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III - L’INCASTELLAMENTO NEL TERRITORIO DI AREZZO (SECOLI X-XII)
INTRODUZIONE*
Sulla base dei dati raccolti per il progetto di censimento dei siti fortificati della Toscana, vorrei proporre in questa sede un quadro di sintesi delle nostre conoscenze sulla comparsa ed evoluzione di tale tipo di insediamenti nel territorio aretino durante i secoli centrali del Medioevo. Più precisamente, l’arco cronologico considerato va dall’ultimo quarantennio del X sec. – con le prime attestazioni di castra nella documentazione scritta – fino alla fine del XII secolo. L’area in oggetto corrisponde alla diocesi aretina, con l’ampia eccezione del territorio diocesano che rientrava nel contado senese e che fu lungamente conteso tra i vescovi di Siena ed Arezzo fino al XIII secolo 1. Per la zona a sud-ovest, dunque, ho assunto come limite la frontiera medievale del comitatus aretino. Sono invece state incluse nell’analisi alcune zone marginali situate immediatamente all’esterno del confine diocesano: a nord l’alto Casentino, area geograficamente, e spesso politicamente, omogenea con la vallata casentinese, anche se compresa nella diocesi di Fiesole; ad est il piviere di S. Maria a Sovara, che costituiva una sorta di enclave della diocesi di Città di Castello entro il contado di Arezzo. Inoltre rientrano nella trattazione alcuni centri della Massa Verona situati subito al-l’esterno del confine orientale della diocesi, ma che facevano parte del comitatus e le cui vicende furono spesso legate a quelle della chiesa aretina 2. Dal punto di vista geografico-ambientale, all’in-terno dell’area considerata possiamo distinguere zone con caratteristiche diverse. La porzione nord della diocesi comprendeva le alture del Pratomagno e del Casentino, quest’ultimo attraver-
*Avvertenza: per tutti i riferimenti alle fonti documentarie non citate nelle note a piè di pagina si rimanda alle tabelle che corredano il testo. 1. Sulla contesa per le pievi di confine v. Pasqui, vol. I, soprattutto i docc. 1-28; SCHNEIDER 1975 pp. 92 e sgg.; TAFI 1972; TABACCO 1973; infine la sintesi in DELUMEAU 1996, pp. 475 e sgg. 2. Sui quadri territoriali e le discordanze tra i confini didiocesi e contado in terra aretina v. la dettagliata trattazione in DELUMEAU 1996, pp. 191 e sgg.
sato in direzione nord-sud dalla stretta valle del-l’Arno e dalle valli dei suoi affluenti (Solano, Sova, Archiano, Corsalone ecc.). Subito dopo la confluenza con il torrente Chiassa, allo sbocco nella piana di Arezzo, l’Arno piega invece verso ovest, costeggiando le alture del Pratomagno, e si dirige poi verso nord e verso la zona pianeggiante di Montevarchi, dove riceve il torrente Ambra. Il cuore della diocesi era costituito dalla piana di Arezzo, area di raccordo tra Valdarno e Valdichiana; si tratta di una conca grossomodo circolare, attorniata su ogni lato da basse colline e attraversata dai torrenti Vingone e Castro. La piana di Arezzo è a sua volta in comunicazione con la Valdichiana, vasta depressione di forma allungata, un tempo lacustre, che si estende verso sud fino a Foiano e Bettolle, costeggiata su entrambi i lati da fasce collinari di modesta altitudine. Ai confini nord-orientali della diocesi si trovano le alture appenniniche della zona di Pieve S. Stefano (l’antica Massa Verona) e la Valtiberina tra Sansepolcro e Anghiari. A sud-est si trova invece l’area altocollinare alle spalle di Castiglion Aretino e di Cortona (Alta del S. Egidio) attraversata dalle valli dei torrenti Celone, Cerfone, Esse. A sud, la piana di Cortona giunge fino al lago Trasimeno. Entro i confini occidentali della diocesi (da nord a sud) erano comprese la Valdambra e le alture del Chianti presso Coltibuono. Il confine del comitatus, invece, lasciando fuori la zona della Berardenga, correva ad est dell’abbazia di Agnano ed includeva la fascia collinare intorno a Monte S. Savino, l’area quasi pianeggiante di Foiano e Farneta, fino a giungere al lago Trasimeno.
La mia ricerca si basa essenzialmente sull’analisi della documentazione scritta edita e della bibliografia disponibile per il territorio aretino. Que-st’ultima è costituita per la massima parte da sintesi storiografiche basate sulle fonti scritte 3,
3. L’opera generale di riferimento per tutto il territorio aretino è ora DELUMEAU 1996; per l’area casentinese è fondamentale WICKHAM 1997a. Ho utilizzato anche: Arezzo 1985, BARBOLANI DI MONTAUTO 1982, BOSMAN 1990, DELUMEAU 1978, 1982 e 1987, FABBRI 1989, GIALLUCA 1987, TABACCO 1970, 1973, 1973-1975, TIBERINI 1994 e 1997.
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mentre pochissime sono state finora le indagini che hanno utilizzato fonti archeologiche: su questo fronte, tranne rare eccezioni 4, mancano sia analisi attendibili su aree limitate, che opere di sintesi. Ben poche e disomogenee sono dunque le informazioni recuperate attraverso l’archeo-logia e la lacuna pare al momento difficilmente colmabile 5. Entrando più nel dettaglio riguardo alle fonti scritte, vediamo che una parte considerevole della documentazione aretina è stata oggetto di pubblicazione, sia in esteso che sotto forma di regesti 6. L’edizione più importante è quella curata da Ubaldo Pasqui 7, che rappresenta una vasta selezione di atti provenienti, per il periodo che ci interessa, soprattutto dall’Archivio Capitolare di Arezzo (per la gran parte dai fondi Carte della Canonica, Carte della Badia di SS. Flora e Lucilla, che sono quelli quantitativamente più consistenti). Nella scelta operata dal Pasqui i documenti di carattere più ufficiale riguardanti i sovrani, i vescovi ed il comune sono privilegiati rispetto a quelli di carattere più strettamente privato. Altra fonte di fondamentale importanza per lo studio dei castelli del territorio aretino è costituita dalla massa dei documenti camaldolesi, il cui regesto è stato curato da Schiaparelli, Baldasseroni e Lasinio 8. Ho schedato entrambe queste raccolte, mentre per quanto riguarda i documenti inediti, soprattutto gli atti della Ca
4. BOSMAN 1990 (contributo incentrato sui castelli casentinesi, fornisce analitiche descrizioni dei resti murari ancora visibili); CHERICI 1987 (carta archeologica del territorio cortonese); MELUCCO, VACCARO 1991 (edizione dei vecchi scavi archeologici sul colle del Pionta); STODDART 1981 (survey archeologico in Casentino: ma si noti la quasi totale invisibilità del periodo medievale!); VANNINI 1987 (indagine archeologica sul castello di Porciano). 5. Ben poco utili si rivelano i volumi a cura di BINI, BER-TOCCI, MARTELLACCI 1991 sulle emergenze architettoniche dell’intero territorio aretino, così come i volumi sui survey archeologici in Valtiberina e Casentino (CAP 1990, GRAS 1992) e nel territorio castiglionese (GAV 1993): sono poche e spesso di seconda mano le notizie sui siti medievali. Incentrati soprattutto sull’alto Medioevo ed il periodo delle invasioni barbariche sono alcuni lavori del Fatucchi (1973/75, 1977, 1985, 1992): forniscono anche dei dati archeologici, ma le conclusioni che da essi vengono tratte spesso non risultano attendibili. 6. Sulla consistenza e la distribuzione della documenta-zione aretina v. DELUMEAU 1996, pp. XIX e sgg. e pp. 607 e sgg. 7. Si tratta dei Documenti per la storia della città di Arezzo (d’ora in avanti: Pasqui). Per il periodo che ci interessa (volumi I e parte del II) il Pasqui pubblica 431 documenti: 15 di VIII sec., 37 di IX, 36 di X, 203 di XI, 140 di XII. 8. Regesto di Camaldoli (d’ora in avanti: RC). Il regesto comprende i documenti raccolti negli archivi dei monasteri casentinesi di Camaldoli e Prataglia a partire dai primi anni dell’XI sec. (un solo documento di VIII sec. e
nonica e del monastero di S. Fiora non pubblicati dal Pasqui, ho attinto alla bibliografia disponibile 9 e ho consultato, presso l’Archivio di Stato di Firenze, gli spogli della documentazione conservata nell’Archivio Capitolare di Arezzo 10.
1. CRONOLOGIADELL’INCASTELLAMENTO
Prima di illustrare la scansione cronologica delle attestazioni di castelli nel nostro territorio, sono necessarie alcune ulteriori osservazioni riguardo alle fonti disponibili. Anche per l’Areti-no, come per buona parte della regione 11, è scarsa la documentazione altomedievale (a causa della perdita pressoché completa dell’archivio episcopale) e quella giunta fino a noi riguarda in buona parte la questione delle pievi di confine contese tra le diocesi di Siena ed Arezzo. Non molti sono anche i documenti di X sec., mentre a partire dai primissimi anni dell’XI la documentazione si fa ricca ed abbondante, grazie soprattutto all’apporto degli archivi del Capitolo della cattedrale e dei monasteri di SS. Fiora e Lucilla e di Camaldoli 12. Per questo secolo, dunque, è
tre di X). I documenti per il periodo che ci interessa sono in totale 1030. Si tenga conto che alcune carte dell’archi-vio di Camaldoli sono inserite anche nell’edizione del Pasqui. 9. DELUMEAU 1996; WICKHAM 1997a; oltre ai fondi del-l’Archivio Capitolare di Arezzo già citati, i due autori hanno analizzato anche gli atti relativi all’abbazia di S. Fedele di Strumi (per il periodo qui considerato circa 150 carte conservate nel fondo Acquisto S. Trinità del Diplomatico dell’Archivio di Stato di Firenze) e di S. Trinità di Fontebenedetta (una cinquantina di carte nel fondo Passerini). 10. Si tratta di tre spogli del fondo Diplomatico (che d’ora in avanti saranno citati come Sp. Dipl.): n. 59 (S. Maria in Gradi: i documenti riguardano perlopiù l’abbazia di Agnano), n. 59bis (Capitolo della Cattedrale), n. 60/I (Abbazia di S. Fiora, 884 feb. 8-1214 apr. 7). Sono compilati in latino, ben leggibili e molto particolareggiati. Si fa presente che gli spogli riportano una datazione sommaria dei documenti (di solito anno, mese, indizione): nelle citazioni, dunque, indicherò anche il numero progressivo che designa ciascuna carta nel relativo spoglio. I documenti spogliati provenienti dall’archivio dell’abbazia di S. Fiora sono 1 di IX sec., 33 di X sec., 410 di XI sec.,126 di XII sec. (tot. 570); quelli del Capitolo di Arezzo sono 6 di VIII sec., 22 di IX, 17 di X, 316 di XI, 110 di XII (tot. 471); quelli di S. Maria in Gradi sono 28 di XI sec. e 73 di XII (tot. 101). 11. V. il quadro sintetico in GINATEMPO, GIORGI 1996, p. 17. 12. Per la documentazione anteriore al Mille v. note 8 e 10. S. Fiora fu fondata nella prima metà del X sec. (ma il suo archivio ha conservato solo una trentina di documenti precedenti al 1000), Prataglia negli ultimi anni del X, Camaldoli nel terzo decennio dell’XI sec. È perduta la do
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Tab. 1 – Castelli attestati nel X sec.
possibile studiare il fenomeno dell’incastella-mento in dettaglio e con sistematicità per buona parte del territorio aretino: la documentazione, infatti, oltre a coprire l’area nord della diocesi, quella centrale e la Valdichiana, illumina in parte anche zone più periferiche, quali la Valtiberina e alcune aree di confine con la Massa Verona 13. Le cose per certi aspetti cambiano nel XII sec., quando, a differenza di quanto accade in altre parti della regione 14, il numero dei documenti è in calo rispetto al secolo precedente: con l’eccezione di Camaldoli, la cui massa documentaria si mantiene grossomodo costante, gli altri fondi di origine ecclesiastica presentano valori bassi soprattutto nei decenni centrali 15; la documentazione ridiviene abbondante solo sul finire del secolo, mentre filoni documentari di origine laica e comunale sono praticamente inesistenti per il periodo che ci interessa. Passando adesso ad analizzare la distribuzione dei castelli per ciascun secolo, vediamo che ne sono attestati solo 4 prima del Mille (Tab. 1) 16: compaiono nell’ultimo quarantennio del X sec., uno per ciascun decennio. Poiché i documenti altomedievali disponibili, pur se non abbondantissimi, costituiscono comunque un gruppo di consistenza non trascurabile (7 di VIII sec., 23
cumentazione relativa all’abbazia di Capolona, fondata dal marchese Ugo prima del 997, v. DELUMEAU 1996 pp. 570 e sgg. 13. Si veda ad es., per un confronto, la povertà della do-cumentazione di XI sec. per la zona centrale della diocesi di Siena, cfr. CAMMAROSANO 1979. 14. In generale v. GINATEMPO, GIORGI 1996 pp. 17 e sgg. e, per confonti più precisi, ancora Siena (CAMMAROSANO 1991) ma anche, in questa stessa sede, l’aumento della documentazione nelle diocesi di Volterra, Massa-Populo-nia e Roselle-Grosseto (saggi di A. Augenti e R. Farinelli). 15. V. le tabelle redatte dal DELUMEAU 1996, pp. 608-611. 16. Dal novero degli insediamenti fortificati ho escluso ilcosiddetto Castelsecco presso Arezzo, più volte menzionato nei documenti a partire dall’819, in quanto sembra che non si tratti di un vero e proprio castello, ma del luogo su cui sorgevano i resti delle fortificazioni etrusche di Arezzo, nel quale almeno dagli inizi del IX sec. esisteva una chiesa intitolata a S. Pietro (a. 819, Pasqui, n. 23; a. 879, Pasqui, n. 47)
di IX, 53 di X), pare significativo il dato che da essi emerge, cioè l’assenza di menzioni relative a centri fortificati prima della metà del X secolo e la loro progressiva comparsa nel corso degli ultimi decenni. Possiamo notare che tra essi figurano già due delle più potenti abbazie del territorio aretino, S. Gennaro di Capolona e SS. Flora e Lucilla, la prima fondata entro (o presso) un castello preesistente, la seconda che risulta fortificata alcuni decenni dopo la fondazione. Le altre due menzioni si riferiscono a località che non verranno mai più ricordate in seguito e che avevano molto probabilmente un carattere prettamente militare e non insediativo. A partire dai primissimi anni dell’XI sec. (Tab. 2), grazie all’abbondanza della documentazione, siamo in grado di proporre analisi più dettagliate e di tentare un calcolo dei rapporti tra il numero dei documenti disponibili per ciascun decennio e il numero delle attestazioni di castelli (Fig. 1). Si noti, inoltre, che nei documenti considerati si ha di norma la citazione di un solo castello per documento (solo in qualche caso due o tre castelli); l’unico esempio di elenco di castelli è costituito dalla vendita effettuata da Alberico di Galbino al fratello Bernardo nel 1082, nella quale si menzionano 10 castelli ubicati nella zona della Valtiberina 17. Il fenomeno dell’incastellamento appare in pieno svolgimento già dai primi decenni dell’XI sec. e si notano poi dei rapporti numerici piuttosto regolari 18, tra numero dei castelli e numero dei documenti conservati, per tutto il secolo: le eccezioni sono costituite dal decennio 1031-1040, che vede una evidente flessione, e dal decennio 1051-1060, che invece presenta una notevole impennata del numero di castelli attestati: ben
17. RC n. 447.18. I valori sono compresi tra 1/12,2 e 1/21,5. Nel de-cennio 1081-1090 si colloca il sopracitato elenco di castelli che pesa sul dato statistico (1/7,7): se togliamo dal calcolo il documento in questione otteniamo 17 castelli su 208 docc., con un rapporto più simile a quello dei decenni precedenti (1/12,2).
