Il Barocco Veneto

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Baldassare Longhena (Venezia, fine del 1596 o inizio 1597 – Venezia, 18 febbraio 1682) è stato un architetto e scultore italiano della Repubblica di Venezia fra i più celebri e rappresentativi del suo tempo. L'attività di Longhena si concentrò soprattutto a Venezia e nelle immediate vicinanze della città lagunare. Biografia[modifica | modifica sorgente] Primogenito di Melchisedech e di Giacomina, nacque quasi certamente a Venezia tra la fine del 1596 e l'inizio del 1597. La data di nascita non è nota con precisione in quanto i documenti della parrocchia di San Provolo (dove molto probabilmente venne alla luce) relativi a quel periodo sono andati perduti; nell'elenco dei tagliapietra del 1672, però, viene citato come settantacinquenne e nell'atto di morte del 1682 come ottantacinquenne. Ebbe tre fratelli, Decio, Medea e Giovanni. La critica recente ha completamente rivisto le ipotesi negative attorno alla sua formazione; sino agli anni 1950, infatti, si riteneva valido il giudizio di Tommaso Temanza (1778) che lo considerava un umilissimo scalpellino privo di studi riuscito col tempo a raggiungere il rango di architetto di Stato. È vero che si formò nella bottega del padre Melchisedech, ma quest'ultimo era molto più di un modesto tagliapietra e poteva vantare rapporti con personalità quali Alessandro Vittoria e Vincenzo Scamozzi. Contribuirono alla sua educazione artistica anche lo studio di Andrea Palladio e di Sebastiano Serlio, nonché il mecenatismo della famiglia Contarini. Lavorò anche in campo più "burocratico" (preparazione di lettere, gestione di contabilità) facendo di sé stesso uno dei primi esempi di architetto professionista[1]. Iniziò poco più che ventenne a mettersi in luce con i rifacimenti del palazzo Malipiero (1621-1622) e con la radicale ristrutturazione del palazzo Giustinian Lolin (1623). Nel 1631 fu incaricato di progettare ed erigere la Basilica di Santa Maria della Salute, sua creazione più significativa e una delle grandi gioie del barocco veneto ed italiano. La Basilica fu costruita per un ex voto da parte della cittadinanza al termine di una terribile epidemia di peste che infuriò nel 1630 a Venezia ed in gran parte dell'Italia settentrionale. Il corpo centrale, di forma ottagonale, è sormontato da una cupola che si staglia imponente dalla Punta da Mar ed è perfettamente visibile sia dal Canal Grande che dalla piazza San Marco. La severa

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Baldassare Longhena (Venezia, fine del 1596 o inizio 1597 – Venezia, 18 febbraio 1682) è stato un architetto e scultore italiano della Repubblica di Venezia fra i più celebri e rappresentativi del suo tempo.

L'attività di Longhena si concentrò soprattutto a Venezia e nelle immediate vicinanze della città lagunare.

Biografia[modifica | modifica sorgente]

Primogenito di Melchisedech e di Giacomina, nacque quasi certamente a Venezia tra la fine del 1596 e l'inizio del 1597. La data di nascita non è nota con precisione in quanto i documenti della parrocchia di San Provolo (dove molto probabilmente venne alla luce) relativi a quel periodo sono andati perduti; nell'elenco dei tagliapietra del 1672, però, viene citato come settantacinquenne e nell'atto di morte del 1682 come ottantacinquenne. Ebbe tre fratelli, Decio, Medea e Giovanni.

La critica recente ha completamente rivisto le ipotesi negative attorno alla sua formazione; sino agli anni 1950, infatti, si riteneva valido il giudizio di Tommaso Temanza (1778) che lo considerava un umilissimo scalpellino privo di studi riuscito col tempo a raggiungere il rango di architetto di Stato.

È vero che si formò nella bottega del padre Melchisedech, ma quest'ultimo era molto più di un modesto tagliapietra e poteva vantare rapporti con personalità quali Alessandro Vittoria e Vincenzo Scamozzi. Contribuirono alla sua educazione artistica anche lo studio di Andrea Palladio e di Sebastiano Serlio, nonché il mecenatismo della famiglia Contarini. Lavorò anche in campo più "burocratico" (preparazione di lettere, gestione di contabilità) facendo di sé stesso uno dei primi esempi di architetto professionista[1].

Iniziò poco più che ventenne a mettersi in luce con i rifacimenti del palazzo Malipiero (1621-1622) e con la radicale ristrutturazione del palazzo Giustinian Lolin (1623).

