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ACCADEMIA PICENO APRUTINA DEI VELATI – TERAMO MONOGRAFIE DI APAV VALENTINA CATANIA Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco”in Italia nel primo trentennio del Novecento Monografia APAV 2 0 0 6

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ACCADEMIA PICENO APRUTINA DEI VELATI – TERAMO

MONOGRAFIE DI APAV

VALENTINA CATANIA

Articolazioni tipologiche e fortuna critica del

“poliziesco”in Italia nel primo

trentennio del Novecento

Monografia

APAV 2 0 0 6

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Introduzione

La letteratura poliziesca nasce negli anni Quaranta

dell’Ottocento ad opera dello scrittore americano

Edgar Allan Poe con la pubblicazione dei suoi tales

of ratiocination.

L’invenzione poeiana destò interesse e cominciò

ad avere cultori in Europa nei decenni che

contrassegnarono il trionfo dello scientismo

positivista.

La metodologia positivista era caratterizzata dallo

sperimentalismo che subordinava l’immaginazione

all’esperienza e implicava il rifiuto di ogni

proposizione che non fosse riducibile alla

descrizione di fatti.

Inoltre la filosofia positiva si articolava in cinque

scienze fondamentali, tra cui la fisica sociale o

sociologia.

Il romanzo poliziesco attecchisce proprio in

questo clima culturale perché, traduce sul piano

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narrativo l’interesse scientifico nei confronti del

problema delle devianze psichiche e

comportamentali, e della delinquenza sociale.

Il genere poliziesco nasceva dunque da

un’esigenza comune a tutta la società di quell’epoca:

affermare, anche sul fronte della narrativa

d’evasione, la fiducia in procedimenti logici atti a

risolvere le falle derivate dai comportamenti devianti

di una fetta marcia della società.

Così, all’interno di quest’ottica, il crime novel si

configurava come una forma letteraria capace di

offrire al lettore una sorta di risarcimento ideale, per

il quale qualsiasi elemento disgregatore dell’ordine

vigente potesse essere neutralizzato dall’intervento

della ragione.

Il capostipite di questa narrativa in ambito europeo

è il diretto discendente di Poe, Arthur Conan Doyle .

La forza modellizzante esercitata dalla sua opera

fu tale che egli è ormai considerato un “classico”.

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In Italia questa nuova tipologia letteraria -

destinata ad assurgere successivamente a vero e

proprio genere codificato - calamitò già nello scorcio

dell’Ottocento il vasto pubblico e attrasse

l’attenzione di affermati esponenti del mondo

accademico.

Scesero in campo per analizzare il “poliziesco”,

infatti, due criminalisti allievi di Lombroso (autore,

tra l’altro, di un celebre saggio su L’uomo

delinquente , del 1875) : Ferri e Niceforo.

Questi studiosi furono attratti dal successo che il

romanzo poliziesco o, come allora si diceva,

“giudiziario”, riscuoteva presso fasce di lettori molto

ampie e culturalmente variegate.

Il romanzo giudiziario che Niceforo definì “rosso”

per la presenza centrale del sangue nella vicenda, si

imperniava sugli snodi di un’istruttoria processuale.

Il criminalista Enrico Ferri, nel suo volume del

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1896 I delinquenti nell’arte , esponeva le ragioni per

le quali, a suo avviso, il romanzo giudiziario godeva

di una straordinaria fortuna, osservando che “è tutta

la trama indiziaria di una laboriosa istruttoria in un

grave processo che tiene sospesa e trepidante

l’attenzione del lettore”.

Alfredo Niceforo, insigne studioso lombrosiano, è

avvinto profondamente dallo spunto sociologico

offertogli dal riscontro che il romanzo giudiziario

aveva presso il vasto pubblico; egli, in un suo saggio

del 1911 intitolato Parigi. Una città rinnovata ,

scrive che “il popolo si è innamorato della letteratura

rossa e, per contraccolpo, anche le classi superiori ne

hanno subito la suggestione”.

Il criminalista siciliano rimarca inoltre

l’importanza del ruolo svolto dal medico-scrittore

britannico Conan Doyle che prende in esame e cita

anche in altri suoi scritti.

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Ancora nel saggio del 1911, Niceforo rileva che

Conan Doyle é uno degli inventori della detective-

fiction : “gli esempi dati dai creatori di questo

genere, quali il Gaboriau e il Conan Doyle, sono, in

se stessi, originali e interessanti”, egli scrive; e

ancora: “Il Gaboriau aveva creato con la figura

leggendaria di Monsieur Lecoq, il romanzo

giudiziario. Più tardi, resuscitando Monsieur Lecoq

che sembrava essere morto, Conan Doyle creò un

genere di romanzo giudiziario più moderno e più

sorprendente”.

Era forte, quindi, l’interesse che anche la cultura

accademica, in area italiana, rivolgeva al

“poliziesco” straniero, che iniziava d’altro canto a

imprimere nuovi orientamenti al mercato editoriale.

Ciò è attestato dalle traduzioni dei romanzi e dei

racconti di Sherlock Holmes che cominciano a

circolare già dal 1895 tramite la casa editrice Verri di

Milano.

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Il “Corriere della Sera” e “La Domenica del

Corriere” dal 1899 si aggiudicarono le uscite a

puntate delle appassionanti avventure poliziesche di

Sherlock Holmes.

Perché in Italia si profili nitidamente la fisionomia

di un “poliziesco” autoctono, affrancato dalla

soggezione epigonica ai modelli d’oltralpe, bisogna

attendere il 1929, anno in cui Arnoldo Mondadori

vara la collana dei “Libri Gialli”.

Mentre proliferavano i tentativi (talora

apprezzabili sul piano della resa stilistica) di creare

un giallo nazionale, i crime novel prodotti all’estero

continuavano comunque ad incontrare il gradimento

dei lettori; infatti “il periodo fra le due guerre vede la

fama di Sherlock Holmes continuare inalterata”,

come ha affermato di recente Roberto Pirani,

autorevole bibliografo del genere giallo in Italia.

Negli anni Trenta, però, il “poliziesco”, che aveva

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conseguito una sua dignità letteraria, dovette fare i

conti con il regime fascista, che lo avrebbe bandito

ufficialmente nel 1941 con un provvedimento

emanato dal Minculpop.

Il primo rotocalco poliziesco italiano, il

mondadoriano “Il Cerchio Verde”, pubblicò tra il

1935 e il 1937 racconti firmati, tra gli altri, da

Varaldo, De Angelis, Spagnol.

Quest’ultimo, in una significativa testimonianza

del 1970, descrive il suo osteggiato accostamento al

giallo negli anni compresi tra il 1934 e il 1942

ricordando che la sua narrativa poliziesca era

considerata dal pubblico colto come un’opera

letteraria poco importante: “lavori di penna meno

impegnativi […] mi avevano procurato tanti lettori

da procacciarmi il pane: il che può far meraviglia

oggi, pensando che allora il mestiere di penna

fruttava solo a chi era impegnato con il fascismo,

mentre io n’ero stato fuori, anzi tenuto a vista”.

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Il duce guardò inizialmente con diffidenza e colpì

poi con provvedimenti censori il poliziesco, perché

preoccupato dall’interesse che i modelli stranieri

avrebbero potuto riscuotere presso il pubblico

italiano.

Nonostante ciò, l’attenzione del mondo culturale

italiano nei confronti del giallo restò vivissima anche

sotto il fascismo.

Esempi significativi sono offerti dai contributi

critici di Alberto Savinio, Guido Piovene, Corrado

Pavolini, Luigi Chiarini, Aldo Sorani.

Questi intellettuali ammiravano molto i maestri

della narrativa d’investigazione straniera, quali

Georges Simenon, Agatha Christie, Edgar Wallace,

G.K. Chesterton.

Nel primo capitolo del presente lavoro si

enucleeranno le motivazioni culturali dell’interesse

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suscitato dal romanzo “giudiziario” e da quello

“poliziesco” negli studiosi della scuola antropologica

positiva.

Si passeranno in rassegna le traduzioni italiane dei

testi conandoyliani incentrati sulle inchieste condotte

da Sherlock Holmes, dalla fine dell’Ottocento fino

agli anni Quaranta del Novecento.

Nel secondo capitolo si prenderà in esame la

graduale costituzione di un poliziesco nazionale, si

ricostruirà il contesto situazionale, ideologico e

culturale, in cui essa si realizzò, si analizzeranno i

giudizi più significativi espressi da critici, letterati e

giornalisti che negli anni del fascismo scrissero sul

giallo.

All’interno di questa sezione della tesi, verranno

utilizzati testi rari, reperiti nel corso di accurate

ricerche presso archivi privati e biblioteche

pubbliche in varie città italiane.

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Capitolo 1

Conan Doyle e la scuola antropologica italiana

La letteratura poliziesca, la cui nascita per

convenzione si fa risalire agli anni Quaranta

dell’Ottocento, quando Edgar Allan Poe pubblicò i

tales of ratiocination, ha i suoi primi cultori in

Europa nei decenni che segnano il trionfo dello

scientismo positivista.

Per caratterizzare, per quanto sia possibile, un

filone narrativo così diffuso e popolare, vista la

molteplicità degli elementi che lo compongono, si

può dire che ad esso afferiscono racconti incentrati

sulle gesta criminose di un individuo , o di una

banda di malfattori, e sui tentativi compiuti da altri

individui per contrastarle.

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Questi ultimi fanno parte di organizzazioni

poliziesche o appartengono alla categoria degli

investigatori privati.

All’interno della produzione poliziesca

distingueremo due correnti principali; nella prima

l’elemento essenziale è costituito dall’inchiesta,

dall’investigazione, condotta con metodi

rigorosamente logici e scientifici, che ha dato

origine a quello che è l’autentico crime novel; la

seconda, invece, darà origine ai cosiddetti thrillers o

racconti del brivido; in quest’ultima corrente,

fondata soprattutto sulla suspense, l’elemento

dell’inchiesta e dell’identificazione del colpevole

avranno minore rilievo.

Il romanzo poliziesco europeo, nella sua prima

stagione, si innesta nel tronco del romanzo

d’appendice o feuilleton; quest’ultimo, che aveva

carattere popolare e a forti tinte, veniva inserito a

puntate nelle ultime pagine dei giornali.

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Il romanzo d’appendice , a sua volta, aveva il suo

antecedente nel romanzo cosiddetto “nero” e più

precisamente nei romanzi gotici inglesi della fine

del secolo XVIII con le loro terrificanti storie di

personaggi malefici, di innocenti vittime delle loro

macchinazioni,di castelli immensi e antichissimi

popolati da fantasmi.

Fra i più noti , The mysteries of Udolpho di Ann

Radcliffe e The castle of Otranto di Horace

Walpole.

Leo Marchetti introducendo alcuni testi di

scrittori anonimi gotici riuniti sotto il titolo Danza

macabra, sostiene che il gotico è “un fenomeno

seducente e inesplicabile le cui radici affondano nel

mutamento del gusto che si verifica in Inghilterra

nella prima metà del Settecento”1 e ancora che “il

reading public risulta essere in larga misura piccolo

borghese e femminile”2.

1 L. Marchetti, Introduzione a Anonimi gotici, Danza macabra, Chieti, Solfanelli,

1991, p. 5. 2 Ibidem.

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Patrizia Nerozzi nel suo L’altra faccia del

romanzo, edito presso la Cisalpino Goliardica a

Milano nel 1984, aggiunge che il gotico soggiace

alle “richieste di un pubblico sensibile al fascino

mercantile del caso letterario”3.

Inoltre Marchetti asserisce che “Molto prima

che Edgar Allan Poe in America inventasse il tale of

effect in funzione giornalistica […], su alcune riviste

inglesi erano apparsi numerosi racconti gotici spesso

anonimi”4.

Ora , se vogliamo accostarci maggiormente

all’origine reale del romanzo poliziesco , è doveroso

sottolineare che il creatore del genere in questione

fu Edgar Allan Poe; lo scrittore americano ideò in

alcuni suoi racconti, come Murders in the rue

Morgue, la figura dell’investigatore dilettante, il

cavaliere Dupin, e coniò il modello del “poliziesco

scientifico”, che avrebbe trionfato nei Paesi

3 Cfr. L. Marchetti, Danza macabra, cit. p. 6.

4 Ibidem.

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anglosassoni prima e successivamente nel mondo

intero .

Le regole che Poe stabilì per la stesura del

racconto poliziesco furono rigorosamente rispettate

per circa un secolo: richiamare l’attenzione e la

curiosità del lettore proponendogli un enigma;

comporre un intreccio ridotto all’essenziale;

descrivere con minuzia le ricerche compiute

dall’investigatore; porre infine il problema per

eccellenza, quello dell’ “ambiente chiuso”, cioè

della stanza dove il criminale ha compiuto il delitto.

Nella seconda metà dell’Ottocento si

verificarono alcune circostanze culturali e storiche

che furono determinanti per il successo del

poliziesco: l’affermarsi del realismo in letteratura, il

trionfo del razionalismo e del metodo scientifico,

l’avvento della filosofia positivista e la instaurazione

di una organizzazione di polizia statale efficiente,

che gradualmente sarebbe entrata in possesso dei

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mezzi scientifici più aggiornati per arrivare a

scoprire la verità sul colpevole.

La metodologia positivista è caratterizzata dallo

sperimentalismo che subordina l’immaginazione

all’esperienza, e implica il rifiuto di ogni

proposizione che non sia riducibile alla descrizione

di fatti .

Sicché le leggi naturali, fisse ed invariabili ,sono

poste a fondamento di ogni ricerca scientifica.

L’intelligenza umana, prima di giungere alla

consapevolezza delle sue possibilità attraversa uno

stato astratto o metafisico.

Quando conquista la maturità dello stato

positivo, essa rinuncia a ricercare l’origine,

l’essenza ed il perché delle cose e si preoccupa

soltanto di conoscere il come del divenire dei

fenomeni, ossia le leggi che ne regolano lo

svolgimento.

Poiché l’ordine del sapere si svolge come

l’ordine dei fenomeni naturali, la filosofia positiva si

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articola in cinque scienze fondamentali:

l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la

fisica sociale o sociologia.

Le teorie scientifiche relative alle scienze

naturali fungevano da guida per diverse discipline a

cui si applicavano i metodi scientifici.

La sociologia, che è uno dei cinque assiomi

della filosofia positiva, prende in esame i fenomeni

della società e le fratture e le contraddizioni interne

ad essa.

La sociologia fu il perno dell’interesse relativo

ad una nuova disciplina che nasceva proprio in quel

fecondo periodo storico, l’antropologia criminale.

L’antropologia criminale era volta a studiare e

quindi a comprendere il comportamento del

delinquente ed i meccanismi psicologici che lo

portano a compiere il delitto.

In Italia gli studi di antropologia criminale fanno

capo alla scuola antropologica positiva costituita da

studiosi prestigiosi come Cesare Lombroso (1835-

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1909) , Enrico Ferri (1856-1929) , Raffaele Garofalo

(1852-1934) , Alfredo Niceforo (1876-1960).

La scuola positiva di diritto penale ruotava

attorno a un perno basilare: la nuova sociologia

criminale teorizzata da Enrico Ferri.

Secondo le formulazioni di questi studiosi il

delinquente è un individuo “anormale”; il crimine è

prodotto da fattori di ordine antropologico, psichico

e sociale, e quindi l’atto criminale deriva da tali

matrici e non da una scelta individuale da parte del

criminale; di conseguenza la sanzione penale non

deve avere finalità punitive, ma deve essere volta

alla rieducazione del delinquente in base alla sua

personalità. Quindi gli studiosi della scuola

antropologica si resero conto del fatto che il delitto è

correlato a comportamenti sociali devianti e che

l’analisi scientifica (e quindi positiva) dei fenomeni

criminali avrebbe potuto portare ad una più valida

difesa della società.

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Enrico Ferri tenne a Pisa nel marzo del 1892

un’interessante ed innovativa conferenza (poi

pubblicata nel 1896), intitolata I delinquenti

nell’arte, che riscosse un grande successo.

Nel suo discorso egli elaborava il parallelismo

tra “l’attività sperimentale e positiva della Scienza e

l’intuizione precorritrice dell’Arte”5.

L’arte ha sempre avuto la capacità, tramite la

sensibilità e lo spirito d’osservazione di chi la

coltiva, di fare balzare agli occhi il malessere

dell’animo umano e cioè gli sbandamenti improvvisi

e immotivati della psiche, di osservare “i fuochi e i

bagliori e i grigiori improvvisi dell’uomo”6.

Ferri prosegue notando che già all’interno delle

tragedie greche, per esempio in quelle di Eschilo, il

delitto compiuto per mano dell’eroe non è

semplicemente un atto criminoso ma deriva da una

5 B. Cassinelli, Introduzione a E. Ferri, I delinquenti nell’arte, Milano, Dall’Oglio,

1954, p. 13. 6 Ibidem.

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“disfunzione”7 del modo di percepire il mondo e

l’arte è in grado di individuare tale malessere.

Lo studioso parla anche di Shakespeare che

inserisce nelle sue opere teatrali lo stesso schema

delle tragedie greche ma aggiunge che la vera

sostanza del delitto è la motivazione vissuta e

sofferta dal criminale e quindi

del motivo l’arte può fare una

sublimazione,e lo può porre in contrasto

con il diritto giuridico e con quello morale.

Amleto ed Otello sono assolti, così come

si salveranno entrambi Cesare e Bruto8.

