di Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti** 1. Introduzione · Fonte: C. Jona Lasinio e G. Valanti,...

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1 Flessibilità, occupazione e produttività: che cosa non ha funzionato? di Sebastiano Nerozzi * e Giorgio Ricchiuti ** 1. Introduzione Negli ultimi venti anni importanti riforme del mercato del lavoro sono state realizzate all’insegna della “flessibilità”. Questo fenomeno riguarda non solo il nostro paese, ma tutti i paesi europei, compresi quelli tradizionalmente più “centralizzati” e “conservatori” dal punto di vista delle relazioni industriali. Globalizzazione, cambiamento della struttura produttiva delle imprese, forte tasso di ricambio organizzativo e tecnologico, rapida obsolescenza dei prodotti, sono le motivazioni normalmente addotte per sostenere la necessità di rendere il lavoro più flessibile 1 . Il mondo degli anni sessanta e settanta non esiste più ed occorre oggi, nella società liquida e post- fordista, migliorare e adattare continuamente l’impiego del fattore lavoro alle mutevoli esigenze del mercato. Quando si parla di flessibilità si rischia, tuttavia, di intendere cose diverse: vi è, infatti, una flessibilità esterna o “numerica” che viene identificata con una maggiore libertà di assumere (flessibilità in entrata) e di licenziare (flessibilità in uscita); una flessibilità interna o funzionale, ovvero la libertà di impiegare i lavoratori secondo mansioni e modalità lavorative diverse; una flessibilità salariale, ovvero la libertà dell’imprenditore di ridurre (aumentare) il salario dei lavoratori a seguito di shock negativi (positivi) sull’impresa, in termini di costi, prezzi finali, volumi di affari. Quest’ultimo tipo di flessibilità viene spesso associato ad un assetto maggiormente “decentralizzato” della contrattazione salariale, nel quale è demandato, in tutto o in parte, a livello di azienda la contrattazione della struttura salariale. Generalmente la flessibilità del primo tipo e del terzo tipo vengono chiamate in causa come fattori essenziali per ridurre la disoccupazione e per spiegare i differenziali che si registrano fra i tassi di disoccupazione e di occupazione fra diversi sistemi giuridici. Il sistema anglosassone, connotato da ampia flessibilità in uscita e di contrattazione salariale, viene spesso preso a Una versione parzialmente riveduta di questo testo è stata pubblicata nel volume di A. Cortesi e G. Paci (a cura di), Alla ricerca del lavoro perduto. Idee sul lavoro che cambia, Firenze, Nerbini 2014. * Università di Palermo. ** Università di Firenze 1 H.P. Blossfeld, S. Buchholz, D. Hofäcker, S. Bertolini, Selective flexibilization and deregulation of the labour market. The answer of continental and southern Europe, «Stato e Mercato», 96, Dicembre 2012, pp. 363-390.

Transcript of di Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti** 1. Introduzione · Fonte: C. Jona Lasinio e G. Valanti,...

1

Flessibilità, occupazione e produttività: che cosa non ha funzionato?

di Sebastiano Nerozzi* e Giorgio Ricchiuti**

1. Introduzione

Negli ultimi venti anni importanti riforme del mercato del lavoro sono state realizzate

all’insegna della “flessibilità”. Questo fenomeno riguarda non solo il nostro paese, ma tutti i paesi

europei, compresi quelli tradizionalmente più “centralizzati” e “conservatori” dal punto di vista

delle relazioni industriali. Globalizzazione, cambiamento della struttura produttiva delle imprese,

forte tasso di ricambio organizzativo e tecnologico, rapida obsolescenza dei prodotti, sono le

motivazioni normalmente addotte per sostenere la necessità di rendere il lavoro più flessibile1. Il

mondo degli anni sessanta e settanta non esiste più ed occorre oggi, nella società liquida e post-

fordista, migliorare e adattare continuamente l’impiego del fattore lavoro alle mutevoli esigenze

del mercato.

Quando si parla di flessibilità si rischia, tuttavia, di intendere cose diverse: vi è, infatti, una

flessibilità esterna o “numerica” che viene identificata con una maggiore libertà di assumere

(flessibilità in entrata) e di licenziare (flessibilità in uscita); una flessibilità interna o funzionale,

ovvero la libertà di impiegare i lavoratori secondo mansioni e modalità lavorative diverse; una

flessibilità salariale, ovvero la libertà dell’imprenditore di ridurre (aumentare) il salario dei

lavoratori a seguito di shock negativi (positivi) sull’impresa, in termini di costi, prezzi finali, volumi

di affari. Quest’ultimo tipo di flessibilità viene spesso associato ad un assetto maggiormente

“decentralizzato” della contrattazione salariale, nel quale è demandato, in tutto o in parte, a livello

di azienda la contrattazione della struttura salariale.

Generalmente la flessibilità del primo tipo e del terzo tipo vengono chiamate in causa come

fattori essenziali per ridurre la disoccupazione e per spiegare i differenziali che si registrano fra i

tassi di disoccupazione e di occupazione fra diversi sistemi giuridici. Il sistema anglosassone,

connotato da ampia flessibilità in uscita e di contrattazione salariale, viene spesso preso a

Una versione parzialmente riveduta di questo testo è stata pubblicata nel volume di A. Cortesi e G. Paci (a cura di), Alla ricerca del lavoro perduto. Idee sul lavoro che cambia, Firenze, Nerbini 2014. * Università di Palermo.

** Università di Firenze

1 H.P. Blossfeld, S. Buchholz, D. Hofäcker, S. Bertolini, Selective flexibilization and deregulation of the labour market.

The answer of continental and southern Europe, «Stato e Mercato», 96, Dicembre 2012, pp. 363-390.

2

modello, in quanto indurrebbe le imprese non solo ad assumere un maggior volume di lavoratori

ma anche a mitigare l’impatto occupazionale di eventi avversi dell’economia che vengono scaricati

sul costo del lavoro. Secondo molti autori, una maggiore flessibilità (nelle diverse accezioni)

aiuterebbe anche a migliorare l’efficienza del lavoro e dell’economia nel suo complesso. Per citare

alcuni fra i più autorevoli studi internazionali in materia di flessibilità, Stephen Nickell e Richard

Layard, presupponendo omogeneità del lavoro, sottolineano come la flessibilità in uscita possa

favorire la riallocazione della manodopera dai settori a bassa crescita della produttività verso i

settori a più alta crescita2. Altri autori mostrano come i settori più esposti alla competizione estera

e con più alto tasso di innovazione tecnologica hanno per loro stessa natura più bisogno di una

maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non necessariamente quella salariale ma piuttosto

quella funzionale e quella in uscita3.

