Giorgio Todde Ei

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Giorgio Todde

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Tascabili . Narrativa

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Giorgio Todde

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Il Maestrale

Dello stesso autore con Il Maestrale:La matta bestialità, 2002

con Il Maestrale-Frassinelli:Lo stato delle anime, 2002 (già Il Maestrale 2001)Paura e carne, 2003

In copertina: Igor Mitoraj, Light of the moon (1991), bronzo

Foto di copertina:Mary Ann Sullivan

EditingGiancarlo Porcu

Grafica e impaginazioneImago multimedia

© 2004, Edizioni Il MaestraleRedazione: via Massimo D’Azeglio 8 - 08100 NuoroTelefono e Fax 0784.31830E-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.it

ISBN 88-86109-75-X

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Una bracciata, l’acqua calma per andare avanti.Dov’è la boa rossa?Tira fuori la testa dall’acqua, aspetta che gli occhi veda-

no, e vede la boa. Rimette la testa dentro e ricomincia anuotare con le bracciate da uomo alto e magro. Se lo è sem-pre domandato se essere alto serve a qualcosa in acqua.

È dimagrito per tutto quello che è successo.Guarda il fondo bianco. Gli bruciano gli occhi. L’acqua

è più salata col vento di terra. E continua con le bracciatecalme.

Poi se ne sta appeso alla boa per un po’, si soffia il naso easpetta che il respiro ritorni normale. Arrivano ancora vo-ci da terra, qualche urlo e un cane che abbaia.

Ancora altre bracciate: più lontano possibile dalla riva.Cosa ha lasciato a riva non vuole neppure ricordarselo.Oggi, quando è uscito dalla penombra della cabina, il

sole era così forte che gli ha procurato un piacere violen-to e un’amnesia tanto dolce che si è sentito energico, e glisembrava di essere finalmente all’inizio di qualche cosa.

Allora si era immerso e adesso è qua, lontano dalla riva,che nuota e nuota.

Poi si ferma, ascolta: neppure una voce, nessun suonoumano. E ricomincia.

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– Ti passerà col tempo, Enrico, ti passerà.– Passa col tempo? Ma chi te l’ha detto, Battistino, chi

te l’ha detto? È il contrario! Il dolore aumenta… matura,ecco! Ecco!

Come i bambini offesi: Ecco! Enrico, le gelosie soc-chiuse, mugolava in penombra. Fuori c’era sole, tuttoscintillava, la gente nelle strade ondeggiava al vento ener-gico di Epipanormo.

Enrico Ricasoli abitava da sempre nella città alta, in viadel Compasso, nell’appartamento all’ultimo piano deigenitori morti da anni: una casa di tufo costruita da genteche voleva la luce, da dove vedeva la città bassa, il porto eil mare. Viveva tra i muri che aveva scarabocchiato dapiccolo e quei graffiti gli tornavano alla mente spesso.

Da qualche tempo dormiva nel lettone dei genitori de-funti dove il padre, come lui, aveva sofferto di vertiginiastronomiche nel passaggio dalla veglia al sonno.

– Non pensavo che sarebbe morta d’estate… con tuttaquesta luce fuori… E adesso?

– Enrico, Nellina doveva morire prima di te… è normale.Le rughe di Enrico quarantottenne, le più belle, secon-

do lui, perché cancellano difetti e non deformano ancora,sorrisero alla morta.

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delle ragazze del quartiere. Si erano laureati insieme. In-segnavano letteratura nel liceo. Erano arrivati a appariregemelli, di quelli che vengono dallo stesso uovo: alti, oli-vastri, con una piccola gobba, conseguenza di troppe ri-flessioni. Ma differenze ce n’erano tra i due e, man manoche passava il tempo, le differenze venivano fuori alla lu-ce forte di Epipanormo.

Battistino spalancò le persiane.Una nuvola innocente occupò il rettangolo della fine-

stra e Battistino domandò di nuovo:– Allora, andiamo a mangiare? Sennò continuo a fuma-

re… Guarda che bella nuvola pulita…Enrico aveva un debole per il cielo e si voltò a guardare

la nuvoletta: quello, magari, era un modo di ricompariredi Nellina, il suo cane morto stritolato dall’ascensore. Mala nuvola non aveva forma di cagnolino.

Il quartiere alto e volante di Epipanormo, sulla roccabianca, guardava in basso il quartiere di Talattone, al por-to, e tutt’e due guardavano il sud. I greci, arrivati proprioda quella direzione, col genio del divino avevano traccia-to strade che seguivano il corso del sole. Gli stessi traccia-ti percorrevano Enrico e gli altri abitanti del rione ognigiorno.

A nord, tutto monti, la città si era sviluppata contro na-tura unendosi alle montagne e ai paesini con ponti e gal-lerie muschiose. Ma era un’espansione separata: Epipa-normo restava Epipanormo.

A sud, in basso sul mare, il quartiere di Talattone si eragenerato sul guano fermentante.

Gli abitanti della città, dopo l’unione ai paesi della

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– È come se la vedessi… Se stiamo zitti la sento… È unacosa senza proporzioni!

– Non esagerare…– Non l’ho vista malata, mai!– E infatti non si è ammalata neanche questa volta… è

stata una disgrazia…– E adesso?– Beh, adesso devi vivere senza di lei, Enrico… la potrai

vedere nei sogni… Sognarla è un modo per, com’è che sidice, elaborare il lutto.

Enrico ebbe un contorcimento.– Elaborare il lutto? Ma cosa c’è da elaborare? C’è solo

da aspettarsi il proprio lutto, l’elaborazione finale, ec-co… E sognarla, meschinetta? Me la sognerò come l’hovista l’ultima volta… In quello stato…

Battistino si alzò dalla poltrona.– Enrico, hai ragione, non elaboriamo proprio nulla.

Ora ho fame e non ho deciso io. Nellina, se ci vede, ca-pirà, andiamo.

Battistino Mattiolo - lo stesso patrimonio di rughe diEnrico ma più profonde per le sigarette - era amico sinodall’infanzia. Viveva nello stesso palazzo, un piano sotto,dove era nato. La loro amicizia corrosiva si era costituitain modi infinitesimali. Una comunanza tra orecchie e na-si, tra palati, occhi e nervi teneva uniti Enrico e Battisti-no, i quali per questo motivo potevano tacere stando unoin faccia all’altro, anche per ore, senza che questa confi-denza coniugale li annoiasse. Qualche muffa acida, però,gli spuntava qua e là.

Da adolescenti avevano spiato melanconici la crescita

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– Andiamo dove vuoi e mangiamo quello che vuoi.Però pettinati.

Per strada sembravano una visione doppia. Enricocontinuava a ricordare il proprio cane morto per disgra-zia e soprattutto la testa spaventata rimasta sul pianerot-tolo come su un patibolo domestico.

L’appartamento di Enrico e quello di Battistino resta-rono deserti.

In casa di Enrico, sul tavolo di cucina, c’era un pezzo diparmigiano sopra un piattino. Quando i due amici usci-rono di casa e la loro assenza fu certa, un fenomeno piùche chimico avvenne nel formaggio e nell’aria. La tempe-ratura nella stanza aumentò e anche l’odore del parmigia-no aumentò, sino a interessare un gabbiano giovane chepassava davanti alle finestre e si avventò sui vetri lussan-dosi le ali, precipitando e richiamando altri gabbiani chesui vetri sbattevano inferociti.