L’arte, quindi, può arrivare a sublimare il

movente del delitto, sottolineando che nel conflitto

esiste sempre un motivo; l’autore sostiene che

l’individuo è un crogiuolo di contraddizioni tra “la

realtà e la finzione, la veglia e il sogno, la ragione e

la follia, il bene e il male, [che] risuonano , spesso

contemporaneamente, nella voragine della mente

7 Ivi, p. 14.

8 Ivi, p. 15.

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umana”9 e che “non si può né assolvere né

condannare”10 .

Ferri istituisce ancora un interessante

accostamento tra le tragedie greche e le opere di

Pirandello, affermando che i personaggi

pirandelliani sono vittime della crudeltà del mondo

tanto quanto lo sono i personaggi delle tragedie

greche.

In un altro punto del suo scritto, pubblicato

nel 1896 a Genova presso la Libreria Editrice

Ligure, Ferri osserva che “è tutta la trama indiziaria

di una laboriosa istruttoria in un grave processo che

tiene sospesa e trepidante l’attenzione del lettore”11

interpretando così le ragioni del successo dei

romanzi e dei drammi giudiziari in Italia.

Possiamo quindi affermare con certezza che

la nuova sociologia criminale volgeva la propria

attenzione anche alla narrativa poliziesca. Ma

9 Ibidem.

10 Ivi, p. 17.

11 E. Ferri, I delinquenti nell’arte, cit., p. 151.

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comunque , nonostante il fatto che gli studiosi della

scuola antropologica positiva registrassero una

crescente diffusione del genere poliziesco in Italia e

anche una sua forte presa emozionale sul pubblico,

nel nostro Paese fra la fine dell’Ottocento e la

seconda decade del Novecento, non si poteva

ancora affermare che il filone avesse una sua

precisa connotazione letteraria .

Infatti in Italia “non si era consapevoli delle

differenze di forma e di contenuto che dividono il

romanzo poliziesco dalla numerosa e promiscua

prole della letteratura feuilleton”12 e chiaramente

i codici culturali sottesi all’intelaiatura

tematica del romanzo vanno rapportati sia

al sistema dottrinale edificato da

Lombroso, Ferri, Niceforo, Garofalo […]

sia a un modello narrativo che solo in

Inghilterra, in Francia e in America poteva

già contare sui consensi di un pubblico

12 L. Rambelli, Storia del “giallo” italiano, Milano, Garzanti, 1979, p. 20.

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specifico, su solidi appoggi editoriali, su di

un articolato e duraturo sistema di attese13.

Questa considerazione si riferisce in maniera

specifica al romanzo giudiziario ma è applicabile

anche al romanzo poliziesco.

L’interesse per il crime novel coltivato dagli

studiosi della scuola antropologica positiva è

testimoniato da vari saggi ed articoli recanti le loro

prestigiose firme.

E’ significativo l’esempio di Alfredo

Niceforo, che nel suo saggio Il detective scientifico

nella letteratura romanzesca (in “ Il Piccolo della

Sera”, Trieste, 3 giugno 1906) caldeggiava la

diffusione del romanzo poliziesco in Italia.

Qui Niceforo, coniugando la scientificità

dell’analisi sociologica e l’immediatezza e la

leggerezza del reportage giornalistico, richiamava

l’attenzione dei lettori sullo straordinario rilievo

assunto dalla suggestione che il delitto esercitava

13 G. Padovani, Le trame dell’ossessione da Tarchetti a Pirandello, Enna, Papiro,

1997, p. 85.

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sull’immaginario collettivo , mediante le forme della

stampa quotidiana e della narrativa di consumo.

In un altro saggio del 1911 intitolato

Parigi.Una città rinnovata. (Torino, Bocca, 1911),

Niceforo tornava a rilevare la fortuna strepitosa

della letteratura poliziesca che definiva

“rossa” perché caratterizzata dalla presenza del

sangue.

La letteratura rossa, impiantata sull’istruttoria

processuale, a giudizio dello studioso afferiva

all’area della narrativa popolare.

Niceforo osservava la progressiva diffusione

di questo filone e il grande successo che esso

riscuoteva presso il vasto pubblico.

Ad infiammare gli italiani di sdegno e di

orrore, e a metterli in guardia contro gli effetti

nefasti degli sconvolgimenti passionali, provvedeva

un profluvio di pubblicazioni golosamente fruite :

periodici specifici a larghissima diffusione invasi dai

notiziari giudiziari e dai resoconti processuali , come

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“La corte d’assise. Rivista popolare giudiziaria”,

milanese , settimanalmente nelle edicole a partire dal

gennaio del 1879, e “I grandi processi illustrati”,

quindicinale varato anch’esso a Milano , nell’ottobre

del 1896 ; così fiumi di carta stampata facevano

balzare prepotentemente alla ribalta clamorosi

episodi di cronaca nera.

Il romanzo giudiziario, cioè quello imperniato

sull’istruttoria processuale, aveva dunque anche il

merito di stimolare la massa alla lettura.

Così, l’aver creato il nuovo bisogno della

lettura nell’anima primitiva del basso

popolo è il frutto della nostra civiltà

moderna, che porterà seco indubbiamente,

con il sapiente aiuto del tempo, una

elevazione nel livello intellettuale del

popolo14;

e ancora: “il popolo si è innamorato della letteratura

rossa, e per contraccolpo anche le classi superiori

hanno subito la suggestione”15, scrive Niceforo.

14 A. Niceforo, Parigi. Una città rinnovata, Torino, Bocca, 1911, p. 235.

15 Ivi, p. 237.

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Infatti la diffusione della letteratura “rossa” si

estese successivamente anche agli strati più alti

della società, a quei ceti colti che da principio la

consideravano una produzione di infimo ordine.

Niceforo, registrando tale iniziale dissenso,

evidenzia la divergenza tra i gusti del popolo e

quelli del pubblico “istruito”, per il quale “[il

poliziesco è] letteratura d’ordine inferiore, che non

può davvero soddisfare pienamente lo spirito di

individui e di classi più moderne e più evolute”16.

Di ben altro spessore concettuale sono i tales of

ratiocination poeiani.

Il nostro studioso è uno dei primi ad apprezzare

gli scritti di Poe; lo possiamo osservare ancora

all’interno del suo saggio:

mentre una parte del popolo così soddisfa

alla sua brama di meraviglioso lasciandosi

sedurre dalla letteratura di sangue, i

cervelli più colti e meno impulsivi si

abbandonano alla gioia di una forma più

16 Ivi, p. 233.

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elevata di meraviglioso: quella creata da

Edgardo Poe17.

Ma, aprendo una parentesi di ampio respiro, si

può affermare che malgrado il fatto che Niceforo

fosse uno dei primi estimatori del genere in

questione, la cultura accademica di quel periodo

snobbava il polo del nostro interesse o lo ignorava

del tutto a causa di pregiudizi consolidati .

Solo molto più tardi, nella seconda metà del

Novecento, critici accademici della statura di

Umberto Eco, Giuseppe Petronio, Mario Lavagetto,

avrebbero condotto studi metodologici di alto livello

sul poliziesco.

Il criminalista siciliano si accostò a questo tipo di

prosa notando che

Il romanzo giudiziario nelle sue forme

letterarie […] e nelle sue forme meno

elevate, o addirittura assolutamente

inferiori, ha dominato, e domina tuttora,

17 Ivi, p. 266.

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27

esercitando seduzione grandissima, su

larga parte di pubblico18.

Niceforo dava dunque risalto al successo del

crime novel e alla curiosità che esso destava nel

lettore comune.

Continuando nella dissertazione sugli albori del

romanzo poliziesco italiano sembra interessante

notare come il narratore, giornalista, drammaturgo

Salvatore Farina si serva nel 1908 dell’abusato

sintagma “romanzo giudiziario”, importato dalla

Francia e certamente inadeguato a designare una sua

opera come Il segreto del nevaio, che non si

incardina esclusivamente sugli snodi di un’istruttoria

giudiziaria.

La prima edizione di questo romanzo che fu

pubblicato a Milano nel 1908 dall’editore Arnaldo

De Mohr e ristampato l’anno successivo dalla

Società Tipografico-Editrice Nazionale di Torino, si

apre con un’introduzione dal titolo Soliloquio di un

18 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno,

in “Il secolo XX”, Milano, 10 marzo 1917, p. 767.

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28

solitario, in cui Farina si sforza di individuare e

definire il filone al quale il suo romanzo è

ascrivibile.

Questa importante prefazione può leggersi come

primo, organico tentativo italiano di teorizzare una

tipologia ed elaborare una definizione connotativa

del romanzo poliziesco.

Malgrado la confusione terminologica,

determinata dalla mancanza di un vocabolo specifico

che rinvii allo specimen del “giallo”, (che, come si

sa, sarà un’espressione idiomatica che verrà adottata

in Italia solo nel 1929, in seguito al lancio dei

mondadoriani “Libri Gialli”, contrassegnati da

copertine di colore citrino; Leonardo Sinisgalli fu

uno dei primi ad adottare il neologismo in una sua

recensione ai primi quattro volumi della serie

mondadoriana intitolata Romanzi gialli uscita su

“L’Italia letteraria”, il 1° dicembre 1929) Farina, già

nell’incipit della sua introduzione, enuclea con

precisione i tre elementi strutturali su cui si fonda il

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29

modello istituzionale del detective novel ,diventando

così il primo teorizzatore italiano delle regole alle

quali uno scrittore deve attenersi se vuole creare un

poliziesco.

Delitto, inchiesta e identificazione del colpevole

costituiranno i tre cardini attorno ai quali un

romanzo dovrà essere imperniato.

La produzione di Edgar Allan Poe e la triade

tematica individuata dal Farina ci conducono

alla genesi del poliziesco.

Il famoso autore americano, infatti, è stato

indicato dalla critica del Novecento come il

capostipite del filone.

Il prototipo a cui l’autore de Il segreto del nevaio

si rapporta dichiaratamente e programmaticamente è

Il cuore rivelatore di Poe, inserito nel 1869 fra le

dodici novelle della raccolta dal titolo Storie

incredibili tradotte in lingua italiana e date alle

stampe da Baccio Emanuele Maineri ( Milano,

Tipografia Pirola).

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30

La novelletta poeiana appare a Farina come

modello archetipico di tutta una categoria di opere

narrative incardinate sul binomio “delitto e rimorso”.

E Niceforo giudicava “seducentissimo” il tema

rappresentato dal rapporto di causalità tra la colpa e

l’ossessione autopunitiva del delinquente, che

catalizzava l’attenzione degli studiosi di

psicopatologia criminale.

Il segreto del nevaio attesta fin dall’excursus

proemiale la familiarità dell’autore con le teorie

elaborate dagli “psichiatri della nuova scuola”19, ben

note a Farina che aveva compiuto gli studi di legge a

Pavia e a Torino, dove si era laureato nel 1868.

Nel suo romanzo, lo scrittore sardo descrive con

meticolosa cura ogni dettaglio dell’iter giudiziario

con la competenza acquisita attraverso l’esercizio

dell’avvocatura e l’assidua frequentazione degli

ambienti forensi.

19 S. Farina, Soliloquio di un solitario, in Il segreto del nevaio, Torino, Società

Tipografico – Editrice Nazionale, 1909, p. 223.

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31

Risalta quindi lo scrupolo documentario con cui

viene tessuto il minuzioso resoconto processuale che

si protrae per un intero capitolo.

L’indagine descritta da Farina nel romanzo è

volta a far luce sulla personalità dell’omicida, e da

ciò si comprende come l’autore conoscesse le teorie

degli studiosi della scuola antropologica.

Descrivendo la divergenza dei criteri teorici e

metodologici dei due periti incaricati di eseguire

l’esame anatomico e psichico dell’imputato, Farina,

nel suo libro, fa aperto riferimento alla polemica

allora in corso tra gli esponenti della scuola classica

di diritto penale e i sostenitori del nuovo indirizzo

antropologico promosso dalla scuola positiva.

La querelle oppose due luminari: Luigi Lucchini,

capofila dei “tradizionalisti”, ed Enrico Ferri, che

all’antico principio della “imputabilità” aveva

sostituito la dottrina della “pericolosità”, in base alla

quale le sanzioni punitive dovevano adeguarsi

all’effettivo grado di pericolosità dei delinquenti.

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32

I provvedimenti previsti dalle regole ideate da

Ferri per umanizzare la giustizia penale e tutelare i

cittadini dagli abusi dello Stato, miravano ad

arginare la criminalità con opportune misure

preventive piuttosto che con l’asprezza dei metodi

repressivi.

Comunque nonostante l’importanza delle

intuizioni di Farina, ancora per tutto il primo

decennio del Novecento, sebbene si moltiplicassero

le traduzioni delle opere di Conan Doyle, nella

nostra penisola si tendeva a confondere la fisionomia

del poliziesco con quella di generi letterari simili.

Dopo aver sottolineato l’interesse degli studiosi

lombrosiani per il romanzo giudiziario, non

possiamo tralasciare l’attenzione che essi

riservarono alla produzione del medico-scrittore

britannico Arthur Conan Doyle, interprete di

aspetti particolarmente inquietanti della società

vittoriana.

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33

Alfredo Niceforo cita Conan Doyle come uno

dei creatori del genere poliziesco: “gli esempi,dati

dai creatori di questo genere,quali il Gaboriau e il

Conan Doyle,sono,in se stessi, originali e

interessanti”20.

E più precisamente:

Il Gaboriau aveva creato con la figura

leggendaria di Monsieur Lecoq, il

romanzo giudiziario. Più tardi,

resuscitando Monsieur Lecoq che

sembrava essere morto, Conan Doyle creò

un genere di romanzo giudiziario più

moderno e più sorprendente21.

Niceforo cita anche il famosissimo detective

nato dalla penna di Conan Doyle :

Leggevo l’altro giorno uno dei romanzi

più suggestivi che mai in questi ultimi

tempi si siano scritti: Un delitto strano del

Conan Doyle, e ammiravo con quale

luminoso effetto il signor Sherlock

20 A. Niceforo, Parigi. Una città rinnovata, cit. p. 231.

21 Ivi, p. 230.

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34

Holmes faceva l’ispezione del luogo del

delitto22.

Niceforo distingue vari tipi di letteratura:

rossa, gialla, azzurra, nera, bianca, in un suo saggio

intitolato Che cosa si impara dalla letteratura

bianca (pubblicato a Milano su “Echi e Commenti”,

5 settembre 1939).

Il criminologo definisce “letteratura rossa , la

vera e propria letteratura ricamata sulla trama di

un’istruttoria giudiziaria, e la letteratura gialla la

goffa degenerazione attuale della rossa”23 ; la

letteratura azzurra è un genere che si basa sul

fantastico, capace di trasportare il lettore in un

mondo di sogni, d’irrealtà popolata da fantasmi,

oppure addirittura di dislocarlo idealmente in un

mondo lunare.

Per quanto riguarda la letteratura “negra,

scritta da negri e descrivente più o meno sataniche

22 Ivi, pp. 268 – 269.

23 A. Niceforo, Che cosa si impara dalla letteratura bianca, in “Echi e commenti”,

Milano, 5 settembre 1939, p. 663.

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35

scene di negri in convulsioni di sangue e d’amore”24,

si può dedurre che Niceforo ne dia una valutazione

estremamente negativa.

Ma nessuno,o quasi, parla di una speciale

forma di letteratura a proposito della quale

moltissimo è da dire e da cui può persino

molto impararsi: la letteratura di chi ha

perduto la ragione. Di che colore

chiameremo siffatta letteratura?…Le

impressionanti pagine che costoro

scrivono nel loro delirare e la sonante

poesia che esce dai cervelli di quei

cadaveri ancor vivi, tutti vestiti di bianco,

potremmo chiamare: letteratura bianca,

come il camice di quei sepolti. E come il

lenzuolo dei morti25.

La letteratura bianca, quindi, è quella scritta dai

malati ricoverati negli ospedali psichiatrici.

Niceforo ebbe modo di raccogliere il

materiale che fa capo alla letteratura bianca nel

corso delle sue esperienze professionali, nelle quali

24 Ibidem.

25 Ibidem.

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36

poté avvalersi di copiose e minuziose osservazioni e

misurazioni psicosomatiche, essendo cultore di

discipline psicologiche ed antropologiche .

Questa produzione narrativa è denominata

bianca perché bianco è il colore predominante negli

ospedali, bianchi sono i camici dei medici, di bianco

sono vestiti i matti in quegli ospedali.

Anche il linguaggio utilizzato dai “mattoidi”

(vocabolo usato da Niceforo) è bianco; ciò significa

che il matto, esprimendosi, crea dei neologismi (non

usando, ovviamente, regole acquisite in precedenza).

Ciò avviene tramite la triturazione delle parole,la

sostituzione di alcune sillabe con altre e l’uso del

linguaggio infantile; si può dunque parlare di

travisamenti fonetici e grafici.

* * *

Niceforo firma ancora un saggio importante,

in cui prende in esame il personaggio di Sherlock

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37

Holmes ed il suo creatore, Conan Doyle, intitolato

Lontani e lontanissimi precursori del romanzo

giudiziario moderno (in ”Il XX secolo”, Milano, 10

marzo 1917).

L’esigenza di spiegare le ragioni del successo del

nuovo genere romanzesco, lo induce a cercarne gli

ascendenti nel passato, risalendo molto indietro nel

tempo.

Egli vede addirittura come precursore di

Sherlock Holmes e del suo metodo indiziario,

Quintiliano,che visse a Roma nel 1°secolo d.C.:

Quintiliano e la sua scuola discutevano,

come si sa, a Roma nel 1°secolo d.C., su

soggetti giudiziari, come si farebbe oggi

nelle nostre scuole di eloquenza giudiziaria

e di pratica forense26.

