II PPRROOCCEE SSSII EI INNSSEDDIAATTIIVVII MEEDIIOOEEVVOO

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“I PROCESSI INSEDIATIVI NEL MEDIOEVOPROF.SSA EMILIA SARNO

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 INTRODUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 L’INCASTELLAMENTO NEL MOLISE MEDIOEVALE (IX-XIII SECOLO) --------------------------------- 5

3 L’ABBAZIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ------------------------------------------------------------------ 13

3.1. L’AMBIENTE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 14 3.2. LA FONDAZIONE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 15 3.3. IL RUOLO DELL’ABBAZIA --------------------------------------------------------------------------------------------------- 18 3.4. LA TERRITORIALIZZAZIONE E I PAESI CIRCOSTANTI ALL’ABBAZIA -------------------------------------------------- 20 3.5. GLI SCAVI E IL PARCO ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 23

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 25

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1 Introduzione

In questa lezione si affronteranno le specificità dell’insediamento medioevale; in quel

periodo il bisogno di difesa e la disgregazione dei centri urbani favorì l’incastellamento e la

costruzione di monasteri e abbazie, due fenomeni illustrati dalle figure 1-2-3 che seguono.

L’incastellamento indica il processo di fortificazione su colline o monti di villaggi; si costruivano

spesse mura per difendere i borghi e al centro generalmente si costruiva una rocca o una torre. Da

questa consuetudine si vennero poi affermando i castelli come li conosciamo oggi. Oltre al processo

di fortificazione, la diffusione della religione cattolica diede impulso alla costruzione di monasteri e

abbazie; monaci e frati però non si preoccupavano solo della fede ma anche di aiutare le

popolazioni locali in difficoltà rappresentando un punto di riferimento socio-economico. Per trattare

in modo chiaro questi temi si presenteranno dei casi di studio specifici : l’incastellamento in Molise

e il ruolo dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno.

Fig.1 esempio di un borgo fortificato

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Figura 2 Struttura interna di un castello

Fig. 3 Struttura di un’abbazia

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2 L’incastellamento nel Molise medioevale (IX-XIII secolo)

I secoli dell’Alto Medioevo (VI-X) appaiono oggi sempre meno bui grazie agli studi

archeologici che chiariscono le peculiarità territoriali, le discontinuità e le persistenze, le contrazioni

degli insediamenti e i processi di riorganizzazione.

Se Rombai (2002) ricorda che in quel periodo «vari centri risultano più vivaci di Roma»,

infatti «nelle principali città padane (Ravena, Milano, Pavia e Verona), la vita municipale

continua», a sua volta, Rotili (2010) documenta la permanenza di città centro-meridionali.

«Fra VI e VII secolo viene selezionata una nuova gerarchia di centri di potere: se

emblematici, per l’area appenninica centro-meridionale, sono i casi di Spoleto e Benevento (…), nel

Molise il centro che assunse maggior rilievo fu molto probabilmente Bojano per le funzioni che le

furono attribuite quale sede di gastaldato in un primo momento, poi di contea» (Rotili, 2010, p.

154).

Le Goff (2011) ritiene che si possa parlare di vera e propria continuità delle città piuttosto

che di persistenza. Esse svolgono funzioni politiche, ma principalmente mantengono un continuo

contatto con il territorio per la loro stessa sopravvivenza. La presenza dei Longobardi, rafforzando

siffatta situazione, crea condizioni maggiormente favorevoli per le aree rurali.

In tal modo, se rimane indubitabile che la disgregazione causata dalla caduta dell’Impero

Romano e le invasioni barbariche impoveriscano la vita socio-economica della penisola italiana, la

rarefazione non è né unanime né uniforme. Peraltro, è stato messo in evidenza che proprio i gruppi

germanici avrebbero concorso ad un ripopolamento fondato su nuclei strutturati sia per motivazioni

difensive sia per la stessa sopravvivenza maggiormente garantita da unità insediative.

Come si accennava nel primo capitolo, il governo del territorio da parte dei Longobardi

appare oggi più complesso che in passato, anche perchè è stata messa a fuoco la specificità della

Longobardia meridionale. Ricostruendone le diverse fasi, si evidenzia come essa sia riuscita a

durare più a lungo radicandosi in una vasta area che coincide con tre importanti centri - Benevento,

Salerno e Capua - e abbia saputo mediare con i potenti Normanni. In una certa misura, la

Longobardia meridionale si caratterizza per la capacità politica dei suoi duchi e per la gestione

autonoma delle singole unità feudali (fig.4).