Il tema della flessibilità del lavoro è stato, ed è tutt’oggi, al centro di un acceso dibattito nel

nostro paese. Riforme del mercato del lavoro sono state attuate con l’obiettivo di innalzare

l’occupazione, soprattutto giovanile e aumentare la produttività4. In realtà il rapporto fra

flessibilità, occupazione e produttività appare complesso: non è immediato comprendere quali

siano i nessi di causalità fra questi tre fenomeni e spiegarne la direzione. Scopo di questo saggio è

proprio quello di mettere in luce, sulla base di un’ampia letteratura teorica ed empirica, quali

possono essere state le dinamiche che hanno condizionato la stagnazione della produttività del

nostro paese e, di conseguenza, la bassa crescita del reddito nazionale. Dopo aver analizzato nel

primo paragrafo le dinamiche del mercato del lavoro e della produttività nell’ultimo ventennio,

dedicheremo un secondo paragrafo a evidenziare i principali risultati di recenti analisi

econometriche sul rapporto fra flessibilità, occupazione e produttività. In un terzo paragrafo

vedremo come la teoria economica offra un ricco paniere di possibili modalità con le quali una

maggiore flessibilità può dar luogo ad una minore produttività. Si tratta di un tema che, a nostro

avviso, non può essere compreso concentrandosi esclusivamente sulle dinamiche del mercato del

2 S. Nickell e R. Layard (1999), Labour market institutions and economic performance”, in O. Ashenfelter e D. Card (a

cura di, Handbook of labour economics, vol. 3c.

3 F. Cingano, M. Leonardi, J. Messina, G. Pica (2009), The effect of employment protection legislation and financial

markets imperfections on investments: evidence from firm-level panel of EU countries, «IZA Discussion Papers» 4158, Institute for the Study of Labour (IZA).

4 La produttività del lavoro è definita come il rapporto fra il valore della produzione e il numero di lavoratori o, più

correttamente, le ore medie lavorate. Gli economisti parlano anche della produttività marginale, definita come la quantità prodotta dall’ultimo lavoratore o dall’ultima ora lavorata. Quest’ultima definizione presenta molti problemi, ben esplicitati da Paolo Sylos Labini al quale rinviamo, cfr. P. Sylos Labini, Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 9-12 .

3

lavoro, ma richiede un esame del quadro macroeconomico complessivo. Per questo dedicheremo

il quarto ed ultimo paragrafo a comprendere come questo quadro sia stato condizionato dal più

grande evento economico e politico degli ultimi trent’anni, ovvero l’adozione dell’euro. In

particolare, ci chiediamo quanto il processo di integrazione monetaria abbia spinto il nostro paese

ad adottare riforme del lavoro volte a recuperare competitività5, e quanto allo stesso tempo,

frenando la crescita della domanda estera e della domanda interna, abbia contribuito a ridurre la

produttività delle imprese.

2. Il decennio perduto e le riforme del mercato del lavoro

A partire dagli anni ottanta la mancanza di flessibilità è stata a lungo invocata dagli

economisti come la principale causa dell’alta disoccupazione e della insoddisfacente dinamica

della produttività. E’ a quest’ultimo fenomeno, la stagnazione della produttività del lavoro, che si

attribuisce la responsabilità del “decennio perduto”, ovvero della mancata crescita dell’Italia a

partire dal 2000: essa ha fatto da preludio a una crisi di portata mondiale in cui l’Italia ha lasciato

sul tappeto più reddito di tutti gli altri partner europei, ad eccezione della Grecia .

L’intenso dibattito politico sviluppatosi nel nostro paese in merito all’introduzione di una

maggiore flessibilità , si è concentrato soprattutto sulle fasi di ingresso nel mercato del lavoro.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, anche se riferito solo alle aziende con più di 15

dipendenti, è stato visto come l’ultimo baluardo dei lavoratori nei fatti un tabù collettivo

irriformabile. Le riforme si sono quindi concentrate sull’introduzioni di nuove (a volte fantasiose)

forme contrattuali, che nei fatti hanno ridotto le restrizioni e/o diritti del contratto a tempo

indeterminato nel nome di una maggiore flessibilizzazione del mercato: agli accordi del luglio 1992

e del 1993 che riformavano le modalità di contrattazione e indicizzazione dei salari, sono seguiti il

pacchetto Treu (1997), la riforma dei contratti a tempo determinato (2001), la riforma

dell’apprendistato (2003), il combinato lavoro (2010) e la legge Fornero (2012).

Certamente l’Italia è il paese in cui l’indice di protezione del lavoro (EPL) è sceso più

repentinamente nell’ultimo ventennio. L’introduzione di una maggiore flessibilità in entrata è

5 C. Colesanti Senni e G. Ricchiuti, Sulle strategie di uscita dalla crisi, « Working Paper DISEI », 17, 2013, Università

degli Studi di Firenze.

4

stata presentata come un elemento essenziale per ridurre i forti tassi di disoccupazione giovanile e

far crescere l’efficienza del nostro sistema produttivo.

Fig. 1. Livelli di protezione dell’occupazione (EPL) e altri indicatori istituzionali del mercato del lavoro

Fonte: C. Jona Lasinio e G. Valanti, Reforms, labour market functioning and productivity dynamics: a sectoral analysis of Italy,

«Luiss Lab of European Economics Working Paper Series», n. 93, May 2011, p. 27

La quota dei lavori atipici e a tempo determinato è passata dal 7,3% nel 1995 al 12,3% nel

2005. Oggi sono circa il 12,3%, ai quali devono essere aggiunti il 13% assunti con a tempo parziale.

Il numero degli atipici sta crescendo rapidamente6. Questi contratti però hanno riguardato

essenzialmente la parte anagraficamente più giovane della forza lavoro: nel primo trimestre 2012

fra le nuove assunzioni, il 53% riguardava un lavoro atipico, mentre i contratti a tempo

indeterminato coprivano solo il 31% standard e il 16% standard era destinato a contratti part-

time7.

Molti interpreti attribuiscono alle riforme del mercato del lavoro la discesa dei tassi di

disoccupazione (che passa dal 11,2% nel 1995 al 7,7% nel 2005) e la parallela crescita del tasso di

occupazione (dal 51,8% al 57,5% nello stesso periodo) negli anni precedenti la crisi. Una maggiore

flessibilità in entrata avrebbe, dunque, favorito, a cavallo del nuovo millennio la creazione di posti

di lavoro e l’aumento dell’occupazione. In effetti, rispetto alle sopramenzionate tipologie di

6 Lucidi F., Is there a trade-off between labour flexibility and productivity growth? Some evidence from Italian firms, in

T. Addabbo e G. Solinas (a cura di), Non-Standard employment and quality of work: the case of Italy, Heidelberg: Physica-Verlag 2012, pp. 261-285.

7 Istat, Rapporto annuale 2013. La quota dei lavoratori include anche gli autonomi sia standard che part time.

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EPL (contratti regolari)

EPL (contratti temporanei)

Quota dei contratti temporanei

Indice di centralizzazione della contrattazione

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2001-2007

1993-2000

1987-1992

1980-1986

5

flessibilità, le riforme del lavoro attuate nel nostro paese hanno inciso sulla prima e sulla terza. Gli

accordi del 1992-1993 puntavano a mantenere stabile, in termini di inflazione, il salario

contrattato a livello nazionale e di affidare alla contrattazione generale a livello di azienda, i

guadagni di produttività. Le parti imprenditoriali si impegnarono anche a realizzare investimenti

produttivi che avrebbero dovuto aumentare la produttività del lavoro e dunque consentire un

aumento dei salari in armonia con le esigenze di competitività del paese. I risultati, tuttavia, sono

stati in gran parte deludenti: gli investimenti sono scesi nella seconda metà degli anni novanta, la

produttività è cresciuta pochissimo, il potere d’acquisto dei salari nominali si è eroso per effetto

dell’indicizzazione ancorata all’inflazione programmata, sistematicamente al di sotto di quella

effettiva. Il risultato combinato di queste misure è stata una forte moderazione salariale che ha

visto i salari reali crescere in misura minore alla produttività. L’Italia è stato l’ultimo dei paesi OECD

in quanto a crescita dei salari a partire dal 19928.