Loris Rambelli, nel suo testo Storia del

“giallo”italiano , scrive, a proposito di questo

contributo del criminalista siciliano:

26 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno,

cit. p. 770.

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38

Alfredo Niceforo rintracciava gli antenati

del romanzo giudiziario nelle

Declamationes pseudoquintilianee del 2°

secolo d.C., cioè quegli esempi di

eloquenza con cui i giovani latini, che

abbracciavano la carriera forense, si

esercitavano nelle parti dell’accusa e della

difesa dopo avere inventato, come

canovaccio, il “tema”di un processo27.

Niceforo indica inoltre in Zadig, personaggio

nato dalla fantasia di Voltaire, un altro precursore

del romanzo giudiziario moderno.

Zadig (1756) è il primo dei racconti filosofici di

Voltaire.

L’illuminista francese nel suo scritto sostiene

che la fantasia e la realtà per l’uomo dotato di

ragione, dedicatosi alla scienza, sono intimamente

legate.

Il giovane protagonista possiede bellezza,

ricchezze e virtù e si aspetta di conseguenza una

grande felicità, ma è coinvolto da un destino

27 L. Rambelli, Storia del “giallo” italiano, cit. p. 72.

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39

imperscrutabile in situazioni sfortunate e pericolose

che lo costringono ad affrontare una dura realtà.

Ambientato a Babilonia e in vari paesi del

medio oriente per assecondare il gusto dell’esotico

allora dominante in Francia, il racconto segue le

alterne vicende del giovane Zadig.

Il famoso criminalista nota che

lo Zadig di Voltaire esamina le tracce,

deduce e induce, piuttosto in grazia alle

proprie eccezionali qualità che ricorrendo

a tecniche speciali. Si senta in che modo

procede la narrazione di Voltaire e si

converrà che sembra di udire la narrazione

delle gesta di Sherlock Holmes stesso28.

Osservazioni analoghe saranno formulate, circa

mezzo secolo più tardi, da Carlo Ginzburg, che

accosterà il metodo indiziario di Sherlock Holmes a

quello del celebre critico d’arte italiano Giovanni

Morelli, e rintraccerà l’embrione del procedimento

28 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno,

cit. p. 768.

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40

“congetturale” che governa la scrittura poliziesca in

un passo del terzo capitolo di Zadig .

Si tratta, precisamente, della pagina in cui

Zadig riusciva a descrivere minutamente,

decifrandole, tracce sul terreno. Accusato

di furto e condotto dinanzi ai giudici,

Zadig si discolpava rifacendo ad alta voce

il lavorio mentale che gli aveva permesso

di tracciare il ritratto di due animali che

non aveva mai visto29.

A giudizio di Ginzburg, tanto Poe quanto,

successivamente Gaboriau e Conan Doyle furono

ispirati dal testo di Voltaire.

Sherlock Holmes, nelle sue indagini, utilizza un

procedimento di tipo indiziario che si fonda sulla

deduzione.

Ciò ci riconduce al positivismo perché il metodo

holmesiano anziché partire dal generale, muove dal

particolare che rivelerà, inseriti poi i vari dettagli

29 C. Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 2002, pp.

182 – 183.

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41

all’interno di uno stesso sistema di corrispondenze,

la soluzione finale.

Sherlock Holmes ha avuto il merito di

codificare per primo in sede letteraria i metodi della

scienza criminologica fondati sull’osservazione e la

deduzione.

Quindi c’è una stretta corrispondenza tra la

narrativa poliziesca e il contesto socio-culturale di

fine Ottocento.

Il romanzo poliziesco attecchisce proprio nel

periodo dello scientismo positivista perché traduce

sul piano narrativo l’interesse scientifico nei

confronti del problema della delinquenza sociale.

Questo significa che il genere poliziesco

nasceva da un’esigenza comune a tutta la società di

quel periodo: affermare, anche sul fronte della

narrativa d’evasione, la fiducia in procedimenti

logico-scientifici atti a risolvere le falle derivate dai

comportamenti devianti di una fetta marcia della

società.

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42

Pertanto la letteratura incentrata su intrighi

delittuosi rispecchiava le esigenze della società

borghese di fine Ottocento e nasceva

da stati d’animo e di cultura comuni allo

scrittore e al lettore; ed è impregnata della

cultura del tempo e contemporaneamente

la traduce in storie piacevoli mentre

intanto, ovviamente, la svuota del suo

rigore scientifico30.

La prosa poliziesca offre al lettore lo spunto

per il “suo bisogno di identificazione con eroi

congeniali al mondo in cui lui, il lettore, vive”31

presentandogli “invenzioni e personaggi che lo

interesseranno perché nelle loro pieghe nascondono i

problemi e gli affetti, le inquietudini e le speranze di

tutti”32 .

Niceforo in questo suo saggio del 1917

sottolinea il successo ottenuto dal romanzo

giudiziario sui lettori con questa affermazione:

30 G. Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, Roma – Bari, Laterza, 1985, p. 28.

31 Ibidem.

32 Ibidem.

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43

Il romanzo giudiziario nelle sue forme

letterarie e nelle sue forme meno elevate, o

addirittura, assolutamente inferiori, ha

dominato, e domina tuttora, esercitando

seduzione grandissima , su larga parte di

pubblico33.

Conan Doyle propose il personaggio del

detective come

un poliziotto superdotato che da sparsi

indizi, inesistenti per gli altri, risale, con

processi logici e analisi proprie della

“scienza” , alla scoperta del delinquente, e

lo denunzia e arresta, e risarcisce il tessuto

sociale lacerato34.

Così, all’interno di quest’ottica, il crime novel

si configurava come una forma letteraria adeguata ad

offrire al lettore una sorta di risarcimento ideale, una

ideale garanzia che qualsiasi elemento disgregatore

dell’ordine vigente potesse essere neutralizzato

33 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno,

cit. p. 767.

34 G. Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, cit. p. 29.

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44

dall’intervento della ragione, gratificando, per così

dire, il pubblico tramite

uno sguardo ai mali propri di quella

società, l’esaltazione della scienza e della

ragione, l’identificazione con un uomo

superiore, la rassicurazione finale sulla

forza vittoriosa del bene35.

La superiorità intellettiva di Sherlock Holmes

era perfettamente confacente ai canoni di superiorità

dell’Inghilterra vittoriana.

L’Inghilterra di fine Ottocento si imponeva

sulle altre nazioni per un prestigio dovuto alle

conoscenze scientifiche, al progresso industriale e

tecnologico.

Il Regno Unito, all’inizio della seconda metà

dell’Ottocento, sarebbe decollato come potenza

votata all’imperialismo e quindi doveva

necessariamente offrire un’immagine compatta di sé;

il dilagare della criminalità avrebbe generato un

diffuso senso di paura che avrebbe potuto intaccare

35 Ibidem.

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45

l’unità e la compattezza proprie di una nazione salda

ed incorruttibile.

L’Inghilterra voleva dare un’immagine di sé non

frammentata dall’angoscia delle aggressioni

delinquenziali ma connotata dalla limpidezza dei

meccanismi del vivere e delle istituzioni.

Come è noto, l’età del positivismo era tesa alla

conoscenza del reale e della verità.

E Sherlock Holmes, degno rappresentante di

quell’epoca, cerca la verità («…dopo aver eliminato

l’impossibile, ciò che rimane, per quanto

improbabile, deve essere la verità?»)36 mediante le

sue capacità intellettive con l’intento di arrivare a

chiarire il movente dell’assassino o le motivazioni

per le quali è stato compiuto il delitto.

Con l’avvento del romanzo poliziesco, si

delinea l’antagonismo tra il delinquente

professionista (raffigurato, in questo caso specifico,

dal personaggio negativo principale creato da Conan

36 A. Conan Doyle, Il segno dei quattro, trad. di M. Gallone, Milano, Mondadori,

1958, p. 48.

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46

Doyle cioè il professor Moriarty37 ) e la legge che

viene fatta applicare nella società dalle forze

dell’ordine pubbliche e private (rispettivamente

rappresentate dalla polizia di Scotland Yard e da

Sherlock Holmes).

Nel definire Moriarty un criminale, Conan

Doyle lo descrive così:

il più grande imbroglione di tutti i tempi,

l’organizzatore di ogni ribalderia, il

cervello controllatore (sic) del mondo

sotterraneo, un cervello che potrebbe

foggiare o distruggere il destino di intere

nazioni!38

E ancora Sherlock Holmes nell’epilogo de La

Valle della Paura dice di Moriarty:

«Questo è il colpo di una mano maestra.

Non è il caso di parlare qui di moschettieri

a canna corta o di pistole a sei colpi che

fanno chiasso. Si capisce un artista dal suo

37 Il lettore può leggere, tra le letture messe in rete, l’articolo di F.Eugeni, A study

in … Moriarty Binomial Theorem, in: A Week Later, Atti Sesto Fiorentino,

Settembre, 2000, con le unite slides di una conferenza dell’auitore sull’argomento. Il

personaggio di Moriarty è tratteggiato in questo lavoro tra il critico e l’apocrifo. 38 A. Conan Doyle, La valle della paura, trad. di M. Gallone, Milano, Mondadori,

1960, p. 14.

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colpo di pennello. Io ho immediatamente

intuito che qui c’è sotto lo zampino di

Moriarty. Questo delitto è stato

macchinato a Londra»39.

Londra era cresciuta a dismisura ai tempi

dell’industrializzazione ottocentesca e si era

sviluppata in un dedalo di viuzze e anche in quartieri

malsani dove era facile che proliferasse la

delinquenza .

Conan Doyle ne dà una definizione negativa:

“Londra, quel grande immondezzaio dove tutti gli

sfaccendati e i fannulloni dell’Impero si riversano

irresistibilmente”40 .

L’autore descrive il frenetico aggirarsi di questi

tipi umani “nell’immensa selva londinese” mentre

correvano “per le vie affollate di Londra”41.

Ma la rappresentazione della città con i suoi

chiaroscuri è anche metafora di una caratteristica

propria dell’Inghilterra vittoriana e cioè il

39 Ivi, p. 212.

40 A. Conan Doyle, Uno studio in rosso, trad. di A. Tedeschi, Milano, Mondadori,

1958, p. 16. 41 Ivi, p. 17.

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nascondere, o anche occultare, scandali e pecche

della borghesia perbenista.

Ciò ci porta a comprendere perché il vizioso

modus vivendi di Sherlock Holmes (quest’ultimo

ricorreva a sostanze stupefacenti che lo aiutavano a

concentrarsi sui suoi casi più difficili e quindi ad

arrivare alla soluzione) era accettato tacitamente

dalla società vittoriana che sfoggiava atteggiamenti

ipocritamente perbenistici.

Ne Il segno dei quattro si legge chiaramente

che Sherlock Holmes faceva uso “di cocaina in una

soluzione al sette per cento”42.

Conan Doyle svela questa abitudine segreta del

suo eroe già all’inizio di questo romanzo:

Con le lunghe dita, bianche e nervose,

avvitò all’estremità della siringa l’ago

sottile e si rimboccò la manica sinistra

della camicia. I suoi occhi si posarono per

qualche attimo pensierosi

sull’avambraccio e sul polso solcati di

42 A. Conan Doyle, Il segno dei quattro, cit. p. 4.

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tendini e tutti punteggiati e segnati da

innumerevoli tracce di iniezioni. Infine si

conficcò nella carne la punta acuminata,

premette sul minuscolo stantuffo, poi, con

un profondo sospiro di soddisfazione,

ricadde a sedere nella poltrona di velluto.

Da molti mesi, per tre volte al giorno…43

Sherlock Holmes ammetteva di temere “che,

fisicamente parlando, l’influenza della cocaina sia

perniciosa” ma la trovava “così stimolatrice e

chiarificatrice dell’intelletto” ed aveva bisogno di

sentirsi “in uno stato di esaltazione mentale

costante”44 per risolvere i suoi casi.

Lo sherlockiano impiego di droghe sarebbe

stato un fattore di scandalo nell’ottica vittoriana

puritana ma quella debolezza era “perdonata” al

celebre detective perché egli recava un servizio

importante alla società, cioè quello di liberarla dai

criminali.

43 Ivi, p. 3.

44 Ivi, pp. 4 – 5.

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Il successo del romanzo poliziesco è dovuto

alla coniugazione, da parte di Conan Doyle -che ne è

uno dei padri fondatori-, dell’elemento logico-

deduttivo in chiave narrativa e dell’originalità degli

strumenti espressivi che lo scrittore impiega.

Per quanto riguarda la strutturazione della

materia romanzesca “gialla”, Conan Doyle utilizza

una tecnica dilatoria che tiene accesa l’attenzione del

lettore e intensifica la sua curiosità di conoscere la

soluzione del mistero: la suspense.

Conan Doyle ha sapientemente elaborato questo

metodo che diverrà una delle cifre qualificanti del

mystery inglese (“giallo classico”).

Nuova e suggestiva è anche la funzione che lo

scrittore britannico assegna alle descrizioni

paesaggistiche, spesso finalizzate a dimostrare che le

condizioni climatiche londinesi favoriscono

l’espandersi della malavita; pensiamo, per esempio,

alla “famosa” nebbia che è utilizzata da Conan

Doyle al fine di confondere i contorni di ambienti e

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51

persone ma anche per creare una certa suggestione

nella mente del lettore:

Era una sera di settembre, e mancavano

ancora parecchi minuti alle sette; ma il

giorno era stato fosco, e una fitta nebbia

gocciolante si stendeva bassa sopra la

grande città. Grosse nubi color fango

pendevano lugubremente sulle strade piene

di mota. Giù per lo Strand i lampioni altro

non erano che caliginose chiazze di luce

evanescente che gettavano sul marciapiede

sdruccioloso un debole alone circolare. Il

chiarore giallo delle vetrine fluiva nell’aria

greve, satura di vapori, e gettava una

luminosità incerta, quasi minacciosa, sulla

grande arteria brulicante di folla. Si aveva

la sensazione che ci fosse qualcosa di

inafferrabile, di spettrale nell’interminabile

processione di facce che volteggiavano in

quelle anguste spere di luce, facce allegre

e facce tristi, volti lieti e volti smarriti. Al

pari di tutto il genere umano passavano per

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un attimo dalle tenebre alla luce, per

ricadere subito nell’oscurità45.

Tutte le vicende sherlockiane sono costruite in

modo da far sorgere dei dubbi al lettore; questa

tecnica di matrice conandoyliana ha la funzione di

far convergere l’interesse del lettore verso le

prodezze del detective e verso il ruolo critico-

dialettico della sua “spalla”, il dottor Watson.

Quest’ultimo pone a Sherlock Holmes

interrogativi simili a quelli che il reading public

stesso porrebbe all’investigatore.

Si determina pertanto una valente interazione

tra il lettore ed il detective tramite il personaggio

trait d’union impersonato appunto da Watson.

* * *

45 Ivi, p. 22.

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53

In Italia, il romanzo poliziesco autoctono ha

impiegato molto tempo per attecchire perché

inizialmente si registrava un esclusivo interesse

verso i prototipi stranieri.

Già all’altezza degli anni Novanta

dell’Ottocento , incontriamo alcune traduzioni di

racconti di Sherlock Holmes; infatti editorialmente

parlando, il 1895 è la data dell’ingresso di Sherlock

Holmes in Italia.

In quell’anno, la casa editrice Verri di Milano

pubblica due racconti da Le avventure di Sherlock

Holmes , Uno scandalo in Boemia e La lega dei

Roquins (da The adventures of Sherlock Holmes,

apparso in Inghilterra nel 1892), e Il cavallo da

corsa, tratto da The memoirs of Sherlock Holmes

(edito in territorio britannico nel 1894).

Come sappiamo, si registrò un successo

strepitoso intorno alla figura di Sherlock Holmes,

che presto fu innalzata a mito.

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Fu nel 1899 che il “Corriere della Sera”

cominciò a pubblicare sistematicamente i testi del

canone sherlockiano.

Il promotore di questa iniziativa fu Luigi

Albertini, che successivamente diresse il prestigioso

quotidiano milanese.

Albertini era vissuto a Londra ed aveva potuto

constatare personalmente l’enorme successo

letterario del detective Sherlock Holmes.

Cogliamo la traccia dell’interesse per quel

personaggio anche su “La Domenica del Corriere”; a

puntate vennero pubblicate Le avventure di Sherlock

Holmes nel 1899, Le ultime avventure di Sherlock

Holmes nel 1900/’01, La maledizione dei

Baskervilles nel 1902/’03, Il ritorno di Sherlock

Holmes nel 1904/’05, La valle della paura nel 1915.

Testi che furono in seguito raccolti nelle

pubblicazioni periodiche del “Romanzo Mensile”

(nel 1903, 1904, 1907,1907/’08, 1918).

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Altre case editrici, accorgendosi del successo,

si inserirono nel circuito proponendo titoli

sherlockiani che mancavano al “Corriere della Sera”.

E’ il caso della Società Editrice Milanese che

pubblicò A study in scarlet (che è il primo testo del

canone sherlockiano) in sette diverse versioni tra il

1901 e il 1911 e The sign of four in sei versioni tra

il 1903 e il 1912.

Nel 1913 tre racconti appartenenti a His last

bow estratti dallo “Strand Magazine” cioè The

adventure of devil’s foot, The disappearance of lady

Frances Carfax, The adventure of the red circle

vennero ospitati su “La Domenica del Corriere”.