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Se la storiografia più recente ha superato il paradigma dei Longobardi nefandissimi, è

doveroso richiamare Paolo Diacono, che nella sua Istoria Longobardorum illustra cosa avvenne nel

Sannio nel VI secolo d.C:

«in quel tempo, Alzecone duca di Bulgari dopo aver abbandonato non si sa perché il suo

paese si portò pacificamente in Italia con tutti gli uomini del suo ducato e si presentò a Grimoaldo

(…). Il re allora lo indirizzò da suo figlio Romoaldo a Benevento con l’ordine di assegnargli un

territorio. Il duca Romoaldo lo accolse con benevolenza e pose a loro disposizione vaste estensioni

di terreno fino ad allora deserte, cioè Sepino, Boiano, Isernia e altre città con i loro territori e chiese

allo stesso Alzecone di cambiare il suo titolo di duca in quello di gastaldo ».

La testimonianza è avvalorata dalle tracce che i Bulgari hanno lasciato soprattutto nell’area

di Boiano. «Un primo nucleo aggregante di potere civile si forma nel Molise nel 667 con il

gastaldato che i duchi di Benevento concedono ai Bulgari di Altzeco venuti dalla Pomerania» (Lalli,

2003, p. 19).

Accade, dunque, che i Longobardi non mostrino inizialmente interesse per il Sannio, ma vi

indirizzino gli alleati Bulgari, mentre dall’840 in poi, quando duchi e gastaldi diventano sempre più

autonomi, essi decidano di essere maggiormente presenti, condividendo il loro radicamento con i

benedettini. Si vengono così affermando diverse contee; la prima unità feudale ha come centro

Bojano, poi, nel IX secolo, si costituiscono circa 34 contee delle quali almeno otto scelgono come

capoluogo, oltre la già citata Bojano, Isernia, Venafro, Sesto, Pietrabbondante, Larino, Termoli e

Molise .

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Se Rotili (2010) pone in evidenza il ruolo di Bojano ( fig.5), non deve essere tralasciato

l’esempio di Isernia dove è funzionale la sinergia tra volontà politica e sensibilità religiosa (Sarno,

2009b), dal momento che i Longobardi vanno ad inserirsi in una comunità consolidata .

Il controllo territoriale è reso possibile anche dal proselitismo dei benedettini. Nel 529 è

probabilmente fondata Montecassino e si diffondono celle e centri monastici benedettini nell’Italia

centro-meridionale (Visocchi, 2000). Infatti, vengono fondati altri due importanti monasteri: la

badìa di Santa Sofia a Benevento e l’abbazia di San Vincenzo al Volturno .

Benevento, che ha conservato nel periodo delle invasioni le funzioni urbane, diventa uno dei

centri principali tanto per i Longobardi quanto per i benedettini che qui fondano la chiesa e l’

abbazia di Santa Sofia.

Figura 5 Bojano nel periodo longobardo

Il raccordo tra la corte ducale e la città era costituito dalla chiesa di S. Sofia. Unitamente al

monastero essa diviene il cardine della crescita urbana di Benevento ma anche di un’ampia

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diffusione benedettina nei territori limitrofi, coerentemente al ruolo nevralgico che hanno le abbazie

in tutta Europa. Infatti, i servi di Santa Sofia, come si è accennato nel capitolo precedente, si

spingono fino all’odierno Molise centrale e fondano Campobasso.

Per l’area molisana, però, deve essere considerata fondamentale pure l’abbazia di San

Vincenzo al Volturno di cui si tratterà nella seconda parte di questo opuscolo.

Diversi studi hanno messo in evidenza anche l’importante ruolo che i monaci ebbero nel

rivitalizzare prima l’area circostante al monastero, poi nel ricostituire il tessuto insediativo del

Sannio, rendendoli sicuri entrambi con borghi fortificati. Come documentano il Chronicon

volturnense e le indagini archeologiche, diverse forme di insediamento si affermano sulle terre

dell’abbazia, ma finisce per prevalere la struttura del castrum come unità produttiva. Peraltro,

Wickham (1985), riprendendo gli studi di Toubert , ritiene che questa tipologia non sia una

caratteristica solo della valle volturnense ma dell’Italia centrale, dove prevale un processo di

incastellamento/accentramento voluto tanto dai potentiores, quanto dagli humiliores che avvertono

l’esi-genza di avere un centro di riferimento. L’incastellamento diventa insomma un modello di

organizzazione territoriale, favorendo la formazione di nuclei accentrati che danno vita all’

urbanesimo di villaggio.

«I villaggi, oltre a rappresentare una forma insediativa quanto mai razionale per un ceto

contadino che lavora su campi sparsi perché si sviluppano sopra il limite delle terre coltivate, con

facile accesso a queste e insieme al pascolo e al bosco, furono la sede in cui accumulare le scorte

alimentari, uno spazio privilegiato per la produzione, la riparazione e lo scambio degli utensili, per

la commercializzazione» (Rotili, 2010, pp. 194-195).

Il processo di riorganizzazione territoriale si giova sia della vocazione religiosa dei monaci

sia dell’impegno di abati, duchi e aristocratici longobardi, intenti a costruire la propria potenza

tramite il possesso fondario.