Nel 1631 fu incaricato di progettare ed erigere la Basilica di Santa Maria della Salute, sua creazione più significativa e una delle grandi gioie del barocco veneto ed italiano. La Basilica fu costruita per un ex voto da parte della cittadinanza al termine di una terribile epidemia di peste che infuriò nel 1630 a Venezia ed in gran parte dell'Italia settentrionale. Il corpo centrale, di forma ottagonale, è sormontato da una cupola che si staglia imponente dalla Punta da Mar ed è perfettamente visibile sia dal Canal Grande che dalla piazza San Marco. La severa classicità del suo interno contrasta nettamente con le ardite concezioni scenografiche della parte esterna che si articola in forme ricche di movimento di chiara ispirazione barocca. La costruzione della Basilica di Santa Maria della Salute richiese oltre mezzo secolo: l'edificio fu inaugurato infatti solo nel 1687, cinque anni dopo la morte del suo ideatore.

Il Longhena fu profondamente influenzato da due sommi maestri del Cinquecento italiano, Jacopo Sansovino e Andrea Palladio. Pienamente inserito nelle correnti barocche del suo tempo, l'architetto riuscì a conferire ad alcune sue opere una sontuosità e degli effetti chiaroscurali carichi di un profondo drammatismo, riscontrabile soprattutto in quello che fu il suo capolavoro indiscusso, Santa Maria della Salute.

Allievi e successivamente collaboratori ed epigoni del Longhena furono Giuseppe Sardi (1630-1699), Bernardo Falconi di Bissone ed Antonio Gaspari (1670-1738). Il primo, originario di Morcote, lavorò a fianco del grande maestro nella realizzazione della chiesa dell'Ospedaletto, mentre il Gaspari seguì i lavori di edificazione di Ca' Pesaro dopo la morte del Longhena.

Opere[modifica | modifica sorgente]

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Fra le sue maggiori realizzazioni, oltre Santa Maria della Salute, vi sono:

Duomo di Chioggia (distrutto da un incendio nel 1623 e rifatto dal Longhena a partire dal 1633)

Procuratie Nuove, Venezia (lasciate incompiute da Vincenzo Scamozzi e terminate dal Longhena attorno al 1640)

Scalinata della biblioteca di San Giorgio Maggiore, Venezia (1641-1646)

Palazzo Belloni Battagia, a Venezia (1648-1660)

Cappella Vendramin in San Pietro di Castello, Venezia (1649)

Santa Maria di Nazareth, più conosciuta come Chiesa degli Scalzi, Venezia (1656-1663)

Duomo, Loreo, provincia di Rovigo (1658-1675)

Ca' Pesaro, Venezia (1659-1682; completato da Antonio Gaspari nel 1710)

Palazzo Zane Collalto, Venezia (1665; portato a termine dal Gaspari)

Chiesa dell'Ospedaletto di San Giovanni e Paolo, Venezia (1667-1678)

Ca' Rezzonico, Venezia (Ex Palazzo Bon, 1667-1682; completato da Giorgio Massari nel 1756)

Villa Paccagnella, Conegliano (1679)

Villa Angarano, Bassano del Grappa (seconda metà del XVII secolo), completamento del corpo centrale, a partire dalle strutture cinquecentesche del Palladio

Ca' Rezzonico è uno dei più famosi palazzi di Venezia, ubicato nel sestiere di Dorsoduro.

Storia[modifica | modifica sorgente]

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Fu costruito da Baldassarre Longhena su incarico a partire dal 1649 della nobile famiglia Bon. A causa delle difficoltà economiche di questi, e della morte del Longhena nel 1682 venne abbandonata. Rimase solo la faccia nobile verso il Canal Grande e un primo piano coperto da travi in legno.

Nel frattempo una famiglia originaria del borgo di Rezzonico, sul Lago di Como, i Della Torre-Rezzonico, comprarono il titolo nobiliare nel 1687. E fu proprio un Rezzonico, Giambattista, che nel 1751 comprò il palazzo. Affidò l'ultimazione dell'opera a Giorgio Massari che vi riuscì nel 1756. Fu lui ad abbellire il retro del palazzo, costruirvi il magnifico scalone d'onore e l'imponente salone da ballo, eliminando il solaio. I dipinti sono di Giambattista Crosato, Pietro Visconti, Giambattista Tiepolo, il giovane Jacopo Guarana e Gaspare Diziani.

Il palazzo fu finito giusto due anni prima dell'elezione a papa di Carlo Rezzonico, fratello del Giambattista, col nome di Clemente XIII. La famiglia si estinse nel 1810.

Subì varie cessioni. Fra i proprietari lo scrittore Robert Browning, e il conte e deputato Lionello Hirschell de Minerbi, che nel 1935 lo cedette al Comune di Venezia.