Ecco una ricostruzione cronologica

dell’avvicendarsi delle traduzioni italiane dei

romanzi di Sherlock Holmes:

1) A study in scarlet che come titolo della

prima edizione italiana nel 1901 ebbe Un dramma

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misterioso,con traduzione di Irma Rios ( Milano,

Società Editrice La Poligrafica). La seconda

edizione è del 1907 e si intitola Uno strano delitto

,la traduzione è di Romeo Lusini, ( Milano, Società

Editrice Milanese, Il Libro Popolare 6). La terza

edizione, dal titolo Sherlock Holmes, il poliziotto

dilettante.Lo scritto rosso, è senza indicazione di

traduttore e figura nella Biblioteca Salani Illustrata

,347, di Firenze, Salani. E’ del 1908.

La quarta edizione è intitolata Uno strano delitto,

traduzione di Cino Liviah in: Doyle, Sherlock

Holmes il poliziotto dilettante.Uno strano delitto.Il

segno dei quattro., Milano, Società Editrice

Milanese. E’ del 1909. La quinta edizione si intitola

Sherlock Holmes ed è senza indicazione di

traduttore. E’ stata pubblicata a Firenze per la Casa

Editrice Italiana, Il Romanzo, I, 23, il 4 maggio del

1911. La sesta edizione recante il titolo Le avventure

di Sherlock Holmes. Lo scritto rosso è stata tradotta

da Filippo Mastriani e pubblicata a Napoli presso

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Salvatore Romano , nel 1911. La settima edizione

porta il titolo Il segreto di Hope ed è senza

indicazione di traduttore; è stata pubblicata con “Il

Romanzo della Domenica” a Roma presso la Società

Editrice Romana, I, 24, il 10 dicembre 1911.

L’ottava edizione si intitola Due uomini da

uccidere, traduzione di Graziuse D’Africa, è

apparsa nella collana “I Gialli del Gufo Nero” 1,

Milano, Attualità, nel 1937. La nona edizione porta

il titolo Il colpo di Sherlock Holmes , è senza

indicazione di traduttore, pubblicata nella serie “ Un

Capolavoro Poliziesco/Capolavori Polizieschi”,

Milano, Attualità, il 22 aprile 1940. La decima

edizione porta finalmente il titolo tradotto

fedelmente dall’inglese: Uno studio in rosso ; la

traduzione è di Alberto Tedeschi; edita a Milano

dalla Rizzoli nel 1949.

2) The sign of four è il secondo romanzo

conandoyliano. Anch’esso ebbe varie traduzioni

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italiane. La prima edizione italiana prenderà subito il

titolo Il segno dei quattro, è senza indicazione di

traduttore; è stata pubblicata su “Il Romanzo

Mensile”a Milano presso Ed. del ”Corriere della

Sera”, I, 8, nel novembre-dicembre del 1903. Nella

seconda edizione è stato cambiato il titolo. Il

romanzo si intitolò infatti Il dramma di Pondichery

Lodge, è senza indicazione di traduttore, è stato

pubblicato su “La Biblioteca Amena”, 671, a Milano

presso Treves nel 1904. La terza edizione si intitola

nuovamente Il segno dei quattro, è senza

indicazione di traduttore; è stata pubblicata a Napoli

presso Bideri, s.d. (1906).

La quarta edizione reca il titolo Sherlock Holmes

il poliziotto dilettante.Il segno dei quattro. E’ senza

indicazione di traduttore. E’ stata pubblicata nella

”Biblioteca Salani Illustrata”, 346, a Firenze presso

Salani nel 1908. La quinta edizione si intitola Il

segno dei quattro; la traduzione è di Cino Liviah in:

Doyle, Sherlock Holmes il poliziotto dilettante.Uno

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strano delitto. Il segno dei quattro. Pubblicato a

Milano presso la Società Editrice Milanese nel 1909.

La sesta edizione è intitolata Le prime imprese di

Sherlock Holmes; è senza indicazione di traduttore.

E’ stata pubblicata a Firenze presso la Casa Editrice

Italiana su “Il Romanzo”, I, 26-27,21-28 maggio del

1911. La settima edizione si intitola Il tesoro di

Agra, traduttore n.i., pubblicata a Napoli presso

Salvatore Romano Ed.nel 1912.

L’ottava edizione reca nuovamente il titolo Il

tesoro di Agra, è senza indicazione di traduttore; è

stata pubblicata su ”Il Romanzo della Domenica”, II,

36, a Roma presso la Società Editrice Romana l’8

settembre del 1912. La nona edizione porta ancora il

titolo Il tesoro di Agra; è senza indicazione di

traduttore; pubblicata su ”Per tutti. Romanzo

Mensile”, 52, il 30 maggio 1923. La decima

edizione ha il titolo Il tesoro di Agra; è senza

indicazione di traduttore; è stata pubblicata a Napoli

per Lubrano e Ferrara, s.d. (primi anni ’30).

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Nell’undicesima edizione ritorna il definitivo titolo

Il segno dei quattro. La traduzione è di Maria

Gallone. E’stata pubblicata a Milano per la Rizzoli

nel 1949.

3) Il terzo famosissimo romanzo di Conan

Doyle è The hound of the Baskervilles; come primo

titolo italiano ha La maledizione dei Baskervilles, è

senza indicazione di traduttore, fu pubblicato su “La

Domenica del Corriere”, IV, 44, il 2 novembre del

1902 e il V, 8, il 22 febbraio 1903. La seconda

edizione reca il titolo Il mastino dei Baskervilles, la

traduzione è di Maria Gallone. Fu edito a Milano

presso la Rizzoli nel 1950.

4) L’ultimo dei quattro romanzi di Conan

Doyle The Valley of Fear, per quanto riguarda la

prima edizione italiana, ha per titolo La valle della

paura; è senza indicazione di traduttore; lo

ritroviamo su ”La Domenica del Corriere”, XVII,

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35-46, 5 settembre- 21 novembre 1915 a Milano, Ed.

del ”Corriere della Sera”. La seconda edizione reca

il titolo La valle della paura; la traduzione è di

Maria Gallone; fu pubblicata a Milano presso la

Rizzoli nel 1950.

Volendoci allontanare da questa ricostruzione

cronologica schematica si può illustrare a grandi

linee la situazione del “fenomeno giallo” italiano

ricordando che, quando l’Italia entrò in guerra nel

1915, tutti i testi sherlockiani erano ampiamente

diffusi e conosciuti dai lettori italiani.

Nel periodo fra le due guerre si continuò a

registrare inalterata la fama del racconto poliziesco

sherlockiano, con la novità importante di

considerarlo inscritto in un genere letterario dalla

fisionomia ben definita, il “giallo”.

Nella prospettiva dell’interesse diffuso per

questa nuova tipologia narrativa, il canone

sherlockiano, che racchiude con sistematicità le

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opere poliziesche conandoyliane, viene ad assumere

un’importanza basilare.

Il “Corriere della Sera” continuò a ristampare

le proprie versioni già pubblicate: nove versioni dal

1921 al 1939.

Otto racconti dei dodici di The Case-Book of

Sherlock Holmes (1927) vennero pubblicati su “La

Domenica del Corriere” nel 1921 e nel 1927,

seguendo la pubblicazione sullo “Strand Magazine”.

Nel 1928/’29 l’intero The Case-Book of

Sherlock Holmes apparve in due volumi presso la

casa editrice Mondadori: Novissime avventure di

Sherlock Holmes e Le ultime avventure di Sherlock

Holmes.

Data cruciale, perché proprio in quell’anno

l’editore Arnoldo Mondadori inaugurò la sua

politica editoriale del giallo iniziando a diffonderlo

con una fama e un successo che durano tuttora.

Mondadori diede vita nel 1929 alla collana

ancora denominata “I libri gialli ”.

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Quindi già nel 1930 la fama di Conan Doyle

era solidissima e il creatore di Sherlock Holmes

annoverava adepti e cultori sia tra gli scrittori di

professione, sia fra coloro che per hobby si davano

al giallo e alla lettura del giallo.

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Capitolo 2

Il poliziesco in Italia negli anni Trenta.

Circolazione di modelli stranieri, fondazione di

un “giallo”nazionale, dibattito critico.

Racine ha imborghesito la tragedia. Ingres

ha imborghesito la forma classica della

pittura. Restava da imborghesire il romanzo

poliziesco. Grace à Dieu , anche questo è

fatto 1.

Il 23 agosto del 1932 esce su “L’Ambrosiano”

un articolo dal titolo Romanzo poliziesco da cui è

tratta questa citazione.

A firmarlo è il critico Alberto Savinio, alias

Andrea De Chirico, fratello di Giorgio.

1 A. Savinio, Romanzo poliziesco, in “L’Ambrosiano”, 23 agosto 1932, ora in

Souvenirs, Palermo, Sellerio, 1989, p. 144

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Scrittore, pittore, musicista, collabora a

“L’Ambrosiano” dal ’27, a “La Stampa” tra il ’34 e

il ’40, ad “Omnibus” tra il ’37 e il ’39 sotto la

direzione di Leo Longanesi.

Nel ’34, scrive per il teatro il dramma Il

Capitano Ulisse (Roma, Quaderni di “Novissima”).

La sua produzione narrativa consta di vari

romanzi tra cui Tragedia dell’infanzia del ’37

(Roma, Edd.La Cometa); fra i racconti scritti negli

anni Trenta, spicca Achille innamorato, del ‘38

(Firenze, Vallecchi).

Nel ’38 pubblica a Firenze Gradus ad

Parnassum, successivamente rifluito in Tutta la vita.

Sollecitato da innumerevoli interessi culturali,

Savinio si accosta anche al romanzo poliziesco.

Egli è il primo in Italia a scoprire e ad apprezzare

il padre letterario di Maigret, Georges Simenon.

E’opportuno porre all’inizio dell’excursus che si

opererà in questa sede l’autore belga, perché egli è

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stato il modello privilegiato del poliziesco italiano

degli anni Trenta.

Savinio insiste nel dire che

Simenon, pari in questo a molti altri

letterati francesi, dà fuori una mole tale di

lavoro, di cui i romanzieri nostrani non

hanno la più pallida idea. Come la luna

che si rinnova di mese in mese, Georges

Simenon pubblica un nuovo romanzo ogni

trenta giorni. E non si creda che sieno (sic)

libercoli scribacchiati alla svelta. No: sono

trecento pagine tirate a pulimento, trame

intricatissime e risolte con maestria, figure

e caratteri disegnati con evidenza e

precisione, documentazione impeccabile di

città e paesi, e di tanto in tanto, un tono, un

accento che denotano lo scrittore di razza.

Ma la caratteristica maggiore di questi

libri, è che essi creano un tipo nuovo di

romanzo poliziesco: il romanzo poliziesco

borghese 2.

2 Ivi, p. 143.

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Mirella Serri, nel suo saggio Il teatro e il giallo:

Savinio e Simenon , sostiene che

Il rapporto Savinio-Simenon si può leggere

come una testimonianza della difficile

collocazione del “giallo”nella storia della

letteratura italiana. Savinio rappresenta un

esempio di intelligente accettazione ed

apprezzamento del romanzo poliziesco da

parte di uno dei nostri scrittori più geniali

e contemporaneamente impersona un

aspetto di esclusione nei confronti del

giallo, destinato ad essere preso in

considerazione, nel migliore dei casi, come

interessante esempio di letteratura

“minore”, rispetto a quella considerata

“alta” e maggiore 3.

Simenon fa muovere il suo bonario commissario,

Maigret appunto, tra la provinciale borghesia

francese, riuscendo ad essere innovativo rispetto ai

modelli anglosassoni, Conan Doyle in testa.

3 M. Serri, Il teatro e il giallo: Savinio e Simenon, in AAVV, Il giallo italiano degli

anni Trenta, Trieste, Lint, 1988, p. 317.

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I giallisti italiani si ispirarono al nuovo prototipo

poliziesco coniato da Simenon e accantonarono, per

così dire, i precedenti paradigmi poeiani o

conandoyliani; uno dei motivi di questo passaggio fu

il fascino esercitato dalla rappresentazione del

personaggio del commissario come un poliziotto

“umano”, più reale e più vicino alla gente,

decisamente lontano dal superomismo sherlockiano.

Infatti, osserva ancora Savinio, “Maigret -lo

Sherlock Holmes della circostanza- è un borghese

grasso e bonario, una specie di papà senza figli, un

moralista pagnottone” 4 .

Un’altra caratteristica importante dei gialli

simenoniani è il realismo, che fu caro anche agli

scrittori del giallo italiano.

Savinio in un suo successivo articolo dal titolo

Elogio di Simenon (in “L’Italia letteraria”, 10

dicembre 1933) affermò che gli scrittori italiani

prediligevano in quel momento i romanzi brevi di

4 A. Savinio, Romanzo poliziesco , cit. , p. 143

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Simenon, nei quali campeggiava un’ambientazione

realistica.

Realismo e gusto borghese in quella stagione del

Novecento andavano a braccetto.

Nello scritto già citato del 1932 dal titolo

Romanzo poliziesco, Savinio notava che il giallo

soddisfaceva le esigenze dell’imagerie borghese, e

in particolare il bisogno di sensazioni violente, di

letture stimolanti che potessero allontanarla dalla

noia quotidiana; il giornalismo non riusciva più a

soddisfare questa necessità.

Il compito di appagarla passava al romanzo

poliziesco, capace di far distrarre il lettore con le sue

peculiarità: piaceva ai borghesi perché i suoi aspetti

non sono specificamente borghesi; il protagonista è

un criminale che nel suo agire è lontano dai moduli

comportamentali del perbenismo borghese; sfidando

il pericolo e trasgredendo la legge il malfattore

diveniva come un eroe agli occhi del fruitore che,

nella sua condizione sedentaria, sotto sotto cercava

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di vivere quelle trasgressioni che non gli erano

concesse dall’etica perbenista.

E tutto ciò avveniva mediante la lettura,

entrando nel personaggio del criminale.

Come si diceva precedentemente, Simenon ha un

doppio merito: avere creato con l’innovativo

personaggio di Maigret il romanzo poliziesco

borghese (dove non c’è eccesso di terrore come nei

gialli anglosassoni in cui prevale il sensazionalismo;

il delitto compiuto, è quasi sempre banale e non

spettacolare) nel quale il commissario in questione

non ha niente di eroico; e avere coniato il romanzo

poliziesco nazionale francese.

Savinio però riconosce anche “l’elemento di

facciata” di Simenon e conseguentemente di

Maigret, considerandoli dei “borghesi mascherati”;

con ciò egli intende dire che i tratti quietamente

borghesi di Maigret mascherano un temperamento

incline, anche se cautamente, ad atteggiamenti critici

e polemici nei confronti dell’ordine costituito.

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La superficie di moralismo tout court salva

l’opera di Simenon dagli attacchi della censura ed è

questo il motivo per cui, in età fascista, vediamo

circolare in Italia le opere del giallista belga, che con

il suo rigorismo etico fustiga il falso perbenismo

borghese.

In Italia, la fortuna di Georges Simenon ha inizio

nel 1932, anno in cui l’editore Mondadori pubblica

le prime traduzioni delle opere dello scrittore belga e

precisamente Il viaggiatore di terza classe , Il cane

giallo, Il carrettiere della “Provvidenza” e L’osteria

da due soldi.

Il pubblico accetta subito con grande interesse la

narrativa simenoniana e Mondadori aumenta il

numero delle traduzioni da immettere sul mercato

nazionale.

Si tratta di una trentina di romanzi, pubblicati

nel 1934.

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Così si potenzia in Italia il successo editoriale del

poliziesco , inaugurato con la diffusione dei romanzi

di Conan Doyle.

Uno dei motivi della fortuna di Simenon è un

elemento innovativo all’interno del genere

poliziesco: l’analisi del carattere dei personaggi,

l’attenzione prestata dall’autore alla loro psicologia

e specialmente alle delicate espressioni e ai più

misteriosi recessi dell’animo femminile, un oggetto

narrativo trascurato o mortificato prima di Simenon

(in Conan Doyle , per esempio, l’indagine della

psicologia femminile occupa poco spazio).

E ciò non è poco: “Maigret è un poliziotto che sa

ascoltare e guardare; scopre più verità con la

psicologia di quanto non avvenga con le perizie

balistiche” 5.

Simenon opera anche un’analisi fine ed accurata

del tessuto sociale, non esitando a far notare, per

esempio, le pecche degli istituti religiosi per

5 G. Benelli, La fortuna italiana di Georges Simenon ,in AAVV, Critica e società di

massa,Trieste, Lint, 1983, p. 306.

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l’educazione dei giovani, pur essendo Maigret un

cattolico.

Leonardo Sciascia in un suo articolo intitolato

La carriera di Maigret apparso su “Letteratura”,

numero 10, del 1954, osserva acutamente, a

proposito del commissario simenoniano, che “ la sua

presenza di cattolico è come un reagente chimico

che suscita rivelazioni, precipitazioni improvvise,

nascoste sostanze psicologiche” 6.

Quello di Maigret è un cattolicesimo provinciale

tollerante e bonario che lo porta ad essere saggio nei

suoi arguti giudizi, “non a caso assomiglia più a

Padre Brown che non a Sherlock Holmes”7; se si

vuole essere più precisi , si potrà dire che Maigret è

un personaggio “antieroico e umano, pieno di

silenziosa pietà , che lo induce a non giudicare”8;

tattica, quest’ultima, propria degli psicologi e

Maigret , come abbiamo detto, è particolarmente

6 L. Sciascia, La carriera di Maigret , in “Letteratura”, n. 10, 1954.

7 G. Benelli, La fortuna italiana di Georges Simenon , cit., p. 306.

8 Ivi, p. 310

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attento alla psicologia degli individui essendone un

fine conoscitore ; infatti “il suo mestiere è una

vocazione più di medico o di confessore che non

d’inquisitore”9 sostiene Alberto Del Monte.