Teoricamente la crescita di flessibilità avrebbe dovuto far aumentare le retribuzioni medie,

sia per il suo effetto sulla produttività, sia perché i nuovi lavoratori avrebbero richiesto di essere

compensati della maggiore insicurezza del lavoro con salari più alti (compensating differentials

theory)9. In realtà niente di tutto questo è accaduto. Nel 2012 il salario reale dei lavoratori atipici

risultava mediamente del 25% più basso rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato: a tale

diseguaglianza occorre aggiungere gli effetti cumulativi nel corso del rapporto di lavoro, dato che

per i contratti a termine non sono previsti scatti di anzianità10.

8 A. Brandolini, P. Casadio, P. Cipollone, M. Magnani, A. Rosolia, R. Torrini, Employment growth in Italy in the 1990s:

institutional arrangements and market forces, in N. Acocella e R. Leoni, Social pacts, employment and growth, Heidelberg: Physica-Verlag 2007; L. Tronti, The July protocol and economic growth: the chance missed, in N. Acocella e R. Leoni, op. cit.; M. Zenezini, Il problema salariale in Italia, «Economia e Lavoro», 38, 2004, 2, pp. 147-181.

9 Molte ricerche empiriche mostrano che i lavoratori più flessibili non vengono compensati per la loro maggiore

insicurezza lavorativa, ma ricevano, piuttosto salari considerevolmente più bassi. Si veda la letteratura riportata in F. Lucidi, Is there a trade-off between labour flexibility and productivity?, cit..

10 ISTAT, Rapporto annuale, Giugno 2013, p. 103.

6

Fig. 2. Quota di contratti a tempo determinato (asse di dx) e indeterminato (asse di sx), su totale lavoratori dipendenti

Fonte: Nostre elaborazioni su dati OECD 2012.

Ma soprattutto la maggiore flessibilità della manodopera non si è accompagnata ad una

crescita della produttività. Nel corso dell’ultimo quindicennio si è, anzi, verificata in Italia la

stagnazione della produttività che ha visto l’Italia crescere a ritmi modestissimi, inferiori alla

maggior parte dei paesi OCSE, sia prima che dopo la crisi del 2007-2009 (cfr. fig. 3 e 4).

Fig. 3. - PIL Reale per ora lavorata – Variazione media annua

Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD.

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2001-2007

2007-2009

2009-2012

7

Fig. 4. PIL per ora lavorata, dollari, prezzi costanti (PPP 2005)

Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD.

Cecilia Jona Lasinio e Giovanni Valanti analizzano l’andamento della produttività dal 1980 al

200811. Il tasso di crescita della produttività è sceso progressivamente, soprattutto dopo il 1994.

Esso è rimasto positivo, ancorché modesto in termini di riallocazione del lavoro da settori a scarsa

crescita della produttività a settori con più forte crescita. Anche all’interno delle singole industrie

la produttività è diminuita negli anni 2000.

La bassa crescita del nostro paese nella prima parte del decennio è stata seguita, con lo

scoppio della crisi finanziaria globale, da una caduta del PIL che dal 2007 al 2013 è stata

complessivamente di oltre 6 punti percentuali e che ha riportato il nostro Pil procapite ai livelli del

1998. Allo stesso tempo la produttività nel periodo 2007-2009 ha avuto una flessione dell’ 1,5%

con una timida crescita negli anni successivi, determinando una forte stagnazione nel periodo

considerato (cfr. fig. 5)12. La disoccupazione è aumentata fino a raggiungere l’11,5% nel Marzo

2013, mentre quella giovanile supera il 37% (cfr. fig. 4). I disoccupati di lunga durata, che cercano

lavoro da oltre 12 mesi, sono circa 653 mila. Per i giovani in cerca di primo impiego la durata

media della ricerca è pari a circa 30 mesi. Ai circa 3 milioni di disoccupati presenti nel nostro paese

11

Fonte: C. Jona Lasinio e G.Valanti, Reforms, labour market functioning and productivity dynamics: a sectoral analysis of Italy, «Luiss Lab of European Economics Working Paper Series», n. 93, May 2011, p. 27

12 Occorre notare che la caduta della ricchezza media degli italiani (-10% di Pil procapite) non abbia colpito tutti allo

stesso modo: essa è stata accompagnata dalla forte crescita delle diseguaglianza nella distribuzione del reddito, dalla crescita della povertà e dell’esclusione sociale nel nostro paese. Rimandiamo nuovamente al Rapporto annuale Istat 2013.

25

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Francia

Germania

Italia

Regno Unito

Stati Uniti

Area Euro

8

devono essere aggiunti gli oltre 3 milioni di lavoratori “scoraggiati”, che sarebbero disposti ad

accettare un lavoro ma non lo cercano13. Nel complesso circa 6 milioni di lavoratori

potenzialmente impiegabili che restano esclusi dal mercato del lavoro14. Il tasso di occupazione

complessivo è passato dal 59% nel 2008 al 56,8% nel 2012, con una distruzione netta di oltre

600.000 posti di lavoro. Per effetto di questi andamenti il divario fra il tasso di occupazione

dell’Italia e quello medio della UE a 27, già consistente prima del 2008, si è ulteriormente ampliato

raggiungendo circa gli 8 punti percentuali.

Fig. 5. Disoccupazione totale e giovanile (% delle forze di lavoro)

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Eurostat 2013

Di fronte a questo quadro per molti versi drammatico e che non presenta, almeno

nell’immediato, significativi segnali di miglioramento, è lecito chiedersi quale ruolo abbia giocato

la flessibilizzazione del mercato del lavoro, se esso sia stato cioè parte della cura, o, piuttosto

parte del problema.

13

Vengono considerati disoccupati tutti gli individui in età da lavoro che dichiarano di aver ricercato attivamente un lavoro nelle ultime quattro settimane. La stima del tasso di disoccupazione deriva dall’indagine campionaria condotta con interviste individuali da parte dell’ISTAT: fatto 100 il totale della popolazione attiva (che lavora o è in cerca del lavoro), il tasso di disoccupazione permette di stimare il numero totale dei disoccupati. Rimangono esclusi dal calcolo tutti gli individui in età da lavoro che non lavorano o non cercano un lavoro (inattivi): pensionati, casalinghe, studenti, o lavoratori “scoraggiati”, che vorrebbero lavorare, ma non hanno speranza di trovare un lavoro e dunque non lo cercano attivamente. In Italia la percentuale dei lavoratori scoraggiati sulla popolazione inattiva risulta particolarmente elevata e pari a circa 3 volte la media UE.

14 Istat, Rapporto annuale 2013, sintesi, p. 10.

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totale

15-24 anni

9

3. Produttività, occupazione e flessibilità: alcune evidenze empiriche

Recenti analisi econometriche rivelano che mentre gli effetti delle riforme del mercato del

lavoro nel promuovere l’occupazione sono stati assai modesti15 incidendo più sulla composizione

che non sul volume della forza lavoro occupata, gli effetti sulla produttività sono stati, nel

complesso negativi16.

