlo bocciare all’esame. Ma dai! Cosa sono queste pazzie! Un serio capo di famiglia! E se l’aereo precipita? Chi ci pensa a me? Da un certo punto di vista aveva ragione. Sola, sola come un cane. Ma anche lui era solo come un cane. Si resta quello che si è, ciascuno imprigionato nella sua nicchia. Non è possibile far tabula rasa. Il nostro DNA guida il diario della navigazione personale, di quella dei nostri

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Mamma a Venezia in viaggio di nozze, 1933

genitori. E si paga il conto. Capirsi non è facile, e la sintonia del sentire e del volere è impossibile. E aggiungici la quotidianità: sappiamo che la macina della quotidianità tritura ogni poesia.

ALL'ANTICA“Muoio tranquilla sapendo che la mia Rosa ha per compagno una persona d’oro che le sarà di affettuoso appoggio per tutta la vita. A te, Rosa, la viva raccomandazione di circondarlo di attenzioni con vera gentilezza d’animo. L’affabilità, la cortesia, la generosa dedizione alla famiglia e l’educazione dei figli (queste ultime tre parole sono sottolineate) formano il nobile retaggio che il Signore ha affidato esclusivamente a noi donne.” Sono parole della nonna Emma Locatelli Quarenghi scritte nel gennaio del ’40 nel suo testamento spirituale. Malata di Parkinson, se ne andrà due anni dopo. E la stessa Rosa – già vedova da trentaquattro anni – provvede alla stesura del suo testamento nell’inverno del ’91, dieci anni prima che fosse necessario: “Muoio con un dubbio atroce nel cuore; mi sento colpevole verso di voi di non avervi saputo educare quando eravate bimbi. Ora di questi tempi moderni lo avrei fatto molto diversamente; assai meglio avrei agito con esito più soddisfacente ne sono certa, per voi che io so, lo avreste voluto.

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Con mamma a Rota d’Imagna, 1989

Sono stata educata dai miei genitori all’antica e io purtroppo ne ho seguito le orme. Scusatemi! Ma una cosa è certa, che io vi ho sempre voluto un mondo di bene a tutti quanti indistintamente senza forse avervelo dimostrato adeguatamente. Il mio cuore ha sempre vissuto per i miei carissimi figli e sarà fra loro sempre finché un giorno ci ritroveremo insieme nella beatitudine eterna. Almeno lo spero!” Una vita. La resa dei conti, qui sulla terra. Quando i giochi sono fatti e tutto il percorso è lì da vedere, come è facile per gli altri giudicare. E invece è così complicato far luce nel magma delle fibre di cui siamo composti: scorie e anima, le regole sociali e il bisogno di libertà. Io annaspo. Mi barcameno, faccio il possibile. Mi adopero per placare le bestie che dentro di me s’azzuffano per i loro bisogni vitali. Sfioro spelonche procedendo a passi cauti, mi assottiglio e mi dilungo al cielo. Considero la vita nelle sue cangianti forme. La vita che occupa corpi e perpetua se stessa. Chissà: e se fossimo robot in cui la vita si è intrufolata per poter essere reale e fare i suoi porci comodi? Mah! I nostri grandiosi progetti. Il poootere! Dalla sterilità della conquista ci salva sempre la grazia. Un germoglio d’un sorriso. Una carezza gentile. Un aromatico caffè che adesso vado a prendermi al bar.

IONon è che lo adori, il caffè. Mi piace il rito, il piccolo varco quieto, personale. Ma proprio piccolo, tanto piccolo... Ragazzi con lo scooter fanno i furbi al semaforo e sul marciapiedi. È l’ultimo giorno di scuola. Anch’io, quaranta/cinquant’anni fa, che goduta! Sulla grande terrazza di casa in piastrelline rosse facevo volare libri e quaderni. Fine della repressione! Basta! Professori di merda! Libero! Il continente di un’intera estate davanti! Le infinite possibilità! Primo: dormire la mattina. Andavo al piano di sopra, occupavo la stanza che era delle donne di servizio. Mi piaceva staccarmi dalla famiglia, annullare ogni interferenza. Si poteva capire. La mia cameretta era nella zona giorno, accanto alla cucina e di fronte al soggiorno. Se volevo star tranquillo e coricarmi presto era una piccola tragedia. Dovevo sorbirmi l’audio del televisore fino alla musica che concludeva i programmi Rai (un solo canale, in bianconero) e poi i pressanti interrogatori cui mia madre sottoponeva in cucina le cameriere sulle piccole spese effettuate nella giornata. Finalmente arrivava il momento in cui papà, mamma, le quattro sorelle, sciamavano nella zona notte, socchiudevano la porta del corridoio, ed ero finalmente in pace. Ma non ero proprio in pace. L’ingresso dell’appartamento era vicino alla mia stanza. Non era chiuso

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Mamma

a chiave, e dava sulle scale che salivano al secondo piano vuoto, ancora grezzo, non finito, e scendevano in azienda e nel cortile. Sentivo scricchiolii, gli ignoti rumori della notte. Lottavo con la mia inquietudine, un vago senso di insicurezza. Avevo paura che venissero a prendermi per i piedi mentre dormivo. Se mi svegliavo, al buio tastavo la parete alla mia destra, ma nell’ansia non ricostruivo prontamente le coordinate della mia stanza. Mi sentivo solo, messo da parte. Una situazione dissociata la mia. Dentro i pervicaci luoghi comuni dell’unico figlio maschio, coccolato e che ha tutto il meglio. A parole. In realtà non mi sentivo veramente apprezzato ed amato. Solo il ruolo che recitavo era importante, non la mia persona. Avevo il dovere di essere all’altezza, di non deludere. Nessuno mi faceva domande, nessuno dialogava con me sui miei desideri o progetti. Ma neanche le mie sorelle, nessuna di loro, riceveva simili attenzioni.

IL PROIETTORE 16 MMMia madre, quando le saltavano i nervi, mi rincorreva attorno al tavolo del tinello per picchiarmi. Ma la sua specialità era acciuffarmi per i capelli e tirare tirare fino a farmi lo scalpo. "S’èn càa gnènt da chèl s-cèt lé", non si cava niente da quel ragazzo lì, diceva sconsolata quando combinavo qualcosa che disapprovava. Ma il più delle volte non aveva tempo da perdere con me, mi ignorava per seguire le due cameriere che praticamente vivevano in famiglia e la sarta che veniva da noi e faceva le sue otto ore. La sarta, Angela, era buona e a volte si occupava di me nel senso che mi pettinava. Le altre due, Colomba e Rachele, erano giovani e venivano dalla campagna bresciana. I loro genitori erano contenti che prestassero servizio presso una famiglia distinta, così imparavano le buone maniere e si sposavano meglio. Colomba e Rachele erano simpatiche e allegre. Nelle pause facevano le matte in terrazza, e si divertivano a fare la ruota, dopo aver pudicamente trattenuto la gonna con le mollette da stendere. Stavo volentieri con loro perché mi sentivo più libero. Un giorno – ero molto piccolo – mi sono arrampicato sui mobili in cucina fino a rintanarmi dentro un pensile. Non so come ho fatto. Avevamo la cucina americana, già negli anni ’50. Papà era molto interessato alle novità tecnologiche. Nel ’50 aveva ammirato in uno stand della Fiera di Milano un bellissimo frigorifero "Frigidaire" prodotto in America, e l’ha subito ordinato. Era enorme, bianco e panciuto, con un grosso maniglione d’acciaio. Dentro ci stava poca roba, ma era comunque un grande progresso rispetto alla ghiacciaia di prima. La ghiacciaia era una credenza impiallacciata in

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Io a Chiesanuova di Brescia

radica, foderata all’interno di fogli di zinco che trattenevano il freddo prodotto da stecche di ghiaccio. C’era chi ce le portava in casa trasportandole a spalla, avvolte in sacchi di iuta. Casa nostra era una casa borghese che mio padre ha ereditato dal nonno Augusto, e ampliato nel ’24, alla sua morte. Una casona razionale con balcone ed ampie finestre che s’affacciavano su Via Somalia, già Via Francia, nella zona industriale di Brescia. Il centro della città non era molto distante, ma il carattere industriale del quartiere era evidente. Dirimpetto a casa, al di là d’una muraglia, c’era l’ampia zona della ditta Celestri su cui s’accatastavano lamiere e carcasse in ferro d’ogni tipo. Spesso un maglio batteva pesantemente, lo chiamavamo "il peso", che produceva oltre che fastidio, anche vistose crepe nel bellissimo pavimento in marmo verde bottiglia del soggiorno. Sulla facciata della casa si apriva un brutto portoncino di legno verniciato, con due piccole finestrine romboidali, e un grande cancello scorrevole in lamiera, l’ingresso dell’azienda. L’azienda costituiva il centro della nostra famiglia, il luogo sacro e inviolabile di casa Cima. Il papà era il sacerdote di quel misterioso culto che imponeva riti e sacrifici secondo un codice non espresso ma comunque indiscutibile. La mistica del lavoro, scuola di etica, occasione di carità. Mio padre era un benefattore, e lì ci sguazzava. Il suo stile di vita era austero, per lui lo spreco era peccato. Non andava al bar a prendere il caffè, il fumo erano soldi buttati, ma regalava pacchi di bigliettoni a chi gli chiedeva un aiuto per metter su un’officina. Diceva, per non umiliare chi riceveva la sua generosità: “Se potrai, e se vorrai, un giorno mi restituirai questo prestito.” Non so come Rosa commentasse dentro di sé queste prodezze, quando lei e tutti noi andavamo tutti i giorni a scuola di rinuncia. Quando si usciva da una stanza scattava la regola assoluta di spegnere la luce, per gli appunti usavamo tutti il retro delle vecchie bollette della ditta, e in gabinetto i fogli del Corriere strappati in otto. Ma non perdiamoci in chiacchiere. Superato il portoncino d’ingresso, si presentava una larga scala di pochi gradini, lì dove mio padre il 12 luglio 1957 s’accasciò prima di morire. Un’ampia vetrata dava poi, a destra, sull’ingresso interno dell’azienda, e di fronte su due scale: una che scendeva in cantina, l’altra che saliva all’appartamento. Gradini in marmo, corrimani in legno chiaro lavorato, alle pareti appliques a vetro curvo e due grandi stampe dalla cornice nera con tragici disegni di Terzaghi: “Ultimi momenti di Niccolò de’ Lapi” e “La morte del Ferruccio”. Entrati in casa, appariva il lungo e largo rettilineo del corridoio diviso da una porta che separava la zona giorno dalla zona notte. Nella parte giorno:

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Din-din sulla terrazza di Via Somalia a Brescia

Con papà, Costanza e Rosanna a Rota

a sinistra la cucina che dava sul grandissimo terrazzo, la mia cameretta, il bagno di servizio con antibagno; a destra la sala e il tinello. Nella parte notte: a sinistra bagno e antibagno, la camera di Rosanna e Ornella, il guardaroba. Di fronte il piccolo ripostiglio. A destra la camera di papà e mamma e quella di Costanza e Augusta. Le donne di servizio, come già detto, avevano la loro camera al secondo piano, e dormivano in grandi letti neri in ferro battuto, piuttosto lugubri, con paesaggi in madreperla sulla testata. Allora non immaginavo che quei due letti, uniti e colorati di verde pisello, sarebbero diventati il mio primo letto matrimoniale. Ma questa è un’altra storia. Il secondo piano – non intendo le cameriere – era per me terra di conquista, lo spazio libero, vero, quello del fare e delle scoperte, contrapposto a quello di patacca della quotidianità familiare. Lì c’era uno splendido armadio del ‘600 in povero legno d’abete (non c’era posto in salotto occupato da moderni buffet e controbuffet) che conteneva le affascinanti macchine della passione giovanile di mio padre. Macchine fotografiche anni ’20 e ’30, di grande formato, fotocamere stereoscopiche, scatole di lastre, obbiettivi, otturatori, vaschette per lo sviluppo, marginatori, un proiettore 16 millimetri Bell&Howell, una compattissima cinepresa a molla Zeiss Ikon 16 m/m, adagiata in una scatola in cartone con l’etichetta blu dell’ottico La Barbera di Roma, Corso Umberto I 162-163. Questo dettaglio allora non m’interessava. Poi una stanza con mobili accatastati che non mi diceva nulla, e invece uno stanzone dal pavimento di legno che parlava ai miei passi, con tavoloni da ufficio, arredi superati, vecchie macchine per scrivere (le avrà usate il nonno Augusto?), e uno stranissimo attrezzo per ricaricare d’inchiostro le primissime penne biro. Al termine del canonico corridoio si apriva lo spazio inebriante di un altro stanzone vuoto di metri otto per otto. Quello era il mio vero laboratorio. Fantastico. Lì ne ho fatte di tutti i colori, ci sono cresciuto. Edificavo casette in cartone dove passavo ore. Pedalavo in bicicletta attorno ai due pilastri. Lavoravo tutto concentrato al banco da falegname. Costruivo un sacco di cose. Persino un carretto con sterzo e freno, utilizzando vecchi manici di scopa e rotelle dei pattini di Ornella. Giocavo a calciobalilla. Sparavo piumini con la carabina. Tentavo il teatro: volevo rappresentare un momento della vita di San Foca. Realizzavo la sala cinematografica “Principe”: un vecchio lenzuolo teso su di una cornice di legno nero e, dietro un paravento, il Bell&Howell 16 millimetri piazzato su una scala a libretto. Il pubblico era scarso, mi dispiaceva, ma godevo lo stesso come un riccio. E, last but not least, le feste con le pollastrelle... Il

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La vista dal tetto della casa di Brescia

Papà con la Giulietta Alfa Romeo, accanto a casa, 1957

vecchio salottino eliminato (oggi ce l’ho in soggiorno); penombra, solo qualche luce colorata agli angoli, un giradischi a 45 giri, tanti lenti, e l’indomabile speranza che le ragazze si lasciassero strizzare.

FARE GIORNALIA sei anni cominciò la mia grande passione per la redazione di giornali. Il mio primo fascicoletto illustrato si componeva di otto pagine in carta grossa di piccolo formato. Scritto con cannuccia e pennino presentava in copertina, tra due rami con fiori gialli e rossi, il mio nome in stampatello. In seconda il solo disegno di nuvoloni sopra una margherita. Seguiva la storia di un uomo multato per aver strappato dal giardino le margherite, scappa, è arrestato dai carabinieri e muore in prigione. Mia madre, forse per superare l’imbarazzo della visita inopportuna, dopo aver ripetuto energicamente: “Non saluti la signora? Su, saluta la signora!” mostrò alla brillante signora Anna Mathis questo mio libretto. La reazione fu vivace, scintillante, divertita. Sospettavo che mi si volesse prendere per i fondelli, ma almeno avevo avuto i miei due minuti da protagonista, prima di sentirmi dire dalla mamma: “Vai di là, adesso!” L’imbarazzo delle visite l’ho sempre avuto anch’io. Ce l’ho ancora. Quando suona il campanello di casa entro in agitazione. Subisco la visita come fosse un’irruzione. Fatico a cambiare registro, dall’astratto dei miei pensieri alla concretezza del momento. Nel ’52 seguì il numero unico illustrato, scritto a macchina sul retro di una bolla intestata “CESARE CIMA fu Augusto - Agenzia di Brescia della S.A. Fabbriche Riunite Ossigeno - Via Somalia N.4 (già Via Francia) - BRESCIA (20) Telefono N. 2885” emessa in data 12 settembre 1945 alla Spett. Ditta Bertoletti Paolo di Leno per la consegna di una bombola d’ossigeno. Titolo del giornale: "Una difficile prova". L’argomento: il volo, sul terrazzo di Via Somalia, dei piccioni Rodolfo e Mimì, con la collaborazione di un anonimo bambino di otto anni (guarda caso!). Le successive pubblicazioni avevano la pretesa di periodicità, con tanto di réclame, a titolo gratuito, della ditta Cima. Nel dicembre dello stesso anno uscì a puntate, sempre con illustrazioni a colori, il "Racconto di una chioccia": La chioccia, scappata dal pollaio, cammina un giorno intero, minacciata dal lupo, si pente d'aver lasciato la famiglia, finché appare il figliolo a salvarla. Ci sono gli ingredienti forti del mio mondo emotivo. Gli animali, la fragilità, la violenza, la fuga, il ritorno. E ancora: la mamma che s’affatica, la ribellione contro le regole imposte, il bisogno di libertà intrecciato col senso di colpa, la minaccia del padre, il mito della famiglia. Improvvisamente entra in

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I miei primi giornaletti

scena il figliolo, è una presenza, insperata e forse salvifica. Allude al sollievo provato da mia madre alla mia nascita? Finalmente il maschio caparbiamente voluto da Cesare! Ora basta con corpi estranei che s’ingrossano nella pancia e bocche che tormentano i capezzoli! Chiuso! Non se ne parla più! Una gravidanza un allattamento, una gravidanza un allattamento. Signora, così per dieci anni. E non ero giovane: mi sono sposata che di anni ne avevo quasi trentuno. E le ragadi al seno... La mastite, ho avuto! Avevo due seni così, duri come il marmo. Sì perché i miei fratelli avevano bisogno di me per le pulizie al Belvedere, in montagna, prima che arrivassero i villeggianti per la stagione estiva. Ne ho parlato con mio marito, e lui mi ha detto: “Se hanno bisogno, vai!” Un bel coraggio. Avevo partorito da poco, ero in piena montata lattea. E lui: “Beh, se Aldo e Mario hanno bisogno...” Un bel coraggio, sia Cesare che i miei fratelli, a chiedermi una roba così. Ma loro mica ci venivano a fare le pulizie. Toccava a me, sgobbare con le donne! Che piangere ho fatto! Ma gli uomini fanno così, loro comandano! Da piccolo avevo sempre animali d’attorno: cani, gatti, uccellini in casa. Dell’osservazione di animali erano pieni i miei giornaletti e anche i temi in classe che per me, se d’altro argomento, sono sempre stati una tortura. Dovevo essere sincero, o scrivere cose che facevano piacere all’insegnante? In un tema del novembre ’54 dal titolo: "Anch’io, sebbene fanciullo, ho un desiderio insoddisfatto", leggo che desidero un meccano. Ma la mamma non me lo compera, devo essere io stesso a mettere da parte i risparmi necessari all’acquisto. Però per Natale avrò “due pellicole per il proiettore, dato che ho tutta l’attrezzatura, compreso un piccolo telone argentato che fa da schermo.” È vero. Il proiettore "Bral" era una scatola di lamierino nero contenente una lampadina ordinaria, con una piccola manovella che trascinava un rullo di qualche decina di metri di pellicola 35 millimetri. Mi è stato regalato per Santa Lucia l’anno precedente – avevo nove anni – il regalo più fantastico. E ha subito invaso la mia mente e il mio cuore.

IL RULLO 35 MILLIMETRIOgni mattina, finite le lezioni, correvo a casa per proiettare un piccolo rullo da macero d’un vero film in bianconero per le sale. In un salone aristocratico il maggiordomo recapitava una lettera a una signora sussiegosa che spuntava da una gonna a pallone. La dama s’accostava alla luce d’una vasta finestra con pesanti tendaggi, e leggeva. Fine del film, del mio film. Non sapevo nulla del contenuto della lettera, e

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Papà con Augusta a Portese, sul lago di Garda

Papà con i cognati Mario e Aldo

tantomeno della storia. Ma ero al settimo cielo. Mi staccavo dall’odiata sponda delle regole, delle abitudini, della noia, e veleggiavo rapidissimo in mare aperto. Entrato in casa, buttavo non so dove la cartella, mi chiudevo nella stanza, facevo buio, rizzavo il raffinato schermo argenteo 75x100 cm. con bordo nero opaco, posizionavo il rullo sulla staffa, richiudevo il pressore sulla pellicola, e giravo la manovella. Le forme, le luci, le ombre, il movimento su quel piccolo rettangolo, erano nelle mie mani, ero io che le facevo esistere. Un piacere totale mi entrava negli occhi, ero insieme eccitato e appagato, una sensazione tutta mia, non la potevo condividere con nessuno. Fortuna che ho ritrovato la puntuale descrizione di questa esperienza nel libro del grande Ingmar Bergman "Lanterna magica". Se è accaduto anche a lui si vede che non ero scemo.

Anche il cinema incoraggiava la mia tendenza alla solitudine. Il mio mondo era a parte. Ma mi pareva che non scaturisse da un rifiuto della realtà, bensì dal bisogno di rifondarla sulla base delle mie necessità. Non mi piaceva adattarmi al mondo che vedevo, volevo invece capire qualcosa di me e delle cose per poter vivere alla mia maniera. Certo la mia famiglia era rigida e molto poco tollerante. Non c’era spazio per la

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Il rullo da macero in 35 mm, mio sommo piacere

libera espressione. Per ogni situazione era previsto un solo modo di fare e di dire. Lo si deve a mia madre il regime che ci soffocava un po’ tutti. Era dura, ma debole. L’opposto della mamma di cui sentivo il bisogno: tenera e forte. Ma per ogni cosa c’è il suo perché. E anche Rosa poverina aveva il suo perché. Da bambino me ne strafottevo dei suoi perché, e cercavo di seguire le mie inclinazioni per conservarmi vivo. Il banchetto da falegname mi ha fornito una formidabile ciambella di salvataggio. Mi è giunto in dono dallo zio Mario per Santa Lucia quando avevo sette anni. Dio, non proprio il giorno di Santa Lucia, i ritardi erano norma in casa mia. Avevo scritto la letterina, bramavo questo benedetto banco da falegname, ma mi è toccato sospirarlo parecchie settimane prima che l’artigiano di fiducia dello zio lo costruisse. Era stupendo. Giusto giusto per la mia statura, con la morsa e la vaschetta per gli attrezzi. L’ho piazzato subito in soggiorno, e via di pialla e trucioli. Vada a farsi fottere la famiglia. Non volevo più mangiare con i miei. Loro erano tutti seduti banalmente alla comune tavola, io no. Mangiavo da solo, seduto al mio tavolinetto di vimini, a un passo dal mio seducente banco da falegname. Si capisce quanto avevo bisogno di libertà sfogliando un mio vecchio quaderno dalla copertina nera e dalle pagine col taglio rosso. In prima e seconda elementare la mia maestra era la dolcissima Gandellini, una piccoletta dal viso tondo con i baffi. La sua mitezza mi aveva conquistato, era proprio una mamma, non la mia che era troppo energica per i miei gusti. Il quaderno è dei primi mesi del ’52. Leggo le parole scritte in modo molto ordinato: “Brescia, 4 Marzo 1952. Questa mattina, appena entrato in classe, ho recitato le preghiere con devozione.” Due pagine dopo, ancora la mia scrittura: “Brescia, 5 Marzo 1952. Trascrivi, usando il passato remoto, la composizione precedente.” E, dopo tre greche: “Ieri mattina, appena entrato in classe, recitai le preghiere con devozione.” Altre due frasi e poi: “Appena entrato in classe salutai la maestra, pregai con devozione e mi sedetti. La maestra ci interrogò in scienze ed io risposi abbastanza bene.” Doveva essere una bella lagna la scuola. I primi giorni della prima elementare sono stati un incubo. Non ci volevo andare. Avevo paura a staccarmi da casa. Temevo, dopo ore intere passate fuori, di ritrovare la famiglia sconvolta da qualche accidente. Un’insicurezza profonda. Le prime volte ero accompagnato da un adulto, forse una cameriera. I duecento metri da casa a scuola li percorrevo a traino, e mi sbucciavo le mani nel disperato tentativo di abbrancarmi alla corteccia dei bellissimi tigli dei giardini di Via dei Mille. Un giorno d’inverno, uscito da casa, m’è apparsa una scena che

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Componimento per la delizia della maestra

Con il Black all’orto di Via Dalmazia a Brescia

mi ha profondamente colpito. Un robusto cavallo, trainando un carro, era scivolato sul ghiaccio ed era caduto. A terra su un fianco, agitava il testone, con le zampe raschiava il terreno, ma non riusciva a rialzarsi. Assistere a una disfatta plateale da parte di un organismo poderoso, energico e vitale, mi ha provocato un piccolo choc. Ero di una timidezza mai vista. Imporporavo al solo pensiero che qualcuno potesse rimproverarmi alcunché. Con i compagni stavo volentieri, ma ero alquanto controllato. Difficilmente mi abbandonavo fiducioso. Ero insicuro in ogni rapporto. Un giorno, tornando a casa dalla scuola elementare, parlottavo con due compagni. Loro raccontavano di gatti selvatici seviziati e bolliti in pentola. Ero abbastanza inorridito. Amavo i gatti, e anche i miei cani. Dovevo però riconoscere che anch’io ero un torturatore, ma non mi sentivo affatto in colpa per questo. In terrazza seguivo il viavai di formiche, indaffarate e determinate nei loro spostamenti. Erano indifferenti alla mia presenza, mi scansavano e basta. Allora prendevo una cannuccia di bachelite, l’accendevo a un’estremità, e lasciavo cadere su di loro, centrandole una ad una, gocce incandescenti. La mia famiglia era invidiata. Il capofamiglia benestante, onestissimo e gran lavoratore, la mamma sempre in casa, i figli sani. C’è una eloquente fotografia scattata nel ’50 sulla spiaggia di Rimini che ci ritrae tutti in fila ordinata, noi cinque e la mamma in testa, bionda occhi azzurri, con i pantaloni neri e lo sguardo fiero da perfetta ariana. In un tema dell’ottobre ’55 scrivo: “La mamma ha sempre da lavorare e molte volte si sacrifica per accontentarci. Il babbo è sempre nel suo ufficio e lavora fino a tardi. Mia sorella Augusta ha appena compiuto i diciannove anni e ha già finito di studiare; perciò va in ufficio per alleviare il lavoro al mio papà. Alcune volte il babbo si ammala per il troppo lavoro ma, quando il medico gli consiglia di riposarsi, egli non gli dà ascolto e si rimette a lavorare. Anche la mamma lavora molto e va a letto alle ore piccole perché trova sempre qualcosa da riordinare o da pulire. Quando io sono a letto, la mamma viene nella mia stanzetta, mi rassetta le coltri e mi dà il bacio della buona notte. Ho quattro sorelle, ma sono troppo grandi perché mi diverta con loro; sono però gentili e generose con me. La più grande ha ventun anni e ha finito le Magistrali. Ha perso un anno perché è stata malata di esaurimento. Un’altra mia sorella sta frequentando l’ultimo anno di Magistrali; la minore è in terza Media. Io sono il più piccolo e il più discolo della mia famiglia, ma quest’anno devo essere migliore a scuola per non dare dispiacere ai miei genitori.” Più della scuola mi interessavano le mie

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Il mio bel vestitino

macchinine di latta verniciata. Un regalo meraviglioso è stato un’auto sportiva blu che io potevo comandare meccanicamente attraverso un flessibile con una manovella con la quale potevo farla avanzare o retrocedere. Da Brescia partiva la Mille Miglia, e mi è accaduto di assistere alla punzonatura dei bolidi in gara, di inebriarmi alla puzza di olio bruciato, e di intravedere a distanza il mio idolo Biondetti. D’estate aprivo sulla mia terrazza una rivendita di ghiaccioli, che producevo io stesso. Mettevo le formine nel Frigidaire, che faticosamente raggiungeva la temperatura di ghiacciamento, poi esponevo i miei prodotti alla distinta clientela che poteva scegliere fra tre gusti: menta, tamarindo, orzata. L’orzata non l’ho mai capita, faceva schifo. Ma c’era in casa, e aumentava la gamma. Un regalo che ho tanto sognato, ma non ho mai avuto, è la pistola a capsule. Mio cugino Raoul ha perso un occhio per una pistola-giocattolo, e i miei genitori non ne hanno voluto sapere. Scendere nei locali dell’azienda era molto bello, da piccolo. Tiravo scherzi alla Elena Ballini, lei era di Fiesse, la vecchia impiegata del papà, della quale la mamma pare fosse stata gelosa. Un giorno con inchiostro e pastelli ho falsificato una banconota da 50 lire, e ho chiesto alla Elena di cambiarmela. Me l’ha cambiata. Ero contento come una Pasqua. Mi sentivo proprio bravo! Ho confessato, le ho restituito i soldi, la soddisfazione l’avevo già avuta!

PAPA' MUOREMio padre era – credo – orgoglioso della sua numerosa famiglia, ma in casa non trovava la serenità di cui aveva bisogno un povero cristo che lavorava dalla mattina alla sera. Per tutta mattina mia madre vagolava spettinata con vecchie vestaglie mongolfiera, più in disordine delle cameriere. Se, inaspettato, arrivava qualcuno, era un dramma. Lei correva in bagno sbuffando e imprecando contro il maleducato: “Mé capése mia, non capisco, non è ora di visite questa!” Poi lo faceva attendere a lungo prima di intrattenerlo visibilmente contrariata. Quando il papà saliva dall’azienda per il pranzo erano momenti difficili. Anche se lui raccomandava la puntualità in vista di un importante incontro di lavoro, mia madre non lo accontentava. A mio padre giravano i maroni, e quando il pranzo si faceva aspettare troppo, dava fuori dai gangheri. Pian piano gli si rialzava un sopracciglio, la rabbia gli faceva tirare la pelle a partire dalla radice dei capelli, schiumava in silenzio finché la pressione dentro faceva saltare tutti i freni. Esplodeva con un poderoso: “Sa-cra-men-to!” scagliando a terra piatti e stoviglie. Io ero ridotto a proporzioni minimali di fronte a tale scarica d’energia,

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Clemente Biondetti

La punzonatura delle Mille Miglia a Brescia,in piazza Vittoria

ma l’orgoglio mi imponeva di reagire. Lo guardavo negli occhi, quel padre lì, e con un filo di voce imploravo: “Non bestemmiare, papà”. Padre Cittadini della Pace ci aveva invitato a contrastare la bestemmia, come del resto era raccomandato dai cartelli sui mezzi pubblici: “Vietato bestemmiare” insieme con “Vietato sputare”. La reazione di mio padre non era molto incoraggiante. Mi guardava con gli occhi di un leone che guarda un criceto, o con l’occhio di Polifemo che guarda Ulisse, non so. E dall’alto mi giungeva distinto e irrevocabile il suo disprezzo: “San Luigi!” Non ero dalla parte di mia madre, mi faceva malinconia il suo stile di vita. Non avevo la solidarietà di nessuna delle mie sorelle. Odiavo mio padre, così grande ma così lontano. Gli allacciavo le scarpe dopo il suo breve riposino, ne aveva diritto dopo pranzi così eccitanti. Diceva che gli bastavano dieci minuti: “Dormo in fretta io”. Giravo la sua poltrona la sera perché potesse sedersi comodamente davanti al televisore Aquila, mi pare fosse un Radio Marelli, uno dei primi arrivati a Brescia nel ’54. Un giorno mi ha umiliato troppo mentre lo stavo aiutando. Non capivo bene alcuni numeri di matricola delle bombole che mi leggeva ad alta voce e che io dovevo annotare. Insomma, non capivo bene se diceva sessantasei o settantasei. Lui perdeva la pazienza, e mi offendeva. Basta, mi sono detto. Non lo sopporto più. Vada a cagare e non mi rompa più i coglioni. Che si arrangi con le sue stringhe e la sua poltrona. Da allora resistenza passiva. Mi aspettavo una richiesta di spiegazioni per un voltafaccia così radicale. Niente. Mi sa che nessuno se n’è accorto. Per qualche mese. Fino al 12 luglio 1957. L’anno zero della mia famiglia. Ogni cosa avvenuta nel nostro passato è datata prima o dopo la morte del papà. Lui non seguiva le raccomandazioni del medico, neanche dopo i due lievi infarti. Il primo l’ha avuto mentre con la sua Lancia Augusta mi stava accompagnando a scuola, facevo la quinta elementare. S’è afflosciato sul volante, ma è riuscito a frenare. Ero terrorizzato. Ho passato la mattina irrigidito nel banco come uno stoccafisso. Il ritorno a casa con la melassa nella testa e il cuore nelle scarpe. Poi l’ho visto, sì, c’era ancora, il mio papà! Ma si era prodotta un’ulteriore crepa nel fragile muro delle mie sicurezze. Non potevo contare su niente, e quello che mi aspettava non era tranquillizzante. Lui lavorava troppo. Lo sentivo dire sempre. Anche nel cuore della notte a volte, alle due alle tre, sentivo che si alzava e si metteva, in sala, a disseminare sul tavolo pacchi di fatture. Lo sentivo perché la mia stanza era vicina. Non riusciva a dormire, oppure mia madre l’aveva sgarbato? Magari lui le sussurrava tenere paroline d’intesa, e lei spartanamente:

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Papà muore, 12 luglio 1957

“Dormi lì, non sei stanco?” Non lo sapremo mai. Fatto sta che Cesare era più rilassato e più realizzato sul lavoro che non con la sua Rosa, l’ex profumo della sua vita. Anche la domenica, qualche volta andava alla messa, ma subito si rimetteva al lavoro. La domenica riparava manometri per i clienti che non erano in condizione di pagare. Verso i preti e le cerimonie credo avesse lo stesso atteggiamento del nonno Augusto. Tutte formalità, ostentazioni. La vera fede è nel proprio cuore e nel proprio agire. Un giorno di luglio paf ! se n’è andato. È diventato una lapide, il mio papà.

Ero solo. Come prima, a pensarci. Ma d’un tratto caricato di enormi responsabilità. Avevo tredici anni, eppure le mie sorelle si aspettavano che io le proteggessi. Mi hanno messo in fretta i calzoni lunghi, mi avrebbero pompato con una bombola d’ossigeno se questo poteva farmi crescere in un baleno. Avevo il compito di continuare ciò che rimaneva del papà, la sua creatura, la ditta Cima. Avevo appena finito la seconda media. “Oggi, 12 ottobre. Giorno triste per noi; sono ormai passati tre mesi dal dì più brutto della mia infanzia e della mia vita. Prima di scuola abbiamo assistito alla S.Messa, fatta dire appunto per questa ricorrenza. Abbiamo passato un pomeriggio di tristezza; sebbene siamo molti in famiglia, ci sembrava che la casa fosse vuota, deserta. La mamma era desolata nonostante noi cercassimo di

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Papà, la sua vita

rincuorarla; nelle nostre stanze regnava il silenzio, la casa era colma di dolore. Come tutti i giorni, ci siamo recati al Cimitero per stare vicino al nostro adorato Papà pregando e baciando la sua tomba. Alla sera, vedendo la mamma piangere, l’abbracciai e ci mettemmo nel letto nel quale dormiva il mio amatissimo Papà.” Sotto le mie parole, Scandola, la professoressa di lettere, aggiunge: “Caro Alberto, sono tanto triste con te e con tutti voi!” Cosa si può dire ancora? Freud, che nel 1896 perse il padre nel periodo critico della sua autoanalisi – ma aveva quarant’anni – definì la morte del padre l’avvenimento più importante, la perdita più straziante nella vita di un uomo. Nella prefazione alla sua "Psicopatologia della vita quotidiana" Cecilia Galassi scrive che “la crisi che ne seguì non era pura sofferenza; i suoi sogni di allora gli rivelarono quei conflitti interiori, quell’inevitabile violenta ostilità del figlio contro il padre, pure amato, che sono propri di ogni uomo e che, per lui, erano alla base dei sentimenti di colpa già dedotti dal sogno di Irma; egli stava sperimentando su di sé quel "ritorno del rimosso" e quella "ambivalenza affettiva" che ebbero tanta parte nell’impostazione del suo pensiero.”

LA MACCHINA FOTOGRAFICA FERRANIA 6x6 E IL CARDINALEFine! Non ci sarebbero più state occasioni di parlargli, di toccarlo, di baciarlo. Un rapporto a distanza, mancato in partenza. Orfano, ero diventato un orfano. Anche le mie sorelle: orfane. E forse lo siamo ancora, dopo quarantaquattro anni: orfani. Forse anche mia madre più che vedova era orfana. E mio padre, anche lui è morto orfano. Provavo un senso di solitudine, di incapacità di uscire da me, dai confini del mio corpo e della mia mente. Di lui mi resta la sua firma “Papà” su di una cartolina che Costanza, la mia sorella maggiore, mi scrisse da Sanremo insieme con Augusta e lo zio Marione. Papà non mi ha mai scritto niente. Non un biglietto, un messaggio. La dentiera, gli occhiali, le sue scarpine di vernice di quando aveva due anni, ecco cosa restava. Mi aveva regalato una piccola macchina fotografica, una Ferrania 6x6. Ma non m’ha insegnato ad usarla. Glielo chiedevo, ma non aveva tempo. Mi sono arrangiato da solo in qualche modo, e ho scattato qualche rullino. In terrazza hanno posato per me il soriano Micolino e il barboncino Din-din, il trovatello di cui mia madre non voleva sapere, diceva: o io o il Din-din! Avevano più pazienza della mamma, che poi non mi dava soddisfazione perché le veniva la bocca a pesce. Il papà detestava essere fotografato, ma a tradimento gli scattai un mezzo

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La mia prima macchina fotografica

primo piano mentre con cappotto e cappello stava rimirando un piccolo pero nel suo orto. Sentito lo scatto, gettò su di me uno sguardo severo, come se avessi pisciato in chiesa. Una volta è accaduto un miracolo: ha passato credo un’intera ora nella mia cameretta, ad aiutarmi nei compiti. C’era bisogno di un intervento perché a scuola in quel periodo non combinavo molto. È stato un avvenimento memorabile. Ero talmente stordito dalla novità che non capivo se era davvero un piacere. Qualche volta abbiamo giocato a dama. Succedeva anche che fosse rilassato. Talvolta invitava la mamma a sedersi sulla panchetta in corridoio, dicendole: “Dai vieni a sederti qui ai giardini!” E quando voleva esagerare in rilassamento: “Supposto che la supposta vada in quel posto...” Era bello quando ci veniva a trovare al mare. Stava con noi una giornata intera, e il giorno dopo tornava a Brescia per occuparsi dell’azienda, che non chiudeva mai, se non la domenica e le feste comandate. Ero a Rimini quando è morto. Alloggiavo alla pensione “Villa Maria”, accanto al Grand Hotel, con le mie sorelle Ornella e Rosanna. C’era anche una bambina di Perugia, che mi pareva bellissima. Ci giocavo, le sfilavo la cintura. E lei: “Ridammi la mia cinta!” Era esuberante. Mi raccontava barzellette audaci, era più sveglia di me: “All’arena c’è un toro, immobile. Il torero lo fissa negli occhi e gli grida: - Aha toro, aha toro! - E il toro con sufficienza: - E piantala, ho già ahato! - La sua voce era armoniosa. Mi sentivo investito da tifoni rapinosi. Vincendo la timidezza, la baciai. Prima di andare a letto, inginocchiato, dicevo le preghiere. Come sempre, pregai per mamma, papà, le sorelle. Da alcune settimane pregavo in particolar modo per papà: non volevo che bestemmiasse. Di solito gli dedicavo un Padrenostro, ma quella sera mi uscì senza volerlo “L’eterno riposo donagli o Signore”. Mi turbai, m’inflissi alcune preghiere per punirmi dell’errore. Un lapsus che non aveva precedenti. Lo odiavo quel padre così inaccessibile, che non si accorgeva della mia esistenza. E insieme ero corroso da umilianti sensi di colpa. La mattina dopo avrei saputo che il papà era davvero morto. Venne lo zio Aldo da Brescia per comunicarci la notizia. Gli corsi incontro per dargli un bacio, ma lo sentii gelido. Rimproverandomi dello slancio, m’accorsi che il suo viso era troppo bianco, e che troppo forte mi stringeva. Ci condusse in una zona morta dell’hotel. Ero teso, le lacrime mi stavano già riempiendo gli occhi, prima di sapere per chi. Mi sentii dire: “Cos’è successo?” Le mie parole suonavano finte, tremolavano come clown e mi esponevano – fredde e ridicole – nell’attesa d’un dolore vero, reale. Temetti subito per Augusta, quella delle mie sorelle che sentivo più

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A Rimini l’anno della morte del papà

affettuosa, e anche più concreta e affidabile. Quando seppi che era il papà, mi dissi che in fondo era meglio così: il papà era vecchio. Ma era crollato il palo che reggeva il tendone del circo: ora niente, non c’era più niente. Corsi al mare. Le lacrime mi deformavano le cose. Ma sapevo che tutto era rimasto inalterato, tutto era come prima, come se nulla fosse accaduto. Il mare rombante al di là della strada, il cielo infinitamente azzurro. Era caldo quel sole di luglio. Qualcuno mi rincorse, temendo per me. Non c’era bisogno, ero lucido. Volevo star solo, e riprendermi gli slip da bagno prima del viaggio. Partimmo immediatamente. Lo zio Aldo, dopo i primi momenti di gelo, si sciolse la lingua e cominciò a sparare consigli per salvare il patrimonio, l’azienda di papà. La sua voce era diventata più sgradevole, sentivo nausea per il calore che vampava dall’asfalto. Giunti a Bologna volle trascinarci dal Cardinale, che ci avrebbe confortati. Lui era fatto così, superava ogni problema grazie all’appoggio di un potente col quale intesseva diplomaticamente relazioni. E più andava in alto e più la soluzione sembrava a portata di mano. Molti anni dopo, alle affollatissime e allegrotte cene con gli alpini lui, ultraottantenne, sistemava sulla tovaglia i suoi santini per garantirsi la loro protezione. Salito lo scalone, lo zio si inginocchiò, chinò il capo e baciò l’anello del porporato. Una farsa ridicola. Non volevo inginocchiarmi, non volevo baciare l’anello di quell’uomo, non volevo ascoltare le sue fredde parole, non volevo restare in quel buio e squallido ambiente. Correre pazzamente, attraversare cascate d’acqua fresca e pura, buttarmi sull’erba, schiacciarmi contro la terra, sradicare alberi, gridare, espandermi fino a scoppiare, sminuzzarmi in miliardi di particelle, dissolvermi di là del tempo e dello spazio, nell’infinito e nell’eterno.Se allora avessimo potuto vedere d’un colpo, attraverso la macchina del futuro, ciò che si stava preparando per noi nei successivi dieci anni, saremmo tutti insieme stramazzati a terra, fulminati.