La psicologia di cui si sta parlando è quella dei

piccoli borghesi , di figure anonime schiacciate dalla

loro pena e dalla loro colpa .

Graziano Benelli in un suo saggio intitolato La

fortuna italiana di Georges Simenon nota che

“Anche gli assassini spesso sono privi di personalità

a tal punto che in più d’una occasione sembrano

aspettare il commissario così come si aspetta il

redentore”10.

Ciò ci porta a comprendere la piattezza della

vita di questi personaggi piccolo-borghesi il cui

“ritmo di vita che segue sempre lo stesso andamento

modesto e raccolto , privo di grandi drammi”11, non

può essere turbato neanche da un delitto.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ivi, p. 311.

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Elvio Guagnini afferma che “la produzione

simenoniana [è] incentrata su una visione cordiale e

su un’ analisi psicologica corposa dei meccanismi

del dramma umano ricondotto alla sua

quotidianità”12.

Un altro intellettuale di alto profilo che si

interessa a Simenon negli anni Trenta è Guido

Piovene .

Egli ne mette in luce pregi e difetti e lo situa tra

gli “scrittori artisti” e non tra gli scrittori

commerciali (anche Savinio si era espresso in questi

termini elevando il giallista belga al rango degli

scrittori degni di essere considerati tali in un articolo

dell’ottobre del 1936 uscito su “L’Italiano” dal titolo

Georges Simenon : “sono stato il primo a scoprirlo

come scrittore serio”13).

Piovene sottolinea la fortuna commerciale e la

celebrità di Simenon in Italia, apprezza le

12 E. Guagnini, L’ “importazione”di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni

Trenta e gli inizi degli anni Quaranta – appunti e problemi – , in Note

novecentesche, Pordenone, Ed. Studio Tesi, 1979 , p. 449. 13 A. Savinio, Georges Simenon, in “L’Italiano”, ottobre 1936.

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descrizioni d’ambiente e lo scandaglio della

psicologia dei personaggi operati dal belga .

I personaggi risultano credibili perché sono bene

inseriti nello specifico contesto sociale e situazionale

in cui si muovono.

Nel caso di Simenon, egli, attento osservatore

della realtà circostante, registra o meglio documenta,

dopo avere attentamente osservato, una caratteristica

marcatamente francese : il patriottismo.

Ed egli, un po’ come tutti gli intellettuali che

prendono una propria posizione verso qualcosa, si

serve della produzione scritta per esprimere il

proprio giudizio.

Benelli, nel suo saggio già citato su Simenon,

aggiunge che “il romanzo [simenoniano] altro non è

se non un’appassionata denuncia di un certo

esasperato nazionalismo presente nella cultura della

provincia francese”14.

14 Ivi, p. 312.

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Il romanzo poliziesco, basato sulla infrazione

dell’ordine e sul suo ripristino, presuppone

l’esistenza di un’autorità portatrice d’un principio di

giustizia, però “non sempre la detective fiction è un

prodotto della democrazia ma le convenzioni su cui

si basa risentono del contesto politico, al punto che il

poliziesco può prestarsi a veicolo di contenuti

eversivi”15.

Questa fu proprio una delle preoccupazioni di

Mussolini che culminarono nell’agosto del 1941 con

una disposizione, varata dal Ministero della Cultura

Popolare.

Il Minculpop ha disposto, per ragioni di

carattere morale, che la pubblicazione dei

libri gialli ,sia sotto forma di periodici, sia

di dispense, venga sottoposta alla sua

preventiva autorizzazione. Il Ministero ha

disposto inoltre che vengano ritirati dalla

circolazione non pochi romanzi gialli già

pubblicati e che giudica nocivi per la

15 M. Ascari, La leggibilità del male. Genealogia del romanzo poliziesco e del

romanzo anarchico inglese, Bologna, Patron, 1998, p. 30.

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gioventù. L’incarico di ritirare tali libri è

stato affidato agli editori stessi. Il

provvedimento è saggio e intelligente -

commentava “L’Assalto”di Bologna- . Era

ora di finirla con questo genere di bassa

letteratura improntata sull’apologia del

delitto16.

Tutto ciò segnò la fine del romanzo poliziesco

nell’Italia fascista.

Ma andiamo a ritroso.

Durante gli anni Trenta il fascismo colse la

portata sociologica del fenomeno rappresentato dal

consenso del pubblico verso il poliziesco, e la

censura limitò la produzione e la circolazione dei

gialli.

Il fascismo perse così l’occasione di magnificare

la propria polizia e la propria “giustizia”, ma anche

di porre l’accento sulla rappresentazione

pacificatrice della ricerca della verità (ricordiamo

16 “L’Assalto”, 30 agosto 1941.

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che quest’ultima è uno degli elementi preminenti del

personaggio Sherlock Holmes) nella letteratura.

Le regole che il regime dettò per coloro che si

fossero ostinati a scrivere gialli sono a dir poco

ridicole .

Eccole: l’assassino doveva obbligatoriamente

essere straniero, mai italiano; il detective non poteva

mai suicidarsi, era “autorizzato” a farlo solo

l’assassino che però, come è stato appena detto, non

doveva essere italiano; l’assassino non poteva

sfuggire alla giustizia (ma questa, come si sa, è una

delle regole fisse del giallo soggetta a infrazioni solo

in tempi recenti), il caso criminoso poteva essere

risolto solo tramite l’indagine ufficiale.

Queste norme limitavano enormemente la libertà

dello scrittore che, per creare opere interessanti ed

originali, deve poter ideare e concatenare gli eventi

narrativi a suo piacimento.

L’indulgenza con cui Mussolini guardò, nell’arco

degli anni Trenta, alla produzione di gialli italiani, si

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giustificava con le direttive di una politica culturale

autarchica, volta ad estromettere dal mercato

nazionale i “polizieschi” importati dall’estero.

E’ significativo a tal proposito un giudizio

espresso da Emilio Radius:

Il problema del romanzo giallo è un

problema autarchico ed è un problema

morale; se è destino che[romanzi gialli]si

debba scrivere anche noi, per non

importarne troppi e per non importare,

con la carta stampata, costumi, usi e

vezzi17.

* * *

Ma veniamo ora a documentare, dopo aver

tracciato la fisionomia del modello a cui

prevalentemente attinsero gli scrittori del periodo,

cioè Simenon, la presenza di un giallo italiano negli

anni Trenta, riferendoci a scrittori-giallisti come

17 E. Radius, Autarchia ed etica del romanzo giallo , in “Corriere della Sera”, 29

aprile 1939.

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81

Varaldo, De Angelis, Spagnol, e critici che

osservarono e fiancheggiarono l’evoluzione del

filone, come Aldo Sorani, Corrado Pavolini, Luigi

Chiarini, e ancora Guido Piovene e Alberto Savinio.

Ma procediamo con ordine .

Alessandro Varaldo, narratore, drammaturgo,

poeta ligure, esordisce nel 1897 con sonetti di gusto

simbolista e decadente.

Nei primi anni del Novecento, produce

commedie caratterizzate dai classici clichés della

letteratura popolare, dalla tematizzazione di

mediocri ideali borghesi, da un mieloso

sentimentalismo. In un’intervista concessa ad

Augusto De Angelis nel 1925, apparsa con il titolo

Ritratti a lapis:“I due Varaldo” su “Comoedia” il

15 luglio di quell’anno, lo scrittore ligure dichiara di

rifarsi alla letteratura popolare appendicistica :

Adesso sto per finire Il cavaliere errante.

E’ un romanzo cavalleresco anteriore

al Mille. Lo scrivo pacatamente,

continuamente, riprendendolo il giorno

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82

dopo, laddove l’ho sospeso il giorno

prima, proprio come se …leggessi

un’appendice che non fosse scritta da me.

- Ma l’ispirazione? [chiedeva De Angelis]

- Ah!L’ispirazione! Ma io l’ho

prima…prima di mettermi a scrivere. Sai

come scrivo i miei romanzi io? Tutti di

seguito, senza un pentimento.Una volta

una signorina mi chiese che cosa stessi

preparando per la stampa. Le dissi un

titolo qualsiasi, tanto per dire, di un

romanzo al quale avevo pensato

vagamente[…]. La signorina insistè per

conoscere la trama e io… le raccontai tutta

la vicenda del romanzo, inventandola man

mano che parlavo. E l’indomani cominciai

a scrivere quel romanzo che in un paio di

mesi fu terminato18.

E’ direttore generale della Società Italiana degli

Autori dal 1920 al ’28 e nel 1943 dirige l’Accademia

d’Arte Drammatica a Roma.

18 A. De Angelis, Ritratti a lapis: “I due Varaldo”, in “Comoedia”, 15 luglio 1925.

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83

Ma il nome di Varaldo è legato soprattutto alla

nascita del giallo nazionale: Il sette bello , del ’31,

inaugura la serie italiana della collana mondadoriana

“Libri Gialli”, che in precedenza era destinata solo

ad autori stranieri.

Il successo è strepitoso, addirittura 23.000 copie.

Varaldo opera un mixage tra il giallo classico e

l’intrigo spionistico d’ambientazione regionale,

calamitando i lettori anche grazie ad una sottile

ironia e a un certo buonsenso.

Nel luglio del ’32, sulla rivista “Comoedia” il

nostro giallista scrive un articolo che funge da

premessa ai suoi primi romanzi, intitolato Dramma e

romanzo poliziesco ; qui, l’autore precisa che la

letteratura gialla, nelle sue forme di dramma e

romanzo, è una novità assoluta e una pratica di

scrittura moderna.

In questo suo pezzo giornalistico, Varaldo pone

alla base del genere poliziesco un postulato da

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formularsi in questi termini : “impostato il problema,

bisogna fuorviare o distrarre le supposizioni ”19.

Varaldo continua ancora su questa linea :

C’è, ad esempio, un personaggio

misterioso? Il lettore si chiederà perché

l’autore lo ha messo lì. Deve avere una

ragione. Ma l’autore spesse volte ha usato

il personaggio misterioso appunto per

distrarre20.

Tornando alla produzione narrativa gialla dello

scrittore ligure, al Sette bello seguono Le scarpette

rosse e Tre catene d’argento, La gatta persiana e

La scomparsa di Rigel del ’33, Circolo chiuso del

’35, Casco d’oro e Il segreto della statua del ’36,

La trentunesima perla (raccolta di racconti che in

parte erano già usciti sul periodico mondadoriano “Il

Cerchio Verde”), e Il tesoro dei Borboni del ’38, Le

avventure di Gino Arrighi del ’39, Il signor ladro

del ’44, Alla ricerca di un tesoro scritto all’inizio

degli anni Quaranta e rimasto inedito fino al 1989.

19 A. Varaldo, Dramma e romanzo poliziesco , in “Comoedia”, luglio 1932.

20 Ibidem.

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Nel ruolo del detective, Varaldo fa alternare due

personaggi nati dalla sua penna: il commissario

Ascanio Bonichi e l’investigatore privato Gino

Arrighi.

L’inchiesta giudiziaria ha un ruolo centrale nella

sua narrativa.

Egli più che sulla logica analitica sherlockiana,

punta sull’intuito maigretiano, attestando così il

passaggio dal modello conandoyliano al modello

simenoniano.

Un’altra caratteristica varaldiana è l’originalità

della scrittura e dello stile: l’autore inserisce nei suoi

gialli locuzioni dialettali, citazioni, aforismi che

intercalano un dialogo vivace e brillante.

Sul piano ideologico, Varaldo si dichiara

neutrale nei confronti del fascismo (forse è proprio

questa la ragione per la quale può scrivere

nell’anteguerra), e assume un atteggiamento

apparentemente disimpegnato sul piano politico;

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atteggiamento che lo accosta a Simenon, o meglio a

Maigret.

Il tappeto verde e Scacco matto del ’33, Partita

in quattro del ’40 sono tre drammi gialli che

contengono gli elementi a cui si è fatto riferimento.

Il commissario Bonichi applica il metodo

deduttivo appreso “soprattutto dal suo dichiarato

modello di indagine poliziesca: Sherlock Holmes”21

ma sul piano della prassi investigativa egli

rifiutava ogni procedimento di tipo sia pur

vagamente scientifico, ironizzava sulle

statistiche e sulla psicologia, concordava

sull’opportunità di non far conoscere alle

masse le notizie sui delitti, era ciecamente

ossequioso alle gerarchie e, insomma,

proponeva un modello di comportamento

tanto rassicurante quanto culturalmente

piuttosto immobile, […], e [era] diffidente

nei riguardi di nuove e differenti forme di

civiltà; di qui le frequenti polemiche nei

confronti dei costumi americani, con

21 F. De Nicola, Varaldo,, il giallo e i manoscritti d’archivio, in AAVV, Il giallo

degli anni Trenta , cit., p. 167.

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qualche frecciata un po’ acida soprattutto

riguardo al divorzio e a certo

anticonformismo femminile22.

I gialli di Varaldo, seppur appartenenti ad un genere

sgradito al duce, circolarono fino al ’38 , anche se il

nostro scrittore non esaltava i fasti del regime e

alludeva anzi, sia pure velatamente, alle sue

disfunzioni.

Varaldo voleva essere un intrattenitore della

borghesia.

E allora quali furono le cause del suo progressivo

declino ?

Eccole: nelle sue storie poliziesche, soprattutto le

ultime, egli si era reso interprete di una società

inquieta e di uno Stato debole e corrotto.

Questi furono i motivi del suo tramonto come

giallista.

Nell’ultima stagione della sua carriera, Varaldo

si era aperto alle prospettive di quel giallo

“problematico” che nell’epoca fascista ha forse

22 Ivi, p. 168.

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l’esponente più significativo in Augusto De Angelis,

scrittore romano molto attivo tra la fine degli anni

Trenta e l’inizio degli anni Quaranta.

Egli difese anche in sede teorica quello che era

uno dei generi letterari più discussi e criticati

nell’Italia del tempo.

Nella prefazione al suo libro Le sette picche

doppiate che reca il titolo Il romanzo giallo.

Confessioni e meditazioni (Milano, Sonzogno,1940),

De Angelis ironizzava sull’ottuso e ipocrita

moralismo della società benpensante fascista :

C’è da tempo, sott’acqua, la questione

grossa se il “giallo” letterario sia morale o

immorale, se esso inquini le menti e le

coscienze e, soprattutto, finora s’è detto

soltanto che occorre proteggerne la

gioventù come dalla varicella o dal

morbillo. Ma può questo genere di

letteratura influire in senso malsano sui

lettori? Lo può, certo; ma non più d’ogni

altro genere letterario. Il romanzo giallo

può indurre al delitto? Oh, io non credo.

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Ma, ad ogni modo, per la stessa ragione e

con la medesima forza, i romanzi di

Bourget possono spingere le mogli

all’adulterio; quelli di Prévost le fanciulle

alla perversione; quelli di Zola gli uomini

all’abbrutimento. E perché non dire che le

commedie di Pirandello potrebbero

dolcemente, insensibilmente, per un

vialetto di rose e di anemoni, condurre

qualcuno alla follia?23.

De Angelis cercò in ogni modo di riabilitare,

affrancandolo dalle ipoteche moralistiche, il genere

letterario per cui divenne famoso, e si adoperò a

sollecitare il pubblico alla “degustazione” e

all’apprezzamento dei testi polizieschi.

Infatti un problema che De Angelis riteneva

fondamentale è il rapporto che ogni opera letteraria

instaura con i propri lettori.

La validità del giallo per il nostro autore sta nella

capacità del genere poliziesco di appagare le

richieste e i desideri dei lettori. 23 A. De Angelis, Il romanzo giallo. Confessioni e meditazioni , Milano, Sonzogno,

1940, p. 19

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De Angelis sostiene che il giallo ha

“un’impostazione funzionalista”24, che esso cioè

possiede una funzione sociale correlata alle esigenze

a cui viene incontro, ai bisogni e ai gusti che può

soddisfare.

Quindi è ai lettori che De Angelis si rivolge, e

non alle accademie dei critici, perché a suo avviso è

il pubblico il motore delle produzioni editoriali e

conseguentemente del successo o dell’insuccesso di

un’opera.

E’ veramente significativo che simili giudizi

siano formulati nell’Italia degli anni Trenta; De

Angelis conosce il mercato, le sue strutture e le sue

leggi quindi

il suo tentativo di collegare la nascita e la

diffusione del poliziesco nel nostro Paese

all’esistenza di un sistema di attese già

consolidato nel pubblico dei lettori delinea

una genealogia del giallo italiano25

24 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , in AAVV, Il giallo italiano degli

anni Trenta, cit. , p. 24. 25 Ibidem.

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che a partire dal 1929 si diffonde in Italia come

genere destinato ad un largo consumo.

“Forse mai come in questa occasione il pubblico

è davvero [così spiccatamente] il committente

dell’attività letteraria”26 afferma a ragione Gianni

Canova.

Ma anche se si ebbe un grande riscontro di

pubblico, la genesi del giallo nazionale risentì

pesantemente dei dettami imposti dal regime a causa

dei quali gli scrittori non poterono trarre nessuno

spunto da modelli stranieri.