Tale organizzazione insediativa, che è coeva al graduale aumento della popolazione a

cavallo del Mille, si traduce in un ampio processo di fortificazione dei villaggi e dei diversi nuclei

insediativi. Se l’incastellamento si realizza in gran parte dell’ Europa, nell’Italia centro-meridionale

però esso non mette in crisi i piccoli villaggi e il sistema curtense, perché va a rafforzare primitive

unità insediative già accentrate.

I Longobardi favoriscono la formazione di borghi fortificati e la costruzione di torri; inoltre,

nel IX secolo d.C., nel momento in cui il loro regno si smembra, il processo iniziale si rafforza,

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gestito non più da un potere centrale ma periferico. Se all’arrivo essi utilizzano i centri esistenti, dal

IX secolo si assiste alla fondazione di numerosi borghi in Puglia, come Risceglie, Terlizzi, Lavello,

Conversano, in Calabria come Bisognano, Malvisto, Laino, Cassano, in Campania come Calvi,

Caserta, Ariano.

Tra il IX e il XII secolo un ampio processo fortificatorio è documentato in Molise. Nel IX

secolo sorgono castella nell’area volturnense ma anche in altre, come dimostra la fondazione di

Campobasso. Nel X secolo è ancora attestata la fortificazione intorno all’abbazia, mentre nell’XI

piccoli borghi sono fondati nella zona montana settentrionale, riutilizzando i siti sanniti, o alle

pendici del Matese. Nei secolo successivi la riorganizzazione del regno voluta dai Normanni

favorisce un’ulteriore e diffusa implementazione di borghi murati e fortificati (figg.6-7).

Figg.6-7 Esempi di fortificazioni normanne

Come chiarisce Duby, «in assenza di ogni dato statistico, è ben difficile, all’interno

dell’ampio momento di crescita, distinguere fasi particolari (…). Tuttavia, si è tentati di riconoscere

negli anni Ottanta del XII secolo i segni di un’importante modificazione qualitativa e (…) di una

delle svolte principali della storia economica europea» (Duby, 2004, p. 333).

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La svolta, che non è solo economica ma complessivamente socio-demografica, favorisce

nuove fondazioni nell’ hinterland di Campobasso: Limosano, Castellino del Biferno,

Campodipietra, Cercemaggiore, Campochiaro. La toponomastica è una spia utilissima nel

riconoscimento di queste trasformazioni territoriali per la frequenza dei lemmi castrum e castellum,

ma non si deve tralasciare la consuetudine, longobarda prima e normanna poi, di scegliere

denominazioni inerenti al territorio ed ecco la diffusione di lemmi come campus o pietra, tipici per

quest’area.

La difficile orografia del territorio fa adottare soluzioni adeguate allo spazio naturale, alle

caratteristiche geomorfologiche, sfruttando anche eventuali insediamenti precedenti, senza in alcun

modo trascurare una politica difensiva. Si concretizza così la suggestione di Lucio Gambi:

«Ma al di là dell’uomo dell’ecologia, vi è l’uomo della storia: che non può negare il valore

del primo - come realtà naturale - e anzi lo lascia svilupparsi secondo i suoi canoni, i suoi ritmi, i

suoi bisogni; ma insieme lo ingloba in sé e (pure in diversa misura da caso a caso) lo domina e lo fa

agire» (Gambi, 1972a, p. 151).

Come ha chiarito Gabriella Di Rocco (2009), si possono distinguere in Molise quattro

tipologie di fortificazioni: il recinto fortificato, il borgo murato, il borgo con castello-residenza, la

torre isolata senza cinta muraria. L’origine di molti insediamenti molisani si ricollega quindi al

fattore della difesa e al tipo di agglomerato urbano alto-medioevale, da alcuni denominato borgo-

forte, da altri castrum. L’impianto, costituito essenzialmente da una torre posta al centro del recinto,

viene adottato anche per Campobasso.

Il castrum si impone come l’unità insediativa prevalente dal X secolo in poi (Visocchi,

2000), anche perché esso è tanto l’esito di un processo fortificatorio quanto l’elemento primitivo da

cui poi si sono sviluppate le città medievali (Le Goff, 2011).

Nell’area molisana i processi fortificatori sono avvenuti gradatamente e si sono evoluti nella

forma e nell’organizzazione. Come chiariranno i documenti discussi nei prossimi paragrafi,

Campobasso, da tenimento agricolo, difeso da un castellum posto su un’altura, si struttura

successivamente in castrum, quando l’occupazione normanna, tra il XI e XII secolo, garantisce una

certa stabilità all’ Italia meridionale.