DAVIDE E GOLIAPer l’intero viaggio da Rimini a Brescia durò il vacuo monologo dello zio. Noi tre orfanelli con la bocca cucita. Naufraghi, tra le rovine. Ciascuno masticava l’amaro della sua solitudine. Io pensavo con orrore al corpo inerte di mio padre. Mi spaventava l’idea di trovarlo in casa. Non osai chiederlo, ma giunto a Brescia, fui sollevato a saperlo in ospedale, nell’obitorio. Stava adagiato là, il tiranno, col ronzio delle mosche di luglio e il profumo dolciastro di gladioli. Orizzontale, ma pur sempre una statua. Distante e freddo. Era d’obbligo dargli un bacio

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Al mare di Rimini

sulla fronte, l’ultimo tenero addio. Sono riuscito a sottrarmi. Provavo repulsione, rabbia, avvilimento. Golia se n’era andato, aveva voltato le spalle a quel microbo di Davide, che tratteneva ancora tra le dita la sua inutile fionda. Mio padre, agli amici Vertua e Nolli, ai quali leggeva divertito alcune espressioni del mio giornalino (il piccione era color bianco sporco), diceva che suo figlio in futuro avrebbe fatto di tutto tranne che occuparsi dell’azienda. Che pena per lui, che ci teneva tanto! E per sua moglie che s’era inutilmente sfiancata! All’uomo non basta il presente, ha bisogno di proiettarsi nel tempo in un’illusione di eternità. L’oraziana semplicità, l’epicurea saggezza non ci aiutano a superare l’insopportabile strazio del divenire concime della terra.

BOY SCOUTBusta indirizzata a: Scout Cima Alberto (presso panificio Anesi) Baselga di Pinè (Trento), affrancata con francobollo – da 25 lire – del cinquantenario del traforo del Sempione. Apro e leggo: “Brescia 9/7/’56. Carissimo Bìttiser [sarei io], come va la vitaccia? Bene, vero? Stai bene e ti diverti? lo spero. Noi tutti bene, solo sentiamo molto la tua mancanza e quando in casa ci troviamo tutti insieme non si parla che di te. Al tuo ritorno troverai una cartolina di Carlantonio che ti ha spedita dalla montagna. Qui non c’è niente di nuovo: tra qualche giorno andremo a Rimini. Ornella, la sera, non scende più a giocare [in strada], perché senza il suo "maritino" [io] non si diverte affatto e preferisce andare a letto. Costanza è appena ritornata da Pescara con lo zio Mario [col suo aereo personale, un Aer Macchi M.B.308]: si è molto divertita nonostante sia stata male durante il viaggio di ritorno in aereo. Papà è molto contento che ti sia servito il sacco piuma e penso che si debbano fare veramente delle belle dormite lì dentro... Divertiti più che puoi, ma ti raccomando non prendere freddo, non mangiare porcherie e soprattutto non farti male. Ti salutiamo tutti con affetto e tanti bacioni da Augusta.” La cosa più simpatica e sorprendente è la scritta sul retro della busta: “Professione lazzaro, scrivere prima a Costanza che alla Tuti vero?...” Tuti è il soprannome di Augusta. Costanza mi aveva scritto tre giorni prima: “Carissimo Alberto, spero che tu sia arrivato in buone condizioni e con te il tuo sacco piuma! Hai dormito bene questa notte? Come è andato il primo bivacco? La mamma non fa che dire: “Che cosa farà il nostro ciuì? [l'uccellino sarei ancora io]” e con lei tutti noi (come vedi anche "ste fonne" queste donne ti ricordano sempre!) Domani molto probabilmente partirò con lo zio Mario in aereo per Pescara (la "strina" paura però!...) e ti

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La mia promessa scout a Baselga di Piné (Trento), 1955

manderò una cartolina. Divertiti molto e cerca di non farti male. Bacionissimi. Costanza.” Anche Ornella mi scrive, il giorno 8: “Caro maritino, spero che non ti sia fatto male. (Sono Giona?) [il portasfiga dell’antico testamento, buttato a mare dai marinai durante una furiosa tempesta]. Questa mattina volevamo venirti a trovare ma non abbiamo potuto perché è venuto subito tardi. [Leggi: la mamma, malgrado le sollecitazioni, non era mai pronta: il papà si è alterato quell’attimo, gli si sono rivoltate le budella e ha rischiato l’infarto]. Forse però il papà potrà raggiungerti più tardi e portarti la tua macchina fotografica [la Ferrania] (guarda che ho detto forse, neh!) Ti ringraziamo di tutto cuore della cara e lunga lettera che così presto ci hai spedito e ti dico che quando è arrivata, Augusta l’ha presa in mano esclamando: “L’è el me ciuì!!!” Eravamo tutti in camera mia (meno Costanza pescarese) quando il papà l'ha letta ad alta voce; la mamma era commossa e non passa giorno che non pensi al "suo ciuì". Noi stiamo tutti bene, anche Costanza che ieri mattina è giunta felicemente a Pescara con lo zio Mario e se la gode un mondo; tornerà lunedì o martedì. Rosanna parte domani mattina alle 8,30 in pullman per Rimini dove la raggiungeranno presto Costanza e Augusta. Tutti ti salutiamo e ti mandiamo un grosso bacione. Ornella.” Nei sei centimetri rimasti del biglietto c’è un’aggiunta: “Parto domani ciao e baci. Rosanna”. Ci sono proprio tutte le mie sorelline. Ma non manca nemmeno la mamma che mi fa avere una busta: “Al mio caro Alberto” con un biglietto: “14 luglio ’56. Mio Stellino d’oro, hai scritto veramente delle magnifiche lettere a tutti e tutti te ne siamo grati. Bravo!... e mille grazie! Hai ricevuto la mia lettera? Tutti sentiamo la tua mancanza nonostante riposino le orecchie a non sentire i tuoi versi! Alla mamma sembra un secolo che non vede il suo Ciuì e non vede l’ora di riabbracciarti. Sai che mi sono spaventata a sentire dell’infortunio capitato al tuo capo? poverino! [Cadendo s’era tagliato il culo con una bottiglietta di vetro che teneva in tasca] Vedi che ci si può far male anche giocando? Stai attento Alberto, per carità, e non fare degli scherzi col tuo coltellaccio [il regalo del papà per il mio dodicesimo compleanno]. Ho avuto tanto daffare per la partenza per Alessandria [dove Ornella partecipava al campionato di pattinaggio a rotelle] perciò mi [capovolgendo il cartoncino continua] spiace tanto di non essere venuta anch’io a trovarti. Arrivederci però presto.” Su un lato corto, in un piccolo spazio libero: “Bacioni dalla tua Mamma.” Non era male fare il boy-scout. Ero nella squadriglia dei Camosci. Mi davo da fare a predisporre il terreno per la tenda, scavare canaletti

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Mia sorella Augusta

Mia sorella Rosanna

tutt’attorno per evitare che eventuali piogge inondassero l’interno. Si doveva poi costruire con pali e corde il lettuccio spartano. Quando tutto era organizzato, si andava al fiume a prendere l’acqua: il cappellaccio era praticamente impermeabile, e ci bevevo dentro. Il momento più bello era la sera. Ci si raccoglieva a cerchio seduti a terra, e al centro un allegro falò levava lingue di fuoco e faville. Qualcuno improvvisava scenette: il più bravo era Fabrizio Padula, che mi faceva ridere come un matto. Diceva freddure e indovinelli. Un milite Romano, con scudo e lancia, affronta un tale e gli domanda: “Sei Persèo?” E quello risponde: “Trentaséo” Irresistibile era nell’imitazione della vecchia zitella con cappellino piumato e ombrellino che chiama il suo cagnolino: “Su, Bobi, su!” Le competizioni tra le squadriglie m’interessavano poco. Non ero capace di sintonizzarmi con gli altri, fare gioco di squadra. Al contrario mi stimolava molto la prova con me stesso, farcela a tutti i costi. Si doveva raggiungere la vetta d’una montagnola, e si marciava tutti in fila. Non stavo bene, avevo la febbre. Non m’importava, anzi la precarietà del mio stato fisico esaltava il potere della mia volontà. Arrivai tra i primi e fui apprezzato. Mi sentivo un eroe. Il punto dolente del campeggio era la disciplina. La mattina presto qualcuno suonava la tromba, e bisogna schizzare su. Per fare che? Giochi di squadra, tiri alla fune. Non ne volevo sapere, facevo boicottaggio. Un giorno m’han fatto crollare addosso la tenda perché mi rifiutavo di obbedire. Quando il papà m’è venuto a trovare con Augusta – grande emozione – ho ricevuto in dono un sacchettone di bellissime succose pesche. L’ho nascosto subito sotto la mia branda, ma me l’hanno fregato. Ho sofferto come un cane, era impossibile trovare il colpevole.

MA NO, FORSE ERO AMATOA rileggere le letterine che mi scrivevano, mi pare che non sia vero ciò che vado ripetendo da decenni, che cioè non ero veramente amato in famiglia. C’era affetto tra noi, e non ci mancava niente. Io in particolare ero oggetto di mille attenzione. Il biglietto a stampa su carta a mano la dice lunga: “Le sorelline Costanza, Augusta, Rosanna e Ornella Cima a nome di Mamma e Papà annunciano festanti la nascita del loro piccolo Re. Bergamo 4 gennaio 1944.” Sotto: Brescia e Rota Imagna; sull’altra pagina, al centro, il mio nome: Alberto. Anche l’immaginetta con tanto di fiocchetto testimonia di un ambiente particolarmente sereno: “Alberto e Ornella Cima nel radioso giorno della prima S.Comunione e cresima uniscono i loro puri cuori colmi di Fede e di Gioia e pregano

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Con le mie quattro sorelle in Val Gardena

ardentemente Gesù perché trionfi tra gli uomini la Pace e la Bontà. Brescia 17 Giugno 1951. Lo zio Mario mi è padrino e mi scrive un cartoncino ufficiale con tanto di stemma araldico: “Al mio caro Alberto, perché nella luce della Fede cresca onesto, serio, laborioso.” Io ero un bravo bambino. Avevo due anni quando il papà mi fotografava con la Leica: pettinato con la banana mi aggrappavo a una piantina alta poco più di me. Sul mio diario al 28/2/56 scrivo: “È un po’ di tempo che preparo i letti e la tavola. Sempre il mio letto.” E la mamma in una lettera: “Ti raccomando di essere buono e servizievole sempre con tutti i tuoi compagni del Campo e ubbidiente e rispettoso coi Superiori.” Senti chi parla, se c’era qualcuno refrattario alla disciplina, quella era proprio mia madre. Era impossibile farla obbedire, lei faceva di testa sua. Suo padre si nascondeva dietro il giornale per non vederla mentre faceva cose fuori norma, i suoi fratelli la giudicavano irrecuperabile. Comunque un bel caratterino indomabile. È stata trascinata a Strozza dal giudice conciliatore per aver risposto per le rime a uno che protestava per l’abbaiare del suo cane. Tornando alla letterina: “Se fa freddo devi essere giudizioso, coprirti adeguatamente e alleggerirti quando fa più caldo per non farti venire quei famosi disturbi di pancia e di stomaco di cui tu ben conosci la noia e il dolore.” In un componimento scrivevo: “Questa notte, verso le due e mezza, mi sono svegliato per dei forti dolori al ventre. Non volevo svegliare la mamma e cercavo di non fare alcun rumore, sebbene continuassi a muovermi e a girarmi da tutte le parti. Il male aumentava e non riuscivo più a star

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In seconda elementare con la maestra Gandellini, l’ultimo a destra

Nel 1952

fermo: ho preso il cuscino, l’ho trasportato alla sponda opposta del letto, vi ho posato il capo, mi sono coperto con un piumino e, alle cinque, finalmente sono riuscito ad addormentarmi.” Non osavo dire in casa che mi occorrevano scarpe nuove. I piedi mi crescevano e mi sanguinavano nelle vecchie scarpe. Lo sperpero era considerata una colpa grave, dunque tacevo. Mi piacevano moltissimo i fumetti, che la mamma disapprovava. Topolino costava 80 lire, e allora acquistavo i più economici “Albi della rosa” spendendo meno della metà. Anche sui gelati mi sforzavo di non spendere eccessivamente. Era una incommensurabile libidine il fiordilatte... il mottarello ricoperto di cioccolato e, quando pioveva, il fortunello col doppio biscotto. Ero golosissimo. Uno stick di caramelle colorate Charms mi durava mezz’ora. A Ornella, che era molto parsimoniosa, più di una settimana. L’acme della golosità l’ho provato attorno ai sedici anni, quando sentivo un’attrazione violenta per la Saint Honoré, per i maritozzi, tutto ciò che aveva a che fare con la panna e la crema. Il sesso premeva, e non trovando vie facili di appagamento, dirottava lì. Poi m’è passata, la golosità.

L'ORGASMOIn quinta elementare, col maestro Castelli, facevamo i pensierini alla Madonna di maggio, e la cioccolata di fine anno scolastico. Ma si sentiva nell’aria, era palpabile, un ché di nuovo, di misterioso. Stava cigolando al dischiudersi un immane portale che invitava a introdursi in un affascinante mondo sconosciuto. In prima media la eterea professoressa di lettere Busoli, che mi voleva bene, procedeva incerta con la gabbietta del suo canarino, su quel terreno organico e scivoloso che è la natura quando reclama i suoi diritti. La zona franca della mia soffitta, libera e piena di sorprese, ben si conciliava con l’attesa di avventurose esplorazioni di nuove galassie. Carlantonio Levrini era più esperto, aveva un anno o due più di me. La penombra del solaio, la sicurezza di non essere sorpreso da nessuno, lo resero audace: estrasse il suo pistolino e cominciò a sfregarlo con la mano. M’invitò a fare altrettanto. Avevo vergogna, ma provavo una curiosità via via più crescente. La mia mano stava producendo per la prima volta nella vita un miracolo grandioso. L’accelerato concentrarsi in un punto di stimoli selvaggi luci colori uno straniamento mai provato un flusso d’energia immane scorreva in me le forze della natura le più straordinarie erano state evocate insieme dal mio piccolo gesto non ero più io temevo per me e mentre godevo ero annientato da energie spaventose che

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I miei amici Carlantonio Levrini e Fausto Venturini ai giardini pubblici di Via dei Mille a Brescia

prodigiosamente e misteriosamente deflagravano dentro di me. L’effetto del cataclismatico esperimento chimico era costituito da gocciole di bava che, raccolte in un foglietto di carta, con mia sorpresa si rivelarono un tenacissimo collante. Al di là dell’interesse scientifico derivante dall’osservazione di tali fenomeni naturali, feci nel contempo esperienza del significato della cacciata dall’Eden. L’entrata nel Paradiso produceva paradossalmente una perdita. La perdita della mitica età dell’oro, dello stato beato della pre-coscienza. M’avvidi che ero nudo, ne provai vergogna, e mi coprii. Ma il sentimento di colpa non mi vietò di approfondire l’argomento. Con altri ragazzini mi rifugiavo negli angoli dietro le case di viale Italia e ciascuno tirava fuori la sua mercanzia, per verificarne la consistenza. Un giorno feci il bullo e mi vantai di riuscire a ritirare tutta la pelle fino a scoprire l’intera cappella. Vollero vedere, ci provai, ma feci una magra. L’attenzione del gruppo era già passata dal mio vermicello agli occhi di Sguazzi, che si esibiva in cose strane. Ma come faceva a rovesciare gli occhi fino a farne vedere solo il bianco? Faceva impressione. Bravo, sì, ma era un’altra cosa.

IMMATUROQuesti interessi segreti, illegali, influivano sul mio rendimento scolastico. Andai a settembre in latino e matematica. Al mare la mamma trovò per le ripetizioni un professore che si meravigliava della mia bocciatura. Le cose io le sapevo, ma ero tanto imbranato che non riuscivo a dirle. Passai l’estate tra lezioni, angurie, nuotate avvolto da una camera d’aria rappezzata (quella c’era e il salvagente costava). A settembre affrontai l’esame nel peggiore dei modi. Non appena qualcuno mi osservava, avvampavo di brace. Non sapevo più dov’ero, balbettavo. L’esame andò male. Fui considerato immaturo. Cominciò così una nuova lunga fase della mia vita: quella dell’immaturità. Una fase nella quale io ero considerato immaturo. Gli altri mi giudicavano immaturo. A me non sembrava, però lo ero davvero. Mi si dovette iscrivere per la seconda volta in prima media. Ma la mamma andò troppo tardi in segreteria: non c’era più posto. Mi trovai così iscritto al Fontanone, la scuola media Ugo Foscolo, dall’altra parte della città. Un vecchio stabile pericolante, accanto al Foro Romano, e vi si accedeva percorrendo un ponte di legno sull’area archeologica. La classe Ia A era mista: avevo tre compagne. L’unica bellina era Ornella Tondini: sottile, elegante, lunghi capelli biondi. Profe di lettere era la Scandola, Laura Scandola. Piccolotta, porri in viso, brava. L’inizio è stato facile, ci mancherebbe, da ripetente. Dicevano che mi avrebbe fatto bene, sarei

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Scuola media del Fontanone a Brescia, dietro la profe con borsetta

maturato. La Scandola era in gambissima, amava l’insegnamento. Quando s’è ammalata sul serio – nel febbraio ’56 – ed è stata assente quindici giorni, al ritorno ci ha dettato una poesia da lei composta perché memorizzassimo le eccezioni col genitivo in –ium.

Nix la neve i campi ammantaGus il ghiro si addormentaÈ per lui la lunga notteMus il topo...

In latino avevo ottimi voti, in un compito scritto ho preso addirittura 10-! In matematica andavo piuttosto bene: 7 e 8, ma la profe era un’autentica carogna: m’ha interrogato cinque volte, in una settimana. Il suo nome si prestava a facili epiteti: Ogna, topo di fogna. In seconda media di inglese avevo la Lucia Trombetta, un’aguzzina dalla borsetta piena di mentine, per schiarirsi la voce. La seconda media è stata una tragedia. Probabilmente ero perso nelle mie fantasie, e la guerra dichiarata a mio padre mi sfibrava. Il diario di quell’anno è zeppo di umiliazioni. La Scandola giorno dopo giorno verga le sue sentenze, firmate dalla mamma: “Interrogato in Geografia. Non ha studiato nulla (o almeno non sa nulla): 3. Interrogato in Latino. Ha studiato poco ed è poco preparato anche nel compito: 5. Interrogato in Antologia: 6. Deve essere più pronto e stare più attento alle spiegazioni, quest’anno il ragazzo dorme! Interrogato in Latino: addormentatissimo! 6. Forse la sera prima avevo visto in televisione "Il capitan Fracassa": quella figona di Scilla Gabel faceva intravedere le sue rotondità nel ruolo di Zerbina, accanto a Arnoldo Foà. Facevo finta di niente, ma i miei occhi erano risucchiati dal tubo catodico e dentro ero tutto tramortito. Il 7 dicembre ’56 la bordata a mia madre: Interrogato in Iliade. Ha studiato a memoria ma non si è preparato:5. Martedì desidero conferire con Lei, in merito al profitto, ed alla condotta del ragazzo. Ossequi.” Dopo il colloquio, per quattro giorni di fila, è il papà a firmare il diario. Poveretto! Che delusione! Sette mesi prima di tirare le cuoia! I voti migliorano, ma il pressing degli insegnanti non cessa. “Interrogato in Storia. Non ha studiato nulla né della lezione nuova né della ripetizione.” Uno stress. Stavo soffocando. Il 25 marzo ’57, lunedì, scrivo per traverso sulla pagina, sottolineato in rosso tre volte, col righello: “Oggi è vacanza”. Quell’anno scolastico è cominciato con una grossa novità per me e per tutta la famiglia. La notizia della feroce occupazione sovietica di Budapest scosse mio padre che, superando le resistenze della mamma, chiese di ospitare un ragazzino ungherese. Lo

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Scilla Gabel

stesso slancio l’aveva avuto nel ’52, quando il Po, rompendo gli argini, aveva inondato molte povere case. Allora mia madre aveva detto no. Mio padre si sentiva in dovere di aiutare. Lui era un privilegiato, aveva il dovere morale di soccorrere chi era nel bisogno. Mia madre trasecolava. C’era già tanto da fare. Senza andare a cercarne dell’altro. Già aveva subìto l’arrivo del Din-din, l’inverno precedente. Cesare aveva un cuore troppo tenero. Visto ai giardini, sperduto nella neve questo povero bastardino malconcio, se l’è portato a casa. Rosa era indignata, come sappiamo: “O io o il Din-din!” Sono rimasti tutt’e due, e si è dovuto far posto per Coci. Un ragazzino di Budapest, nove anni, che è entrato in casa nostra con la tuta blu e un fischietto verde legato al collo. La signora Miszlay, moglie d’un dentista di Brescia, da buona ungherese, fece da tramite e affidò a mio padre il piccolo profugo Laszlo Sajo detto Coci.

COCI DA BUDAPESTCoci fu accolto con calore e naturalmente suscitò in me qualche gelosia. Dormiva su un lettino che fu introdotto nella mia cameretta, e ci facemmo buona compagnia. Non capiva una parola d’italiano, e Rosanna colse l’occasione per fargli subito una lezione rigorosa sulle parole con suffisso "cìa e gìa" e i loro plurali. Accadeva che al risveglio Coci non ci fosse più. Dramma in famiglia. Coci al piano di sopra pedalava felice attorno ai pilastri. Un paio di volte ci ha proprio spaventato. Non era in casa. Sparito. Anche Paola, la simpatica cameriera, non l’aveva visto. Lo si è ritrovato a casa della signora Miszlay. Coci sentiva ovviamente una grande nostalgia, la mamma e i fratelli a Caracas, il papà altrove. Io non ero più, grazie a Coci, l’ultimo in famiglia. Un giorno però l’ho visto seduto sulle ginocchia di mio padre che era molto affettuoso con lui. Con me non lo era. Non c’era confidenza. Rosanna ricorda che una volta stava camminando col papà, gli stringeva un braccio. Il papà ha avvertito la morbidezza del seno, e delicatamente si è staccato da lei. Anche Rosa non era avvezza alle dolcezze. Scuola militare, anche la sua. La nonna Emma una volta ha scoperto mia madre bambina sulle ginocchia del suo papà, e l’ha raggelata con un: “Su, Rosa, su!” Nelle famiglie borghesi, probabilmente più che in altre classi sociali, il sesso faceva paura. Un giorno Coci entra in camera mia. Mi trova in lacrime. Perché? Ero stato assalito da una terribile immagine premonitrice: mio padre steso sul letto, morto. Alberto Cima, 2001

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Sajo Laszlo, per noi Coci, 1956

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BIOGRAFIA

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La sua prima cinepresa 8 mm Bolex Paillard, del 1956

Nel 1988 abbandona la pellicola 16 mm e passa al Beta SP

Nasce a Bergamo nel 1944. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Brescia dove il padre Cesare conduce l’azienda di famiglia. All’età di dieci anni riceve in dono un piccolo proiettore a manovella che segna il suo incontro con il cinema: una passione che non lo abbandonerà più. A quindici anni effettua la sua prima ripresa filmando, con una Bolex Paillard 8 mm, la visita in Italia del Presidente francese Charles De Gaulle. A diciassette realizza il suo primo documentario. Frequenta intanto il Liceo Scientifico e il biennio di Ingegneria. Decide di non proseguire l’attività del padre, che ha perduto a 13 anni, e matura varie esperienze di lavoro.

Tra il ’61 e il ‘67 realizza numerosi documentari a passo ridotto. Il primo grande successo lo raccoglie nel 1968 quando il suo lungometraggio di fiction L’isola ottiene molti riconoscimenti in concorsi internazionali: è premiato dai fratelli Taviani al Festival del Cinema Libero di Tirrenia (dove il film scatena anche furiose polemiche ed è bloccato dalla censura) e vince il “Grifone d’oro” al Festival internazionale del Cinema di Rapallo.

Nel 1978 inizia l’attività cinematografica professionale e, due anni dopo, con la nascita della Terza Rete, entra in RAI a Milano come programmista-regista dove firma negli anni più di cento servizi, tra cui, Due per sette: i conti con la scienza (Raitre 1980) Teatro musica (Raidue 1981) Notizie naturali e civili sulla Lombardia (Raitre 1982) Milano 2000 (Raitre 1983) Uno mattina: intorno a noi (Raiuno 1986) Star bene con gli altri (Raidue 1988). In ambito pubblicitario ha realizzato video per Nestlè, Pioneer, Bosch, Ferrarelle, Lever, Buitoni, Cailler, Glaxo, Perugina e numerosi documentari a carattere culturale per Enti pubblici e musei.

Documentarista attento e lucido, Alberto Cima nei suoi lavori va direttamente al cuore dei problemi anche a costo di suscitare polemiche. Acuto ritrattista, lo stile di Cima è refrattario all'enfasi, alla retorica. Uno sforzo di ascolto rispettoso dell'uomo nella sua realtà più autentica.

Fonte: Il Cavaliere Giallo

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LA SUA IDEA DI CINEMA

A PROPOSITO DI “ERBA D’IMAGNA”"Quando si affronta un documentario, oggi non basta più osservare alcune regole classiche precostituite e adagiarsi sul soffice velluto della bella fotografia e del facile lirismo, si devono tenere gli occhi ben aperti per evitare gli scivoloni che si rischiano ad ogni passo. Così per il mio film sulla Valle Imagna la prima tentazione era quella di abbandonarsi alla poesia della natura - che ha qui un aspetto tanto dolce e riposante, domestico direi - e dare al montaggio e alla colonna sonora il taglio furbo e vecchiotto dell'operina composta e piacevole traboccante buoni sentimenti.Ma, scartata per un minimo di onestà questa prima impostazione, estendendo l'indagine su persone e situazioni, mi nasceva dentro subdola e prepotente la voglia di comporre un quadro polemico, una denuncia serrata dei vizi dei valdimagnini, uno specchio impietoso che li costringesse a vedersi come sono: egoisti, individualisti, avari, materialisti, sordi a qualunque invito a sentirsi e a fare comunità, anzi superbamente soli e cattivi nei confronti del vicino che non ha rispettato i confini di pochi centimetri o gli ha calpestato l'erba. Questa seconda forte tentazione mi puzzava però di razzismo ed era obbiettivamente troppo schematica per essere vera: ho quindi concluso che della gente d'Imagna sapevo ancora poco. Ho intensificato le ricerche con tutta umiltà e senza pregiudizi, volevo assolutamente evitare di fare un lavoro superficiale e tutto sommato inutile.

Scelsi il registro della verità. Non mi sono tuttavia tenuto a distanza, non sono stato neutrale: le cose che mi sono piaciute le ho raccontate come belle, e le cose che mi hanno francamente disturbato le ho raccontate come brutte, senza però forzare la mano e fare emergere situazioni personali non rappresentative. "Erba d'Imagna" è una raccolta di ritratti valdimagnini. Scelti dalla massa di materiale imprevedibilmente fitta, in modo che ciascuno costituisca il pezzo del mosaico, emblematico, tipico.

Ho evitato accuratamente le zone del folclore, i pezzi d'effetto tipo scemo del villaggio, che sono spesso tappe obbligate in questo genere di film, perché credo sinceramente che ogni persona, anche la più povera ed emarginata, abbia il diritto di pretendere rispetto: mi auguro di essere riuscito a rappresentare in una luce dignitosa tutti quelli che

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Ernesta Salvi di Berbenno

hanno generosamente accettato di parlare di sé, della propria estrema miseria, delle fatiche e della fame di chi emigrò tra le due guerre, della candida devozione alla Madonna della Cornabusa, della grande capacità di lavoro, del senso degli affari, della ipervalutazione del denaro, della povertà di tessuto sociale e culturale. (...)

Per me è stata una scoperta, un'emozione rara, un sottilissimo ininterrotto filo miracolosamente recuperato, sentire il pulsare sanguigno e vitale di antiche civiltà scomparse, la viva presenza di un patrimonio umano immenso, il fluire continuo di valori essenziali, nelle singole persone di cui andavo stanando la realtà più vera."Giornale di Bergamo giovedì 20 marzo 1980

LA SUA ENTRATA IN RAI"Queste presenze in rassegne cinematografiche amatoriali mi fecero conoscere anche nel mondo professionale. Presi, comunque, il coraggio a due mani e bussai, senza presentazione alcuna, alla Rai di Milano. Fui naturalmente respinto dal primo fattorino. Ciò non mi scoraggiò, anzi mi fece riflettere. Finalmente mi venne l'indicazione giusta da conoscenti e ottenni un incontro con il funzionario responsabile della programmazione. La visione dei miei lavori cinematografici, colpì il funzionario che mi mise alla prova con un mese di contratto come programmista regista della Terza rete.”Giornale di Brescia 28-03-1987

IL PRIMO LAVORO PROFESSIONALEUna inchiesta sui danni provocati nei cittadini per l'abuso di farmaci, "Iatrogenesi: quando la medicina crea la malattia" (1980). Un reportage di venti minuti sui danni provocati dai farmaci. Il risultato fu positivo: il filmato fu presentato al Mifed (Milano), insieme a un lavoro di Olmi ("Con le proprie mani")Giornale di Brescia 28-03-1987

VITA, NON CARRIERA“Non ho mai legato il lavoro alla carriera, non ho mai pensato al cinema come a un modo per far soldi, ma piuttosto come a un modo di vivere, di comunicare con gli altri, di essere.”L'Eco di Bergamo 21-04-1987

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A Milano entra in Rai come regista

"La mia libertà me la garantisce la mia onestà professionale. Non cerco il successo ma la possibilità di esprimere ciò che ho dentro di me."L'Eco di Bergamo 21-04-1987

IL PROIETTORE 35 MMIl suo primo incontro con il cinema avviene attraverso un piccolo proiettore a 35 mm. che gli regala suo padre per il compleanno: "Possedevo in tutto qualche metro di pellicola con un paio di brevi scene. Forse non più di due minuti di proiezione. Eppure tutti i giorni, appena uscivo da scuola, correvo a casa, mi chiudevo nella mia stanza, facevo buio e giravo quella piccola manovella che mi permetteva di veder vivere sullo schermo quelle due scene, che ormai conoscevo a memoria nei minimi particolari, ma che mi incantavano sempre. Il cinema mi appariva come una meravigliosa magìa. Però lo consideravo fin d'allora più dalla parte di chi lo fa che da quella di chi lo vede, mi immedesimavo nel regista più che nello spettatore.”L'Eco di Bergamo 21-04-1987

KANETO SHINDOCima riconosce come suo maestro il giapponese Kaneto Shindo di "L'isola nuda", un film che vide quando aveva 16 anni e che non ha più dimenticato: "In quel film senza parole c'erano dei ritmi lenti, delle atmosfere presaghe che mi colpirono subito: un grande cinema che porto dentro di me e che mi ispira."L'Eco di Bergamo 21-04-1987

TALLINN“Mi sono ben guardato dal documentarmi sull'Estonia, raccogliere informazioni socioartistorituri. Un microfono a fucile puntato su una stella. Una lastra sensibile pronta per la lunga esposizione. I monotoni rumori a bassa frequenza dei potenti motori del traghetto. Paola accanto a me. Il mio sguardo si perde nel mare, e a tratti incontra il suo viso. L'ansia di li-ber-tà. L'amore. L'infinito. Il tempo che consuma. Le devitalizzanti mucose sociali. Lo schiumare della bestia. Le povere esistenze in carriera fatte di nulla. E un'onda più ampia, forte e calma, si gonfia. Una luce nuova. La nave è approdata a Tallinn. Lasciato il porticciolo, a distanza seguiamo nel sole uno sparuto gruppetto che avanza sul viottolo erboso della ferrovia. Le antiche mura. Un ingresso a tutto sesto. Rudi pietre squadrate compongono la pavimentazione a dorso di mulo. Saliamo i gradini d'una chiesa ortodossa. Ci avvolge un

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Kaneto Shindo

canto sommesso. Celebrano un matrimonio. Icone cupe e dorate. Ci inoltriamo verso il cuore della città vecchia. L'incredibile, ariosa, umanissima piazza medioevale. Sbircio da una finestra a pian terreno. Una gentile voce di donna mi saluta e mi augura il buon giorno, me lo augura davvero. Sono commosso, e sento di essere arrivato a casa, la mia vera ipotesi di casa.”Alasca News 11-10-2002

FILM/DOCUMENTARIO“Il film è il prodotto di un'impresa, un'azienda, con tanti soldi, tanto rischio, tanto potere. Il film è un atto di volontà: piega le cose a un'idea, le utilizza per uno scopo. E il documentario? Non ha alcuna regola. Può costare poco o molto, può utilizzare attori oppure no, può avere una storia o no, può durare quanto vuole, può essere pensato per la televisione o per la sala cinematografica. Le riprese si possono fare in una settimana o in un anno, con una troupe di dieci tecnici o due o, perché no, da soli. Il documentario ha pazienza. Non impone ritmi alienanti, sa aspettare, osserva e sente. Non tiene conto di gerarchie, non distingue tra chi ha potere e chi no. Il documentario è un modo privilegiato di porsi in relazione con le persone e con il mondo, è lo stupore di sentirsi vivi, e di comunicarselo con tenerezza. Se il film corre e guarda l'orologio e la cassa, il documentario va piano, e cerca negli occhi frammenti di cielo. "Tallinn lieve" è un cane da tartufi, scova in ogni anfratto la vita, e s'inebria d'un quotidiano miracolo: l'io diventa goccia nel mare, e il tutto è un respiro. E allora, "Tallinn lieve" è un documentario o un film? Scompigliando le carte, "Tallinn lieve" è un film che costa poco, senza gerarchie e senza potere, fatto come un documentario, con mezzi televisivi, in libertà, per il cinema.”Alasca News 11-10-2002

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Riprese a Tallinn

Studentessa a Tallinn

ONESTÀ“Quando giro cerco di essere il più possibile neutro, non cerco di applicare il mio pensiero alla realtà. Quando faccio un film, del resto, non mi sforzo di produrre un oggetto, un risultato che può anche non esserci: il mio fine non è quello di usare i luoghi e le persone per costruire un film, non è così. Ogni film per me è come un pezzettino della mia vita. (...) La mia videocamera è molto piccola e probabilmente la sua aggressività - che c'è sempre - è pian piano accettata come una presenza non pericolosa, non minacciosa. E poi io non uso grandi attrezzature cinematografiche, nemmeno le luci, e forse anche perché il mio è sempre stato un approccio personale nei loro confronti: ero sempre io di fronte a ciascuno di loro. Non divento uno del gruppo, uno di loro, perché non c'è nessuna affinità tra me e loro. Però probabilmente hanno percepito, hanno sentito l'onestà del mio atteggiamento nei loro confronti. Mi comporto come se non avessi con me la macchina da presa, mi pongo semplicemente vicino a loro e li faccio raccontare. Credo molto in questo scambio un po' speciale, particolare. E la cosa curiosa è però che attraverso la telecamera ho uno scambio con loro che non avrei potuto avere se non avessi fatto il film. Diciamo che si fidavano di me, si creava un clima di fiducia reciproca.”

SU “UNA VITA ALTROVE”“Io non sono partito con l'idea di andare a fare un film sui boscaioli bergamaschi emigrati in Svizzera. Non era quello il tema che mi interessava. Quello che mi interessa è la condizione umana: ho visto quello che accade agli uomini lì. Poi ognuno ha la sua storia, il suo vissuto...”L'Eco di Bergamo venerdì 30 gennaio 2004

SU “IL GIARDINO DI LUCIA”“Non mi interessa fare un discorso generico sull'emigrazione, quello che voglio fare è varcare una soglia, entrare in un mondo nuovo nel quale ciascuno si svela com'è, con la sua solitudine e la sua ricchezza, al fine di far risplendere di ciascuno la sua luce, la sua intima verità.”L'Eco di Bergamo martedì 18 ottobre 2005

IL SOGNO DELLA LIBERTÀ“Li-ber-tà. Tre sillabe che stranamente evocano il nome della frazione della valle Imagna dove ho scelto di vivere anni della mia vita: Ca-ber-

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Giuseppe Invernizzi, a lungo emigrante in Francia, poi tornato nella sua casa di Locatello

tài! Lì ho tentato nel 1978 – senza riuscirvi – di rifondare in libertà, con moglie e figlio, la mia esistenza troppo pigiata nel tritacarne delle norme UNI. Abbandonata la sicurezza d’un lavoro ben retribuito, e i lacci di rapporti umani convenzionali, lasciai la città, per scegliere l’isolamento di questa antica frazione in abbandono, raggiungibile solo con una mulattiera. Ristrutturato un rustico di famiglia, lasciate alle spalle le finzioni da teatrino, mi sono ubriacato di realtà vera, aria purissima, cieli stellati, lune vicine. Realizzai presto il sogno di entrare in RAI come regista nel settore cinema, una moglie adorabile che mi capiva, un figlio bello buono intelligente. Come una fiaba. Ma allora perché di lì a poco mi trovavo nel prato seduto su un masso, con la testa appoggiata sui pugni chiusi, fissando il vuoto? Ero di nuovo imprigionato nella mortale trappola del mondo del lavoro fatto di inefficienza, burocrazia, formalismo, meschinità. E guardato con sospetto dai vicini, perché chi lascia la città per la montagna non può essere che un assassino o un brigatista, comunque uno strambo fuggiasco...Forse è utile nascere testardi, e – parafrasando Totò – io, modestamente, lo nacqui. Sentivo che dovevo muovermi al di fuori di ogni struttura organizzata, in solitudine dovevo esplorare spazi e anime seguendo un percorso unico, quello mio, della mia natura e della mia storia.Appesi al chiodo la mia amata cinepresa 16 millimetri, che mi imponeva un lavoro troppo organizzato e costoso, e imparai ad apprezzare l’agilità, la rapidità, l’autonomia, che consente una telecamera. Usata però come macchina da presa: per fare cinema, non televisione.Senza introdurmi negli ingranaggi maciullanti dell’azienda cinema. E salvando la libertà.”Libro "La Stanza delle Rondini", 2008

IL LAVORO“Ho sempre pensato che sarei stato destinato a proseguire l'attività della ditta di prodotti di saldatura fondata a Brescia da mio nonno ai primi del Novecento. Poi la morte di mio padre, quando avevo solo 13 anni, ha scombussolato un po' i piani. La mia passione per il cinema è nata da piccolo quando, ancora alle elementari, mi regalarono un proiettore a manovella: era un gioco che non mi stancava mai. Le prime riprese le ho fatte a 15 anni, in occasione della visita di De Gaulle a Brescia, io sono un completo autodidatta. Fare il regista per me è una dimensione

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La sua cinepresa 16 mm Beaulieu

etica, anche se spesso è stato un lavoro. Nella mia vita ho fatto tantissimi mestieri: ho venduto carrelli elevatori all'estero, ho fatto l'informatore farmaceutico, ho insegnato matematica dalle suore e mi sono occupato persino di protesi per l'udito. Come regista ho lavorato per la Rai e per diversi committenti pubblici e privati, ma quello che mi piace di più, specie ora che me lo posso permettere, è seguire i miei progetti, lavorando da solo con pochi mezzi.

FUGGITO DALLA CITTÀNel 1978 lavoravo a Milano in una grande azienda farmaceutica, prendevo un ottimo stipendio ma non ero per nulla soddisfatto della mia vita. Così sono scappato con mia moglie nel paese dei miei nonni materni, Rota Imagna. È stata una scelta impulsiva e un po' folle. Su commissione del Sistema bibliotecario ho girato "Erba d'Imagna": era un vero documentario, non ho voluto dare un'immagine idilliaca dei valdimagnini e per questo mi sono anche attirato delle critiche. Poi sono venuti i documentari sull'emigrazione della nostra gente all'estero, come "Una vita altrove", "Il giardino di Lucia", "Angelo in Francia".