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Tab. 2 – Segue.
Fig. 1 – Rapporto castelli/documenti (secolo XI).
16 su 107 documenti 19, Si nota in generale, comunque, una tendenza all’aumento delle attestazioni nella seconda metà dell’XI: contiamo 27 castelli (su 591 docc.: rapp. 1/21,8) nella prima metà del secolo, e 70 castelli (su 788 docc.: rapp. 1/11,2) nella seconda metà. In totale i castelli
19. 1031-1040: rapporto: 1/42,7. 1051-1060: rapporto: 1/6,6.
che compaiono per la prima volta nell’XI sec. (Tab. 2) sono 97 20; i documenti disponibili per
20. Ho escluso 4 castelli che compaiono in documentifalsificati: il «castellum Donelli» è citato in una confinazione in una falsa donazione al monastero di Camaldoli (RC, n. 34), datata 1012, ma forse del XII sec.; il «castrum Farnete», il «castrum Cignani» ed il «castrum Ronzani» sono elencati nel falso diploma di Enrico II indirizzato all’abbazia di Farneta, datato 1014, ma in realtà del XIII sec.; tale documento è ritenuto attendibile per quanto
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questo periodo sono ca. 1380: si ottiene quindi un rapporto di una menzione ogni 14,2 documenti. Molto simile è il valore calcolato per il XII sec.: i castelli attestati sono in totale 63 (Tab. 3); i documenti disponibili per questo periodo sono ca. 850; si ottiene quindi un rapporto di una menzione ogni 13,5 documenti. Contiamo 36 castelli (su 525 documenti: rapp. 1/14,5) nella prima metà del secolo e 27 castelli (su 328 documenti: rapp. 1/12) nella seconda metà. Per fasce di decenni i rapporti tra attestazioni di castelli e documenti disponibili (Fig. 2) appaiono fino al 1180 molto simili a quelli riscontrati per l’XI secolo 21, mentre il fenomeno di incastellamento si va chiaramente esaurendo nell’ultimo ventennio del XII secolo. Ricordiamo qui che il numero dei documenti aretini è nettamente minore nel XII sec. rispetto all’XI: questa è la ragione per cui, mentre il numero assoluto dei castelli attestati dopo il 1100 risulta inferiore a quello dei castelli attestati nel secolo precedente, il rapporto con il numero dei documenti rimane lo stesso. Sono rare per il territorio aretino le cosiddette carte di fondazione, ovvero i documenti che attestano esplicitamente una iniziativa di edificazione ex-novo di castelli, dalle quali poter ricavare dati puntuali sulla cronologia di incastellamento di alcune località. Due soltanto gli esempi noti per l’XI sec.: l’incastellamento del poggio di Selvole, nella valle dell’Arno a nord di Subbiano, ad opera dei canonici di S. Donato 22
e l’atto con cui i membri di una famiglia della piccola aristocrazia offrivano al monastero di S. Fiora 3/8 della chiesa di S. Quirico di Briciano e la «partem summitatis de monte qui dicitur Casanova et Casamaiore ubi cogitat castellum esse facturum, sicuti circumdari necesse fuerit muris,
riguarda le conferme delle precedenti donazioni all’ab-bazia, tuttavia non sappiamo se i termini castra utilizzati fossero un riflesso della situazione duecentesca (cfr. GIAL-LUCA 1987, p. 249). 21. I valori sono compresi tra 10,3 e 20, con la sola ecce-zione del decennio 1161-1170 (rapp. 1/7,3): per questo periodo 6 castelli sono elencati in un diploma del 1161. 22. 1056-1057: i canonici acquistano per varie donazio-ni il poggio di S. nel piviere di Caliano «ad hoc ut in ipso poio fiat a canonicis castellum, cum carbonariis, fossis»; c’era su questo poggio una chiesa dedicata a S. Fiora e Andrea (DELUMEAU 1996 p. 170). Sembra che in questa impresa i canonici fossero affiancati da alcuni laici, forse legati al gruppo familiare dei Carpineto. Alla data del-l’ultimo documento il castello sembra già costruito, ma in seguito non ricompare più nella documentazione. Da un privilegio imperiale del 1161 risulta che l’abbazia di Capolona vantava diritti «in curte de Silvole» (MGH, D. F. I, n. 335)
fossis et carbonariis» 23. Secondo Delumeau in questo secondo caso saremmo di fronte alla duplicazione o trasferimento di un castello già esistente (Briciano), che poi in effetti sparisce dalla documentazione successiva 24. Anche per il XII sec. sono note due iniziative di fondazione ex novo: nel 1188 quella del castello di Serravalle in Casentino, per motivi essenzialmente strategici e dietro iniziativa del vescovo25, e quella di Galognano, nel 1165, da parte del-l’abbazia di S. Fiora. In questo secondo caso, tuttavia, si esplicita solo l’intenzione di incastellare la località, senza alcun accenno alle modalità con cui ciò fu fatto 26.
2. L’ASSETTO PRECASTRENSE
L’analisi sistematica della documentazione edita e dei regesti ha permesso non solo una schedatura il più possibile completa dei castelli attestati tra XI e XII sec., ma anche la registrazione delle menzioni di tali siti precedentemente alla comparsa dei castelli stessi. Ciò allo scopo di formulare, pur con tutta la cautela del caso, alcune ipotesi riguardo alle realtà insediative preesistenti all’impianto delle fortificazioni 27. Tra i 97 castelli di XI sec. (Tab. 2), solo 35 presentano un toponimo mai attestato in precedenza, che compare per la prima volta nelle fonti subito associato ai termini castrum/castellum. Gli
23. Sp. Dipl. 60/I, n. 403.24. DELUMEAU 1996, pp. 176, 664-665, 678. Non sembra però convincente l’identificazione di questo nuovo castello, proposta con qualche dubbio dallo stesso autore, con quello di Rigutino, che compare per la prima volta in alcuni documenti del 1089: infatti quest’ultimo, oltre a essere menzionato più volte come «Rugitino», appare in questo anno tutt’altro che in costruzione, ma anzi già con case al suo interno (Sp. Dipl. 60/I, nn. 399, 400). 25. Il vescovo Amedeo si accorda con l’abate di Prataglia e con «Ioseph de Marciano», «quod in edificatione castelli, quod Serravalle dicitur, pari voluntate convenimus (…) in loco qui Incisa dicitur (…) ut ecclesia beati Donati et eius episcopi haberent ipsum libere, et habitatores ibidem residentes tam presentes quam futuris essent omni tempore»; si conviene che l’abate di Prataglia e Giuseppe «darent homines quos habebant in villa de Tocli, et dederunt ad habitandum omni tempore prefatum locum, qui Incisa dicitur, et castrum, ut supra dictum est, edificandum ad opus aretini episcopi, infortiandum, vallandum, muniendum et custodiendum ad voluntatem eiusdem episcopi.» (Pasqui, n. 402, p. 16) 26. Si tratta di un decreto di Cristiano di Magonza:«damus et concedimus plenam potestatem abbati sancte Flore edificandi et construendi castrum in Galognano ad honorem Dei et imperii et ecclesie sancte Flore» (Pasqui, n. 371, p. 500).27. Ne sono esclusi i castelli di X sec. (Tab. 1) troppo pochi per proporre un’analisi di qualche significato.
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Fig. 2 – Rapporto castelli/documenti (secolo XII).
altri 62, invece, sono designati con un toponimo già attestato in associazione con termini di localizzazione geografica che non implicano la presenza di una fortificazione (curtis, villa, casale, locus ecc.) oppure, in 12 casi, sono menzionati per la prima volta in una forma che potremmo definire «intermedia», cioè tramite locuzioni del tipo curte cum/et castello: espressioni che portano a ritenere che la fortificazione fosse sorta all’interno di una azienda domocoltile preesistente, in una località contrassegnata da un proprio toponimo 28. In sintesi, quindi, almeno il 60% dei castelli di XI sec. non portano nomi «nuovi», ma ereditano un toponimo già in precedenza associato a termini che non implicavano la presenza di una fortificazione. Molto frequenti sono soprattutto le attestazioni di curtes e casalia, rispettivamente 26 e 23. Mentre nel primo caso siamo di fronte ad una situazione simile a quella riscontrabile per il resto della Toscana, il perdurare nell’XI sec. (e anche nel XII, come vedremo) delle menzioni di casalia, e soprattutto la loro frequenza, rappresenta una caratteristica peculiare di quest’area, in quanto per altre zone della regione è stata rilevata una progressiva scomparsa di tale termine dal lessico delle forme insediative 29.
28. Queste menzioni «intermedie» sono segnalate nellaseconda colonna (Menzioni precedenti) della Tabella 2 con un punto interrogativo ed il rimando alla colonna successiva (Attestazione castello). 29. Cfr. il caso della Val d’Orcia, dove il casale tra VIII e
Per quanto riguarda i castelli che sembrano insistere su curtes preesistenti o che da queste prendevano il nome, rimane aperto il problema se essi fossero nati come fortificazione del centro domocoltile altomedievale (o del maggior centro insediativo compreso nella curtis) oppure avessero soltanto ricevuto il nome della zona di riferimento 30. In alcuni casi la progressione da curtis a castrum si segue molto bene nei documenti. Un esempio è quello della corte vescovile di Milisciano, situata subito all’esterno della diocesi, nella Massa Verona. Nel 1009 31 il vescovo Elemperto offriva alla canonica di S. Donato diverse curtes della Valtiberina, tra le quali la cortem de Milisciano, cum ecclesia sancti Iusti ad se pertinente. Espressioni simili si riscontra-
X sec. rappresenta il cardine dell’organizzazione spaziale e anche a livello lessicale predomina numericamente su altri termini quali vicus, fundus e locus; invece scompare quasi totalmente dal lessico delle forme d’insediamento nell’XI sec. (VAQUERO PINEIRO 1990, pp. 19 e 27). Anche sull’Amiata i numerosi casalia di VIII-IX tendono a scomparire sostituiti dai burgi nell’XI sec.; solo pochi sono ancora documentati in questo secolo (WICKHAM 1989, pp. 110-111, 115). Anche in area fiorentina (CONTI 1965) si hanno esempi di casalia solo per l’alto Medioevo. Per fare un confronto esterno si può citare il caso della Sabina (TOUBERT 1973, v. I, p. 366 e nota 2): qui l’uso del termine casale persiste nell’XI-XII sec. ma è usato per indicare una forma di involuzione di castelli oppure delle nuove ripartizioni agrarie orientate alla conquista di terre pesanti per iniziativa signorile. 30. VIOLANTE 1991; GINATEMPO, GIORGI 1996, p. 21 fa il punto della situazione. 31. Pasqui, n. 94.
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no in due successive conferme alla canonica degli anni 1020 e 1028 32. Nel 1058 entro la curtis ha fatto la sua comparsa il castello: una conferma del marchese Gottifredo di Toscana cita la curtem etiam et castellum sancti Iustini in Melisciano 33; in seguito solo il castrum di Milisciano sarà citato nei documenti. Interessante è anche il caso della curtis di Quarata, nella piana di Arezzo, appartenente all’abbazia di S. Fiora. La località è citata già in documenti di X sec.; dopo il 960 vi è attestata l’esistenza di un monastero di S. Andrea dipendente da S. Fiora; nel 965 si ha un contratto di livello relativo ad una casa et res ubicata in Quarata. Nel 1005 a Quarata si trova una curtis dell’abbazia (curtis domnicata nel 1013): ad essa dovevano recarsi i livellari della vicina località di S. Martino in Castro per pagare i censi e per l’amministrazio-ne della bassa giustizia. Nel 1015 fa la sua comparsa il castrum: qui Wido Fulcheri, livellario dell’abbazia appartenente alla piccola nobiltà locale, dovette recarsi ad iustitiam 34. Come abbiamo già accennato, poi, diversi castelli (10) compaiono per la prima volta nei documenti designati dalla locuzione curte cum/et castello. Anche per l’XI sec. e per questa zona campione è valida l’osservazione, già fatta per il X sec. e per l’intero contesto toscano35, secondo la quale tali espressioni sottintendevano probabilmente un concetto gerarchico delle forme insediative, in base al quale la curtis era individuata come il fulcro dell’organizzazione fondiaria ed il castello come una sorta di «annesso» aggiunto in seguito 36. Anche per la diocesi aretina, inoltre, è possibile vedere con chiarezza che dopo la metà del sec. XI la situazione si capovolgerà, con l’assoluta prevalenza delle formule castello cum/et curte 37. In generale, comunque, tutte quelle che abbiamo definito «forme intermedie» di localizzazione geografica praticamente scompaiono già nella seconda metà del secolo e sono del tutto assenti nel secolo successivo. Tra tali formule si annoverano anche le espressioni loco
32. 1020: «corticellam unam de Milisciano, cum ecclesiasancti Iustini». 1028: «integram cortem de Milisciano cum ecclesia sancti Iustini ad se pertinente» (Pasqui, nn. 110, 120). 33. Pasqui, n. 185. 34. Su Quarata v. Tab. 2 e DELUMEAU 1996, pp. 70, 85, 135. 35. V. AUGENTI, in questa sede. 36. Per alcuni esempi v. Tab. 2: Artignano, Murlo, Cerritulo. V. anche analoghe osservazioni in TIBERINI 1997, p. 201, n. 4. 37. Sui rapporti castrum/curtis v. già VACCARI 1921; sul-l’espressione curte et castello CONTI 1965, p. 49; inoltre VIOLANTE 1991 pp. 363-365, VIOLANTE 1996, p. 20.
X cum ipso castro o castello in loco X, che, come nota Augenti, sembrano sintomo di una situazione in cui le fortificazioni non risultano dotate di un nome proprio, e non sembrano dunque percepite come caposaldi insediativi e quindi topografici e toponomastici 38. Ciò non accadrà più dopo la metà del secolo. Sono riscontrabili anche casi di castelli privi di un loro toponimo, che prendevano nome da quello di una persona (il fondatore?) 39. Veniamo adesso alle numerose attestazioni di casalia, diffusi soprattutto nella zona nord della diocesi (15 casi tra Pratomagno e Casentino) e meno frequenti in quella centro-meridionale. Anche in questo caso l’interpretazione della terminologia utilizzata nelle fonti appare problematica, in quanto, come già accennato, è difficile istituire dei confronti con altre aree per questo stesso periodo 40. Nei documenti aretini di XI sec. il termine ha certamente una natura ampia ed indica chiaramente un’entità territoriale piuttosto estesa, stadio intermedio di identificazione topografica tra il territorio plebano e il semplice luogo detto, comprensiva al suo interno di numerosi microtoponimi (avocabula). È da notare che talvolta anche dopo la comparsa
38. Per alcuni esempi, v. Tab. 1: a. 993 S. Fiora. Tab. 2: a.1013 Sarna; a. 1021 Bulgari; a. 1037 Pernina; a. 1039 Montoto; a. 1049 Montecchio. 39. V. Tab. 2: Castrum Grifonis (a. 1021), Castrum Everardi (a. 1030 ca.), Castrum Luponis (a. 1098). 40. Per il periodo precedente (VIII-X) il termine casale viene interpretato soprattutto come unità agraria, cioè come riferimento a ripartizioni di terre per la messa a coltura o altri usi; rimane tuttavia estremamente incerto quale tipo di insediamento umano si celasse dietro il toponimo di riferimento: cfr. per la Sabina TOUBERT 1973, v. I, pp. 455-457, per la Val d’Orcia VAQUERO PINEIRO 1990, pp. 19-20, per l’Abruzzo FELLER 1995, pp. 223-224; in sintesi GINATEMPO, GIORGI 1996, p. 22. Per il Casentino Ch. Wickham interpreta il casale come «l’insediamento e il suo territorio»; insediamento, però, non concentrato, ma caratterizzato da un habitat sparso, con una o più case spesso attestate nei vari avocabula. All’interno dei casali potevano poi trovarsi delle aree nelle quali la densità insediativa tendeva ad aumentare e a formare dei complessi più agglomerati o dei nuclei insediativi ben individuabili (ad es. Bibbiena), ma non accadeva mai che tutti gli abitanti fossero concentrati in un unico luogo (WICKHAM 1997a, pp. 186-187). Per il resto della diocesi aretina v. l’ampia discussione sulle origini e la tipologia del casale in DELUMEAU 1996, pp. 118 e sgg.: l’Autore delinea alcune differenze nella diffusione dei casalia nelle varie zone della diocesi ed ipotizza che essi fossero eredi di suddivisioni fondiarie della Tarda Antichità, poi degradatesi e utilizzate tra VIII e IX sec. come riferimento topografico di livello superiore al semplice luogo detto, quando ancora non si era consolidato l’uso del territorio plebano a questo scopo; in seguito, entro la prima metà dell’XI sec. si sarebbe rafforzato il significato di casale come entità territoriale coerente e ben individuata, da riferire ad una precisa realtà insediativa; di qui la tendenza ad assumere il significato di «territorio che fa capo ad un villaggio» come ipotizza Wickham per il Casentino.