Il pezzo di formaggio si aggravò e si perforò in moltipunti. Dai buchi schizzarono vermi bianchi a centinaia.Poi la pasta del parmigiano si indurì tanto che la massainiziò a respingersi sino all’estrema conseguenza dell’e-splosione. L’etto e mezzo di parmigiano, con un rumoredi frattura, si ruppe in tanti pezzetti tra i quali saltavanogià i vermi e volteggiavano farfalline pelose.

Il pranzo di Enrico e Battistino era alla fine. Didimo,l’oste con le unghie nere, sapeva della morte di NellinaRicasoli, la cagnetta di Enrico e lo aveva trattato come chidi cose materiali ha bisogno ma non vuole ammetterlo:

– Ecco il dolce, professor Enrico, leggero come un’ostia.

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montagna, erano diventati tanti, troppi per Enrico e Batti-stino. Però coi monti restava un confine genetico. In città,clima e facce cambiavano bruscamente, si era conservatauna razza color nocciola, legnosa e marinara, ordinata se-condo forza e intelligenza. In alto i migliori, a Epipanor-mo, e in basso, a Talattone, gli altri.

I due quartieri erano uniti da una vecchia teleferica cheoscillava ma non cadeva mai.

Era l’unica città con due nomi.

– Mangiare? È già ora? – chiese Enrico, abbagliato datante ore di penombra, fissando la nuvola e vedendoci fi-nalmente Nellina.

– È quasi l’una, Enrico. Non mangio da ieri sera. Daquando l’abbiamo sepolta non ho mandato giù un boc-cone.

– Sepolta? E tu credi che sia finita così? – A Enrico ven-ne fuori dalla gola un grugnito che impressionò Battisti-no e poi disse: – La vita… neanche un minuto di più…povera Nellina! – Si teneva le tempie: – Cose enormi, avolte, dipendono da poco…

Battistino non era paziente, era in piedi, già rivolto allaporta, le chiavi che tintinnavano in mano. Frasi così glimettevano il nervoso. In fondo era morto un cane, Nelli-na era solo un cane e per giunta vecchio.

– Enrico, Nellina mangiava anche lei… abbaiava comeuna matta all’ora dei pasti, la sentivo dal piano di sotto.Adesso dobbiamo mangiare noi.

Enrico si alzò, era spettinato e più curvo:– Andiamo da Didimo? Non voglio carne! Non voglio

mai più carne.

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Tramontava e la luce entrava mite di sbieco nella stanzada letto di Tebe.

Che odore di pesche! pensò Tebe mentre, in sottoveste,si guardava da ogni lato allo specchio. Da qualsiasi parte sigirasse non trovava nessuno spigolo. “Come se non lo sa-pessi! Quando scopano con me pensano a un’altra. Matanto è così per tutti… Un bel formicaio di pensieri… amiliardi… È tutta forza che se ne va a finire in niente…Messa insieme, sarebbe la bomba più forte… Vengono, michiedono di tutto, e sono sempre gli stessi… mi hannosposato ormai, sempre gli stessi… Che odore di pesche…”

Pesche in casa non ce n’erano e questi furono gli ultimipensieri di Tebe Mistrè quando, stupita di non sentire do-lore e di vedere solo se stessa allo specchio, il rasoio le ta-gliò il collo soffice. Vide le iniziali che conosceva sulla la-ma, B M, un’incisione perfetta che arrivò sino alla nucadove questo omicida le teneva sollevati i capelli con cura.Sentì sapore di sangue, prima come se le sanguinasse soloun dente e poi come se tutto il sangue le fosse finito nellabocca.

Tebe aveva intravisto un solo istante la bella mano bian-ca che impugnava la lama. Si stupì quando vide il rossoesagerato che le scappava dal collo e si accorse che non cela faceva a stare in piedi.

Non ci credeva e non si spaventò.Ebbe il tempo di stendersi e di decidere in che posizio-

ne farsi trovare. Non portò le mani al collo e non se lesporcò. Era supina con la testa ruotata dalla parte del ta-glio e la bocca storta: da lì guardò per un momento le ten-dine alla finestra che aveva ricamato lei stessa. Se le sareb-be prese la sua vicina per ricordo.

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Enrico lo ingoiò senza considerare l’oste:– Ieri era come se sapesse… povera bestia… era strana

dalla mattina. Aveva odore di pesca, non so perché…– Di pesca? – domandò Battistino che a quel cane non

si era mai affezionato come Enrico avrebbe voluto.– Sì, il pelo odorava di pesche mature. Proprio di pe-

sche. Ecco.Ebbe una vertigine funesta. Ma non riuscì a stare zitto:– Guarda che capelli lunghi che ho, Battistino… Li do-

vrei tagliare, ma sono troppo triste per farlo. Serve unumore decente per il barbiere.

Battistino fumava:– Serve un umore decente per fare qualsiasi cosa. Stai

esagerando, esagerando.Al ritorno i due amici non dissero una parola percorren-

do via dei Collerici per arrivare a casa. In via del Compassogli alberi d’arancio si gustavano il vento dai monti che rin-frescava Epipanormo senza badare ai pensieri di Enrico.

* * *

In via San Genesio, nel quartiere di Talattone, le caseintorno al porto erano alte, strette e colorate.

Via San Genesio non puzzava come altre strade di Ta-lattone e finiva in una piazzetta con un’acacia, panchine euna fontanella sempre asciutta. Il vento da nord arrivavaanche là in basso ma come un vento già usato da quelli diEpipanormo: invecchiato e tremolante dopo aver rinfre-scato la città alta.

La casa di Tebe Mistrè era all’ultimo piano, tutta tendi-ne e fiocchetti.

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Melania Lampreda faceva lampeggiare i polpacci sa-lendo le scale del Mercato Vecchio e quei lampi facevanosollevare lo sguardo a molti che stavano dietro, compresoEnrico tutto sgualcito. Lei sentì prurito alle gambe e sivoltò:

– Ah, sei tu. – Gli sorrise.Il sorriso di Melania.Nel viso di Melania Lampreda - sviluppato con una va-

rietà che lasciava muti - i muscoli della bocca andavanooltre le labbra e i maschi ci andavano pazzi. La loro forza,dei muscoli, era un mulino a vento in attività e mai, pro-prio mai, si sarebbe pensato che là sotto c’erano ossa.

Melania l’aveva sempre saputo che Enrico soffriva perlei sino da quando lui tornava a casa dalle lezioni all’uni-versità e la vedeva con lo zaino del ginnasio percorrere lesalite di Epipanormo con il corpo che cresceva e il sorrisoche era già cresciuto. Da allora tutto era stato difficile traloro due.

Enrico era concentrato sui polpacci e sulle caviglie. Adue giorni dalla morte del cane, per la prima volta si di-straeva. Le diede la notizia guardando la bocca di lei.

– È morta Nellina, lo sai? Stritolata dall’ascensore… E

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Provò terrore solo quando si accorse che il sangue fug-giva dagli occhi e vide bianco.

L’agonia durò una dozzina di secondi, silenziosa e ordi-nata, senza movimenti, solo una scossa all’ultimo.

“Come volevo Io,” pensò l’omicida e ripeté: “Io, Io”.Resistette alla tentazione di tagliare di più di quella pol-

pa rosa e la guardò a lungo prima di lasciarla così com’e-ra. Lavò per terra irritandosi perché il sangue si era giàseccato e diventato nero: – Uffa! – Poi si dedicò alla puli-zia del corpo di Tebe che, nel frattempo era diventata ce-lestina. La ripulì con una spugna, le raddrizzò la boccastorta e la pettinò. La lasciò nella posizione che lei avevascelto: – Ecco… ecco.

A mezz’ora dalla morte era fredda e composta ma sem-brava indispettita. D’altronde, lo dicevano tutti nel quar-tiere, anche da viva aveva una faccia dispettosa.