EMPATIAL'ho capito raccogliendo materiale fotografico per il libro "Tempo d'Imagna": entravo nelle case e cercavo di farmi prestare vecchie fotografie. All'inizio non riuscivo a farmene dare neanche una ma poi, quando ho smesso di preoccuparmene, la gente me le offriva spontaneamente. Le persone sentono che non mi servo di loro e si crea empatia.”L'Eco di Bergamo sabato 31 marzo 2012

CIÒ CHE MI PORTÒ A REALIZZARE “ONLY WAVE”Sandor Marai è uno scrittore di lingua ungherese nato nel 1900 a Kosice, ora grande città della Repubblica Slovacca. Nel suo romanzo "Il Gabbiano" la splendida donna che sta davanti al protagonista che comincia a sentirsi vecchio, si chiama Aino Laine: in finlandese significa Unica Onda. È comparsa all'improvviso nella sua vita, come un gabbiano, da indecifrate lontananze. Anche i gabbiani si muovono in schiere, portati dal vento, guidati da un istinto condiviso, ma ciascuno di essi ha una propria storia, una breve parabola di nascita, amore, cibo e morte.

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Daria Fabrici a Kosice

La vita sembra a Marai davvero assurda, si scopre la propria vanità nella pretesa di unicità. Semplicemente si è sempre in cammino verso la persona alla quale un giorno si darà un bacio.

LA BELLEZZA"Only Wave" girato a Kosice, s'immerge dentro l'enigma della bellezza beandosi della grazia, convinto con Stendhal che bellezza è promessa di felicità e confidando con Dostoevskij che sarà la bellezza a salvare il mondo.Tolstoj riporta nelle sue "Confessioni" la favola antica del viandante inseguito nella steppa da una belva inferocita. Per mettersi in salvo il viandante balza dentro un pozzo senz'acqua, e riesce ad aggrapparsi a un ramo di un cespuglio che sporge dalle sue pareti. Ma sul fondo del pozzo c'è un drago che spalanca le fauci per divorarlo. Terrorizzato, s'accorge che un topo sta rodendo la radice del cespuglio a cui sta appeso. In tale disastro che accade? Il poveretto scorge su una fogliolina delle gocce di miele, protende la lingua e... le lecca.

GOCCE DI MIELELe gocce di miele sono Anita, Daria, Lenka, Ivana, Michaela che si muovono nella loro freschezza. I greci sentivano la bellezza come una grande consolazione di fronte alla tragedia del vivere. Michel Onfray, voltando le spalle all'etica cristiana, invita a non rimandare la felicità a una dimensione ultraterrena, ma a ricercarla fin dove è possibile qui e ora, proponendo un'etica solare che esalta la corporeità.E adesso, parlando di cinema, siamo d'accordo con Truffaut che tristi sono i film senza donne, e del resto il cinema non è l'arte di far fare delle belle cose a delle belle donne?Frattanto, ecco la nostra temporanea occasione. La vita prorompe. È più forte di ogni regola. Stare sdraiati in montagna sull'erba e guardare le nuvole è bello. Con i fiorellini che tremolano accanto al viso. E la mano gentile di lei che ci accarezza. Fin che è possibile sentire il profumo di cose buone. Con la grazia che ci accompagna."Only Wave" non vuole barattare la vita con l'opera, e cerca da subito la via: la bellezza, l'ironia, la dolcezza di rapporti umani, il rispetto, il sorriso.Alberto Cima, 2012

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La bella Anita di “Only Wave”

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COME DICE ROBERT BRESSON

DA "NOTE SUL CINEMATOGRAFO" DI ROBERT BRESSON:

La capacità di far buon uso dei miei mezzi si riduce quando cresce il loro numero.Non avere l'anima di un esecutore. Trovare, per ogni ripresa, un approccio nuovo rispetto a quello che avevo immaginato. Invenzione (reinvenzione) immediata.Niente attori.(Niente direzione di attori)Niente personaggi.(Niente studio di personaggi)Niente messa in scena.Ma impiego di modelli, presi dalla vita.ESSERE (modelli) invece di APPARIRE (attori).Rispettare la natura dell'uomo senza pretendere che sia più palpabile di quello che è.Montare un film è allacciare le persone le une con le altre e con gli oggetti attraverso gli sguardi.Creare non è deformare o inventare persone o cose. È stabilire tra persone e cose che esistono, e così come esistono, relazioni nuove.Un unico mistero, le persone e le cose.Dove non c'è tutto, ma dove ogni parola, ogni sguardo, ogni gesto dissimula qualcosa.Girare all'improvviso, con modelli sconosciuti, in luoghi imprevisti capaci di mantenermi in un teso stato di allerta.Cogliere attimi. Spontaneità, freschezza.Non correre dietro la poesia. Penetra da sola attraverso le giunture (ellissi).Girare. Attenersi unicamente alle impressioni, alle sensazioni. Nessun intervento della intelligenza estranea a queste impressioni e sensazioni.Non bisogna girare per illustrare una tesi o per mostrare uomini e donne limitati alla loro apparenza esteriore, ma per scoprire il materiale di cui sono fatti. Raggiungere quel "cuore del cuore" che non si lascia afferrare né dalla poesia, né dalla filosofia, né dalla drammaturgia.Niente che sia di troppo, niente che manchi.Ritoccare il reale con il reale.

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Gli interscambi che si producono tra immagini e immagini, suoni e suoni, immagini e suoni, conferiscono alle persone e agli oggetti del tuo film la loro vita cinematografica, e per un sottile fenomeno, unificano la tua composizione.Disfare e rifare il montaggio fino alla intensità.Praticare il precetto di trovare senza cercare.Che immagini e suoni si presentino spontaneamente ai tuoi occhi e ai tuoi orecchi allo stesso modo delle parole allo spirito del letterato.Due semplicità. La cattiva: semplicità-punto di partenza, cercata troppo alla svelta. La buona: semplicità-punto di arrivo, ricompensa di anni di sforzi.È giusto che le persone e gli oggetti del tuo film vadano allo stesso passo, come compagni di strada.L'esattezza dei rapporti impedisce l'oleografia. Quanto più nuovi sono i rapporti, tanto più vivo è l'effetto di bellezza.È nella sua forma pura che un'arte colpisce con più forza.Espressione per compressione. Porre in una immagine quello che un letterato diluisce in dieci pagine.Non si crea aggiungendo, ma togliendo. Altra cosa è sviluppare. (Non spiegare)Dallo scontro e dall'incatenamento di immagini e suoni deve nascere una armonia di relazioni.Girare non consiste nel fare qualcosa di definitivo, ma è fare i preparativi.È bene che ciò che tu incontri non sia ciò che speravi. Curiosità, eccitazione per l'imprevisto.Dare alle cose l'aria di aver voglia di stare lì.La parola più comune, messa al posto giusto, acquista di colpo splendore. È di quello splendore che devono brillare le tue immagini.La bellezza del tuo film non sarà nelle immagini (cartolina postale) ma nell'ineffabile che sprigioneranno.Sii preciso nella forma, non sempre nella sostanza (se puoi).Le idee tratte da letture saranno sempre idee libresche. Andare incontro alle persone e agli oggetti direttamente.

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LA CRITICA

Regista di talento, lontano da logiche di mercato. La virtù scenica di Cima resta non solo quella di dare spontaneità ai personaggi recuperando con la loro presenza un mondo di valori. Lo fa con quella sapienza di ripresa che mette anche lo spettatore all'interno della scena, testimone partecipe ma anche coinvolta parte in causa con silenzioso dialogo di sguardi, gesti, consensi, sorrisi.Alberto Pesce

Il magnifico film-documentario "Il giardino di Lucia" di Alberto Cima è il racconto di una vita, però è anche molto di più: la rappresentazione sottile, intelligente, carica di una pietas che poche volte è dato di vedere al cinema con questa intensità.Andrea Frambrosi

"Quello che voglio- spiega Cima - è varcare una soglia, entrare in un mondo nuovo nel quale ciascuno si svela com'è, con la sua solitudine e la sua ricchezza. È un lento processo di sottrazione, di svestimento, che leva la superficie e fa risplendere di ciascuno la sua luce, la sua intima verità". Quello che colpisce nel cinema di Alberto Cima è la sua capacità di entrare in intima sintonia con le persone che sta filmando, una tecnica che nasconde un segreto. "filmando gli altri in realtà parlo di me". È questo, probabilmente, il senso più profondo dell'essere autore.Andrea Frambrosi

Il linguaggio di Alberto Cima è scabro quanto intenso, uso a scavare negli animi per restituirne l'essenza sullo schermo.Franco Colombo

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Alberto Pesce critico cinematografico

Con nessuna enfasi nella rappresentazione, persegue la scoperta di una vicinanza, di un'identica scelta di porsi in ascolto di fronte alla realtà, simile alla sua.Achille Frezzato

Senza trama, la cultura visuale che si avverte e trasmette nelle inquadrature, nei montaggi accortissimi, nel ritmo e nei dettagli.Bruno Talpo

Regista nitido, essenziale, lontano dalla agiografia e dagli incantamenti preconcetti.F.C. Colombo

A tanti incontri Cima si è piegato con l'umiltà paziente di chi solleva con discrezione il velo degli anni e dei dolori e delle fatiche. Secco, preciso, attento senza mai prevaricare. Una visione laica della vita, al cui fondo, non si può mai ignorare la nenia virile e malinconica del nascere e del morire.Luciano Spiazzi

Nei suoi documentari le persone sembrano rivelarsi per come sono, come se non fossero davanti a una camera.Marina Marzulli

Cinema senza contaminare. Non giudica, non analizza, davvero soltanto mostra. Ma lo fa con una onestà che afferra. Fa che la condizione umana si mostri con tutta la sua solitudine, con le sue illusioni e fallimenti, ma senza farne alcuna enfasi. Come se fosse qualcosa di accettato, come la propria vita che è toccato di vivere ai personaggi. Montxo Armendáriz

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Montxo Armendáriz regista

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FILM SCELTI

De Gaulle e Gronchi a Brescia (1959)

Vedere la prima inquadratura girata a 15 anni dal tuo regista preferito, è la cosa più simile ad aver assistito in diretta alla prima proiezione dei fratelli Lumière al Salon Indien del Gran Café di Parigi. La nascita dello sguardo di un grande regista, è un nuovo inizio del cinema, è qualcosa di molto emozionante, importante, come volle mostrare Angelopoulos in "Lo sguardo di Ulisse". La malìa con cui vissero le loro prime esperienze di cinema i bambini degli anni '30 e '40 si è persa per sempre. Il rapporto di prima mano, fisica, con la celluloide, ormai non esiste più. I proiettori per bambini di pellicole 35 o 16 mm non sono più il regalo strenna di Natale, del compleanno, nessun bambino li include nella sua letterina a Babbo Natale. Il proiettore Cinexin dei bambini degli anni '70 e '80 è altra cosa, meno manuale, magica, non c'era da azionare una manovella, non esisteva l'effetto ipnotico del rumore del proiettore, e grazie alla televisione il cinema non ci era del tutto estraneo. Ora con il cinema digitale l'approccio è così diretto, privo di romanticismo, come accendere qualunque elettrodomestico. I proiettori degli anni '30 e '40 sono stati responsabili di più vocazioni cinematografiche di tutte le scuole di cinema messe insieme. Di fatto la maggioranza di questi registi di vocazione, appassionati dall'infanzia del cinema, hanno in comune l'aver imparato tutto da soli.

Prescindendo da giudizi tecnici, e abbandonandosi al piacere della visione dei suoi primi film, si possono estrarre deduzioni, letture. Letture in avanti e letture indietro. In avanti, cercando di intravedere futuri segni di uno stile che, analizzando le opere, si può già intuire bene. Come molto si può pronosticare se il regista tenderà ad essere di interni, intimista, o di esterni, umanista. Se il primo girato è familiare, casereccio, si può dedurre una certa tendenza all'introversione, all'egocentrismo, se è di esterni, non è difficile concludere che al regista, al futuro regista, interessa di più altro, scoprire il mondo che gli gira attorno e non tanto analizzare il proprio. Poiché parliamo in questo caso di un evento esterno, la sfilata in auto dei presidenti, un atto pubblico, e con il vantaggio che conosciamo il dopo, allora possiamo affermare che già dal primo girato è evidente che a Alberto Cima interessa altro. Con la differenza che successivamente non gli interesseranno le grandi figure mediatiche né i grandi avvenimenti, bensì le persone semplici, umili, e gli atti quotidiani, di una bellezza

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vicina, pura. La lettura indietro, o visionaria, è quella che cerca di indovinare virtù profetiche, premonitrici, al primo girato, e in questo caso si possono vedere con facilità, perché l'incontro dei due presidenti, il francese De Gaulle e l'italiano Gronchi, è avvenuto per il centenario della battaglia di Solferino, della quale Alberto Cima si occuperà nel suo film "Tutti fratelli. L'utopia di Henry Dunant" (1999) che fu proprio il detonante che indurrà il fondatore della Croce Rossa Henry Dunant a dedicarsi anima e corpo alla difesa dei diritti dell'uomo.

Ciò che sorprende in un debuttante, e per la durata di meno di un minuto, è che c'è tensione, emozione, si ha la sensazione che stia succedendo qualcosa, si ha il presentimento della tragedia. Non è un volgare cineamatore in piano fisso totale della visita dei due presidenti, grazie al preciso montaggio c'è movimento, si può sentire l'attesa di ogni spettatore di fronte all'evento, che passa in un visto e non visto, in un sospiro, come quando assisti al passaggio di una corsa ciclistica.

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Il presidente francese Charles De Gaulle e quello italiano Giovanni Gronchi sfilano a Brescia per il

centenario della battaglia di Solferino 1859-1959

Che può accadere qualcosa si deve all'inconscio collettivo, l'immagine in bianco e nero dei due presidenti in auto decappottabile rimanda direttamente all'assassinio di Kennedy, al film "Chacal" che tratta del tentato assassinio di De Gaulle.

Cima al suo battesimo cinematografico, dimostra già la sua prodigiosa abilità nel montaggio, per concentrarsi sull'essenziale senza retorica, e una più che notevole capacità di osservazione, di sapersi mettere al posto giusto nel momento giusto. La pellicola è pienamente riconoscibile come opera di Alberto Cima, ha il suo sigillo personale, ed è tanto affascinante che non si può non vederla più volte di seguito, nel mio caso dieci volte, come quando da bambino vedevi una e un'altra volta le piccole storie col tuo proiettore giocattolo. Cima già dal suo primo girato, era già regista di cinema.

Alla ricerca della pace (1962)

A fare film si impara facendo film. Per trovare la propria strada il primo passo è sbarazzarsi di tutte le influenze, di tutta la cinefilia accumulata. "Alla ricerca della pace" è questo, una ricerca formale, un esercizio, un tentativo e come tale si deve giudicarla, con i suoi pregi e i suoi difetti. Il principale difetto, tutto sommato, è la mancanza di unità, voler raccontare una cosa in vari modi, con differenti stili. Esplorare le differenti possibilità del cinema, del montaggio, delle luci, come se si trattasse di una jam session di jazz, il che di solito si chiama cinema sperimentale o di avanguardia, o cinema come gioco, come diversivo, come linguaggio.

Se lo si vede così, senza conoscere il regista, si potrebbe inquadrare il film nei vari movimenti, le nuove tendenze degli anni '50 e '60. L'inizio ricorda il nuovo cinema tedesco, o il free cinema inglese, il seguito, la parte jazzistica, il nuovo cinema americano di Rogosin, Cassavetes e compagnia, con parti che ricordano anche il montaggio sovietico, e il finale puro neorealismo italiano. Come se partendo da tutte le influenze innovatrici, libertarie, compresi i cameracar da nouvelle vague, da Godard (e il protagonista ricorda anche fisicamente François Truffaut) alla fine Alberto Cima torni all'essenza, alla tradizione. Identico processo svolge il protagonista del corto, che nella sua

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John Cassavetes

Jean-Luc Godard

François Truffaut

disperata ricerca della pace, della verità, passa dalla notte al giorno, fugge dalla chiassosa città per cercare se stesso in campagna, dove stanno le inquadrature più belle, più pure, di tutto il film, il meraviglioso albero, i bambini, il cane.

È la parte finale che anticipa tutto il cinema successivo di Cima, un cinema estroverso, non ripiegato su di sé, che guarda gli altri piuttosto che se stesso. Al contrario, la prima parte è un fedele riflesso dell'esistenzialismo delle sue prime pellicole come "L'isola" o "Distinti saluti", cosa naturale perché parliamo di un regista quasi adolescente, 18 anni, con sguardo di naufrago, e con questa giovane età si ha bisogno di capirsi, anche di sopportarsi, l'empatia si acquista con gli anni. Questa mancanza di pretenziosità, di pregiudizi, di paura del ridicolo, di libertà formale, che caratterizzano la gioventù, i principianti, è il punto forte del film, che irradia freschezza, spontaneità, da ogni parte, digressioni musicali comprese. Con una brillantezza nel montaggio che non è precisamente quella di un dilettante. Anche l'Italia ebbe la sua "nouvelle vague”, e Alberto Cima la cavalcò con disinvoltura.

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Il protagonista Claudio Peretti

La pace e il silenzio della natura

Uomini al forno (1963)

Insieme con "Distinti saluti", un dittico imprescindibile per comprendere, denunciare, il lavoro alienante, castratore, scambiando il lavoro di routine di impiegati con quello di operai di una industria siderurgica, che formalmente, tematicamente, ricorda "Pour mémoire" (La forgia, 1978) di Jean-Daniel Pollet. Molto lontani, opportunamente, dalla esaltazione del lavoro in serie, del lavoro meccanico, propria dei futuristi italiani, o del cinema sovietico.

La essenzialità, nudità, delle immagini del posto dove vivono gli operai, sono degne del primo Sharunas Bartas, quello di "Praejusios dienos atminimui" (1990). La meravigliosa passeggiata dalla casa al lavoro, la sequenza più bella del film. Come farà successivamente in "Erba d'Imagna", Cima dissocia il suono dall'immagine, per potenziare, raddoppiare, il messaggio, la sensazione di oppressione. Mostrando gli operai che lavorano mentre il suono raccoglie le loro testimonianze (sporchi, schiacciati dal rumore delle macchine infernali), il racconto della loro grigia giornata lavorativa, della loro fede, delle loro rudimentali idee politiche, delle loro paure, della loro semplice, quasi inesistente, vita senza orizzonti, senza prospettive di futuro migliore.

E come potrebbe essere altrimenti, trattandosi di Alberto Cima, gli unici che sembrano estranei alla miseria che gli gira attorno sono i bambini, grazie alla loro incredibile capacità di inventarsi nuovi mondi e astrarsi dalla realtà. Cima alterna vita lavorativa con brevi inserti, lampi, di vita quotidiana, che non sono un espediente di montaggio, né brutali ellissi, ma la rappresentazione fedele, vera, della triste realtà, dello scarso tempo di cui dispongono i lavoratori per godere della propria vita. Un surrogato di vita che si riassume nel lavorare, mangiare, dormire, una sequenza identica che si ripete giorno dopo giorno senza variazioni, come una maledizione biblica, come se si trattasse di un eterno ritorno, di una ossessione circolare senza fine né principio. Il lavoro come forma di schiavitù, di abbrutimento, di morte in vita. Un circolo vizioso dal quale fuggire come dalla peste. Questi uomini al forno, bruciati, come metafora dell'inferno in vita, che quasi non vedono la luce del sole, il cielo, e i brevi luccichii di allegria, di bellezza, il miraggio di una donna che cammina per la via, i bambini, le burle tra

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Jean-Daniel Pollet

Sharunas Bartas

compagni, come contrappunto paradisiaco, come debole raggio di speranza.Neorealismo di denuncia, che non si limita a mostrare in modo asettico, ma che partecipa, si lascia coinvolgere, ponendosi dalla parte dei lavoratori, dolendosi del loro conformismo, della loro scarsa coscienza sociale, e contro i padroni, i politici. "Metropoli" di Fritz Lang senza necessità di metafore, di estetismi, di spettacolo. Se ci sarà giustizia sulla terra, gli operai andranno direttamente in cielo, e non per motivi religiosi, ma per la semplice ragione che le fiamme dell'inferno ci sono già state, le hanno vissute.

Solo tra il verde (1964)

O lo strascico di "Alla ricerca della pace". Il protagonista si trova già in campagna, a contatto con la natura, e si sente lo stesso scisso, dissociato, da tutto ciò che gli ruota attorno, dagli altri. Il noto effetto uomo invisibile, o il peggior modo di sentirsi solo, incompreso, è stare in compagnia, circondato da gente. Poi la prima constatazione, che per quanto fuggi dalla città, cerchi di fuggire da te stesso, dai tuoi problemi, dalle tue ansie, dalle tue ossessioni, i problemi, le frustrazioni, ti accompagnano sempre, vengono con te, solidali, ostinati.

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Acciaieria Ilfo di Odolo

Laura Canepa, protagonista del film girato a Passo Rolle

Cima prosegue nella ricerca di se stesso, del suo posto nel mondo, della sua propria forma cinematografica, ora a colori, e in questa occasione prova una narrazione più classica, con più trama, ugualmente libero nella forma ma con un montaggio meno sperimentale, sincopato, rispetto a "Alla ricerca della pace". In certo modo ricorda il Rohmer dei racconti morali, e della più esistenzialista di tutti "La mia notte con Maud", il protagonista appare molto simile fisicamente a Trintignant, e il suo disorientamento vitale è simile. Come nelle pellicole di Rohmer, malgrado l'indifferenza, lo sradicamento dei suoi protagonisti maschili, l'unico che perdura, sopravvive, è il desiderio sessuale, la passione per le donne, il metaforico inseguimento della donna strepitosa dell'inizio. I bassi istinti sono immuni dai tormenti cerebrali.

"Solo tra il verde" anticipa, è un primo tentativo meno sviluppato, de "L'isola" e del libro "Risotto per uno", insieme con “Distinti saluti" il culmine della sua tappa più esistenzialista, filosofica, autobiografica. Come già accadde in "Alla ricerca della pace", la parte più ispirata, bella, corrisponde con la più esterna ai protagonisti, quando riescono a dimenticarsi di se stessi, delle loro angosce vitali, e riescono a interagire con gli altri, anche se solo visualmente, il voglio vivere senza vedermi di Federico García Lorca. Gli unici momenti nei quali il protagonista è felice, sorride, ride, quando la camera di Alberto Cima osserva, si libera

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Eric Rohmer

Mario Fincato, attore e pittore

della narrazione convenzionale, si mimetizza con la felicità o infelicità degli altri, la meravigliosa inquadratura del bambino che piange disperato, che costituirà il punto forte delle sue migliori pellicole. Questo cammino fa la trasparenza, fa l'empatia, che Alberto Cima va depurando film dopo film, inquadratura dopo inquadratura, fino a conseguire di cancellarsi del tutto, lasciando che la camera sia la sua interprete, il suo mediatore, e i film, i suoi protagonisti, parlino per lui, di lui, della sua visione della vita, senza stare in primo piano, senza necessità di attori che fungano da alter-ego.

La fiction documentata, i diari scritti per gli altri, che costituiscono il cinema di Cima, e lo trasformano in un regista unico, speciale, partecipe. Il cinema secondo lui è l'incontro tra solitari, il regista e lo spettatore. È uno scrittore per immagini, che elimina gli aggettivi, gli avverbi, per lasciare solamente i nomi e i pronomi. Lui, come il protagonista del film, cammina sempre solo, libero, sulla corda lenta.

"L'arte è fondamentalmente un linguaggio, un mezzo di comunicazione: implica un messaggio" Rufino Tamayo

Giorno di mercato (1966)

Cima comincia a trovare la sua propria strada, il suo personale modo di affrontare la realtà, le persone e le cose. Una osservazione cinematografica, impressionista , non priva di ironia, di sensualità. L'unica differenza con le immagini del mercato di "Tallinn lieve" è che qui Alberto Cima non interagisce ancora con gli altri, si limita a osservarli, a scrutarli con la sua camera. Le due donne che camminano zoppicanti del finale potrebbero infilarsi perfettamente in "Permission", la sua passione per le donne, per le gambe belle, in "Only Wave", in "Contatti".

L' Alberto Cima degli anni '60 è molto più timido di quello della prima decade del 2000, si adegua, si lascia abbagliare, dall'aspetto esteriore delle cose, dalla qualità quasi scultorea dei volti. Perché "Giorno di mercato" è una galleria di visi, di profili, di mani, di piccoli gesti rituali come quello di accendere una sigaretta con altra sigaretta, un museo di sculture all'aperto. La versione italiana di "Gente de boina" (1971) di

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Mario Fincato e Laura Canepa

Il mercato settimanale a Brescia, in piazza Vittoria

José Luis García Sánchez, cambiando i baschi con i cappelli, la musica classica con il cantante Adamo.Chi non è mai andato a un mercato cittadino, passi per "Giorno di mercato", per piazza Vittoria di Brescia, e approfitti per comprarsi un disco in vinile, che torna a essere di moda, la vita, il cinema, è ciclico.

La Loggetta (1966)

Il teatro senza teatralità, senza piano fisso totale, alla maniera moderna, libera, proprio come avrebbe fatto Samuel Beckett. Affrontando tutti i punti di vista possibili, quello dello spettatore, dell'attore, del regista, del critico, e dalle quinte, dai camerini, le prove da lontano, da vicino.

A quello serve il cinema, a vedere la realtà in modo poliedrico, da angoli che non si possono cogliere normalmente, a mostrare l'altro lato delle cose, nelle loro molteplici sfaccettature. A superare la visione piatta, frontale, lineare, delle cose, che rende lo spettatore un passivo ricettore seduto su una poltrona, e a far sì invece che sia parte attiva del processo creativo. Cosa che ottiene Alberto Cima con "La Loggetta", andando oltre l'origine teatrale del tema per trasformarlo in

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José Luis García Sánchez

Renato Borsoni attore

cinematografico, filmando prima, durante, dopo, la rappresentazione teatrale, per darne una visione ampia e complessa. Invece di concentrarsi sull'opera di teatro, sul testo di "Finale di partita", Cima punta sul fattore umano, sulle testimonianze degli interpreti, sulle loro motivazioni a fare teatro, a esprimersi, a comunicare con gli altri, e mediante il lavoro corale affiorano aspetti sconosciuti della loro personalità. Conoscere se stessi e insieme l'altro, un atto di fiducia nell'essere umano, di fede nella comunicazione diretta, con la vita, senza filtri. Cima attribuisce la stessa importanza cinematografica alla donna che scopa come all'attore protagonista, tutti sono ugualmente necessari, preziosi.

Utilizza il dettaglio, che concede più importanza al corpo, al gesto, agli sguardi, che alle parole. E cerca, scrutando con la sua camera nervosa alla Cassavetes, di andare oltre la realtà, di scoprire il linguaggio occulto che sta dietro le parole, e lo trova, legge dentro, i pensieri sul viso, negli occhi, nelle mani. Facendo diventare realtà il desiderio di Goethe che gli occhi devono accarezzare, e le mani vedere.

L'isola (1968)

Prima di tutto facciamo il punto, Italia fine anni '60. Contemporaneamente in Francia i giovani lamentavano la mancanza di libertà, di occasioni, di prospettiva politica (proprio come l'attuale situazione spagnola). Pensiamo come ci si poteva sentire allora in Italia e anche in Spagna. Questa angoscia, questo esistenzialismo in versione latina, cioè con un più di carne, di insoddisfazione sessuale, ha cominciato a filtrare nel cinema italiano degli anni '60. "L'avventura", "Il bell'Antonio", "I Delfini", "La cuccagna", "Senilità", "Chi lavora è perduto", "Gli indifferenti", "La vita agra", "Io la conoscevo bene", "Blow-Up", "Un uomo a metà", "La Cina è vicina" ecc, ma se si eccettua "Blow-Up", le nuove inquietudini, le frustrazioni, erano trattati con schemi vecchi, rigidi, con velleità alla nouvelle vague. Il contenuto era più audace, ma sempre con il freno a mano tirato, il che è abbastanza naturale, per eludere la pudica, bigotta censura, specialista nel tagliare le ali, ancor prima che spicchino il volo.In queste castranti circostanze sorge "L'isola", un lungometraggio amatoriale girato in 8mm da un ventenne che, presentato al Festival di

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Mina Mezzadri regista

Paola Ratti

Montecatini nel 1968, innesca una polemica di proporzioni nazionali: il film viene accusato di essere provocatorio, indecente, antisociale, troppo moderno. Nonostante tutte le critiche e gli ostacoli, vince il Festival di Tirrenia (ma non viene proiettato al pubblico per il veto della censura) e vince il Grifone d’oro al Festival Internazionale di Rapallo (1969), come rivalsa contro la censura che non ha dato il visto, condannando il film alla invisibilità.

Tornando al presente, era "L'isola" tanto provocatoria, trasgressiva, da meritare le grinfie inquisitorie della censura e della società italiana benpensante degli anni '60? La risposta è sì, perché "L'isola" resta una bomba a orologeria, un film punk, a ritmo di requiem, senza precedenti sia nel cinema italiano degli anni '60 che in quello successivo, basta confrontarla con le abuliche e verbose chiacchiere di

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Mauro Barcellandi

Moretti, "Io sono un autarchico" o "Ecce Bombo", che è ancora il meglio della sua carriera. Cima fa una rilettura libertaria, nichilista, delle "Notti bianche" di Dostoevskij, andando al di là del romanticismo suo, di Visconti ("Le notti bianche") e di Bresson ("Quattro notti di un sognatore"), per il taglio delle inquadrature, trasformando il film in "Quattro giorni di un playboy", come se si trattasse di un Juan Sebastián Bollaín, ossia con identica passione, radicalità, mancanza di pudore, e sana capacità di trasgressione.

La versione italiana di "Fuoco fatuo" (1963) di Louis Malle, "Un uomo che dorme" (1974) di Bernard Queysanne, di "Permanent vacation" (1980) di Jim Jarmusch (non riesco a credere che non l'abbia vista prima di realizzarla, c'è addirittura il balletto marziano), "Il sorpasso" di Dino Risi, se Trintignant non avesse incontrato Gassman. Con la stessa libertà, capacità di trasgressione, improvvisazione formale, della "Trilogia dell'Angelo" di Adolfo Arrieta o della trilogia buddista di Akio Jissoji. Con lo stesso spirito underground e spontaneità dei film di Warhol, Ruth Orkin e Morris Engel, o Rogosin. Non riesco a immaginare i giovani turchi della Nouvelle Vague che facciano vedere qualcuno mentre si taglia le unghie dei piedi, caga durante la lettura del giornale, o rutta. "L'Isola" è un'esaltazione, glorificazione, della atarassia, della pigrizia, del dolce far niente, del compiacersi di esistere, è la gioia, il piacere sensuale del guardare, del filmare, senza il pretesto di una narrazione letteraria, teatrale, cosa che percorre l'intera filmografia di Cima che anticipa di molti anni l'edonismo sacro di Piavoli.

Il che vorrebbe dire che Alberto Cima già dal suo primo film era un grande regista, uno con una sua visione personale del cinema, della vita. Cima non si è fatto regista nel corso degli anni, già lo era prima di accendere la camera per la prima volta. Il suo modo di vedere aperto conferisce alla realtà, alla quotidianità, alla routine, un più di stupore, di nuovo, come Marguerite Duras, come il miglior neorealismo. Le passeggiate erotiche festive o vuote del protagonista, hanno la grandezza di quelle di Jeanne Moreau in "La Notte" (1961) di Michelangelo Antonioni, la cena svogliata di una tensione insopportabile, per nulla inferiore alla rumorosa minestra di "Una donna dolce" (1969) di Robert Bresson, immagini più grandi.

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Juan Sebastián Bollaín

Akio Jissoji

Jim Jarmusch

Morris Engel

Distinti saluti (1974)

ICome non potrebbe essere altrimenti, dopo il cazziatone inflitto dalla censura al suo precedente film "L'isola", Alberto Cima non aveva altra scelta che dar l'impressione di ripiegare le vele, l'unica cosa che cambia è il grado di sottigliezza, se non si può sputare in faccia al sistema borghese, capitalista, non c'è altro che farlo metaforicamente, sottilmente, retrocedere solo per riprendere fiato.

Come sempre accade con i film di Cima, si possono citare solo registi fuori serie per rendergli giustizia. Nemec, De Seta, Maselli, Robert Downey Sr. Con un plus di brillantezza nel montaggio, con l'abituale selvaggia fluidità, precisione, concisione, di Cima, che non dà un attimo di respiro, di riempitivo, allo spettatore. Qualsiasi lungometraggio del cinema attuale, postmodernista, futile, d'evasione, Cima lo ridurrebbe alla durata di un corto. Ventidue minuti di Alberto Cima sono 8 ore di Lav Diaz, estensione invece di comprensione e concentrazione. In quanto alla storia, chiunque abbia lavorato in un posto di routine, chiunque ci stia lavorando, si sentirà identificato, in tutto. Il cinema moderno fa il pelo e il contropelo al postmoderno.

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Gli impiegati nel loro lavoro di routine

Citto Maselli

Robert Downey Sr

IIIn Italia i film contro il lavoro in serie, alienante, sono quasi una tradizione, un vero genere. "La cuccagna" "I giorni contati" "Io la conoscevo bene" "Chi lavora è perduto" "Il sorpasso" "Ratataplan" e altri in abbondanza. Una variante aristocratica di questo sub-genere, è quella dei borghesi annoiati. "La noia" "Le amiche" "Estate violenta" "Gli indifferenti" "I delfini" ecc. Quelli che non lavorano né hanno lavorato mai, e che lontani dall'essere felici come pernici ringraziando la vita per avere il tremendo destino di poter disporre liberamente del loro tempo e della loro vita, si sentono depressi, angosciati, disperati. D'accordo che con lavoro o senza lavoro, l'essere umano è un eterno anticonformista, uno scontento vitale. Al contrario film che mostrano le virtù del lavoro, se eccettuiamo quelli manichei, interessati, del cinema sovietico (salvo, il meraviglioso, anarchico, "Chemi Bebia") quasi non esistono, e tutti perpetrati, realizzati, da registi conservatori, che da bravi capitalisti, hanno bisogno della connivenza dei lavoratori per poter continuare a ingrassare i loro conti correnti.

Qualche anno fa ebbe abbastanza successo in Spagna un libro intitolato "Se ti è piaciuta la scuola, ti piacerà molto il lavoro" di Irvine Welsh. E questo potrebbe essere il sottotitolo del film, perché questo è l'approccio che adotta Alberto Cima, quello di paragonare il lavoro d'ufficio d'una grande azienda con un'aula di scuola, la gran fabbrica di pecorelle, specializzata nell'appiattire la personalità, l'immaginazione, la capacità di ribellione. Sia nelle aziende che nella scuola, devi sopportare ogni giorno dei perfetti mediocri con i quali in circostanze normali non scambieresti neanche mezza parola. Hai proprio l'opprimente sensazione di star perdendo tempo, di star trascinando la tua vita nella spazzatura, di sentirti come un semplice automa, come una reincarnazione di Sisifo. Anche la conclusione, la depressione, il sentirti come uno scarafaggio alla Kafka, il suicidio, o la psicosi, finirla violentemente con la routine, con colleghi e famiglia, in modo drammatico. Perché corre il signor R posseduto da furia omicida? (Amok di Fassbinder). Esiste una quarta via, che ha escogitato Alberto Cima per la sua stessa vita, che è di rompere con tutto, con la comodità di una vita stabile, prevedibile, per recuperare la sua identità, per realizzare i suoi propri sogni, fregandosene delle aspettative degli altri. Il cammino della libertà, dell'onestà, dell'indipendenza.

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Franco Bonfiglio, il protagonista

Ermes Scaramelli

Paola Mazza

Il cammino che mostra Alberto Cima in "Distinti saluti" nella fuga, anche se in bicicletta. Tentare di ribaltare la condanna del biblico peccato originale, guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, per restituire all'uomo, a Adamo, il paradiso terrestre, il non far niente, il dolce far niente, e svoltolarsi con Eva come conigli a tempo pieno. Recuperando il sesso, la vita, come liberazione, creazione, gioia, e non solo come sfogo, fuga. Una soluzione apparentemente utopica, fantasiosa, irreale, ma come già dimostrò in "Tutti fratelli", è l'unica ragione per cui vale la pena di lottare fino alla morte.

Brescia quale? (1975)

Il secolo XX, per non dire del XXI, è un'ode al cemento, al calcestruzzo, all'acciaio, allo sviluppo speculativo, incontrollato, delle città, alla sua uniformità asfissiante. Sviluppo, per meglio dire espansione,

accompagnato dall'azione distruttiva del piccone, che rade al suolo senza discriminazione tutto ciò che ha personalità, che è simbolo di tradizione. Alberto Cima mostra questo disastro servendosi del contrappunto, con le immagini, edifici in costruzione, baracche e pollai, e con il

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Cemento, auto e baracche

suono, la musica elettronica delle composizioni di Debussy arrangiate da Isao Tomita. Identica contrapposizione tra grigia modernità e caotica tradizione compare nelle scene di Cima, che mescola l'onnipresente cemento, l'invasione delle automobili, con elementi della natura in una stessa sequenza. Quel gallo, quei cavalli, quei rastrelli, nel mezzo di un cantiere, quei bambini che utilizzano un cumulo di detriti come parco infantile (questo tipo di parco giochi è sempre esistito nei quartieri poveri, periferici), come ricordo del paradiso perduto.

La desolazione del volgare cemento, dell'asfalto, richiamano il finale de "L'eclisse" di Antonioni, o l'inizio di "Blow-Up", ma poiché parliamo di un film di Alberto Cima, nel mezzo di questo caos si intravedono spazi per la bellezza, per le persone, per i bambini, che con la sola loro presenza illuminano la città, il film. La pianta di cachi al margine di un cantiere, la bicicletta tra l'ingorgo di auto che sembrano ratti, quel gatto che avanza verso la camera, un'altalena e in secondo piano un edificio mezzo distrutto, il trenino turistico che attraversa il quartiere sconquassato, i fiori tra le pietre.

Se "Una città che cambia" è un'ode alla Bergamo antica, al suo centro storico, la città alta, ed è più un esercizio divulgativo dei cambiamenti urbanistici operati nella città dal secolo XVIII, "Brescia quale?" è un'opera concreta, di lavoro, di quei cambiamenti, di quella implacabile distruzione.Insieme con "La Alameda" di Juan Sebastián Bollaín, un dittico imprescindibile per mostrare l'inarrestabile degrado del tessuto urbano popolare, comunque più vivo, più bello, di qualunque nuova costruzione. E la completa assenza di una idea di città, di progettazione di un urbanesimo a misura d'uomo, delle sue necessità reali, non di quelle dei suoi costruttori e dei politici. Quei parchi infantili con solo cemento, ferro, e sabbia, il prato spelacchiato. Quei bambini sorridenti che tentano di attraversare la strada sul passaggio pedonale, letteralmente minacciati dal traffico che vuole ingoiarli come il lupo della favola.

"Brescia quale?" è una finestra da cui poter assistere all'inarrestabile avanzata della disumanizzazione, dello snaturamento, di tutte le città e di Brescia in particolare, con quella bellezza palpabile, sporca, che dà solo l'otto millimetri.

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L’implacabile avanzata del cemento

La speculazione edilizia

Erba d'Imagna (1980)

ILa prima norma obbligatoria da seguire per fare un film dedicato a un territorio, è evitare il paesaggismo. La seconda, rifuggire l'eccesso di folclorismo, di turismo. La terza, non essere troppo didascalico, esplicativo. La quarta e ultima, fondamentale, concentrarsi sulle persone. Se tutti i registi rispettassero alla lettera queste quattro regole, la storia del cinema non sarebbe afflitta da reportage pubblicitari, da spot allungati. Alberto Cima grazie alla sua prodigiosa capacità di sintesi, di cogliere l'essenziale, risolve il fastidio del prologo, necessario, indispensabile, in questo tipo di film. Contestualizza in minima parte, sia fisicamente che storicamente, in soli cinque minuti di ampia veduta e agilità espositiva, il prologo, l'introduzione, che nelle mani di un regista mediocre costituirebbe un buon terzo del film.