I Normanni si impongono reprimendo le spinte autonomistiche dei signori locali. L’

occupazione si accompagna ad un’opera di fortificazione così puntuale che essi introducono i

castelli nelle città come caratteristica originale del loro processo di territorializzazione. In tal modo

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controllano il territorio e contrastano la frammentazione delle contee e dei gastaldati. I Normanni

istituiscono qui solo due contee - La Contea di Loritello e la Contea di Molise - e fortificano il

territorio.

Campobasso in questo frangente è un piccolo castellum dipendente dalla contea di Bojano,

ma “ proprio tra i Normanni che combattono contro le truppe papali nel 1053 troviamo Rodolfo di

Molise, bovianensis comes” (G. De Benedittis, 2008, p. 35). E’ il primo riferimento ai feudatari che

formeranno una primitiva unità feudale nell’XI secolo nell’odierno Molise centrale e faranno di

Campobasso il loro centro politico. Intorno al 1150 il Conte Ugo de Molisio, definito «dominus

noster Ugo comes molisianus », risulta il Signore di un esteso territorio, che va da Isernia e

Venafro fino a Trivento e Guardialfiera (fig. 8).

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L’area sannitica acquisisce il nome dei conti de Molisio e la contea da espressione

geografica diventa un’unità feudale. Non vi è certezza da quando Campobasso sia diventato il

centro più importante, ma sicuramente dopo il 1144.

Gli scarni documenti hanno aperto la strada a diverse congetture e supposizioni, ma è

necessario porre dei punti fermi: tra la fine dell’ XI secolo e gli inizi del XII i de Molisio emergono

tra i potentati locali e determinano il cambiamento toponimico per cui la loro unità feudale non è

più denominata Sannio, ma Mulisium/ Molisio. Campobasso corrisponde alle scelte politiche dei

Normanni, pronti ad operare un puntuale controllo del territorio, che l’altura del Monte Bello

facilita. Essi peraltro mirano a ridimensionare Bojano, favorita dai Longobardi . Il merito della

famiglia de Molisio, che lascia un imprimatur perenne, è, quindi, significativo e il loro potere è

ridimensionato successivamente da Federico II.

I Normanni portano a compimento tanto il processo di fortificazione quanto la diffusione del

feudalesimo come pratica socio-politica, entrambi fattori particolarmente significativi per il futuro

di questo territorio, che, al pari di altre aree geografiche, nei secoli a cavallo del Mille, ricostituisce

il suo tessuto umano e insediativo; tuttavia, sempre qui, a differenza di altri contesti, non viene

rispettato il criterio della persistenza o della continuità degli insediamenti, pur sostenuto da

autorevoli studiosi, poiché ragioni politico-militari fanno valorizzare Campobasso e il Molise

centrale (fig. 9).

Figura 9 Campobasso medioevale

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3 L’abbazia di San Vincenzo al Volturno

Il sito archeologico dell'antico insediamento monastico di San Vincenzo al Volturno è, da

alcuni anni, al centro di una particolare valorizzazione per il rilievo che l’abbazia ebbe nel

Medioevo e per aver conservato, dopo il suo declino, il ruolo di icona territoriale. L’abbazia è

ubicata, in Molise, a circa venti chilometri dalla città di Isernia, nei pressi delle sorgenti del fiume

Volturno, fiume storico della nostra penisola, in un’area compresa nel territorio di due comuni

limitrofi: Rocchetta al Volturno e Castel San Vincenzo, per precisione nel punto più stretto d'Italia,

dove la distanza tra la costa del mare Adriatico e quella del mar Tirreno è di circa 160 km². Il sito è

facilmente raggiungibile perché è nei pressi della superstrada che conduce a Roccaraso, sia per chi

viene da Roma, sia da Napoli. Ha, inoltre, il vantaggio di essere posto ai margini del Parco

Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise e completa un percorso storico di un’ampia sezione

naturalistica. E’, dunque, un sito, interessato da tempo dal recupero archeologico, ma ha il merito di

aver impresso segni identitari nel territorio circostante, in sinergia con il Parco Nazionale (fig. 1).

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3.1. L’ambiente

In un’area naturalmente protetta, tra le Mainarde e il massiccio del Matese, nella piana di

Venafro dove scorre il Volturno, fu fondata l’antica abbazia di San Vincenzo al Volturno (fig. 2).

Le Mainarde giocano un ruolo fondamentale: naturale confine e difesa, ma anche esempio di

particolare bellezza. Sono un raggruppamento calcareo che segna il confine del Molise con il Lazio

e l’Abruzzo. E’ una successione di cime digradanti con più dorsali verso la valle del Volturno

formando una sorta di ampio triangolo di circa 10.000m, con quote superiori ai 1000 e con vette

rispettabili come Monte a Mare (2147m) e la Metuccia (2050m).

La loro composizione è principalmente costituita da calcari, con qualche interposizione

dolomitica. Hanno subito modellamenti fluvio/denudazionali per la caduta delle piogge, di tipo

carsico, per lo scioglimento dei calcari, e per la formazione di cavità profonde dovute al ritiro dei

ghiacciai.