Attualmente è sede del Museo del '700 veneziano che, oltre a ricostruzioni di ambienti con mobili e suppellettili dell'epoca, ospita importanti opere pittoriche del Canaletto, Francesco Guardi, Pietro Longhi, Tintoretto, nonché dei Tiepolo e numerosi bozzetti in terracotta di Giovanni Maria Morlaiter.

Funzione del palazzo Veneziano[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo veneziano conserva sempre la traccia della sua origine e cioè la casa-fondaco. È quindi la residenza del patrizio ma anche l'azienda del mercante. Ha due ingressi: uno dall'acqua dove entrano le merci chiamato riva, l'altro da terra, che può immettere in una corte con pozzo per l'approvvigionamento idrico e permettere l’accesso ad una scala esterna. La merce arrivava quindi di solito via acqua ed era portata al piano di sopra, nel salone principale, per essere mostrata ai clienti. Più recentemente il salone principale veniva utilizzato solo per feste e ricevimenti. Al piano terra, lateralmente all'androne d'ingresso,

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si trovava il mesà o piano ammezzato; le ali erano divise a metà in altezza e utilizzate come uffici amministrativi del mercante. Le stanze laterali al salone principale erano utilizzate come abitazione propria del "paròn de casa". Infine il sottotetto abitato in origine dai servitori e dagli addetti all'azienda mercantile. Anche se negli ultimi quattro secoli della Serenissima è andata persa la vocazione originale di quella società di mercanti imprenditori si è voluto continuare a costruire rispettando quello stile divenuto oramai tipico della città lagunare.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

La pianta[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo è evidentemente a tipologia Italiana, articolato intorno ad un cortile centrale. Il giardino alle sue spalle si è adattato alla conformazione degli edifici circostanti e anche per questo si estende per poco. Alla morte del Longhena, il Massari ha realizzato un imponente ingresso che si protende nel giardino. Tale ingresso non è centrato sulla facciata posteriore del palazzo, è spostato verso l’asse centrale che taglia il giardino da Est a Ovest.

La facciata[modifica | modifica sorgente]

La facciata principale del palazzo si affaccia sul Canal Grande, posizione che rispecchia il prestigio della famiglia proprietaria. È suddivisa in tre ordini orizzontali: dal basso troviamo il piano a livello del canale, caratterizzato dal forte bugnato che pare sostenere il resto dell’edificio, conferendo una parvenza di movimento dato che è interrotto da finestre di dimensioni ridotte se paragonate a quelle sovrastanti. Il bugnato crea fin dalla base dell’edificio un contrasto di chiaro-scuro di chiaro stampo barocco, che continua nei due piani nobili. Il primo piano nobile difatti appare più ricco (soprattutto oggi che il bugnato al piano terreno ha perso gran parte del suo intonaco bianco) e qui l’effetto di chiaroscuro è dato dal risalto delle colonne a tutto tondo binate agli estremi della facciata (che Longhena elabora su probabile suggerimento del Sansovino) e delle ringhiere bianche sulle finestre che, essendo incassate tra le colonne e con infissi di legno scuro, appaiono quasi al buio. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il secondo piano nobile che, pur essendo costruito dal Massari, segue l’originale progetto del Longhena. Lo spazio tra il margine superiore del secondo piano nobile e la copertura doveva essere occupato dal solaio, poi eliminato da Massari per il soffitto della imponente sala da ballo, ed è finemente decorato con rientranze di forma ellittica che terminano l’effetto del chiaroscuro nella parte superiore. In tutta la facciata, su tutti i piani, le decorazioni sono abbondanti: statue, erme e rilievi che sono perfettamente in sintonia con le ampie aperture e la disposizione delle colonne.

Ideale per un confronto in facciata è Cà Pesaro, anch’essa realizzata dal Longhena. Analogo è l’uso del bugnato al piano terreno, nonché l’effetto chiaroscuro su tutta la facciata e la presenza di colonne binate, qui in numero superiore. I piani nobili sono suddivisi in un eguale numero di finestre per entrambi i palazzi così come le parti di bugnato e le decorazioni del solaio, che in Ca' Pesaro sporgono al posto di rientrare. Anche le decorazioni seguono lo stesso schema nelle loro posizioni, ma il piano terreno di Cà Rezzonico è più rifinito. Anche le linee di luce, che seguono le parti bianche in luce, ovvero colonne e parapetti, se tracciate per uno dei due palazzi, si adattano benissimo all’altro (si sdoppia la linea sulle colonne binate più centrate presenti in Pesaro).

Massari si ispirerà a Longhena per i suoi successivi palazzi. Osservando Palazzo Labia, subito notiamo la straordinaria somiglianza dei due bugnati alla base nonché le pressoché identiche decorazioni che chiudono il solaio.