Nella camera diventò più forte l’odore di pesche matu-re e tutti gli altri odori scomparvero dall’appartamento.

Lui trovò un tagliaunghie e se le accorciò. Così riuscì alavare via il sangue che era diventato crosta. Poi guardòancora Tebe. “Un taglio perfetto, un fiore di pesco non ècosì bello.” E se ne andò.

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proposito, ho saputo del cane: non comprerà più ventre-sca di tonno per Nellina!

Il Pechinese fissava Melania come avrebbe guardato ilpiù bel pesce del golfo, le pinne forti e le squame brune.Gridò: – Venga anche lei, signora!

I due si avvicinarono e il Pechinese gridò più forte: –Professore! Che colorito! È blu!

Enrico si appoggiò alla spalla di Melania… “Sonoblu…” e sentì la clavicola solida di lei. – Vorrei sogliole,ma senza la testa, – disse. Il Pechinese gliene decapitò tre.Le mise dentro la carta straccia e gliele porse con le mani-ne al cloro che Enrico evitava di sfiorare. Gracidò anco-ra: – Che faccia blu, professore!

Lui, mentre pagava, si ricordò di colpo: la testa di Nelli-na… il sangue di Nellina… il pelo di Nellina… sapeva dipesca… Svenne.

Si svegliò dentro la vasca delle anguille dove era cadu-to. Le anguille erano terrorizzate. Melania era sbalordita.

Enrico riuscì a saltare fuori dalla vasca e si trascinò ungroviglio di anguille che scapparono in mezzo alla gente.Cercò Melania, la guardò, trovò forza e pattinò via sullepiastrelle luride.

Stordito, vide viali di pesci, la danza dei gamberi, il co-ro delle spigole con la bocca spalancata. Arrivò alle carniche gli ricordarono ancora Nellina morta, vide grovigli dibudella, cuori fibrosi, il rosso dei fegati, e gli procuraro-no subito acidità. Trovò l’uscita, fece le scale a precipizio,cercò una panchina e si sedette all’ombra tastandosi ilpolso e respirando, a occhi chiusi. Ecco.

Melania, anche se non era una donna pietosa, si sedettevicino:

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sono rimasto solo in casa. Sette stanze e ne uso solo tre.Nellina zampettava dappertutto.

I gradini del mercato erano ripidi, come tutto ad Epipa-normo. E ripido, un precipizio, sembrò a Enrico il collo diMelania, un precipizio che portava al centro della terra.

– Ma tu eri solo anche con Nellina. Che razza di com-pagnia facevi a quel cane? Povera bestia.

Lui si accorse di essere troppo curvo, pensò che la col-pa era di Battistino, lo frequentava troppo, e si raddrizzò,era alto quando stava dritto:

– Perché mi hai sorriso?– Beh, ne hai bisogno, si vede. Sento quando mi guardi

anche se ti do le spalle, anzi, quando ti do le spalle il tuosguardo lo sento di più.

– È che quando mi dài le spalle è meno complicatoguardarti.

– Oggi non sembri neanche uno di Epipanormo, sem-bri di un’altra razza! Sei giallo…

– Sono giallo? Lei aveva le maniche rimboccate e Enrico non resistet-

te alla tentazione di accarezzarla. Melania accettò, la suapeluria mandò segnali buoni e strinse le spalle come chiha freddo.

Entrarono al Mercato Vecchio. Qui Epipanormo co-municava con Epipanormo. Gli altri erano ammessi, sce-glievano, compravano, facevano affari, chiacchieravano,passavano il tempo, ma restavano stranieri.

Melania e Enrico arrivarono dal Pechinese, il pescatorecon la voce da castrato: – Professor Ricasoli, professore!Venga, venga! Guardi, guardi che banco! Qui tutto simuove, tutto vivo! Senza impegno, guardi! Tutto vivo! A

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convergesse verso di lei: era sempre stato davvero inna-morato di Melania.

Giunsero in via del Compasso.Enrico vide un estraneo che si massaggiava le tempie,

affacciato alla finestra di Battistino. Sulla porta del palaz-zo andava su e giù il gatto portinaio nervoso. C’era unamacchina gialla della polizia e due poliziotti nell’atrio delpalazzo. “Cosa succede? Uffa!”

Quando il commissario Glauco Glicerio era arrivatodavanti alla porta dell’appartamento di Battistino Mat-tiolo, si era già fatto un’idea di chi si sarebbe trovato da-vanti. Il palazzo antico, il pianerottolo con le felci, la lucepolverosa nella tromba delle scale dovevano essere comeil padrone di casa. Quando Battistino era apparso, il poli-ziotto aveva pensato d’avere indovinato: Bell’uomo. Unpo’ scrostato, come i muri dell’appartamento, però di ba-se ben congegnato, proprio come il palazzo.

Il dottor Glicerio aveva iniziato a sudare e si era ricor-dato degli esami del sangue da ritirare al laboratorio.

Battistino si era seduto sulla sua poltrona consumata:– Mi sono spaventato quando la polizia mi ha telefona-

to, non mi era mai successo. Ora va bene, però: so con-trollarmi. Che notizia mi ha dato, commissario! Avevo unlegame con Tebe che durava da anni, ma non profondo…e non ero l’unico… lei si sarà già informato. Ho fumatosenza interruzione sino a quando lei ha bussato.

– Infatti non ha una bella cera, professor Mattiolo.Battistino si era indispettito:– Neanche lei ha un bell’aspetto, commissario.Si è ostili o bendisposti dal primo incontro.

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– Va meglio? È da quando ti conosco che svieni… Haiancora il cartoccio con quelle sogliole decapitate…

A lui sembrò che Melania fosse davvero interessata.– Melania, andiamocene da Epipanormo per oggi. Mi

accompagni? Al mare, magari.– Non ho fatto la spesa, Enrico, dovrei tornare dentro. – Andiamo via, per favore. Prima mi lavo, però. Passia-

mo a casa, mi cambio e poi decidiamo.Si avviarono.Un bel sole di giugno illuminava la città. Giugno mette-

va buon umore a tutto il quartiere, prometteva il sole euna bella luce forte e serena. Enrico pensava a quantevolte avrebbe preso, la mattina, la teleferica che portavadall’acropoli al mare. Sentì l’odore di Melania e glielodisse:

– Sai Melania che il tuo odore è più forte del profumoche porti e anche di questa puzza di anguille? È come sta-re in mezzo agli ulivi stesi sull’erba, ma come fai?

– Oh, anche mia madre aveva quest’odore e io lo senti-vo anche a nonna.

– Sei una donna cosmica, ecco.– Che bel complimento!– Una di quelle donne all’origine di tutto… Mi facevi

spavento a vent’anni! Insomma, era troppo… Con te erameglio non capire… Ci voleva un uomo che…

– La solita storia… Per me ci voleva uno che non capivaniente, vero? Un uomo sensibile per me non va bene, giu-sto?

– Hai ragione, sto zitto.In quel momento Melania gli sembrò il centro di ogni

cosa e che tutto fosse là per lei e che ogni linea tracciabile

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– Nella toeletta di Tebe Mistrè c’erano rasoio, crema dabarba, profumo e accappatoio maschili; nella cassettieramutande da uomo; sul comodino libri. Sui libri c’è il suoautografo e l’anno dell’acquisto, sull’accappatoio è rica-mato il suo nome e sulla lama del rasoio sono incise dueiniziali che corrispondono alle sue.