Mentre nelle parti più alte della catena è il regno delle praterie d’altitudine, in quella

medio-alta sono presenti vaste foreste di faggio; ancora più in basso si diffondono ampi boschi di

cerro. Per ciò che concerne la fauna sono incontrastati protagonisti l’orso bruno marsicano e il lupo

appenninico, ma anche il camoscio d’Abruzzo, il cervo e il capriolo. E’ un ambiente

sostanzialmente integro, arricchito dalla presenza di piccoli insediamenti o delle tracce di antiche

colture.

Con grazia le cime digradano verso la valle del Volturno, uno dei fiumi sacri dell’Italia

meridionale. Il Volturno nasce dal Monte Azzone a Rocchetta, attraversando il territorio molisano

nella piana di Venafro, e dopo circa 45 chilometri entra in Campania. Sgorga da numerose e ricche

sorgenti denominate Capo Volturno, poco distanti dalla abbazia, formando un vero e proprio

reticolo idrografico con i suoi affluenti come il Vandra, il Carpino, il Lorda, il Ravindoli, e il S.

Bartolomeo (Rocco A., 1982).

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Le fonti del Volturno, pur se imbrigliate, rappresentano ancora oggi un luogo di grande

suggestione e ispirazione, secondo l’immagine dell’archeologo Amedeo Maturi « in mezzo ai filari

di pioppi, alla pace delle sorgenti chiuse all’interno da un muro come entro il peribolo di un tempio

».

Le montagne hanno creato le condizioni della difesa e dell’accoglienza in un territorio

fertile e ricco d’acqua, protetto dalle Mainarde e peraltro raggiungibile da diversi punti, tanto dal

Tirreno quanto dall’Adriatico, peraltro non lontano da Roma. Perciò, nell’area occidentale della

regione Molise, appunto delle Mainarde e della valle dell’Alto Volturno, al confine con l’Abruzzo

(Prezioso M., 1995), fu fondato uno dei più importanti centri monastici del Medioevo.

3.2. La fondazione

Le prime vicende dell’importante abbazia di San Vincenzo al Volturno sono descritte nel

codice miniato Chronicon Vulturnense , conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, e

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pubblicato presso l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo fra il 1925 ed il 1938 dal Federici. La

cronaca fu redatta da un monaco di nome Giovanni intorno al 1130, quando ormai il declino era

cominciato.

Alle origini della fondazione, nei primi anni del Settecento d.c., vi sono tre nobili

beneventani, Paldo, Tato e Taso, alla ricerca di un luogo per pregare e, consigliati dall’abate

Tommaso di Farfa, si recano presso le sorgenti del fiume Volturno dove esisteva un oratorio

diroccato. La dimensione leggendaria delinea i rapporti territoriali e la trama da cui prende origine

l’abbazia: S. Vincenzo è il risultato di convergenze tra Benevento e l’ampia diffusione di celle

benedettine nell’area molisana.

«Dalla via Latina, a nord di Cassino, si distaccava sin dall’epoca romana una strada che

saliva ad Isernia ed Aufidena nel Sannio, in un luogo stretto tra il Matese e i monti dell’Abruzzo e

tagliata dal Volturno. In questa località sorse una delle più importanti comunità religiose del

periodo: l’Abbazia di S. Vincenzo al Volturno, il cui primo nucleo risale all’VIII secolo» (Leone R.,

1979, p. 207).

Il monastero è, quindi, una fondazione aristocratica longobarda avviata nell’VIII secolo, in

concomitanza con l’espansione benedettina, rappresentando, come altre abbazie, «un possente

tramite di cultura religiosa e agraria» (Rombai, 2002, p.160). Nell’Italia centro-meridionale, il

ruolo dei Longobardi nel favorire tali fondazioni è stato rilevante (Bencardino F., 2000), ad

esempio, nell’area del Matese campano (Celio L.R., 2000).

La dedica a S. Vincenzo è oscura, ma può darsi che le reliquie del Santo appartenessero ad

un martire dell’Italia centrale al quale era dedicato l’oratorio preesistente. I tre monaci non sono

dunque miracolosamente giunti nel sito, ma per una confluenza di interessi e per la vocazione

benedettina di scegliere una località protetta e fertile. Lo sviluppo procede a tratti, ora facilitato

dalla crescita demografica dei monaci, ora danneggiato dalle invasioni saracene e dai terremoti

(fig.3).

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Viene, dunque, a formarsi prima la sezione denominata San Vincenzo Minore: la primitiva

chiesa abbaziale costruita riutilizzando materiali preesistenti. Il vero sviluppo avviene all’inizio del

IX secolo quando su iniziativa dell’abate Giosuè questa piccola realtà diventa una città monastica.

Si avvia un ambizioso progetto per l’edificazione di una nuova chiesa abbaziale: San Vincenzo

Maggiore con pianta basilicale interamente decorata da affreschi e perfettamente pavimentata.