Cima, come nei suoi geniali corti siciliani Vittorio de Seta, non ci gira attorno, va direttamente alla sostanza, al nucleo, alle persone immerse nel loro ambiente, nella quotidianità. Invece di limitarsi a fare una serie di interviste asettiche e stereotipate, nelle quali gli abitanti del villaggio si sentirebbero del tutto fuori luogo e a disagio, raccoglie testimonianze sonore, e sopra quel suono, monta le immagini della loro routine lavorativa, dissociando immagine e suono, fondendo passato e presente. In questo modo evita che lo spettatore abbia la sensazione che si stia irrompendo, interferendo nella loro vita. Quindi il film non è un amalgama volgare di tempi morti, di ricordi, ma uno spaccato di vita presente, partecipato. Lo spettatore piuttosto che limitarsi ad essere semplicemente un voyeur, un osservatore neutro, assume il ruolo di visitatore, di ospite. Una sensazione di ospitalità, di intimità, di confidenza, di non star invadendo il loro tempo, il loro spazio, e lasciandogli respiro, senza asfissiare, che è la cosa più difficile da ottenere quando si realizza un film, e che Alberto Cima, da "Erba d’Imagna" a "Only Wave", raggiunge con una facilità sorprendente, misteriosa, come se la macchina da presa non esistesse, come se fosse un di più, un animale domestico.

Il regista non utilizza il paesaggio a fini estetici, lo usa invece come fosse una scia di Ozu, espressione di stati d'animo, sentimenti. E invece di fare un semplice taglia e incolla, o una breve relazione di testimoni, di

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Vittorio De Seta

Yasujiro Ozu

conversazioni o monologhi, lui narra, stabilisce una progressione drammatica, non solo con le parole e con il contenuto, ma anche con la forma, con il ritmo del montaggio, sia nelle immagini che nei suoni, come ha fatto magistralmente in "Distinti saluti". Trasformando quello che poteva essere un noioso convenzionale e insignificante documentario tra i tanti, in un film profondo, pieno di tensione, di contrasto, di emozione, di onestà. Il riflesso, senza veli, di un mondo sul punto di scomparire, di un tempo fermo, tranquillo, come "Dagherrotipi" di Agnès Varda, senza crepuscolari nostalgie tradizionali, né falsi, condiscendenti, canti alla modernità, al progresso. Un chiaro precedente dei suoi meravigliosi film sull'emigrazione, con la differenza che qui l'esilio è interiore, interno. In breve, la complessità di un murale, con la misura, la delicatezza, di una miniatura.

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Agnès Varda

Le antiche case rustiche della Valle Imagna

IICi fu un tempo in cui gli uomini portavano il cappello, il berretto.Che era un prolungamento del loro corpo.Con quello si alzavano, con quello si coricavano.E non se lo toglievano nemmeno per farsi la doccia.Nello stesso tempo, farsi il bagno più di una volta al mese era uno spreco.Bere acqua, da deboli.Piangere, lamentarsi, non era previsto.Lavorare dall'alba al tramonto non era un'espressione esagerata.E nemmeno quella di lavorare per un volgare piatto di lenticchie.La parola alienazione non si conosceva, non si provava.In queste circostanze, vivere era un privilegio, una eccezione.

Giudicare queste persone, la loro vita, con i nostri agiati parametri attuali, sarebbe un'ingiustizia, un errore. Cima cerca di comprendere, dando loro voce. Una voce mai udita, di qui il suo immenso valore, non solo cinematografico, ma di testimonianza, di storia. La miseria della Valle Imagna negli anni '70 e '80, si vede riflessa nella sua povera gente. La natura inospitale, rustica, produce come conseguenza persone austere, aspre, cupe, avare, forti. Nell'ambiente rurale, il contesto, imprime un carattere, un destino. La Valle Imagna e i suoi abitanti sono un tutto unico, una espressione primitiva, tellurica, della stessa radice.

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Giovanni Todeschini e Battista Mazzoleni

Un popolo di boscaioli, di minatori, di emigranti, abituati a soffrire con rassegnazione cristiana, a morire in terra straniera. I loro racconti sono raccolti nei loro luoghi quotidiani, nelle cucine, nei camini, negli spazi di lavoro. Non c'è messa in scena, non c'è sdolcinatura. Tanto meno nel loro linguaggio, tanto serrato, tanto secco, che non pare nemmeno italiano. Lo stesso delle loro selvagge canzoni tradizionali. Le icone sono incrostate sulla roccia, non sono sculture decorative di interni. Invece che intagli, sembrano emanare dalla stessa pietra, come fossero apparizioni mariane. Come il falegname si fonde con il bosco.

Un mondo ancestrale nel quale gli uomini sono quasi un'altra specie di animali. Perfino gli artisti, il fotografo, sono più grezzi, più essenziali. Le sue fotografie sono più gravi, di una bellezza triste. Come la storia del suicidio del figlio narrato dalla moglie del fotografo. Come le immagini di Cima che trasmettono una tristezza profonda, una bellezza purificata, senza orpelli, senza estetismi. Il "domani sarò terra" del suicida, traslato al cinema. La stessa umiltà, semplicità, povertà dei contadini, che fa affiorare la verità, lo spirito delle persone che esce dallo schermo. Convertendo "Erba d'Imagna" in una specie di confessionale, di grande catarsi collettiva, a ritmo di requiem. Nel quale le immagini, le parole, spogliate da ogni retorica, emergono cristalline come acqua di ruscello. Una purezza nella quale convivono in parti uguali, la vita e la morte, la tristezza e l'allegria, nel suo eterno contrappunto musicale, cinematografico.

La stele di Rosetta, il punto di svolta, della cinematografia di Alberto Cima.

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Bartolomea Locatelli e Maria Canella

UN PARADISO PER LOROHanno la voce volitiva

hanno modi bruschidetestano le belle maniere

quasi si vergognano a dire graziehanno pensieri facili:

il tempo, la terra, il mangiare.Hanno passioni antiche:la caccia, il vino, le donne.

Quando bevono sono lavandini stappatiquando cantano si vogliono squarciare la gola

la caccia è striminzitama le loro donne sono fiori di montagna.

Sono come gli alpinisono tutti alpini.

Sono fortinon hanno paura di nessuno

hanno membra scolpite nel bronzole spalle sfidano i quintali

e i lineamenti del visosono tagliati con l’accetta.

Non amano la poesianon la capiscono

(con questo foglio si accenderebberouna sigaretta)

non morirebbero per un idealema sono sicuri

che “aldilà” c’è Qualcuno.I loro svaghi sono elementari

il loro modo di vivere è terra terrama sono sereni

come querce a prova di bufera.Sono lavoratori proverbiali

passano tutti i giornidi tutta una vita

sotto il giogo del lavorocome i buoi pazienti

e mai un lamentomai un gesto di ribellione.

Non hanno lo stinco del santo

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Umberto Locatelli scrive la poesia il 17 luglio 1972

I suoi genitori il giorno delle loro nozze

e quando bestemmiano non temononeppure il loro Dio

ma vanno certamente in paradisoi forti uomini delle mie parti.

Collezione privata (1992)

Visitare un museo, uno spazio chiuso, mano nella mano di Alberto Cima è più piacevole, proficuo, che farlo di persona, e non è qualcosa di speciale, di raro, c'è in "Mani", in "I Fantoni scultori del legno", in "Tallinn lieve", in "Only Wave". Come nella basilare pellicola di Pavel Kogan "Look at the face", "Collezione privata" non è una semplice successione di quadri più o meno ordinati, è una riflessione sull'azione, sul piacere di guardare. Lo sguardo come creatore del sentire, come atto creativo, attivo. Cima affronta ogni quadro nella sua singolarità, come fosse qualcosa di vivo, in movimento, e non un oggetto appeso alla parete. Filma le sculture , i quadri di paesaggio, di persone, come se stesse filmando l’originale, il paesaggio, la persona, mutando le nature morte in nature vive, cinematografiche.

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Una sala della GAMEC di Bergamo

Contempliamo e ammiriamo i quadri guidati dalle parole degli stessi pittori, che contestualizzano e spiegano le loro intenzioni, intensificando così l'osservazione, focalizzando la nostra attenzione sui dettagli che a un'occhiata superficiale passerebbero inosservati. E ci trasformiamo grazie alla passione per i dettagli di Cima in spettatori non passivi, indifferenti, ma in visitatori privilegiati, che si avvicinano ai quadri fin quasi a toccarli, odorarli, finché i custodi del museo non ci richiamano all'attenzione.

Se per considerare utile la visita a un museo, si devono osservare due requisiti, che sia gradevole, e per di più fornisca conoscenza, "Collezione privata" compie la sua missione cinematografica alla perfezione. Si gode sensorialmente, il piacere dell'occhio e quello dell'orecchio, grazie alla opportuna selezione musicale, si completano, si potenziano, fino a diventare una esperienza estetica. E intellettuale, fondendo la parte divulgativa, storica, con quella contemplativa, senza indugi esplicativi, evitando che il film, la camera, diventi la noiosa guida del museo che nessuno ascolta.

Una piccola storia dell'evoluzione della pittura moderna raccontata con la fluidità, amenità, di una tranquilla passeggiata sulla riva di un

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Osvaldo Licini: Italia, 1950

fiume. L'arte moderna generalmente considerata elitaria, da intellettuale, vista in maniera ravvicinata, umana. Cima filma le donne dei quadri con la stessa sensualità con cui filmerebbe le donne in carne e ossa, concede loro una dimensione carnale, dà corpo alla pittura, alla scultura. Guardando a Robert Bresson, che riteneva che i registi fossero come i pittori, che creano con lo sguardo. La pittura intesa non solo come espressione artistica, estetica, che riflette, copia, la realtà, bensì come ideologia, come metodo rivoluzionario di trasformazione, trasgressione sociale, che interpreta, modifica, critica, le idee, le norme, comunemente accettate, per offrire domande e risposte diverse.

Ventun minuti che passano in un sospiro, nei quali i quadri scorrono davanti ai nostri occhi come variopinti paesaggi di un viaggio in treno. Dando l'impressione che alla fine della storia la pittura moderna non è altro che una geografia umana, in cui è contenuto assolutamente tutto, in cui tanto bello è un sito desertico come un colorato frutteto. Il Tutti fratelli di Henry Dunant trasformato in tutto è bello, se sai guardare, se sai mostrare.

“Guardare due volte per vedere il giusto. Non guardare più di una per vedere il bello”. Henry F. Amiel

Bortolo Belotti, tra storia e lettere (1994)

“Credo nelle idee, nei valori morali della vita, austeramente condotta lavorando, e ripudiando la volgarità, qualsiasi volgarità...” No, questo paragrafo non è stato scritto da Alberto Cima, ma da Bortolo Belotti, però potrebbe essere sottoscritto da lui parola per parola, e anche servire come giusta definizione del suo cinema, dei suoi film. Un cinema nel quale la volgarità, tanto nella vita come nel cinema, non ha posto. Un cinema di valori morali, che difende la purezza, la libertà, prima di tutto. Un cinema austero, antiretorico, che scopre la bellezza nella semplicità delle cose quotidiane, delle persone nobili, oneste, giuste.

Versione tascabile di "Tutti fratelli". L'utopia di Henry Dunant, sostituendo il filantropo svizzero con il liberale bergamasco Bortolo Belotti, avvocato, storico, politico, scrittore e poeta. Una specie di

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Giuseppe Capogrossi: Superficie n°225, 1957

Unamuno all'italiana cioè, qualcuno capace di difendere le sue idee, in coerenza con i suoi principi, fino alle ultime conseguenze, costi quel che costi, nel suo caso la morte in esilio, lontano dalla sua amata terra. Motivo dell'esilio, la sua lotta politica contro il fascismo, questo cancro al quale gli italiani e gli spagnoli sono abituati, rappresentato da due dittatori ugualmente ridicoli, Mussolini e Franco.

In mano ad altri registi meno dotati per la narrazione, per la concisione, questa biografia cinematografica, in parti uguali umana e divulgativa, costruita con fotografie familiari e d'epoca, e lettere di Bortolo Belotti lette fuori campo, sarebbe durata come minimo mezz'ora. Alberto Cima con la sua proverbiale agilità, sobrietà, la riduce a sei minuti nei quali le opere e la vita anche degli ultimi istanti di Bortolo Belotti appaiono davanti allo spettatore con chiarezza espositiva e precisione. Cima potrebbe filmare il Chisciotte, o la Bibbia, in appena cinque minuti e anche così gli avanzerebbe tempo. La famosa loquacità dei latini, Alberto Cima la smentisce a colpi di ellissi, di essenzialità narrativa.

Nella sua parte finale, ci presenta una successione di bellissime immagini del paesaggio di Zogno, restituendo Bortolo Belotti alla sua adorata casa, alla sua terra natale, realizzando il suo sogno di morire tra i suoi. Un gesto poetico di riparazione cinematografica, che chiude il cerchio interrotto dall'esilio, dal fascismo. Gli uomini passano in modo effimero sulla terra, mentre il fiume Brembo scorre tranquillo al di sotto del ponte di Sedrina, estraneo alle ambizioni, alle miserie umane.

Giacomo Quarenghi, architetto a Pietroburgo (1994)

In Castiglia c'è un detto molto popolare, cioè che del cervo ci piace perfino l'incedere. Vuol dire che tutto in lui è prezioso e utile. Lo stesso accade con Alberto Cima, che nessuna delle sue pellicole manca di interesse, di valore. Da tutte si può ricavare una lezione, imparare qualcosa, tanto del cinema che della vita. Quando si possiede un universo proprio, sempre lo si porta con sé, fa parte della propria personalità, ovunque si cerchi di sviluppare il proprio talento, anche se il progetto non è strettamente personale. È inevitabile tentare di stabilire similitudini tra Cima e l'architetto oggetto del film, Giacomo

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Bortolo Belotti

Giacomo Quarenghi

Quarenghi (Teatro dell'Ermitage, Ospedale di Santa Maria, il palazzo di Alessandro, la sede della Borsa, ecc.). Li uniscono molte cose, una identica brillantezza, solidità, semplicità, nei loro lavori, un gusto per il lavoro ben fatto, ben rifinito, e una sobrietà, una purezza nella realizzazione totalmente estranea alle mode, e agli egocentrici eccessi d'autore.

Il bergamasco (Valle Imagna) Giacomo Quarenghi (parente lontano di Alberto da parte di madre, il cui cognome è Quarenghi) si trasferisce in Russia, a San Pietroburgo, per far carriera, e invece di adattarsi all'architettura slava, orientale, al barocco imperante, impone il suo proprio stile, esportato dall'Italia, da Roma, da Andrea Palladio, in

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Accademia delle Scienze, opera di Quarenghi, sul fiume Neva

Russia. Lo stesso succede con l'indipendente, libero, Alberto Cima che realizza una specie di biografia didattica, continuando il suo discorso sul modo di intendere la vita e il processo creativo. "Giacomo Quarenghi, architetto a Pietroburgo", potrebbe rientrare perfettamente dentro la serie di pellicole di Cima sull'emigrazione, l'unica differenza è che Giacomo non è un emigrante povero, non ha dovuto lasciare la sua terra per mancanza di lavoro, bensì l'ha fatto per poter crescere professionalmente. Ma sul chiaro successo dei suoi ambiziosi edifici, di un sobrio classicismo, grava la stessa sensazione di sradicamento, di nostalgia, che condivide con tutti gli emigranti. Giacomo è incapace di integrarsi in Russia, di adattarsi a quel clima, a quella cultura, e il suo sogno, la sua aspirazione, come tutti gli immigrati, è tornare in patria, la terra natia, per passarvi i suoi ultimi anni e morire tra la sua gente.

Tutti gli edifici di Giacomo Quarenghi trasmettono la stessa sensazione, quella di coerenza, di onestà creativa, la sua traccia è riconoscibile, inconfondibile. Con la sua biografia accade lo stesso, fu fedele ai suoi principi, alle sue idee, e si pose contro lo stesso Napoleone, e lo fece senza preoccuparsi delle conseguenze. Certo che Giacomo aveva carattere, personalità propria e non si legava a nessuno. Ovvio dire che tutte queste caratteristiche si possono attribuire anche a Alberto Cima, alla sua opera, di una coerenza, di uno stile personale, essenziale, che impressionano. Invece di realizzare una biografia, biopic, alla moda, con interviste a esperti e assurde drammatizzazioni, fa una messa in scena oggi. Con l'utilizzo di due voci fuori campo, la soggettiva di Giacomo Quarenghi che narra al presente il suo vissuto e i suoi sentimenti come se fosse un diario parlato, e quella di un narratore obbiettivo che situa il contesto e parla dei suoi progetti e realizzazioni. In questo modo Cima attualizza il passato trasformandolo in qualcosa di vivo, di presente, come fece Antonioni con il suo corto "Roma" che aborriva il turismo, l'agiografia. Fondendo immagini attuali delle opere di Giacomo Quarenghi a San Pietroburgo, con stampe d'epoca, acquerelli, realizzati dallo stesso Giacomo, come fossero sequenze appena girate. Il film, lungi dall'apparire asettico, freddo, documento di architettura, si vede e si sente come una fiction, come la storia, il racconto orale, di una persona reale, con le sue ambizioni, complessi, gioie e tristezze, non di un idillico personaggio storico senza spigoli e contraddizioni, ma di un uomo vero, architetto a San Pietroburgo.

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Katia Artiukhova e Igor Povolotskij assistenti alla regia

Una città che cambia. Il volto di Bergamo nell'Ottocento (1995)

L'agilità, la fluidità di Alberto Cima non ha paragoni, è la gazzella del cinema italiano, il suo regista più essenziale, più sicuro, più preciso. In appena 13 minuti fa un ripasso dettagliato della storia dei cambiamenti subiti dalla città di Bergamo negli ultimi secoli, e lungi dal risultare di un didatticismo noioso, ripetitivo, il tempo ti passa volando, e con desiderio di approfondire di più, come nei corti sull'urbanesimo, sull'architettura, di Juan Sebastian Bollaín. Questa abilità di andare al nocciolo delle cose, al cuore, senza divagazioni, senza tempi morti, non è cosa abituale, e molto meno nel genere documentario, tanto portato a tirarla in lungo per nascondere i trucchi. I documentari di Cima sono tanto interessanti e vivi, che sembrano trailer, film d'azione.

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Le mura di città alta

Un anno dopo "Giacomo Quarenghi, architetto a Pietroburgo" riprende i procedimenti creativi, narrativi, formali, impiegati in quella pellicola, per realizzare una piccola lettera d'amore a Bergamo, sua città natale. E come tutte le lettere d'amore, ha sempre una componente di malìa, di devozione, che fuori dalla relazione amorosa è difficile da comprendere, da condividere, al cento per cento. Perché l'incontro suscita affetto, e purtroppo non tutti sono stati a Bergamo. Dico purtroppo, perché dopo "Una città che cambia. Il volto di Bergamo nell'Ottocento", si ha gran voglia di vederla, conoscerla, di passeggiarci. Alcuni dei suoi figli più illustri sono: il compositore e operista Donizetti, autore della famosa aria "Una furtiva lagrima"; l'architetto e pittore Giacomo Quarenghi; il regista Ermanno Olmi ("Il posto", "I fidanzati"); l'attrice Isa Miranda ("La Signora di tutti", "Siamo donne", "Gli sbandati") senza dimenticare il motociclista campione del mondo Giacomo Agostini; il calciatore Roberto Donadoni; il ciclista vincitore del "Tour de France" Felice Gimondi; e certamente il geniale, unico, Alberto Cima, scusate se è poco, vedete quale città italiana ha di più.

Per questa dichiarazione d'amore, il regista utilizza stampe, quadri, disegni, fotografie, mappe, manifesti, opuscoli, al fine di operare una ricostruzione della città di Bergamo nell'Ottocento, e sulla sua successiva evoluzione. Perché Bergamo, come noi, va sviluppandosi con gli anni, mettendo su pancia, e perdendo facoltà, presenza, capelli cioè alberi. L'espansione di nessuna città può competere con il suo centro storico, gli anni pesano in tutto il mondo. E le città cessano di essere giovani, di apparirlo, quando alle vie, alle piazze, di tutta la vita, gli si mette l'appellativo di centro storico. Allora gli edifici cominciano a mostrare crepe, rughe, perdono colore, i capelli diventano bianchi. E diventano signore quando cominciano ad avere figli, Bergamo bassa e i quartieri periferici.

Manca solo la presenza umana, anche se nel profondo, in questa pellicola, in questo omaggio, la città, Bergamo, è una donna, e la camera di Cima ne mostra tutta la bellezza. La sua bandiera rossa e gialla, ricorda anche molto la bandiera spagnola. Il detto che nessuno è profeta in patria in questa occasione non si avvera, Alberto Cima lo è, ed è anche il suo principale sostenitore, rappresentante, cinematografico.

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Piazza vecchia, in città alta

L’assetto urbanistico tripartito

Il tempo del maglio (1996)

Attorno al mondo del cinema ci sono troppe persone di scarsa sensibilità, per non dire veramente mediocri. Imporre che in una pellicola di taglio etnografico, quasi una ricostruzione storica, le voci fuori campo degli anziani protagonisti siano doppiate da attori professionisti, dovrebbe esser considerato un delitto. Sarebbe come esigere che Miss Universo si faccia tutte le foto con il viso coperto di fango, una cosa ridicola. Un film di questo tipo necessita di un più di verità, di sentimento, di vicinanza, che le voci perfettamente modulate, lavorate, degli attori sono incapaci di trasmettere. Senza questa aberrazione sonora, "Il tempo del maglio" potrebbe formare parte di una meravigliosa trilogia sulla gente di piccoli popoli lombardi composta da "Erba d'Imagna" (1980), questa, e "La stanza delle rondini" (1999), con cui Alberto Cima poté levarsi la spina con disinvoltura della spiacevole esperienza di questo film, spiacevole nel suo disegno sonoro.

"Natura: ciò che l'arte drammatica sopprime a beneficio di una naturalità appresa e mantenuta mediante esercizi." Robert Bresson

Imparata la lezione del doppiaggio, o meglio per evoluzione, maturità cinematografica, a partire da questo momento Cima tornerà a utilizzare soltanto la figura del narratore, della voce fuori campo, nella sua filmografia, il miglior modo di evitare intromissioni esterne, e la più diretta per arrivare alla verità delle persone, ascoltare la loro propria

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Lavoranti in una fucina del primo Novecento a Odolo

voce, senza manipolazioni, senza arte drammatica, il miracolo del suono in diretta. Altre risorse del linguaggio cinematografico, quelle da cui andrà progressivamente staccandosi, sono la colonna musicale, lo zoom, la carrellata e la steady-cam. La strada della semplicità, della purezza espressiva.

"Nella mescolanza di vero e falso, la verità risulta il falso, il falso impedisce di credere nel vero. Quando un attore simula la paura del naufragio, sopra il ponte di una barca vera battuta da una tempesta vera, non crediamo né all'attore, né alla barca, né alla tempesta." Robert Bresson

Per fortuna, il cinema è immagine e suono, e le immagini de "Il tempo del maglio" risplendono nonostante il doppiaggio. I meravigliosi piani ravvicinati dei volti screpolati degli anziani, delle loro mani nodose come tralci di vite, e come contrappunto, o come fedele constatazione dell'eterno equilibrio della vita, i luminosi sorrisi, gli sguardi dei bambini. Le persone soprattutto, come il regista Bert Haanstra, altro montatore eccezionale, con il quale Cima ha molti punti di contatto, entrambi hanno fatto della consuetudine all'osservazione umile la loro professione, e i motti di Haanstra "i buoni risultati sono la somma totale dei dettagli" e che sempre c'è da esser fedele a se stessi, potrebbero essere anche i suoi.

"Perché non mi lasciano fare un favore al pubblico con una pellicola fatta con sincerità?" Bert Haanstra

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La fucina Zanella di Odolo, fine Novecento

La stanza delle rondini (1999)

Come appare ben chiaro dalla prima sequenza, nella quale una ragazza sta studiando con il suo esigente maestro, situazione che è inondata da immagini di esterni, la vita reale, la bellezza stanno fuori non nei libri, e non c'è che uscire per incontrarle, lasciarsi toccare, penetrare da esse. C'è un curioso fenomeno che accade solo con i film dei grandi registi, di quelli fuori classe, che le loro pellicole rinviano ad altre pellicole dello stesso regista, fatte prima o dopo. Alcuni lo chiamano stile, segno d'autore, ma è altra cosa, superiore, si chiama coerenza, spessore, onestà. Cima è uno di quelli, un regista con idee chiare sul cinema, sulla vita, che va depurando, perfezionando, con il passare degli anni, dei film. La sensazione che tutta la sua filmografia in fondo non è che un film unico, una serie di ramificazioni con un tronco, una radice comune.

"La stanza delle Rondini" rimanda direttamente a "Erba d'Imagna", il suo seguito. Un inevitabile ritorno alle origini, ai luoghi che si amano, che sono parte della propria biografia per vedere la loro evoluzione, o distruzione. In questo caso evoluzione positiva, perché la povertà,

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La Valle Imagna in autunno

tanto economica come morale, che emanava "Erba d'Imagna", si è trasformata in una vita modesta, ma dignitosa, in comunione con la natura, e nella progressiva nascita di un sentimento affermativo di orgoglio locale, di senso di appartenenza, di radicamento, di valorizzazione del luogo dove si vive, dove si è nati. Non si indugia su questa visione piacevole, parziale, idillica, della vita in campagna, e si mostra il suo contrappunto, il suo controcampo, l'egoismo, la sfiducia, l'isolamento, di alcuni dei suoi giovani, la scarsità delle possibilità di crescita, di sviluppo. La perfezione non esiste, e ogni croce ha la sua faccia, e ogni faccia la sua croce, ma il retrogusto che ti resta dopo aver visto "La Stanza delle Rondini" è buono, ottimista, luminoso, dà voglia di andarsene a vivere lì.

La Stanza delle Rondini" come "Erba d'Imagna", sono l'altro versante dei film sull'emigrazione, la storia di quelli che se ne vanno, e di quelli che tornano definitivamente, o solo per le vacanze, per decisione propria o perché non hanno questa possibilità, esistono i legami, le responsabilità personali, familiari. Il film potrebbe passare per una storia ufficiosa del lavoro preindustriale, artigianale, da dilettante, nel

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Costantino Locatelli

Ines Invernizzi

senso di fatto con amore, affetto, cura, nei limiti di ciò che serve per sopravvivere. Un lavoro che non rende schiavi, che permette una certa dignità, indipendenza, libertà personale. Una elegia del lavoro manuale ben fatto, realizzato con efficacia, pazienza, senza fretta. Alberto Cima, come Jonas Mekas, ha l'ossessione di estrarre bellezza dal quotidiano, anche dal lavoro, dai lavoratori, come il meraviglioso procedere della costruzione del tetto di ardesia.

E come più tardi farà con "Tallinn lieve", crea un mosaico a partire da un contrasto di persone, parole, gesti, che danno una visione globale, profonda, partecipe, di un territorio, come "Belfast, Maine" di Frederick Wiseman o "Carbonai di Navarra" di Montxo Armendáriz. Con momenti unici come i due anziani che cantano, il falegname pittore che dipinge sua madre, il cerbiatto curioso, la bambina che guarda la camera, l'anziana che s'aggiusta la gonna, la giovane francese e la contadina, e in genere tutte le donne, bambine, adolescenti, anziane, che escono dallo schermo, quelle dalle quali Cima, come in tutte le sue pellicole, estrae sublimi istanti di bellezza, come se fossero vergini del Rinascimento, Madonne di Botticelli. L'unica differenza con "Tallinn lieve" è che con gli anni prescinde quasi completamente dalla musica registrata, lasciando che i suoni, le parole, siano la vera banda sonora, né più né meno.

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Alberto Cima, l’assistente Paola Ratti e una famiglia di emigrati in Francia

Tutti fratelli. L'utopia di Henry Dunant (1999)

Quasi tutti i grandi filantropi della storia dell'umanità, in gioventù, furono ricchi aristocratici. Budda, Tolstoj, Gandi, e Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa e primo Premio Nobel della Pace nel 1901 che, tanto per cambiare, morì rovinato. Si vede che per comprendere la povertà, e per essere generosi, condizione necessaria è conoscere l'abbondanza, la ricchezza, e pertanto non desiderarla più, solo per i poveri è un traguardo. Per poter pensare agli altri, essere generosi, bisogna avere una certa pace di spirito, e le necessità vitali sufficientemente soddisfatte. Il risveglio della coscienza, degli istinti di umanità, di solidarietà, può scattare per una forte commozione esterna, generalmente per qualche catastrofe naturale, climatica, o più spesso bellica. Confrontarsi ogni giorno faccia a faccia con la morte, con l'ingiustizia, con il massacro, evento inevitabile della guerra, con il suo bagno di sangue, con le sue tonnellate di sofferenza, fa mettere in discussione i valori, le fedi, i modi di vivere di ogni persona che abbia un minimo di sensibilità, di empatia.

Alberto Cima, dedicandosi a Henry Dunant e alla sua utopia, realizza il suo film più didattico, più informativo, e allo stesso tempo più lirico. In che consisteva questa utopia? Sognare che un giorno i feriti di ambo le parti in guerra dovevano essere soccorsi da un'organizzazione neutrale di volontari, che fossero rispettati da tutti i contendenti. Cosa che oggi

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A Douz nel deserto tunisino

Henry Dunant

ci pare di senso comune, naturale, quotidiana, e che conquistarla costò anni di lotta, di sacrifici, di disprezzo, di infamia, a Henry Dunant, che da buon utopista, da attivista visionario, era ostinato, testardo. Negli Stati Uniti tanto lottò anche per l'abolizione della schiavitù. Dimostrando che niente in questa vita si ottiene senza costanza, perseveranza, volontà. Che qualunque piccola conquista di diritti umani, di libertà individuali, si raggiunge a costo di molte sofferenze, di molte morti.

L'utopia è l'anticamera del progresso, e al contrario il conformismo, il conservatorismo, sono garanzia assoluta di disuguaglianza. Senza sogni impossibili non esistono progressi. La follia è il motore degli ottimisti, e dei pessimisti idealisti. Chi non la prova, dopo non può lagnarsi. È sempre preferibile essere un fallito che un frustrato. Il Tutti fratelli di Alberto Cima, di Henry Dunant, di San Francesco d'Assisi, è lontano, molto lontano, dall'essere realtà vissuta, universale ma, grazie a loro, è molto più vicina, anche se di poco, dal traguardo. Come direbbe il buon barone Pierre de Coubertin, l'importante è partecipare, e Cima partecipa, si compromette.

Siccome il testo mi ha lasciato piuttosto ottimista, volontarista, buonista, termino con una citazione di Cioran, il grande disincantato: "Per concepire una vera utopia, per abbozzare con convinzione il panorama della società ideale, occorre una certa dose di ingenuità, fino alla stupidità.”

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In Provenza, mont Sainte-Victoire

Mani (2000)

Tutto è sacro. La natura, gli animali, le persone, le cose. Tutte si compongono di una stessa essenza, uno stesso spirito. L'animismo, l'inconscio collettivo, sono teorie per alcuni esoteriche che cercano di spiegare la continuità di tutte le cose, il presente come una eterna attualizzazione, trasformazione, del passato. Una somma più che una evoluzione. In ogni mobile di casa vive un albero, in ogni albero, un mobile, un oggetto di legno, in potenza, un futuro Pinocchio. I ferri da lavoro, gli attrezzi, non sono semplici accessori, contengono parte della personalità di coloro che li usano, o li hanno usati, sono quasi estensioni del loro corpo. Una camera non è solo uno strumento capace di raccogliere immagini, è un mediatore, un catalizzatore, un elemento di unione, di comunione, dentro lo sguardo del regista e quello dello spettatore, una icona sacra.

Cima in questo film lascia che parlino gli oggetti, che raccontino la loro storia, il loro passato, e non lo fa illustrando, con ricostruzioni storiche, né esponendo un catalogo da mostra, gli insuffla la vita, li resuscita. Come se fosse una favola nella quale i giocattoli riprendono vita di notte o quando gli umani non li guardano. Gli oggetti del museo nel film acquisiscono caratteristiche umane, idee, sentimenti, di natura poetica. In luce, in ombra, in primo piano, mostrano le loro rughe, le

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Un attrezzo esposto nel museo

Il set all’interno del museo

cicatrici, i segni di vita, di sofferenza. Cima fonde il passato con il presente, la tradizione con la modernità, gli attrezzi, il computer, il telefonino, facendoli convivere in uno stesso spazio, dimostrando che in apparenza tutto è cambiato, ma in realtà continua a essere uguale. L'amore continua ad essere quello di sempre, la bellezza continua ad essere bellezza. Sono le persone, le loro mani, a dare vita agli oggetti facendone uso, e questi trasferiscono la loro energia latente di secoli alle persone.

Un museo è qualcosa di vivo, non solo un deposito di conoscenze, di memoria. Cima trasforma quello che poteva essere una convenzionale visita a un museo etnografico, in un autentico viaggio nel tempo. Con quel più di prossimità, di sensualità, che trasmette la bellissima Sabrina Castelli con il suo sguardo, con la sua gracile, eterea, presenza di fata, capace di trasformare un'automobile antica in un’alcova attuale. La memoria del passato resta impressa in tutto ciò che ruota attorno a noi, e c'è solo da tendere le mani, aprire gli occhi, attivare i sensi, accarezzare la vita, per ascoltare, comprendere, il suo messaggio occulto.

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Sabrina Castelli

Tallinn Lieve (2002)

IÈ molto riduttivo, semplicistico, definire "Tallinn Lieve" una sinfonia urbana, e non gli rende giustizia, perché poco o nulla ha a che fare con le esaltazioni architettoniche, patriottiche, populiste, delle avanguardie, più interessate all'estetica e alla forma, che alle persone e all'etica. Piuttosto si inserisce alla perfezione nello scelto, ridotto elenco di film globali, cosmogonici, che si propongono di riflettere in profondità sulla visione di una città, sulla sua geografia, sul suo nucleo, e la sua essenza, ma soprattutto sul ritmo, sul respiro, dei suoi abitanti. "Il pianeta azzurro", "Belfast, Maine", "Route One USA" e "Tallinn Lieve", l'ultimo e il migliore, perché il più conciso, preciso, austero, sincero. Lo sforzo di empatia, di comprensione, di comunicazione, è più grande.

Poiché il peso della narrazione, in questo tipo di magistrali e visionari film, lo portano del tutto le immagini e i suoni, in questo caso le immagini e i suoni delle persone, e così dovrebbe essere in tutti i film, è inutile dilungarsi, dobbiamo abbandonarci alla loro visione, goderli, e basta.

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Il centro storico Toompea di Tallinn

Alberto Cima, il più grande genio in ombra, un vero mistico, che nell'immagine e nel suono è persona partecipe, terrena, sensuale, carnale, che consuma gli occhi sul tavolo di montaggio per ottenere la sorprendente fluidità di un film d'azione, e perché la camera diventi aria, testimone silenzioso, trasparente, così che noi spettatori possiamo contemplare, vivere, Tallinn, la sua gente, attraverso gli occhi di un bambino, e ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo, non sia il riflesso della vita, ma la vita stessa.

Imprescindibile vedere la sua versione cupa, chiusa, “Permission”, o la differenza esistente tra un latino, un nordico e un anglosassone.

IIIl compito di qualunque regista, che non sia un autistico egocentrico megalomane, è quello di cercare di comprendere gli altri, il mondo che lo circonda. Uscire dallo stretto, malato, universo delle proprie ossessioni, per ampliarlo, risanarlo, con l'altro, con gli altri. Viaggiare, se non lo si fa con fini propriamente turistici, o per scollegarsi dalla routine quotidiana, per fuggirla, è una fonte di conoscenza, di comprensione. È il modo più semplice per verificare le tue idee, i tuoi dogmatici schemi mentali, con altri che sembrano completamente diversi, distinti. Un'altra preziosa scoperta dei viaggi non contemplativi di camera e hotel, è finire per constatare che qualunque realtà quando vi si penetra, misteriosamente finisce per assomigliare a tutte le altre. Conoscere è comprendere, partecipare, scoprire le coincidenze, e attenuare le differenze. Questo generoso e altruista sforzo di comprensione, di immersione, lo fanno pochissimi registi, i più girano per dimostrare e confermare quello che già sanno prima, aspirano a dar lezioni, a esercitare il ruolo di maestro. Registi che si lasciano portare, coinvolgere, da quello che guardano, si possono contare sulle dita di una mano, Cima è il più oggettivo, il più partecipe, il più umano, come un buon francescano laico.

Ogni città ha il suo proprio respiro, il suo proprio passo, e scoprirlo è questione di pazienza, di umiltà. Lo stesso succede con i suoi abitanti, se gli dai tempo, se gli trasmetti fiducia, ti apriranno la porta della loro casa, dei loro sguardi. "Tallinn lieve" è la storia di questo processo, il complesso percorso che va dal turista al residente, dall'esterno all'interno, dai pregiudizi alla conoscenza. Nel film, nella città, entriamo

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Città a misura d’uomo

come spettatori, e usciamo come conoscenti, come amici. "Tallinn lieve" non è una sinfonia, esterna, di immagini e suoni, un amalgama di cartoline, di illustrazioni, è un percorso emozionale attraverso le persone, e il modo che hanno di abitare lo spazio e il loro tempo. Uno spazio, un tempo, propri, che è parte del loro carattere, una proiezione, non idealizzata, della loro personalità. Tallinn non è una città di edifici straordinari, di grandi monumenti, la semplicità della sua gente corrisponde alla semplicità delle sue vie, delle sue case, c'è armonia, coerenza, non è una città come Valencia, Barcellona, o Parigi, che danno un'immagine di vita molto al di sopra delle loro possibilità reali. Una megalomania spaziale sempre più estesa, e imitata, che ha ottenuto il contrario di quello andavano cercando, invece di dare una personalità alla città, l’hanno resa anonima, i suoi abitanti la sentono sempre meno propria, qualcosa di alieno, non adatto, con cui non possono identificarsi, né formalmente né emozionalmente.

Cima ci rivela con semplicità ed efficacia, i misteri, i segreti, della città, dei suoi gentili abitanti. Forzando la durata dei silenzi, perché affiori la vera personalità, per mostrare quello che si nasconde dietro l'educazione, la cortesia. Nel caso di Tallinn, c'è una corrispondenza tra ciò che appare e ciò che è, l'amabilità delle persone non è una posa, una impostura. Il silenzio, il sentirsi osservate, le disturba, ma non provoca rifiuto, irritazione, cercano di comprendere, di aiutare, di ascoltare, sono timide ma non scontrose. E quando si aprono, si confidano, regalano ad Alberto, e a noi spettatori, momenti veramente magici come le conversazioni sussurrate in biblioteca, come la perplessità del pianista, che riesce a sentirsi meglio rifugiandosi nel suo mondo, al piano. Una collezione di momenti unici, non rubati, che nessun attore di professione potrebbe offrirci, che nessuna pellicola di fiction pura potrebbe creare.Mediante il preciso, fluido, montaggio, che sempre fugge dalla retorica, dall'estetismo descrittivo, Cima fa il miracolo che in appena un'ora e mezza abbiamo una visione d'insieme, di una città, dei suoi abitanti, recuperando il senso primigenio della parola civile, civis, membro della città, il civis romanus sum, il cittadino libero, dei romani, in questo caso civis tallinnus sum. Il regista si interessa realmente alla vita dei suoi protagonisti, alle loro abitudini, non alle loro stranezze. Il film va incontro ai suoi personaggi, e gli dà l'opportunità di esprimersi, di essere se stessi. Non va cercando il morboso, il pittoresco scemo del villaggio, il buffone ufficiale. Non cerca di estrarre frasi geniali né

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Signora al cimitero Metsa Kalmistu

Arne Vaik, direttore del Museo del Mare

aneddoti divertenti, vuole soltanto che commentino la loro vita, le loro aspirazioni. Converte il volgare, il quotidiano, quello che gli è più proprio, più vicino, in materiale cinematografico. Dimostrando che per essere originali, l'unico cammino è lo stesso. Dar voce, e immagine a tutto il mondo, senza distinzione di genere, di età, di cultura. Tutti, dall'artista al mendicante, sono di uguale importanza. Il suo cinema è anti-elitista, egualitario, solidale.

Evita la ingannevole bellezza di una fotografia iperaccurata, il falso prestigio delle inquadrature ipermisurate, per incentrarsi sulla grandezza, sulla qualità cinematografica, immaginifica, delle sue anonime persone ritratte. Il suo è un cinema mistico, che parte dalla materia, dalla superficie del reale. Un cinema sensuale che trascende la corporeità mortale, lasciandola nella sua struttura, nel suo spirito. Un impeccabile processo di astrazione che rende visibile la sua macchina di narrazione, la camera, perché sparisca del tutto. Non c'è mediazione tra lo spettatore e il film, lui generosamente, umilmente, si cancella, si fonde con ciò che narra, perché la vita si mostri senza filtri. I suoi personaggi raccontano la loro storia, facendoci dimenticare che tra loro e noi esiste qualcosa chiamato camera, un tacito accordo chiamato finzione. Cima si infiltra in Tallinn come la musica che si espande per la brezza nelle notti d'estate. Solo intuiamo la sua presenza nei sorrisi complici, nel silenzio, dei suoi abitanti.