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Il cortile interno[modifica | modifica sorgente]

Il cortile interno è rettangolare, con un motivo decorativo sul pavimento che parte da un rettangolo e crea linee curve che si sdoppiano e ricongiungono, circondando un’ellisse e altri due rettangoli dai bordi stondati.

Molto simile è la decorazione del cortile di Ca' Pesaro, che però vede la presenza di un monumentale pozzo. Le pareti laterali di quest’ultimo sono più decorate con finestre, bugnati e aperture ellittiche.

Le pareti laterali del cortile di palazzo Rezzonico sono invece spoglie, solo interrotte in corrispondenza dei piani da cornicioni. Ciò mette in risalto le finestre che si aprono sul cortile in successione verticale e con infissi decorati, che osservate dal centro del cortile slanciano verso l’alto la struttura.

Le stanze interne[modifica | modifica sorgente]

Di grande effetto scenico è sicuramente lo scalone d’onore, voluto dal Massari per collegare i piani, finemente arricchito con statue, rilievi, decorazioni geometriche su muri e pavimenti, originariamente era coperto da un tappeto decorato con motivi sul rosso e illuminato a giorno dalle finestre aperte al piano superiore. Numerose sale sono oggi chiuse o carenti di immagini perché utilizzate per il museo di arte del ‘700. Tra gli ambienti più suggestivi ricordiamo la sala della dama, riccamente decorata con motivi dai colori vivaci, come il verde e il rosa, su uno sfondo bianco e fornita ovviamente di numerosi specchi. La sala dei pastelli tende più al rosso e all’arancione ed è ricca di mobili e quadri del barocco Italiano (questa sala in particolare ospita capolavori dipinti o costruiti originariamente per Ca' Rezzonico). Ma il salone più imponente e grandioso è sicuramente il salone da ballo. Voluto anch’esso dal Massari, occupa tutta la larghezza dell’edificio ed è ottimamente illuminato dalle ampie finestre e dai maestosi lampadari, anch’essi, data la loro complessità e precisione nel dettaglio, di indubbio gusto barocco. La sala da ballo ha un particolare soffitto affrescato, per ottenere il quale Massari ha dovuto eliminare il solaio del secondo pia

Santa Maria della Salute (o chiesa della Salute o semplicemente La Salute) è una basilica di Venezia eretta nell'area della Punta della Dogana, da dove risalta nel panorama del Bacino di San Marco e del Canal Grande. Progettata da Baldassare Longhena con attenzione ai modelli del Palladio, è una delle migliori espressioni dell’architettura barocca veneziana. La sua costruzione rappresenta un ex voto alla Madonna da parte dei veneziani per la liberazione dalla peste che tra il 1630 e il 1631 decimò la popolazione, come era avvenuto in precedenza per le chiese del Redentore e di San Rocco. Questo è così radicato a Venezia che è stato necessario inserire la Vergine Maria nell'elenco dei Santi Patroni della Città di Venezia.

Storia[modifica | modifica sorgente]

La peste fu portata da un ambasciatore del duca di Mantova Carlo I Gonzaga Nevers, che venne internato nel Lazzaretto Vecchio, ma gli bastò entrare in contatto con un falegname per infettare la città, a partire da Campo San Lio[1].

Il 22 ottobre 1630 il voto del patriarca Giovanni Tiepolo: «voto solenne di erigere in questa Città e dedicar una Chiesa alla Vergine Santissima, intitolandola SANTA MARIA DELLA SALUTE, et ch'ogni anno nel giorno che questa Città sarà pubblicata libera dal presente male, Sua Serenità et li Successori Suoi anderanno solennemente col Senato a visitar la medesima Chiesa a perpetua memoria della Pubblica gratitudine di tanto beneficio»[senza fonte]. Il 26 ottobre in Piazza San Marco il Doge Nicolò Contarini, il clero e il popolo

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si riunirono a pregare. Quando la peste finì morirono 80.000 veneziani, e 600.000 nel territorio della Serenissima, da Brescia a Trieste, dal Polesine a Belluno[senza fonte]. Fra i morti, il doge e il patriarca.