«Alla fine dell’VIII secolo il cenobio, con un piccolo chiostro situato a sud di esso, occupava

un’area di mezzo ettaro ed ospitava poco più di 100 monaci. La situazione cambiò totalmente

all’inizio del IX secolo quando, su iniziativa dell’abate Giosuè, si decise di avviare un progetto di

carattere urbanistico» (Marazzi F., 2002, p.22).

In base alle ricostruzioni effettuate , l’area di S. Vincenzo Minore era costituita

dall’omonima chiesa, dalla chiesa di Santa Maria in Insula, la cui cripta è ancora di intatta bellezza,

il Cortile degli ospiti, il grande refettorio e la Sala dei Profeti. L’area di S. Vincenzo maggiore era, a

sua volta, costituita dalla basilica di S. Vincenzo Maggiore, una piccola chiesa dedicata a Santa

Restituta, le Torri Campanarie, le Officine degli artigiani (fig.4).

L’estensione comporta la costruzione di officine, di impianti produttivi per realizzare

oggetti di varia natura utili al consumo e alla vendita: « producevano anche oggetti di pregio, come

manufatti di metallo argentato, valorizzati dalla presenza di smalti cloisonnés, dell’incastonatura di

pietre preziose e gemme e, infine, dall’inserimento di tarsie eburnee, rilavoravano anche il corno,

l’osso e l’avorio» (ibid., p.30). Lo sviluppo è completo nel X d.c. quando gli studiosi ritengono che

vi fossero circa 350 monaci, l’area utilizzata era una superficie di circa un quarto di chilometro

quadrato comprendente nove chiese e diverse officine.

Come per altri centri simili «il monastero curava i rapporti col mondo esterno nella

cosiddetta domus inferior, un complesso di locali edificati di solito nelle adiacenze dell’accesso

principale ed ospitanti alloggi per i pellegrini (…). Il complesso dei locali costituenti la foresteria

era accuratamente scostato dalla domus superior o alta dove la comunità dei monaci, protetta dal

contatto umano o impuro, nel silenzio, si raccoglieva» (Incani Carta C., 2000, p. 398).

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Tanto sviluppo fu continuamente contrastato dalle scorrerie saracene, fu coinvolto dalla lotta

tra monaci fedeli ai Longobardi e quelli favorevoli ai Franchi, dai terremoti, infine dagli attacchi

dei Borrelli, una famiglia locale che divenne un vero e continuo pericolo. Per questi motivi, l’intera

area era soggetta a distruzioni fin quando, nel XII secolo, l’abate Gerardo trasferì il monastero in

una posizione più difendibile, ad est del Volturno e la nuova costruzione fu effettuata utilizzando i

materiali preesistenti. Questa decisione rappresenta l’estrema difesa, ma anche il segno evidente del

declino e San Vincenzo, di proprietà di Montecassino , finirà per essere avvolto da un alone di

silenzio.

3.3. Il ruolo dell’abbazia

I recenti scavi hanno interrotto il lungo silenzio e hanno dimostrato che San Vincenzo ha

svolto un ruolo importante nell’Alto Medioevo, anticipandone, anche rispetto ad altri monasteri, le

nevralgiche funzioni territoriali, politiche ed economiche. La ricostruzione sia pure virtuale

dell’abbazia da un punto di vista strutturale consente di studiarne precisamente l’impianto, « come

qualsiasi storico dell’architettura può confermare, la forma di questi importanti centri rimane

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sconosciuta, descritta solo dai contemporanei con resoconti imprecisi e incoerenti. Ora c’è

un’eccezione: San Vincenzo» (Hodges R., 1982, p.199).

I cospicui resti fanno comprendere il rilievo delle strutture monastiche nel Medioevo, pari

a quello delle città nell’età antica. Intorno ai luoghi di culto vi erano edifici, officine, refettori per

gli ospiti; ancora vigne e campi coltivati. La superficie utilizzata dà pienamente il senso

dell’importanza che si traduceva in un ruolo centrale dal punto di vista politico.

L’altro elemento caratterizzante il monastero è nella sua stessa posizione territoriale: gli

abati dovettero mediare tra il potere longobardo e quello carolingio e scelsero un ruolo

sopranazionale, come spartiacque tra due sfere d’influenza. San Vincenzo, infatti, vanta una

tradizione di relazioni politiche, difatti Marazzi (2002) ritiene che solo tra il IX-X secolo l’influenza

carolingia fosse consolidata e San Vincenzo ne diventasse una sorta di avamposto nell’Italia centro-

meridionale.

Gioca, inoltre, un ruolo rilevante a scala locale, perché favorisce il popolamento del

Molise, tra l’VIII e il X secolo, con la diffusione di celle benedettine e di luoghi di culto che

rappresentano le basi per lo sviluppo insediativo nel Medioevo.