Costruisce lo spazio a base di pennellate, non di grandi piani totali. Come Ozu, Oguri o Ishikawa, parte dal dettaglio per andare ampliandolo senza che tu te ne renda conto, stimolando il cervello a comporlo intero da dentro a fuori, invece del solito, pigro, da fuori a dentro. Vedere un film di Cima, di Ozu, di Oguri, di Ishikawa, non è un processo passivo, necessita della partecipazione attiva dello spettatore, di uno sguardo inquieto, curioso, come quello del regista.

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Aino Talihärm

Ragazze di Tallinn

Lo sguardo di un bambino, spontaneo, impulsivo, che si lascia portare, contagiare, dagli stimoli nervosi, dall'istinto, che non ha esitazioni a cambiare inquadratura, spostare la camera, se qualcosa reclama la sua attenzione. È uno sguardo in costruzione, aperto, non uno sguardo determinato in anticipo. L'importante è ciò che accade davanti alla camera, non le idee preconcette del regista. Il distillato perfetto di Robert Kramer, Frederick Wiseman e Franco Piavoli, il suo concentrato nel reale.

Tutte le volte che vedo "Tallinn Lieve", e già sono alcune volte, è come se la vedessi per la prima volta, e allo stesso tempo, mi rendo conto di quante sue immagini già formano parte della mia vita come se fossero un pezzo della mia biografia. Ho la sensazione di essere stato là mentre lui girava, se questo non è cinema, di quello buono, nel mio Top 10, io non so chi lo è. "Tallinn Lieve" ci ricorda che il cinema è un atto di libertà, di fede nell'altro, una pratica amorosa, d'amatore, di un amante verso lo spettatore, da persona a persona, non un gesto egocentrico di devozione cinefila, di elogio, di omaggio al cinema, o al regista.

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Tallinn Ballet School

Una vita altrove (2004)

INon occorre essere una lince per vedere che l'origine del grande "Le quattro volte" di Frammartino deriva da qui, e nemmeno per capire che "La libertà" di Lisandro Alonso è una minuzia al confronto, sia per il contenuto che per la forma. Lisandro e Frammartino tentano di comprendere la realtà, Alberto Cima invece riesce a trasformare, elevare, sublimare la realtà, come un buon mistico laico. In "Una vita altrove" non c'è separazione, conflitto, tra natura e uomo, sono la stessa cosa, due rappresentazioni della medesima essenza, come nelle pellicole di Piavoli, con un più di emozione, di umanità.

Cima si lascia toccare, impressionare, da quello che gira, è malleabile, sensibile. Il respiro, la cadenza, il montaggio, si rasserenano per adeguarsi al fragile materiale che tiene in mano, non forza le cose perché coincidano con il suo stile, si prende il suo tempo, lascia riposare il film.

Tradizione e modernità, passato e futuro, la madrepatria e l'esilio, convivono in uno stesso spazio, con la meravigliosa magia che implica il rituale dei carbonai, trapiantato dall'Italia alla Svizzera, trasformando

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Lorenzo Pellegrini boscaiolo emigrato in Svizzera, Vallée de Joux

la Svizzera in un pezzettino d'Italia, restituendo ai protagonisti, agli emigranti, il passato, la loro giovinezza, come dentro una macchina del tempo, come se non fossero mai espatriati. Una lezione di coraggio, di come superare le devastazioni della vita senza lamentarsi, lottando, sempre con il sorriso. Un esempio di dignità cinematografica alla portata di pochissimi registi, che affratella Alberto Cima con Agnès Varda in "Dagherrotipi".

III film, i registi, cercano l'identificazione dello spettatore in due modi. Con la identificazione emozionale diretta con i personaggi, con la storia, e mediante la identificazione formale. Siccome la conoscenza della generalità degli spettatori del processo creativo, del linguaggio specificamente cinematografico, della sua sintassi, è molto elementare, per non dire nulla, la maggioranza dei registi va sul facile, e sceglie sempre la prima opzione. Lo stesso fanno i critici quando parlano di cinema, non vanno più in là della superficie, della semplicistica lettura della trama. Il risultato di questo impoverimento deliberato della prassi cinematografica, della critica, è che in sostanza la totalità delle pellicole destinate a un pubblico di massa, a livello formale si limitano a illustrare, ricreare il contenuto. O detto in altro modo, la forma segue

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Con Lorenzo e il suo cagnolino Fen

L’assistente Paola Ratti rivede la sceneggiatura

Matteo Cima consulente editing digitale

sempre, va a rimorchio, del contenuto. Ma Cima rispetta lo spettatore, il cinema, e nei suoi film l'identificazione è sui due piani, emozionale einsieme formale, non emozionale o formale, vanno alla pari, così l'emozione si raddoppia.

Un altro dei luoghi comuni cinematografici è che solo la forma arriva al cervello, intellettualmente, non emozionalmente, visceralmente. Falso. Cima dimostra film dopo film, con passione di innamorato, che la forma, il montaggio, la camera, sono una questione di pelle, di elettricità. È impossibile non identificarsi, non sentire empatia, con il personaggio di Lorenzo, e il resto degli immigrati italiani, perché Cima è una persona tutta d'un pezzo, di una dignità, integrità, onestà, a prova di bomba. L'integrità di Lorenzo, la sua capacità di lotta, di superare le avversità senza lamentarsi, con il sorriso sulle labbra, come se fosse un bambino, lo trasformano in eroe quotidiano, reale. Tra Lorenzo e il suo lavoro, di boscaiolo, carbonaio, si produce un processo mimetico, di simbiosi tra lui e gli alberi, come se il suo corpo si fosse adattato, curvato, per poter eseguire meglio il suo lavoro, per stare molto più vicino alla terra. La sua muscolatura è fibrosa, nodosa, come la corteccia d'un albero centenario. Lo stesso succede al film, in cui contenuto e forma si fondono, confondono, lavoro e lavoratore sono una stessa cosa, si produce una fusione perfetta. Come Alberto Cima, che si è integrato talmente con la sua camera, che da lontano non si distinguono, come se la camera fosse una estensione del suo proprio corpo, delle lenti con cui vede, fa vedere, meglio che con i suoi propri occhi.

Cima, per esplicitare la sua radicale, profonda, visione della vita, non ha bisogno di discorsi, di parole, gli bastano e avanzano le sue trasparenti immagini. È meraviglioso come utilizza il girato per montare serie di piani. Transizioni tanto geniali come quella tra il cavallo che si avvicina alla camera e il calendario erotico. Come contestualizza, individua, tutti e ognuno dei suoi personaggi soltanto con pochi piani, con la sua austerità abituale, assenza di ripetizioni, evitando tanto il formalismo quanto la semplice illustrazione. Nessuna inquadratura indugia più del necessario, mediante le appropriate ellissi condensa e dilata il tempo secondo l'estro senza ricorrere se non poche volte a un motivato piano sequenza. Cima non lascia allo spettatore la pellicola senza fare, senza montare, fa il suo lavoro, quello di selezionare, di scegliere sempre il miglior modo, il miglior piazzamento, per mostrare nitidamente ogni

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Una pausa dal lavoro nel bosco

Lorenzo si prepara per l’abbattimento di un albero

situazione, ogni volta la più semplice e la più bella, mai trascura la luce, l'inquadratura. Alberto è un bressoniano convinto, un purista senza cavalletto, con i piedi nel fango.

È affascinante vedere come Lorenzo progetta man mano il miglior modo di collocare i tronchi con la minor fatica. Un piano sequenza più che necessario, sarebbe stato un delitto accorciarlo, spezzettarlo, perché definisce alla perfezione la personalità, il ritmo vitale di Lorenzo, la sua sbalorditiva capacità di lavoro, senza fretta ma senza pause, malgrado le sue limitazioni fisiche. Tutto il contrario del suo miglior amico, il cane, già vecchietto, che passa il giorno distratto o addormentato. A volte Lorenzo, quando pare annusare, o sta in ascolto concentrato, scruta l'orizzonte, o a volte è come perso, ricorda un cane da caccia.

Vedendo lavorare Lorenzo è inevitabile pensare a Battista, il marito di Lucia in "Il giardino di Lucia". Gli sarebbe piaciuto vivere la vecchiaia così, come Lorenzo, se non ci fosse stato l'incidente, perché ci sono persone che non hanno fatto altro che lavorare fin da bambini, e quando smettono di farlo, si sentono vuote, inutili, come capita a Battista, con il suo perenne malumore. Il lavoro come modo per attenuare la solitudine, l'ansia di vivere, la disillusione dell'amore, la paura della vecchiaia, della morte. Le tradizioni, le abitudini, come strategie per non sentirsi permanentemente in terra di nessuno, un sepolto, un senza patria, l'unico metodo infallibile per recuperare l'infanzia, il paradiso perduto.

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Lorenzo e Ernesto Carminati

La catasta “poiàt” è pronta a ricevere i tizzoni ardenti per la produzione di carbone

Il giardino di Lucia (2005)

ISempre quando si affronta il tema dell'emigrazione si parte da postulati massimalisti, storicistici, trasformando l'emigrato in una specie di supereroe, di esempio di coraggio senza mezzi toni, dimenticando la sofferenza, la tristezza, la microstoria. L'emigrazione come fosse solo un fenomeno di massa, e non qualcosa di profondo, che sconvolge, marchia per la vita, non solo la vita del singolo emigrato ma anche quella delle future generazioni, le grandi dimenticate da questo tipo di film. "Il giardino di Lucia" è un film corale, non è solo la storia di Lucia, è quella della seconda generazione, e della terza, un impareggiabile processo di sradicamento, o meglio un tentativo di stabilire radici proprie, integrarsi, assimilarsi, totalmente, nel paese di accoglienza.

Non è casuale che i genitori parlino italiano, e i figli, i nipoti, parlino in francese, la patria è la lingua, il linguaggio, il mangiare, i rituali, non solo un pezzo di terra, o una bandiera. Insieme con "Erba d'Imagna", un dittico fondamentale per comprendere il sentimento più intimo, umano, dell'emigrazione, della tradizione, della perdita dei valori, del crudele passare del tempo.

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Il massiccio del Grand Ferrand visto da Tréminis

Lucia Dolci sulla porta di casa a Tréminis Vallée du Trièves, Francia

IILucia è la "mamma", la "nonna", sembra nata madre. Lucia è Italia, un innesto, un pezzo di terra italiana trapiantata in Francia, a Tréminis. Il suo giardino, il suo orto, è una metafora della sua vita, della imprescindibile funzione che compie in famiglia. Lei è quella che ha riunito i semi, che protegge la loro crescita, che li alimenta, dà rifugio, affetto, appoggio, consolazione, a lei si abbarbicano i suoi membri, è lei il faro che illumina tutti. Il matriarcato nella sua manifestazione più sublime, disinteressata. Un continuo darsi agli altri, dimenticandosi di sé, sacrificando i suoi propri sogni. Malgrado la vocazione di suora missionaria, Lucia svolge la sua missione in famiglia, animali domestici compresi, che tratta, ne ha cura, come se fossero suoi figli, con la stessa delicatezza, indimenticabile come copre per la notte il cane e il gatto.

La maternità, il matrimonio, come missione sacra, come destino per la vita, a tempo pieno. Lucia in ogni momento fa qualcosa, per gli altri, e lungi dal lamentarsi, dal sentirsi stanca, ha sempre un sorriso, una parola gentile per tutti. La sua vitalità risalta ancor più a confronto con la forzata inattività del marito infermo, vecchio boscaiolo. L'allegria quasi giovanile di Lucia contrasta con l'amarezza, l'introversione, il

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Marise Duse durante le riprese

Marise con la mamma

gesto brusco di Battista, che incontra sollievo solo quando riesce a mettersi a sedere, e leva i suoi geniali sospiri.Lucia va sgranando a poco a poco, in progressione drammatica, la sua storia, che è poi quella di tutta una generazione di emigranti italiani o spagnoli, senza dar l'impressione in nessun momento di trattarsi di una intervista, o di un monologo. Cima ottiene miracolosamente che

sembri che siamo ospiti d'onore in casa di Lucia, e che lei ci ha scelto, noi spettatori, come privilegiati confidenti dei suoi ricordi. Ci parla a tu per tu, senza riserve, senza diffidenza, con la naturalezza, spontaneità, di amici di tutta una vita ai quali fa vedere l'album delle foto di famiglia. "Il giardino di Lucia" è una pellicola ospitale, domestica, che scalda come un braciere. Che ci lascia condividere perfino i loro affettuosi dopopranzo, e momenti magici come il piccolo nipotino Nino che chiama il suo papà mentre sale sul tetto.

Identica impressione di amicizia, di fratellanza, di vicinanza, trasmettono il resto dei protagonisti, perché anche se Lucia è il nucleo, la ragione comune, "Il giardino di Lucia" è un film corale, un orto con molte varietà di colture, in cui ogni membro della numerosa famiglia, dal maggiore al più piccolo, i bisnonni, hanno il loro spazio, il loro tempo, per esprimersi e sfogarsi, per mostrarsi così come sono in verità

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Carla con il papà

Battista Locatelli

senza la maschera della vita quotidiana. Come direbbe Andy Warhol, tutti nel film hanno il loro minuto di fama, di gloria. Grazie ad Alberto, a Lucia e alla sua famiglia, abbiamo una visione completa, da tutti i punti di vista possibili, di come è cambiata la vita dal principio del secolo XX fino ai nostri giorni. Dalla breccia generazionale, culturale, tra i nipoti e i nonni, tra Italia e Francia. Tutti noi facciamo il meraviglioso dono di aprire il nostro cuore, la nostra testa, senza aspettarci niente in cambio.

Cima va filando la storia punto a punto con differenti gomitoli e alla fine, senza che te ne renda conto, Lucia e Alberto ti hanno tessuto una sciarpa di lana fatta in casa solo per te. Trasparenza, fluidità, conseguite a base di sottili, precise, ellissi. Un meticoloso lavoro di ore e ore in sala di montaggio, che pochi spettatori sanno apprezzare, valorizzare, e qui è dove risiede la maestria, la sapienza di un grande regista. Le code, le transizioni, sono risolte con una agilità prodigiosa, sfumano da piccoli sfiatatoi dentro la pellicola, ma in nessun momento ti distacchi da lei. Non sono accessori, interminabili piani decorativi di farcitura per nascondere l'incapacità narrativa del regista, sono la pausa tra verso e verso di un poema, il silenzio tra due note musicali. Ciascun personaggio va introducendo il seguente in forma tanto naturale, invisibile, che la transizione nemmeno si coglie, e tuttavia in ogni momento sai, o intuisci, chi è il nuovo interlocutore, il nuovo membro della famiglia. Sono loro, senza essere consapevoli, quelli che van costruendo il copione cammin facendo, e Cima raccoglie tutti i pezzi dispersi dei differenti testimoni per dargli un senso, una continuità, per costruire una narrazione. Il copione e il montaggio sono tanto esatti che spariscono le giunte, diventano trasparenti, aria. Alberto Cima dimostra in questo film, e in tanti altri, un dominio assoluto del tempo e dello spazio.

Cima in "Il giardino di Lucia" adotta sempre con i suoi interlocutori la distanza giusta, quella della cortesia, che gli permette di sentirsi a loro agio, rilassati, non intimiditi, la distanza esatta delle confidenze. Non li tormenta con primi piani, né li trasforma in oggetti del paesaggio con estetizzanti grandi piani totali. Solo quando la confidenza con il regista, con la camera, cresce, quando si dimenticano che esiste, lui l'avvicina ai loro volti, per cercare di leggervi la loro interiorità. Man mano procede la pellicola, l'intimità aumenta, facendo che ogni volta si aprano sempre più, escano dai loro gusci chiusi da decenni, esponendo sfaccettature

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Carla ai piedi del Grand Ferrand

Riprese in Vallée du Trièves

segrete della loro vita, i loro autentici sentimenti, le loro paure e frustrazioni, che certamente non esibirebbero, non riconoscerebbero nemmeno a se stessi, a un tratto inondando tutto con un alone di tristezza, di disincanto, di emozione allo stato puro, di cinema senza contaminazioni, senza manipolazioni. Momenti di catarsi, al limite del pianto, che Cima con pudore, con rispetto, non porta all'estremo del sentimentalismo, dell'esibizionismo puerile. E nonostante tutto, la vita continua, le mosche continuano noiose come sempre, le carote, misteriose radici, e Lucia, eterna grazie ad Alberto Cima.

Vedendo "Il giardino di Lucia", ti si allargano i polmoni, si respira aria pura di montagna. E la luce diventa più nitida, cristallina, come quando comincia a schiarire dopo aver piovuto. "Il giardino di Lucia" è un nido, un posto dove potersi rifugiare, ripararsi, quando perdi il nord, quando ti senti solo, sperduto.

IIICome tutti i grandi film, e "Il giardino di Lucia" lo è, sono infiniti i modi di affrontarlo, di guardarlo, di estrarne il succo, tutta la sua sapienza, in una doppia accezione. Una delle possibili letture è farlo dal punto di vista unico, esclusivo, delle donne protagoniste del film. Fare una interpretazione femminista, della evoluzione della condizione della

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L’assistente alla regia Paola Ratti

donna nell'ultimo secolo. L'intervallo che va dalla tradizionale nonna Lucia alle sue indipendenti nipoti. Un arco temporale relativamente piccolo, insignificante, dentro la Storia con la maiuscola, e che presuppone un autentico salto nel vuoto in relazione alla maschilista concezione utilitaria, realista, della donna. Della donna come colei che accudisce a tempo pieno, che dona la propria vita, il proprio tempo, e della donna che lotta in libertà per realizzare i suoi sogni, le sue ambizioni, sviluppare pienamente tutte le sue capacità, i suoi talenti. Un abisso generazionale, culturale, ideologico, una breccia impossibile da chiudere, che genera incomprensione, sorpresa, paradossalmente soprattutto tra le donne, specialiste nel mettere paletti nelle ruote della propria liberazione, emancipazione. Il maschilismo è questione anche di donne. Il ventaglio delle donne diverse che appare in "Il giardino di Lucia" riporta alla realtà la questione femminile, che non è un fenomeno unico, universale, il vieto soccorso eterno femminile, o tutte le donne sono uguali.

LUCIA: la madre, la nonna, la bisnonna. L'ancestrale donna di casa, lavoratrice che non conosce sconforto, sempre disponibile ad aiutare, incoraggiare, assistere, gli altri. Donna ottimista ed espansiva che non si complica troppo l'esistenza ad autoanalizzarsi. Accetta la vita come viene, con rassegnazione cristiana, e sempre dipendente, obbediente, sottomessa alla figura maschile, del padre, del fratello, del marito, dei figli.

CARLA: la figlia, la madre, la sposa. La generazione di transizione, che ha poppato dall'infanzia il dovere della donna, la sua missione: avere figli, allevarli, e servire il marito, accettando il ruolo protettore-autoritario dell'uomo. Però malgrado tutto è donna del suo tempo, non è impermeabile, indifferente, ai diritti sociali, individuali, conquistati dalle donne a costo di molte rinunce e disprezzo. Stanca della sua situazione di moglie sottomessa, soggiogata e alienata, decide di rompere con la sua vita di subalterna e realizzarsi come persona, come artista, scrive poesie e dipinge. Conquista il suo posto nel mondo, o la sua abitazione propria come direbbe Virginia Woolf. Donna estroversa, ipersensibile, insicura, instabile, con marcati tratti di egocentrismo, di narcisismo. Si aspetta troppo dalla vita, da se stessa, e come conseguenza, ha una bassa resistenza alle frustrazioni, contrarietà, ingiustizie, della vita. Vittima destinata a soffrire di depressioni, continui alti e bassi.

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Lucia

Carla

MARISA: la figlia, la madre, la sposa. Donna introversa, fragile, incapace di esternare i suoi sentimenti, di esprimere le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi sogni, rinserrata in se stessa. Sempre al limite del pianto, vive la vita sulla difensiva, come una minaccia, con una eterna sensazione di angoscia, di soffocamento. Non è capace di lasciarsi andare, né di godere con spontaneità, leggerezza, la vita.

MÉLANIE: la nipote, lei stessa. Donna indipendente, moderna, pragmatica, individualista, spontanea, laica. Militante della libertà, nel suo senso più ampio, anche se deve rinunciare all'amore. Suo motto potrebbe essere vivi e lascia vivere, e carpe diem.

GAËLLE: la nipote, lei stessa. Maestra di educazione infantile e madre di una piccola bambina. Riesce a conciliare senza alcun problema il lavoro fuori casa con quello dentro casa. Vive la vita con serenità, senza ansia, godendo il presente senza ossessionarsi con il futuro, con il risparmio. Viaggia spesso, ha molte curiosità. Essere donna non lo vive come una tragedia, come un handicap. È la prima generazione che sperimenta l'uguaglianza come un fatto, non come una aspirazione.

DELPHINE: la nipote, lei stessa. Appena dottorata in Farmacia. Tutta la vita in prima fila per sviluppare una brillante carriera professionale e personale senza nessuna limitazione sociale, culturale.

CORINNE-SYLVIANE: le nipoti, loro stesse. Con compagno e figli ma non sposate. Vivono la loro maternità come una decisione personale, non come un obbligo, una imposizione sociale, religiosa, familiare. Considerano un tesoro gli spazi di libertà, di solitudine. Intendono l'amore come libertà, non come legame. Fuggono dai rapporti chiusi, possessivi, l'incatenamento al focolare. Curiose, generose, idealiste, sensibili. Sentono la necessità ogni giorno di imparare dagli altri, senza chiudersi a nuove esperienze.

In conclusione, un mosaico di donne distinte, uniche, che nel suo insieme mostrano l'infinita ricchezza, contraddizione, dell'essere umano. Obbiettivo di tutte le opere d'arte degne di chiamarsi tali, è quello di avviare un metodo per la comprensione degli altri, del mondo che ci circonda. Un omaggio alla generosità delle donne, alla loro connessione con la vita, un dono che Alberto Cima ci fa senza infiocchettarlo, senza incartarlo.

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Mélanie

Gaëlle

Corinne

Contatti (2006)

ICome buon amico di Cioran, la Romania non è mi è aliena, il suo fatalismo tragico è il mio, un beffardo nichilismo che ha poco a che fare con la nostalgia dolciastra, fiacca, dei portoghesi, dei galiziani, degli asturiani. Il suo dolce far niente è nervoso, aggressivo, ci sono zingari precavernicoli, cupi, spagnoli incivili.

E quale modo migliore per conoscere un popolo che andare al centro dell'incendio, Timisoara, il luogo dove è iniziata la rivoluzione contro il fascista Ceaucescu, quando le fiamme in qualche modo sono state spente e è tornata la vita, nel 2006. Cima contempla le braci, e i germogli, con la serenità di chi da anni va percorrendo le sue strade confrontandosi con la gente. Una calma proverbiale, un'empatia, che impedisce che uno qualsiasi dei suoi progetti deragli nel turismo, nel folclorismo, nell'evasione, come la maggior parte dell'anoressico cinema postmoderno, in particolare in Spagna attraversato l'Ebro.

Perché Cima ora ha rimosso Bresson e Piavoli dal posto d'onore del mio regista preferito? Semplice, è infinitamente più vitale, empatico, emozionante, si lascia trasportare dal vivere. Fa film contemplativi

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Piazza Uniri a Timisoara

d'azione, a ritmo di videoclip, è brutalmente impulsivo e sensuale, eppure tenero e osservatore, animale vulnerabile, un intellettuale bruto. Un regista coi fiocchi come la chioma di due pini.

Cima non ha bisogno di fare cammei esibizionistici, onanistici, la camera è lui, non è solo un'appendice del suo corpo. Se qualcosa di interessante, di attraente, attraversa l'inquadratura, la camera, interagisce con esso, non è indifferente agli stimoli esterni, non prevale in lui la decisione razionale dell'inquadratura, l'idea precedente, preconcepita. I suoi film, il suo montaggio, si lasciano toccare, permeare, in realtà sono pezzi di vita vissuta, costruzioni nel presente, oggettività soggettiva.

La camera non dissimula, segue i suoi impulsi, i suoi istinti, anche sessuali, senza imporre giudizi, o pregiudizi. Il suo Nord, il suo Sud, è la bellezza incontrata, non programmata, una fontana, una scheggia, un gatto, un vecchio, un bambino, una donna, un uomo, tutto è raccolto, ritratto, con identica sensualità, gioia, allegria. Un francescano pagano, uno stare nel mondo che non teme il contrasto, il contrappunto, e non indulge alla malinconia, all'oscurità. Un cinema che non si guarda costantemente allo specchio, che si apre agli altri, a se stessi. Se Bresson, e Benning, sono registi scientifici, cerebrali, Piavoli, e soprattutto Cima, sono registi viscerali, estroversi, espansivi, e anche se pare una contraddizione, un paradosso, allo stesso tempo profondamente trasparenti, cristallini, credenti.

IIContatti. In spagnolo la parola contatti ha vari significati contrapposti. Uno positivo, stabilire relazioni con altra persona, o persone. Uno negativo, avere agganci con persone che ti facilitano le cose per clientelismo, non per meriti personali. E un terzo, relativo alla elettricità, quando si collegano due cavi per generarla, o quando si mette in moto ogni tipo di motore. Esistono anche la rubrica dei contatti dei giornali, un eufemismo per parlare di prostituzione, e contatto nel senso di intermediario di una organizzazione clandestina, vedi "Contatti" (1970) di Paulino Viota. Con questa varietà semantica a priori ci accingiamo alla visione della pellicola. A che tipo di contatti si riferirà Alberto Cima?L'inizio della prima sequenza sembra darci una pista, una serie di donne che sembrano prostitute che ancheggiano come in una sfilata di

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Complex Studentesc

Diana in attesa del concerto di Anna Lesko

moda. Luogo di contatti sessuali? La seconda parte della prima sequenza lo smentisce del tutto, come contrappunto alla bellezza delle precedenti donne, vediamo una serie di disgraziati mendicanti su una piazza di Timisoara (Romania), la stessa nella quale le donne stavano sedute su una terrazza d'un bar. Allora contatti nel senso di incontri casuali? Sicuramente, conoscendo i film e i libri di viaggio di Cima, realizzati in base a incontri fortuiti, fortunosi, magici, nelle vie, è la opzione più probabile. Contatti che siccome parliamo dell'umanista Alberto Cima e non del dilettante Woody Allen, non si limiteranno a una visione idilliaca, manichea, della città, al suo aspetto superficiale di bellezza immacolata per turisti. Ma che manifesteranno le sue contraddizioni, i suoi contrappunti, le sue miserie e grandezze, come nel libro fotografico "Una semana no más en la Habana".

In ogni film che si ponga come argomento, come soggetto, una città, un territorio, fondamentale è concentrare lo sguardo sulle persone, per cercare di mettere in luce il suo proprio ritmo. Quanto è diversa la tranquilla Tallinn dalla inabitabile Londra. Già dalla prima sequenza possiamo verificare che non siamo a Londra, Timisoara ha un ritmo lento, tranquillo, non opprimente, non asfissiante, è una città accessibile, vivibile. La gente è aperta, estroversa, le donne belle, affascinanti, come quelle di Kosice, con la differenza che là c'è la bionda bellezza nordica dagli occhi azzurri, e qui la mora dagli occhi neri, come le italiane, le spagnole, le arabe. E siccome siamo nel paese natale di Cioran, di Eliade, di Ionesco, oltre alla bellezza (la notevole grazia fisica si spiega in parte col fatto che quasi tutte le bambine rumene hanno praticato ginnastica ritmica o artistica, lo sport nazionale, seguendo il modello della famosa Nadia Comaneci) sono intelligenti, profonde, romantiche, gravi, filosofe, poetesse in potenza. L'impero Romano qui fece benissimo il suo lavoro, e in tutti i paesi di lingua latina, Italia, Spagna, Portogallo, Romania, Francia, ecc., per quanto tu gratti, finisci per trovare più somiglianze che differenze.

E risulta chiaro già dalla prima sequenza che Timisoara è molto diversa da Kosice e da Tallinn, è una città con molta più povertà, e miseria, malgrado il suo comune passato comunista. Le sue vie, piazze, ponti, sono pieni di mendicanti, di bambini che chiedono elemosina, un'immagine quasi esiliata dell'Europa Occidentale Capitalista, che relega le ingiustizie, le terribili disuguaglianze, alla periferia delle città, occhio non vede cuore non duole. Comunque, malgrado tutto, gli

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Lucia

zingari, nomadi, che costituiscono gran parte della popolazione rumena, nel corso della storia sempre sono stati perseguitati, ma sopportano il disprezzo con apparente rassegnazione, buon umore. Con l'allegria dei disperati, degli sfrattati, di quelli che vivono alla giornata, perché non sanno se ci sarà un domani, e se ci sarà, sarà sicuramente molto peggiore.

La Romania è uno dei paesi più poveri d'Europa, e in queste catastrofiche circostanze, è comprensibile che molti imprechino contro la democrazia, il feroce capitalismo, e rimpiangano la dittatura del sanguinario Ceausescu. La miseria era un poco più ripartita, come a Cuba, e il papà Stato almeno ti garantiva un tetto miserabile sotto cui vivere, un lavoro anche se abbrutente, e una alimentazione anche se scarsa. Il detto popolare per male che ti vada, c'è sempre qualcuno che sta peggio.

Timisoara, come Lisbona, è una città decadente, e insieme brulicante di gioventù, di vita, un luogo incantevole che cade a pezzi, letteralmente, e che sopporta la sua decrepitezza, la sua vecchiezza, con un sorriso ironico, e amore, molto amore, innocente amore.

"L'inferno non è altro che assenza d'amore." Dostoevskij

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Il parco delle Rose

In centro a Timisoara

Permission (2008)

IStabilito che il bianco e nero è una scelta e non una necessità, è più facile beccare gli impostori, quelli che lo utilizzano unicamente a fini estetici, decorativi. È il contenuto che decide il colore o la sua assenza. Una decisione che grazie alle camere e alla postproduzione digitale, si può prendere dopo aver girato, durante la fase di montaggio, quando realmente si fa il film. "Permission" non poteva essere una pellicola a colori, Londra non è una città allegra, di contrasti, oscilla tra il nero e una ridotta gamma di grigi. E se si fanno ritratti a colori, si possono fare partendo da un solo, e freddo, colore, l'azzurro, come fece Antonioni in "Blow-Up".

Londra è una città chiusa, inospitale, disumana, il suo ritmo pure. È di qui che il montaggio è più nervoso, accelerato, stressato, fedele riflesso della città, una città non fatta per le pause, per contemplare, per guardare, per andare a passeggio. Salvo per l'anziano del finale, che ciondola arreso all'assurdo, e sulla città disumana si inalbera bandiera bianca.

Una cadenza che si calma solo quando la città la abitano le persone, quando cessa di essere un semplice corridoio e si trasforma in una stanza dove stare, cosa quasi impossibile a Londra, dove perfino il

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L’occhio vigile della sicurezza

Il centro finanziario di Londra

tempo, il maltempo, la pioggia, il freddo, la nebbia sporca, si alleano per fare di lei un semplice luogo di transito, una stanza di hotel. Essere londinese è solo una descrizione, una toponimia, non uno stato, una natura. Una città in cui vivere non è permesso, esattamente quello che trasmette il film di Cima, che dissocia l'immagine dal suono, per mostrare lo sradicamento del londinese, dell'abitante, che sembra vivere di passaggio. Un'immagine, un suono, che solo si associano, si confondono, nei rari momenti in cui invece di sopravvivere, vivono.

"Quando lavoro con un fatto e desidero ritrarlo in maniera poetica, seguendo la sua naturale drammaturgia, la funzione di un documentarista si avvicina molto a quella di uno sceneggiatore di fiction, l'unica differenza alla base è che nel cinema documentario le carte non sono scritte per quelli che devono essere ripresi, ma per quelli che devono girare, gli operatori." Herz Frank

IIIl montaggio è l'essenza del cinema, il vero respiro dei film. E "Permission” è la lezione di montaggio più abbagliante delle ultime decadi, un manuale di efficacia, di precisione, dello stato di grazia. In pochi film ti resta la sensazione che ogni piano dura esattamente quello che deve durare, che la sua durata è quello che chiede il film, non quella che impone il regista da fuori, o le banali leggi di mercato. Non può durare lo stesso tempo l'inquadratura di un anziano di quella di un manager, quella di un'attesa di quella di un edificio. Le strutture a priori, e le geometriche regole, a posteriori, sono la zavorra del cinema che lo ormeggia al teatro, alla cattiva letteratura. L'impalcatura di un film, il suo ritmo interno, lo segnano le sue immagini, i suoi suoni. Ogni inquadratura, con l'immagine e il suono, deve essere trattata, coccolata, come se da quella dipendesse tutto il film, come se fosse l'ultima tessera di un castello di carte.

Ma "Permission" è molto più di questo, non è solo forma, è una magistrale analisi della realtà ostile, alienante, che può arrivare ad essere una città, delle sue profonde disuguaglianze sociali. Qualcosa di simile a quello che fece con più soggettivismo Chantal Akerman con New York in "News from Home", e la geniale girovaga Vivian Maier con le sue sincere fotografie sull'altra Chicago. Come Vivian Maier, Alberto Cima odia il turismo, la bellezza canonica, concentrandosi sulle persone reali, sui diseredati, sugli esclusi dalla storia del cinema, i poveri, gli emigranti, i mendichi, gli handicappati, i vecchi, i bambini, i

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Un anziano cammina perplesso

La bandiera bianca della resa

lavoratori. Contrapponendo a questa miserabile realtà la visione idealizzata della pubblicità, del cinema, della City, il quartiere finanziario di Londra. Isolando i rumori della città, il suo informe magma sonoro, per poterlo distinguere e disprezzare. Siamo tanto abituati a sentirlo, e sono tanto ottusi i nostri sensi, che non ci rendiamo più conto della sua pericolosa, onnipotente, presenza.

"Permission" è il lato-b di Londra, una contro cartolina. Ciò che il turista, il londinese, non vede, per troppo visto, o proprio non vuole vedere e far finta che la sua vita, la sua città, non sono un completo disastro.

"Ripeterò una volta ancora che il montaggio è la forza creatrice della realtà filmica, e che la natura solo apporta la materia con cui formarla. Questa, esattamente è la relazione tra montaggio e cinema." Pudovkin

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Millenium Bridge

Ora (2010)

IVedere in sessione doppia insieme con "L'orto di Flora" di Piavoli, e levitare con leggerezza.

IIOra. Il presente. Nostro unico bene. Quello che più sprechiamo. Passiamo la vita senza quasi fermarci a contemplarla, ammirarla, come se potessimo vivere eternamente, e sempre avessimo tempo per una seconda occasione. E non sempre c'è. Non occorre ricorrere a Eraclito e al suo non ci immergiamo mai due volte nel medesimo fiume, per

rendersi conto che ci sono momenti irripetibili, unici, che se non si guardano e non si vivono con intensità, nemmeno lasciano traccia. Viviamo circondati da miracoli, da prodigi, che sorge il sole tutti i giorni già lo è, e non gli diamo l'importanza che merita. Tutto ci sembra naturale, abituale, e poche cose, salvo il lavoro alla catena, lo sono in verità.

Cerchiamo disperatamente qualcosa di superiore, di trascendente, in cui credere, che dia senso alla nostra vita, o meglio alla nostra morte, e ci dimentichiamo completamente che i motivi per credere, per vivere,

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Costa sarda di Stintino

li abbiamo a portata di mano, sotto gli occhi. Guardare, osservare, ammirare, è la vera religione, il nostro pane quotidiano. Cima sa guardare, e bene, condividere il suo sguardo, quello che in altro regista sarebbe paesaggismo, estetismo vuoto, in lui è uno sguardo partecipe, puro, senza pretenziosità, formalismo, come quello di Franco Piavoli. Entrambi guardano le cose come per la prima volta, come se fosse lo sguardo di un neonato.

Tutto è bello se si sa guardare, se si ha la pazienza, l'empatia, di lasciare che si mostri in tutto il suo splendore. Il riflesso del sole su un transistor, le tracce di pioggia recente su una sedia in giardino, una fronte solcata da rughe, possono essere, sono, tanto belli come un'alba o un tramonto. Uscire per strada, sentire il profumo di casa, è un continuo parco di divertimenti, la constatazione che tutto l'universo può stare dentro una bottiglia, ridurre è estendere. La vita è uno spettacolo visivo, sonoro, che esplode da tutti i pori, da tutte le fenditure.

"Ora", come "Il pianeta azzurro" e "L'orto di Flora" di Piavoli, è un promemoria, in immagini e suoni, del fatto che non siamo il centro della creazione, dell'universo, e che formiamo parte di un tutto, globale, universale. Una integrazione perfetta con la vita, con la natura, con le cose che abbiamo dimenticato ai piedi del cemento, della vanità. E che Alberto Cima illumina con il suo abituale sguardo inquieto, curioso, dettagliato, che non si attarda mai in un eccesso di contemplazione per conferire esattamente lo stesso valore a tutto ciò che viene guardato, ammirato. Un cinema mistico, sublime, profondamente cristallino, trasparente, capace di convertire l'irruzione di un molesto moscone, in un momento epico, unico, indimenticabile, cinematografico. Moscone!

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Rocce di OruneVacche sull’arenile di Teulada

Donna a Lollove (Nuoro)

Angelo in Francia (2011)

O la parola, la oralità, restituita al suo ruolo primigenio, quello di custodire la memoria, la conoscenza popolare. La parola nel cinema spogliata della sua funzione drammatica, teatrale, enfatica, retorica. La parola come comunicazione, come dialogo tra passato e presente, come mezzo per esorcizzare fantasmi personali, collettivi, per renderli visibili, sopportabili. La parola come immagine. Il cinema come confessionale laico. La testimonianza vivente di Angelo scritta in forma di diario, di romanzo, o di intervista, perderebbe gran parte del suo valore, della sua potenza evocatrice, creatrice.

La sua difficoltà ad esprimersi correttamente in italiano, o meglio la confusione mentale con il francese, dice dei suoi anni passati all’estero come emigrante più di cento fotografie o lettere. La sofferenza che si indovina sul volto, la forza che trasmette nel modo che ha di aggrapparsi alla poltrona con le sue poderose mani di lavoratore, è più trasparente, precisa, di qualunque descrizione, di una qualunque sfilza di aggettivi. Angelo comunica vitalità, forza, anche seduto in poltrona, nella quale si sente a disagio, come legato, il contrario di ciò che

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Angelo Zois

trasmetteva Battista (“Il giardino di Lucia”) nella sua di poltrona, qualcosa che è impossibile da rendere per scritto. Angelo resuscita, rivive, la storia di suo padre, di sua madre, senza la necessità di mostrarne le foto, come fa Alberto Cima nella sua brillante autobiografia scritta dell’infanzia.Come in tutte le sue grandi pellicole, Cima compie un avvicinamento formale progressivo al personaggio, parallelo all’aumentare della confidenza, alla cancellazione della camera. Dal rispettoso piano medio dell’inizio, nel quale Angelo è un tutto con la luminosa stanza, un corpo, al primo piano sereno, fiducioso, in cui Angelo diventa un volto, una persona. Passiamo dall’esterno all’interno, dalla distanza alla prossimità, dal guardare la camera al guardarsi dentro, dal racconto all’emozione. Indimenticabile il suo sorriso quando ricorda la madre, lo sguardo perso, assorto, in ciò che narra. Nel presente manifesta nostalgia ma non rammarico, l’emozione sincera che trabocca quando ricorda il sacrificio, l’affetto non esibito dei suoi genitori, come gioca nervoso con i pollici quando parla della tragica perdita dei suoi figli (che tanto ricorda la storia del nonno Augusto di Alberto Cima). E di nuovo torniamo al piano medio per parlare dell’emigrazione in generale, della Storia con la maiuscola, quella che dimentica le persone, che le converte in semplici pedine di una ingiusta scacchiera. Proprio il contrario fa Cima con “Angelo in Francia”, rende visibile, conferisce grandezza, alla storia vera, la storia con la minuscola, quella delle persone comuni, semplici, che malgrado le sofferenze, le contrarietà della vita, affrontano tutto con coraggio, con speranza, con spiritualità. La meravigliosa arringa in favore della vita di Angelo nel finale, preceduta dall’emozionante visione delle fotografie dei suoi figli, tanto vivi come il ricordo che lui ne conserva, perché per Angelo noi vivi siamo una luce per i morti, e i morti una luce per il nostro cuore.

La trilogia sull’emigrazione di Alberto Cima (“Una vita altrove”, “Il giardino di Lucia”, “Angelo in Francia”) è un manuale, senza discorsi, senza lezioni dal pulpito, di cinema allo stato puro, senza manipolazioni, come “D’amore si vive” (Silvano Agosti), di vita vera, piena, autentica. “Angelo in Francia” è la “Shoah” (Claude Lanzmann) del quotidiano, della tragica, silenziosa, esistenza degli emigranti, del loro coraggio, della loro onestà, della loro purezza vitale.