In base a questi presupposti, si può affermare che

il giallo italiano, viste le sue caratteristiche di

artificiosità derivate dal fatto che non si poteva

attingere dai prototipi esteri più autorevoli per poi

operare quel processo osmotico che avviene

normalmente nell’arte, è un “caso da laboratorio”27.

Ovviamente è da comprendere la difficoltà dei

letterati costretti a fronteggiare una pressante

26 Ivi, p. 25.

27 Ibidem.

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domanda di pubblico desideroso di leggere un giallo

autoctono e condizionati dalle regole imposte dal

regime.

Il disagio dei nostri giallisti derivò dal fatto che

essi si videro obbligati a lavorare su un genere

totalmente estraneo alla tradizione nazionale.

La produzione letteraria italiana non aveva

antenati illustri quali Poe o Conan Doyle.

Il giallo italiano nasce indubbiamente sotto

il segno di una contraddizione: alla

presenza potenziale di un pubblico

quantitativamente esteso e

qualitativamente competente fa riscontro -

almeno in una primissima fase- l’assenza

di una adeguata e soddisfacente capacità

produttiva28.

Infatti “nel giallo italiano, vecchio e nuovo

convivono, modelli diversi si sovrappongono”29.

Quindi, essendo il giallo italiano “ un caso da

laboratorio” , non può non riflettere i difetti e i

28 Ivi, p. 26.

29 Ivi, p. 27.

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ritardi della società e della cultura di cui è

espressione.

Sono da considerare giustificabili pertanto

l’arretratezza e l’ingenuità degli autori che ebbero da

fare i conti con i cambiamenti apportati dalla

“modernità” che cominciava a farsi strada negli anni

del fascismo.

Nei primi romanzi polizieschi italiani si

predilesse un’ambientazione provinciale perché nel

nostro Paese le grandi città non avevano le

caratteristiche metropolitane, ad esempio americane;

quindi costruire una vicenda gialla prettamente

italiana ma di sapore statunitense, avrebbe dato un

risultato eccessivamente artificioso.

E’ significativo ciò che Savinio il 17 luglio del

1937 scriveva su “Omnibus” a questo proposito:

Il giallo italiano è assurdo per ipotesi.

Prima di tutto è un’imitazione e porta

addosso tutte le pene di questa condizione

infelicissima. Oltre a ciò, manca al giallo

italiano il romanticismo criminalesco del

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giallo anglosassone. Le nostre città

tutt’altro che tentacolari e rinettate dal sole

non fanno quadro al giallo né può fargli

ambiente la nostra brava borghesia30.

Ad esempio Tito Antonio Spagnol ambientò il

suo mistero La bambola insanguinata del 1935 nella

pigra e grigia provincia veneta.

Gianni Canova esprime il suo parere a proposito

dell’ambientazione del poliziesco autoctono :

Se è vero che il giallo è costitutivamente

legato alla “poesia di città” o a quella

“giungla d’asfalto” urbana che costituisce il

surrogato moderno della foresta in cui si

aggiravano i personaggi delle fiabe e i

cavalieri di ventura, in Italia bisogna

attendere l’ultimo scorcio degli anni Trenta

e soprattutto i romanzi di D’Errico e De

Angelis, per trovare le prime timide

presenze di un plausibile scenario urbano:

una Parigi intrisa di echi e di atmosfere

simenoniane nel caso di D’Errico; un

30 Il brano citato è riprodotto in R. Verdirame, Ogni pagina un’emozione , in G.

Padovani - R. Verdirame, L’almanacco del delitto. Storia e antologia del “Cerchio

Verde”, Palermo, Sellerio, 1996, p.263.

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Milano nebbiosa, allucinata e notturna in De

Angelis. Anche qui, tuttavia, la città è

mantenuta sullo sfondo31.

Gli autori appena citati preferivano ambientare le

loro storie in luoghi interni come il salotto, la hall

dell’albergo, il teatro o la sala da gioco. Lo spazio

chiuso era per loro il luogo prediletto del delitto.

Anche qui, il precursore si identifica con Poe.

Walter Benjamin, saggista e critico letterario

tedesco, notava negli anni Trenta come

la filosofia del mobilio come i suoi

racconti polizieschi fanno di Poe il primo

fisionomista dell’intérieur. I criminali dei

primi romanzi polizieschi non sono

gentlemen né apaches, ma privati

borghesi32.

Lo spazio chiuso è emblema di interni

claustrofobici, di atmosfere da incubo, di luci

soffuse e di melieux ovattati che fanno da sfondo a

crimini e delitti provenienti però sempre da fuori,

31 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , cit. , p. 28.

32 W. Benjamin, Angelus novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 154.

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dallo spazio ostile della metropoli che viene a

turbare l’intimità puritana degli interni borghesi.

Una delle cause dell’impopolarità del giallo

italiano è proprio l’ostinata ambientazione

provinciale, simbolo di un pigro concatenarsi di

eventi.

Procedendo all’enucleazione delle cause

dell’impopolarità del giallo italiano, se ne

potrebbero aggiungere almeno altre due.

Una è da attribuire al carattere grottesco che

spesso assume il personaggio del detective,

oscillante fra il dilettantismo e un narcisismo

eccessivo.

Anche qui si può riscontrare quella difficoltà nel

reinventare una tipologia che rientrava in canoni

riusciti in passato ma che doveva comunque fare i

conti con l’immagine di una polizia efficiente che

strizzasse l’occhio al fascismo.

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Stando però al regime, i criminali non esistevano

più e appena gravava il sospetto su qualcuno il

malcapitato finiva immediatamente in galera.

Oltretutto il detective privato era una figura

professionale quasi del tutto assente dall’albo delle

arti e dei mestieri socialmente riconosciuti nell’Italia

degli anni Trenta.

Quindi, in base ai mimetismi e alle ibridazioni di

cui si parlava poc’anzi, i giallisti italiani cercarono

di imitare i modelli di detective già conosciuti con il

risultato di produrre dei personaggi alquanto

inverosimili, improbabili o addirittura ridicoli.

Questi investigatori rasentano talora l’auto-

caricatura.

Basti pensare al personaggio di Curti Bò “metà

gnomo e metà clown”33, “figlio” di De Angelis.

Ma il pubblico, formatosi sulla lettura dei gialli

stranieri, non poté non rimanere deluso di fronte ad

investigatori-macchiette.

33 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , cit. , p. 30.

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Una terza causa dell’impopolarità del giallo

italiano è da attribuirsi alla tendenza “ad espellere

dall’intreccio romanzesco ogni componente cruenta

e sanguinaria”34 e nel conseguente annullamento

della presenza inquietante del cadavere.

Questo è un dato da non sottovalutare perché i

primi giallisti italiani intaccarono così lo schema

canonico del giallo di scuola anglo-americana.

Insomma la morte, infranto il tabù della sua

indicibilità, è il perno su cui ruota la vicenda

poliziesca, e la minimizzazione della sua presenza,

operata dai nostri giallisti, è quanto meno eccessiva

perché assiomaticamente il giallo evoca la morte.

Questa “pudica reticenza nell’affrontare la messa

in scena della morte”35 è ovviamente un quid

imputabile anche al perbenismo cattolico imperante

in Italia in quel periodo .

34 Ivi, p. 31.

35 Ibidem.

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Nel poliziesco italiano degli anni Trenta “non c’è

colpa e il giallo gira a vuoto su sé stesso”36 perché,

dal momento che non si poteva violare l’ordine

neanche nella narrativa, era superflua anche

l’esistenza di un cadavere; nel caso di una sua

blanda raffigurazione, esso veniva prontamente

neutralizzato mediante svariate strategie.

L’unica eccezione, per quanto concerne la

tematizzazione della morte e del cadavere è

compiuta dall’ outsider De Angelis.

E’ necessario ribadire che quest’ultimo è un

innovatore: il suo giallo è problematico e non

consolatorio.

Nei romanzi di De Angelis non esistono finali

rassicuranti e confortanti perché in essi la morte fa

da contraltare ad un mondo pullulante di

perversione e di corruzione.

L’autore svela l’ambiguità delle classi dirigenti

fra le quali impera una criminalità latente e dissolve

36 Ivi, p. 32.

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quell’aura di perbenismo etico e tranquillità

esistenziale che avvolgeva la borghesia fascista.

De Angelis opera un’estetizzazione dei cadaveri

e lo fa in chiave provocatoria: “ammira” il fascino

dei morti contrapposto alla repulsione suscitata dalla

cattiveria dei vivi .

Ne deriva una carrellata grottesca di personaggi

meschini, di “mostriciattoli deformi”37 che stanno a

rappresentare un mondo di vivi sgraziato, incapace

di equilibrio e misura.

E’ morbosa ovviamente anche la visione dei

morti che risulta di “gusto tardo-decadente”38; essi

vengono contemplati nella loro rigidità asettica.

Si diceva prima, della svolta innovativa impressa

da De Angelis al giallo italiano ormai alla soglia

degli anni Quaranta.

L’autore opera una “acculturazione del

poliziesco”39, cercando di soddisfare fasce di

37 Ivi, p. 35.

38 Ibidem.

39 Ivi, p. 37.

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pubblico intellettualmente più elevate, mediante

l’utilizzazione nella sua narrativa degli strumenti

analitici freudiani.

De Angelis attribuisce al suo commissario un

modo d’indagare di tipo semiotico, cioè consistente

nell’analizzare i segni; nella sua detection, De

Vincenzi ricerca “delle impronte psicologiche”40;

per “impronte psicologiche” si intendono le

“intuizioni”.

Questo processo, “rimanda all’attività

immaginativa che Poe aveva posto alla base

dell’indagine criminale”41.

Si può citare ancora questa osservazione tratta

dal saggio del critico Bruno Brunetti intitolato

L’analista e la parola:

La creatura di De Angelis reca ancora in sé

i tratti aristocratici del detective di Poe

circonfusi della malinconia che deriva

dalla loro inattualità, ma ostinatamente

40 B. Brunetti, L’analista e la parola , in AAVV, Il giallo italiano degli anni Trenta,

cit., p. 119. 41 Ibidem.

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presenti nell’abito severo di commissario

che De Vincenzi indossa42.

La tecnica investigativa di De Vincenzi ricorre

alla dialettica tra la verità e la sua apparenza, tra

indizi dietro i quali si nascondono false risposte e

modi di procedere accuratamente occultati che

portano al vero.

A chi avesse delle cognizioni anche parziali di

psicanalisi, questo metodo sembrerebbe assimilabile

a quello del procedimento indiziario freudiano, teso

alla scoperta della verità.

E’opportuno a questo proposito il riferimento

alla premessa di una delle opere più celebri di

Freud, Casi clinici (Il caso di Dora del 1905, Il

piccolo Hans, del 1909, Il caso dell’uomo dei topi

del 1909, Il caso di Schreber del 1911, Il caso

dell’uomo dei lupi del 1918) che è costruito

in una forma letteraria, quasi romanzata,

con una tecnica che permette un’estrema,

calcolata partecipazione al processo di

42 Ivi, p. 114.

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scoperta, tanto che qualcuno poté

paragonarla a quella dei gialli43.

Freud arrivava a scoprire la verità studiando

tracce che inizialmente potevano apparire banali o

irrilevanti.

Elvio Guagnini nel suo saggio L’

“importazione” di un genere : il “giallo” italiano

tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta

rapporta la tesaurizzazione della lezione freudiana

da parte di De Angelis al contesto socio-politico

opprimente dell’età fascista:

Augusto De Angelis doveva non solo

essere l’autore che avrebbe prestato

attenzione alla lezione della psicanalisi e

di Freud, a cogliere le dimensioni

dell’inconscio e dell’apparente

irrazionalità di certe azioni umane ma

anche quello che – in un’opera del 1936, Il

candeliere a sette fiamme – avrebbe

prodotto una sorta di spy story di

impostazione moderna, dove l’elemento

“poliziesco” veniva calato in una vicenda

43 S. Freud, Casi clinici 1905 / 1918 , Roma, New Compton , 1976, p. 7.

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di intrighi spionistici e politici

internazionali, e dove, al centro del

racconto, veniva posta l’osservazione dello

schiacciamento dell’individuo a opera

delle forze del potere e la riduzione dell’

”eroe” a macchina condizionata da forze

superiori e ineluttabili44.

Per il commissario De Vincenzi come per

Maigret, gli indizi sono fatti verbali “conditi” da

un’attenzione particolare verso la psicologia altrui;

grande importanza ha anche la concatenazione dei

fatti e, alla fine, l’insieme dei dati.

Nel giallo deangelisiano lo spazio del racconto è

costellato di tracce e segnali in un caos che solo il

cadavere, emblematicamente, può dirimere

rimandando al senso smarrito, e l’indagine è il

mezzo con il quale poter sanare il mistero.

Ma attenzione: non si cada erroneamente

nell’assimilazione del procedimento investigativo di

De Angelis a quello di Conan Doyle.

44 E. Guagnini, L’”importazione” di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni

Trenta e gli inizi degli anni Quaranta , cit. , p. 454.

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105

Infatti

la fiducia conandoyliana nel positivismo

razionalistico, nel sapere indiziario, nella

capacità di un detective virtuoso di

suturare gli strappi logici del mondo e di

illuminarne i misteri attraverso uno studio

comparato di tracce, indizi ed impronte

digitali, va letteralmente a pezzi45.

Simenon è ormai il modello preferito dagli autori

di gialli e la superiorità intellettiva infallibile

sherlockiana non suscita più interesse; con i piedi

piantati nell’amara realtà si va verso la via

dell’insicurezza, dell’inquietudine e della realistica

problematicità anche nella narrativa.

Sono queste le basi del giallo problematico di De

Angelis, che lascia sempre aperti turbamenti ed

inquietudini.

Caratteristiche totalmente diverse ritroviamo in

un giallista italiano che pubblicò alcuni dei suoi

racconti sul periodico mondadoriano “Il Cerchio

45 G. Canova, Il giallo italiano degli anni Trenta, cit. , p. 43.

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Verde”(a cui si è accennato prima e del quale si

parlerà più avanti): Tito Antonio Spagnol.

E’ particolarmente interessante una dichiarazione

di questo autore riferita al periodo della sua attività

narrativa compreso tra il ’34 e il ‘42 :

lavori di penna meno impegnativi […] mi

avevano procurato tanti lettori da

procacciarmi un (sic) pane: il che può far

meraviglia oggi , pensando che allora il

mestiere di penna fruttava solo a chi era

impegnato col fascismo, mentre io n’ero

stato fuori, anzi tenuto a vista46.

Tale nota autobiografica, che si trova nel testo

del 1970 dal titolo Memoriette marziali e veneree,

mostra quanto la narrativa italiana fosse

condizionata dal regime.

Ma quali erano le caratteristiche che

impensierivano il duce nel caso di Spagnol?

Certamente il suo esordio letterario poliziesco

all’insegna della matrice anglosassone e statunitense

46 T.A.Spagnol , Memoriette marziali e veneree , Milano, 1970, p.307. Ora in

L.Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit. , p.112.

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che, come sappiamo, era sgradita a Mussolini,

preoccupato del fascino che un prototipo straniero

avrebbe potuto esercitare sui lettori italiani.

L’esordio giallo di Spagnol fu segnato dall’

Unghia del leone, pubblicato per la prima volta a

puntate in Francia sulla “Revue Française” con il

titolo La griffe du lion, poi riproposto in volume

dalle prestigiose edizioni Gallimard nel 1932, infine

pubblicato da Mondadori nel 1934.

L’investigatore è Alfred Gusman, detective

privato newyorkese foggiato sul modello di Sam

Spade e Philip Marlowe ma dotato anche di capacità

abduttive sherlockiane.

Alcune avventure di Gusman appaiono sul

periodico “Il Cerchio Verde”.

Spagnol inventa anche un altro personaggio di

nome don Poldo, che ha caratteristiche differenti

dall’investigatore americano.

Gisella Padovani descrive le peculiarità del

prete-detective: “Spagnol conia il personaggio di

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don Poldo, addomesticando il padre Brown di

Chesterton entro gli orizzonti di un familiare

paesaggio campestre”47.

E’ opportuno ricordare che l’ambientazione

rurale era una caratteristica del giallo italiano degli

anni Trenta.

Sulla figura di don Poldo sono imperniati due

gialli pubblicati da Spagnol del ’35 e del ’36,

rispettivamente La bambola insanguinata e Uno,

due e tre .

In questa panoramica del giallo italiano degli

anni Trenta, si è più volte accennato al periodico “Il

Cerchio Verde”.

Il settimanale fu lanciato da Mondadori il 16

maggio del 1935; vi si poteva leggere

un’interessante narrativa gialla e articoli di cronaca

poliziesca.

Il periodico ebbe breve vita; si estinse nel

giugno del ’37.

47 G.Padovani , in G.Padovani - R.Verdirame, L’almanacco del delitto.Storia e

antologia del”Cerchio Verde”, cit. , p. 284.

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L’impronta nuova a questo tipo di

intrattenimento fu data dai vari direttori che si

avvicendarono: Mario Buzzichini, Gino Marchiori,

Giorgio Monicelli e infine Cesare Zavattini.

E’ interessante notare che all’interno del

“Cerchio” si poteva anche riscontrare la presenza di

scrittrici come Luciana Peverelli ed Elisa Trapani,

che introducevano nelle loro crime stories

l’elemento romantico con la speranza di allettare un

pubblico femminile attratto dalla lettura a tinte rosa.