Per fare spazio alla nuova chiesa si scelse di demolire un soppresso complesso religioso (la Chiesa della Santissima Trinità con convento e scuola) adiacente alla Punta da Màr, la dogana di Venezia. Per poter erigere in quel posto la Basilica vi vollero ben 1.156.650 pali[2] conficcati nel terreno ed una vasta bonifica del suolo. La quantità dei pali indicata è assolutamente esagerata e viene espressa da Giustiniano Martinioni nel 1663 nelle sue aggiunte alle pubblicazioni del Sansovino senza indicarne la fonte. Infatti nal 1631 il Longhena per il consolidamento del terreno previde la superficie di 522 passi quadri cioè di mq.1576 con indicata la lunghezza il diametro e l'essenza dei tolpi (pali). Dunque ipotizzando un diametro dei pali di 25 cm, non è possibile infiggere più di 16 pali per mq., cioè una quantità ben diversa da quella indicata dal Martinioni. Anche estendendo la superficie a tutto la scoperta si ritiene adeguata la stima di circa 100.000 pali utilizzati. Già il 28 novembre 1631 si svolse il primo pellegrinaggio di ringraziamento.

La costruzione fu affidata dopo un concorso a Baldassare Longhena, che aveva progettato una chiesa «in forma di corona per esser dedicata a essa Vergine», e venne finita quando il patriarca Alvise Sagredo il 9 novembre 1687 la benedisse.

Ogni 21 novembre dell'anno si festeggia la Festa della Madonna della Salute in cui i veneziani attraversano un ponte, per secoli fatto di barche, ora galleggiante fissato su pali, che va da San Marco alla basilica e vi si recano a pregare. Insieme alla Festa del Redentore, è ancora oggi una delle feste popolari più amate e partecipate dai veneziani. In tale occasione, tradizionalmente, i veneziani consumano la "castradina", un piatto a base di montone.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Esterno[modifica | modifica sorgente]

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Il corpo centrale è a forma ottagonale su cui poggia una grande cupola emisferica, circondato poi da sei cappelle minori. Le raffinate volute a spirale stabilizzate da statue fungono da contrafforti per la cupola, sulla cui lanterna si innalza la statua della Vergine.

La chiesa si prolunga verso sud nel volume minore del presbiterio con absidi laterali, coperto a sua volta da una cupola più bassa e affiancato da due campanili: questi elementi appaiono imponenti a chi percorre il Rio Terà dei Catecumeni, che fino all’inizio del XX secolo era l’unico accesso da terra alla chiesa. Longhena creò in questo modo, riprendendo soluzioni del Palladio, prospetti diversi a seconda che si osservasse il tempio dal Canal Grande, dal sottostante Campo della Salute, dal Bacino di San Marco, dal Canale della Giudecca o dal Rio Terà.

Facciata[modifica | modifica sorgente]

La facciata principale è stata decorata dallo scultore Tommaso Rues con statue marmoree dei quattro evangelisti:

La facciata principale

San Marco

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San Luca

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San Matteo

San Giovanni

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Interno[modifica | modifica sorgente]

Pala di Tiziano Vecellio con La discesa dello Spirito Santo (1555), le sculture degli angeli sono di Michele Fabris detto l'Ongaro.

Lo spazioso interno, centralizzato, è ampiamente illuminato dalle finestre termali delle sei cappelle laterali e dai finestroni del tamburo della cupola. La luce dà risalto alla pavimentazione in tessere di marmi policromi.

Il presbiterio e l'altare maggiore disegnato dal Longhena stesso dominano su tutto. Il gruppo scultoreo sull'altare rappresenta una Madonna con bimbo, a rappresentare la Salute che difende Venezia dalla peste. È opera di uno scultore fiammingo molto attivo a Venezia, il cui nome viene solitamente reso in Giusto Le Court o Jouste de Corte nato a Ypres nel 1627 e morto a Venezia nel 1679. L'altare custodisce un’icona bizantina, la Madonna della Salute o Mesopanditissa, che proviene dall'Isola di Creta e fu portata a Venezia da Francesco Morosini nel 1670 quando dovettero cedere l'isola ai Turchi.

Nelle cappelle laterali si trovano la tela Discesa dello Spirito Santo di Tiziano (1555) e l'altare dell'Assunta con la pala di Luca Giordano, la statua di San Girolamo Miani di Giovanni Maria Morlaiter e altre opere scultoree di Tommaso Rues.

La cupola è arredata con statue lignee rappresentanti i profeti, recentemente attribuite allo scultore Tomaso Rues.[3]

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Francesco Maffei (Vicenza, 1605 circa – Padova, 2 giugno 1660) è stato un pittore italiano.

Biografia[modifica | modifica sorgente]

La sua prima formazione pittorica avvenne nella scuola vicentina di Alessandro Maganza, ma si completa con lo studio dei grandi pittori di scuola veneta del XVI secolo: Jacopo Bassano, Tintoretto e Paolo Veronese, artisti la cui lezione Maffei saprà riutilizzare per la sua maturazione in senso barocco.

Negli anni '20 e '30 del XVII secolo opera nella sua città natale, eccetto nel 1638, quando è documentato a Venezia, dove termina il suo percorso formativo, al fianco di Sante Peranda, dipingendo nella chiesa di San Nicola da Tolentino.