Battistino aveva raccolto tutti i suoi acidi:– E le mutande, commissario? Erano, anche quelle,

mie? Ha controllato?Glicerio si teneva l’occhio:– No, quelle sono anonime e tutte diverse, taglia e mo-

dello. Un campionario.Battistino si era visto davanti agli occhi il tatuaggio sul

polso di lei e sentito una puntura:– Quel campionario di mutande è il campionario di uo-

mini di Tebe, commissario. I libri glieli regalavo ma eranoper me, per far passare il pomeriggio. È stata sgozzata, ve-ro? Ed è stata sgozzata col mio rasoio? Era in sottoveste?Per questo lei è venuto da me. Sono dispiaciuto, molto di-spiaciuto, ma tranquillo, capisce?

Aveva sorriso. Un sorriso che nasceva e finiva nei mu-scoli:

– Ci andavo la sera, a inizio di settimana. Sa, tutti queipizzi che ha visto per casa, tende, tovaglie, tovaglioli, len-zuola, tutto era merlettato a casa di Tebe, mi facevano uneffetto che non so spiegare bene. Sapevano di pulito, sen-za germi… merlettava qualsiasi cosa le capitasse a tiro. Cisono donne così.

Glicerio si era affacciato: – Professor Mattiolo, dalla sua finestra si vedono le

porcherie di Talattone sino a Capo La Martora! Puttane

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La poltrona dava sicurezza a Battistino. Glicerio gron-dava sudore e si asciugava con un fazzoletto già fradicio:

– Io non posso riposare, perciò ho una cera così così. Sa,il mio metabolismo non è a posto, non ha pause. La nottebrucio, vado a fuoco, brutti pensieri… la mia tiroide lan-cia frecce incendiarie… la tiroide…

Battistino si era preso la libertà di guardare il commissa-rio dalla testa ai piedi e gli era sembrato rivestito delle suemalattie. Evitava di guardare l’occhio destro dell’investi-gatore che pareva fatto apposta per vedere più di ogni al-tro occhio perché era enorme, sporgente e precedeva ilresto del corpo. Si era acceso una sigaretta senza offrirla,ravviato i bei capelli e ascoltato Glicerio:

– Professor Mattiolo, la morte mi interessa, mi interessamolto ma solo se si muore per mano d’altri. Se poi è unamorte meditata e magari contemplata con soddisfazionedall’assassino che si taglia le unghie mentre la vittima ago-nizza, allora, pensi, la cosa mi prende tanto che non pensoad altro e riesco anche a dimenticare i miei guai.

Battistino, accarezzandosi ancora la testa:– Un interesse così forte da far dimenticare il proprio

dolore… Questo mi dice?Glicerio sudava tanto che l’alone di sudore aveva attra-

versato la giacca e si muoveva guadagnando millimetri avista d’occhio:

– Ha le unghie corte, professore.– Il mio barbiere ha una brava manicure, una vecchia

del quartiere, mi ha tagliato le unghie ieri.Il commissario aveva proseguito:– Guardi che anch’io sono nato ad Epipanormo.– E non ci siamo mai conosciuti?

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tor Glicerio era al centro di un fortunale di ormoni. Inquel momento avrebbe voluto spingergli in dentro l’oc-chio sporgente e mettere sul balcone ad asciugare il pove-retto intossicato. In quel momento bussò quattro volte,come sempre, Enrico Ricasoli.

Glauco Glicerio era stato un uomo corpulento. Da tem-po però era bruciacchiato dal proprio metabolismo. Daun anno si era accorto che l’occhio destro era diventatopiù sporgente dell’altro. Un po’ al giorno l’occhio si eraingigantito, rosso e minaccioso. I medici gli avevano spie-gato che era colpa della tiroide. Lui aveva chiesto che glie-la strappassero via. Lo avevano operato, gliene avevano tol-to metà, ma l’occhio era rimasto rosso e sporgente. Ognireazione del proprio corpo era esagerata e lui non si stan-cava quasi mai. Ma quando la tromba d’aria si fermava, al-lora Glauco Glicerio diveniva come una seppia senz’osso.

La sera precedente il commissario era stato nell’appar-tamento della rosea e merlettata Tebe.

– Poverina… uccisa e sgocciolata come le galline! – gri-dava la vicina di casa che l’aveva trovata, una donna cheodorava forte di minestrone. – Però non mi ha fatto im-pressione come pensavo, commissario… forse me la faràpoi, fra qualche giorno, cosa dice?… C’era un odorequando sono entrata, un odore che non saprei… – avevaaggiunto fissando l’occhio storpio del dottor Glicerio.

Il sovrintendente Lucio Bombòi se n’era accorto e, perdistogliere l’attenzione della donna dall’occhio malato,l’aveva rimproverata:

– Un odore è un odore! Se si sente si deve sapere cheodore è.

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a quindici anni, ragazzini col culo rotto, magnaccia, per-vertiti… sono stufo di Talattone…

Il commissario si stava aprendo mentre sarebbe dovutoessere il contrario. Si vede che la tiroide fa anche questoeffetto, aveva pensato Battistino.

– Lei vuol dire, commissario, che a Talattone c’è ognigenere di peccatori ma assassini, insomma, assassini veri,di quelli che dice lei, non ce n’è.

Glicerio si era affacciato e appoggiato al davanzale te-nendosi la testa tra le mani.

Là lo videro dalla strada Melania ed Enrico.L’occhio di Glicerio diventò viola, pulsò e sembrò che

saltasse fuori, il poliziotto si tolse la giacca inzuppata disudore e riprese il filo.

– Sì, esattamente. Vede, da ventisette anni faccio l’inve-stigatore, il poliziotto. L’omicidio richiede forza, fegato,carattere e intelligenza. Uno che si fa ragazzini, uno cheprotegge troie, un ladro, un finocchio, tutta gente checerca soldi, uccidono raramente: macellano.

L’occhio premeva sempre di più perché Glicerio eraconcentrato e ora si asciugava la fronte con dei fazzoletti-ni di carta.

– Per ammazzare occorrono dei princìpi, regole. Mi se-gue? Non parliamo poi di omicidi come quello di TebeMistrè: un omicidio fine, pulito, semplice, senza volga-rità, senza scenografie, ben pensato insomma. Quelli diTalattone, quando ammazzano, lo fanno per caso, perubriachezza, per idiozia, per bestialità… non li devoneanche cercare… basta l’odore.

Battistino si sentiva solo, ma calmo. Capiva che il dot-

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Nelle scale, sforzandosi di tenere la voce bassa, fece no-tare al sovrintendente:

– Hai visto che uomo controllato questo Mattiolo?– Certo non era il ritratto della disperazione, dottore.L’occhio carminio di Glicerio guardò il suo sovrinten-

dente olivastro, secco, piccolo ma sano:– Sbagli, sbagli Bombòi: non era il ritratto del dispiace-

re, era il dispiacere vero! Il dolore non ha bisogno di or-namenti, quello autentico, dico. Senza contorcimenti,ululati, come quella donna di Talattone. Battistino Mat-tiolo era davvero triste! Tutto il contrario di quell’altroche, prima di presentarsi, mi ha detto della morte del suocane: quello il dolore lo mette fuori come panni al sole…Ah, se fosse malato come me non parlerebbe d’altro…

– Ho capito, commissario.Uscirono sulla strada. A quell’ora la stretta via del

Compasso era trafficata di piccole utilitarie e piccoli au-tobus che univano città bassa e città alta.

– Bombòi passiamo al laboratorio Minerva, devo ritira-re i miei esami. L’occhio mi brucia come l’inferno.

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La donna aveva allargato le narici e fiutato l’aria comeun cinghiale:

– Eccolo! C’è ancora, lo sentite? È odore di pesche!Una vera donna di Talattone, pensò il commissario

guardandola: Un naso da bestia e la bocca feroce. AncheGlicerio annusò. In effetti c’era odore di pesche.