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di un castello il casale omonimo continua ad essere citato, come pare sempre in riferimento ad una ripartizione spaziale. Infatti talvolta è evidente che la fortificazione rappresentava un elemento semplicemente ubicato all’interno della più vasta unità territoriale 41. Entro tale tipologia è collocabile, per fare un esempio molto chiaro, il ben documentato caso di Soci, dal quale si può vedere che lo stesso toponimo stava ad indicare sia la più vasta ripartizione territoriale del casale (preesistente al castello), sia una specifica località ubicata, come altre, all’interno del casale omonimo e nella quale sorse il castello (che ne prende quindi il nome) 42. Anche dopo la comparsa di quest’ultimo il casale continua ad essere regolarmente menzionato fino alla fine dell’XI sec. 43. Si noti che a Soci la curtis fa la sua comparsa solo dopo il castello e sembra ormai indicare la ripartizione amministrativa che da esso dipendeva. Interessanti sono poi i tre esempi casentinesi (Bibbiena, Castelfocognano, Castelcastagnaio) nei quali troviamo attestata la definizione casale Castello prima della comparsa del termine castrum 44: in questi casi il termine casale sembra indicare non un preciso nucleo insediativo, ma piuttosto, ancora una volta, una ripartizione spaziale più ampia, all’interno della quale il castello sorgeva. Un buon numero (8) sono le villae preesistenti ai castelli: in questo caso possiamo ritenere con più sicurezza di trovarci di fronte a nuclei insediativi interpretabili come abitati di una certa
41. A. 1011: «casas, res, silvas et castellum cum ecclesia… S. Iohanni et S. Margarite … in casale Latotramoscano». A. 1011: «domus, turris et castellum et ecclesiam … in casale Nibiano». A. 1034: «in casale Nibbiano per designata loca: I et II via publica et terra S. Flore, III terra de ff. qd. Ugoni, IV via publica et carbonaia de Castello». cfr. Tab. 2. 42. 1002: «mansum q.d. Nibli de Soci»; 1019: «avocabuloSoci»; 1024: «in casale Soci in avocabulo Campo Betti»; 1058: consacrazione di una chiesa «in l. q. d. Soci», poi chiesa del castello; 1066: terra «in casale Soci»; 1073 «in l.d. Soci»; 1079: «castello de Soci»; 1079: «in castro deSoci» (RC, I, nn. 6, 48, 78, 291, 339, 375, 433, 434). 43. 1084: «omnes casas, terras, vineas, sortes et donicatos(…) in casale Soci»; 1085: vigna e clausura «in casale de S. in loco dicto Piscaia iuxta viam publicam et fossamcastri»; 1090: terra «in casale de S. ante ecclesiam de S. Nicholai» (stesse espressioni nel 1090, 1096, 1097: v. RC, nn. 466, 518, 558, 559, 589, 594). 44. Bibbiena: nel 1010 si cita una «casa et terra illa etsorte que est posita infra plebem S. Ipoliti sito Biblena in casale Castello» (RC, n. 24); nel 1030 «de integra res illa que est posita infra territorio de plebe S. Ipoliti sito Biblena in casale Castello in avocabulo Casella» (Pasqui, n. 142). Castelfocognano: nel 1011 «casale Castello»(WICKHAM 1997a, p. 312, n. 26). Castelcastagnaio: nel 1055 una terra è ubicata «infra casale castello Castagnaio» (RC, n. 280).
consistenza, più o meno agglomerati, aperti e privi di fortificazioni 45. Rimane invece difficile stabilire quale realtà insediativa si nascondeva dietro gli altri termini citati nelle fonti: ciò è evidente in particolare per quanto riguarda le menzioni dei soli toponimi o dei termini locus/ avocabulum (11 casi), delle menzioni di res/man-si/sortes (3 casi) o anche di chiese e pievi (6 casi). Dei 63 castelli di XII sec. (Tab. 3) 37 sono designati con un toponimo non attestato in precedenza, mentre 26 presentano un toponimo precedentemente attestato in associazione con termini di localizzazione geografica che non implicano la presenza di una fortificazione. La maggiore novità ricavabile dai nostri dati rispetto al secolo XI, consiste dunque nel fatto che la maggior parte dei castelli che compaiono in questa fase non sono ricollegabili con toponimi o nuclei insediativi noti precedentemente. È probabile che una parte di questi castelli fosse sorta ex-novo in località disabitate (esempi chiari sono Tegoleto, Poppi, Montacuto, Castiglion Fatalbecco) e anche prive di un loro toponimo (v. il caso di Serravalle), ma in altri casi è forse la scarsità di documentazione che sta alla base della perdita del dato toponomastico; come abbiamo già ricordato, infatti, la massa documentaria aretina è in netto calo in questo periodo. Il problema si presenta soprattutto per una quindicina di castra attestati per la prima e spesso unica volta in conferme vescovili o diplomi imperiali e che erano ubicati in aree per le quali mancano altre fonti documentarie 46. Tra i castelli che presentano una precedente attestazione vediamo ancora una volta prevalere quelli che si impiantano su una curtis preesistente e ne ereditano il nome (8 casi); per essi sono valide le considerazioni già fatte precedentemente per il secolo XI. Poche, anche se non del tutto scomparse, sono ormai le menzioni di casalia (3 casi). Quattro sono le villae incastellate; si contano poi 9 casi di attestazioni come semplice toponimo o locus/avocabulum, 2 come mansus, 5 come edificio religioso.
La valutazione dell’impatto che il fenomeno del-l’incastellamento ebbe sulla maglia insediativa preesistente è piuttosto problematica nell’ambi-
45. GINATEMPO, GIORGI 1996, p. 26. 46. Ad es. nei casi della conferma vescovile al monastero di S. Michele in Pian di Radice (1154: Pasqui, n. 359) dove si nominano i 5 castelli della valle del Ciuffenna; v. inoltre il diploma di Federico I indirizzato al monastero di Capolona nel 1161 che elenca 6 castelli (MGH, D. F. I, n. 335).
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to della ricerca che abbiamo impostato: infatti i dati acquisiti riguardano esclusivamente i siti che, in un certo momento della loro storia, furono dei centri fortificati, mentre non è stato oggetto di una indagine sistematica il globale complesso del popolamento medievale. Tuttavia, incrociando i nostri dati con quelli elaborati in indagini precedenti, possiamo tentare di richiamare sinteticamente alcune tendenze di carattere generale. Per quanto riguarda il Casentino, Wickham ha mostrato come il fenomeno dell’incastellamento non ostacolò né arrestò lo sviluppo degli abitati sparsi e aperti, che continuano ad avere una notevole vitalità per tutto l’XI e il XII secolo. Sembra anzi che la maggior parte della popolazione fosse distribuita in villaggi e case sparse sul territorio, mentre i castelli non assorbirono mai l’in-tero popolamento circostante, neanche quelli che si presentano come centri di evidente importanza politica e demica (ad esempio Bibbiena, Strumi, Sarna). Il sorgere dei castelli, dunque, non avrebbe provocato alcuna rottura nella maglia insediativa: la maggior parte dei castelli rimasero semplici fortificazioni di curtes preesistenti, con scarso e talvolta anche infimo ruolo insediativo 47. Una questione particolarmente spinosa, tuttavia, è costituita dal fatto che i risultati della ricognizione di superficie effettuata in Casentino agli inizi degli anni ‘80 contrastano nettamente con questi dati: sono infatti scarsissime le tracce archeologiche di abitati o case sparse di epoca medievale 48. Per la zona di Cortona il Gialluca è giunto a conclusioni simili, ridimensionando l’importanza dei castelli come causa di mutamento nella distribuzione della popolazione rurale: la maglia insediativa, nonostante il proliferare di insediamenti fortificati, avrebbe visto uno sviluppo parallelo di agglomerati non fortificati e villaggi aperti49. Secondo Delumeau la stessa situazione caratterizzava anche la vicina area collinare di Castiglion Aretino, in cui nella prima metà del Duecento si riscontra la presenza di un vitale insediamento aperto, con un gran numero di villae e pochi castelli 50. La maggior parte delle aree
47. WICKHAM 1997a, pp. 310 e sgg.; v. anche BOSMAN 1990. 48. STODDART 1981. 49. GIALLUCA 1987, pp. 256-257. 50. DELUMEAU (1996, p. 179), nel riprendere l’ipotesi di Gialluca, cita un diploma del 1239, che riguarda la «curia» di C. Aretino: in esso si riscontra una sorprendente rarità di «castra»: ad esempio nella valle di Chio si elencano 22 «villae», mentre solo Tuori è detto «villa sive castrum».
montuose della diocesi, dunque, sembrano caratterizzate dalla presenza di castelli numerosi, piccoli, sorti come semplice fortificazione di curtes preesistenti o a controllo di punti strategici, nei quali, tranne poche eccezioni, abitavano probabilmente solo alcune decine di persone oltre al signore e alla sua famiglia. Delumeau delinea invece una situazione un po’ diversa per le aree di bassa pianura (conca di Arezzo, fascia centrale della Valdichiana); secondo questo autore tali zone, che nell’alto Medioevo erano probabilmente in gran parte disabitate e caratterizzate dalla presenza di vaste foreste e aree paludose, furono oggetto di una colonizzazione ad opera di monasteri e famiglie locali. Il processo di riconquista e dissodamento di queste aree si sarebbe incardinato sulla nascita di alcuni castelli «di popolamento», che emergono tra XI e XII sec. al centro di vaste aree boschive un tempo di proprietà pubblica (Mugliano, Talzano, Montetino, Alberoro, Tegoleto) 51. Va poi sottolineata la presenza, sulle colline che costeggiano la Valdichiana, di una serie di grandi castra (Civitella, Castiglion Aretino, Monte S. Savino, Lucignano, Foiano) e di una «quasicittà» (Cortona, che sarà dal XIV sec. anche sede vescovile) che caratterizzano il paesaggio di questa zona in modo assai diverso da quello delle aree montagnose del resto della diocesi: la Valdichiana, secondo Delumeau, è l’area della diocesi aretina che più si avvicina al modello toubertiano di incastellamento.
3. PROMOTORI DELL’INCASTELLAMENTO E DETENTORI DI CASTELLI
Come è noto, e come abbiamo visto anche nei paragrafi precedenti, assai di rado i documenti attestano esplicitamente iniziative di fondazione di castelli, dandoci indicazioni precise sulla cronologia o le modalità dell’incastellamento e soprattutto sull’identità dei fondatori. Nel nostro territorio, nell’arco dell’XI sec., ciò avviene soltanto per i sopra citati castelli di Selvole e Casmaiore, nel XII solo per Serravalle, Galognano e Castelnuovo/Sexto 52. Tuttavia, in moltissi
51. Ivi, pp. 174-175.52. Per Serravalle e Galognano v. il par. precedente; riguardo a Castelnuovo risulta che, nel 1135 ca., quando fu distrutto dagli Aretini, fu stipulata una convenzione tra l’abate di S. Fiora, il preposto della canonica ed i nobili di Petrognano «quod prepositus debet restaurare totum illud quod ipse et sui destruxerant de turris et muris
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mi casi i documenti ci danno informazioni sui detentori dei castelli al momento della loro prima attestazione; sulla base di tali dati, con tutta la cautela del caso, è spesso possibile ipotizzare che i detentori di un castello al momento della sua prima comparsa nella documentazione ne fossero stati anche i fondatori. Tale procedimento, pur indiziario e certamente soggetto ad approssimazioni ed errori, diventa tuttavia irrinunciabile nel tentativo di ricostruire le linee generali della geografia del potere durante i secoli centrali del Medioevo. Per quanto riguarda i 4 siti fortificati di X sec. (Tab. 1), vediamo che l’incastellamento è riconducibile in due casi all’iniziativa di poteri pubblici: il castrum Sabini, che compare nelle confinazioni dei beni concessi da Ottone I a Goffredo di Ildebrando, faceva probabilmente parte dei possedimenti imperiali; il castello di Capolona apparteneva ad Ugo marchese di Toscana, che vi fondò l’abbazia di S. Gennaro. Riguardo agli altri due castelli noti per questo periodo, vediamo che il castrum di S. Fiora fu fondato molto probabilmente per iniziativa dei monaci a protezione del monastero, mentre niente siamo in grado di dire sulla Turre de Casalicclo, citata come semplice confinazione. Tra i detentori dei castelli attestati nell’XI sec. (Tab. 2) prevalgono nettamente i signori laici, sia membri di grandi famiglie comitali o marchionali (19 castelli), sia appartenenti all’aristo-crazia minore (53 castelli). Va tuttavia sottolineato che appare ragguardevole anche il numero delle fortificazioni vescovili (11), le quali già a partire dai primi anni del secolo sorgono come centri privati sui possedimenti fondiari dei presuli, che avranno titolo comitale dal 1052 53. Possiamo però spingere l’analisi più nel dettaglio, per cogliere alcune differenze tra la prima e la seconda metà del secolo. Tra il 1000 ed il 1050 sono già piuttosto numerosi i castelli vescovili (6) 54, due dei quali (Marciano e Bibbiena) compaiono nel primo decennio del secolo e si configurano fin dall’inizio come importanti
et fossis predicti castelli, et omnes expensas quas prefatus abbas cum predictis viris de Petrognano fecit in constructione predicti Castellinovi» (Pasqui, n. 339, p. 462). 53. Sull’esercizio dei poteri pubblici da parte dei vescovidi Arezzo già prima di questa data e sulla loro funzione comitale v. TABACCO 1973 e ampiamente DELUMEAU 1996, pp. 264 e sgg. 54. Una situazione del tutto diversa si riscontra ad esem-pio nella diocesi di Volterra, dove i vescovi non incastellano prima del XII sec. e anche allora tendono piuttosto ad acquisire centri fortificati già esistenti, cfr. AUGENTI in questa sede.
centri di potere dell’area casentinese; gli interessi dei vescovi aretini sembrano concentrati, in questa fase, soprattutto nel settore nord della diocesi (qui erano ubicati anche Plano, Montecchio e Castelfocognano). Fuori da questa zona si trovava invece Civitella, castello vescovile di notevole importanza, posto in posizione eccezionale a dominio della Valdichiana e della Valdambra. L’unico ente monastico ad incastellare in questo periodo è l’abbazia di S. Fiora (Sarna, Quarata): su questo dato ha certamente un peso la tipologia della documentazione, ma è indubbio che, come vedremo in seguito, questo monastero mostrò sempre uno spiccato interesse verso la creazione e gestione di un proprio patrimonio di castelli. Piuttosto poche, in questa prima metà del secolo, sono le attestazioni di castelli controllati dal-l’aristocrazia di alto rango: Strumi, fondato dai conti Guidi nel Casentino fiesolano (Fig. 3); Pitigliano e Policiano (Fig. 4) nelle mani di membri della famiglia dei Marchiones. Va ricordato che i Guidi espanderanno la loro influenza sul Casentino solo nel corso del XII secolo, mentre in questo periodo i loro possedimenti si concentrano nella zona appenninica a cavallo tra Toscana ed Emilia-Romagna 55. I Marchiones, invece, sono forse ancora semplicemente poco visibili sulla base della documentazione disponibile: infatti i loro estesi beni e numerosi castelli dislocati nella diocesi aretina compariranno nei documenti nella seconda metà del secolo, al momento in cui, nel processo di spostamento degli interessi della famiglia verso zone periferiche del contado, passeranno per donazione nel patrimonio dei più importanti enti ecclesiastici dell’are-tino 56. Un dato a mio avviso significativo è rappresentato dal numero dei castelli che risultano in mano a privati laici senza titoli nobiliari: ben 14. Tali individui o gruppi familiari non hanno ancora una ben definibile fisionomia e sembrano, per ora, impiantati in una sola località, con l’ecce-zione di un tale Algozo di Bonizo, che nel 1029 risulta proprietario di un notevole patrimonio fondiario, che comprendeva almeno tre curtes con i relativi castelli e chiese (Artignano, Castello, Murlo: Fig. 5). Per la maggior parte di questi lignaggi di «signori di castelli», dunque, non è
55. Sui Guidi: DELUMEAU 1996, pp. 384 e sgg., RAUTY 1996, RINALDI 1996. 56. Sulle vicende dei Marchiones e sul loro patrimonio nella diocesi di Arezzo, v. sotto, testo corrispondente alle note 60, 61, 62 e la bibliografia ivi citata.