Tra gli anni '40 e la sua morte, intervenuta nel 1660, svolge la sua attività di pittore, oltre che nelle già citate città venete, a Brescia, a Rovigo, a Milano e a Padova, dove si trasferisce nel 1657 e dove, l'anno successivo, dipinge nella basilica di Sant'Antonio da Padova.

La parte più consistente della sua attività è svolta a Vicenza, dove appare come uno dei più importanti pittori del periodo e dove glorifica su grandi tele i podestà che governano la città per conto della Repubblica Serenissima. Di particolare pregio le opere conservate all'Oratorio di San Nicola da Tolentino, i suoi ultimi dipinti nella città berica prima del trasferimento a Padova nel 1657.

Giovanni Antonio Fumiani (Venezia, anni 1640 – Venezia, 1710) è stato un pittore italiano.

Biografia[modifica | modifica sorgente]

Figlio di Biagio e di una Lucrezia, non si conosce la sua precisa data di nascita. Da un manoscritto dell'Orlandi, citato da Edoardo Arslan, si ricava la data 4 dicembre 1650; il Moschini parla del 1643; Elena Favaro, infine, notando che al momento della sua immatricolazione al Collegio dei pittori nel 1690 dichiarava quarantacinque anni, la colloca nel 1645.

In giovane età visse a Bologna dove lavorò nella bottega di Domenico Ambrogi, uno specialista della quadratura e della prospettiva. Nel 1666, basandosi sui disegni del maestro, avrebbe realizzato sei dipinti da destinare alla chiesa di Santa Lucia.

Nel 1668 era già tornato a Venezia, in quanto risale a quella data la Madonna col Bambino e cinque Santi della Chiesa di San Benedetto.

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Venne influenzato da Ludovico Carracci, Alessandro Tiarini e Paolo Veronese, così iniziò a migliorare le composizioni architettoniche dei propri dipinti e ad utilizzare colori più incisivi e brillanti. Nel 1674 dipinse La Vergine appare a Pio V, oggi nella Chiesa di San Lorenzo a Vicenza, considerata vicina alla monumentalità delle opere di Tiepolo; i suoi mosaici inoltre verranno accostati ai lavori di Pietro della Vecchia.

Contribuì alla decorazione della Scuola Grande di San Rocco (1675, 1676, 1678), dove realizzò una enorme tela di canapa, la Carità di San Rocco; sulla navata dipinse dei piccoli quadri, ora alla Galleria degli Uffizi, dipinti per Ferdinando de' Medici, Granduca di Toscana, con cui lavorò per lungo tempo.

Fumiani ha rivelato un senso decorativo vivace e un gusto particolare per gli oggetti animati, una pittura sensuale che ha prodotto dipinti di grande qualità. Tra i suoi ultimi lavori si ricordano il dipinto Federico III in visita al Convento di San Zaccaria in Compagnia del Doge, nella Chiesa di San Zaccaria e la Presentazione di Gesù al Tempio del Duomo di Padova (1708).

Per le decorazioni della Chiesa di San Pantalon a Venezia, con scene dalla vita di San Pantalon (1680-1704), Fumiani utilizzò una vasta tela in sostituzione del più comune affresco per dar vita al soffitto della chiesa; il risultato è quello che spesso viene definito il più vasto dipinto su tela del mondo, e ovviamente la principale opera presente nella chiesa (nonostante la presenza di opere di Veronese e Veneziano per citare alcuni autori). Secondo alcune fonti Fumiani sarebbe morto proprio per la caduta da un'impalcatura, nonostante si abbiano notizie di una sua morte ben 6 anni dopo il completamento dei lavori a San Pantalon.

Domenico Fetti, detto anche Feti (Roma, 1589 – Venezia, 16 aprile 1623), è stato un pittore italiano di età barocca.

Biografia[modifica | modifica sorgente]

Fetti studiò con Lodovico Cigoli. Nel 1614 si trasferì a Mantova come pittore di corte dei Gonzaga su richiesta del Granduca Ferdinando. Qui creò le sue opere più note, per le quali è infatti noto come il "Mantovano".

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Nella sua bottega mantovana, lavoravano sia il padre Pietro che la sorella Lucrina, suora e pittrice. A Mantova si trovano le sue opere principali, tele ad olio e affreschi. Molte le opere eseguite per le chiese della città, tra queste risaltano l'Apoteosi della Redenzione che affresca la volta dell'abside della Cattedrale di San Pietro (Duomo) e alcuni dipinti per la chiesa di Sant'Orsola, i Martiri, Viani che offre a Margherita Gonzaga la chiesa di Sant'Orsola e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci conservati ora nel Palazzo Ducale di Mantova.