Bombòi chiese agli uomini che facevano rilievi in silen-zio se nella casa c’erano pesche: non ce n’erano. Inorridìquando gli fecero vedere la bustina con le unghie tagliatee col bordo di sangue rappreso. C’erano i segni di diversefrequentazioni maschili, disse, e alcune tracce portavanoa Battistino Mattiolo.

* * *

L’arrivo di Enrico e Melania accompagnati dal sovrin-tendente Bombòi aveva rafforzato la sicurezza di Battisti-no, anche se Enrico puzzava di pesce. Il commissario Gli-cerio, invece, si era agitato perché il suo cervello si rende-va conto, a sprazzi, di non dominare né l’umore né le pa-role. Doveva andarsene.

Parlarono ancora un poco. Enrico raccontò del canemorto schiacciato e fatto a pezzi dall’ascensore con tantiparticolari che il commissario tagliò il discorso, tenendo-si l’occhio chiuso con la mano perché bruciava:

– So che domani avete scrutini a scuola… ma io vorreiparlarvi ancora nei giorni prossimi.

– Quando vuole, commissario, – rispose Battistino rad-drizzandosi sulla poltrona.

Glicerio non ebbe il coraggio di rimettersi la giacca fra-dicia e, con Bombòi, salutarono.

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Melania Lampreda era vedova da cinque anni e ne ave-va trentotto. Il marito era stato uno di quei maschi che,non avendo capito chi fosse e da dove era originata Mela-nia, era riuscito a corteggiarla, sposarla e a trattarla comeuna donna senza neppure immaginare le origini sullequali aveva sempre fantasticato Enrico Ricasoli. Era mor-to a quarant’anni mentre rimetteva i gioielli in cassafortee un drogato di Talattone lo aveva minacciato con una pi-stola. Il cuore era scoppiato per lo spavento eterno delgioielliere. All’ospedale i medici erano riusciti con lascossa elettrica a far ripartire il cuore ma ormai era rotto.Lui si era messo seduto sul lettino, aveva detto: Chi siete?Chiudete bene, mi raccomando! Ed era morto da uomopratico, senza un fiato in più.

Ora lei, sola, più bella, viveva dell’eredità, andava ingioielleria due mattine alla settimana, per controllarel’amministrazione e per rinchiudersi nel piccolo caveau aguardare, una ad una le pietre, i colori e i riflessi sulle fac-cette. Se le metteva davanti alle pupille e per un poco sifaceva accecare dai riflessi.

– Vermi nel formaggio? – chiese Melania senza interes-se perché pensava a quella povera Mistrè che qualchevolta aveva comprato dei ciondoli nel suo negozio impie-

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A mezzodì del giorno seguente Enrico e Battistino, ter-minate le discussioni miserabili di fine anno a scuola, tor-navano a piedi verso casa fermandosi ogni tanto all’om-bra di qualche alberello lungo le salite ripide che avevanoconferito ai due quell’andatura curva che avvicina la testaal terreno per diminuire la fatica. Enrico aveva una classedi studenti ai quali aveva attaccato la malinconia. Gli al-lievi di Battistino invece erano dispettosi. Ma i due amiciora pensavano ad altro. Ciascuno era attento ai suoi pen-sieri, propenso a dare importanza alle proprie opinioni ead aspettarsi il peggio dalle cose. Si fermarono sotto unapalma.

– Se una volta, una sola volta Melania mi avesse del tut-to accontentato! – si lamentava Enrico. – Quando tuttoandava bene… ecco, zac: l’obiezione. E si rovinava tutto.Obiettava a sorpresa. Anche quando era sposata è capita-to due volte che ci vedessimo dopo tante storie… ed è an-data malissimo… Ieri notte siamo stati insieme… abbia-mo mangiato, ascoltato musica, lei ha fumato delle boc-cate celestiali, abbiamo discusso, discusso e ingarbuglia-to nodi che c’erano già e allora…

Col respiro un po’ grosso l’amico rispose:– Enrico, è da più di trent’anni che mi parli di questi

nodi, sempre degli stessi…– Hai ragione, hai ragione… ma non sono esattamente

gli stessi… cambiano con gli anni…– Da fuori a me sembrano sempre gli stessi, Enrico.– Comunque hai ragione… così ti do il mal di testa.

Parliamo d’altro.A Battistino piaceva spiegare sempre qualcosa:– Il commissario Glicerio! Un malato! Mettono a inve-

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gando ore a sceglierli: si ricordava bene che aveva un belcolor porcellino, chissà come l’avevano tagliata con sod-disfazione.

Enrico in piedi, osservava il formaggio diventato cremae i vermi che saltavano come molle: vermi e farfalline amiriadi… la morte di quella povera Tebe Mistrè… que-sto schifo… troppe cose, troppe cose…

Melania si era tolta la giacca e se ne stava sul divano abraccia aperte. Enrico si distrasse per quelle ascelle mi-steriose. Lei se ne accorse ma restò nella stessa posizionee ridendo disse:

– Se è un formaggio che hai tolto ieri dal frigo, beh, nonso cosa dirti. Non c’è verme così veloce. Se bastasseroventiquattrore di caldo saremmo sommersi dai vermi eloro sarebbero i padroni.

Enrico la guardava e pensava a isole, boschetti, fonti emare. Melanconico, nonostante tanta forza davanti a lui,sospirò:

– Hanno sempre ragione i vermi alla fine. Ecco, ecco.– Che frase da poco! Proprio da professore.Dalla finestra della cucina un gabbiano, appollaiato sul

davanzale, attratto dal pattume che ogni casa nasconde,lo guardava dritto negli occhi chiedendo quei resti di ci-bo. L’uccello sporcaccione venne accontentato: Enricoaprì la finestra, mise il formaggio sul davanzale e il gab-biano se lo portò in cielo. Anche le farfalline pelose se nevolarono via. La casa, con le finestre aperte, si riempì deiborbottii che a lui piacevano. Guardò ancora la penom-bra delle ascelle di lei esposte al vento che ora attraversa-va l’appartamento, l’abbracciò finalmente allegro - maera solo distratto - e lei lasciò fare contenta.

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la voce irritato. – Certo che vederla per l’ultima volta,morta, non lo avrei voluto per tutto l’oro del mondo. So-no le persone care che si vogliono vedere almeno l’ultimavolta. Sì, lei non era una persona cara e non mi ricorda, aessere sincero, nulla di buono di me…

Enrico aveva invidiato sin dall’adolescenza la sinceritàdi Battistino, una sincerità da lettino psicoanalitico, eaveva sempre pensato che quel modo crudele di esporrele cose evitava tanta sofferenza. Ma siccome era stato adascoltarlo, pensò di avere il diritto a parlare un po’ di Me-lania:

– Certo, tutta la vita con Tebe… non ti immagino, – emordicchiò di nuovo: – Ma devi riconoscere che Melaniaè di altre origini… il sangue è un altro…

Battistino rise:– Il sangue di una razza fondatrice! Lo so, lo so… e sarà

anche vero… Ma al tuo sangue non ci hai pensato? Dadove arriva il tuo sangue?

Le loro discussioni, dopo un poco, inacidivano. Ma ac-cadde qualcosa che modificò il solito procedimento.

Enrico all’improvviso esclamò illuminato:– Da sempre abbiamo uno stemma con le pesche nel

cortile del palazzo! Sì, pesche! È stato tuo padre a scopri-re che si trattava di pesche e non di mele, visto che pote-vano confondersi. Anzi, per anni ho sempre pensato chefossero mele, mele araldiche, e invece erano pesche aral-diche di chissà quale famiglia. Tuo padre diceva che si di-stinguevano dalle foglie. Aveva ragione il commissario adubitare.