«Nel Molise la regola dell’ordine benedettino era predominante, perciò la maggior parte

delle opere architettoniche furono edificate dai monaci di quell’ordine o di ordini affini -quali i

Celestini di s. Maria di Faifula-, sempre riuniti in complessi monastici. Ricordiamo, per esempio, le

chiese di S. Maria del Canneto –Roccavivara- e S. Maria della Strada Matrice, che come le altre

Abbazie conobbero il massimo splendore durante tutto il Medioevo» (Leone R., 1979, p. 207).

E’ così favorito, tra il IX e l’XI secolo, un ampio processo di ripopolamento e di

dissodamento di terreni incolti, tale da lasciare segni ben visibili di questa espansione nei dintorni

dell’area dell’abbazia. «Nel tardo Medioevo alla centralità religiosa e socio-economica del

monastero si affianca il castello, spesso in un intenso rapporto con l’istituzione monastica »

(Bencardino F., 2000, p. 415) e San Vincenzo non fa eccezione, perché gli abati consentono ai

famuli di lavorare le terre circostanti e di ottenere, sotto la presenza vigile dei monaci, la libertà di

fondare castella ( Del Treppo M., 1977).

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3.4. La territorializzazione e i paesi circostanti all’abbazia

Il merito della territorializzazione è da attribuirsi alla personalità dei singoli abati di San

Vincenzo che hanno lasciato un segno nello sviluppo del territorio circostante, anticipando di

qualche tempo quel ruolo che ogni abbazia svolse «specie nei secoli XI e XII nella rinascita

economica di molte aree del Mezzogiorno, inserendosi come protagonista nel movimento di rimessa

a coltura delle terre e di edificazione di nuovi nuclei rurali»( Aversano V., 1990, p. 131).

E’ proprio il Chronicon Vulturnense a testimoniarci la fondazione di centri da parte dei

monaci: Castel San Vicenzo, Rocchetta al Volturno, Scapoli, Filignano, Pizzone. Sono tutti

collegati all’espansione che avviene in un’ampia area, collocati a nord e a sud dell’area monastica, a

forma di corona. A nord-est Castel S. Vincenzo e poi Pizzone, a sud un continuum insediativo :

Rocchetta al Volturno, Scapoli, Filignano.

Castel San Vincenzo è situato su uno sperone di roccia, a quota 749 m, e si affaccia

sull’alta valle del Volturno. E’ citato nel Chronicon per un contratto stipulato di utilizzo di queste

terre appartenenti all’abbazia nel 942; il toponimo svela immediatamente il ruolo del monastero

nell’incastellamento dell’area circostante. Il primo nucleo abitativo fu appunto costruito su un

basso sperone roccioso, grazie ad alcuni monaci che intorno all’881 cercarono scampo da una banda

di Saraceni. Fu il castrum più importante della Terra Sancti Vincentii ed il suo territorio incluse lo

stesso monastero (fig. 14) I sentieri, che da qui, dall’antico borgo con case e portali di pietra,

portano verso le Mainarde, attraversano la Valle di Mezzo, che è pari ad un’oasi con i suoi boschi,

le sue sorgenti, la sua fauna, come esempio unico di sinergia tra natura e cultura.

Il territorio di Castel San Vincenzo confina con quello di Rocchetta al Volturno, che in

realtà nell’ VII secolo era denominato Bactaria, perché posto sul monte Baccareccia o Vaccareccia.

La designazione indica che il terreno fosse adatto al pascolo a testimonianza dello sfruttamento

circostante da parte dei servi del monastero. Il primitivo insediamento ha lasciato un segno

importante: la chiesa rupestre di Santa Maria delle Grotte che era appunto sulla strada di

collegamento con Montecassino.

Il nucleo di Bactaria fu distrutto dalle invasioni saracene seguendo le stesse vicissitudini

dell’abbazia, e ricostruito ai piedi del monte Azzone, da dove nasce il Volturno, nel XII secolo, con

il toponimo di Rocchetta al Volturno, a quota 570m. A testimonianza dell’insediamento voluto

dall’abate Marino rimangono i ruderi del borgo medievale di Rocchetta Alta e del castello.

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L’espansione monastica dovette procedere ad ampio raggio, se a pochi chilometri da

Rocchetta furono fondati Scapoli e Filignano. Scapoli deve il suo toponimo ad un gruppo di frati

che dovevano essere scapoli, ovvero doverosamente celibi. Il Chronicon vulturnense ci tramanda

che il luogo non era adatto alla costruzione di abitazioni perché coperto di selva. Vi era però una

costruzione per i monaci e i coloni provenienti dall’abbazia di san Vincenzo al Volturno, infatti un

documento del 982 ci attesta la presenza di un Castrum Scappili, organizzato dall’abate Giovanni II

e di proprietà dell’abbazia fino al 1382. Il castrum di Scapoli fu, sempre secondo il documento del

982, l’esito dei patti dei coloni. Dell’ antico complesso rimane oggi un palazzo, con ingresso

principale, chiamato “Sporto”, che conduce allo “Scarupato”, una sorta di largo corridoio, o

cammino di ronda, che segue tutto il profilo della roccia e attornia l’intero borgo medievale:

costituisce un’incantevole passeggiata dalla quale si può ammirare la vallata sottostante.