La motivazione addotta da autorevoli economisti come Francesco Daveri appare abbastanza

in linea con il senso comune e le testimonianze che si possono raccogliere da lavoratori e

imprenditori. La flessibilizzazione della manodopera ha indotto gli imprenditori italiani, soprattutto

nelle piccole e medie imprese, ad approfittare delle economie di costo derivanti dal più basso

salario dei lavoratori flessibili, rimandando nel tempo o riducendo gli investimenti volti a realizzare

innovazioni di prodotto e di processo, vero grimaldello per giocare da protagonisti nella fascia alta

della competizione globale. Allo stesso tempo i lavoratori sono stati scoraggiati dall’investire nella

loro formazione (il capitale umano, centrale nelle teorie della crescita più recenti) e ad acquisire

competenze tecniche legate ad un lavoro percepito come precario e destinato, con ogni

probabilità, ad esaurirsi. Secondo Daveri, l’uso distorto dei contratti flessibili sarebbe correlato alla

piccola dimensione delle imprese e alla loro carente struttura manageriale, ancora troppo legata a

forme retrive di “familismo aziendale” che quando non trova nella nuova generazione adeguate

risorse culturali per battere la strada dell’innovazione, si rifiuta di cercarle in figure professionali

esterne all’impresa: le imprese italiane, mediamente piccole, hanno preferito competere sui costi

piuttosto che sull’innovazione, scegliendo manodopera non qualificata piuttosto che ingegneri,

chimici o architetti17. Anche da qui deriva il paradosso dei laureati italiani: contrariamente a molti

luoghi comuni che li vedono come sfaccendati, bamboccioni e schizzinosi i dati del Consorzio

Almalaurea mostrano che i laureati italiani sono pochi (21% della popolazione contro il 42% degli

15

L. Cappellari and M. Leonardi, Riforme del lavoro temporaneo e produttività, in Occupazione e salari in Italia: problemi e prospettive. Studi in Onore di Carlo dell’Arringa, Milano, Vita e Pensiero, 2012; B. Contini e Elisa Grand, Lavoro “usa e getta”, disoccupazione e inoccupazione. Novità importanti dai dati WHIP, «Politica Economica», XXVIII, 2, 2012.

16 F. Daveri e C. Jona Lasinio, Italy’s decline: getting the facts right, «Giornale degli economisti e annali di economia»,

vol. 64(4), pp. 365-410, December 2005; F. Daveri e M. L. Parisi, Temporary workers and seasoned managers as causes of lower productivity, Cesifo Conference, Munich, January 2010; C. Giannetti e M Madia, Work arrangements and firm innovation: is there any relationship?, «Cambridge Journal of Economics» 37, 2013, pp. 273-297; L. Cappellari and M. Leonardi, Riforme del lavoro temporaneo e produttività, in Occupazione e salari in Italia: problemi e prospettive. Studi in Onore di Carlo dell’Arringa, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

17 F. Daveri e C. Jona Lasinio, Italy’s decline: getting the facts right, op.cit.. F. Daveri e M.L. Parisi, Temporary workers

and seasoned managers as causes of lower productivity, op. cit.;

10

Stati Uniti), sono disposti a lavorare, ad accettare stage e tirocini fin dagli anni dell’università e,

una volta laureati, a muoversi da una città all’altra18: ciononostante non riescono a trovare lavoro,

e quando lo trovano, spesso non è legato alle loro qualifiche e/o aspirazioni. Non c’è quindi da

stupirsi se le immatricolazioni all’università siano calate del 17% rispetto al 2003. I tagli delle legge

Gelmini agli Atenei, la riduzione delle politiche di sostegno allo studio e gli alti differenziali di costo

degli alloggi fra Nord e Sud del paese, hanno reso l’università italiana una realtà sempre più

elitaria, che non svolge più un ruolo di “ascensore sociale” per le classi meno abbienti, come

ampiamente testimoniato dal rapporto annuale ISTAT 2012.

Alcuni autori fanno notare che in Italia la flessibilizzazione è stata soprattutto

precarizzazione: essa non ha saputo offrire un adeguato percorso di inserimento e non è stata

accompagnata da una parallela riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico (come

è noto, una delle più gravi pecche del nostro sistema di Welfare); altri sostengono che la riforma è

stata svolta solo in misura modesta, per lo più in entrata, senza toccare il nocciolo duro dei

lavoratori a tempo indeterminato (gli “insiders”) che sarebbero rimasti ipertutelati19, mentre i

giovani (gli “outsiders”) sarebbero costretti a pagare i privilegi dei vecchi. Di fronte agli insuccessi

della flessibilità, in molti rispondono, dunque, che occorre…… più flessibilità!

In realtà, al di là delle limitazioni che possono essere attribuite alle riforme del lavoro attuate

in Italia (e dei miglioramenti che certamente vi si possono apportare soprattutto sul versante degli

ammortizzatori sociali), il legame perverso fra flessibilità e produttività non è un unicum del nostro

paese ma collima con l’esperienza di molti altri paesi20. La flessibilità e la precarizzazione, oltre ad

essere fonte di crescenti diseguaglianze, di alienazione dei lavoratori e di frammentazione sociale,

riducono la produttività del lavoro e hanno effetti quantomeno modesti sull’occupazione21, come

ci ricorda Olivier Blanchard, oggi capo economista del FMI: “le differenze nei regimi di protezione

dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari

paesi” e Tiziano Treu: “Aspettarsi dalla riforma (del mercato del lavoro) un contributo decisivo per

18

Si vedano Almalaurea, XV rapporto sul profilo dei laureati 2012 (maggio 2013) e il commento di Roberto Ciccarelli, Altro che Choosy, i laureati sono figli di una bolla formativa, www.roars.it/online/?p=24943.

19 Contro questa tesi sembrano andare i risultati dell’indagine condotta da B. Contini e Elisa Grand, Lavoro “usa e

getta”, disoccupazione e inoccupazione. Novità importanti dai dati WHIP, «Politica Economica», XXVIII, 2, 2012.

20 I. Dew-Becker e R. Gordon, The role of labour market changes in the slowdown of European productivity growth,

CEPR Discussion Paper, February 2008.

21 O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic Policy, CEPR, CES, MSH, vol.

21(45), pp. 5-59; D. Suppa, Appendice Statistica, in E. Brancaccio, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della Macroeconomia, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 105-117; T. Boeri e J. Van Ours, Economia dei mercati del lavoro imperfetti, Egea, Milano 2009.

11

la ripresa economica, come si è voluto sostenere, contrasta con tutte le indicazioni provenienti

dall’analisi e dall’esperienza economica”22.

4. Flessibilità, bassi salari e produttività: quali nessi di causalità?

La letteratura economica ci indica almeno quattro canali attraverso i quali una maggiore

flessibilità del lavoro (che determini bassi salari) può indurre un calo della produttività.

Un primo meccanismo è stato messo in luce da David Ricardo e da Karl Marx fin dall’inizio

del XIX secolo: se i salari crescono ad un ritmo che tende ad erodere la quota dei profitti sul valore

della produzione, i capitalisti reagiranno cercando di sostituire i lavoratori con le macchine, ovvero

aumentando il rapporto fra capitale fisico e lavoro; questo processo di sostituzione di uomini con

macchine avrà, da una parte, l’effetto di creare maggiore disoccupazione (aumentando il

cosiddetto “Esercito industriale di riserva”) e, dunque, di riportare i salari verso il basso; dall’altra

di aumentare la produttività del singolo lavoratore occupato (che avrà a sua disposizione più

macchine, verosimilmente più avanzate in termini tecnologici), consentendo all’imprenditore di

tornare ad aumentare i suoi profitti per ogni dato livello del salario. In altre parole gli alti salari

sono un incentivo a sostituire uomini con macchine e a migliorare la tecnologia per aumentare la

produttività del lavoro.