Battistino aggrottò le ciglia:– Perché, Glicerio l’ha chiesto?

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stigare uomini che dovrebbero stare in ospedale. Ma ifatti non si modellano come vuole lui, i fatti non si cam-biano.

Enrico gli rovinò la spiegazione:– Cosa dici? Un nemico quell’uomo? È venuto perché

doveva venire. E poi, tu eri indaffarato con altre personela sera che hanno ammazzato quella povera Tebe Mistrè.Le unghie sporche di sangue trovate per terra non sono letue; ti ha telefonato per confermarlo… – Poi lo pizzicò: –Sai cos’è? Forse tu hai rimorsi… con quella poveretta…

– Quale poveretta?– Insomma con Tebe, voglio dire, chissà com’eri con

lei…Battistino, non cascò nella provocazione. Si fermò ap-

poggiandosi a un albero, poi guardò verso una finestra divia dei Collerici:

– Senti questa chitarra? È Egeico Lago. Strumento dapigri… bravo, però.

Poi guardò in alto, i cornicioni scrostati, il cielo senzauna nuvola, chiuse gli occhi e sussurrò:

– Che pace… sono a posto, sai, Enrico… mi sento a po-sto. Che bell’istante. Dovevamo sposarci noi due. Perdia-mo tempo a classificare tutto… non ci ascoltiamo neppu-re mentre parliamo, proprio come marito e moglie… IoTebe la cercavo per quella bella pelle salutare, come i fan-ghi, e le volevo anche bene quando ero lì in mezzo ai suoimerletti, mezzo asfissiato dai suoi deodoranti. Poteva na-scondere microbi, peste, peccati, quello che vuoi, ma ame quella pelle piaceva. Casomai il problema era dopo,ma proprio subito dopo. Immediatamente dopo mi face-va schifo… dovevo farmi forza per non scappare, – alzò

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Scappò in camera da letto e ci si chiuse a chiave.Ma l’odore, anche se stava cominciando ad avere un

corpo, passò tra porta e stipiti. Enrico si coricò e l’odore montò sul letto. L’odore si mise

a fianco di Enrico lasciando, tanto era denso, il segno sulcuscino e sul lenzuolo, ma lui non guardò che forma avesse.

Quando l’odore lo abbracciò Enrico non oppose resi-stenza.

L’odore gli disse:– Stai impallidendo. Ora me ne vado. Stai tranquillo,

torno, ma a te non posso, a te non posso… c’è tanto diquel sangue di mezzo.

Enrico riprese a respirare normale; avrebbe voluto far-gli domande, almeno chiedergli cos’era, se era un’anima,da dove arrivava, quanti anni aveva e che vita faceva. Mal’odore sparì dalla casa.

* * *

Egeico Lago, sessantenne, aveva numerosi cognomi edera frutto di avvicinamenti tra sangui sempre più acquosi.Con lui era possibile ricostruire un’anagrafe che rivelavaquanto la forza della parentela si identifichi con la forzadell’accoppiamento benché molti credano il contrario.

A Egeico, anche se la storia durava da vent’anni, la pel-le ghiacciata della cugina Medina Xaxa faceva sempre ri-bollire, ma con bollicine, l’olio del cuore.

Era l’uomo più pigro di Epipanormo e si era convintoche, siccome era attratto dall’arte e dalla storia, dovesseessere per forza sgombro dalle preoccupazioni di un la-voro, di una sveglia e di un orario. Anche l’espressione

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– Ha chiesto che frutti erano quelli scolpiti nel marmo,ha chiesto proprio così… vedi che è uno attento, lo vedi?

Egeico Lago smise di suonare la chitarra pigra. Enricoe Battistino si avviarono di nuovo verso casa.

* * *

Dopo pranzo il vento decise di spolverare il quartierealto: case, alberi, bestie e uomini.

Enrico socchiuse le finestre e si mise a lavorare all’ope-ra che lo assorbiva da mesi: la faccenda dei bagni greci ri-trovati a Talattone. Lui voleva calcolare il numero degliabitanti della città più di duemila anni prima a partire daibagni.

Seduto al computer era rammollito e si distraeva per-ché in quei bagni si immaginava Melania coperta solo diun lenzuolo bagnato dal vapore, nera di pelo e lucente.

In quel momento sentì un profumo forte e inconfondi-bile di pesche mature.

Spalancò la finestra, si affacciò e annusò l’aria in veran-da. C’era un bel sole caldo che gli diede prurito. I suoisensi riusciva a usarli, da qualche anno, con la concentra-zione di chi sa che non era lontanissimo il tempo in cui liavrebbe persi e annusò ad occhi chiusi: non c’era odoredi pesche fuori all’aperto.

L’odore di pesche è in casa!L’odore diventò fitto, invase Enrico e lo impregnò sino a

dare un segnale di allarme. Enrico corse a un’altra finestra. Nessun odore nell’aria, anche da questo lato!Corse in terrazza e annusò sino ad avere vertigini. Nien-

te da fare, l’odore non lo porta il vento!

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Battistino conosceva i tempi mentali di Egeico Lago sindal Liceo, quando Egeico era stato insegnante supplentedi storia dell’arte per poco tempo: aveva rinunciato dopouna settimana e si era ritirato nel suo appartamento a far-si inseminare la testa dalle idee. Perciò Battistino era de-ciso a guidare l’ozioso indisponente verso quello che in-teressava loro due:

– Vorremmo solo sapere se lei, che è considerato un sa-piente delle cose di Epipanormo, è a conoscenza di qual-che fatto nella storia del quartiere.

Enrico aggiunse:– Per esempio: lei conosce una famiglia che aveva uno

stemma con due pesche e due spade incrociate su unoscudo, pesche araldiche?

– Sapere se lei è a conoscenza, – proseguì infastiditoBattistino, – di fatti che comunque sono in relazione allepesche. Tutto qua.

Egeico disse irritando i due amici:– Che cos’è questo vino bianco?– È Mèlico secco, professore.In ogni modo, comunque Egeico mettesse mano a

un’attività o a una discussione, era capace di trasformarlain ozio che lui riteneva produttivo. Battistino se ne accor-se e riprese il timone:

– Le pesche, le chiedo, hanno mai avuto importanza nel-la nostra città? Noi abbiamo scartabellato, siamo inse-gnanti, lei lo sa, e quindi scartabelliamo. Dal milleotto-centodue non abbiamo trovato notizie sulle pesche, dinessun tipo.

Egeico, visto che gli erano stati sottratti i suoi argomen-ti, finse di cercarne altri:

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occuparsi d’arte era troppo forte per Egeico Lago. Prefe-riva dire che pensava all’arte aspettando che i pensieri gligermogliassero nella testa impollinata dal vento.

Abitava in un piano alto in via dei Collerici. Enrico e Battistino erano saliti per invitarlo a cena al ri-

storante.Egeico Lago, sin dal tardivo risveglio pomeridiano, era

pronto a uscire la sera e la notte. Era bianco come unacandela.

– Sono contrario a risparmiare le parole. Meglio qual-che parola di troppo, la si può sempre togliere, ritirare.Ma i taciturni chissà quanta saggezza sprecano standozitti, chissà di quante cose sarebbero capaci se parlasse-ro… È una bella sera, il sole, per quante se ne sono dette,il sole, non fa per me… Dove andiamo?