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Fig. 5 – Foto aerea del castello di Murlo (identificazione probabile).
ancora possibile tracciare dei lineamenti più chiari (è ancora raro, ad esempio, l’uso di designare i membri del gruppo familiare con il toponimico della località di provenienza) o ricostruire anche brevi sequenze genealogiche. Si può notare, però, che alcuni di questi siti incastellati risultano già in mano a famiglie che nei periodi successivi saranno molto importanti nel territorio aretino (i Walcherii a castrum Everardi, il gruppo familiare de Dorna a Montoto) e che già cominciano ad emergere alcune famiglie della clientela vescovile e marchionale 57. Nella seconda metà del secolo, sul fronte delle iniziative di incastellamento da parte di enti ecclesiastici, si rileva un orientamento simile al cinquantennio precedente, sia per quanto riguarda
57. I ff. Guillielmi/Benzi ottennero dal vescovo prima del 1049 una parte del castello di Montecchio (v. WICKHAM 1997a, pp. 293, 298, 312); gli Azzi prima del 1040 detenevano, quasi certamente in feudo dai Marchiones (v. la successiva donazione di Sofia vedova del marchese Enrico nel 1079: Pasqui, n. 230), una parte del castello di Policiano (Pasqui, n. 160).
i vescovi (5 castelli) che per quanto riguarda le abbazie (3 castelli). I primi appaiono ancora interessati al settore casentinese (Fognano), ma intraprendono una politica di incastellamento a più vasto raggio, fortificando anche altri punti strategici del territorio: Fontiano a dominio della Via Cassia, Ciggiano in Valdichiana, Cerritulo come testa di ponte nella Massa Verona (fuori diocesi) e soprattutto la propria sede, cioè l’al-tura di Pionta, su cui sorgeva la cattedrale extraurbana 58. Tra le abbazie che incastellano compare adesso, oltre a S. Fiora (Mugliano, Montione?), anche S. Gennaro di Capolona (Fronzola). Un elemento nuovo, che si impone alla nostra attenzione in questo periodo, sono le iniziative di incastellamento da parte dei canonici di S. Donato, che promuovono il sorgere di ben 5 siti fortificati, e forse di un sesto, sui propri possedimenti fon
58. A proposito della fortificazione del Pionta, v. in dettaglio CORTESE, in questa stessa sede.
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Fig. 6 – Foto aerea del castello di Castelcastagnaio.
diari (Moggiona, Selvole, Milisciano, Pratomaio, Marcena, Piscinale?). Numerosi appaiono i castelli in mano all’alta aristocrazia: 12 rientravano a vario titolo tra i possedimenti di membri della casata dei Marchiones; si contano poi 1 castello dei conti di Romena (Castelcastagnaio: Fig. 6) 59, 1 probabilmente appartenente ai Guidi (Ganghereto), 2 castelli dei discendenti del conte senese Bernardo (Vicione, Monte Acuto: Fig. 7). Castelli imperiali erano Vezzano e Castiglion Aretino. A proposito dei Marchiones abbiamo detto in precedenza che i documenti ci danno una «fotografia» del loro patrimonio castrense solo al momento in cui questo si andava disgregando e stava passando di mano. La presenza marchio
59. Si tratta di una famiglia comitale del Casentino fieso-lano, attestata dalla metà dell’XI sec., le cui vicende sono poco note; secondo Wickham furono forse i Romena e non i Guidi gli originari rappresentanti del potere regio nella valle. I conti di Romena spariscono dalla documentazione dopo il 1100 e nei loro possedimenti principali subentrano i Guidi, che forse si erano legati a questa famiglia tramite matrimoni: v. CECCARELLI LEMUT 1996, pp. 181-182; RAUTY 1996, p. 250; WICKHAM 1997a, p. 216.
nale, che sembra essere stata consistente sia nella città di Arezzo 60 che nel contado a cavallo tra X e XI sec., in questo periodo si va invece contraendo fino quasi a scomparire. La seconda metà dell’XI sec., infatti, rappresenta per il patrimonio marchionale un momento di mutamenti rapidi e radicali, conseguenti ad una politica di alienazione delle componenti patrimoniali più decentrate ma anche di importanti possedimenti collocati nella città di Arezzo e nelle sue vicinanze 61. Questa fase di ristrutturazione sembra sostanzialmente conclusa con il noto testamento del marchese Enrico del 1098, dal quale emerge chiaramente una tendenza al disimpegno dal
60. Riguardo alla presenza marchionale nella città stessa,si pensi alla donazione all’abbazia di S. Fiora, da parte di Enrico III il Giovane nel 1098 della «suam partem de castello de civitate Aretina» e della «curtis dicte civitatis» (Pasqui, n. 289, p. 395). A questo proposito v. le osservazioni in TIBERINI 1994, p. 524. 61. L’argomento è trattato nel dettaglio in TIBERINI 1994, pp. 520 e sgg., che cita le donazioni marchionali del 1066 e 1068 (a Camaldoli), del 1079 (alla chiesa aretina), del 1095 (a S. Fiora) e soprattutto analizza il testamento di Enrico III del 1098. Sulla famiglia dei Marchiones v. anche DELUMEAU 1996, pp. 345 e sgg., TIBERINI 1997.
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Fig. 7 – Foto aerea del castello di Monte Acuto (identificazione probabile).
l’area aretina (con il conferimento di legati ad esponenti femminili della famiglia e le donazioni ad enti ecclesiastici non particolarmente legati alla famiglia stessa) ed al contrario la volontà di mantenere un nucleo forte di potere nell’area di confine tra le zone di influenza di Arezzo, Cortona, Perugia e Città di Castello. Secondo Tiberini il motivo principale di questa scelta è da ricercarsi soprattutto nella restrizione dei margini di manovra politica dei Marchesi in conseguenza al consolidarsi del potere vescovile sulla città ed il contado di Arezzo, ufficialmente sancito dal diploma dell’imperatore Enrico III del 1052 62. Il dato più evidente per la seconda metà dell’XI sec. è certamente l’esplosione dell’incastella-mento ad opera di gruppi familiari appartenenti alla minore aristocrazia (39 castelli). Tali gruppi familiari, dei quali è stato possibile ricostruire sequenze genealogiche anche di relativamente lungo periodo 63, sono spesso riconoscibili dal
62. TIBERINI 1994, p. 527. 63. V. le numerose tavole genealogiche in appendice al vol. II del Delumeau.
loro patronimico o toponimico, che è quasi sempre il nome di un castello. Alcune famiglie compaiono nella documentazione contrassegnate dal nome di una località di provenienza anche molto tempo prima che questa sia esplicitamente menzionata come castrum: in tali casi possiamo talvolta ipotizzare che la località fosse già un castello 64. Si tratta, ovviamente, di una deduzione non automatica: infatti è anche possibile che la località di provenienza di alcune famiglie sia stata incastellata in una seconda fase, mentre in una prima fase la sfera d’influenza di tali gruppi familiari e soprattutto il patrimonio castrale si andava costruendo altrove. Molte famiglie ap
64. L’esempio più chiaro è forse quello dei già citati nobili di Dorna («ff. Guinihildi de Dorna»), lignaggio assai importante della Valdichiana. Essi appaiono designati da questo toponimico già a partire dal 1037 (DELUMEAU 1996, p. 953), possiedono vasti beni fondiari e vari castelli,hanno in feudo un castello vescovile della Massa Verona, intrattengono rapporti conflittuali con S. Fiora, di cui tendono ad usurpare i beni. Tuttavia il castello di D. è esplicitamente menzionato solo nel 1115 (Pasqui, n. 309). Altri esempi di questo tipo sono Montagnano, Pitigliano, Galbino, Banzena, Tulliano, Lorenzano, Monte Giovi, Talzano (cfr. Tabb. 2 e 3).
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paiono imparentate tra di loro e probabilmente promuovevano una politica matrimoniale di ampio raggio. Esse avevano anche un notevole peso politico ed economico nelle loro zone di pertinenza (v. le cospicue donazioni ai monasteri) e compaiono spesso accanto alle autorità pubbliche, quali imperatori, marchesi e vescovi, nelle assemblee da essi presiedute. Molto nutrito è soprattutto il gruppo dei vassalli vescovili, che si concentrano in particolare nel Casentino (ff. Berardi, ff. Guinildi, ff. Benzi, ff. Guillielmi, ff. Feralmi) 65 e nell’area centro-nord della diocesi (Walcherii, Sassi). Altre importanti famiglie facevano invece parte dell’entourage marchionale sia nell’area centrale della diocesi (Azzi, nobili di Briciano) ma soprattutto nella zona orientale (de Galbino, nob. di Bivignano/Maiano, nob. di Caprese, nob. della Verna) 66. Il fatto che queste famiglie della minore aristocrazia avessero legami vassallatici con i vescovi ed i Marchiones ci porta però a ritenere, anche in assenza di una attestazione esplicita, che alcuni dei castelli da esse controllati possano essere stati in origine fondazioni vescovili o marchionali poi cedute in feudo o del tutto alienate 67. Lo stesso si potrebbe ipotizzare per quanto riguarda i legami tra alcune famiglie aristocratiche ed i canonici oppure i più importanti monasteri, nei casi in cui si rileva un condominio nello stesso castello 68; la documentazione, però, come di consueto illumina piuttosto il processo contrario, con le numerose donazioni di quote di castelli da parte di laici ai maggiori monasteri. Questi gruppi familiari basavano il proprio potere sulla proprietà fondiaria e sull’amministra-zione di beni vescovili o marchionali; man mano che ci si addentra nell’XI sec., però, essi vengono sempre più caratterizzandosi sulla base del controllo di castra, talvolta ricevuti in feudo o posseduti solo per alcune porzioni, in comproprietà sia con altre famiglie dello stesso rango sia con i vescovi, i canonici, le abbazie. In alcuni casi costruiscono le proprie fortificazioni, che possiedono integralmente e che di solito divengono i loro centri favoriti 69. Ovviamente si indi
65. Ampia trattazione su questi gruppi familiari in WICKHAM 1997a, pp. 287 e sgg. 66. V. DELUMEAU 1996, ad vocem. 67. Si vedano i già citati esempi dei castelli di Montec-chio e Policiano (supra, nota 57); inoltre quelli di Fontiano (condominio tra il vescovo e gli Azzi: Pasqui, nn. 180, 304); v. al proposito le osservazioni di WICKHAM 1997a, p. 311.68. Ad esempio Selvole (canonici e gruppo familiare dei Carpineto: DELUMEAU 1996 p. 170), Marcena (canonici e famiglia Sassi: Pasqui, n. 266). 69. Sulla «crescente definizione dell’aristocrazia… come
viduano delle notevoli differenze tra i diversi gruppi familiari: alcuni, infatti, hanno un ambito di influenza molto limitato ed appaiono radicati esclusivamente in un castrum, altri si presentano invece come consorterie ampiamente ramificate, che possiedono beni fondiari estesissimi in varie zone della diocesi e controllano numerosi castelli: ad esempio gli Azzi (Policiano, Fontiano, Turrita, Valenzano, Rigutino), i nobili di Dorna (Montoto, Gaenne: Fig. 8; inoltre Dorna e Fratta attestati nel primo trentennio del XII sec.), i ff. Feralmi (Subbiano, Soci, Caliano), i ff. Berardi (Gello, Partina; inoltre Banzena e Serra attestati nel primo ventennio del XII sec.), i ff. Guillielmi (Vignoli; Ragginopoli: Fig. 9), il vasto gruppo familiare dei futuri Carpineto (Firminina, Bignano, Monte Ferraiolo). Un caso a sé è poi rappresentato dalla famiglia «de Galbino» (poi Montauto), impiantata ad est di Arezzo e in Valtiberina: pur non essendo insigniti di titolo comitale, i Galbino possono essere equiparati all’alta aristocrazia per la consistenza del loro patrimonio e per il numero dei castelli che possedevano (almeno 9 attestati nell’XI sec.) 70. Dopo aver parlato di coloro che probabilmente promossero le iniziative di incastellamento, è ora opportuno fermare l’attenzione su alcuni mutamenti che si verificano nel corso dell’XI sec., in particolare nella seconda metà. Come già accennato, assistiamo infatti ad una redistribuzione del patrimonio castrale, che provoca un sensibile mutamento della geografia del potere all’inter-no della diocesi, con una serie di cessioni di siti fortificati (e più in generale possedimenti fondiari e diritti signorili) a favore soprattutto di enti ecclesiastici. All’interno di questo processo è opportuno rilevare la notevole frammentazione in quote, talvolta anche molto piccole, di questi centri castrensi, i quali non vengono quasi mai ceduti per intero, ma anzi talvolta vengono distribuiti tra vari beneficiari. Il caso più macroscopico è rappresentato dal patrimonio dei Marchiones, che nel corso dell’XI sec. abbandonano quasi completamente la diocesi aretina, mantenendo una forte base di potere nella diocesi di Città di Castello. Particolarmente avvantaggiata da questo spostamento di interessi fu l’abbazia di S. Fiora, che ricevette consistenti donazioni dalla famiglia marchionale, la quale mostrò un particolare favore nei con
serie continua di processi di cristallizzazione, verificatisi in particolare attorno ai castelli» v. WICKHAM 1997a, pp. 305 e sgg. 70. Su questa famiglia v. BARBOLANI DI MONTAUTO 1982 e DELUMEAU 1996, alla voce «Galbino».