Sulla copertina de “Il Cerchio Verde” risaltavano

foto di star hollywoodiane oppure disegni

raffiguranti dei “fermo-immagine” di scene violente

o macabre di immediata e forte presa emotiva.

Nacque così la prima rivista poliziesca italiana,

l’unica per molto tempo nella nostra nazione.

Nettamente differente era la situazione negli Stati

Uniti, dove negli anni Trenta circolavano già una

ventina di periodici polizieschi ispirati a “Black

Mask”, uno dei più famosi pulp magazine, che aveva

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avuto il merito di lanciare e di rendere noti scrittori

del calibro di Dashiell Hammett e Raymond

Chandler ma anche di aver dato vita all’hard boiled

novel (termine che, tradotto alla lettera, significa “

romanzo stracotto” e che trovò un equivalente

italiano nella testata del mensile di Longanesi “I

Libri che scottano”).

Ricordiamo brevemente quali sono le costanti

tematiche che connotano questo filone: i problemi

della società americana del tempo come la

criminalità organizzata, il proibizionismo e la

corruzione politica, rappresentati su uno sfondo di

violenza e azione.

In Italia la situazione del genere poliziesco era

diversa anche dal punto di vista del consumo e delle

vendite.

Su “Il Cerchio Verde” si dava ampio spazio ai

giallisti italiani ma anche ad autori stranieri di

grande richiamo come Agatha Christie, Edgar

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Wallace, S.S. Van Dine, Dorothy Sayers,

G.K.Chesterton, Ellery Queen, Dashiell Hammett.

Balza subito agli occhi l’assenza di Simenon.

Se non c’è dubbio che l’ideatore di Maigret

rientrasse nella rosa dei classici, tuttavia era difficile

frammentarne nel ritmo della scansione

appendicistica l’opera, una comédie humaine volta

all’analisi minuta dei moti dell’animo, tesa alla

ricostruzione di ambienti borghesi e del tutto aliena

dal sensazionalismo di cui i lettori erano avidi.

Non a caso, era ampiamente riproposto

l’immaginifico e fantasmagorico Wallace,

apprezzato per la presenza, nei suoi gialli, del

mystery e dell’elemento avventuroso ambientato in

una cornice esotica; queste prerogative gli

assicurarono un largo consenso di pubblico,

permettendogli di diventare una pietra miliare della

letteratura popolare.

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Altra punta di diamante nel panorama giallo

straniero era la mistress of crime per eccellenza:

Agatha Christie.

Su “Il Cerchio Verde” appaiono numerosi

racconti e romanzi a puntate sia di Agatha Christie

sia di Edgar Wallace; è da sottolineare la misurata

presenza di Conan Doyle che figura nella rivista in

questione solo con un testo dal titolo I sei napoleoni,

presentato dalla redazione come “novella inedita”

sul numero 44 del periodico.

Poc’anzi abbiamo enucleato le ragioni del

successo di Wallace; ora è doveroso dare risalto alla

Christie e al suo ingegno.

Nell’arco di tempo che intercorre tra il 1926 e il

1940, la scrittrice visse una stagione editoriale

intensissima scandita dalla pubblicazione della

maggior parte dei romanzi che avrebbero consacrato

la sua fama.

Con l’uscita di The murder of Roger Ackroyd,

prologo di questo fecondo periodo, e di Ten little

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niggers, prese il via la notorietà della Christie,

consolidatasi nel passaggio da

un periodo di apprendistato conandoyliano

all’appropriazione di uno stile personale

all’interno della detective novel all’inglese

ma anche e principalmente il progressivo

evolversi della ricerca di un’ottica

autonoma attraverso cui rapportarsi al

genere poliziesco, […], scagionandone i

prodotti migliori dalla diffamazione di

certa critica accademica48.

Giudizio che ben mette in luce l’importanza

dell’apporto conandoyliano alla genesi della

narrativa della Christie.

Un esempio calzante a tal proposito, è offerto

dalla prima opera della scrittrice inglese, The

mysterious affair at Styles , che in traduzione italiana

sarà Poirot a Styles Court ; questo testo del 1920 è

un poliziesco nella più schietta tradizione

sherlockiana, in cui l’appena concepito e

già ultrasessantenne Poirot appare

48 S. Albertazzi, Agatha Christie anni Trenta , in AAVV, Il giallo italiano degli anni

Trenta , p. 63.

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nient’altro che una caricatura del vanitoso

Holmes, mentre il suo aiutante, il fido

Hastings, risulta essere un Watson se

possibile ancor meno perspicace del

prototipo doyliano49.

Ora sarebbe interessante chiedersi perché la

Christie soppianta Conan Doyle e, in un certo senso,

lo oscura agli occhi del vasto pubblico.

Le ragioni sono svariate : Conan Doyle appare

sorpassato al lettore degli anni Trenta perché

l’ambientazione dei suoi gialli è ottocentesca e il

fruitore moderno vuole intrattenersi con letture di

sapore contemporaneo e quindi innovative; l’

audience è stanca di soffermarsi sulle “scontate”

investigazioni di sicura riuscita di Holmes, ha

bisogno di leggere qualcosa di più stimolante,

qualcosa che possa mettere in moto le proprie

facoltà critiche e non soltanto la passiva, inerte

ammirazione per le gesta sherlockiane.

49 Ibidem.

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115

In più, il lettore cerca anche nelle storie

poliziesche a cui si accosta, un’ambientazione

attuale che rispecchi gusti, costumi, miti, mode e

sogni del suo tempo e quindi , complessivamente,

l’atmosfera degli anni Trenta.

La borghesia è ,ancora una volta, la protagonista.

I primi scritti della Christie sono spiccatamente

conservatori, nel senso che “si configurano come

ineccepibili esemplificazioni narrative della

funzione restauratrice e reazionaria del poliziesco”50

e ciò significa che in essi “la ragione, l’ordine, il

metodo prevalgono inevitabilmente sulla confusione,

sul disordine, sull’irrazionalità che minano alla base

la società borghese”51; quest’ultima asserzione rinvia

ancora all’origine conandoyliana della narrativa

della Christie, per la quale “la giustizia si identifica

con il trionfo di un razionalismo positivista che non

ammette deroghe o dubbi”52.

50 Ivi, p. 64.

51 Ibidem.

52 Ibidem.

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116

Successivamente l’autrice inglese si distacca dal

prototipo conandoyliano dando un’impronta

personale ai suoi scritti con il ricorso all’ironia

dissacratoria.

E’ particolarmente interessante notare l’uso che

la Christie fa dell’ironia: se ne serve come veicolo di

critica della società e delle teorie del poliziesco

ortodosso coltivato dai suoi predecessori ai quali

ella, nei suoi romanzi iniziali, si era allineata.

La sua critica è rivolta “al marcio [che si cela]

dietro la quiete del buen retiro borghese”53 e

la Christie impone il suo modulo ironico al

lettore, imbrigliandolo al contempo in un

labirinto dal quale non potrà evadere se

non preso per mano da colei che lo ha

architettato54.

La mistress of crime adotta “una sorta di

espediente per vincere ogni volta la partita

53 Ivi, p. 65.

54 Ibidem.

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ingaggiata contro il lettore, pur seguendo

formalmente le regole del gioco”55.

Anche se la Christie rivitalizza i procedimenti

della detection con i personaggi di Hercule Poirot

e poi di Miss Marple, allontanandosi dai modi

conandoyliani, non si deve dimenticare che i due

investigatori appena citati sono l’emblema del

trionfo della razionalità e che “al colpevole che

sfugge la comunicazione come un pericolo e trova

sicurezza soltanto nel proprio caos mentale, Poirot

oppone l’apoteosi dell’ordine”56.

Un elemento particolarmente interessante da

sottolineare è che la Christie soprattutto per uno dei

suoi capolavori indiscussi, Ten little niggers (in

traduzione italiana Dieci piccoli indiani ), attinge dal

romanzo gotico di stampo radcliffiano così come

avevano fatto i suoi predecessori e particolarmente

Poe.

Così

55 Ibidem.

56 Ivi, p. 66.

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mentre il finale di Ten little niggers

obbedisce ai dettami del “soprannaturale

spiegato” radcliffiano, la scenografia

dell’attesa che pesa su ogni personaggio è

sostanziata dalla stessa angoscia

dell’ignoto che permea le pagine di The

mysteries of Udolpho o The Italian57.

Ritornando al giallo italiano, balzano agli occhi,

adesso le ragioni per le quali il giallo autoctono restò

impopolare, invischiato in elementi poco originali,

estrapolati da varie fonti e adattati in maniera

posticcia.

Anche Varaldo ricorse a “gli arnesi della fucina

gotica58” ma con il risultato di non essere mai

all’altezza dei “grandi” come Agatha Christie.

La creazione di ambienti e contesti tematico-

situazionali di marca gotica, è un espediente per

evitare la noia mediante il “sensazionale” che

accende l’attenzione del lettore.

57 Ivi, p. 71 – 72.

58 G. Padovani, Breve storia di un rotocalco poliziesco , in G. Padovani - R.

Verdirame, L’almanacco del delitto. Storia e antologia del “Cerchio Verde”,

cit. , p. 19.

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119

Il giallista scrive per vincere la noia

(esattamente come Horace Walpole

quando si accingeva a comporre Il castello

di Otranto), e il suo libro ha lo scopo di

lenire la noia del lettore e di riempire le

ore vuote della sua giornata59,

sostiene Loris Rambelli.

* * *

Nell’agosto del 1930, esce su “Pegaso” un

articolo firmato da Aldo Sorani, intitolato Conan

Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco.

In questo contributo, lo studioso sottolinea il

successo dei romanzi di Conan Doyle che “aveva

potuto vantarsi di aver rinnovato e rimesso in voga

un genere letterario e di averlo, anzi, imposto ad una

classe di lettori scelta più in alto di quella dei

portinai e delle cameriere”60.

59 L. Rambelli, Storia delle “giallo”italiano, Milano, Garzanti, 1979, p. 29.

60 A. Sorani, Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco , in “Pegaso”, agosto,

1930.

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Al poliziesco è così attribuita una nuova, inedita

dignità.

E’interessante inoltre la classificazione che

Sorani fa del variegato pubblico che si accosta ai

gialli:

Ora, come spiegare questa travolgente

mania del romanzo poliziesco? Per i

pessimisti , essa non è che il frutto d’una

progressiva perversione del gusto e d’una

decadenza della cultura; per gli ottimisti, è

il segno naturale d’un bisogno di

diversione (sic) e di svago. Per alcuni, è

l’attrattiva del delitto che si fa sempre più

pericolosa e inquietante; per altri, al

contrario, è la volontà di veder punito il

delitto e trionfante la giustizia che si fa

sempre più diffusa e imperiosa. Ma

occorre scender meglio a fondo del

fenomeno e della controversia. La

letteratura poliziesca risponde

evidentemente ai bisogni d’un pubblico

molto composito, che vi ricerca

soddisfazioni e sensazioni diverse. Ad una

certa classe di lettori, offre il suo mero

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contenuto sensazionale e romanzesco, la

voluttà del mistero e dell’avventura, il

brivido e il raccapriccio. Ad un’altra classe

di lettori, offre il semplice sfogo di

curiosità ch’offrono i complicati fatti di

cronaca e i resoconti dei tribunali.Ad una

classe più elevata di lettori fornisce il

divertimento del problema da risolvere, la

gara aperta delle induzioni e delle

deduzioni, il calcolo eccitante delle

probabilità e delle possibilità, la gioia degli

inseguitori di tracce e una specie

d’igienica ginnastica mentale. Ma ogni

classe di lettori trova nella letteratura

poliziesca una letteratura d’evasione, di

escape, come è stato detto, e il suo enorme

successo si spiega col fatto che una

umanità affannosa e senza riposo e

insieme standardizzata e meccanicizzata

(sic), sente sempre più il bisogno di uscire

dalla trita e inflessibile regola che la

costringe e la macina e di ritrovare nella

lettura una qualche irrealtà riposante, in

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122

cui distrarsi e dimenticarsi, in un’ora di

sosta…61 .

Sorani scagiona il genere letterario in questione

con quest’ affermazione :

Ma il trionfo della letteratura poliziesca

non è tanto il segno d’una decadenza

morale, quanto d’una rivolta contro la

monotonia d’una vita che rimane sempre

più vuota quanto più si riempie di

frastuono62.

Il critico aggiunge che il poliziesco si pone

contro le letture che non offrono un diversivo, come

“la letteratura soggettiva e introspettiva, che ha

raggiunto i limiti più insopportabili della noia”63, ed

esaltando le caratteristiche del poliziesco, egli

continua dicendo che “tutte le classi di pubblico

hanno trovato con sollievo nel romanzo poliziesco

una letteratura oggettiva, impersonale liberata

61 Ivi, pp. 218 – 219.

62 Ibidem.

63 Ibidem.

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123

dall’ossessione dell’ “analisi dell’io” e delle

“correnti di coscienza”64.

Sorani sostiene anche che molti scrittori e

scrittrici “d’ogni ceto, d’ogni cultura e d’ogni

levatura”65 si dedicano alla stesura di romanzi

polizieschi e che anche “le donne fanno a gara a

scriverne cogli [sic] uomini e vi eccellono in

America […] e in Inghilterra con Agatha Christie,

con Dorothy Sayers”66.

Molto rigido è però lo schema canonico del

romanzo poliziesco [che], differenziato dal

romanzo d’avventure, potrà variare sin che

vuole il tipo dell’eroe detective, e

aggrovigliare a beneplacito gli elementi

dell’intreccio, ma è costretto ad obbedire a

poche formule impostative [sic] e a

rientrare in pochi schemi d’investigazione

abusati67.

64 Ibidem.

65 Ivi, p. 217.

66 Ibidem.

67 Ivi, p. 220.

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Essendo un genere ipercodificato, “il romanzo

poliziesco è condannato a ripetersi, così che, anche

nel proporre il più misterioso e arruffato enigma,

minaccia di essere ormai tutt’altro che

enigmatico”68.

Per Sorani

Il vero e proprio romanzo poliziesco non

deve essere confuso col romanzo

d’avventure sanguinarie e terrificanti, non

accentrato intorno ad un problema

giudiziario o criminologico in genere, ma

costituito da una serie di avventure

criminali, il cui interesse è dovuto non

tanto ai procedimenti e ai metodi

investigativi usati alla ricerca del

misterioso colpevole, quanto alla

cinematografica successione di eventi

sensazionali69.

Sull’argomento interviene in quegli anni anche

un altro critico, Corrado Pavolini.

68 Ibidem.

69 Ibidem.

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125

Fiorentino, poeta, saggista, dal ’31 a ’34 diresse

“L’Italia letteraria”; fece parte dei giovani

intellettuali che si raccolsero intorno alla “Fiera

letteraria” negli anni Trenta.

Partecipò al rinnovamento imposto dalle

avanguardie del tempo anche in ambito

cinematografico e teatrale.

Tra le sue opere di quel periodo ricordiamo il

testo drammatico La croce del Sud , del ’30,

(Milano, Edd. Del Lunario), gli scritti saggistici

F.T. Marinetti (Roma, Formiggini, 1924), Cubismo,

futurismo, espressionismo (Bologna,

Zanichelli,1927) .

Su “L’Italia letteraria” del 18 ottobre del 1931

Pavolini scrive, in un “pezzo” dal titolo Non vi

lascerà dormire, del successo del poliziesco.

Egli riferisce un parere espresso da Antonio

Bruers, in un articolo su L’insegnamento dei

romanzi polizieschi apparso qualche giorno prima su

“L’Italia che scrive”; Bruers mette in luce

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126

l’ostruzionismo operato dal regime nei confronti del

giallo dicendo che

Non valsero a salvare il giallo dalla

censura , le ragioni di chi asseriva che il

racconto poliziesco non è immorale , anzi

rappresenta la lotta del bene contro il male

col finale trionfo dell’innocente e la

cattura del colpevole70.

Bruers inoltre osserva che il successo del

romanzo poliziesco è

considerato come una reazione da parte del

pubblico, alle zeppe dell’elucubrazione [e]

costituisce un richiamo per gli scrittori

narrativi alla legge fondamentale e

naturale del loro genere: raccontare con

semplicità71,

e aggiunge :

Da un secolo in qua l’arte, specialmente

quella teatrale e narrativa, tende al

mattone; bisogna alleggerire la forma e le

dimensioni. Se gli scrittori non sapranno

decidersi ad affrontare questa grande

70 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , in “L’Italia letteraria”, 18 ottobre 1931.

71 Ibidem.

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127

riforma il pubblico si getterà,

disperatamente, alla lettura del genere

poliziesco ed affine, mandando a farsi

benedire gli artisti, i quali specialmente nel

secolo del velivolo e della radio non hanno

il diritto di essere noiosi72.

Su questo argomento, aveva già preso la parola

Alessandro Varaldo nelle pagine dell’ “Almanacco

letterario” (Milano, Bompiani, 1930) :

Finchè scrivo sono il lettore di me stesso e

quando mi annoio penso che si

annoierebbe il vero lettore. Ecco perché fra

i difetti che mi riconoscono, mi si ammette

una qualità, quella di non annoiare73.

Sorani, un anno prima, aveva esposto le stesse

argomentazioni; anche per lui il ricorso al poliziesco

era come una ventata di aria fresca nella letteratura

che si era fatta ormai troppo greve e non vi era altra

possibilità d’evasione culturale per il pubblico se

non accostarsi a questo nuovo genere.

72 Ibidem.

73 A. Varaldo, in “Almanacco letterario”, Milano, Bompiani, 1930, p.15. Ora in

L.Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit., p.34.