Un secondo meccanismo affonda le sue radici nelle riflessioni di un altro grande protagonista

del pensiero economico moderno, vissuto questa volta nella prima metà del XX secolo: Joseph A.

Schumpeter. Secondo il noto economista austriaco, grande teorico dell’innovazione, il sistema

economico si sviluppa attraverso la sostituzione delle imprese più inefficienti e obsolete con quelle

più efficienti e innovative: solo grazie a questo processo di “distruzione creatrice” la società è

capace di crescere e di svilupparsi in termini non solo quantitativi ma qualitativi, adattandosi

sempre meglio alle mutevoli esigenze del mercato, con guadagni di efficienza, di produttività e di

varietà dei prodotti che vanno a vantaggio della società nel suo complesso. Le idee di Schumpeter

hanno portato molti autori che si collocano nella sua scia a leggere la dinamica dei salari dal punto

di vista degli incentivi che le imprese hanno ad innovare: in un regime di alti salari e di alti costi

del lavoro, le imprese meno efficienti non riescono a “tenere il mercato”, e vanno avanti quelle più

22

O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, op. cit, pp. 5-59, ivi, p. 20; T. Treu, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona”, 155/2012, p. 7.

12

produttive, così che la produttività media aumenta23. Un regime che favorisce il mantenimento di

bassi salari nel sistema economico, tende, invece, ad avvantaggiare tutte le imprese e, costituisce,

dunque, una sorta di sussidio per le imprese meno efficienti, aiutandole a rimanere sul mercato ed

impedendo un salutare e virtuoso processo di selezione e di innovazione.

Si tratta di un ragionamento che non dovrebbe risultare nuovo nel dibattito italiano: esso,

infatti richiama da vicino uno degli argomenti più in voga negli anni ottanta e novanta per

sostenere l’adesione ad accordi di cambi fissi, come lo SME, e, poi alla moneta unica, ovvero

quello di togliere agli imprenditori la facile via di fuga della “svalutazione competitiva”: legarci ad

un tasso di cambio fisso in termini nominali, avrebbe dovuto infatti privare le imprese meno

efficienti di una facile valvola di sfogo per recuperare competitività, inducendole ad attuare gli

investimenti e le innovazioni necessarie a rilanciare la loro produttività24.

Le misure legislative che tendono a ridurre artificialmente il costo del lavoro (riducendone in

modo più o meno diretto il potere contrattuale dei lavoratori) inducono l’imprenditore ad

adottare un orizzonte di profittabilità a breve termine e relativamente al riparo dal rischio; la

strada dell’investimento e dell’innovazione comporta, invece, costi immediati i cui rendimenti

sono di natura incerta e, in ogni caso, dilazionati nel tempo. Questo filone di letteratura sottolinea

peraltro che, mentre i guadagni di produttività derivanti dall’innovazione e dall’investimento

permettono di raggiungere un aumento dei profitti e dei salari duraturi nel tempo25, il vantaggio

derivante alle imprese dalla “svalutazione interna” del costo del lavoro può rivelarsi di breve

respiro: sia perché una generalizzata riduzione dei salari ha ripercussione sulla domanda di beni e

dunque sulla produzione per addetto, sia perché, come vedremo, il lavoratore potrebbe essere

indotto a ridurre, più o meno intenzionalmente, il suo sforzo lavorativo e di acquisizione di nuove

23

Lucidi F., A. Kleinknecht, Little innovation, many jobs: an econometric analysis of Italian labour productivity, «Cambridge Journal of Economics», (2010) 34 (3), pp. 525-546. A. Kleinknecht, Is labour market flexibility harmful to innovation?, «Cambridge Journal of Economics», 22, 1998, pp. 387-396; A. Kleinknecht, M.N. Oostendorp, M.P. Pradhan, C.W.M. Naastepad, Flexible labour, firm performance and the Dutch job creation miracle, «International Review of Applied Economics», 20(2), 2006: 171-187; C.W.M. Naastepad and A. Kleinknecht, The Dutch productivity slowdown: the culprit at last?, «Structural Change and Economic Dynamics», 15, 2004, pp. 137-163.

24 Non a caso misure volte alla riduzione dei salari e del costo del lavoro vengono spesso denominate “svalutazione

interna”: essa funziona come stimolo alle esportazioni nella misura in cui i minori costi del lavoro si traducono in un abbassamento dei prezzi dei beni finali, o quanto meno, in una minore dinamica dell’inflazione che rende le esportazioni più competitive. Tuttavia, anche in questo caso, il risultato non è automatico e dipende dal verificarsi di molte condizioni e, soprattutto, dal comportamento più o meno opportunistico degli imprenditori che potrebbero decidere di mantenere inalterati i prezzi per lucrare, almeno nel breve periodo, maggiori profitti.

25 P. Ramazzotti, Labour market flexibility and technological innovation or, desperately seeking a trade-off”,

Dipartimento di Istituzioni Economiche e Finanziarie dell’Università di Macerata, «Temi di Discussione», 25, 2005.

13

competenze26. Questi due problemi, costituiscono, in effetti gli altri due canali attraverso cui un

regime di artificiale moderazione dei salari associato ad una maggiore flessibilità può provocare

riduzioni permanenti della capacità produttiva e dunque della crescita di un sistema economico.

La flessibilità del lavoro potrebbe, infatti, indurre una minore produttività del lavoro

attraverso il suo impatto sull’accumulazione di “capitale umano” ovvero della quantità di

conoscenze, competenze e abilità incorporata nei lavoratori. In altre parole, i lavoratori non sono

tutti uguali fra di loro: quelli più scolarizzati, formati e aggiornati sono maggiormente in grado di

gestire operazioni diversificate e complesse, di adattarsi a nuovi processi produttivi, di acquisire

ulteriori conoscenze e competenze che l’impresa richiede per adattarsi all’utilizzo di nuove

tecnologie. A partire dalla metà degli anni ottanta un crescente consenso è emerso fra gli

economisti e fra le istituzioni economiche nazionali e internazionali, circa l’importanza del

“capitale umano” nel determinare i tassi di crescita economica dei paesi. Da qui tutta una serie di

tentativi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo ed emergenti, di favorire e migliorare i

programmi pubblici e privati tesi ad assicurare educazione primaria e secondaria, formazione

professionale e training sul posto di lavoro. Ebbene vari studi sottolineano che la flessibilità del

lavoro potrebbe essere un potenziale veleno che induce sia i lavoratori che gli imprenditori a

ridurre i loro sforzi per acquisire e mantenere il capitale umano: se, infatti, il legame fra lavoratore

e azienda è, per sua natura, precario e con un orizzonte temporale molto limitato, gli incentivi alla

formazione (learning by doing) sia da parte del lavoratore che dell’azienda si riducono

drasticamente27.

Infine, un quarto canale, riguarda il clima complessivo dei rapporti di lavoro all’interno

dell’azienda. La flessibilità riduce la cooperazione fra lavoratori e di questi con i datori di lavoro.