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Figg. 8-9 – 8. Foto aerea del castello di Gaenne (identificazione probabile); 9. Foto aerea del castello di Ragginopoli.
fronti di tale monastero. I castelli dei Marchiones, insieme ad altri donati da privati o dal vescovo, andarono ad incrementare massicciamente il patrimonio dell’abbazia 71. Si ampliò molto anche il patrimonio della chiesa aretina, favorita da donazioni del lignaggio dei marchesi e di famiglie dell’aristocrazia laica 72. I vescovi stessi, a loro volta, avevano ricevuto donazioni di castelli da parte dei Marchiones, degli imperatori e di privati laici 73. Cominciò nell’ultimo trentennio del secolo anche la formazione del patrimonio castrense camaldolese, con le donazioni di quote dei castelli di Soci, Subbiano e Partina da parte dei rispettivi signori. Alla fine di questo processo, dunque, il peso degli enti religiosi ha assunto uno spessore decisamente maggiore rispetto all’inizio del secolo. Riguardo a questo, tuttavia, va tenuto sempre presente che la nostra ricostruzione è condizionata dal fatto che solo gli enti ecclesiastici sono, in questo periodo, i vettori della documentazione e che quindi le vicende del loro patrimonio sono delineabili con una precisione molto maggiore.
Durante il XII sec. prosegue l’opera di incastellamento da parte dei vescovi aretini: sono certamente delle fondazioni vescovili i castelli di Montefatucchio e Serravalle e probabilmente Tegiano, in Casentino, e Cesa, in Valdichiana. Attiva in questo senso si mostra anche la canonica, che quasi certamente fonda Alberoro e Tegoleto in Valdichiana, al centro di vaste estensioni forestali un tempo di proprietà pubblica. Non è chiaro se i canonici parteciparono o meno all’inca-stellamento della corte di Sexto (poi Castelnuovo) insieme a S. Fiora e ai «da Petrognano» 74. Sulla base dei diplomi imperiali e delle conferme vescovili di XII sec. vediamo dunque che i canonici possedevano in questo periodo i castelli di Tegoleto, Alberoro, Policiano, Marcena, Classe (Fig. 10), Milisciano, Pratomaio, la metà
71. S. Fiora, oltre ai castelli di sua fondazione, entro la fine dell’XI sec. possiede quote dei castelli di Pitigliano, Pilli, Vitiano (dai Marchiones); Bulgari, Montoto, Turrita, Fontiano, Toppole, Briciano, Rigutino (da gruppi del-l’aristocrazia minore); Plano, Ciggiano, Cerritulo, Fognano, Turre Pupi (dal vescovo). 72. Bulgari, Castellum Grifonis, Classe, Caliano, Subbiano, Soci (da gruppi dell’aristocrazia minore); Policiano (dai Marchiones); Ciggiano, Cerritulo (dai vescovi); Vicione, Monte Acuto (dai discendenti dei conti di Siena). 73. Foiano, Valicclo, Casale (dai Marchiones), Turre Pupi (da una fam. minore); Vezzano, Castiglion Aretino confermati nel 1052 da Enrico III. 74. Una lunga lite si scatenò nel 1213 per stabilire se allafondazione, avvenuta prima del 1128, avessero partecipato o meno anche i canonici (Pasqui, n. 463); quel che è certo è che essi erano in possesso di un terzo del castello.
di Caliano, Subbiano e Bulgari, un terzo di Sexto (Castelnuovo) 75. Tra gli enti ecclesiastici sono però le abbazie a mostrare il maggiore impegno nella formazione e nell’ampliamento del proprio patrimonio castrense. Innanzitutto, ancora una volta, S. Fiora: due sono le nuove fondazioni che i documenti esplicitamente ci dicono promosse dall’ab-bazia, cioè Castelnuovo/Sexto (in collaborazione con i nobili di Petrognano e forse con i canonici) e Galognano, entrambi lungo il corso del-l’Arno. Fu probabilmente una fondazione abbaziale anche Montetino, castello ubicato a poca distanza dall’abbazia stessa, sull’altura che domina il punto di passaggio tra la piana di Arezzo e la Valdichiana. Sulla base delle conferme imperiali e papali dell’ultimo trentennio del secolo (1177, 1182) 76 possiamo delineare la consistenza del patrimonio castrense di S. Fiora: oltre al castrum abbaziale, il monastero possedeva i castelli di Fontiano, Rigutino, Mugliano, Galognano, Quarata, Castelnuovo/Sexto, Sarna, ed aveva diritti e possessi in Policiano, Castelfocognano, Vicione, Gargonza. Dai documenti relativi alle lotte tra comune e monastero si ricava poi che appartenevano a S. Fiora anche Montetino, Turrita e Sinzia 77. Nonostante si tratti di un patrimonio assai consistente, esso appare comunque ridotto rispetto a quello dell’XI sec., quando l’abbazia aveva interessi in una trentina di castelli 78: molti di questi, dei quali il monastero possedeva piccole quote, sono ormai da tempo spariti dalla documentazione abbaziale (e quindi dalla documentazione in assoluto) non lasciando più traccia di sé. I possedimenti di XII sec. appaiono dunque maggiormente concentrati (forse anche attraverso un processo di voluta razionalizzazione del patrimonio abbaziale) attorno a ben precisi nuclei di interesse, quali la piana di Arezzo, il Casentino, le colline lungo la fascia orientale della Valdichiana; si noti ad esempio l’abbandono dei castelli eccentrici della Valtiberina. Il patrimonio dell’abbazia di Capolona, per la quale, come abbiamo detto in precedenza, la documentazione è dispersa, appare ben delineato solo nel diploma imperiale del 1161, dal cui risulta che questo ente monastico possedeva, oltre al castrum abbaziale, i castelli di Fronzola, Uzzano e Carda; gli ultimi due, ubicati nel Pra
75. Di cui Tegoleto, Alberoro e Sexto sono di XII sec., gli altri di XI. V. Pasqui, n. 352 (1147); Pasqui, n. 418 (1194). 76. MGH, D. F. I, n. 667; Pasqui, n. 398. 77. Pasqui, n. 410. 78. Cfr. le osservazioni in DELUMEAU 1996, p. 661.
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Fig. 10 – Foto aerea del castello di Classe.
tomagno, compaiono per la prima volta in questo diploma ed è possibile che si tratti di fondazioni dell’abbazia stessa. Nel diploma si citano poi generici diritti di Capolona sui castelli di Cincelli, Gretole, Campinetolo e Casale, il primo ubicato nella piana a nord di Arezzo presso l’Arno, gli altri nel Pratomagno; tutti sono menzionati qui per la prima volta e non siamo in grado di fare ipotesi sui promotori dell’incastellamento (possiamo pensare ancora a Capolona?)79. È infine il patrimonio del monastero di Camaldoli che si amplia a dismisura nel XII sec., incamerando, soprattutto per donazione, interi castelli o cospicue quote di essi nel Casentino e
79. Tra gli enti ecclesiastici possiamo ancora ricordare l’abbazia di Agnano, incastellata nel 1180 ca., e l’abbazia di S. Trinità di Fontebenedetta che, non essendo in possesso di castelli, interpolò un diploma di Federico I del 1163, trasformando in proprietà integrale quelli che erano solo dei diritti sui castra di Anciolina, Rondine, Valle, e su altri luoghi – non menzionati esplicitamente come castelli, ma che lo erano – come Latroiana, Cincelli, Ortignano, Castelfocognano.
nella Valtiberina; questo monastero appare invece poco interessato a promuovere in proprio una politica di nuove fondazioni 80: Sul versante dell’aristocrazia laica, possiamo notare innanzitutto la completa assenza di castelli marchionali: il processo di spostamento verso est degli interessi familiari ed il loro radicamento nell’area appenninica esterna alla diocesi di Arezzo si era già concluso entro la fine dell’XI secolo. Si espande invece il patrimonio dei Guidi, che tendono a creare due solide aree di potere nell’alto Casentino (castelli di Stia, Romena, Poppi, Porciano: Fig. 11) e nella valle del Ciuffenna. A proposito di quest’ultima zona,
80. Passano integralmente tra i possedimenti camaldolesi i castelli di Montorio, Anghiari, Banzena, Gello, Serra, Moggiona, Traciana; in parte i castelli di Tegiano, Lorenzano, Tulliano, Soci, Caprese, Toppole, Pianettole, Vaglialle. Rimangono misteriose le origini di Ponina e Favule citati tra i possedimenti di Camaldoli nel 1141; sicuramente fondato dal monastero dopo il 1180 fu Castiglion Fatalbecco al posto di Montorio, distrutto dagli Aretini.
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Fig. 11– Foto aerea del castello di Porciano.
dobbiamo dire che i castelli attestati nel XII sec. non appaiono esplicitamente legati ai conti: il fatto, però, che essi siano inseriti in una compatta area di signoria guidinga nel XIII sec. ci induce a pensare ad una iniziativa comitale per la loro fondazione (si tratta dei castelli di Pozzo, Mori, Cave, Penna, Terraio). A parte i Guidi, solo altri due castelli risultano in mano a famiglie che si fregiavano del titolo comitale. Si tratta di due poco conosciute stirpi, documentate in aree periferiche della diocesi nel corso del XII sec.: i conti di Montedoglio (Fig. 12) nella zona di Anghiari (a partire dal 1105) e i conti di Cegliolo (a partire dal 1171) nei pressi di Cortona, forse rispettivamente rami collaterali dei conti di Sarsina (nel Montefeltro) e dei Marchiones 81.
81. Trattazione e ipotesi in DELUMEAU 1996, pp. 362-364. Per i Montedoglio anche BARBOLANI DI MONTAUTO 1982, pp. 103-106.
Rimangono infine da considerare i molti castelli (24) appartenenti a famiglie dell’aristocrazia laicanon insignite di titolo nobiliare. Una notevole differenza rispetto al secolo precedente è la minore dispersione del patrimonio castrense tra tanti piccoli e medi gruppi familiari; adesso, invece, i castelli sembrano concentrati nelle mani di 4 o 5 famiglie più importanti, tra le quali emergono le stirpi che avranno il maggiore peso politico nella storia aretina del secolo XIII. Sono ancora molto potenti nella Valtiberina i Galbino (che da un certo momento in poi prendono nome di Montauto), i quali controllano i castelli di Montorio, Galbino, Vaglialle, Pianettole e appunto Montacuto; essi si legheranno strettamente alla signoria camaldolese nella zona di Anghiari 82. Nell’area centrale della diocesi emergono soprattutto gli Ubertini (secondo l’ipotesi di Ch.
82. V. soprattutto BARBOLANI DI MONTAUTO 1982.
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Fig. 12 – Foto aerea del castello di Montedoglio.
Wickham probabilmente discendenti dei ff. Guillelmi/Benzi 83), i Pietramala (castelli di Chiusi e Pietramala) ed il vasto gruppo dei Carpineto 84
(castelli di Sassello, Castiglion Fibocchi, Forminzone, Montegirato, Rondine); invece si esaurisce agli inizi del secolo l’importante famiglia casentinese dei ff. Berardi di Banzena i cui castelli (Banzena, Gello, Serra) passano a Camaldoli nel 1114.
4. STRUTTURA MATERIALE (Tab. 4)
Nella documentazione di X-XI sec. i termini castrum e castellum vengono usati indifferentemente, talvolta anche nell’ambito dello stesso documento, per designare i siti fortificati. Sol
83. WICKHAM 1997a, pp. 293 e ssg. 84. DELUMEAU 1982.
tanto una volta, per Vezzano nel 1052, ci imbattiamo nella definizione rocca. Il termine castellare è usato 2 volte ad indicare, come di consueto, una fortificazione in abbandono. Come è ovvio, gli elementi costitutivi di un castello che più spesso vengono menzionati sono le fortificazioni. In 12 occasioni riscontriamo la presenza di una torre: di norma questa viene citata in riferimento ad un insieme più ampio (l’espressione usata più frequentemente è turris et castrum/castellum), mentre in due casi ci troviamo quasi certamente di fronte a delle torri isolate piuttosto che ad un vero e proprio castello. Si tratta della Turris de Casalicclo (a. 989), che non ricomparirà più in seguito, e della torre di Classe, sorta probabilmente a controllo di un corso d’acqua, nelle vicinanze di alcune case: nel 1033 la località è descritta come «petiam de terra, cum turre et casis et vineis, cum olivetis et quercietis» situata presso il torrente Chiassa. Altre componenti delle strutture difensive spes
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Tab. 4a – Strutture materiali dei castelli. X secolo.
Tab. 4b – Strutture materiali dei castelli. XI secolo.
so citate sono le mura (16 menzioni), i fossati delle generiche munitiones del castello, in 2 casi (18 menzioni) e le carbonaie (18 menzioni). Tali al circuitum castelli, cioè alla cinta muraria nel termini sono quasi sempre associati; solamente suo complesso, in un solo caso alla porta del cain 3 casi si riscontra la presenza esclusiva di fos- stello e ad un propugnaculum, cioè un elemento sati e carbonaie, senza alcuna menzione di ele- di difesa accessorio non bene identificabile. Piutmenti in pietra 85. In 4 casi si fa riferimento a tosto frequenti sono i riferimenti alla posizione
d’altura del sito fortificato, con la menzione del 85. 1049 Montecchio; 1056: Selvole; 1076: Fognano. poio – meno spesso mons – sul quale sorgeva o
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Tab. 4c – Strutture materiali dei castelli. XII secolo.
delle sue pendices; nei casi in cui ricorrono espressioni tipo monte, seo poio, seo castello si può ipotizzare, dal punto di vista della struttura materiale, uno sfruttamento della morfologia del terreno a scopo difensivo, più che la costruzione ex novo di strutture murarie imponenti. Frequentissimi sono poi gli accenni all’esistenza di edifici religiosi entro i castelli, o talvolta subito all’esterno di essi. In tre casi si tratta di importanti monasteri: abbiamo già accennato nel primo paragrafo a quelli di SS. Flora e Lucilla e S. Gennaro di Capolona, già documentati nel Xsec.; aggiungiamo qui S. Fedele di Strumi nel-l’alto Casentino (a. 1029). Nei casi in cui il castello era sorto in un luogo ove già esisteva una pieve (ciò avviene solo in Casentino: Bibbiena, Subbiano, Partina), essa rimase esterna al circuito murario, in posizione meno elevata rispetto al sito fortificato 86. In moltissimi casi i documenti menzionano la presenza di una chiesa castrense (34 menzioni). Relativamente frequenti sono gli accenni ad altri edifici che si trovavano all’interno del castello: si tratta di case di abitazione poste entro le mura (11 menzioni) 87 o ubicate subito all’ester-no (2 menzioni) 88, talvolta di generici hedificii
86. Cfr. le osservazioni in BOSMAN 1990, p. 27. 87. Alcuni esempi (v. tab. 2): Nibbiano, a. 1011: «casas». Bibbiena, a. 1045: atto redatto «intus casa et curte de Beblina; a. 1084: «de integra medietate de una casa, posita in castro de Biblina, cum fundamento et fabrica sua et clausura cum omnibus edificiis»; confina su due lati con la via pubblica, la casa di Brunello di Teuzio, la casa di Arizio di Teuzio. 88. Latoramuscano a. 1031: «mansum unum prope ipsocastello»; Nibbiano a. 1034: «casam et terram et closuram
(9 menzioni) 89. In molti casi le abitazioni menzionate sono quelle appartenenti ai signori del castello (12 menzioni), talvolta definite appunto casa domnicata. I documenti esaminati, nel loro complesso, sono comunque ancora piuttosto laconici nella descrizione degli elementi materiali che costituivano il castello, limitandosi a fornire singoli dettagli. Molto raramente è possibile imbattersi in descrizioni un po’ più complesse e articolate: riporto qui i tre esempi più significativi, che rimangono comunque piuttosto eccezionali. Il primo, del-l’anno 1021, è relativo alla donazione all’abba-zia di S. Fiora, da parte del giudice Ugo figlio di Pietro, della «medietatem de casa et corte et castello et turre et ecclesia mei iuris, que sunt in comitatu aretino infra plebe Sancti Petri in Prisciano, in loco qui dicitur Bulgari et in Cellule et in Sciegi et in Munticello et in Waldinano et in Bivignano et in Campillie et in Grogi» e ovunque sono i suoi beni «infra predictam cortem de Bulgari»; inoltre «de domnicatis et mansis, de ecclesia et castello et turri (…) idest de casa et corte mea domnicata de loco Bulgari, cum ecclesia qui ibi est dedicata in onore sancte Marie» con tutte le sue pertinenze e 12 mansi (elenca-ti)90. Il secondo esempio, dell’anno 1031, riguarda una permuta tra il vescovo Teodaldo e Rodolfo abate di S. Fiora: il primo ricevette «totam
cum vinea et orto» che confina con la «Carbonaia de Castello». 89. Ad es. Ficarolo, a. 1064: «edificio de loco Ficaiolo»; Fognano, a. 1076: «hedificiis»; Caliano, a. 1091: «hedificiis»; Corte Lupone, 1098: «hedifitiis». 90. Pasqui, n. 111.