“Io se ho un poco di pane e un poco di vino, per me è sufficiente.” Padre di Angelo

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Angelo nella sua casa di Lalley (Grenoble)

Sua figlia

Only Wave (2012)

Non sono tanto ottimista da pensare che un giorno la bellezza, nel suo senso più ampio, sarà capace di salvare il mondo. Però intanto, non c'è dubbio, è quello che fa l'esistenza più sopportabile, più piacevole. Senza le donne, senza i bambini, il mondo sarebbe completamente irrespirabile, sarebbe preferibile rimanere ciechi. Metto a verbale che non tutte le città sono uno spettacolo da vedere. Ci sono quelle che sono belle in sé, Lisbona, e altre come Salamanca, Cordoba, Tallinn, Kosice, e in generale quasi tutte le città dei paesi dell'est, che lo sono per la bellezza delle loro persone, delle loro donne. Nel caso di Salamanca è tutto concentrato, molto limitato, dal Ponte Romano a Plaza Mayor, più l'esotico aggiunto Erasmus, che sempre aiuta. Nel caso di cui ora ci occupiamo, Kosice (Slovacchia), "Only Wave" di Alberto Cima, è il maggior spiegamento per metro quadrato, per fotogramma, di bellezza femminile, di gambe interminabili, che si sia mai visto, un autentico collirio per gli occhi.

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Con Dalibor Hogya e Anita Fabrici

Jakabov palác a Košice

E non solo donne, è impagabile vedere gli zampilli d'acqua di una fontana ballare al ritmo delle campane, piano degno di Val del Omar, le nozze, con il brutale contrappunto del mendicante in primo piano, la corsa dei bambini, la faccia desolata della bambina che sbaglia un accordo al pianoforte. Sorprese, doni cinematografici, come la ripresa della statua che sembra sbirciare con la coda dell'occhio le preziose gambe della donna seduta di fronte, capace di resuscitare un morto non solo una statua, i giochi degli innamorati nel parco, la coppia di anziani che passeggiano a braccetto. "Only Wave" è un'ode alla bellezza quotidiana, incontrata per strada, all'amour fou, all'amore folle, dei surrealisti. Un omaggio al piacere di guardare, letteralmente, nella sua componente più sensuale, più di pelle. Una continua, costante, ricerca della bellezza, della grazia, della tenerezza, dove si vorrebbe che fosse, e Cima non si vergogna di ciò, non dissimula, non utilizza il sotterfugio di una narrazione, di un pedinamento, per nasconderla, come fece Guerin in "La città di Silvia".

Cima in "Only Wave" è lo spettatore privilegiato, l'anfitrione, l'interlocutore perfetto, che ci conduce di prima mano, con il suo sguardo diretto, senza filtri né distanze formali, per gli intricati e variopinti passaggi impervi della bellezza in tutte le sue manifestazioni, forme, inclusa la morte, l'appartato cimitero, con gli apporti sonori. La onnipresenza del melodioso suono delle campane, il flauto dolce, la chitarra acustica, il clarinetto dell'ubriaco, il cinguettio degli uccelli, il vento, che sommergono il film in un'atmosfera quasi onirica, di favola, o di ossessione quando arriva la notte. Sensazione rafforzata

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Michaela Kovalcikova, al centro Lenka Brisiakova, sotto Daria Fabrici

dall'evanescente presenza di una vera principessa da fiaba, la dama in rosa, che con il suo incredibile sorriso, e i suoi begli occhi tristi, trasforma la visita a un museo di scienze naturali, pieno di animali imbalsamati, in qualcosa di vivo, in un valzer. La camera si innamora di lei, e anche lo spettatore. Come contrappunto equilibrato, la vediamo anche soffrire.

Accade come in "Tallinn lieve", dopo aver visto "Only Wave" hai l'impressione di conoscere Kosice, al meno dal di fuori, hai la sensazione di esserci stato. Una gran passeggiata, una rilassante camminata di domenica in una città sconosciuta, accompagnati, tenuti per mano, da un gruppo di bellissime donne, quasi irreali tanto sono belle, capaci di illuminare il giorno più nuvoloso. Può darsi che la bellezza sia qualcosa di superficiale, transitorio, che la vera bellezza abiti dentro, almeno così dicono i brutti, però a nessuno sembra amara un dolce visione, e per un attimo è bello ammirarla, e per giunta gratis.

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Festa studentesca, al centro Anita , sotto Lenka

Il vecchio e la ragazza (2014)

"I vecchi sono come i coccodrilli, che non cambiano facilmente direzione..." Italo Svevo

Qual è il sogno d'oro di ogni cinefilo? Esattamente quello di qualunque melomane, cioè ascoltare un concerto del gruppo o solista preferito nella città che ama. Ma in questo caso è molto più di questo, il mio solista preferito, Alberto Cima, non è venuto a Salamanca, l'unica città al mondo che è necessario toccare, per fare turismo, tenere una conferenza o un concerto, è comparso in città per offrirle una delle sue geniali pellicole, "Il vecchio e la ragazza".

Da quando ho visto la prima volta il meraviglioso "Tallinn lieve", un sogno ricorrente era che Salamanca meritava un film di Cima, e che Cima si meritava Salamanca. E per essere sincero, mai pensavo che questo sogno un giorno potesse diventare realtà, carne cinematografica. Questo desiderio è diventato sempre più grande dopo la visione di "Permission", "Contatti" e "Only Wave", fino a convertirsi in una ossessione, quella di scoprire il ritmo vitale, cinematografico, intimo di Salamanca. Qualcosa che è capace di fare

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Débora Cristina Borges a Salamanca, in Plaza Mayor

solo Alberto, che estrae dalle città nelle quali gira, in cui si immerge, la loro essenza, il loro respiro. Buttai là questo suggerimento, questo sogno, en passant a Alberto Cima, come chi affida al mare un messaggio in bottiglia perché arrivi al nuovo mondo, cioè con gioia ma senza speranza. E insperatamente ricevo da lui come dono dell'anno nuovo, dai Re Magi, una lettera che annuncia la buona novella, che il sogno è condiviso e sta per vedere la luce, habemus pelicula!, la pellicola più importante della mia vita come spettattore, già dalla sua gestazione, il sogno è realizzato.

Le seconda grande sorpresa, il titolo del film "Il vecchio e la ragazza", che come la madeleine di Proust, immediatamente mi fece ricordare un libro, "La novella del buon vecchio e della bella fanciulla", un romanzo breve di uno dei miei scrittori italiani preferiti, Italo Svevo ("Senilità", "La coscienza di Zeno"), che nella sua prima edizione della casa editrice Montesinos (1988) veniva venduto nella mia libreria "Fassbinder" (che era situata nella calle Fray Luis de León, proprio dove lui è stato ingiustamente imprigionato. La sua statua spicca davanti all'Università di Salamanca). Le casualità non finiscono qui, il principale motivo del mio interesse per Italo Svevo, è la grandissima scrittrice di Salamanca Carmen Martín Gaite, che si impegnò a tradurre il mio libro preferito di Svevo "Senilità". Il rapporto tra Salamanca e Italia già si stava intrattenendo da anni, e finalmente grazie al geniale regista italiano, il film ha avuto la sua forma e rivelazione, la sua spilla d'oro, la sua doratura. Il titolo, al di là del contenuto, non poteva essere più appropriato, più esatto per definire Salamanca, è una metafora della sua anima. Una città sobria, forte, fin dal suo clima "Nel mio paese le stagioni non hanno nessuna forma e la primavera e l'estate e l'autunno e l'inverno si incrociano senza il minimo rispetto" (Miguel Delibes), invecchiata, maturata, con la sua storia, percorsa ogni giorno da migliaia di giovani universitari provenienti da tutte le parti del mondo. Giovinezza e vecchiaia convivono quotidianamente nelle sue vie, senza esclusioni, producendo un vitale contrappunto. La bellezza della gioventù si vede potenziata dalla bellezza non appariscente, matura, della città, delle sue pietre cotte, innocenza e conoscenza sono complementari, passeggiano insieme pianin pianino, con il medesimo ritmo.

E qual è il ritmo di Salamanca? Il “Ritmo lento” di Carmen Martín Gaite. Un ritmo tranquillo, placido, riflessivo, adatto a passeggiare,

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Convento San Esteban Los Dominicos

pensare, scrivere, che molti classificano come provinciale, e che semplicemente è un passo più umano, sopportabile. Un ritmo mite che poche volte ha avuto una fedele trasposizione al cinema. Le pellicole amatoriali di Luis Cortés ("Salamanca e il perché di una città", "Una domenica", "Il fiume"), e quelle professionali di Basilio Martìn Patino ("Nuove lettere a Berta", "Ottavia"). Nel primo caso fanno un elogio a questo ritmo lento, concentrato, e nel secondo, come critica, denuncia dell'immobilismo, chiusura di provincia. Il film di Alberto Cima è molto più vicino alla prima posizione che alla seconda. Salamanca non è una città che regala intimità, libertà, a piene mani, come Madrid, bisogna conquistarla, cercarla, nelle sue fessure, nelle sue viuzze. In Salamanca le parole peccato, trasgressione, lussuria, tuttora hanno un senso rituale, liturgico, magico. Unamuno, suo grande difensore, fu quello che la fece meglio comprendere: "Sento una grande affezione per la vita provinciale, perché in essa è più facile scoprire dalla base di un'apparente calma la tragedia." "E quelli che dicono di annoiarsi in una piccola città? È perché non hanno toccato i loro abissi tragici, la severità solenne del fondo della sua monotonia." “Immobilità e chimere! Salamanca!”

Alberto Cima, come Yasujiro Ozu, sente la necessità in questo film di porre la sua camera molto più spesso a terra, perché a Salamanca, in Castiglia, per vedere le cose chiaramente, ampiamente, per contemplare il cielo, non c'è da salire in alto, né allontanarsi, si deve mettere il piede, il corpo, a terra. Il cielo di Castiglia, come direbbe Delibes, è alto perché lo avrebbero alzato i contadini a forza di guardarlo, non ci stanchiamo mai di farlo. In Castiglia il cielo è il nostro mare, il nostro orizzonte verticale, e tornando a Delibes, il giorno in cui in cielo ci sono nuvole, la terra sembra cielo e il cielo la terra. Il "Cielo di Salamanca" (Patio de Escuelas Menores) non è un osservatorio astronomico a cielo aperto, è una cappella interiore, stellata.

Può un italiano, una brasiliana, fare un film profondamente castigliano, salmantino? Non solo possono, come dimostra "Il vecchio e la ragazza", ma devono. Le cose si vedono meglio a distanza, senza pregiudizi, senza la vista anestetizzata, accecata, dall'abitudine. Cima fissa il suo occhio partecipe, trasparente, nell'essenza della città, il suo cuore, quello che va dal Tormes alla Plaza Mayor. Lo scopritore, per meglio dire, conquistatore, il genovese Cristoforo Colombo, torna a Salamanca, che coincide con l'inizio, fallito, del suo sogno indiano, reincarnato nel bergamasco Alberto Cima, per mostrarci, facendoci

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Accanto alla Cattedrale

sognare, un mondo nuovo, più puro, più limpido, dove regnano i giusti, i buoni. Qui c'è una comunione diretta con la vita, con il sacro, con Dio, senza necessità di intermediari, senza avere l'etichetta di padrone o di schiavo, di comandare o di obbedire, in completa libertà, anche di sbagliare.

Una vita reale, autentica, nella quale tutto coincida con i nostri veri pensieri, sentimenti, sogni. "La libertà, Sancho, è uno dei più preziosi doni che agli uomini diedero i cieli; con quella non si possono uguagliare i tesori che la terra rinserra e il mare nasconde; per la libertà, così come per l'onore, si può e si deve rischiare la vita." (Don Chisciotte de la Mancha, capitolo LVIII, seconda parte).

Con l'aiuto dello sguardo puro, libero da pregiudizi, auto-limitazioni, freni culturali, del suo fedele scudiero Sancho, la conquistata, l'indigena brasiliana, Débora Cristina Borges. Che potrebbe sottoscrivere parola per parola, virgola per virgola, i seguenti versi del suo conterraneo, il geniale poeta Carlos Drummond de Andrade: "Amore, perché è

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Orto di Calixto e Melibea

essenziale parola / inizia questa canzone e la copre. / Amor guida il mio verso, e nel guidarlo / riunisce anima e desiderio, membro e fica”. "Il culo, che grazioso. / Sorride sempre, mai è tragico." Debora grazie al suo sguardo innocente, esigente e brutale, ci ricorda che le cose non sono né belle né brutte, né vecchie né nuove, in sé, ma a seconda del modo in cui le guardiamo, le tocchiamo, le sentiamo. Da noi dipende che le cose appaiano ogni giorno davanti ai nostri occhi come appena inaugurate, libere dalla routine, dall'abitudine, da complessi. Esattamente lo stesso ringiovanimento che proviamo noi spettatori dopo aver passeggiato, saltato, con la nostra particolare Venerdì, Debora, che come Robinson

Crusoe, il conquistatore conquistato, ci apre gli occhi, i centri nervosi, a base di vitalità, di egocentrica adolescenza allo stato puro, o meglio infanzia in pieno transito verso il deludente, materialista, mondo adulto. "Il vecchio e la ragazza" è un canto di andata e ritorno (insieme con tocchi di flamenco che vengono dalla musica popolare latino-americana), dell'entroterra dell'Avana: "Vieni, mio amore, vieni, / e faremo il nido nel granaio, / in una terra in cui non ci sono palme / ma troveremo tesori.” (canzone dell'Avana "In una terra dove non ci sono palme")

"Il vecchio e la ragazza" è il contrappunto della precedente pellicola "Only Wave" (2012), la vera forma del romanzo "Il gabbiano" di Sandor Marai. La muta, distante, più oggettiva, idealista, contemplativa, atarassica, visita all'appartata città di Kosice, guidata da una collezione corale di donne che da tanto abbagliantemente belle finiscono per risultare irreali, come angeli belli, si trasforma in una loquace immersione condivisa in una bellezza autentica, reale, vicina, umana,

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Accanto alla Cattedrale

Débora Cristina Borges. Tutta la bellezza, passione, innocenza, della gioventù, che costituivano "Contatti", film che respira un'atmosfera simile a questa, incentrato su un personaggio unico, lucido. "La morte e la fanciulla" versione realista, ottimista, un promemoria dell'effimero, transitorio, che è la vita, la giovinezza divino tesoro che se ne va per non tornare più di Ruben Dario. Alla fine del viaggio condiviso intuiamo tracce di lacrime sul viso di Debora, non stiamo più di fronte a lei, l'accomiatata, la giovinezza di nuovo ci volta le spalle. La giovane di oggi, Debora, è la stessa vecchia di domani, come Alberto Cima, due facce della medesima croce. Una specie di seconda

parte di "Mani" in versione esterni, nella quale Debora, la giovinetta, guarda, tocca le cose, le pietre ancestrali, le statue, le colonne, con la stessa sacra naturalezza, tenerezza, con cui Antonioni accarezza, riconosce le statue nel suo testamento filmico "Lo sguardo di Michelangelo" (2004). “Una città dove il passato dell'uomo è incisa su ogni pietra.” (Leonardo Sciascia).

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La vita come gioco, come commedia dell'arte, in cui non facciamo altro che attuare, rappresentare un ruolo che quasi sempre è più grande di noi. Un desiderio di pienezza, di intensità, che la nostra precaria, debole, armatura, il cuore, non potrebbe sopportare. Di qui la necessità del linguaggio della poesia, del cinema, per esprimere, esaltare, sublimare, i nostri sentimenti, i nostri aneliti, per avvicinarli al nostro ideale, al nostro rimpianto paradiso perduto, l'infanzia. Qui si incontrano i due piani più belli del film, l'yin e yang dell'infanzia, il suo lato più luminoso, le bambine che saltano, che volano, mentre giocano alla corda, puro presente (senza dimenticare il sonoro fuori campo della bambina che ride sotto i titoli), e il suo lato più tenebroso, più tenero, lo sconsolato, e accusatore, pianto della bambina dell'inizio. Equilibrio. Niente è perfetto. Né la giovinezza è un valore in se stessa, tanto meno la vecchiaia. Cima contrappone all'insulsa arte urbana attuale le solide manifestazioni artistiche del passato. Ai graffiti, le pitture murali nelle vie, la statua umana performance di pseudo-scultore, le invasive, taglienti sculture di metallo, contrappone le cattedrali, i cortili, le inferriate, le pale d'altare, l'iconografia religiosa. Dimostrando che il nuovo, il presente, non sempre è migliore. Che la gioventù ha bisogno della vecchiaia, della tradizione, di una cornice appropriata, bella, accurata, per brillare, risaltare. L'illustrazione ironica del finale, della trasgressiva anti-berlusconiana canzone dell'extraterrestre Franco Battiato: "Mi basta una sonata di Corelli, perché mi meravigli del Creato."

Malgrado l'apparenza di pellicola amabile, contemplativa, "Il vecchio e la ragazza" nasconde un grande carico di anarchismo nel suo seno, inveisce contro quasi tutto. Contro i tori, il maltrattato animale, "cosa fanno agli animali, mi fa schifo"; contro la religione, sicura che i religiosi godano con le provocatrici frasi che la protagonista dice, sbrigativa e convinta: "il sesso è di gran lunga il meglio che ha creato Dio " o "il paradiso, se lo creiamo, sta qui": contro l'ipocrisia della società; contro il maschilismo, con il meraviglioso "hijo de puta" al maltrattatore della mendicante, non meno geniale del "hijo de puta" dedicato al medaglione di Plaza Mayor del fascista Franco; contro le dittature; contro l'imperialismo; contro i nazionalismi, l'espressione schifata che fa quando legge una scritta che dice "Castilla libre"; contro il matrimonio eterno, "a trent'anni di matrimonio vuoi vedere tuo marito morto"; contro la gerarchia ecclesiastica e la sua complicità nei massacri degli indigeni, impagabile vedere come chiede a un domenicano che

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Clerecía, Università Pontificia

cosa pensa del genocidio dei conquistatori, che detto da una brasiliana assume maggior peso e senso; contro la venerazione delle immagini sacre fatte da uomini (iconoclastia); contro l'elitismo, sdraiata sull'altare di una chiesa, e con disprezzo: "Ti senti grande, superiore?"; e soprattutto contro l'amore (né più né meno come nell'Orto di Calixto e Melibea ("La Celestina" di Fernando de Rojas) insieme con gli italiani Romeo e Giulietta, e gli amanti di Teruel, tonta lei tonto lui, i paradigmi dell'amore romantico), l'odio con cui dice l'amore non esiste, lo schifo per l'amore da cartolina di san Valentino, per gesti falsi, vuoti, come i

lucchetti sui ponti, (moda importata dall'Italia, grazie all'infame scrittore Federico Moccia), come i mazzi di rose, come gli slogan pubblicitari amorosi del tipo l'amore è meraviglioso, la cosa più importante della vita, che sognano uguali luoghi comuni, vuoti, in qualunque lingua, che la protagonista recita con enfasi, con ironia, in spagnolo, in italiano, in inglese. Questo film difficilmente potrebbe essere mai proiettato a Salamanca in condizioni normali, o istituzionali, perché come succede con Siviglia, è ancora una città con abitudini medioevali, inquisitoriali. Non per niente Salamanca è detta la Andalusia di Castiglia, per la bellezza, la grazia delle sue donne, arabe dentro. Tutte queste crudeltà, verità come pugni, dette con naturalezza come se fosse un inoffensivo gioco infantile, dalla cara ragazza con corpo di donna Débora Cristina Borges. Che con la sua sola presenza

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Clerecía

fisica, con i suoi espressivi gesti, la sua carnosa bocca, la sua esplosiva massa di capelli ricci, il suo dolce accento sudamericano, il suo deciso tacchettio, irradia ingenuità, espressività, sensualità, freschezza, spontaneità, in tutto ciò che fa. Fungendo da contrappunto vitale, ottimista, alla deteriorata città di Salamanca, al vero tema del film, una profonda riflessione sulla vecchiaia, sull'inesorabile scorrere del tempo, sulla morte, il tema castigliano, salmantino, per antonomasia.

Non è per caso che la pellicola comincia con la storia del teschio con una rana sopra, sulla facciata dell'Università, e nemmeno che si vedano statue di corpi distesi, una mosca morta, e un cipresso, l'albero dei morti, "La tua morte, la mia morte, quella di tutti." E nemmeno involontaria è la ricorrente apparizione di pozzi, nel loro doppio, e contrapposto, significato, il pozzo come abisso, come sinonimo di morte, e come depositario dei nostri desideri. Una mescolanza tra "Il pozzo e il pendolo" di Poe, e la favola sulla bellezza delle "Confessioni" di Tolstoj. La eterna ambivalenza della vita, della morte, la continua lotta, la scelta tra bene e male, tra luce e oscurità. Cima, emulando Felix de Montemar, il nichilista che fu studente a Salamanca de Espronceda, non dà nessuna importanza alla maledizione della rana, il castigo per la lussuria, per i peccati della carne, sfidando la morte, e Salamanca, con una pellicola carica di sessualità, di civetteria, di sensualità senza dissimulazioni né pregiudizi per la differenza di età, come il re David, o i protagonisti de "La casa delle belle dormienti" di Kawabata e il film "Rosso" di Kieslowski. Si trasforma coscientemente in un satiro, in un pagano peccatore, viveur, in un edonista, in un panteista senza senso di

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Centro storico di Salamanca

colpa né rimorsi. Non ci limitiamo a seguire, a inseguire, la ragazza, diventiamo il suo amante, il suo confidente. Lei parla con noi, come se realmente la camera non esistesse. Lo spirito si fa carne, letteralmente, parola, nel film di Alberto Cima, per adattarsi alla gravità, corporeità salmantina.

E attribuisce un maggior peso specifico alla parola, alla filosofia, alla letteratura, che nel resto della sua filmografia. Facendo onore al glorioso passato, e al presente, letterario, della sentenziosa Salamanca, città nella quale la cultura, la profondità, si sente, si presenta in ogni pietra, in ogni piastrella, in ogni colonna, parti integranti della natura e del paesaggio. “El Lazarillo de Tormes”, “La Celestina”, “El licenciado vidriera”, “Niebla”, “Entre visillos”, Teresa de Jesús, Fray Luis de León, Cervantes, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Diego de Torres y Villarroel, Espronceda, Gabriel y Galán, Unamuno, Carmen Martín Gaite, Laura Rivas Arranz, Escolástica Hurtado (la Pensatriz Salmantina), Matilde Cherner, Ángela Barco, Torrente Ballester, e tantissimo altro. È il film in cui Alberto Cima più si espone, si lascia coinvolgere, personalmente, entrando come personaggio, onnipresente in tutta la pellicola, anche se è fuori campo, eccettuato il

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piccolo cammeo nel riflesso del portacipria della protagonista. Il vecchio del titolo che la protagonista sta continuamente beccando, prendendo in giro, provocando, stimolando, con la sua contagiosa, arrogante vitalità e loquacità.

Carina persino quando utilizza male il castigliano, conservista invece di conservatore, oppure quando le cose le ripete due volte con infantile enfasi. Con i suoi innocenti, sfrontati, giochi infantili, come il giocare alla coppia, fingere di essere più grande, adulta, di essere attrice, di sapere l'italiano. E con lui, Alberto, e con noi spettatori, che veniamo trattati con il distacco del lei, passando al tu man mano che procede la pellicola e cresce la confidenza, arrivando persino a portarci a letto, per dormire, la protagonista non crede nel sesso con sconosciuti, e nel sesso senza sentimento. In definitiva, una esaltazione della natura, gli impressionanti tramonti invernali salmantini, la vita senza grandi complicazioni, ossessioni, ansie, il piacere, il mangiare, il bere, scopare, dormire, come regole sacre da coltivare ogni giorno. Il presente, presente, presente, presente, di Juan Ramón Jiménez. Il vivere non è difficile, potendo poi rinascere cambierei molte cose, un po’ di leggerezza e di stupidità di Franco Battiato. Una apologia della gioventù, della vita vissuta in pienezza, come contrappunto alla vecchiaia, alla morte, vissuta in una città vecchia, venerabile, come Salamanca, che non nasconde la pancia che ha messo su, non dissimula con il belletto la sua decrepitezza, il suo inarrestabile declino. Tanto meno Cima, alter-ego della città, lo fa, non maschera, non cancella nell'inquadratura i ponteggi, le palizzate di cantiere, gli

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Le cicogne annunciano la primavera a Salamanca

immobili cadenti, la conchiglia rotta, le colonne rovinate, la sporcizia dei vecchi edifici.Nonostante tutto, i molti acciacchi, l'invecchiamento della popolazione, Salamanca è una città viva, bella, che si vanta delle sue rughe, delle sue carie, come il meraviglioso anziano che trascina l'ombrello giocando come un bambino. E tutti gli anni Salamanca è invasa con puntualità britannica dalle simpatiche cicogne, preludio di primavera, stagione dell'amore, nel ciclico rinnovamento della vita. Le cicogne inondano, visivamente e sonoramente, con il loro

caratteristico picchiettio, il loro clap, clap, clap, che richiama una raganella infantile, la vita quotidiana dei salmantini. Costituendo, insieme con gli ordinati, musicali, rintocchi delle campane, la identità sonora di Salamanca, la sua indimenticabile filigrana. Continueranno a portare i bambini le cicogne, o dovremo prenderli su Amazon?

"Quando ci penso la società si allontana sullo sfondo con le sue precarie consuetudini plasmate nel tempo. Vedo invece il mio corpo e la mia mente agitarsi, compiere scelte, tracciare percorsi dentro il bene e il male. E capisco che la libertà è necessaria. Vivere veri, nutrendosi dell'autenticità e della verità di tutti. Sentire in sé la vita. E il miracolo della bellezza. Un dono."Alberto Cima (dal libro "Gratiae, 2013)

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Plaza Mayor

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SCHEDE DEI FILM

1- DE GAULLE E GRONCHI A BRESCIAAnno: 1959 Durata: 42 secondiSoggetto: Prima ripresa di Alberto Cima, a15 anni, durante la sfilata dei due presidenti in Via XX Settembre, in occasione del centenario della battaglia di Solferino.

2- VITA DI UNA PIAZZAAnno: 1961 Durata: 6 minCopyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Interpreti: Roberto Colombo, Giovanni Mazzolari, Emiliano VannettiSoggetto: Il mercato in Piazza Rovetta a Brescia: aspetti umani e sociali.

3- ALLA RICERCA DELLA PACEAnno: 1962 Durata: 8 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Interpreti: Claudio Peretti, Franco Adorni, Giuliano Cattina, Roberto Colombo, Sandro Levi, Giovanni Mazzolari.Soggetto: Il disagio della civiltà: un giovane sogna un’alternativa d’armonia nella natura.

4- OSLOAnno: 1962 Durata: 19 min. Copyright: Alberto Cima 

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Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Soggetto: Il fascino della razionalità d’una grande capitale.

5- UOMINI AL FORNOAnno: 1963 Durata: 19 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSoggetto: Inchiesta tra gli operai dell’acciaieria Ilfo di Alessio Pasini a Odolo in Valle Sabbia (Brescia) su temi fondamentali: casa, famiglia, denaro, politica.

6- SOLO TRA IL VERDEAnno: 1964 Durata: 9 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Collaborazione ai titoli: Vincenzo Maniscalco Interpreti: Mario Fincato, Laura Canepa, Silvana Sighinolfi Soggetto: Uomo e natura: l'ansia di un giovane che scopre l'impossibilità di comunicare.

7- KIREMBAAnno: 1966 Durata: 25 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima 

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Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaVoce: Ermes Scaramelli Interpreti: Bruno Cottinelli, Mario Finocchio, Claudio Gasparini, Raabe Günter, Luigi Melgari, Gianmichele Portieri, Vincenzo Bettoni, Père Detry, don Belotti, don Arrigotti. Soggetto: Girato in 8 mm nel dicembre del 1965 in Burundi, descrive la vita della missione di Kiremba, donata al Papa Paolo VI dall'amministrazione comunale di Brescia. Alcuni obiettori di coscienza laici prestano servizio con suore e sacerdoti, e insegnano il lavoro di carpentiere alle persone che vivono nella zona.

8- GIORNO DI MERCATOAnno: 1966 Durata: 8 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Soggetto: Girato a Brescia, in piazza Vittoria durante il mercato settimanale. Le persone, tra le bancarelle, viste con ironia e sarcasmo.

9- LA LOGGETTAAnno: 1966 Durata: 12 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Con la collaborazione di Roberto Colombo Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaInterpreti: Mina Mezzadri, Renato Borsoni, Aldo EnghebenSoggetto: Backstage di "Finale di partita" di Samuel Beckett: attori della compagnia teatrale La Loggetta di Brescia parlano di teatro.

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10- ALLUVIONEAnno: 1967 Durata: 9 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Soggetto: A Castelmella (Brescia) straripa il torrente Mella e la popolazione si dà da fare per liberare rapidamente le case dall'acqua e dal fango.

11- L'ISOLAAnno: 1968 Durata: 56 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono: Vincenzo Maniscalco Interpreti: Mauro Barcellandi, Paola Ratti, Milly Corica, Fernanda Nodari, Vincenzo Maniscalco, Edda Manenti, Mario Carraro, Antonia Taglietti. Musica selezionata da Costanzo Gatta e Bruno Provezza Soggetto: Un giovane universitario alla disperata ricerca di un senso, nella vita, nella società, in se stesso, aperto a captare i segreti messaggi irradiati da un corpo, uno sguardo, un fiore.

Critica: Montecatini 11 luglio del 1968. “L'isola” di Alberto Cima 8 mm. B.N. Cineclub Brescia.L'autore, che ci dicono assai giovane, è affascinato da un ricco mondo di cultura letteraria e cinematografica: citerei Joyce, Beckett, Bellocchio, Bernanos, Allain Robbe-Grillet e moltissimo cinema fra cui "Il mondo alla rovescia" (Luciano Gori). Alberto Cima vuole descrivere la vita, le giornate di un giovane preso dalla alienazione del tempo moderno, un giovane chiuso nel solipsismo del suo io che tende ad esaltare gli atti

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più semplici della sua vita. Fuma la pipa, si denuda, ha incontri con donne, consuma il suo tempo passeggiando; tempi lunghi e tempi brevissimi. Cose importanti che si svolgono in pochi attimi e poi le lunghe ore a letto autocompiacendosi, cadendo in una forma di narcisistico pessimismo, in cui si contempla come una vittima. Insomma, questo giovane, come il Bloom di Joyce, si aggira per la sua città, preso nel giro di avventure impossibili ed insignificanti, convinto della propria nullità e impotenza. C'è una derivazione lontana da Dostoevskij, padre di questi "sradicati" e un contrasto tra realtà e sogno. Il pubblico ha rumoreggiato ma, secondo noi, a torto.Il film è inconsueto per Montecatini, ma non nei tentativi delle avanguardie, il linguaggio è aperto come in certi autori della scuola di Palermo o del gruppo '63. Aperto ma non tanto da essere incomprensibile. Il film è zeppo di cose belle, in questo personaggio un po' alla Lou Castell. Ma Alberto Cima sa assimilare gli incontri e farne cosa sua. Vogliamo ricordare la sequenza del vecchietto traballante che appare e scompare nel viottolo simbolo delle tante esperienze inconsuete di cui è tessuta la vita. E così pure quando il giovane sbriciola fra le dita i pezzi d'un fiore, le dita stesse, certi primi piani. Tutta la scena accanto al fuoco, piena di una disperata sete di affetti, sete che si fa poesia.Certe lentezze, come i passaggi fulminei alla Godard, si giustificano nelle necessità del racconto. "L'isola" è fra i migliori film apparsi al Concorso.Luigi Serravalli 

Provocazioni e contrasti al concorso del film d'amatore.Un'ora di fischi, grida scomposte, imprecazioni, invocazioni di linciaggio (morale) e, per contrasto, manifestazioni di consenso violento, di applausi, di esaltazione in senso positivo: il concorso per il film d'amatore a Montecatini Terme si è spezzato in due per la prima pellicola di rottura (il termine è pertinente): "L'isola" di Alberto Cima, studente universitario di Brescia. Il dissidio di opinioni è stato vigoroso, ha coinvolto critici, giornalisti, registi, pubblico. I sessantaquattro minuti di pellicola hanno suscitato così la migliore reazione nella quale possa sperare ogni autore di opere di provocazione. Questa parla di un

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giovane dissociato, incapace di inserirsi positivamente nel mondo in cui vive. È al limite della paranoia, è un isolato, è tormentato dal sesso nel quale però non riesce a trovare alcuna risposta alla sua insoddisfazione, nonostante una buona quantità di esperienze descritte con la forza di immagini veriste. La sregolatezza di carattere, la pignoleria dei gesti comuni sono ripetute, filmate con abbondanza minuziosa di dettagli fino a raggiungere un effetto esasperante. C'è un costante impegno culturale. Egisto Squarci 

Montecatini '68.Il diciannovesimo festival del cinema d'amatore sarà ricordato come il festival de "L'isola" di Alberto Cima? Probabilmente sì, salvo non prevedibili interventi dell'ultimissima ora. Come è noto, il film di Cima è stato accanitamente attaccato e difeso nel corso della proiezione, ed era inevitabile che esso facesse la parte del leone nella tribuna libera indetta nel corso del Festival. Cima, invero, ha assistito con l'impassibilità di un dio asiatico al contrastare delle opinioni, non pareva opportuno che un autore fornisse cifre o chiavi di interpretazione. Ha aperto la discussione Serravalli il quale difese il film "opera di rottura", "chiara denuncia in senso morale", "ritratto di una non vita" che dimostra nel giovane Cima una notevole preparazione cinematografica e letteraria.Cima intanto è l'uomo del giorno a Montecatini. Tutti lo vogliono, tutti se lo contendono. Le vecchie glorie, che temono di essere cacciate dal nido, lo guardano perplesse.Mario Quargnolo 

La storia si ripete.Questa sera, durante la cerimonia di premiazione, assisteremo probabilmente alle solite proteste, ascolteremo i soliti fischi e udremo, dopo la cerimonia di premiazione, i soliti commenti negativi. Tutto come sempre. C'è solo da augurarsi che l'opera premiata questa sera (e probabilmente fischiata dalla sala) abbia la fortuna che hanno avuto tutte le opere fischiate dalla sala, qui a Montecatini. Opere che, a distanza di anni, appaiono oggi ancor valide; anzi sono opere attuali,

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perché quando erano state realizzate, precedevano i tempi sia come linguaggio che come contenuto.Bruno Brunori 

Una censura ottusa e una rassegna valida.L'istituto censorio interviene sconsideratamente per vietare la visione del film "L'isola" di Alberto Cima solo due mesi prima ritenuto non perseguibile dallo stesso organo. Veti e blocchi colpiscono unicamente un certo tipo di cinema: un cinema di autore che non accetta di essere consumato nell'indifferenza. Il veto a "L'isola" ha stimolato la rassegna di Tirrenia ad inserirsi con maggior convinzione in una linea svincolata dalle tradizionali strutture competitive (già dal prossimo anno scompariranno i premi e le classifiche).Claudio Bertieri 

Premio a un film censurato.Censura e poliziotti anche a Tirrenia, dove ieri sera si è conclusa in chiave decisamente polemica, la terza Rassegna internazionale del cinema libero.Si sa, la maleodorante "madama Anastasia" è attualmente di nuovo all'offensiva sull'agitato fronte del nostro cinema: sono recentissimi il sequestro di "Teorema" (Pasolini), la censura a "Partner" di Bertolucci e al "Galileo" della Cavani. All'elenco si deve aggiungere il grottesco intervento di Tirrenia dove, prudentemente protetta da un nugolo decisamente sproporzionato di poliziotti, "Lei", "Nostra Signora Censura" ha voluto richiamare su di sé l'attenzione dei numerosi partecipanti alla rassegna. Il film, assurdamente bloccato e proibito dai pruriti censori dello zelante di turno, "L'isola" di Alberto Cima, peraltro già segnalato e proiettato in pubblico al XIX Concorso nazionale di Montecatini, è stato ugualmente ammesso in concorso e premiato con un "Sole d'argento". La giuria ha voluto sottolineare polemicamente il deciso rifiuto "di un istituto che considera sopravvivenza di sistemi profondamente antidemocratici e contrari alla libertà di espressione dell'uomo". All'unanimità, la giuria ha deciso di non assegnare il primo premio nell'intento di favorire "l'abolizione della formula competitiva con classifica (del tutto priva di motivazioni culturali), e la

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introduzione di un principio di riconoscimento che ponga in opportuno risalto i meriti di tutte quelle opere che contribuiscono significativamente alla promozione e allo sviluppo del cinema libero". Di un cinema completamente riscattato da qualsiasi sollecitazione mercantile, e quindi, in quanto tale, tendenzialmente alternativo, sia nei confronti del cosiddetto cinema industriale, o comunque strumentalizzato dalla classe dominante, sia in quelli della tradizionale produzione cineamatoriale.Nino Ferrero 

L'isola del non dissenso sconcerta e vince."L'isola" di Alberto Cima ha ottenuto a Rapallo il primo premio della giuria, è un film sincero, malinconico e suggestivo. È tra i film rari che sfuggono alla tematica fumosa del dissenso per rifugiarsi in un universo di scarse parole, di umanità intristita e umiliata, con domande di tipo metafisico. Le immagini amorose sembrano messe lì apposta per denunziare, dietro l'euforica adesione dei sensi, la non comunicabilità degli spiriti.Pietro Bianchi 

12- MONTISOLAAnno: 1971 Durata: 10 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Interpreti: Paola Ratti Soggetto: La dolce e malinconica isola del lago di Iseo.

13- TROGIRAnno: 1972 Durata: 10 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima 

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Soggetto: Il popolo di Dalmazia situato su una piccola isola collegata da un ponte alla terraferma. Ricca di un patrimonio architettonico, ha un pittoresco aspetto medioevale che ricorda il lungo periodo di dominazione veneziana, con le fortificazioni, le vie strette, i palazzi patrizi e i monumenti romanici, gotici.

14- SCUOLA SPECIALE MORANDO Anno: 1973 Durata: 15 min. Regia: Alberto Cima Con la collaborazione di Vincenzo Maniscalco Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto CimaSoggetto: Girato in 16 mm. I vari momenti della giornata scolastica e le attività specializzate, organizzate per un miglior recupero degli alunni: ortofonia, ginnastica correttiva, orticoltura e lavori di casa. I lavori si compiono negli ampi saloni del palazzo del sec XVIII, e nei campi sportivi e nel parco.

15- IL MONASTERO DEGLI OLIVETANI A RODENGO Anno: 1974 Durata: 7 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza digitale editing: Matteo Cima Interpreti: Ambra e Paolo MereuSoggetto: La chiesa, il chiostro, dell'antico monastero di Rodengo (Brescia), che necessita di un urgente restauro.

Critica: Alberto Cima ha coperto le incrinature tra un soggetto di comodo, la visita al monastero e la lezione d'arte. Le soluzioni narrative appaiono

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scaltrite, la scelta delle immagini appropriata ed elegante, accurata anche nell'indugio delle citazioni, l'illuminazione poi di una pastosa malìa. Ma è giusto anche osservare che i risultati di Cima gli sono stati anche favoriti da una buona disponibilità dei mezzi tecnici. Non è tutto, è vero: si possono avere gli strumenti e non sapersene servire. Cima invece ha saputo legare le immagini con un filo di necessità espressiva. Un dettaglio, un colore particolare, magari un inserto, tutto serve a Cima per agglomerare, precise, ragionate, le immagini entro un racconto, dove basta un indugio, un affiorare lirico, un ritorno iterativo, ed ecco che nel film, con intensità e rigore insieme, Cima insinua la sua emozione e la fa diventare nostra. Alberto Pesce

16- DISTINTI SALUTI  Anno: 1974 Durata: 23 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Con la collaborazione di Vincenzo Maniscalco Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaMusica di Arnold Schönberg selezionata da Camillo Togni Interpreti: Franco Bonfiglio, Aldo Engheben, Ermes Scaramelli, Edy Gambara, Paola Mazza, Mariuccia Pola, Eros Venturini, Fabio Beccalossi, Renata Bugatti, Claudio Sampaoli, Mario Soloni, Angelo Zampedri, Serenella Bazzoni, Franco Botticini, Rosanna Cima, Roberto Colombo, Tatiana Colombo, Luciano Mereghetti, Francesco Mirigliani, Andreina Morandi, Ernesto Pernigo, Gabriella Poli.Soggetto: Girato in 16 mm a Brescia nelle fabbriche Franchi, Sant'Eustacchio, Om. Un giovane impiegato d'una grande industria. La sua identità si frange contro le durezze di un sistema determinato dal potere e dall'ipocrisia.