Un pessimo clima di fiducia e di collaborazione all’interno dell’impresa, una carenza di

condivisione di competenze e informazioni, aumenta la conflittualità e rende meno efficiente

26

T. Antonucci and M. Pianta, Employment effects of product and process innovation in Europe, «International review of applied economics», 16, 3, 2002, pp. 521-536.

27 Arulampalam and Booth 2008 and Booth et al. 2002. D. Acemoglu and J. Pischke, Beyond Becker: training in

imperfect labour markets, «The Economic Journal», 109, 453, 1999, pp. 112-142; J. Agell, On the benefit from rigid labour markets: norms, market failures and social insurance, «The Economic Journal», 190, 453, 1999, pp. 143-164; M. Bélot, K. Boone e J. Van Ours. Welfare effects of employment protection, CEPR Discussion Paper 3396, 2002; W. Arulampalam e A.L. Booth, Training and labour market flexibility: is there a trade-off?, «British Journal of Industrial Relations», 36, 4, 1998, pp. 521-536.

14

l’organizzazione e la fluidità dei processi di lavoro, deteriorando il capitale sociale aziendale e per

questa via riducendo la produttività del lavoro28.

Tutti i problemi che abbiamo fin qui discussi riguardano fattori di costo o di efficienza, in una

parola, molto cara agli economisti, fattori di “offerta” che limitano la produttività dell’impresa.

Ma, naturalmente, oltre all’offerta il mercato funziona grazie alla domanda. Vi è un complesso

legame che si instaura domanda dei consumatori, estensione della produzione e produttività.

Come vedremo nel prossimo paragrafo la flessibilizzazione della manodopera e la moderazione

salariale, nella misura in cui deprimono la crescita dei redditi da lavoro tendono a restringere il

mercato interno e a ridurre per le imprese l’incentivo ad innovare e investire, con effetti

permanenti sulla capacità produttiva che sacrificano non solo il reddito e l’occupazione attuali, ma

anche quelli futuri.

Fig. 6. Quota Salari Aggiustata (% PIL)

Fonte: Ameco Database 2012, I valori per la Germania prima del 1991 sono quelli della Germania Ovest

28

M. Huselid, The impact of human resource management practices on turnover, productivity and corporate financial performance, «Academy of Management Journal», 38, 1995, pp. 635-670; R. Buchele and J. Christiansen, Labour relations and productivity growth in advanced capitalist economies, «Review of Radical Political Economics», 31, 1999, 1, pp. 87-110; J. Michie and M. Sheehan, Labour market flexibility, human management and corporate performance, «British Journal of Management», 12, 2001, pp. 287-306; C.W.M. Naastepad and S. Storm, The innovating firm in a societal context: productivity, labour relations and real wages, in R. Verburg, Ortt J.R. e W. Dicke (a cura di), Management and technologogy: an introduction, London: Routledge 2005.

40

50

60

70

80

1960 1970 1980 1990 2000 2009

Germania

Francia

Italia

Regno Unito

Stati Uniti

15

5. Quale rapporto fra domanda e produttività?

Per molti economisti teorici la domanda non dovrebbe mai costituire un problema: essa è,

per definizione, sempre capace di assorbire la produzione di un paese, garantendo la piena

occupazione del lavoro e del capitale produttivo. In presenza di un eccesso di merci invendute, di

manodopera e di capitale inutilizzato, la flessibilità dei prezzi e dei salari sarebbe sufficiente a

stimolare il riequilibrio fra domanda e offerta di piena occupazione. Certo, molti economisti

ammettono che una carenza di domanda, nel breve periodo, possa creare disoccupazione e

bloccare il processo di crescita di un paese: essi, tuttavia, imputano la principale responsabilità di

ciò alla rigidità dei salari e dei prezzi che rallentano il ripristino del cosiddetto “equilibrio di lungo

periodo”.

Secondo questa visione, il processo di crescita del PIL e dell’occupazione dipenderebbe, nel

lungo periodo, solo dall’efficienza e dalla capacità produttiva di un paese, mentre la domanda

giocherebbe un ruolo del tutto transitorio, rilevante solo nel breve periodo. Questo schema di

ragionamento nega a priori ogni rapporto di causalità fra crescita della domanda e crescita della

produttività (che sono trattati come due fenomeni distinti e neutrali l’uno rispetto all’altro). In

questo quadro teorico, non stupisce che da parte dei governi dei paesi e delle istituzioni

economiche internazionali si sia insistito molto sulla necessità di aumentare la flessibilità del

lavoro e dei salari per rispondere alla crisi, nonché di tagliare i costi del welfare ponendo del tutto

in secondo piano gli effetti che questi avrebbero avuto sulla domanda e, dunque, sulle prospettive

di mercato per le imprese.

Il complesso legame che si instaura fra estensione del mercato e produttività fu individuato

già dal padre fondatore dell’economia politica, Adam Smith: esso è stato ripreso e formalizzato

matematicamente in questo secolo da Petrus J. Verdoorn (1949), Nicholas Kaldor (1970), Anthony

P. Thirwall e Thomas Dixon (1975)29. Nella letteratura della crescita il legame fra domanda e

produttività è noto come “Legge di Verdoorn”; Paolo Sylos Labini, uno dei più importanti

economisti italiani del XX secolo che ha dedicato pagine fondamentali ai temi della crescita

economica, delle forme di mercato e del progresso tecnico, preferisce parlare di “effetto Smith”30.

29

P. J. Verdoorn, Fattori che regolano lo sviluppo della produttività del lavoro, in «L’Industria», 1949, 1, pp. 45-53; N. Kaldor, The Case for Regional Policies, «Scottish Journal of Political Economy», Vol. 18, 1970 pp. 337-348; R. Dixon e A. P. Thirwall, A model of regional growth-rate differences on Kaldorian lines, «Oxford Economic Papers», vol. 27, n. 2, 1975, pp. 201-214.

30 P. Sylos Labini, The forces of economic growth, Cambridge, MA, MIT University Press, 1984; ID., Progresso tecnico e

sviluppo ciclico, Bari, Laterza, 1993. Occorre ricordare come Sylos Labini ritenesse necessaria, nei primi anni novanta,

16

Secondo questa visione è soprattutto la dimensione del mercato che consente alle imprese di

attuare metodi produttivi più complessi e sofisticati, di realizzare economie di scala o di attuare

innovazioni che derivano dalla domanda di nuovi consumatori (demand-pull innovation),

innescando un circolo virtuoso che innalza la capacità competitiva e la produttività delle imprese31.

Se invece le imprese vedono i loro mercati di sbocco restringersi diventa più difficile e meno

conveniente attuare gli investimenti necessari per aumentare la produttività e l’impresa tende a

“procedere a vista”, accorciando l’orizzonte temporale delle sue scelte e cercando di realizzare

profitti a breve termine, talvolta anche di natura speculativa. La carenza e l’incertezza della

domanda possono, dunque, indurre le imprese ad una drammatica rincorsa della liquidità, del

profitto a breve termine, scoraggiandole dall’attuare investimenti, miglioramenti tecnologici e

organizzativi, e/o assumere personale qualificato, che avrebbero evidenti e duraturi effetti sulla

produttività, l’efficienza e la competitività.