– Siamo in macchina, – rispose Enrico. – Se lei è d’ac-cordo possiamo andare da Settimio al Precipizio. Lo soche da Epipanormo per lei non si dovrebbe uscire. Ma sechiude gli occhi, non vedrà nulla di Talattone, e quandosaremo al ristorante la avvertiamo, così potrà riaprirli.

– Non mi prenda in giro professor Ricasoli. Conoscobene Talattone. Prima è nata Talattone, è probabile, poi imigliori se ne sono venuti qui con la forza della mente: efacendo faticare uomini di razza inferiore alla nostra, ab-biamo costruito questa acropoli! Ecco l’ascensore.

Mezz’ora dopo erano ad un tavolo del ristorante sulprecipizio di Sant’Eusebio. Vicini alla vetrata guardava-no le luci della città, tremolanti per l’umido.

– Le pesche nella storia di Epipanormo? Che domandami fate?

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Il cimitero di Talattone era in riva al mare, sopra altritre cimiteri: un cimitero, sommerso dall’acqua salata do-ve si erano disintegrati i greci, un secondo sulla sabbiadove riposavano polverizzati i romani, un terzo sul tufo,con morti di razza recente.

Morire d’estate è diverso dalle altre stagioni. C’è in gi-ro, col caldo, gente meno interessata, anche se il cadave-re, col caldo, è più cadavere e manifesta più velocementela propria tendenza. Il dolore c’è ma il caldo non conser-va a lungo neanche il dolore.

Tebe Mistrè, sigillata dalla sera precedente e in procin-to di sparire anche dai ricordi, era nella sala bianca del ci-mitero insieme alle altre salme.

Alle dieci arrivò qualcuno che, a mani giunte, si af-fiancò alla bara di Tebe dopo aver letto il cartellino bian-co con il nome di lei.

Era una mattinata luminosa, il mare verde e il cielo ven-toso.

Dopo mezz’ora c’era, intorno al feretro, una decina dipersone tra cui il commissario Glicerio, Enrico e Batti-stino.

L’occhio del poliziotto era rosso come un sole minoreirritato dal vento e ad Enrico, in quella sala senza speran-za, sembrò un’escrescenza velenosa:

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– I miei allievi, allievi per poco tempo, mi dicevano cheavevo una faccia da psicopompo.

– Da psicopompo? Si può dire quello che si vuole diuna faccia, – disse Enrico.

Battistino sentiva la bile in gola:– Lei non deve dire cose del genere, non deve dirle…

Dove trova le parole? E poi, che uso ne fa? Allora Egeico, forse per effetto del vino, forse per effet-

to del rombo al forno, disse la verità:– Non so cosa dirvi, non lo so proprio. Devo aspettare

delle idee. Mi viene solo in testa qualcosa sull’albero infe-lice, qualche leggenda su un albero infelice… devo aspet-tare. Magari era un pesco.

La cena fu breve perché Egeico Lago era a disagio fuoridi casa e ancora di più fuori del quartiere, perché Battisti-no era irritato ed Enrico intristito per contagio dalla di-sgraziata pigrizia di Egeico.

Quando arrivarono al portone dello studioso astenicoil vento era caduto chissà dove e il cielo si era sporcato diqualche evaporazione che arrivava dal basso.

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La vicina di casa, allora, si rivolse ad Enrico e gli alitòall’orecchio:

– Lei è un avvocato? Da Tebe ci andavano persone ditutti i tipi… lei è avvocato?

Enrico si spaventò e cercò aiuto, ma Melania era fuorial sole:

– Non sono avvocato.La donna alitò ancora più forte:– Era anche lei uno dei suoi amici?– No.Lei allargò la bocca rossa da pagliaccio e battendosi la

pancia gridò:– Lei non la conosceva. Adesso non la conosce nessu-

no. Le hanno tolto il sangue sino all’ultima goccia…scannata e abbandonata… e non la conosce più nessuno.

Enrico si spaventò ancora di più e sentì il bisogno di ap-poggiarsi a qualcosa:

– Siamo qua, non è una morta abbandonata, signora.Ecco.

Quella aveva l’alito di un drago:– Succhiata e abbandonata come l’immondezza!Enrico trovò un carrello d’acciaio per il trasporto delle

bare dove appoggiarsi ma le vertigini aumentarono. Siscusò e, spingendo ed appoggiandosi al carrello, cercòl’uscita dalla sala inseguendo il sole e il vento che muove-va gli alberi.

Nel piazzale riuscì a stare in piedi per un attimo. “Quisi cammina sui morti, strati di morti… Terra nuova, vo-glio terra nuova.”

Vide i colori cambiare, si sentì il cuore come quello diuna lucertola, vide Melania che parlava con un uomo di

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– Commissario, come si sente? – domandò fissando ilglobo rosso.

– Brucio, brucio alla velocità del… – non gli venne ilparagone in quel luogo dove c’erano persone che nonbruciavano più nulla, – insomma, più veloce degli altri. Elei, professor Mattiolo, come si sente? Io non so se farle lemie condoglianze.

Battistino era ostile ma melanconico:– Vorrei stare zitto, commissario. Sa, una volta facevo

dello spirito ai funerali, da qualche anno la voglia discherzare mi è diminuita. Alla fine sparirà.

La spiegazione bastò al commissario che puntò l’oc-chio da altre parti.

C’era anche la vicina cinghialesca di Tebe con la boccadipinta oltre le labbra sino alle guance:

– Non me lo sarei mai immaginato, professore, – mugo-lava rivolta a Battistino che, vestito di lino blu, era più al-to e importante del solito. – L’hanno tagliata come unanimaletto… Che bella pelle aveva, se la ricorda, no? Manon la difendeva nessuno! Chiunque poteva farle male!

Battistino non la guardava neppure, era rivolto verso ilcono di luce dell’ingresso, e pensava un’orazione funebreprivata:

“Tebe, povero lumicino, merlettaia nata. Sapone, sapo-ne e deodoranti, ma cosa strofinavi e deodoravi, cosa?Buona prima e disgustosa poi. Quell’odore di borotalcoche mi rimaneva addosso per ore. E non c’era doccia,non c’era immersione né disinfestazione che me lo to-gliesse… La mia penitenza: dovevo aspettare la vogliasuccessiva. Valevi un’oretta… Tebe, scusa, ma era così…almeno io ricordo così.”

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differenza di Egeico, che lei aveva scelto di frequentaread accessi, per pochi giorni al mese lontani dalle sue ovu-lazioni fiacche, era attiva e attenta. Solo al tramonto veni-va presa da una malinconia che spegneva la sua vitalità dabambola. E allora era impressionante vederla, con le oc-chiaie improvvise, ritornare a casa precipitosamente.

Era cugina lontana di tante persone e anche di Enricoche la chiamava “la mia cugina del crepuscolo” e le vole-va bene.

* * *

Un sabato che Enrico aveva deciso di andarsene allostabilimento marino della Grotta di Panope, mentrescendeva leggero le scale, trovò nell’atrio del palazzo ungiovane appoggiato allo stipite del portone col gatto por-tinaio tra le braccia.

Lo salutò:– Buongiorno! Che aria ad Epipanormo oggi! Il mare

ci manda messaggi! Sono Enrico Ricasoli, e abito in que-sto palazzo.

L’uomo posò il gatto sulle mattonelle calde e se ne andòcon un bel passo pneumatico da ragazzo verso la discesasollevando un braccio in segno di saluto.

Alle narici di Enrico arrivò un buon odore di pesche.Non si preoccupò e realisticamente si disse:– Narici noiose, sentono dappertutto lo stesso odore!Arrivò al gabbiotto della funicolare. Con lo stesso mo-

tore una funicolare saliva e l’altra scendeva, perciò c’erasempre un punto nel quale le due cabine si sfioravano echi discendeva vedeva le facce di chi risaliva.