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et integram quartam partem de castello cum ecclesia et sua pertinentia, de turre et castello qui dicitur Latoramuscani, et casa domnicata et ipsa ecclesia que est dedicata in onore sancti Iohannis et sancte Margarite, et de medietate de ipso castello quintadecima pars, sicut fuit Hugonis filius Sigizonis, cum tertia portione de sua domnicata casa de ipso castello, et cum quintadecima pars de superscripta ecclesia et de pertinentia sua et de castello et turre (…) mansum unum prope ipso castello (…) secundum mansum in circuitu uius castelli» 91. L’ultimo esempio è anche il più significativo, a mio avviso, per la precisione topografica della descrizione e per la ricchezza dei dettagli forniti: si tratta anche in questo caso di una permuta, avvenuta nel giugno del 1091, tra il preposto della Canonica ed alcuni nobili locali; questi ricevono «integras tres partes sue portionis ex parte illa castri de Caliano minore, scilicet de parte illa que consistit a parte occidentis iuxta lectum rami rivoli Nusse, cum turris que consistit a parte orientis et a parte de Caliano maiore. Coheret autem suprascriptis tribus partibus de parte illa, que consistit a parte occidentis, ab uno latere terra et platea que remanet commune suprascriptorum commutatorum a parte platee ecclesie suprascripti castri; a secundo lectus rami prefati Nusse, sicut currit in Arnum; a tertio fluvius Arnus, a quarto vero latere prenominata pars cum turris». Il preposto a sua volta riceve «integras tres parte ex parte illa de castro predicto que dicitur Caliano de Nussa, ex parte quoque illa que consistit a parte orientis et septentrionalis et est a parte castri de Caliano maiore, una cum tribus eorum partibus de turris et hedificiis et accessionibus et munitionibus trium partium, excepto ecclesia que in commune remanet a stillicidio tribune usque ad communem plateam, que est ante fores ecclesie extra murum castri»92. Constatiamo dunque l’esistenza di un insediamento doppio, distinto in «Caliano minore» (detto anche «Caliano de Nussa» per la sua vicinanza al torrente) posto a occidente, e in «Caliano Maiore» posto ad oriente. Il primo è dotato di torre sul lato orientale, di fortificazioni ed edifici, di una chiesa con una piazza di fronte. È probabile che Caliano di Nussa sia stato il primitivo piccolo insediamento fortificato posto a controllo del torrente alla sua confluenza con l’Arno, mentre Caliano maggiore fosse un borgo sviluppatosi al suo esterno sul lato dove c’era disponibilità di spazio, ovvero su quello occidentale.
91. Pasqui, n. 150. 92. Pasqui, p. 403, nota 1.
Possiamo concludere che, dal punto di vista materiale, i castelli di XI sec. si presentano già come strutture piuttosto articolate. Si rileva un uso piuttosto diffuso della pietra come materiale da costruzione, impiegata soprattutto, ovviamente, per gli apparati difensivi (torri, mura), mentre raramente vengono menzionati i soli fossati o carbonaie; è assai probabile che in pietra fossero costruite anche le chiese castrensi, che compaiono numerosissime nei documenti. Si deve tuttavia ipotizzare che fosse largamente utilizzato anche il legno, soprattutto per le strutture abitative, riguardo alle quali ancora mancano notizie documentarie esplicite. Abbiamo visto le frequenti notizie riguardo alla presenza di edifici di rappresentanza, come le dimore dei signori del castello, affiancate da semplici case di abitazione, alcune delle quali addossate all’esterno del circuito murario. Nel caso di Caliano, infine, abbiamo anche constatato lo svilupparsi di un insediamento «doppio» e probabilmente di un borgo al di fuori della primitiva cinta muraria.
Le descrizioni che i documenti forniscono riguardo alla struttura materiale dei castelli di XII sec. non aggiungono poi molto a quanto già visto per il secolo precedente. Mentre rimangono ancora numerose le semplici citazioni di torri (8 menzioni), si fanno più articolate, in taluni casi, le descrizioni degli apparati difensivi del castello: ciò avviene ad esempio per Lorenzano in documenti del 1111 e 1112. In essi si citano la «corona eiusdem castelli sicut circumdatum est per fossas et muros cum casis et ecclesia S. Nicholai que in eo sunt», inoltre lo spazio «ab ecclesia que est in ipso castello in sursum, idest solumodo sumitatem et pinnam ipsius castelli». Per Marciano nel 1130 si menziona la «superficie turris vel de ambitu illo, qui est circa turrim quasi quedam incastellatura, lignamine tamen casarum eiusdem incastellature excepto»; si noti in questo caso l’accenno al legname con cui erano costruite le abitazioni addossate alle fortificazioni che circondavano la torre. Tra gli edifici che sorgevano all’interno del castello le chiese sono ancora una volta le più citate (19 volte); in 3 casi le chiese sono due, una ubicata all’interno del castello, l’altra nelle immediate vicinanze 93, mentre il castello abbaziale
93. Lorenzano, a. 1111: «ecclesia S. Nicholai»; a. 1114:«ecclesiam S. Vitalis, posita infra pertinentiam castri de Lorençano cum tenimento eiusdem iuxta Arnum et ipsam ecclesiam que est in castro de Lorençano cum tenimento ipsius». Rigutino, 1130 ca.: «duas ecclesias supradicti castri, quarum una est sancti Quirici et aliam in castro»; 1135 «castrum de Rughitino cum ecclesiis»; 1177
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di S. Fiora conta la presenza di ben 5 cappelle94. Più dettagliate sono in questo periodo le menzioni di platee e di case sia all’interno che al-l’esterno dei castelli, ma è soprattutto da notare la comparsa di alcuni borghi posti al di fuori dei castra, che testimoniano una espansione del nucleo insediativo oltre la primitiva cerchia muraria (4 casi); nel caso di Bibbiena tale crescita è testimoniata dalla «duplicazione» dell’insedia-mento (1194: «castro novo de Beblena»), che venne ad integrarsi completamente con il primo nucleo castrense. Sono presenti ancora gli edifici di rappresentanza: la «casa domnicata» del vescovo in Marciano (1124), la «domus domnicata» dell’abate di S. Fiora in Fontiano (1132), il «palatium» dei signori di Vaglialle (1178). Interessante, infine, è la descrizione di come, intorno al 1196, avrebbe dovuto essere ricostruito il castello di S. Fiora, distrutto dagli Aretini pochi anni prima: i consoli di Arezzo giurarono di «salvare et custodire monasterium sancte Flore, quod reedificabitur ubi primo fuit, cum campanile pro campanis quas habent vel habuerunt in antea, factum cum suis officinis, et cum omnibus conversorum et conversarum et ospitali, super quibus a tecto sursum non erit pectorale vel merli; nec esse in consilio vel facto quod amodo destruatur» 95.
5. IL CICLO DI VITA DEI CASTELLI
Molte informazioni possiamo ricavare dalla documentazione scritta riguardo al ciclo di vita dei castelli, alla loro durata, agli abbandoni o viceversa al loro successo come nuclei insediativi di lungo periodo. Nessuno dei castelli noti per il X sec. è sopravvissuto fino ai nostri giorni: per due di essi la prima menzione documentaria è anche l’ultima, mentre per le abbazie fortificate di S. Fiora e Capolona il decastellamento e l’abbandono avvenne tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. nel-l’ambito delle lotte tra comune cittadino e poteri signorili che controllavano il territorio prossimo alla città.
«castrum Rogetini et eccl. S. Quirici». Penna, 1154: chiesa di S. Croce «extra Pennam» e chiesa di S. Stefano «de castro Penne». 94. 1135: «castrum Sancte Flore cum capellis que ineodem site esse noscuntur: capellam videlicet sancti Anastasii, capellam sancti Angeli, capellam sancti Apollinaris, capellam sancti Zenonis et quod habetis in capella sancte Marie». 95. Pasqui, n. 420.
Dei 96 castelli attestati nell’XI sec. solo 44 sopravvivono come centri fortificati almeno fino al XV sec. e oltre; 5 risultano decastellati e abbandonati nel corso del Trecento; 5 non sono più designati con la qualifica di castrum nel corso del Duecento; 12 già nel corso del XII secolo. Ben 30, infine, non sopravvivono oltre i limiti dell’XI secolo; fra essi un gruppo consistente (25) è costituito da castra noti per tramite di una sola attestazione documentaria e che non ricompariranno mai più in seguito. Per questi ultimi è lecito ipotizzare un abbandono precoce, che spiegherebbe anche la perdita completa del dato toponomastico (il che avviene nel 50% dei casi). Abbiamo spesso difficoltà, infatti, nel localizzare l’ubicazione di questi centri fortificati, dei quali si sono perse completamente le tracce. Dei 63 castelli attestati nel XII sec., 25 sopravvivono almeno fino al XV secolo, 4 risultano decastellati e abbandonati nel corso del Trecento, 5 nel corso del Duecento, 29 non sono più documentati oltre i limiti del secolo. Si riscontra quindi, in generale, un’alta mortalità dei siti fortificati, sia di quelli attestati nel corso dell’XI sec. (58% di insuccessi), sia di quelli attestati nel corso del XII sec. (61% di insuccessi). Se uniamo i dati relativi ai due secoli, vediamo che la mortalità più alta si verifica proprio nel XII sec., periodo durante il quale scompaiono dalle fonti ben 41 castelli. Se questi sono i dati rappresentativi per l’intera diocesi, va tuttavia sottolineato che si riscontrano evidenti differenze tra le microregioni che la compongono. La vallata casentinese, ad esempio, mostra una notevole tenuta della maglia insediativa basata sui castelli sorti tra XI e XII secolo. Infatti quasi tutte le 34 fortificazioni casentinesi vivono almeno fino al XV secolo 96 e non presentano particolari problemi per l’iden-tificazione topografica. Una spiegazione possibile va ricercata nella tendenza alla concentrazione abitativa verificatasi in questa valle tra XIII e XV sec.: come sottolinea Wickham, l’attuale modello di habitat per nuclei piuttosto agglomerati presso i siti dei vecchi castelli è il risulta
96. Tra quelle che compaiono nell’XI sec. solo Nibiano appare decastellato già nel corso dello stesso secolo, mentre spariscono nel corso del XII anche Vignoli, Vezzano e Strumi. Tutti questi siti risultano completamente abbandonati e sono oggi localizzabili solo grazie all’esame delle foto aeree ed alle tracce sul terreno. Una sostanziale longevità si verifica anche per i castelli casentinesi sorti nel XII sec.: 10 su 13 sono siti di successo; scompaiono subito dopo la prima menzione solo Tegiano e Serra, mentre Stia è definito castellare nel 1303. Tutti gli altri castelli della vallata sono sopravvissuti fino ai nostri giorni (oppure sono stati abbandonati in epoca tarda).
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Fig. 13 – Foto aerea del castello di Monte Giovi (identificazione probabile).
to di un lento processo di concentramento della popolazione nel corso del basso Medioevo ed ha invece poco a che fare con l’incastellamento di XI-XII secolo 97. Invece l’area della diocesi dove si riscontra la maggiore mortalità dei castelli si individua nella piana di Arezzo, cioè nel territorio più vicino alla città. Avendo dedicato in questa sede un contributo specifico al problema dei rapporti tra centro urbano e castelli limitrofi, mi limito qui a ricordare che ben 26 su 34 siti fortificati documentati nella zona tra XI e XII sec. non sopravvivono oltre i primi decenni del Duecento (e il problema dell’identificazione topografica si fa in molti casi estremamente spinoso). Anche nell’area di raccordo tra Casentino e piana di Arezzo si nota una notevole fluidità del-l’insediamento fortificato, con un alto numero di siti ma anche con un alto numero di insuccessi, un comparire e scomparire improvviso di castelli nella documentazione, e la conseguente
97. WICKHAM 1997a, pp. 188-189.
difficoltà, per noi, nell’individuare l’esatta ubicazione di molti di essi (Fig. 13). Nella zona a sud di Nibbiano, infatti, solo 8 castelli su 28 sopravvivono oltre il XIV secolo 98. La fitta maglia
98. Tra i castelli documentati nell’XI (16) ben 6 sono noti per tramite di una sola attestazione documentaria, per poi scomparire dalle fonti immediatamente dopo; altri 3 hanno un ciclo di vita brevissimo (Ripa 1020-1036, Plano 1043-1094; Coprina 1055-1094). Di essi 5 non sono attualmente localizzabili ma conosciamo solo approssimativamente l’area in cui dovevano sorgere (Serminita, Firminina, Selvole, Coprina, Plano), 3 sono localizzabili grazie alla toponomastica ed alla foto aerea (Monte Ferraiolo, Montegiovi, Ripa); solo 1 (Bignano) è tuttora un centro abitato. Inoltre, in questa zona, Marcena, Tulliano e Caliano, anch’essi attestati dall’XI sec., risultano decastellati nella seconda metà del XII secolo (entrambi presentano anomalia da foto aerea). Tra i castelli di XII sec. (12), ben 8 presentano una sola attestazione: di essi 2 non sono più localizzabili (Campinetolo, Montegirato), 5 sono stati individuati grazie alla foto aerea e alla toponomastica (Salutio, Carbonaia, Ponina, Gretole, Forminzone); infine solo Carda è ancora un centro abitato. Degli altri castelli di XII sec. Sassello non è più designato come castrum dopo il 1153, mentre solo Castelnuovo, Castiglion Fibocchi e Vegognano vivono oltre il XIV secolo.