Un’analisi condotta su 24 paesi del Mediterraneo mostra come vi sia, nei paesi a più alto

reddito, una relazione empirica significativa fra dinamiche della domanda e andamento della

produttività32. Considerando le voci della spesa autonoma (spesa pubblica, esportazioni,

importazioni, investimenti) e altre variabili quali la qualità delle istituzioni, gli investimenti diretti

esteri, la percentuale di popolazione urbana, gli autori stimano quanto una variazione di ciascuna

di esse sia correlata con una variazione della produttività dopo un intervallo rispettivamente di 1,

3 e 5 anni. Così, per esempio, un aumento dell’1% delle esportazioni in un anno è associato a un

incremento della produttività dello 0,14% dopo 1 anno, dello 0,15% dopo 3 anni e dello 0,18%

dopo 5 anni. Riportiamo nella figura 7 le principali evidenze per i paesi avanzati (Fig. 7a)33. Mentre

le importazioni giocano un ruolo negativo, simmetrico a quello delle esportazioni, spesa pubblica e

investimenti sono positivamente associati all’andamento della produttività. Da notare come gli

l’introduzione di un certo grado di flessibilità nel mercato del lavoro. Nel complesso egli riteneva, tuttavia, che: “quando i mercati del lavoro sono troppo rigidi essi creano problemi, ma problemi di diversa natura possono sorgere quando la flessibilità è senza limite. Anche qui si pone il problema di raggiungere un livello ottimale”, cfr. P. Sylos Labini, The employment issue: investment, flexibility and the competition of developing countries, «BNL Quarterly Review», 210, 1999, pp. 257-280, ivi, p. 265. 31

E. Brouwer e A. Kleinknecht, Keynes plus? Effective demand and changes in firm-level R&D: an empirical study, «Cambridge Journal of Economics», 23, 1999, pp. 385-391.; J. Schmookler 1966, Invention and economic growth. Cambridge, MA: Harvard University Press.

32 S. Nerozzi, S. Rosignoli, V. Pipitone, Le determinanti della produttività. Fattori di offerta e fattori di domanda, in P.

Malanima (a cura di), Rapporto sulle Economie del Mediterraneo, Bologna, Il Mulino 2014.

33 Si tratta di un modello di regressione per dati panel utilizzando una specificazione sulle differenze prime, terze e

quinte della variabile dipendente e delle esplicative, mentre la componente residuale è stata inserita sotto ipotesi di random effect. Nel grafico sono stati riportati solo i dati che superano i test di significatività.

17

investimenti presentino un impatto molto significativo che cresce al passare del tempo: ciò è

spiegabile con il fatto che gli investimenti agiscono sia come fattore che stimola la domanda

interna di un paese che come fattore di offerta, che migliora la disponibilità di capitale per

lavoratore e, presumibilmente, anche il livello tecnologico dei processi produttivi. La bassa

significatività e importanza degli altri fattori di offerta è comprensibile tenendo conto che l’analisi

di Nerozzi, Rosignoli e Pipitone riguarda la dinamica della produttività all’interno di uno stesso

paese, dove le variazioni di questi fattori sono molto limitate da un anno all’altro. Ciò non toglie

che, come mostrato da un’ampia letteratura, nel confronto fra paesi questi fattori rivestano un

ruolo importante sia per i livelli che per i tassi di crescita della produttività. Passando poi ad

esaminare le economie a più basso reddito l’analisi mostra la perdita di importanza dei fattori di

domanda e il crescente peso di quelli di offerta (in modo particolare dei processi di

urbanizzazione)(Fig. 7b). Il ruolo positivo delle importazioni in questo gruppo di paesi può

collegarsi con il fatto che essi tendono ad importare la maggior parte dei beni capitali e ad alta

intensità tecnologica, con effetti positivi sull’efficienza dei processi produttivi.

Fig. 7a. Determinanti della produttività nel Mediterraneo

(1985-2012): 12 paesi a reddito medio-alto.

Fig. 7b. Determinanti della produttività nel Mediterraneo

(1985-2012): 12 paesi a reddito medio-basso.

Fonte: Nerozzi, Rosignoli, Pipitone 2014.

Per quanto, più specificatamente, riguarda il nostro paese il ruolo della domanda nel frenare

la crescita della produttività non può essere ignorato. Secondo uno studio di Paolo Piacentini e

Stefano Prezioso, che analizza l’andamento della produttività del settore privato nei paesi OCSE

nel periodo 1980-2003, fattori di offerta e fattori di domanda interagiscono fra di loro, provocando

-0,2

-0,15

-0,1

-0,05

0

0,05

0,1

0,15

0,2

0,25

0,3

1 anno 3 anni 5 anni

00,020,040,060,08

0,10,120,140,160,18

1 anno 3 anni 5 anni

18

una progressiva perdita di efficienza del nostro sistema34. Alla base del rallentamento della

produttività vi sarebbe, fin dagli anni ottanta, una difficoltà del nostro paese a mantenere il passo

con gli altri in termini di innovazioni di prodotto e agganciarsi, dunque, alle diverse ondate di

crescita della domanda mondiale nel campo dei nuovi prodotti. In quel decennio la riduzione della

produttività sarebbe stata, tuttavia, contrastata dalla crescita della domanda interna (trainata da

un regime salariale e di spesa pubblica espansivo) e dalle svalutazioni del tasso di cambio. E’ a

partire dai anni novanta che il ruolo della domanda diventa prevalente nel determinare i

differenziali di produttività: il nuovo regime di politica fiscale inaugurato dal Trattato di Maastricht

(e preceduto dalla politica di alti tassi tedesca scelta dalla Germania per finanziare il processo di

riunificazione) provoca un rallentamento della domanda pubblica. Ad essa si associa una

redistribuzione dei redditi promossa dall’accordo fra le parti sociali del luglio 1993 che penalizza i

salari frenando la crescita dei consumi. Questi fattori provocano una riduzione della domanda

proveniente sia dai consumi interni che dai partner commerciali europei, secondo una tendenza

che verrà nettamente rafforzata con l’avvio della moneta unica. Ancor prima dell’avvio del nuovo

millennio la rinuncia al tradizionale strumento del tasso di cambio (che permette di recuperare

competitività in presenza di differenziali di inflazione), la subordinazione ad una politica monetaria

nettamente restrittiva (che frena la creazione di credito e spinge in alto il tasso di cambio euro-

dollaro penalizzando le nostre esportazioni) e la stagnazione dei salari (fermi in termini reali e

declinanti come quota del reddito complessivo, cfr. fig. 7) hanno determinato una ulteriore

riduzione della domanda interna ed estera per le nostre imprese. Questa contrazione della

domanda ha contribuito in modo decisivo alla stagnazione della produttività e dell’occupazione nel

nostro paese35.

La crisi finanziaria globale del 2007-2008, come già quella del 1929, ha le sue radici da un

gigantesco ammanco di domanda, derivante soprattutto, come ci ricordano Jean Paul Fitoussi e

Joseph Stiglitz, da un drastico aumento delle diseguaglianze negli Stati Uniti e nel resto del mondo,

a lungo occultato dal susseguirsi di bolle finanziarie e, nell’ultima fase, dall’indebitamento dei

34

P. Piacentini e S. Prezioso, Differenziali di crescita e di produttività. L’interazione fra fattori di domanda ed offerta nel caso italiano, «Rivista Italiana degli economisti», XII, aprile 2007, pp. 3-41. Un’analisi empirica in linea con questa linea teorica è offerta da F. Lucidi in Is there a trade-off between labour flexibility and productivity growth?, op. cit.. e P. Tridico, Italy: From economic decline to the current crisis, mimeo, 2012.