Fetti fu un naturalista tra i più originali del Seicento, che nella ruvidezza del tratto si rifece al Caravaggio e al Rubens. A Mantova egli cercò pure di imitare Giulio Romano. Divenne celebre per la serie di alto livello delle parabole evangeliche, tra le quali si annovera quella dei Ciechi, del Buon Samaritano, e del Figliol Prodigo.

La pennellata ha un che di pastoso e grasso; il colorito è talvolta ricco, con eccessivi contrasti luministici.

Nel 1622 si trasferì a Venezia dove vi morì dopo breve malattia il 16 aprile 1623. Nel suo breve periodo veneziano abbandonò la pittura monumentale dedicando maggiore attenzione ad episodi di vita popolare. Sue opere La Meditazione, o Malinconia, è un dipinto a olio su tela (179x140 cm) di Domenico Fetti, databile al 1618 circa e conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia.

Storia[modifica | modifica sorgente]

L'opera, una delle più note dell'artista, fu oggetto di varie repliche, autografe o di bottega, tra cui spicca quella del Louvre, forse prima versione del dipinto veneziano. Probabilmente l'artista si ispirò alla famosa incisione di Dürer Melencolia I del 1514.

L'opera si trova nel museo dal 1838.

Descrizione e stile[modifica | modifica sorgente]

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La malinconia era uno dei quattro caratteri della teoria umorale, derivata dalla medicina fisiologica medievale. Fetti realizzò la figura di una donna inginocchiata in una profonda meditazione su un teschio appoggiato su un libro, con la fronte appoggiata sulla mano sinistra. Ai suoi piedi un notevole brano di natura morta. Tra gli attributi desunti dal maestro tedesco ci sono il cane, possibile emblema della fedeltà, la sfera, il compasso, i libri, segni delle inclinazioni razionali a cui è portato chi possiede un temperamento malinconico. A ciò alludono anche l'astrolabio, e gli emblemi delle arti: i pennelli e la tavolozza per la pittura, la statua e la pialla per la scultura.

Il teschio rimanda al tema della Vanitas, ovvero alla riflessione sulla caducità delle cose terrene, rispetto all'immortalità di scienza e arte. Il teschio potrebbe anche celare una lettura cristiana, ispirata alla seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (7, 10), in cui il cristiano penitente attraverso la meditazione può giungere alla salvezza: a ciò alluderebbero i tralci di vite nella parte superiore, simbolo cristologico.sono esposte nei musei di San Pietroburgo, Vienna, Parigi, Monaco e Dresda.

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Andrea Brustolon (Belluno, 20 luglio 1662 – Belluno, 25 ottobre 1732) fu uno scultore e intagliatore italiano protagonista del barocco veneziano.

Nato da genitori zoldani a Belluno, non si sa con precisione da chi apprese i rudimenti del'intaglio: fino a poco tempo fa si pensava che fosse stato il padre Giacomo il suo primo insegnante, ma in occasione di una grande mostra[1] a lui dedicata si è scoperto che in realtà il padre era sarto. Nel 1677 si trasferì a Venezia, dove si formò alla scuola del genovese Filippo Parodi e si pensa che soggiornò in seguito a Roma per studiare le opere romane e del Bernini; l'ipotesi di questo viaggio è fondata in base al fatto che l'artista realizzò una piccola scultura in legno raffigurante Marco Aurelio, ma ovviamente ciò non è sufficiente per confermare la sua permanenza a Roma, poiché avrebbe potuto ispirarsi a disegni altrui.

Tornato a Venezia, si dedicò alla produzione di mobili in legno: numerosi furono i suoi committenti nobili, ad esempio i Correr e i Pisani; ma suoi grandi patroni furono in particolare i Venier, per i quali realizzò portavaso, poltrone e oggetti vari di arredamento[2]. Per la Chiesa eseguì, invece, sculture in legno (spesso dorato) oggi conservate presso la Chiesa dei Frari, la chiesa della Pietà e quella della Fava.

Verso il 1720 tornò nella città natale e vi aprì bottega, trovando numerosi imitatori tra gli artisti del bellunese. Le opere di questo periodo, per lo più a tema religioso (altari lignei), gli vennero commissionate da tutte le principali sedi religiose della provincia e si trovano ancor oggi distribuite a Belluno, a Feltre, nello Zoldano, in Comelico, in Alpago e nell'Agordino. Fu sepolto a Belluno, nella chiesa di San Pietro, ma la sua tomba andò rovinosamente perduta durante alcuni lavori di ristrutturazione eseguiti nel 1831. La sua casa, un edificio quattrocentesco che si eleva sopra un breve portico, si trova a Belluno nei pressi del vicolo che conduce alla vicina chiesa di San Pietro. Sulla parete settentrionale nel 1891 è stata collocata una lapide che ricorda come ivi abbia avuto nascita e morte l'artista.