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no)
di castelli, probabilmente piccoli e anche minuscoli, presenti in quest’area, si spiega forse con la volontà di controllare la vallata dell’Arno, nevralgico punto di passaggio verso nord. Per quanto concerne invece la breve vita di molti di questi castelli, possiamo pensare, oltre che ad una «selezione» dovuta alla concorrenza di altri castra vicini, anche ad una precoce influenza ed espansione della città in questa zona relativamente prossima (sono noti, ad esempio, gli interventi militari contro Castelnuovo) 99. Altra zona di precoce scomparsa di molti siti fortificati è la Valdichiana orientale e meridionale: qui sono soprattutto i castelli di pianura – tipologia piuttosto diffusa nell’aretino – a scomparire, probabilmente a favore dei grossi centri ubicati sulle fasce collinari a dominio della valle (Civitella, Foiano, Lucignano, Monte San Savi
100. Nella zona più meridionale, inoltre, per una quasi-città come Cortona è attestata una politica di decastellamento dei siti fortificati del proprio territorio agli inizi del Trecento 101. Riguardo alla fisionomia dell’insediamento in que-st’area è comunque da tenere presente anche lo stato di grande incertezza idrografica che durò per tutto il Medioevo. Soltanto in pochi casi le fonti ci forniscono informazioni esplicite riguardo ai motivi dell’ab-bandono di uno o più castelli. In qualche caso (raramente) ciò avviene per il coinvolgimento in nuove fondazioni: ad esempio il castello ed il monastero di Strumi dopo il 1129 furono trasferiti dai Guidi sul sito più favorevole del nuovo castello di Poppi. Sappiamo poi che grandi rivolgimenti della maglia insediativa incardinata sui castelli furono determinati da una precisa politica cittadina: oltre che nel già menzionato caso dei centri fortificati vicini ad Arezzo, ciò avvenne anche nella valle del Ciuffenna, dove nella prima metà del Trecento il comune di Firenze fondò Castel S. Pietro (Terranuova) determinando il decastellamento e l’abbandono di
99. V. CORTESE in questa stessa sede. 100. Dei 13 castelli attestati nell’area compresa tra Civitella e Foiano (9 di XI sec. e 4 di XII) solo 5 sopravvivono oltre il XIV sec., 2 scompaiono nel corso del XIII, 3 nel corso del XII, 3 nell’XI; questi ultimi sono tutti noti per tramite di una sola attestazione e non sono attualmente localizzabili.101. Nei primi anni del XIV secolo, i tre castelli di Farneta, Cerreto e Cignano furono protagonisti di una rivolta contro Cortona, a seguito della quale furono rasi al suolo e ridotti a castellari: ancora nel 1325 lo statuto della comunità soggette al comune proibiva la ricostruzione di edifici, eccetto ospedali, nel perimetro compreso entro le mura distrutte e nelle loro vicinanze, v. GIALLUCA 1987, pp. 249-251. Si veda per un parallelo il caso delle Marche in MAIRE VIGUEUR 1988 e ID. 1987, pp. 125-129.
almeno 6 castelli limitrofi appartenenti ai conti Guidi 102. Un’ultima osservazione è possibile a proposito di quell’alta percentuale di casi in cui i castelli compaiono una sola volta nella documentazione o comunque sono documentati durante un breve arco di tempo per poi scomparire del tutto: il fenomeno del decastellamento e degli abbandoni riguarda in netta maggioranza le fortificazioni controllate da famiglie della piccola aristocrazia, mentre una tenuta decisamente maggiore si riscontra per i castelli vescovili e marchionali, così come per quelli appartenenti ai conti Guidi e ai maggiori enti ecclesiastici della diocesi. Incrociando i dati sul decastellamento con quelli riguardanti i detentori dei castelli (Tabb. 1, 2, 3) si ricava l’impressione che la riorganizzazione delle sfere di potere, soprattutto tra metà XI e metà XII sec., e la corsa all’incastella-mento da parte della piccola aristocrazia, avessero dato luogo al sorgere di numerose fortificazioni, probabilmente di scarsissima consistenza sia dal punto di vista della struttura materiale che da quello insediativo, le quali fallirono come poli insediativi e non sopravvissero ai successivi, rapidi mutamenti e assestamenti della geografia del potere signorile.
6. CASTELLI E SIGNORIA
Lo studio del fenomeno dell’incastellamento offre l’occasione per affrontare, almeno sotto alcuni aspetti, il tema della formazione delle signorie rurali. È un dato ormai acquisito, infatti, che la detenzione di castelli, fossero essi allodiali o concessi in feudo, rappresentò un elemento molto importante per il formarsi e cristallizzarsi di poteri signorili sulla popolazione delle campagne 103. Una prima osservazione che possiamo fare è che anche nell’Aretino, come in molte altre zone, la maggior parte dei documenti in cui si citano diritti signorili, o si utilizza un formulario di tipo «signorile», hanno di solito a che vedere con un castello. Una seconda osservazione, certamente ovvia, è che la stessa esistenza dei castelli di per sé implicava, da parte di chi li
102. V. l’ampia trattazione in FABBRI 1989.103. Sulla signoria rurale v. CAMMAROSANO 1974 (pp. 1733); TABACCO 1979 (pp. 193-206, 240-257); SERGI 1986;VIOLANTE 1991 e 1996; MENANT 1993, pp. 395-485;WICKHAM 1995 e 1996; COLLAVINI 1998 (pp. 128-143); isaggi raccolti nei volumi DILCHER, VIOLANTE 1996 e SPIC-CIANI, VIOLANTE 1997/1998
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controllava, l’esercizio di una prerogativa originariamente pubblica e inoltre presupponeva, per la popolazione rurale, una serie di obblighi connessi con la costruzione delle fortificazioni stesse, con il loro mantenimento, con i compiti di guardia. Mi sembra utile, dunque, proporre qui una rapida rassegna dei documenti aretini che contengono espliciti riferimenti a vari tipi di diritti signorili in connessione con i castelli 104. Innanzitutto nelle fonti compaiono dei termini generici (ius, usus/usuaria, servitium, dictrictus, consuetudo, ecc.) che non specificano il contenuto concreto delle prerogative cui si riferiscono. Le prime e più numerose testimonianze riguardano la signoria dei Marchiones. Nel 1079 la contessa Sofia, vedova del marchese Enrico I, vendeva ai canonici aretini la metà del castello di Policiano «cum omni usu et districtu et albergaria que habuimus infra hos fines» 105. Nel 1095 il marchese Ranieri III rinunciava ad «omnem usum quod habuerunt [ipse et pater eius vel avunculus] et districtum de hominibus et de terra sante Flore que est in Vico» (località prossima al castello di Policiano) 106. Nel 1098 il marchese Enrico il Giovane donava a S. Fiora «unam partem de castello et curte de Pinli cum usu et districtu» 107. Nel 1105 il marchese Ranieri investiva il priore di Camaldoli di tutti i beni che Bernardino di Sidonia deteneva in feudo prima della morte e di tutti i diritti su quei beni eccetto «omnem ius quod avus eius Ugicion marchio habuit et tenuit in Rocca de Vitiano et in tota eius curia» 108; si tratta fra l’altro della prima attestazione dell’uso del termine curia (invece di curtis) per indicare il territorio dipendente da un centro fortificato, con uno slittamento dal significato «fondiario» verso quello signorile. Anche per quanto riguarda i vescovi aretini, ma un po’ più tardi rispetto ai Marchiones, abbiamo
104. Oltre alla mia schedatura, ho utilizzato ampiamente DELUMEAU 1996; TIBERINI 1994 e 1997; WICKHAM 1997a e 1997b. 105. Pasqui, n. 230, p. 321. Secondo TIBERINI in questo caso il termine «districtus» non ha ancora assunto il significato di territorio su cui si esercita il potere signorile, ma sarebbe un diritto generico relativo alle proprietà fondiarie cedute, al pari di altri (TIBERINI 1997, p. 200, n. 4). Su Policiano i Marchesi conservarono in seguito diritti residuali di signoria: nel 1084 promisero ai canonici di non contestare «introitum et exitum, neque ullum eorum directum de predicto castro et curte, neque ullum usum ibi imposuerimus supra illud quod Ugo marchione avus noster exinde habuit antequam eum invasisset» (Pasqui, n. 259). Il contrasto con Ugucione I va forse riferito adun episodio del 1044, per il quale v. infra p. 100. 106. DELUMEAU 1996, p. 181. 107. Pasqui, n. 289, p. 395. 108. RC, n. 670, p. 17.
documenti che attestano la rinuncia generica a diritti su persone e beni: nel 1119 il vescovo Guido rinunciava a «totam usuariam, quam ipse episcopus aut ministri sui soliti sunt sive iuste sive iniuste auferre» 109; nel 1132 il vescovo Buiano cedeva a Camaldoli «totam usuariam» che deteneva sui beni acquisiti dai monaci «in tota curte de Cesa et Marciano» riservandosi solo l’«adiutorium ad claudendum castrum de Cesa» 110. Nel 1136 il vicedomino vescovile Ingo rinunciava in favore del preposto della canonica ad «omnes homines canonice, quos habebant per fidelitatem, vel commendationem vel habitationem a tempore quo castrum de Marcena edificatum est» 111. A partire dal XII sec. in alcuni documenti si registra la presenza di tali diritti nelle mani di monasteri e di privati laici. Ad esempio, nel 1111 Ranieri di Ardingo e la moglie Gasdia donavano a Camaldoli la loro parte del castello di Tegiano (sia in proprietà che in concessione dal vescovo) «et de curte cum casis, ortis, vineis (…) cum omni sua pertinentia et districtu» 112. Nel 1135 Bosciadro «de Talzano» (castello non lontano da Arezzo), in un accordo di pace con l’abate di S. Fiora, «remisit omne ius et directum usum quem habebat vel causari poterat in castello de Muclano et in tota curte eiusdem» 113: Mugliano era di proprietà di S. Fiora ed è quindi da sottolineare il fatto che il personaggio in questione esercitava (o aveva tentato di esercitare) qualche tipo di diritto signorile su un castello e su terre di proprietà del monastero. Nel 1141 un gruppo di membri della famiglia Ubertini effettuarono una permuta di beni con il monastero di Camaldoli, ricevendo «integram portionem de curte et castello de Caliano et districto» 114. Nel 1163 Ugo figlio di Uguccione riuscì ad estorcere una grossa somma al camerario di S. Fiora dietro la promessa, poi non mantenuta, di fare cessione al monastero «de iure et usu quod habebant [tam ipse quam mater et fratres et sorores] in Fontiano et curte eius»: diritti dei quali, a quanto pare, si era impadronito con la violenza 115.
109. V. DELUMEAU 1996, p. 181, che cita anche altri casisimili del 1139, 1140, 1149.110. RC, n. 923.111. Pasqui, n. 342, p. 465.112. RC, n. 739, p. 50.113. Pasqui, n. 341.114. RC, n. 986.115. Pasqui, n. 365: lo stesso documento, infatti, narradi gravi razzie nelle terre del monastero fatte da Ugo coifratelli rubando bestie, distruggendo alberi, vigne, case,campi e mulini e addirittura uccidendo tre uomini nellacorte di Fontiano.
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Sul finire del XII sec. sono poi frequenti, nelle concessioni di castelli, i riferimenti ai «banna»: ad esempio nel 1187 nella concessione da parte di Camaldoli ai figli di Ranieri di Galbino del «vicecomitatum» di Anghiari e nel 1195 nella lite tra S. Fiora e Rolandino di Pagano a proposito «de bannis» relativi al castello di Rigutino 116. Nella documentazione possiamo anche rintracciare riferimenti all’esercizio della giustizia al di fuori dei placiti imperiali e marchionali 117; nel corso dell’XI sec. questi ultimi divengono sempre più rari e nel territorio aretino sono soprattutto i vescovi ad esercitare l’alta giustizia nei propri domini. Essi, a partire dagli inizi dell’XI sec., tenevano dei veri e propri placiti, con un cerimoniale che imitava molto da vicino quelli imperiali e marchionali; inoltre presiedevano arbitrati e giudizi semi-formali in prima personao tramite propri rappresentanti. È interessante notare che i vescovi aretini tenevano i propri placiti di preferenza nei loro castelli più importanti, Bibbiena e Civitella 118. Quindi la concessione del titolo comitale al vescovo nel 1052, del «placitum» e «districtus» su tutti i suoi dipendenti e della «medietatem de placito et omni districtu» su tutti gli uomini non dipendenti dalla chiesa aretina (inoltre metà dei prelievi fiscali e il diritto di battere moneta) appare come la consacrazione di uno stato di fatto 119. Secondo sia Delumeau che Wickham il vescovo di Arezzo fu il vero garante della continuità dei poteri politici e giurisdizionali nella diocesi dopo il disgregarsi dell’egemonia dei Marchesi 120. In alcuni casi anche signori laici imitarono la tradizione del «placitum»: nel 1066 Ranieri, figlio del marchese Ugo, pose un banno privato («confirmavit et posuit suum bandum ex parte Dei et suam») su tutti coloro che si sarebbero stabiliti nel suo centro politico di Monte S. Savi
116. V. le osservazioni in DELUMEAU 1996, p. 182, nota 283.117. V. in generale DELUMEAU 1978 e WICKHAM 1997b,pp. 195, 203, 209-211 (che riprende in gran parte il primo autore).118. Nel 979 il messo di Ottone II tiene un placito a Bibbiena «per (…) Everardi episcopi licentiam»; tale documento è rogato mentre il vescovo Everardo «in iudicioresidebat ante ecclesia sancti Ipoliti sita locus Beblena»;nel 1041 i rappresentanti del vescovo vi presiedono unaassemblea a proposito della rinuncia dei «ff. Berardi» infavore di Prataglia. Nel 1048 il vescovo Immone si pronuncia contro Alberto di Ranieri, che aveva usurpato almonastero metà di un podere «dum in dei nomine infracastrum qui dicitur Civitella in placito resideret»: le procedure sono quelle proprie dei placiti pubblici. Per taliesempi v. DELUMEAU 1978, DELUMEAU 1996, p. 267.119. Sulla signoria vescovile v. TABACCO 1973, p. 182;DELUMEAU 1996, pp. 264 e sgg.120. DELUMEAU 1978; WICKHAM 1997b, pp. 209-211.
no e in particolare sui monaci di Camaldoli e tutti i loro dipendenti nel piviere di S. Maria di Chio; comminò gravi pene a coloro che avessero infranto il banno e in particolare ai suoi «vicecomites aut castaldiones aut fideles», con una chiara ripresa delle forme del placito pubblico 121. Una traccia ancora più antica, secondo Tiberini, si avrebbe nel 1044, con l’accordo tra i «castaldi» marchionali ed i rappresentanti della canonica aretina a proposito di una lite riguardante Policiano: la «iussio» in seguito alla quale fu pronunciato il lodo che i due contendenti avevano giurato di rispettare non provenne da una autorità pubblica esterna, ma dal marchese Uguccione, che era una delle stesse parti in causa 122. Poi i conti Guidi: uno dei più antichi ed articolati testi concernenti diritti signorili per il territorio aretino riguarda proprio loro. Si tratta del-l’atto con cui, nel 1098, Guido IV rinunciava in favore dei canonici di Arezzo ad «omnem malum usum et omnem malam consuetudinem (…) de curte et villa vel casale» di Moggiona (la «curtis», ed il castello ivi già esistente appartenevano appunto ai canonici) e prometteva che né lui né i suoi eredi né i suoi «missi» avrebbero fatto «placitum vel dictrictum ex hominibus qui in iamdictis habitant locis aut in antea habitabunt a iure sancti Donati»; il documento specifica poi il comportamento da tenere «si aliquis extraneo reclamaverit de aliquo colono vel conductore illius terre de Moiona iamdicto comiti vel missis suis»: in tale caso il conte avrebbe esercitato la giustizia solo se i canonici avessero trascurato di farlo 123. Qualche indicazione ci viene dai documenti anche riguardo all’esercizio della bassa giustizia nelle terre dipendenti da grandi monasteri, che da tempo godevano dell’immunità: documenti del 963 e 1005 attestano che i livellari di S. Fiora dovevano recarsi «ad iustitias faciendas» nella «curtis» di Quarata; inoltre nel 1015 Wido Fulcheri (nobile locale del gruppo familiare dei
121. DELUMEAU 1978, p.p. 583 e sgg.; TABACCO 1973, p. 185; TIBERINI 1994, pp. 529-530; WICKHAM 1997b, pp. 210-211. 122. TIBERINI 1994, p. 530. 123. RC, n. 608, p. 252. In seguito i Guidi appaiono ancora impegnati nel tentativo di appropriarsi di diritti giurisdizionali in questa località: nel 1107 Guido V Guerra rinunciò a Moggiona, promettendo di non arrecarvi più danni; nel 1146 Guido VI ebbe un donativo annuo di 40 soldi in cambio della promessa di non richiedere «exactiones et omnem usum iustum et iniustum»; nel diploma federiciano del 1164 si attribuiva ai Guidi la «commenditia et placitum de Moiona». Solo dopo il passaggio di M. nelle mani di Camaldoli i Guidi trovarono maggiore resistenza e poi sparirono dalla documentazione riguardante la località: v. WICKHAM 1997a, pp. 340-341.