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Si dibatte nelle sabbie mobili della quotidiana banalità, e anche la sua vita privata si sbriciola sotto il rullo compressore delle regole inesorabili.

Critica: Un piccolo impiegato in una grande azienda.Richiestissimo in Italia e all'estero, finalmente anche a Brescia si è visto l'ultimo film di Alberto Cima. Bianco e nero, 16 mm, "Distinti saluti" è un film-metafora, di evidente suggestione autobiografica, ma di incisiva lezione sociomorale. Da una parte, un protagonista anonimo, un giovane qualsiasi, forzatamente dentro un congegno produttivo, in una fabbrica, a livello impiegatizio, oscillante tra dentro e fuori, tra una realtà d'ufficio che lo istupidisce, lo attanaglia, gradualmente lo morde con impietosa quotidianità, e un sogno evasivo, brume lontane impastate di nebbia e di sole, tremolare d'acque sotto la luce, tenerezze d'amore concupite e frustrate e poi, isolato, emarginato suo malgrado, frusciante di tangente accanto a una galleria di impiegati-manichini, che fanno corpo unico con i propri strumenti di lavoro, intorpiditi, stupiti e monchi nei loro discorsi, eppur soddisfatti e gonfi in una lentezza da pupazzi regolati altrove, da altri fili, sotto la regia di un capo pupazzaro che ha nome capoufficio. Dall'altra, tema antagonistico e complementare in "Distinti saluti", ecco appunto questo mondo di impiegati piccolo borghesi, arrivati a una sedia e un tavolo, ma senza libertà, rinserrati tra schienale e scrivania, in una pedestrità che deforma l'uomo, lo riduce a un teatrino di marionette, dove ogni individuo è solo un supporto di una ideologia di consumo, casa caccia forma, erotismo, ordine e buon senso da maggioranza silenziosa, e un momento anonimo di una stereotipia sociale incapace di un discorso compiuto, a misura d'uomo.

"Distinti saluti" è un film amaro, quasi disperato, senza alternative. Per accumulo, in un crescendo tra il grottesco e il drammatico, Cima ce lo descrive opaco e torpido nella sua ovattata impotenza, e vi rovescia una sua polemica opposizione ideologica. Graffia con un realismo che tende sempre alla metafora con una ricchezza di linguaggio figurativo, che non è solo istintiva facilità nella scelta delle metafore, molte, spesso

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essenziali, ma anche l'uso accorto di uno stato d'animo, o della metonimia, della abilità cioè di tradurre un concetto con un'immagine incisiva e ficcante, e soprattutto sapiente costruzione di montaggio, con una ricerca di ritmo che elimina il superfluo ma di ogni inquadratura ha un immediato senso del tempo, in pochi secondi perché al di là della figurazione che descrive e narra, l'immagine suggerisce altro, e lo insinua scheggiante nell'animo dello spettatore.Alberto Pesce

Regista indiscutibilmente sensibile e padrone di un linguaggio scabro ma sicuro, Alberto Cima ha girato "Distinti saluti" attingendo soggetto e sceneggiatura dalla propria esperienza passata. Il film è stato presentato a Montecatini selezionato tra i 25 migliori. È la parabola di un impiegato assunto in una grande industria, che vede la propria umanità sbriciolarsi in un ingranaggio che rende la sua condizione alienante. Un tran tran che lascia il tempo solo per le esigenze fisiologiche e qualche ingolosito, vorace e rubato momento di sesso. La frustrazione straripa al di fuori del lavoro, squallida arrampicata verso un vertice di benessere ma non di realizzazione. Così è per il giovane impiegato (interpretato da un Franco Bonfiglio convincente), non per i colleghi che da tempo hanno accettato le regole del gioco e hanno chiuso la bocca ai grilli parlanti della loro coscienza per vivere tra parole colme di banalità e aspirazioni consumistiche. La reazione di Franco è la fuga nella fantasia, il furto dolente di immagini di vita diversa (operai, vecchio pescatore che mangia sul lago, vela incendiata dal sole). Ma il problema di come fuggire la morsa del sistema non è siglato ma lasciato volutamente aperto. (c.c.)

17- BRESCIA QUALE ? Anno: 1975 Durata: 10 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Musica: Isao Tomita, selezionata da Paola Ratti 

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Soggetto: Strade a misura di auto, il cemento prevarica sul rustico che era spia di una casa in qualche modo posseduta, non trappola. Giardini a fondo duro, buoni solo per le moto. Brescia realtà o incubo? La casa popolare è stinta, triste. Casermoni lasciati lì, quartiere senza nesso. I ragazzini scivolano su collinette di terra e rifiuti. Uomo, dove vai?Luciano Spiazzi

18- IL DIRIGIBILE ITALIAAnno: 1978 Durata: 10 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Committente: Comitato per il 50° anniversario della traversata articaSoggetto: Girato in 16 mm. La spedizione al Polo nord di Umberto Nobile, ricordata dopo 50 anni a Adro (Brescia) con i superstiti. Nel corso della seconda spedizione avvenuta nel 1928, il dirigibile Italia precipitò sulla banchisa, andando distrutto: solo una parte dell'equipaggio, tra cui Nobile, fu salvato da un rompighiaccio sovietico. Nelle ricerche di Nobile morì il grande esploratore norvegese Amundsen.

19- ERBA D'IMAGNAAnno: 1980 Durata: 32 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaInterpreti: Battista Invernizzi, Virginia Locatelli, Erminio Manzoni, Marino Rota, Ester e Battista Mazzoleni, Caterina Vanotti, Rocco Mazzoleni, Maria Canella, Carlo Locatelli, Giacomino e Giuseppe Cardinetti, Giovanni Dolci, Bernardo Zanella, Giovanni Gustinetti, Giovanni Todeschini. Cantano: Sorelle Frosio e Giovanni Todeschini Poesie: Umberto Mazzoleni 

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Committente: Sistema Bibliotecario Comprensoriale di Sant'Omobono Soggetto: Prodotto nel 1979/80 dal Sistema bibliotecario comprensoriale di Valle Imagna e realizzato in pellicola 16 mm, acquisito dall'Assessorato alla cultura della Regione Lombardia e trasmesso nel 1982 da Rai3, Erba d'Imagna è un delicato e realistico affresco della gente d'Imagna. Affiorano i connotati più forti della realtà valligiana nei vecchi, duri e resistenti, temprati dalla fatica, ciascuno chiuso nel suo orticello duramente conquistato. Uomini – come fili d'erba – generati e trattenuti nella loro terra.

Critica: El ma mai picàt.Cima non dimostra, indaga, propone. La macchina da presa si pone fronte a fronte alle vicende autenticamente vissute. A tanti incontri Cima s'è piegato con l'umiltà paziente di chi solleva con discrezione il velo degli anni e dei dolori e delle fatiche. Il vero, appunto. Cima, a nostro avviso, offre con questo film una prova di maturità che ha spazzato via gli orpelli. Secco, preciso, attento senza mai prevaricare. Una visione laica della vita, al cui fondo non si può ignorare mai la nenia virile e malinconica del nascere e del morire.Luciano Spiazzi 

Una valle così vecchia, così viva. Più in profondo, Cima è riuscito a incastrare a chiasmo la ricchezza dell'anima quale viene dalle contemplazioni della natura e la povertà della carne quale è suggerita da fatiche e dolori di un'esistenza povera, difficile, dove tutto, nascita e morte, lavoro e riposo, cade liturgico, scandito secondo il ritmo delle stagioni. E dall'incrocio ne sono venuti netti i contrafforti tematici (magari anche con una punta amaramente polemica) da una parte la ricchezza della carne che si fa benessere e dall'altra la povertà dell'anima che emargina e immeschinisce in un'ignoranza autarchica, in un mondo immobile e piccolo senza socievolezze e ricambi. Cima ha linearmente evocato, con ritratti forti, una realtà che lo affascina e lo offende, e che riesce a rendere nonostante contraddizioni apparenti. Egli non decora il secolare

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destino di povertà e solitudine, lo guarda schietto con immagini di essenziale, asciutta sobrietà. Persone, luoghi, case, cose acquistano una dimensione nuova. Soprattutto le persone, colte come per un approccio domestico nei loro gesti abituali, trafilano un tutto unico di singolare efficacia emotiva che invita a riflettere. Sono i temi, l'isolamento, la vecchiaia, l'emarginazione, il degrado ambientale, la nostalgia, che si insinuano problematici nello spettatore, con un senso ammirativo per vecchi ceppi montanari così immobili ma così forti e vivi. Tuttavia è il linguaggio di Cima che li rende adeguati, necessari. Cima ha lasciato slabbrare il gusto didascalico delle metafore, la ricerca concettosa delle metonimie, la retorica suggestione delle zoomate, il lambicco formalmente ineccepibile del montaggio ritmico, o meglio li ha assimilati, di quel tanto che gli permette il loro uso con proprietà e compostezza linguistica, con una scelta di inquadrature e di montaggio di estrema sapienza ed efficacia. Alberto Pesce 

20- EFFETTI COLLATERALIAnno: 1980 Durata: 20 min. Regia: Alberto Cima Soggetto: Alberto Cima Girato in 16 mm. con troupe e montaggio RaiInterpreti: Maria Teresa Ruta Produzione: Rai Tv Soggetto: Incontri con Gianni Tognoni, Franco Panizon, Giuseppe Abbatecola, Pierangelo Varolo, Zilocchi, Ghisi, Salvioni. Il farmaco, le terapie usati impropriamente e inutilmente, producono danni anche gravi. Il paziente chiede al farmaco la soluzione a tutti i suoi mali, e diventa vittima di un gioco di interessi che vortica sulla sua pelle. Il medico esagera nella prescrizione, allettato dalle industrie farmaceutiche che attraverso la propaganda ampliano con disinvoltura il campo delle indicazioni e minimizzano gli effetti tossici. La politica non è intervenuta sulla correttezza della propaganda e della formazione del medico.

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21- IL LATTE È VITAAnno: 1981 Durata: 1 min. Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaInterpreti: Paola Ratti e Assunta Bugada Committente: Fondo di CorresponsabilitàSoggetto: Spot sul latte di produzione bresciana, girato in 16 mm. In un interno rustico dal pavimento in pietra nera, una grossa catasta di legna, una vecchia macchina per cucire, oggetti casalinghi che ci riportano alla vita elementare d'una volta. Al centro della parete un grande camino manda una fiamma vivace e allegra. Una giovane donna tranquilla decora con pennellate sicure un piatto di ceramica. Una vecchietta le porge del latte in una ciotola di legno. Cavallo se ne va, solo. Un gatto si stira. Galline sulla soglia. Il latte è vita, da sempre.

22- IL TRIDUO DI MAGASAAnno: 1981 Durata: 15 min. Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaCommittente: Museo Etnografico della TrinitàSoggetto: Girato in 16 mm. La cerimonia religiosa e popolare che a Magasa di Valvestino (Brescia) si celebra come nel Settecento. È un rito in onore delle anime dei defunti, autogestito dalla popolazione. Di derivazione austro-ungarica, in esso si mescolano funzioni sacre a tradizioni profane organizzate dalla Confraternita, con il coinvolgimento di tutto il paese.

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23- MONICA DEL MINCIOAnno: 1982 Durata: 28 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa diretta di Giulio MottinelliCommittente: Assessorato alla Cultura Regione Lombardia Soggetto: La scuola elementare di Volta Mantovana, la direzione didattica, gli insegnanti, gli alunni e i genitori, sviluppano una ricerca sul loro fiume, il Mincio. Sull'ambiente naturale, le attività economiche legate alla presenza del fiume. Monica, alunna di quinta, ripercorre con il papà l'itinerario già seguito con la scuola, l'intero corso del Mincio dal Garda al Po. Il grandioso sbarramento di Gian Galeazzo Visconti, la cartiera Burgo, la Montedison, una centrale termoelettrica, una cava di sabbia, un vecchio mulino, un ristorante sul fiume, una festa popolare.

24- C'ERA UNA VOLTA L'INDUSTRIAAnno: 1983 Durata: 20 min. Regia: Alberto Cima Soggetto: Alberto Cima Girato in 16 mm. con troupe e montaggio RaiProduzione: Rai Tv Soggetto: Incontri con Piero Bassetti, Bruno Colle, Sergio Pampuro, Gabriele Lanfredini, Piero Schlesinger. Milano, perduto il fascino che aveva incantato Stendhal con la sua romantica rete di canali, è stata nel ‘900 conquistata dagli insediamenti industriali. Nel 2000 Milano tornerà ad alleggerirsi del peso soffocante dell'industria per lasciar posto al terziario.

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25- SAPERE È POTERE ?Anno: 1983 Durata: 20 min.Regia: Alberto Cima Soggetto: Alberto Cima Girato in 16 mm. con troupe e montaggio RaiProduzione: Rai TvSoggetto: Incontri con Giancarlo Mazzocchi, Claudio Roveda, Enrico Ciciotti, Luigi Frey, Franco Amigoni. In principio era l'agricoltura, la produzione esclusiva di prodotti legati alla sussistenza per una società a basso reddito. Nacque l'industria, che portò cambiamenti radicali, si resero disponibili beni di consumo durevoli, macchine. La società postindustriale ha come principio assiale l'informazione, l'organizzazione di informazioni. Nascono nuove professionalità, gli esperti della comunicazione. Le persone che non si adattano vengono emarginate, se non eliminate.

26- CONSUMO QUINDI SONOAnno: 1983 Durata: 20 min. Regia: Alberto Cima Soggetto: Alberto Cima Girato in 16 mm. con troupe e montaggio RaiProduzione: Rai Tv Soggetto: Incontri con Anna Bartolini, Francesco Parenti, Giuseppe Grampa, Serena Foglia, Alessandro Mendini. L'uomo, soggetto di commercio, ineluttabilmente diventa oggetto di commercio. L'uomo arriva a vendere il proprio corpo come spazio pubblicitario. Le previsioni per il 2000 vedono un aumento di consumo televisivo, aumenterà il consumo di droga. I viaggi, diventando di massa, ci porteranno a vedere luoghi non troppo diversi da dove siamo. Faremo il week-end in superjet a Pechino, in una Pechino che somiglierà per tanti aspetti a Milano.

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27- L'ASSISTENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙAnno: 1983 Durata: 20 min. Regia: Alberto Cima Soggetto: Alberto Cima Girato in 16 mm. con troupe e montaggio RaiProduzione: Rai TvSoggetto: Incontri con Silvio Garattini, Roberto Rocci, Attilio Schemmari, Pierluigi Crenna, Guido Aghina, Roberto Guiducci, Francesco Parenti. Alleggerita dalla sovrappopolazione, Milano nel 2000 potrà finalmente leccarsi le ferite e avere respiro. Gli anziani, che costituiranno il 20% della popolazione, potranno fruire di nuovi servizi. Ma si dovrà abbandonare la vecchia cultura assistenzialistica, e stimolare gli anziani ad avere una vita più attiva.

28- GIAN BATTISTA ANGELINI  ERUDITO DEL SETTECENTO Anno: 1991 Durata: 64 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSoggetto: Nato a Strozza nel 1690 da umile famiglia, veniva avviato agli studi ecclesiastici e poi ammesso come cappellano alla corte dei Rettori veneti di Bergamo. Di spirito vivace, penetrante, geniale, portato alle lettere, alla poesia, alle ricerche storiche. Compose undicimila terzine sulla descrizione di Bergamo. Trapelano le ridicole cerimonie, le piaggerie, le menzogne, le invidie degli ambienti cortigiani in cui doveva vivere, mentre aspirava alla libertà.

29- GIULIO MOTTINELLI PITTOREAnno: 1991 Durata: 3 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima 

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Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto CimaSoggetto: Con Mottinelli saliamo le scricchiolanti scale di legno che portano alla soffitta, regno un tempo dei giochi infantili, soprattutto durante i temporali, e ingombra di tutte quelle cose che non si potevano – né si dovevano – gettare via. Ora Mottinelli sale ancora le scale di legno, e ritrova, accanto al calore della propria infanzia, il gelo di una realtà irrimediabilmente mutata. La disperata certezza di una realtà che pure c'era, ma impossibile da recuperare, una realtà ormai travolta.Mauro Corradini 

30- LA VOCE DI LORENAAnno: 1991 Durata: 20 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSoggetto: Lorena Baretti parla di sé, della sua vita, mentre presta temporaneo servizio al bar delle Fonti Termali di Sant'Omobono Imagna.

31- PIACERE, ROSAAnno: 1991 Durata: 36 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Con la collaborazione di Paola Ratti e Matteo Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSoggetto: Ritratto della madre, a 88 anni.

32- COLLEZIONE PRIVATAAnno: 1992 Durata: 21 min.

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Regia: Alberto Cima A cura di Maria Cristina Rodeschini Galati Testo: Antonia Abbattista Finocchiaro Ricerca documentaria e selezione iconografica: Daniela Galante Rota e Paola Tognon Fotografia e montaggio: Alberto Cima Musica selezionata da Walter Frazzi Committente: Galleria di arte moderna e contemporanea, Comune di BergamoSoggetto: La mostra inaugurale della Galleria d'arte moderna e contemporanea di Bergamo (GAMEC), nata dall'Accademia Carrara su progetto di Vittorio Gregotti. Sono analizzate nei dettagli le opere, appartenenti a privati collezionisti, di molti artisti del Novecento: Boccioni, Balla, Sironi, Manzù, Oppi, De Chirico, Savinio, De Pisis, Campigli, Soldati, Guttuso, Casorati, Licini, Vedova, Fontana, Burri, Capogrossi, Vespignani, Manzoni, Rotella. Un viaggio tra futurismo, la corrente di “Novecento”, classicismo, realismo, nel percorso verso l'informale, esplicitato da dichiarazioni degli stessi artisti. Appare la fitta trama di rapporti tra l'opera, l'autore e il suo tempo, con l'aiuto di materiali iconografici e brani musicali dell'epoca scelti da Walter Frazzi.

33- OTTOVOLANTEAnno: 1992 Durata: 7 min.Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Committente: Galleria di arte moderna e contemporanea, Comune di BergamoSoggetto: Le opere di artisti contemporanei selezionati da otto giovani critici: Luca Beatrice, Claudio Cerritelli, Andrea Del Guercio, Maria Luisa Frisa, Gregorio Magnan, Francesco Moschini, Gabriele Perretta, Angela Vettese. Ogni artista espone un'opera realizzata espressamente per la seconda mostra della Civica Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea (GAMEC) di Bergamo. Il campo d'attività è molto

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ampio: pittura e scultura, fotografia, video e media, usufruendo in modo libero e autonomo degli spazi della galleria.

34- MUSEO INTERNAZIONALE  DELLA CROCE ROSSA Anno: 1993 Durata: 26 min.Copyright: Croce Rossa Italiana Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaCommittente: Museo della Croce RossaSoggetto: C'è un palazzo, fra gli edifici monumentali che ornano la bella cittadina di Castiglione delle Stiviere, che racconta una delle più significative pagine della storia della solidarietà umana e del diritto internazionale umanitario. È il settecentesco palazzo Triulzi-Longhi, in cui nel 1959 fu allestito il Museo Internazionale della Croce Rossa, a testimonianza del fatto che cent'anni prima proprio a Castiglione, grazie alla intelligente sensibilità di un giovane uomo d'affari ginevrino, Henry Dunant, nacque l'idea di quello che oggi è il più importante sodalizio umanitario diffuso nel mondo.

35- BORTOLO BELOTTI, TRA STORIA E LETTEREAnno: 1994 Durata: 6 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Testi: Alberto Cima, Mauro Gelfi, Paola RattiSoggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Musica originale: Walter Frazzi Committente: Banca Popolare di Bergamo

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Soggetto: Bortolo Belotti (1877-1944) storico bergamasco autore della “Storia di Bergamo e dei bergamaschi” opera concepita con spirito scientifico innovatore. Liberale illuminato, non si piega al nuovo conformismo imposto dal regime fascista: “Credo nelle idee, nei valori morali della vita austeramente condotta lavorando e ripugnante alle volgarità, ad ogni volgarità...” Subisce il confino e, lontano dalla sua adorata “verde conca di Zogno” morirà in esilio a Sonico di Lugano.

36- GIACOMO QUARENGHI, ARCHITETTO A PIETROBURGO Anno: 1994 Durata: 23 min.Copyright: Alberto Cima Edizione italiana e russa Regia: Alberto Cima Con la collaborazione di: Paola Ratti, Ekaterina Artiukhova, Konstantin Artiukhov, Igor Povolotskij, Svetlana SomovaSoggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale: Matteo Cima Committente: Assessorato alla Cultura della Provincia di Bergamo Soggetto: L'itinerario artistico e la vita dell'architetto Giacomo Quarenghi, nato nel 1744 a Capiatone di Rota Imagna (Bergamo), un pugno di case collegate con il mondo da una stretta mulattiera. È chiamato in Russia, alla corte zarista, da Caterina II, che sarà presto entusiasta del suo grande architetto. A San Pietroburgo, tra il finire del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, sorge un gran numero di palazzi da lui progettati. Grandiosi palazzi - chiari ed essenziali - che si contrappongono alle ridondanti forme barocche, sfarzose e teatrali, di cui colleghi alla moda stanno inondando San Pietroburgo. Quarenghi, posseduto da una divorante ansia di perfezione, instancabilmente lavora. Eppure il suo rigore e la sua onestà, a prova di ogni tentazione, gli impediscono di arricchirsi. È un uomo solo, anche se attorno a lui si agita una delle più scintillanti corti d'Europa.

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Critica: Quarenghi, l'uomo che cambiò San Pietroburgo. La vita e le opere del Quarenghi, il suo tempo e i suoi sentimenti, il suo "esilio" nella terra degli zar, i suoi legami con Bergamo e con l'Italia, rivivono in uno smagliante e rigoroso documentario, “Giacomo Quarenghi architetto a Pietroburgo” girato dal regista Alberto Cima proprio sui luoghi dell'azione, cioè in Russia, con ampio e articolato apporto dei disegni e dei progetti dell'architetto celebrato. Il film, prezioso, è un'esemplare sintesi dell'itinerario artistico e umano di Giacomo Quarenghi, realizzato con intenti precipuamente didattici ma non rinunciando a un'impronta narrativa prettamente cinematografica, ottenuta anche con arditi movimenti di macchina. Alberto Cima ha una ventina di film all'attivo, molti dei quali hanno ottenuto premi e riconoscimenti, oltre a numerosi documentari realizzati per conto della Rai, è un regista scrupoloso, nitido, essenziale, lontano dalle agiografie e dagli incantamenti precostituiti.F.C. Colombo 

Di sicura validità didattica, il filmato di Alberto Cima ci accompagna attraverso l'iter umano e artistico dell'architetto di Caterina II. Non idealizzato: sono messi in evidenza il suo aspetto fisico infelice, così tozzo e grosso com'era, dal gran naso piantato in mezzo al faccione, nonché il carattere irascibile e, negli ultimi anni della sua vita, la propensione per l'ipocondria. Con un ritmo sostenuto ecco così succedersi sullo schermo il Teatro dell'Ermitage, l'Accademia delle Scienze, la Borsa, il grande palazzo di Alessandro. Ermanno Comuzio 

37- I FANTONI SCULTORI DEL LEGNOAnno: 1994 Durata: 22 min.Copyright: Italia Nostra Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Committente: Italia Nostra 

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Soggetto: Una bottega lombarda tra Sei e Settecento. I Fantoni, antica famiglia bergamasca di scultori, originaria di Rovetta, lasciano nella Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo una delle loro opere più impegnative. Gli arredi in legno delle tre sacrestie della Basilica, ad opera, tra Seicento e Settecento, di due generazioni di artisti, costituiscono un eccezionale manufatto del barocco lombardo. La comunità locale, nel riconoscere l'importanza culturale dell'opera, ne ha portato a compimento il restauro tra il 1992 e il 1994.

38- UNA CITTÀ CHE CAMBIAAnno: 1995 Durata: 13 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Testi: Margherita Cancarini Petroboni, Mauro Gelfi, Rosanna Paccanelli Ricerca iconografica: Rosanna Paccanelli Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Musica originale: Walter Frazzi Committente: Fondazione Museo della città di BergamoSoggetto: Lo sviluppo di Bergamo attorno ai tre nuclei storici: città alta, borgo Sant'Antonio e borgo San Leonardo, subisce nell'Ottocento una radicale trasformazione. La nuova strada Ferdinandea (ora Viale Vittorio Emanuele II) viene tracciata tra prati e orti, a collegamento di Porta Sant'Agostino con la barriera daziarie delle Grazie (ora Porta Nuova) e poi con la nuovissima stazione ferroviaria. Palazzi pubblici e privati sorgono, calamitati dal nuovo asse, in uno straordinario fervore d'attività negli ultimi anni di dominazione austriaca, segnando il trasferimento dei luoghi di potere dalla città antica, chiusa dentro l'anello delle sue mura, alla nuova città bassa che si sviluppa rapidamente in senso moderno.

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39- FRANCO DAVERIO SCULTOREAnno: 1995 Durata: 17 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaCommittente: Luca Daverio Soggetto: Incontro con Franco Daverio in occasione della mostra delle sue opere al Teatro Sociale di Bergamo nel 1995. La sua vita, il suo itinerario artistico.

Critica:Nel lungo esercizio di una pratica del mondo delle arti visuali, ancorate alla concretezza delle diverse espressioni fattuali, Franco Daverio ha avuto modo di affinare una propria tecnica che gli ha consentito di dare corpo a fantasmi che hanno memoria di una cultura antica, radicata nella materialità delle cose. Vittorio Fagone 

40- IL TEMPO DEL MAGLIOAnno: 1996 Durata: 23 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto: Elvira Cassetti Pasini, Alberto Cima, Paola Ratti Idea originale di: Elvira Cassetti Pasini e Ruggero Brunori Fotografia e montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale: Matteo Cima Musica originale: Walter Frazzi Interpreti: Beppe Pasini, Giuseppina Cominotti, Bortolo Brunori, Renato Zola, Bianca Guerra, Daniela Leali, Alessio Pasini, Matteo Tononi. 

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Committenti: Acciaierie e Ferriere Bredina, Acciaierie e Ferriere Ilfo, Acciaierie e Ferriere Iro, Acciaierie e Ferriere Leali Luigi, Feralpi Siderurgica, Ferriera Valsabbia, Olifer, Dario Leali, Alessio Pasini con il patrocinio della Civiltà BrescianaSoggetto: Già nel Cinquecento Odolo era terra di fucine. Il battito dei magli, mossi dall'acqua del torrente Vrenda, accompagnava giorno e notte la vita della gente. Umile e tenace, la gente di Odolo ha saputo affinare nei secoli una straordinaria abilità nella produzione artigianale di badili, vanghe, picconi, zappe e altri attrezzi agricoli in ferro. Il tempo del maglio è il tempo dell'uomo, dei suoi valori, delle sue speranze, della sua volontà di governare gli eventi e di affermarsi in una realtà dura.

Critica: Il maglio batte in un video.Il filmato nella sua arcatura di 23 minuti, bilancia su due tempi un'umanità odolese, laboriosa e solidale, tutta casa e fucina per istinto di sopravvivenza ma anche per amore del lavoro e delle cose. Il tempo del maglio disegna un destino ancestrale di povertà e fermezza montanara dove tutto cade liturgico in una reciproca e generosa solidarietà con cui far muro alla paura e alla miseria. Poi, non è più solo elogio di un mondo di vecchi ceppi montanari radicati alla terra e inesausti nel lavoro. È una sorta di cantica in crescendo per un'intelligenza di sfida che sa stringersi comunitariamente per affrontare nuove realtà produttive d'impegno e di rischio.Alberto Pesce 

Il tempo del maglio è un filmato di Alberto Cima che documenta l'evoluzione di un processo produttivo e l'industriosità di una comunità che ha saputo ritagliarsi un suo spazio egemone nella storia dell'economia nazionale. Servendosi delle ruvide facce indigene, di

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reperti d'epoca e scorci ambientali, il filmato di Cima è un'eloquente lezione di microstoria. Al filmato hanno dato il loro apporto i più importanti marchi industriali odolesi, le acciaierie più note.Nino Dolfo 

41- LA STANZA DELLE RONDINIAnno: 1999 Durata: 45 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale : Matteo Cima Musica originale: Walter Frazzi Suono in presa direttaInterpreti: Costantino Locatelli, Fulvio Manzoni, Teresa Capelli, Giovanna Locatelli, Fiorino Personeni, Ines Invernizzi, Angelo Rota, Giuseppe Invernizzi, Luciano Invernizzi. Committente: G.A.L. con il contributo della Unione EuropeaSoggetto: Uomini, donne, giovani, vecchi, parlano di sé nella varietà di opinioni, della loro storia, della loro terra: la Valle Imagna, conca bergamasca ai piedi del Resegone. E ci svelano un mondo imprevisto, forte, autentico, ricco di memorie. Emigravano stagionalmente, come le rondini. Lasciavano a Pasqua la loro terra, e sognavano per Natale il ritorno in valle, la stanza tiepida degli affetti sinceri. La freschezza, la semplicità, il coraggio di essere se stessi e la voglia di comunicarlo.

Critica: “La stanza delle rondini" canta la libertà e la natura.Le immagini di La stanza delle rondini , che rinuncia al tradizionale commento parlato per dare voce solo alla gente vera, inducono a

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credere che un futuro ci possa, anzi ci debba essere. Perché la natura non va stravolta ma amata, i suoi valori - che sono quelli veri - non vanno dispersi ma raccolti. Sono film da vedere questi. Se ne dovrebbero far carico anche le scuole per dare ai giovani uno specchio della vita non deformato - come purtroppo avviene - dalle fatuità d'un benessere fatto unicamente di stordimenti, egoismi e illusioni.Franco Colombo 

Miseria, fame e freddo in un vaso di smeraldo.Nel bel documentario, tra i personaggi cui Cima dà la parola (non c'è commento fuori campo) c'è un giovanotto senza peli sulla lingua, afferma di essere nato nel posto sbagliato e critica i suoi compaesani per la mentalità egoista e conservatrice che li fa impermeabili ad ogni apertura generosa. Tale "chiusura" è il risvolto di doti invidiabili, riguardanti soprattutto lo spirito di sacrificio e la dedizione al dovere. "Miseria, fame e freddo!" ricorda una vecchietta.Ermanno Comuzio

“La stanza delle rondini”, con musiche originali di Walter Frazzi, non è un film consolatorio e rugiadoso, anche se non fa mistero del "richiamo della natura" la cui eco struggente s'avverte tra il fluire del fiume e lo stormir degli alberi. È piuttosto un film problematico, sfaccettato, che presenta diverse indicazioni di lettura. Ancora una volta il cinema aiuta a capire i modi di vivere nel fluire del tempo.Franco Colombo 

Nessun cedimento a vieti sentimentalismi in questo quadro di una valle, nel ritratto dei suoi abitanti, dei quali Cima sottolinea la fierezza di essere sé stessi in un tessuto narrativo nitido e affinato: il linguaggio asciutto e sobrio, piegato all'osservazione per nulla agiografica della gente e dei suoi giorni. Un linguaggio appropriato e composito, dove la scelta dell'inquadratura, le soluzioni di montaggio, rispondono a criteri di perseguita efficacia, del tutto rispondenti ad una visione delle cose in cui sono di estrema importanza il rapporto dell'uomo con la natura, le

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sue relazioni con i propri simili, il suo concentrarsi sulla "propria" storia, sul proprio passato.Achille Frezzato

42- TUTTI FRATELLI. L'UTOPIA DI HENRY DUNANTAnno: 1999 Durata: 40 min. Copyright: Alberto Cima e Croce Rossa italianaRegia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza scientifica: Maria Grazia Baccolo Musica originale: Walter Frazzi Committente: Museo Internazionale della Croce Rossa Castiglione delle Stiviere, Regione Lombardia, Provincia di Mantova, Banca Agricola Mantovana, Comitato della Croce Rossa di Bergamo Soggetto: Il documentario, voluto dal Museo Internazionale della Croce Rossa di Castiglione delle Stiviere, è una lucida e appassionata esplorazione dell'itinerario esistenziale di Henry Dunant. Le straordinarie immagini girate dal regista Alberto Cima in Provenza e in Tunisia, a Solferino e San Martino, a Castiglione delle Stiviere, a Ginevra, Marsiglia, Tolone, Heiden e Zurigo, rivelano gli scenari della vita tormentata di Henry Dunant.

Henry Dunant nasce a Ginevra l'8 maggio 1828 da agiata famiglia calvinista. Nel 1859 è a Solferino, dove l'orrore per la carneficina prodotta dallo scontro tra le armate franco-piemontesi e quelle austriache segnerà irreversibilmente la sua intera esistenza. A Castiglione vengono prestati i primi soccorsi a migliaia di feriti. Le pietose donne del luogo si prodigano con slancio e aiutano i sofferenti senza distinguere “i nostri” dai “nemici” perché per loro sono “tutti fratelli”. Lo choc di questa sconvolgente esperienza trapela in ogni pagina del crudo “Un souvenir de Solferino” che, nel 1862, Henry Dunant pubblica per diffondere in ogni corte d'Europa e presso i

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potenti illuminati un sentimento di rifiuto della guerra con la sua inaccettabile ferocia. È un grande successo. E già un anno dopo la pubblicazione, si tiene a Ginevra la prima Conferenza internazionale che dà vita alla Croce Rossa.

Critica: Tutti fratelli. L'utopia di Henry Dunant, è dedicato alla figura e l'instancabile attività del filantropo ginevrino, che all'istituzione sacrificò le fortune familiari (caduto in miseria, visse con un reddito modesto che solo gli ha permesso la sopravvivenza). Cima, nel narrare del fondatore della Croce Rossa, ha fatto ricorso a documenti vari, a fotografie e immagini girate nei luoghi dell'esistenza di Dunant (da Ginevra a Solferino e a San Martino, da Marsiglia a Zurigo, alla Provenza, e alla Tunisia). Ne è nato un racconto coinvolgente che "dice", grazie attraverso una "lucida e partecipata esplorazione del suo itinerario esistenziale", della grandezza di un uomo ingiustamente relegato in una zona d'ombra.Achille Frezzato

Arioso (i rincuoranti cieli azzurri della speranza sono spesso in primo piano, come le acque opaline del mare) e puntuale (nulla viene tralasciato, sia pure nell'essenzialità, nella vicenda umana di Dunant), vivace nelle riprese mosse da molte panoramiche, il film di Alberto Cima è un contributo che ci voleva per rinfrescare la memoria su un uomo che, non potendo abolire le guerre, pensò almeno a lenirne i patimenti rendendo possibili quegli interventi tempestivi che spesso, per un ferito o un malato sotto il bombardamento di fuoco degli schieramenti contrapposti, possono rappresentare la salvezza.Franco Colombo

43- MANIAnno: 2000 Durata: 17 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti 

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Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale: Matteo Cima Suono in presa direttaInterprete: Sabrina Castelli Committente: Fondazione Museo del falegname Tino Sana Soggetto: Le macchine e gli strumenti esposti nel Museo sono visti come se trattenessero il calore delle mani che li costruirono, scrupolosamente li lavorarono, li usarono. Il disegno di una ruota, un carro, una pialla, un triciclo... il suono da essi prodotto nel loro uso, sono indizi della storia dell'uomo, sono i nostri segni e le nostre voci nei secoli. Le mani producono, afferrano, abbracciano, accarezzano. Le mani come veicolo non mediato di sentimenti. Ma anche lo spirito dei Mani come scia di una presenza che continua. Il presente non si contrappone al passato. Sono forme diverse di un unico, continuo, mutevole scenario, quello della vita. E la consapevolezza della caducità del tutto non spegne la insopprimibile speranza di un futuro migliore che ci spinge miracolosamente a fare.

44- MARENGÙAnno: 2001 Durata: 29 min.Copyright: Tino SanaRegia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale: Matteo Cima Musica originale: Walter Frazzi Suono in presa direttaSottotitoli: Italiano, Inglese e FranceseInterpreti: Tino Sana e familiari, Cesare Rota Nodari, Felice Gimondi. Committente: Fondazione Museo del falegname Tino Sana 

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Soggetto: Marengù è un film-ritratto che ha per protagonista una figura insolita di imprenditore. Tino Sana, rimasto orfano presto (il padre emigrato in Germania dove morì sul lavoro, la mamma operaia in Svizzera) è cresciuto alla scuola del grande educatore don Bepo Vavassori. Un cammino rettilineo compiuto passo dopo passo senza esitazioni. Con in tasca la licenza elementare, indifferente ai salotti e ai sotterranei giochi di potere, Tino Sana si butta con entusiasmo nel difficile mondo dell'industria. Innamorato del legno, che ha imparato a conoscere al Patronato di don Bepo, ancora oggi si autodefinisce “falegname” anche se la sua azienda conta 120 dipendenti e arreda gli hotel più prestigiosi d'Europa e i transatlantici più lussuosi. Realizza un Museo privato – oggi fondazione – che contiene migliaia di pezzi in onore dell'umile antichissimo mestiere del marengù . Una vita sorretta da solidi pilastri: i sacrifici della mamma, la saggezza e la fiducia di don Bepo, la passione del falegname, la serenità della famiglia.

45- TALLINN LIEVEAnno: 2002 Durata: 89 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Consulenza edizione digitale: Matteo Cima Suono in presa direttaSottotitoli: Italiano, Inglese e FranceseInterpreti: Ain Talihärm, Vello Salo, Anto Pett, Ursula Saal, Tamara Harutyunyan, Kati Lehemets, Hannes Kivi, Lagle Parek, Arne Vaik, Maria Talihärm, Erki Evestus, Boris Kivi, Enn Suve. Soggetto: Tallinn, città di mezzo milione di abitanti, è la capitale dell'Estonia. Il film Tallinn Lieve non è un film sull'Estonia, è piuttosto una riflessione sull'uomo, sulla condizione umana. Tallinn offre la possibilità rara di osservare liberamente, senza ricorrere a trucchi o violenze dell'occhio.

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Le persone accolgono lo sguardo, con naturalezza, non si sentono offese e non si ritraggono. Al contrario, volentieri partecipano, con discrezione. In ogni luogo: nei bar, sui tram, per strada. Nasce così l'incanto di fronte al mistero che siamo. L'uomo che si muove, si esprime, parla, canta, sussurra, suona. E non cessa di trasmettere messaggi, anche quando la voce si spegne e guarda con imbarazzo il vuoto. Al di là della protezione delle note convenzioni, per un attimo è perduto. Allora ci interessa anche di più, ci commuove: è lui, disarmato, vivo, vero. C'è chi accenna alle sofferenze di un popolo che s'è liberato da soli dieci anni da una feroce dominazione. Soffriamo con loro. La bella e giovane sposa, il barbone, l'alcolista e il genio al pianoforte fanno parte di un'unica realtà. Una unità che si mostra in milioni di forme, come fiori di campo: tutti essenziali. Tutte le immagini di “Tallinn Lieve” sono della realtà, come tutti i suoni.