A Roma viene tutt'oggi chiamato "Sala del Brustolon" l'auditorium con i seggioloni dell'artista da cui il Presidente della Repubblica invia i messaggi televisivi di fine anno.

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Honoré de Balzac, nel romanzo "Le cousin Pons", lo definì "le Michel-Ange du bois": "il Michelangelo del legno".

Produzione artistica[modifica | modifica sorgente]

Dal 1690 al 1700 circa, Brustolon fu impegnato nella realizzazione della cosiddetta fornitura Venier, costituita da seggioloni da parata e da moretti, putti e allegorie portavaso. Tutti i pezzi della fornitura sono di ottima fattura, sia per la minuziosissima ricerca e resa dei particolari, sia per la preziosità dei legni, dato che alcuni elementi sono di ebano, sia per la maestria con cui sono applicate le vernici.

Nel 1711 Andrea Brustolon realizzò due angeli in legno dorato destinati alla basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, in cui sono conservati nella sacrestia come reggilampade per un grandioso reliquiario. Queste sculture sono alte circa due metri, e purtroppo non si trovano in buon stato di conservazione (gli angeli sono infatti mutili di gran parte delle dita e la doratura col tempo si è annerita). I soggetti sono stati immortalati in volo, con le ali dispiegate e le leggere vesti al vento, e le fluenti cappigliature sono mosse elegantemente.

Nella chiesa di San Pietro a Belluno sono conservate due preziosissime pale lignee, realizzate dall'artista bellunese negli ultimi anni di vita: la morte di San Francesco Saverio e la crocifissione. Entrambe le opere non erano destinate per la chiesa in cui odiernamente si trovano, bensì per la chiesa gesuita di Sant'Ignazio (non per niente il soggetto di una delle due opere fu uno dei fondatori dell'ordine gesuita); nel 1806 un decreto di Napoleone soppresse questa chiesa, e quindi le opere vennero trasportate a San Pietro. La morte di San Francesco Saverio fu commissionata dalla nobile famiglia Miari e fu autografata dall'artista con la dicitura A. B. sculp. MDCCXXIII. Essa presenta raffigurato in basso a sinistra il santo morente, al riparo in una baracca malandata nei pressi del mare; una leggenda vuole che San Saverio, prima di morire, avesse placato una tempesta disegnando una croce nell'acqua del mare con il suo bastone, e che in seguito fosse uscito dalle onde un granchio con una croce impressa nel guscio, granchio che non manca raffigurato nella pala, che si può scorgere in basso a destra. Gli altri personaggi sono San Giuseppe, raffigurato in posizione più o meno centrale su di una nube sorretta da tre graziosi angioletti, e la Madonna col bambino, figure che dominano la scena dall'alto, da un tripudio di nubi e angioletti. Sotto alla figura di San Giuseppe trovano posto i tre figli di Miari con lo stemma del loro casato. La crocifissione, commissionata dalla famiglia Benetti, si sviluppa attorno al Cristo morto, esempio dello stile brustoloniano, con la testa reclinata su un lato e coperto con un gonnellino ricco di pieghe; nel basso si stagliano le figure doloranti della Madonna, di San Giovanni e di altre tre donne, mentre la parte superiore è dominata da un cerchio di nubi e di angeli in lacrime. Le figure nella parte alta sono appena in rilievo, quasi dipinte, mentre quelle più in basso sembrano quasi essere a tutto tondo.

Una delle più emozionanti e meravigliose opere del Brustolon è sicuramente Tizio, realizzato all'incirca nel 1727e conservata nel museo di Ca' Rezzonico a Venezia. Il soggetto è ispirato alla mitologia greca e rappresenta il figlio di Zeus a cui, dopo essere stato ucciso e giunto nel Tartaro, fu imposta la pena che avvoltoi e serpi gli divorassero il fegato. La scultura è rialzata da terra mediante un grazioso piedistallo, in cui campeggia un mostro a sette teste, e si eleva fino ad un'altezza di 2,40 metri. La figura è rappresentata in una posa e con un'espressione a dir poco inquietante, con la bocca distorta in una terribile smorfia. La muscolatura, le vene e i nervi sono resi con la tipica meticolosità del Brustolon, e Tizio sembra essere orgoglioso di mostrare il proprio dolore. Un particolare molto interessante sta nell'arbusto su cui è ancorato il soggetto, che sembra essere una pianta vera da quanto è ben realizzata.