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Pavolini, nel suo articolo Non vi lascerà dormire,

continuava dicendo che

nel romanzo poliziesco è enorme benché

inspiegabile, la suggestione di certi nomi

di personaggi o di località, metafisica la

consistenza d’individui “dai capelli rossi”

o “dalla mano destra con un dito tagliato”,

sui quali l’alone del sospetto inevitabile

getta una luce tutta speciale d’artificio, in

modo che l’intiera [sic] narrazione ne

risulta [sic] trasferita in un clima

d’eccezione, allucinatorio, che potrebbe

essere definito come la forma più

elementare ma più potente del

“novecentismo”74.

Anche il giallista Edoardo Anton (1910-1986)

disquisisce sulla centralità che il diagramma del

sospetto, con tutte le sue gradazioni psicologiche,

deve avere nell’intreccio, con un articolo intitolato

La letteratura poliziesca. Natura e cause del suo

successo apparso su “Quadrivio” il 26 novembre

1934: 74 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , cit.

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129

Pur tollerando gli inevitabili piccoli

sviluppi dell’azione, necessari alla sua

impostazione tecnica, il romanzo

poliziesco deve essere statico rispetto a

quello che accade, in quanto l’azione è già

stata cristallizzata nella rigidità di un

cadavere; la dinamica è invece

rappresentata solamente dal sospetto;

l’interesse è rappresentato esclusivamente

dal mutare continuo della posizione dei

personaggi nei confronti del sospetto75.

In ultima analisi è interessante notare, a

sostegno di quanto si è osservato precedentemente a

proposito dell’ideologia del regime, il piglio

xenofobo che si coglie in quest’asserzione di

Pavolini: “quella della letteratura “divertente” è una

mediocre invenzione mercantile dei francesi, ai quali

sarà cosa santa lasciarne senza invidia il beneficio

dello sfruttamento”76.

75 E. Anton, La letteratura poliziesca. Natura e cause del suo successo , in

“Quadrivio”, 26 novembre 1934. 76 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , cit.

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A tal proposito è opportuno riferire un altro

giudizio di Piovene che, sul numero 187 del

giornale milanese “L’Ambrosiano”, il 6 agosto del

’32 firma un importante articolo dal titolo Difesa

dei gialli, dichiarando che

certi sdegni e certe ironie della critica

teatrale maggiore di fronte agli spettacoli

gialli e al favore di pubblico da essi

incontrato, erano ingiusti. Non ho mai

detto né scritto che lo scopo dell’arte sia la

ricerca del favor popolare né che la

disgrazia della nostra letteratura sia la sua

scarsa popolarità, né che l’arte deve porsi

per ideale massimo il divertire, né altra

nessuna di queste volgarità che ancora

oggi corrono per le strade. Se mai, mi pare

di avere affermato la dignità dell’arte che

ha radici critiche e intellettuali. Ma proprio

di fronte agli spettacoli gialli, m’è venuto

di precisare un sentimento che si

manifestava in me come un disagio. Prima

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di tutto, non so capire perché certa critica

biasimi tanto gli spettacoli gialli77.

Il disagio nasce dalla diffidenza verso il nuovo ,

rappresentato dal giallo; infatti egli si rammarica

affermando che

la dignità dell’arte deve essere un post,

non un prius, un risultato, non un

preconcetto.

Se questo è vero, non vi dev’essere

scrupolo in un artista d’abito serio e

maturo se non di mettersi a contatto con

contenuti vitali ed universali78.

Tirando un po’ le somme, sembra interessante

riportare il commento dello studioso contemporaneo

Loris Rambelli riguardo allo snobismo del pubblico

colto degli anni ’30 :

I letterati italiani di allora, fatte pochissime

eccezioni (Piovene, Savinio), trattarono il

giallo con toni di sufficienza,

considerandolo come un vizio, un

capriccio della moda, un gioco della

77 G. Piovene, Difesa dei gialli, in “L’Ambrosiano”, Milano, 6 agosto 1932.

78 Ibidem.

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società e riservandogli gli spazi esigui e

marginali, che di solito si concedono a una

breve nota di costume, ma videro nella

fortuna del romanzo poliziesco una

risposta del pubblico alla “noia” della

letteratura “accademica”, che, deformata

da problematiche esistenziali e

introspettive, cercava di muoversi nel

solco tracciato da Proust e da Joyce79.

Quanto a Piovene, nel complesso la sua posizione

concorda con quelle di Sorani e di Pavolini che

insistevano nel considerare necessaria l’apertura nei

confronti del poliziesco.

Piovene insiste nel dire che “i nostri libri sono

pozzi di noia”80 e che

il rifiorire del teatro sarebbe

provvidenziale per noi: e soprattutto il

fluire, nel teatro e nel libro, d’una materia

viva da assimilare, che si mostri

interessante. Il teatro giallo, il libro giallo,

possono esserne un esempio81.

79 L. Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit. , p.213.

80 G. Piovene, Difesa dei gialli, cit.

81 Ibidem.

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133

Andando più nello specifico, Piovene continua

chiarendo che

l’assassinio, il sangue, l’indagine volta a

ritrovare il colpevole, sono uno tra i molti

argomenti di universale interesse, […],

perciò non si può vedere senza simpatia

quest’opportunità d’avvicinare l’arte ad un

argomento di così diffuso interesse, che

può permetterci di sentire, come suol dirsi,

il polso del pubblico82

e nuovamente si rivolge ai lettori con questa

esortazione: “Non rifiutiamo, ancora una volta

un’occasione di rinsanguarci”83.

Lo scrittore vicentino (che circa un quarantennio

più tardi, nel 1970, si sarebbe cimentato

personalmente, con Le stelle fredde, nella

costruzione di un romanzo incentrato su un mistero “

giallo”) non esita a calcare la mano in difesa dei

polizieschi:

ho considerato fin qui il teatro giallo

genericamente come materia viva,

82 Ibidem.

83 Ibidem.

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aggiungo che la materia, da esso fornitaci,

mi sembra particolarmente preziosa. E’

un’altra volgarità che la sua fortuna

dipenda da una certa tendenza al

sanguinario e al morboso […]. Chiedo, di

fronte a tanta predica sull’arte sana e sui

sentimenti normali, in che cosa mai essi

consistano per chi non è avvezzo a dir

parole senza senso84.

Piovene si mostra favorevole anche ai nuovi

indirizzi degli studi di psichiatria:

opera fondamentale della psicologia

moderna è la disintossicazione del

morboso e dell’eccezionale che ne è stato

spogliato d’ogni aspetto diabolico e buio

di cui, per così dire, s’è dimostrata la

normalità85.

E conclude il suo intervento con una definizione

del moderno statuto culturale del poliziesco:

la letteratura cosiddetta “gialla” ,

assimilata da un vero artista nei modi

nuovi che più gli siano confacenti, dà

84 Ibidem.

85 Ibidem.

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modo di unire queste esperienze essenziali

dell’arte recente, con quello studio e

filosofia del morboso [ cfr. Lombroso la

scuola antropologica positiva], che è il

principale tra i suoi contenuti. Per queste

riflessioni, […], ho voluto oggi

testimoniare la compiacenza che ho

provato assistendo alla fortuna del teatro

“giallo” e del libro “giallo”86.

In ultima analisi, è interessante notare l’attrattiva

che Edgar Wallace esercita su Piovene; lo scrittore

sostiene che

gli spettacoli gialli […] sono spesso

produzioni teatrali trattate con mano

maestra. Cito per tutti L’asso di picche del

Wallace , che recitato da una delle

compagnie migliori e più moderne negli

intendimenti che vadano oggi in Italia,

senz’altro è buona commedia, per

l’evidenza dei contrasti, per la graduata

tensione dell’intreccio87.

86 Ibidem.

87 Ibidem.

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Apologia dell’intreccio è il titolo di un articolo di

Luigi Chiarini, anch’egli critico d’anteguerra,

apparso il 4 febbraio del 1934 sul settimanale

romano letterario illustrato “Quadrivio”.

Chiarini dirigerà negli anni Trenta sia il

periodico menzionato, sia il Centro Sperimentale di

Cinematografia, di cui sarà anche il fondatore nel

1935, sia la rivista “Bianco e nero”, nel 1937; sarà

anche autore di sceneggiature e di studi critici sul

cinema, come Cinque capitoli sul film, del 1941

(Roma, Cremonese).

Il critico nel suo pezzo giornalistico sul

poliziesco osserva che “nell’odierna letteratura

narrativa italiana c’è la tendenza, non so se casuale o

volontaria, a sottovalutare quello che comunemente

si dice intreccio o trama”88.

E continua constatando come

l’intreccio, più o meno complesso, sia

considerato roba da romanzo d’appendice

o libro giallo e, insomma, fattaccio, che

88 L. Chiarini, Apologia dell’intreccio , in “Quadrivio”, Roma, 4 febbraio 1934.

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ogni scrittore, degno di chiamarsi tale,

deve scrupolosamente evitare89.

Chiarini insiste invece proprio sull’importanza

della trama, giacchè “l’intreccio, in un racconto o

romanzo che sia, è proprio come l’ossatura del corpo

umano”90 e ancora :

l’intreccio costituisce così non solo il

quadro, il limite entro cui il narratore deve

realizzare armonicamente la propria

ispirazione, ma la forza dinamica della

stessa ispirazione, quella che, per

intenderci, fa sì che il romanzo o il

racconto si leggano tutti di un fiato91.

Il critico apprezza l’intreccio canonico del

poliziesco, senza il quale le opere afferenti a questo

genere non avrebbero corposità.

Egli lo dice con insistenza in un altro punto del

suo articolo:

I romanzi e i racconti che veniamo ogni

giorno leggendo son quasi del tutto privi di

quello scheletro centrale che costituisce 89 Ibidem.

90 Ibidem.

91 Ibidem.

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quasi la materia grezza su cui lo scrittore

lavora.[…] Appaiono così, di sovente,

slegati, quasi incompiuti, come abbozzi o

disegni lasciati a mezzo e non offrono una

guida, direi un aiuto, al lettore,

stimolandone l’attenzione e l’interesse92.

Sull’importanza dell’intreccio, esprime il suo

parere anche lo scenografo Vinicio Paladini in un

articolo dal titolo Giallo apparso anch’esso su

“Quadrivio”, il 1° aprile del ’34:

Nel racconto giallo, lo scrittore è

chiamato ad impegnarsi nel montaggio

della vicenda più che nel contenuto. In

quest’ultimo, non è l’esigenza estetica, ma

un fine che potremmo dire sperimentale, a

muovere la scrittura93.

Alla discussione sul poliziesco prende parte

anche Ettore De Zuani che, con un articolo apparso

su “Quadrivio” l’11 febbraio del ’40, Il lettore di

gialli, attesta che il significato corrente del vocabolo

92 Ibidem.

93 V. Paladini, Giallo, in “Quadrivio”, 1° aprile 1934.

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“giallo” è “letteratura raccapricciante” o “del

terrore”.

Inoltre egli vede in Carolina Invernizio (1851-

1916), autrice di storie tenebrose e macabre come Il

bacio di una morta (1889) e La sepolta viva (1896),

la “mamma” dei libri gialli.

A tal proposito, De Zuani aveva intitolato

proprio La mamma dei libri gialli un suo pezzo su

“L’Italia letteraria” uscito il 28 agosto del’32.

Nell’articolo Il lettore dei gialli , il giornalista

scrive:

Da qualche tempo in qua si vuol tingere

tutto di giallo:è il colore di moda, il colore

della tragedia che fa rizzare i capelli in

testa, dell’incubo che non lascia dormire,

dello spavento che mozza il respiro e fa

venire la pelle d’oca. Una volta “giallo”

voleva dire “tango”: e color tango erano le

blusette delle signorine che la domenica

andavano a ballare ai circoli; adesso

invece “giallo” vuol dire brivido94.

94 E. De Zuani, Il lettore dei gialli , in “Quadrivio”, 11 febbraio 1940.

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* * *

Dopo avere rivisitato le fasi salienti della fortuna

del giallo nell’Italia degli anni Trenta e accennato al

suo temporaneo tracollo in seguito al provvedimento

fascista del ‘4195, già nell’immediato dopoguerra si

assiste ad una rinascita dell’interesse nei confronti

del genere in questione.

Infatti il 1946 è l’anno del rilancio dei “Libri

Gialli” Mondadori.

Cadute le remore autarchiche , però, il mercato

librario è invaso da romanzi inglesi, francesi,

americani, mentre si diffonde la moda dei “gialli

spaghetti”, scritti da italiani che imitano i modelli

95 Curiosa appare l’iniziativa dell’editore Nerbini di Firenze che, nell’estate del ’41,

accogliendo l’eredità della collezione mondadoriana, diede il via ad una nuova serie,

denominata “Romanzi del Disco Giallo”, che però non fu colpita dalla censura e

continuò a circolare indisturbata fin quasi al termine della guerra. La ragione di

questa “discriminazione” risiede nel fatto che i racconti gialli italiani, a causa della

confluenza di filoni narrativi vari – in questo caso la fiction d’investigazione e il

feuilleton – potevano non essere del tutto ascrivibili alla letteratura poliziesca. Il

Minculpop aborrì il giallo per le ragioni precedentemente elencate ma consentì al

romanzo d’appendice di circolare in modo che il lettore potesse colmare il vuoto

lasciato dal poliziesco. In altre parole, la letteratura feuilletonistica offriva al

pubblico emozioni analoghe a quelle del libro giallo, ma al tempo stesso, non creava

preoccupazioni al regime.

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d’oltreoceano e firmano con pseudonimi esotici per

accendere l’interesse dei lettori.

A tal proposito sembra interessante riprodurre

una testimonianza diretta sul successo riscosso dal

poliziesco nel nostro Paese a partire dalla seconda

metà degli anni Quaranta con la citazione di una

parte del saggio del critico Gianni Brunoro,

intitolato Guardando alle radici. Un itinerario di

auto-educazione nel giallo.

Lo scrittore riferisce la propria esperienza :

Stante la mia età (classe 1936), i miei

primi ricordi sul giallo risalgono agli anni

Quaranta dell’immediato dopoguerra. Mi

incuriosivano, allora, le assillanti letture

delle sorelle maggiori dell’amico e

coetaneo che frequentavo più

assiduamente. Ricordo la meraviglia che

mi coglieva ogni qualvolta la più grande

delle due tornava in bici dall’aver fatto la

spesa, e dal manubrio le pendeva una

sporta da cui spuntavano, immancabili,

due-tre libri gialli, che erano quelli

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Mondadori. E poi rimanevo ammirato

dall’ingordigia con cui le sorelle se li

divoravano e guardavo quasi con timore il

mucchio di quelli precedenti, via via

ammonticchiati in un’ampia nicchia del

muro. Devo dunque senz’altro a quelle

prime osservazioni la sensibilizzazione

preliminare, col susseguente interesse, per

un certo tipo di letture, appunto quelle

gialle. Ma benché i gialli mi incuriosissero

e attraessero, tuttavia avevo difficoltà ad

avvicinarmici. Il fatto è che in quel

periodo la mia generazione soffriva di

gravi condizionamenti culturali. Per cui

quei volumetti venduti all’edicola non

potevano costituire – e tanto meno per un

ragazzetto- vera cultura. La quale invece

non poteva passare se non attraverso dei

libri veri e propri. Insomma, la faccio

breve: la mia vera iniziazione al giallo

avvenne attraverso Edgar Allan Poe: e mi

rendo conto che, tutto sommato, migliore

di così non avrebbe potuto essere. Di Poe,

dunque, acquistai – in quella gloriosa e

meritoria collana che era la rizzoliana

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BUR – un titolo che mi pareva adatto alla

mia età, tredici anni, Racconti del mistero.

E lì, insieme a Lo scarabeo d’oro da cui

rimasi ovviamente affascinato, fui tuttavia

folgorato da altri tre, che erano i tre

capolavori rispondenti ai titoli di I delitti

della via Morgue, Il mistero di Maria

Roget, La lettera rubata. Era fatta, il mio

innamoramento per la letteratura del

raziocinio era scoppiato inarrestabile. Ma

soprattutto direi che devo a Poe la

seguente importante consapevolezza: che

se opere di tipo poliziesco- e così

piacevoli-avevano diritto di cittadinanza in

campo letterario (ciò è avallato dalla loro

presenza nella BUR), allora anche i gialli

delle edicole potevano in qualche modo

avere i loro quarti di nobiltà. La mia ottica

era cambiata. E quella vaga patina di

incultura di cui i gialli mi erano sempre

sembrati fino ad allora rivestiti veniva a

dissolversi per sempre96.

96 G. Brunoro, Guardando alle radici. Un itinerario di auto - educazione nel giallo ,

in “Delitti di carta”, n. 5, ottobre 1998.

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Ma bisognerà attendere il 1955 perché la

Mondadori si decida a proporre polizieschi firmati,

con il loro vero nome, da Franco Enna, Sergio

Donati, Giuseppe Ciabattini.

L’esperimento avrà però esito fallimentare, e i

giallisti di casa nostra torneranno a impegnarsi

soprattutto nelle contraffazioni dell’ hard boiled

statunitense.

Solo a metà degli anni Sessanta assisteremo

finalmente al costituirsi di un giallo con peculiarità

autoctone.

Il processo di rifondazione sarà innescato da

Giorgio Scerbanenco, che passando dal ruolo di

“narratore per signorine” a quello di “maestro del

thrilling” aprirà una via autonoma alla produzione

poliziesca nazionale.

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