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ff. Fulcherii), che aveva donato alcune terre al-l’abbazia di S. Fiora ricevendole indietro a livello, dovette recarsi in questa località, dove nel frattempo era sorto un castello, «ad iustitiam» 124. Ancora per quanto riguarda S. Fiora nel 1013 alcuni testimoni riferiscono che l’abate esercitava la «iustitia» cui dovevano sottoporsi i livellarii «in curte mea de castello de loco Sarna»125. Una situazione analoga si riscontra per Prataglia: nel 1030, in un contratto di livello di una terra appartenente al monastero nella «curtis» di Marciano, si specifica l’obbligo di «ad mandatum venire ad suprascriptam curtem ad iustitiam faciendam» 126. Si tratta, in tutti gli esempi, di un diritto esercitato dai monaci sui propri dipendenti e livellari (anche se di rango piuttosto alto, come nel caso di Wido Fulcheri); rientra quindi pienamente in un quadro classico di signoria fondiaria. Di poteri signorili su base territoriale si tratta invece nel già citato tentativo dei Guidi di estendere la propria influenza sulla corte di Moggiona, precedentemente al 1098, esercitandovi i diritti giurisdizionali. Piuttosto scarsi sono i riferimenti a prelievi di imposte ed ai vari tributi che i signori esigevano dagli uomini sottoposti alla loro giurisdizione. Il diritto di albergaria compare soprattutto in relazione con alti signori, quali il vescovo ed i Marchiones. Oltre al già citato riferimento all’albergaria nella vendita del castello di Policiano nel 1079, vediamo che nel 1105 il marchese Ranieri e la moglie Trotta, nel confermare a Camaldoli i beni donati da Bernardino Sidonia, eccettuavano la «albergaria de Sillva et curte de la Rocca de Veçano» 127; nel 1117 lo stesso Ranieri con suo figlio Uguccione rinunciava in favore del monastero di S. Savino di Chio a tutta l’albergaria su un certo manso «excepto quando studiose sumus vuarniti et ibi custodiaemus secundum possumus» 128. Da questo documento pare di capire, come nota Delumeau, che l’albergaria gravasse selettivamente solo su alcuni dipendenti: ciò sembra confermato anche da
124. Sp. dipl. 60/I, n. 11 e n. 35; DELUMEAU 1996, p. 85.125. DELUMEAU 1996, p. 135.126. RC, n. 106, p. 44; v. anche esempi in WICKHAM 1997,p. 242.127. RC, nn. 669-670. Secondo Tiberini in questo caso l’albergaria non è indizio di coerenti poteri pubblici su base territoriale esecitati dai Marchiones, ma sarebbe piuttosto un residuo ormai destrutturato di vecchie prerogative giurisdizionali, che era rimasto a far parte del patrimonio allodiale della famiglia (TIBERINI 1997, pp. 208-209) 128. DELUMEAU 1996, p. 182, nota 284 e TIBERINI 1997, p. 211.
un documento del 1110 con il quale il vescovo Gregorio rinunciava in favore di Camaldoli a «omnia ipsa albergaria et ipsum usum quod consuetudo est facere de casa de Arcina, que fuit de tenimento Belini» 129. L’unico caso in cui i documenti citano il diritto di albergaria tra quelli in mano a membri della minore aristocrazia risale al 1123, quando Cunizina del fu Uberto ed i suoi figli Ildibrandino e Guglielmo vendettero a Camaldoli la loro parte del castello di Soci e i loro beni ubicati entro la corte «cum hominibus et territoribus suis et servitio eorum et albergariis et nudis usibus cum omnibus prediis rusticis et urbanis» 130. Altri tipi di tributi sono raramente menzionati ed è possibile che fossero sottintesi entro l’espres-sione usus/usuaria. Invece un esempio molto interessante, del XII sec., è un breve recordationis dei censi e delle prestazioni dovute al signore del castello di Pernina dai suoi affittuari (solo dagli affittuari, siamo ancora nell’ambito della signoria fondiaria) 131. Nel lungo elenco si citano normali canoni per l’uso della terra, sia in denaro che in natura (polli, pecore, agnelli, porci, vino, olio, grano, pane, vesti, metà dei frutti della terra ecc.). Interessanti sono però le descrizioni delle opere dovute: nella prima parte del documento si elencano una serie di persone (di condizione servile?) che avevano in conduzione delle terre o dei mansi, le quali non pagavano alcun canone ma prestavano servizio militare 132, o sembrano addetti a servizi nel castello 133. Invece gli affittuari, oltre a pagare i canoni, prestavano operae nelle terre e vigne del signore, fornivano adiutorium e albergarie in varia misura, talvolta anche non specificata 134. Piuttosto frequenti nella documentazione sono i riferimenti a prelievi arbitrari (descritti con la
129. Pasqui, n. 300; v. quanto osservato in DELUMEAU
1996, p. 182, nota 284.130. RC, n. 842.131. Il documento pubblicato per intero dal Fabbri (1989,App. n. 2, pp. 344-346), è privo di datazione: secondoquesto autore, sulla base del tipo di scrittura, è da attribuirsi al XII sec.; anche lo spoglio relativo (Sp. Dipl. n.83, p. 58) riporta una datazione generica di XII sec.132. «Manse duo que detinet Utalo, servitium fecitaequitando; et de manse duo que detinet Donnolo, servivitnobis aequitando; et de cunctis terris que detinet Johannisfilio Joculi, servivit nobis aequitando; et de cunctis terrisque detinet Marzolino, servivit nobis aequitando».133. «Et de cunctis terris que detinet Atucio, mansit incastro; et de mansa Beuli, mansit in castro; Teuzo Belante una mansa, et mansit in castro; et de una mansa quedetinet Alberto Tignoso, mansit in castro; Vivulo dal Ponteunum mansum et mansit in castro».134. «Opere a vinea quantum volumus (…) opera vineequantum sufficit».
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tipica terminologia dispregiativa: malum usum, malam consuetudinem, usus et abusus, usus sive equum sive iniquum, sive iuste sive iniuste ecc.) ma che paiono ormai entrati nella sfera dei diritti acquisiti, regolarmente registrati nei documenti, e quindi convertibili in denaro e cedibili. Il più antico riferimento di tale tipo risale al 1095, in un accordo tra il priore di Camaldoli e l’abate di Capolona, il quale «remittit et contradicit illam siclam de musto vel omnia que contra ius divine legis a supradicti massariis, decimas debentibus, requirebat, ut neque his Fuscholus castaldio, neque aliquis suorum successorum castaldionum hanc malam consuetudinem requirat vel teneat» nei riguardi degli affittuari di Camaldoli 135. Abbiamo già visto il «malum usum» e la «malam consuetudinem» che prima del 1098 i Guidi esercitavano sugli abitanti della corte di Moggiona e la rinuncia del vescovo, nel 1119, alla «usuariam, quam ipse episcopus aut ministri sui soliti sunt sive iuste sive iniuste auferre». Ancora nel 1119 i signori di Chiusi si impegnarono ad accettare le ordinazioni nel monastero di Silvamunda e a rinunciare al «malum usum» nei confronti di tale chiesa 136. Possiamo ancora ricordare i «datia» che l’abate di Camaldoli poteva esigere dagli abitanti di Anghiari «quando voluerit», il che, fa notare Delumeau, doveva certamente suonare loro come una notevole minaccia 137. Altri diritti signorili spesso citati dai documenti sono quelli connessi con la sfera militare; essi compaiono in relazione tanto ai signori di alto rango che all’aristocrazia minore e fanno la loro comparsa solo a partire dal XII secolo. In primo luogo il vescovo: ad esempio, nel 1100 il presule aretino donava a Camaldoli «omnia ipse guagite, que consuetudo est facere ad castrum Marcianum» 138, mentre abbiamo già visto l’«adiutorium ad claudendum castrum de Cesa» che si riservava nel 1132. Nel 1147 il vescovo Girolamo cedeva all’abate di Prataglia «integrum viscontatum et quardiam de castello et curte et pertinentiis et adiacentiis et redditibus et usibus Montisfatucli» per liberare dall’ipoteca il castello di Marciano 139. Infine, negli accordi stipulati per la costruzione del castello di Serravalle nel 1188, il vescovo Amadeo si riserva «omnem dominium (…) in ipso castello et eius habitatoribus presentibus
135. RC, n. 331.136. RC, n. 810.137. DELUMEAU 1996, p. 184.138. Pasqui, n. 319.139. Pasqui, n. 353.
et futuris, pro custodia castri prefati et ipso infortiando, vallando et muniendo, in bannis ponendis» 140. Come abbiamo detto, tali servizi erano dovuti anche ad altri signori di castelli: nel 1105 l’aba-te di Camaldoli, signore di Anghiari, si riservava «guaitis et toto servitio de castellis» 141, mentre nel 1114 l’abate di Prataglia concedeva a dei privati la sua parte del castello di Soci e «integre ipse guaite quod consuetudo est facere ad ipsum castrum etsepto lo verra» 142. Nel 1148 alcuni nobili della Valtiberina promettevano di non molestare il monastero di Dicciano e di non esigere dai suoi dipendenti niente «nisi custodiam tamen castrorum et acursum et munitionem et voluntaria servitia» 143. Nel 1176, nell’accordo generale tra canonici di Arezzo e Camaldoli a proposito di una permuta riguardante i castelli di Toppole e Pianettole, si specifica che per gli affittuari sarebbe stata «servata» la «consuetudinem (…) omnis servitii unicuique castro prout hactenus servatum est» 144.
La rassegna che ho proposto mostra come nell’XI sec., nonostante l’abbondanza della documentazione aretina, i riferimenti all’esercizio di diritti signorili siano molto rari e ristretti ai Marchiones, ai conti Guidi ed al vescovo aretino, con la sola eccezione di un grande monastero come S. Gennaro di Capolona. Anche in seguito, comunque, tali diritti appaiono assai di rado nelle mani di famiglie della minore aristocrazia. Tuttavia, se osserviamo quali erano i detentori dei castelli (Tab. 2), vediamo che già dai primi decenni dell’XI sec. tra essi compaiono grandi monasteri e soprattutto privati laici non insigniti di titolo nobiliare, la cui presenza si fa addirittura massiccia dopo il 1020. Ciò significa che, già in questa fase, l’esercizio de facto di una prerogativa in origine pubblica, quale quella di costruire fortificazioni, avveniva su una base più larga e non riguardava soltanto gli alti funzionari del regno.È possibile, cosa che i documenti non ci dicono, che tale prerogativa fosse stata ceduta da questi ultimi per donazione (soprattutto nel caso delle grandi chiese) o data in concessione (soprattutto nel caso dei gruppi familiari della minore aristocrazia) e che quindi in una fase precedente il processo si fosse svolto dall’alto verso il basso.
140. Pasqui, n. 402.141. RC, n. 673.142. RC, n. 763.143. DELUMEAU 1996, p. 183.144. Ibidem.
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Quel che è certo, però, è che nel periodo successivo, soprattutto nella seconda metà dell’XI sec., assistiamo ad un vertiginoso aumento dei castra in mano a privati: ciò fa ritenere che i nobili della minore aristocrazia avessero mano libera nel moltiplicare le fortificazioni e probabilmente fossero anche in grado di imporre alla popolazione rurale una serie di obblighi, non registrati nei documenti, che sembrano impliciti nella stessa esistenza fisica dei castelli. Sia Delumeau che Wickham ipotizzano che anche altri tipi di prelievi o imposizioni arbitrarie sui contadini di fatto esistessero (si pensi ad alcuni atti che riportano di razzie e violenze perpetrate da signori locali 145), ma che esse rimanessero nella sfera degli «abusi» e che non venissero registrate nei documenti con una terminologia di tipo signorile proprio perché non avevano ottenuto un riconoscimento «di diritto». Il potere signorile doveva dunque andare al di là di quanto ci dicono esplicitamente i testi scritti. Tuttavia è innegabile che, nel loro complesso, i documenti relativi a diritti signorili per il nostro territorio, oltre a non essere molti, anche nei casi dei signori di più alto rango non presentano una articolazione completa di tali prerogative su base territoriale. Ambiti signorili pienamente strutturati si costituirono solo in aree periferiche del territorio qui considerato. L’analisi di Tiberini a proposito della signoria dei Marchiones è illuminante: nei documenti della seconda metà dell’XI sec. essi appaiono in alcune occasioni esercitare diritti signorili, ma in maniera ancora molto incoerente e soprattutto limitatamente alle loro proprietà fondiarie ed ai propri dipendenti. La famiglia si impegnò nella formazione di un dominato signorile nella prima metà del XII sec., facendo leva sulla preminenza economica, sul prestigio politico-militare e sul possesso di castelli allodiali, giungendo al concreto esercizio del potere di coercizione su tutti gli abitanti di un certo territorio; tale svolta riguardò, però, un ambito molto più ristretto rispetto alla primitiva area di influenza, e soprattutto marginale, decentrato, ormai fuori dal territorio areti
145. Ad es. Pasqui, n. 365 e RC 1163: su quest’ultimo v. l’ampia trattazione in WICKHAM 1997a, pp. 343-345.
no 146. Anche la signoria camaldolese su Anghiari, dalla quale ci provengono i soli documenti che citano, per uno stesso castello, tutta la gamma dei diritti signorili, si colloca alla periferia del contado aretino 147. Lo stesso dicasi per il dominato dei Guidi nel Casentino fiesolano: la famiglia, che incontrava crescenti resistenze al proprio potere nelle aree di pianura e più vicine alle città toscane, appare particolarmente interessata al consolidamento ed ampliamento (v. il caso di Moggiona) dei propri diritti signorili in que-st’area di montagna. Scarsa fu poi la tendenza delle stirpi dell’aristo-crazia capitaneale a costituire signorie territoriali negli ambiti di loro maggiore influenza e a trasformare i castelli in centri di aggregazione demografica. Diversi sono i fattori che probabilmente limitarono il cristallizzarsi di chiari poteri signorili. C. Wickham insiste sul perdurare della piccola proprietà contadina (anche in zone di signoria forte come quella dei Guidi), sulla frammentazione dei possessi delle famiglie aristocratiche, sulla presenza di vasti beni episcopali e monastici che impedivano il consolidarsi di complessi fondiari compatti, sugli interessi urbanocentrici di molte di queste famiglie148. Pure l’alto livello di frammentazione nella titolarità dei possedimenti castrensi, rilevata per molti castelli dell’Aretino (v. par. 3), probabilmente condizionò la forza signorile e la sua capacità di perpetuarsi nel tempo 149. Anche il territorio aretino, quindi, con l’eccezione di alcune isole di «signoria forte», pare rientrare quasi integralmente in quell’area di «signoria debole» nella quale, pur esistendo una rete di signorie basate sui castelli, queste non raggiunsero mai uno sviluppo tale da condizionare completamente la vita della popolazione rurale 150.
MARIA ELENA CORTESE
146. TIBERINI 1997.147. RC 672, 673, 1253.148. WICKHAM 1997a, cap. XI. L’analisi riguarda l’areacasentinese, ma molti degli elementi enucleati sono validi per altre zone del contado aretino.149. Sul «condominio» come fattore di debolezza dellasignoria castrense v. CAROCCI 1997, pp. 176 e sgg.150. WICKHAM 1996.
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