35 Sul ruolo delle politiche di austerity e degli squilibri nella distribuzione dei redditi nella crisi europea vi è un ampia

letteratura. Si rimanda per brevità alla letteratura citata da Emiliano Brancaccio e Marco Passarella in L’austerità è di destra (Milano, Il saggiatore, 2012), con alcune interessanti proposte soprattutto per quanto l’istituzione di uno “standard retributivo europeo”.

19

consumatori36. Essa si è manifestata come un drastico crollo della domanda dei consumatori che,

grazie alla stretta interconnessione dei mercati internazionali, ha fatto diminuire la produzione

beni e servizi in tutto il mondo.

La risposta dei principali paesi industrializzati sembrava inizialmente andare nella direzione

giusta: nell’aprile del 2009 i paesi del G20 si sono impegnati ad attuare in modo coordinato

massicce manovre espansive sia sul fronte della spesa pubblica che della politica monetaria, in

modo da contrastare la contrazione della domanda globale ed evitare una nuova grande

depressione. In quell’occasione i leader mondiali sembrarono far tesoro della drammatica

esperienza degli anni trenta, durante i quali le politiche di austerity condotte dai singoli paesi unite

alle rigidità di una sistema di relazioni internazionali ancorato rigidamente all’oro (Gold standard),

avevano fatto precipitare la produzione industriale e l’occupazione a livelli eccezionalmente bassi,

gettando le premesse per lo scoppio del secondo conflitto mondiale.

La strategia dei G20 per una espansione coordinata dei redditi e dell’occupazione sancita a

Londra nel 2009 si è mostrata capace di innescare un consistente processo di ripresa già nel 2010

ma ha avuto vita assai breve: la crisi dei debiti sovrani ha portato ad una radicale svolta delle

politiche dei paesi dell’eurozona. Le ricette della Commissione europea, della BCE e del Fondo

monetario, centrate sulla sicurezza dei conti pubblici e sulle riforme di pensioni e mercato del

lavoro hanno avviato quella strategia di “austerity” che ha bloccato, già nel 2011 le prospettive di

ripresa. Nel frattempo la Germania e pochi altri paesi dell’eurozona, che avevano sviluppato sin

dall’inizio del nuovo secolo una politica di moderazione salariale e di compressione della domanda

interna, nonché di una oggettiva capacità di realizzare beni industriali ad alto valore aggiunto,

ottengono surplus commerciali rilevanti (pari a oltre il 6% del PIL nel caso della Germania) ai danni

prevalentemente delle nazioni mediterranee dell’unione: questi ultimi vedevano ridurre la

domanda per le proprie esportazioni, e aggravarsi ulteriormente il peso dei loro debiti a fronte di

un reddito nazionale che non riusciva a crescere. Come già era accaduto negli anni trenta, le

politiche di austerità e di competizione mercantile (questa volta non nell’ambito di un tasso di

cambio fissato in oro, ma, addirittura, di una moneta unica) hanno frenato la crescita di tutti i

36

Su questi aspetti si rimanda alla bibliografia citata in E. Brancaccio e M. Passarella, op. cit., pp. 141-143. In particolare si vedano J.P. Fitoussi and J.E. Stiglitz, The ways out of the crisis and the building of a more cohesive world, The Shadow GN, Chair’s summary, Luiss Guido Carli, Rome, 6-7 Maggio, 2009; J.P. Fitoussi e F. Saraceno, Inequality and Macroeconomic performance, document de travail de l’Ofce, n. 13, 6 luglio 2010. Sugli argomenti economici a favore di una maggiore equità nella distribuzione del reddito e delle opportunità, si veda il testo del premio Nobel Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013 e J. Stiglitz e M. Gallegati, Se l'1% detta legge, «Micromega», 2013, 3.

20

partner commerciali, non solo europei, allontanando in tutto il mondo le prospettive di una

robusta crescita del reddito e dell’occupazione.

Il drammatico crollo della domanda globale ha portato, in effetti, a una riduzione non solo

dell’occupazione ma anche della produttività. Si tratta, tuttavia, per molti economisti, di un mero

effetto statistico destinato a scomparire con la fine della recessione e la ripresa delle vendite e

della produzione. In altre parole, una volta terminata la crisi, i nostri paesi ritorneranno sui loro

sentieri di crescita come se niente fosse accaduto. Abbiamo visto sopra come questa speranza

potrebbe rivelarsi del tutto illusoria.

Conclusioni

Le riforme del mercato del lavoro attuate in Italia hanno deluso in gran parte le aspettative: i

modesti risultati in termini di creazione di posti di lavoro (che si sono concentrati soprattutto nei

settori a più bassa crescita della domanda nazionale e estera) sono stati accompagnati da una

drammatica stagnazione della produttività che ha finito per impoverire i lavoratori e indebolire le

imprese italiane. La mancanza di un sistema di welfare autenticamente universalistico e il

dualismo fra lavoratori a tempo indeterminato e le diverse tipologie di lavoratori atipici, con

regimi di protezione molto diversi, ha alimentato la crescente marginalizzazione di una classe di

donne e uomini (prioritariamente giovani) ai quali viene, di fatto, imposto, indipendentemente

dalle loro qualifiche e capacità, un lavoro precario, malpagato e senza diritti.

Naturalmente la scarsa produttività in Italia non può essere interamente addebitata ai

processi di flessibilizzazione che hanno riguardato il mondo del lavoro. Altre ragioni devono essere

richiamate: la burocrazia inefficiente, la lentezza della giustizia civile, la corruzione, il peso della

“casta”, l’alto costo dell’energia, le infrastrutture carenti, la debole concorrenza che vige ancora in

molti mercati e professioni, la scarsità e il costo del credito aggravati dagli spread e dalle

sofferenze del sistema bancario, nonché la mancanza di una vera politica industriale di respiro

strategico. Tutti questi problemi costituiscono un fardello senza dubbio molto pesante non solo

per la crescita della produttività e dunque del reddito, ma, anche e soprattutto, per la crescita

dell’occupazione.

Vi è tuttavia, in molte analisi una macroscopica assenza: tutti i problemi che abbiamo sopra

citato riguardano, infatti, fattori di costo o di efficienza, in una parola, molto cara agli economisti,

fattori di “offerta”. Ma, naturalmente, oltre all’offerta il mercato funziona grazie alla domanda.

21

Perché un’azienda viva, lavori e cresca non basta che sappia fare bene e a prezzi competitivi beni e

servizi specifici: occorre che vi sia una domanda per quanto produce. Questo principio, che vale

per la singola azienda, vale anche per l’economia di un paese, e, allargando il ragionamento, anche

per l’insieme dei paesi che interagiscono all’interno del mercato unico europeo e del mondo

globalizzato.

Il problema dell’occupazione della produttività in Italia e in Europa dipende non solo e non

tanto dalle riforme che certamente si possono e si devono attuare per rendere più efficiente la

macchina pubblica e il sistema produttivo, quanto, in primo luogo, dalla capacità di superare i

vincoli di natura istituzionale e politica che, in Europa, impediscono l’attuazione di una

lungimirante politica di investimenti pubblici, di promozione dell’innovazione e della ricerca, di

tutela dei diritti sociali e di riduzione delle diseguaglianze.