Un tempo, il borgo di Scapoli era noto per le sue botteghe artigianali, è ora famoso per una

sola, ma importante tradizione: la costruzione di zampogne e ciaramelle (fig.23), con una mostra

internazionale organizzata ogni anno nell’ultima domenica di luglio .

Se Bactaria era terra adatta al pascolo, il comune confinante Filignano, ovvero Fonduliano,

era un fondo utile per l’agricoltura. Ha origine nell’anno mille, come tramanda la cronaca, con il

toponimo Fonduliano, che ha la sua origine nel suo stesso sito a quota 460m , quindi un fondo da

poter ben sfruttare dal punto di vista agricolo.

Infine, i monaci e i loro servi si spinsero oltre Castel San Vincenzo, a nord dell’abbazia, e

vi fondarono Pizzone, che« trae le origini dalla colonizzazione operata dalla Badia e

dall’inurbamento determinato dalle incursioni dei Saraceni nel X secolo»( Masciotta G., 1984,

p.311). Il feudo, situato all’altezza di 724 m, fu fondato appunto su un pizzo di un’alta montagna,

precisamente su un costone di un alto monte, del monte Mattone addossato alle Mainarde, perciò si

sviluppa in altitudine fino a 2000 metri d’altezza (figg.24-25). L’insediamento è ancora una volta

collegato a Montecassino, perché è appunto sulla strada per raggiungere il celebra centro monastico

(figg.26-27). I monti della Meta e delle Mainarde fanno da confine col versante laziale, mentre a

circa 1500m Vallefiorita, un ampio pianoro erboso contornato di faggi secolari, consente

l’allevamento dei bovini e continue scoperte naturalistiche.

Sono, quindi, piccoli centri sorti in continuità con la storia dell’abbazia, con un carattere

prettamente agricolo e artigianale, ed hanno conservato tali vocazioni nel tempo meritando, per le

emergenze paesaggistiche, di essere inseriti nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise con la

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loro precisa identità: sono i paesi dell’abbazia di San Vincenzo che, all’ombra delle Mainarde,

rappresentano bene l’incontro tra natura e cultura. Testimoniano ancora tratti tipicamente medievali

per le case in pietra, le chiese dal suggestivo stile romanico, la presenza del mondo pastorale e delle

sue ciaramelle, gli itinerari tra le montagne utili a raggiungere Cassino o Roma (figg. 5-6).

Il laghetto di Castel San Vincenzo

Il paesino Pizzone

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3.5. Gli scavi e il parco

Dal 1980 i progetti di scavo archeologico hanno permesso di conoscere sempre meglio

San Vincenzo al Volturno e le indagini sono state svolte da esperti di particolare rilievo per poter

individuare con esattezza il sito, la struttura, le diverse partizioni. Il lavoro di ricognizione ha tenuto

conto di molteplici fonti, seguendo anche le tracce del Chronicon e la classificazione della cultura

materiale. Nella seconda fase negli anni’90, si è ricostruita la planimetria dell’abbazia, scoprendo

che “il principale modello di riferimento pare sia stato la basilica di San Pietro a Roma” (Marazzi,

2002, p. 419), a riprova dell’importanza e centralità di San Vincenzo, benché il modello sia stato

rivisitato in chiave longobarda (fig.7)

L’attenzione agli scavi è stata parallela all’evoluzione del parco Nazionale d’Abruzzo, uno

dei più antichi d’Italia, istituito infatti nel 1923, ed ampliato alle due regioni confinanti: Lazio e

Molise per essere riconosciuto nella sua nuova denominazione nel 2001. In tal modo sono stati

coinvolti venticinque comuni di tre province: L’Aquila, Frosinone, Isernia, includendo appunto i

centri circostanti l’abbazia (fig. 8). La volontà è stata quella di conservare il paesaggio appenninico,

con l’estensione di boschi e foreste, impreziosito dalla presenza della fauna da tutelare.

Il Molise ha arricchito il parco con i paesaggi in pietra, le tradizioni artigianali, i piatti

tipici, i riti antichissimi come quello dedicato al cervo che stigmatizza il rapporto dei contadini con

gli animali del luogo. L’abbazia di San Vincenzo si colloca come il fulcro di un processo storico-

culturale che si attaglia perfettamente ad un quadro ambientale antichissimo, consentendo di

conoscere i tratti costitutivi del paesaggio medievale in Molise.

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