Critica: Una Estonia inedita “a tinte lievi”. Proposta atipica ma fertile, quella di Lab80 per il suo Cineforum dell'Auditorium della Libertà, con il documentario Tallinn lieve del regista Alberto Cima. Accolto dalle ottime accoglienze di un folto pubblico. Tallinn, capitale d'Estonia, "lieve" perché vista con leggerezza in un documentario che si fa seguire con lo stesso interesse di una fiction, appassiona e convince col fascino delle cose vere, e al tempo stesso avvince con un uso brillante della cinepresa e un senso modernamente aguzzo del cinema di réportage.Ermanno Comuzio

Volti e paesaggi d'Estonia.Tallinn lieve conferma ampiamente la perizia e la perspicacia dimostrate da Cima nei suoi documentari ricchi di calore umano. Non un semplice "cinéma-verité", ma il veritiero quadro di esistenze vissute da persone laboriose e pragmatiche, custodi gelose delle proprie tradizioni, rispettose della natura, aperte al progresso. Un quadro per nulla enfatico, percorso dalla compiaciuta, ma governata scoperta di una vicinanza, da un'identica scelta di porsi in ascolto di fronte alla

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realtà, ai propri simili, nel ritrovarsi capaci di vincere le difficoltà e in grado di operare per un futuro a misura d'uomo.Achille Frezzato

La strada si misura a passi. Straordinario il sonoro, il suono virtuale delle parole, rese misteriose quando non tradotte dal plurilinguismo usuale, associate al suono reale delle musiche, cantate, eseguite al sassofono, al pianoforte, o danzate: il rimbombo amplificato e suggestivo dei passi di danza e dei volteggi sull'impiantito di legno, gli esercizi ripetuti. E i trasferimenti su tram e autobus traballanti, e l'azione comune del masticare nei pranzi brevi al bar, la tensione e i silenzi imbarazzati delle persone riprese dappresso in interminabili, consapevoli primi piani. La bellissima voce di un sacerdote nel perimetro di una basilica cinquecentesca avente per tetto il cielo, luogo di misteri secolari. E il pittore che dipinge quadri "brutti" con personaggi alla Bosch del Giardino delle delizie, ritratti in un bagno turco. E il pianista che dopo aver eseguito brani di musica classica si prodiga in un tripudio di accordi timbrici dodecafonici. E la vecchia contadina che alleva maiali. E l'azione povera dell'uomo di appendere i quadretti degli antenati... Tutto porta tra filari di alberi percorsi in rapido movimento, al mare: al rumore (che suscita ricordi di odore di salsedine) e allo sciabordio dell'infrangersi delle onde, blu cupo e immateriale, come nei dipinti di Monet. Il luogo del viaggio, degli incontri intensi, delle sincere accoglienze, di una biblioteca dove si apprende e si impone di parlare sottovoce, di città dove non si è (ancora) assediati da ingorghi di automobili e gli spazi sono ancora a misura d'uomo e gli oggetti artigianali sono a misura di mano e il cammino per strada si misura a passi. Un luogo Tallinn di natura integrale, dove la leggerezza dell'essere non artificiale attiene alla sensibilità (e forse anche alla povertà) e alla ricchezza interiore. Senza trama, la cultura visuale che si avverte e trasmette nelle inquadrature, nei montaggi accortissimi, nei movimenti di macchina rigorosamente ritmati e nei dettagli ambientali e architettonici, di particolari di nature morte e viventi. Insomma un vero film che descrive situazioni assai diverse dalle nostre, antropologicamente e culturalmente, ma che sono quali noi avremmo voluto che fosse la nostra futura umanità.Bruno Talpo

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46- UNA VITA ALTROVEAnno: 2004 Durata: 99 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSottotitoli: Italiano, Inglese e FranceseInterpreti: Lorenzo Pellegrini, Pietro Milesi, Ernesto Carminati, Vittorino Pellegrini, Rosa Mazzoleni, Matteo Valceschini. Committente: Centro Studi Valle Imagna Finanziato da: Regione Lombardia con il contributo di Algra SpaSoggetto: Questo film è il risultato unico, speciale, di un incontro tra persone che hanno un'intera vita da raccontare e l'autore. Boscaiolo da sempre, Lorenzo ha trascorso tutta la sua vita all'estero, prima in Francia poi in Svizzera. Il corpo piegato in due da anni di fatiche, Lorenzo porta con leggerezza i suoi settantatré anni sulla cima di abeti da quaranta metri. E il suo lavoro, nella sterminata distesa di faggi e abeti del Risoux, è scientifico e appassionato. Vive solo, da quando la moglie è ricoverata in clinica a Losanna e un figlio è rimasto vittima di un infortunio nel bosco. Eppure non ha perduto il sorriso; ama la natura, e vive con ironia e generosità il suo rapporto con altri emigranti. Con loro, nel bosco, Lorenzo allestisce la carbonaia per trasformare i rami di faggio in carbone attraverso l'antichissimo rituale compiuto per giorni e per notti. La camera li guarda e li ascolta con rispetto, e ci restituisce un imprevisto mondo che ci appare remoto ma scuote nel profondo le nostre forse illusorie certezze.

Critica: Il bosco dove il lavoro quotidiano diventa poesia.Una vita altrove è un film coinvolgente perché immerge in una realtà,

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personaggi e ambienti, totalmente vera, dove la poesia ha la durezza della vita vissuta e fa tutt'uno con la natura, madre silente e misteriosa di tutti. Lorenzo, avvicinandosi con straordinaria naturalezza alla macchina da presa, taglia, sega, sfoltisce (arrampicandosi sui fusti, nonostante l'età). Vive solo, eroicamente incurvato, con lo scodinzolante cane Fen al fianco, da quando la moglie è stata ricoverata senza possibilità di uscita, in una clinica di Losanna. Cima riprende tutto ciò con amore senza enfasi, rinunciando a ogni orpello che non sia l'immagine nuda e cruda. Non v'è commento musicale, né voce narrante, solo i rumori del lavoro e le voci dei boscaioli. Il linguaggio di Alberto Cima è scabro quanto intenso, uso a scavare negli animi per restituirne l'essenza sullo schermo. È la via di Olmi, o del Piavoli di Voci nel tempo.Franco Colombo

47- IL GIARDINO DI LUCIAAnno: 2005 Durata: 90 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSottotitoli: Italiano, Inglese e FranceseInterpreti: Lucia Dolci, Battista Locatelli, Carla Poncet, Benoît Locatelli, René Locatelli, Marise Dusé, Corinne Poncet, Pierre Poncet, Sylviane Vincent, Delphine Poncet, Stephan Locatelli, Sylvain Locatelli, Gaëlle Faure, Mélanie Dusé, Titouan, Mathieu, Emma, Nino, Elena Committente: Centro Studi Valle Imagna Finanziato da: Regione Lombardia con il contributo di Algra Spa.Soggetto:Lucia nasce in un paesino di montagna e, rimasta orfana, trova lavoro al filatoio. Si fa una bella ragazza e sposa il boscaiolo Battista. Non c'è

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lavoro, emigrano, e mettono su casa in Francia, nel piccolo villaggio di Tréminis. Lucia, a 83 anni, ripercorre la sua storia. Lei e Battista, figli della miseria nel primo dopoguerra. Un mondo piccolo, solo due anni di scuola, famiglia e chiesa. I loro figli sono liberi e indipendenti, ma in fondo più soli e fragili. I nipoti, francesi a tutti gli effetti. Hanno più soldi, tempo per sé, cultura, interessi. Liberi di scegliere, ma sanno di dover pagare di persona il prezzo di ogni loro decisione. Quattordici persone. Le lega una casa, dove Lucia governa. Tutti in famiglia la amano e sanno di avere in lei un rifugio, sempre. Il giardino di Lucia è ciò che Lucia ha seminato e fatto esistere, i suoi amori, le paure, i rimpianti.

Critica: Cima, il poeta della cinepresa.Cima, il poeta della cinepresa. Si intitola Il giardino di Lucia l'ultimo, magnifico film-documento di Alberto Cima. Il film è il racconto della vita di Lucia. Ma è pure molto altro: la rappresentazione sottile, intelligente - carica di una pietas che poche volte è dato vedere al cinema con questa intensità - di cinque generazioni, legate dal filo sottile della macchina da presa di Alberto Cima che riesce quasi a scomparire lasciando emergere i personaggi sullo schermo. "Quello che voglio- spiega Cima - è varcare una soglia, entrare in un mondo nuovo nel quale ciascuno si svela com'è, con la sua solitudine e la sua ricchezza. È un lento processo di sottrazione, di svestimento, che leva la superficie e fa risplendere di ciascuno la sua luce, la sua intima verità". Quello che colpisce nel cinema di Alberto Cima è la sua capacità di entrare in intima sintonia con le persone che sta filmando, una tecnica che nasconde un segreto. "filmando gli altri in realtà parlo di me". È questo, probabilmente, il senso più profondo dell'essere autore. Il giardino di Lucia sarà presentato il 27 novembre 2005 alla Cineteca di Grenoble.Andrea Frambrosi

Cima segue i quotidiani lavori in casa di Lucia, nell'orto, nel pollaio, ascolta soliloqui e colloqui, e attorno a lei cinge rete d'amore con le parole dei suoi cari, figli e nipoti, che parlando di sé, dei propri sogni e

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bisogni, svelano anche l'autentica umanità di Lucia. Ancora una volta, la virtù scenica di Cima resta non solo quella di dare spontaneità ai personaggi recuperando con la loro presenza un mondo di valori. Lo fa con quella sapienza di ripresa che mette anche lo spettatore all'interno della scena, testimone partecipe ma anche coinvolta parte in causa con silenzioso dialogo di sguardi, gesti, consensi, sorrisi.Alberto Pesce

Il regista bergamasco Alberto Cima sarà protagonista, oggi, del XXIV Congresso eucaristico nazionale che si sta svolgendo a Bari, nell'ambito del quale verrà presentato il suo ultimo film-documentario: Il giardino di Lucia. È il giardino della memoria: 50 anni di emigrazione srotolati davanti alla macchina da presa di Alberto Cima che con la consueta discrezione e intelligenza è riuscito a riannodare i fili della storia di Lucia e della sua famiglia emigrati in Francia. Il cinema di Alberto Cima si fa ad ogni nuova opera sempre più lucido e levigato senza peraltro abbandonare la curiosità di una sguardo partecipe ma analitico che ha sempre contraddistinto la sua opera. È approdato a uno sguardo sull'uomo e sulla realtà: con la macchina da presa Alberto Cima scava nell'anima dell'uomo.Andrea Frambrosi

Imperdibile è l'ultimo lavoro di Alberto Cima, autore bergamasco che con Il giardino di Lucia firma un'opera di rara suggestione, raccontando il presente di una famiglia di emigranti con partecipato rispetto e sensibilità nel cogliere emozioni e affetti. Angelo Signorelli

48- CONTATTIAnno: 2006 Durata: 57 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola Ratti Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSottotitoli: Italiano, Inglese e Francese

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Soggetto: Timisoara, Romania. Qui è esplosa la rivoluzione contro Ceausescu. La casualità degli incontri nel magma della condizione umana. La famiglia rom che vive sotto un ponte. I ragazzini di strada che imparano il mestiere del circo. Gli scrittori di fantascienza che si incontrano periodicamente su una barca. La rockstar di Bucarest. Ragazze che sognano il cinema. I tossici che fiutano colla. Gente che lavora. La bellezza che le ragazze spandono nell'aria. Giovani che ridono e non hanno paura del futuro.

49- PERMISSIONAnno: 2008 Durata: 30 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Suono in presa direttaSoggetto: A Londra sorry e welcome, ma ciascuno sta nel suo guscio. E obbedisce indifferente. La società divisa in classi. Indiani gestiscono minimarket. I britannici esseri superiori. Il progresso dentro le regole stabilite dagli affari. La proprietà privata è sacra. Il proprietario e i suoi schiavi sorvegliano. Ogni ente, azienda o negozio di pregio ha uno o più addetti che sorvegliano, controllano, spiano. Alla British Library ne ho contati 50. Non si può accedere a nessuna sala di consultazione se non muniti di pass. Poliziotti e spioni di aziende mi allontanano non appena mi accingo a filmare. Ogni cosa appartiene a qualcuno: soltanto il proprietario può permetterne l’uso. Città blindata. L’uomo in cassaforte. Arricchirsi. Bellissimi grattacieli firmati tracciano il confine tra gli eletti e la massa indistinta di cittadini. Corpi vuoti, addomesticati.

Critica:(Trascrizione dal video realizzato da Alberto Nacci) Alberto Cima è un personaggio singolare, come del resto tutti gli artisti, non ho mai conosciuto un artista banale, e questo vale anche per lui. Però mentre altri lo descrivono come un personaggio difficile,

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ostico, almeno alcuni me l'hanno descritto così, in realtà l'ho trovato un personaggio incantevole. È in primo luogo pieno di senso dell'umorismo, che è una cosa che io apprezzo molto. Umorismo per me vuol dire tante cose, sensibilità, intelligenza, capacità di capire il mondo che ci circonda. Permission è pieno di senso dell'umorismo, e da questo punto di vista lo considero l'esito più bello e più originale di Alberto Cima. Alberto Castoldi

50- ORAAnno: 2010 Durata: 20 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Assistente al montaggio: Paola Ratti Soggetto: Lo stupore di essere vivi, qui, ora. Lo sguardo sulle cose. Il mare, le rocce di Sardegna. Il paradiso della fantastica fioritura di primavera. L’asprezza delle rocce inospitali. L’intrico di ramificazioni serpentine. L’olivastro millenario che non muore. Le tracce dell’uomo. Orme sulla sabbia e resti abbandonati di fabbriche poderose. La storia oscura di misteriosi nuraghi. Il corpo vecchio di una donna, i suoi gatti e il moscone. La fatica e l’intelligenza di coleotteri. L’agonia dell’insetto e la tenerezza di freschi seni palpitanti. I giorni che trascorrono in un’attesa terribile e affascinante.

Critica:(Trascrizione dal video realizzato da Alberto Nacci) Cima, oltre a una passione per la forma, ha anche una passione per le forme delle cose, tra le quali non crea mai una gerarchia. Nel film “Ora”, che ha girato in Sardegna, tutto è condotto con uno sguardo educato a vedere le forme delle cose, a vedere i sentimenti che queste cose trasmettono a chi le contempla. Alberto Cima svolge quasi una educazione del nostro sguardo a entrare in rapporto con le cose. Nel senso che in questo suo isolarle ce le fa percepire quasi nella loro

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originarietà creativa e sanno trasmettere una loro bellezza. Mi piace molto l'uso della parola che fa Alberto Cima nei suoi film. Lui non fa mai interviste, non c'è mai un narrante dietro, ma crea una sintonia con le persone, ed escono parole a volte icastiche, parole veramente piene di senso, di sentimento. E lui ama queste parole, c'è una cultura della parola in questi film. In “Ora” sono pochissime le parole che l'anziana sarda pronuncia, ma c'è quel "moscone" che dice tutto della Sardegna, il modo col quale lo pronuncia, la tonalità, la cadenza. Il protagonista dei suoi film è sempre lui, Cima, cioè lui ha questa capacità di uscire, attraverso le immagini, le inquadrature, attraverso le parole che riesce a far tirar fuori ai suoi personaggi, a rivelare quello che è lui, come lui sente la vita, come lui sente l'esistenza. È lui il protagonista di tutti i suoi film, e qui sta la sua capacità, cioè vorrei dire che quasi quasi lui tira questi personaggi ad essere quello che lui vuole, cioè ad esprimere quei valori di vita, quel senso del vivere, dell'esistere.Orazio Bravi

51- ANGELO IN FRANCIAAnno: 2011 Durata: 25 min.Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Soggetto: Il padre lascia amareggiato l’arma dei carabinieri ed emigra in Francia quando, a Trieste, gli viene ordinato di reprimere il dissenso anche sparando sulla folla. È il 1920, si sta preparando la dittatura fascista. Angelo Zois, suo figlio ormai anziano, ripercorre l’arco della propria vita. Vive con la moglie Camille a Lalley, arrondissement di Grenoble. Soli. Con l’immenso dolore della perdita di entrambi i figli: lui morto d’infarto a trent’anni, lei suicida a quaranta dopo aver dedicato con il sorriso tutte le sue energie ai poveri, agli ultimi della terra, in Africa e India.

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52- ONLY WAVEAnno: 2012 Durata: 25 min. Copyright: Alberto Cima Regia: Alberto Cima Soggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima Assistente alla regia: Paola RattiInterpreti:Anita Fabrici, Michaela Kovalcikova, Lenka Brisiakova, Daria Fabrici, Ivana Voscinarova, Betty Simonova Soggetto: Un’unica onda sospinge verso una dimensione di bellezza e di armonia, soltanto un’onda fa vibrare e attira dentro il cuore di un mistero. La tenerezza di uno sguardo, la grazia d’un angelo, la fragilità delle emozioni. Kosice, la seconda città della Slovacchia, è imperlata di queste gocce di miele che brillano alla luce e addolciscono la vita. "Era bella da togliere il fiato, di una bellezza così fiera, virginale e selvaggiamente compiuta, un perfetto esemplare della creazione divina. La sensualità, la grande forza che rinnova il mondo... La bellezza è una forza, al pari del calore, della luce, della volontà umana. "Sandor Marai (liberamente tratto da “La donna giusta” Edizioni Adelphi)

Critica: Only Wave è l'ultimo, formidabile lavoro del regista Alberto Cima. È un omaggio alla bellezza, alle proustiane fanciulle in fiore, ma anche all'Europa che verrà che sarà fatta da questi ragazze e ragazzi che oggi a Kosice come altrove forse non sanno ancora che sarà la loro bellezza a salvare il mondo.Andrea Frambrosi 

53- IL SILLABARIO DI PAOLAAnno: 2013 Durata: 27 min. Copyright: Alberto CimaSoggetto, fotografia, montaggio: Alberto Cima

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Soggetto:Il sillabario di Paola Ratti evoca la storia e le origini della pittrice, ci conduce nel cuore della pianura bresciana, tra le contrade di Orzinuovi, dentro l'Italia rurale di un tempo. Attorno alle lettere d’alfabeto dalle cromie sgargianti si articolano tele figurative che  illustrano momenti, colgono attimi, ci aiutano a trovare un senso, a riflettere sulle cose che contano. La fiaba pittorica è profonda, apparentemente semplice, lineare nella trattazione dell'assunto, giocosa, ironica, umile, dolce. L'immaginazione alita tra l'impasto di suoni dialettali e filastrocche, risate di bambini e scorci domestici, dimensioni oniriche dove il piacere dello stupore s'intreccia alla realtà. La bimba di allora non c’è più. Restano gli zoccoletti rossi, lei se n’è andata lasciando dietro di sé un filo rosso. Alle spalle la mela dell’incanto, ma lei guarda oltre, verso uno spazio nuovo, dove esplorare ancora terra e cielo.

54- IL VECCHIO E LA RAGAZZAanno: 2014Durata: 33 minCopyright: Alberto CimaSoggetto, fotografia, montaggio: Alberto CimaAssistente al montaggio: Paola RattiInterprete: Débora Cristina BorgesSoggetto:Le cicogne occupano Salamanca, mentre Debora esplora la città con Alberto. Sorridendo insieme sullo scorrere del tempo, la natura e la società. Il respiro ampio, libero, la vita come viene, nella freschezza e nell’ironia.

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FILMOGRAFIA RAI

1. Quando la medicina crea la malattiaRubrica: Due per sette, i conti con la scienzaTrasmesso da RAITRE il 13/05/1980

2. Furtwanglerdal Museo della Scala di MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 27/11/80

3. Salammbodi Musorgskij, direttore orchestra Zoltan PeskoApertura stagione sinfonica Rai al Conservatorio di MilanoRubrica: teatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 27/11/80

4. Il bacio della donna ragnodi Manuel PuigRegia Marco Mattolini, con Giulio Brogi, Loris Tresoldi, Franco Ponzoni. Teatro di Porta Romana, MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 27/11/80

5. Il gioco degli deiregia Gabriele Salvatores, con Elio De Capitani, Ferdinando Bruni, Cristina Crippa.Teatro dell’Elfo, MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 27/11/80

6. Falstaffdi Giuseppe Verdi, libretto Arrigo Boito, regia Giorgio Strehler, scenografia Ezio Frigerio, direttore orchestraLorin Maazel, baritono Juan Pons. La Scala, apertura di stagione.Rubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 08/01/81

7. I giganti della montagnadi Luigi Pirandello, regia Mario Missiroli, con Tino Schirinzi. Teatro dell’Arte, Milano

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Rubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 11/12/80

8. Come vi piacedi William Shakespeare, regia Mario Morini, con Ottavia Piccolo. Teatro Carcano, Milano.Rubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 08/01/81

9. Misticada Fogazzaro, testi Paolo Poli e Ida Omboni, regia Paolo Poli, unico interprete Paolo Poli.Teatro Gerolamo, MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 08/01/81

10. L’azzurro non si misura con la mentedi Aleksander Blok. Il gruppo della Rocca, Teatro dell’Elfo, MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 16/01/81

11. Romeo e Giuliettada Shakespeare, coreografie Rudolf Nurejev, con Carla Fracci e Rudolf NurejevRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 16/01/81

12. Il malato immaginariodi Moliere, regia Andrée Ruth Shammah, con Franco Parenti e Lucilla Morlacchi.Salone Pier Lombardo, MilanoRubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 16/01/81

13. Hedda Gablerdi Ibsen, regia Massimo Castri, Centro Teatrale Bresciano, con Valeria Moriconi.Teatro dell’Arte, Milano

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Rubrica: TeatromusicaTrasmesso da RAIDUE il 22/01/81

14. Le farse del circocon Nani, Walter e Loris Colombaioni. CRT MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE dic. 80

15. Musica in metroRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE dic. 80

16. L’infanzia di CristoBalletto su musica di Berlioz. Chiesa di Santo Stefano, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE dic 80

17. Wielopole-Wielopoledi Tadeusz Kantor. Teatro Cricot 2 di Cracovia. CRT MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE gen 81

18. Io l’erededi Eduardo De Filippo, con Enrico Maria Salerno. Teatro Manzoni, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE gen 81

19. Una serata con Eric Satiecon Rosalina Neri. Visualizzazione cromatica di Luigi Veronesi.Teatro Gerolamo, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80

20. I due sergentiserata d’onore all’antica italiana, di Attilio Corsini. Teatro di Porta Romana, Milano.Rubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

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21. Miseria e nobiltàdi Eduardo Scarpetta, con Mario Scarpetta e Dolores Palumbo. Teatro Odeon, Milano.Rubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

22. Il mercante di Veneziacon Paolo Stoppa, regia Memè Perlini. Teatro Manzoni, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

23. Giulia round Giuliada August Strindberg, regia Pier’Alli, musica Sylvano Bussotti. CRT Rubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

24. Cafè Mullerdanza Pina Bausch. Teatro Nuovo, TorinoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

25. Musikdi Frank Wedekind, regia Mario Missiroli, con Gabriele Ferzetti e Annamaria Guarnieri, scene e costumi EnricoJob. Teatro Carignano, Torino.Rubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

26. Anfitrionedi Plauto, musiche di Piovani. Salone Pier Lombardo, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

27. RelacheErik Satie e Franco Piacabia. Balletto, coreografie Luisa Gaj. Sala Azzurra, MilanoRubrica: TeatromusicaGirato per RAIDUE nov 80/mar 81

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28. Erba d’Imagnadi Alberto CimaRubrica: Notizie naturali e civili sulla LombardiaTrasmesso da RAITRE il 04/03/82

29. C’era una volta l’industriaRubrica: Milano DuemilaTrasmesso da RAITRE il 12/01/83

30. Il terziario avanzato: sapere è potere?Rubrica: Milano DuemilaTrasmesso da RAITRE il 26/01/83

31. Consumo quindi sonoRubrica: Milano DuemilaTrasmesso da RAITRE il 02/03/83

32. L’assistenza non è più una virtùRubrica: Milano DuemilaTrasmesso da RAITRE il 23/03/83

33. Monica del Minciodi Alberto CimaRubrica: Notizie naturali e civili sulla LombardiaTrasmesso da RAITRE il 20/10/83

34. Intervistesul pranzo di NataleRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 23/12/86

35. Interviste a Torinodi Alessandro Cecchi Paone sui regali di NataleRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 24/12/86

36. Fulco Pratesi del WWF in diretta dal Po a Porto Tolleintervistato da Alessandro Cecchi Paone

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Rubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 29/12/86

37. Alessandro Cecchi Paoneintervista i fratelli Sandoli del rist. “Ai due leoni” di Ariano PolesineRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 29/12/86

38. Cesare Mazzonis direttore artistico della Scalaconsiglia alcune opere in cartelloneRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 07/01/87

39. Ristorante cinese Elo WueRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 08/01/87

40. Gianfranco Pardi pittoreRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 13/01/87

41. Mottola, del Museo d’arte Poldi Pezzolipresenta alcune opere del museoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 14/01/87

42. Giorgio Upiglio stampatore d’arteillustra tecniche di stampaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 15/01/87

43. Lorenzo Arruga critico musicaleRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 19/01/87

44. Donadoni Rovere, direttrice Museo Egizio di TorinoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 21/01/87

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45. Ermanno Olmiintervistato da Alessandro Cecchi PaoneRubrica; Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 22/01/87

46. Ken Russellil Mefistofele al Teatro Margherita di Genova, la vigilia della primaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 26/01/87

47. Peyranodi Torino e il suo cioccolatoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 28/01/87

48. Emilio Tadiniscrittore e pittoreRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 28/01/87

49. Robin Morgantitolare veleria North Sail di Carasco (Genova)Rubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 09/02/87

50. Il porto di GenovaCavallini, comandante pilotiRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 10/02/87

51. Franca Ramel’amore oggi e ieriRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 16/02/87

52. Gianni Riverala mezza etàRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 03/03/87

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53. Sabina Ciuffiniintervista dott. Vassalli del Centro Bambino Maltrattato di MilanoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 05/03/87

54. Rilegatore d’arteCremoneseRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 09/03/87

55. Carlo Castellanetal’alcolRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 10/03/87

56. Mac Coyserata jazzRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 11/03/87

57. Renzo Montagnanil’amiciziaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 16/03/87

58. Il mercato dell’arteGiorgio Marconi, galleristaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 16/03/87

59. Bambini e musicaall’UmanitariaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 19/03/87

60. Enzo Jannaccicicala o formica?Rubrica: Intorno a noiGirato per RAIUNO il 21/03/87

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61. Patrizia Pellegrinocome si arriva al successoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 23/03/87

62. La Biblioteca AmbrosianaIl prefetto Galbiati intervistato da Alessandro Cecchi PaoneRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 27/03/87

63. Compagnia Teatro Viaggio: ScrickRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 27/03/87

64. Ballerina Daniela CiarroccaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 30/03/87

65. La BorsaAletti, MilanoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 30/03/87

66. L’osservatorio astronomico di Brera-Merate Prof. ChincariniRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 06/04/87

67. Sergio Caputoil risveglioRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 07/04/87

68. Bruno Munarii LegoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 07/04/87

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69. Alberto CovaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 08/04/87

70. Arnoldo FoàRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 13/04/87

71. Fabio CapelloallenatoreRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 14/04/87

72. Cordon BleuTony SarcinaRubrica: Intorno a noiGirato per RAIUNO il 16/04/87

73. Enzo Tortoral’indice di gradimentoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 27/04/87

74. Intervistela bicicletta in cittàRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 28/04/87

75. Walter ChiariRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 05/05/87

76. La matita copiativaRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 08/05/87

77. Alberto LionelloRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 12/05/87

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78. Paola Borbonil’amore e il denaroRubrica: Intorno a noiGirato per RAIUNO il 15/05/87

79. Le nozzedon Giuseppe Triulzi di San CristoforoRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 27/05/87

80. Prima visione: arte in FieraRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 01/06/87

81. Intervistele vacanze dei giovaniRubrica: Intorno a noiTrasmesso da RAIUNO il 08/06/87

82. IntervisteAidsRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 04/11/87

83. Intervisteufficio di collocamentoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

84. CassintegratoLeonardo VaccarielloRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

85. Anziani ballanoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

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86. Agenzia matrimonialeFamilia NovaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

87. Amore alla terza etàla BagginaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

88. Discriminazione in Alto AdigeAnna BoessoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/12/87

89. Lingue diverseCataldo Litta: difficile convivenza in Alto AdigeRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/12/87

90. Interviste a Bolzanoin asilo tedesco e asilo italianoRubrica. Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/12/87

91. MutilatoGiovanni Greco di TorinoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 06/01/88

92. InvalidoSaverio Anzivino di San Mauro TorineseRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 06/01/88

93. BurocraziaAssicurazioni in SiciliaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 20/01/88

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94. Jessica muorei genitori di Jessica, stuprata e uccisa dal suo ragazzo, il padre dell’assassinoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 27/01/88

95. IctusOrnella CaimiRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 17/02/88

96. La menteMaria Pia ZagliaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 17/02/88

97. Tombola fuorileggeirruzione della Finanza nei circoli di Luccarubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 24/02/88

98. Madri coraggiodroga a NapoliRubrica: Star bene con gli altritrasmesso da RAIDUE il 16/03/88

99. Mio figlio tossicouna madre a NapoliRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/03/88

100. Quartieri spagnolidroga a NapoliRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/03/88

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101. Io spacciatoreintervista a NapoliRubrica. Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 16/03/88

102. Disabile a NapoliLucia Valenzi, figlia del sindacoRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

103. Adozioniinterviste ai ragazzi Martinìtt e StellineRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE

104. Biotecnologieintervista a Enrico Shejbal caporicercatore di Enichem AgricolturaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 25/05/88

105. Ingegneria geneticainterviste a Francisco Baralle, Sergio Ottolenghi, Marco PierottiRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 25/05/88

106. In galera per una pistola giocattoloAssurdo a BagheriaRubrica: Star bene con gli altriTrasmesso da RAIDUE il 01/06/88

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I LIBRI

Se un artista è buono, brillante, onesto, trasmette la sua personalità, la sua essenza, il suo universo, in ogni cosa che fa. Il mezzo impiegato non conta, è un semplice veicolo, mediatore, catalizzatore, il filo, il ponte, necessario, imprescindibile, perché si stabilisca la comunicazione, al medesimo livello, faccia a faccia, dentro lo sguardo di Alberto Cima, e quello dello spettatore, del lettore. La parola magica, la parola d'ordine, con cui potersi riconoscere reciprocamente. Dentro i film e i suoi libri, sia fotografici che narrativi, non esiste alcuna differenza, c'è uno stesso atteggiamento estetico, di fronte alla vita, di fronte al processo creativo. Quello dell'osservatore che si lascia trasformare da chi viene osservato, senza pretendere di modificarlo, rispettando la sua dignità, la sua singolarità. Non è il narratore onnisciente che guarda dall'alto i suoi ritrattati, i suoi modelli, né il protagonista soggettivo assoluto dei suoi racconti, compresi quelli più autobiografici, "Risotto per uno" (libro? film?), "L'isola" o "Distinti saluti".

C'è così un'evoluzione, un crescente sforzo per comprendere gli altri, per spogliarsi di se stesso. La rabbia giovanile di "Risotto per uno" è la stessa disillusione che trasmette il libro fotografico "Una semana no más en la Habana", solo cambia tonalità. Non ha più bisogno di gridare, gli basta mostrare. "Risotto per uno" è l'anticipazione de "L'isola", per meglio dire nasce dal medesimo impulso creativo, un anello in più dell'autobiografia di Alberto Cima, che percorre tutta la sua filmografia in secondo piano. Vedendo le sue pellicole, leggendo, contemplando, i suoi libri, si può fare un percorso completo della sua vita, fare i suoi stessi viaggi, vedere le stesse cose che lui ha visto, con i suoi stessi occhi, come dovrebbe produrre qualunque atto di creazione, una comunione con gli altri, una condivisione con le loro esperienze, il loro vissuto, i loro sensi. Uno sguardo ravvicinato, di pelle, "Hand&Brain".

Cima adotta la distanza giusta, adeguata, per lasciare un margine di apertura, di convivenza, ai suoi lettori, ai suoi protagonisti. I suoi diari fotografici di viaggio "Una semana no más en la Habana" ("Tallinn Lieve", "Permission", su carta) e "Prospettiva N" ("Only Wave" su carta, scambiando Kosice con San Pietroburgo), non sono la superficiale visione del turista, accanito raccoglitore di cartoline, siti pittoreschi, inquadrature spettacolari. Sono sguardi, con i piedi per terra, di ciò che vede, ciò che ascolta, soprattutto persone, il suo principale punto focale, da buon umanista, vitalista, e di come interagisce con loro. Non

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fa il creatore, e all'altro lato, i modelli, i personaggi. Lo spettatore che viaggia attraverso i suoi libri, lo fa in prima persona, nel tempo presente, ed è Alberto che lo accompagna, senza imporgli la strada, solo suggerendo i suoi luoghi, persone, cose, preferite, come un buon anfitrione. Con lo stesso ritmo selvaggio dei suoi film, senza concessioni alla retorica, con un linguaggio secco, diretto, brutale, indifferente al politicamente corretto, con una franchezza senza fronzoli, senza il minimo barlume di ipocrisia, come i romanzi di Brancati o i copioni di Scola. "Una semana no más en la Habana" non è un vistoso documentario di National Geographic pieno di poveri che ridono e ballano, un colorato supplemento turistico della domenica, è la Cuba reale, una Cuba povera, miserabile. Senza libertà, c'è a malapena dignità, solo sopravvivenza, qualcosa in cui sono esperti i cubani, che fanno di necessità virtù. Come Alberto Cima, che trasforma la sua necessità di espressione, di osservazione, in virtù di comprendere, di solidarizzare.

RISOTTO PER UNO (1966)

Ritratto autoironico di un giovane che si interroga sul suo stare nel mondo, libero e vivo.

PSICOSEGNINI D'AMORE E DI RABBIA (1970)

Diario di una segregazione dentro il recinto di un’industria meccanica: Servizio Vendita Estero Carrelli Elevatori.

AMORE AMORE (1977)

Le vicende di un uomo che annaspa tra famiglia e lavoro. La sua solitaria sofferta lotta contro la multinazionale del farmaco nella quale lavora. Vince, ma la realtà è altrove: le misteriose pulsioni della vita, vissute con ironia.

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TEMPO D'IMAGNA (1985)

Libro fotografico in bianconero. Esplorazione degli archivi fotografici familiari di un’intera valle, prima che svanissero irrimediabilmente. Diecimila fotografie personali rovesciate dai cassetti sui tavoli delle cucine. Dentro a tuffo nel mare oscuro e più segreto dei ricordi, degli affanni, dei dolori: la fame, l’emigrazione, la famiglia, la chiesa, la sorveglianza dei confini, l’asprezza del vivere. La bellezza di un rapporto umanissimo, palpitante come una confessione senza giudizi né penitenze.

ABBRUCIATI E PERCOSSI (1985)

Devoti terrazzani nelle cronache dell’Ottocento. Esplorazione minuta e ironica delle cronache di fine Ottocento. La quotidianità punteggiata da infortuni domestici, zuffe feroci con colpi di falcetto e di fucile, contrasti politici e corruzione, dentro una trama culturale che la Chiesa tesse su una popolazione analfabeta. E intanto la tecnologia cambia la vita: elettricità, telefono, automobile...

LE MILLE LIRE SOLE IN CASA (1992)

Dobbiamo rallegrarci che ora c'è l'euro, per fortuna. Siamo dentro una realtà sovranazionale, meno angusta del nostro orticello. Ma perché dimenticare? Le mille lire ci hanno lasciato. Poverette! Ma quando erano vive e circolanti, nel 1992 mi è sembrato doveroso dedicare questo omaggio al piccolo foglio di carta. Diciamocelo, le abbiamo sempre usate. Senza ritegno. Le abbiamo date e prese, per i nostri comodi. E strapazzate senza batter ciglio. Con loro siamo stati spesso brutali. Ce ne approfittavamo perché non si era mai sentito che anche una sola volta le mille lire si siano vendicate. Qui ne prendiamo le difese, e ci accostiamo con rispetto al loro animo gentile. Le mille lire,

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quando si trovavano finalmente sole in casa, lontane dalla ruvidezza delle nostre mani, si manifestavano semplicemente, in tutta libertà. E pensando a loro, stringe il cuore vedere come, mentre ci garantivano la nostra vita (tra l'utile e l'inutile) tacevano discrete e si consumavano tra velleitari slanci e amari ripiegamenti. Grazie, mille lire!

LA STANZA DELLE RONDINI (1999)

Soggetto e sceneggiatura del film “La stanza delle rondini”, e schede di tutti gli interpreti.

HAND&BRAIN (2007)

Libro fotografico a colori. Mano e cervello. Pensare-fare-pensare. L’ombra del paradiso promesso è qui, per intanto. Ricominciare da capo. Andare lì dove tutto ha inizio. La mano e il cervello. Fare e pensare. Un viaggio profondo dentro i labirinti della natura umana, il sentire forte della nostra anima in alterno dibattersi tra fiamme e gelo. Riflettere su ciò che si intende fare e su ciò che si è fatto. Non si scorge nella nostra storia un percorso razionale. Un espandersi e un rinchiudersi. In superficie il lindore del nostro mondo ordinato, nel profondo la vastità immensa di caverne inquietanti.

GENT LOW COST (2007)

Libro fotografico in bianconero. Questo libro è un omaggio al Caso. Un atto di non volontà. Nel 2006 parto e riparto per Gent, sei volte. La destinazione Gent è frutto del caso. Non ha alcuno scopo, se non l’esplorazione randagia. Il piacere dell’abbandono dei propri sensi a un itinerario gratuito. Doppiamente gratuito. Non esageriamo: a basso costo. È bello spendere poco. La camera digitale scatta senza ritegno centinaia di foto. Gratis. Niente rullini da sviluppare e stampare. Fotografie casuali, di chi per caso volta

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pagina e s’immerge in un’altra storia. Ma non è un’altra storia. La vita è una sola. Non c’è un’altra storia né un altro mondo. È tutto qui. Le differenze sono trascurabili. Diventano forti quando la paura e l’odio le rendono forti. Vorrei sotterrare tutte le armi e con loro i capi di qualunque cosa, i malati di potere.

CARISSIMO ROMEO (2009)

Libro fotografico in bianconero. Storia di famiglia attraverso fotografie e lettere appassionate.

UNA SEMANA NO MÁS EN LA HABANA (2010)

Come la totalità degli esseri umani che si riprendono dallo stupore di trovarsi scagliati a caso nel mondo, Alberto Cima asseconda il destino che gli è dato avventurandosi anima e corpo in quell’inferno-paradiso che è L’Avana 2010. Inferno di miseria e degrado di un sistema che prometteva il paradiso della giustizia sociale e pari dignità. Tra le rovine sprizza inestinguibile l’energia vitale, l’antica saggezza di un sorriso.

PROSPETTIVA N (2012)

Ora dopo 19 anni, non so bene perché, mi sono trovato ad essere risospinto a San Pietroburgo. Ho con me la piccola fotocamera. Piccola come un taccuino e una matita. Piccola e semplice, non mi piace che una macchina impegnativa abbia il ruolo d'una Svetlana e s'imponga sul mio vivere. Mi obblighi a tener conto della sua presenza e alla fine snaturi le mie giornate. Sotto sotto riconosco che il fine della mia azione non è il prodotto, la fotografia. Ciò che mi preme resta il bisogno di sempre. Esplorare il mistero del mio temporaneo esserci, insieme con tutti gli altri. E la fotocamera la uso come un medium che innesca il rapporto e lo fa speciale.

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GRATIAE (2013)

Quando ci penso la società si allontana sullo sfondo con le sue precarie consuetudini plasmate nel tempo. Vedo invece il mio corpo e la mia mente agitarsi, compiere scelte, tracciare percorsi dentro il bene e il male. E capisco che la libertà è necessaria. Vivere veri, nutrendosi dell’autenticità e della verità di tutti. Sentire in sé la vita. E il miracolo della bellezza. Un dono. Mi accogli nella tua segreta stanza. Mi sorridi gentile. Le tue labbra socchiuse. Offri il tuo giardino profumato. Piccoli baci punteggiano il corpo di stelle. Gli occhi i tuoi occhi tracciano una cometa che nel suo incanto ama l’universo. Sento rigenerarsi in questo fluido uno spirito nuovo che scioglie i diaframmi e comprende gli altri, tutti gli altri, in un reciproco abbraccio.

IL SILLABARIO DI PAOLA (2014)

Il sillabario di Paola Ratti evoca la storia e le origini della pittrice, ci conduce nel cuore della pianura bresciana, tra le contrade di Orzinuovi, dentro l'Italia rurale di un tempo. Attorno alle lettere d’alfabeto dalle cromie sgargianti si articolano tele figurative che  illustrano momenti, colgono attimi, ci aiutano a trovare un senso, a riflettere sulle cose che contano. La fiaba pittorica è profonda, apparentemente semplice, lineare nella trattazione dell'assunto, giocosa, ironica, umile, dolce. L'immaginazione alita tra l'impasto di suoni dialettali e filastrocche, risate di bambini e scorci domestici, dimensioni oniriche dove il piacere dello stupore s'intreccia alla realtà. La bimba di allora non c’è più. Restano gli zoccoletti rossi, lei se n’è andata lasciando dietro di sé un filo rosso. Alle spalle la mela dell’incanto, ma lei guarda oltre, verso uno spazio nuovo, dove esplorare ancora terra e cielo.

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JULIO POLLINO TAMAYO“Artista della fame” alla maniera di Kafka, nato e pascolato in Castiglia. Ha svolto tutti i tipi di mestieri non intellettuali in vari paesi. Per molti anni si è dedicato alla pittura del tutto ai margini del mercato. Autore di vari libri di poesia e anti-poesia, tra cui "Morfismi" e "Amorfismi", inoltre di numerose antologie poetiche, traduzioni e ricerche in vari campi. Cinefilo impegnato e indipendente, ha realizzato varie antologie di cinema ("Antologia del cinema spagnolo" "Il grande cinema italiano", "Cinema fatto per donne" ecc.) e libri monografici dedicati ai registi Robert Bresson ("Robert Bresson, un oggetto difficile da afferrare") e Juan Sebastian Bollaín ("Juan Sebastian Bollaín, un regista eterodosso"), inoltre scrive di cinema sul proprio blog ("Viaggio appassionato", prima chiamato "Cinelacion") e su forum. Attualmente si dedica anima e corpo al disegno non professionale e alla pratica cinematografica amatoriale che include numerosi corti, mediometraggi e alcuni lungometraggi, tra cui spiccano "Besana", "Senza Dio" e il suo ultimo lavoro "Cortile di morti", tutti volutamente inediti.

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Stampato nel maggio 2014

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