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carbone che aveva un occhio enorme, riconobbe Glice-rio e svenne guardando il cielo.

* * *

Enrico era così, affrontava le cose concentrandosi su unasola, non si sforzava di metterle insieme e di sistemare tut-to in armonia. Il suo paesaggio olfattivo ormai era invasodall’odore delle pesche mature. Quell’odore di pesca glisembrava di importanza straordinaria ma senza sapereperché. Perfino mentre sveniva in cimitero l’aveva sentito.

L’unico odore che poteva spiazzare quello delle pescheera quello di Melania ed era stato l’odore di lei a farlo rin-venire. Ma da tre giorni lei non si faceva vedere ed Enriconon l’aveva cercata perché non si sentiva forte abbastanza.

Egeico Lago si era chiuso da qualche giorno a casa del-la cugina Medina Xaxa, chiuso e catturato da lei che usci-va raramente.

Medina era una donna triste, un essere del paese deldolore. Però, quando ospitava Egeico, smetteva di dor-mire dentro la culla del figlio morto, dove tutte le altrenotti giaceva respirando pesante per i sonniferi e tenen-dosi stretta alle sbarre. Quel figlio, si diceva fosse statoproprio figlio di Egeico Lago.

Nonostante il dolore da amputazione per la perdita,Medina era interessata a vivere.

Come Egeico era dissanguata da incroci tra parentelevicine. Una donna clorofillica, alta e con un bel naso. Ve-niva alla mente, vedendola, l’idea di una razza indebolitada radiazioni, alimentata solo con acqua e foglie. Ma a

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Medina alla luce brillava e un brio insolito, breve comeil magnesio dei fotografi, la animava seduta sulla panca dilegno della teleferica:

– Si sono mai toccate le due teleferiche? Intendo, si so-no mai scontrate quella che sale con quella che scende?

Enrico non ci aveva mai pensato e di nuovo sentì scossoil suo equilibrio:

– No, no, mai. Non credo che sia possibile. Quando c’èmolto vento non le fanno viaggiare.

Erano già sopra Talattone e le mura candide di Epipa-normo erano lontane in alto. Man mano che scendevano,la muraglia azzurra del mare appariva più bassa e più vi-cina. Il conducente azionò il morso dei freni. La teleferi-ca ondeggiò, rallentò e con la lentezza di un aquilone ap-prodò a Piazzale dei Naviganti.

Arrivarono col tramvai agli ombrelloni bianchi dellaGrotta Di Panope alle dieci.

Pochi minuti dopo Enrico aveva convinto Medina atogliere l’accappatoio e ad entrare in acqua. Lei si era co-sparsa di una crema biancastra e lui aveva notato le nati-che appuntite che mai avrebbe immaginato nella cugina.

Gli scogli della Grotta di Panope erano di tufo. Medinaera abbagliata da tutto quel chiarore ed Enrico era stupi-to dalla forma della donna che sembrava aver trascorso lavita a nascondere tutto, e il viso gli sembrava, tolto dall’o-scurità, un insieme di particolari messi bene a suonare in-sieme.

– Perché sei venuta al mare, Medina?Lei si allisciava le gambe con sospiretti perché il sole la

pizzicava:– Sai, da ieri non dormo più nella culla del bambino.

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Nella saletta della funicolare Enrico leggeva un libretti-no che gli alunni gli avevano regalato e pensava: “Allieviavari, figli di avari.”

Stava per condire il pensiero quando gli chiesero:– Vai al mare Enrico?Era Medina Xaxa che, nel punto più oscuro della bi-

glietteria, leggeva anche lei un libretto. Medina, con la lu-ce delle vetrate, era più clorofillica del solito ma il suo fo-gliame era in tempesta:

– Enrico, oggi vado a cercare il sole. Certo, dovrò star-mene un po’ all’ombra, ma ho desiderio della luce. Luce,capisci? Enrico leggi il libro al contrario, dalla fine?

– Mi capita quando sono ansioso. D’altronde, cugina,un quadro non lo guardi iniziando dalla parte che vuoi?Io faccio così anche coi giornali.

– Beh, anche un quadro ha il suo inizio, cugino. Si inco-mincia a guardarlo dal centro, non dagli angoli.

Medina non era come sempre e dall’angolino in ombradove si trovava proveniva un’energia da sottobosco inso-lita per lei.

La teleferica si poggiò ondeggiando sulla pensilina d’ac-ciaio. Enrico e la cugina montarono.

– Sai che soffro questi ondeggiamenti, Enrico? – Oh, è il sistema dell’equilibrio che nelle persone sensi-

bili funziona così. È un aggeggino delicato che mi ha fattovedere in un disegno il mio collega di scienze. Sono tantele cose che lo influenzano. Pensa che ieri una donna, unaspecie di cinghialessa, senza farmi ondeggiare, senza spin-te, solo con le parole, mi ha fatto perdere l’equilibrio e so-no svenuto.

– Tu sei sempre svenuto con facilità.

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vano le due cabine, quella che scendeva e quella che saliva. Enrico si allarmò quando sentì l’odore di pesca: prima

lontano, poi più vicino, poi ancora più vicino. Medina si rallegrò:– Che buon profumo! Guarda devo avere le guance co-

me due pesche per il sole! Profumano!Le due teleferiche erano l’una accanto all’altra. I due

conducenti si salutarono.Fu un vortice piccolo e venuto dal niente che tutti vi-

dero.La porta si aprì nel vuoto e il vento entrò.Medina scivolò fuori per metà.Enrico, in silenzio, afferrò la cugina per i polsi e riportò

il tronco di lei sul pavimento della cabina, lasciando legambe fuori. L’odore di pesche diventò un tanfo ma nes-suno ci badò.

Le due cabine ondeggiarono l’una verso l’altra e la gen-te gridò: – Oooh!

Medina guardando in basso sospirò solo: – Ah!La cabina che discendeva si prese in silenzio la metà in-

feriore di Medina e tutti videro precipitare verso Talatto-ne un bacino con due gambe sgangherate.

La metà superiore restò nella cabina e a Medina fu suf-ficiente per sospirare ancora:

– Tirami sopra, non voglio che anche questa metà vadagiù… mi è rimasta la gonna, vero?

Enrico sentì la cugina leggera, che pesava come un bam-bino, e la trascinò senza fatica al centro della cabina che,intanto continuava a salire. Tutti tenevano la faccia giratasalvo Enrico che fissava il viso di lei con le improvvise oc-chiaie infinite.

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Enrico non capì ma comprese che qualcosa di grandepassava nella testa della cugina e si affrettò a dire:

– Non parliamone. Non si può parlare di tutto. Nonparliamone, ho fatto una domanda che non dovevo fare.

– È morto di debolezza… non doveva nascere… nondoveva…

Medina sorrise e si addormentò sulla sdraio, stanca pertutta quella luce.

Aspettavano la teleferica per il ritorno. Medina parlavadel pranzo, di cibo che le avrebbe fatto sangue e dellabellezza che le donne di Epipanormo, tutte, possedeva-no, magari nascosta anche solo in un angolino del corpo.Spettava a uno, e non a chiunque, la scoperta.

– Eh, io sono uno qualunque, cara Medina, però oggi tiho vista bene, con un’attenzione da copista. – Enrico eragalante senza difficoltà con le donne che non erano Mela-nia: – C’è da passarci anni a ricopiarti, cugina.

– Egeico mi ama. Io lo tengo lontano: lui non ha forza.D’altronde neanche io ho tanta forza, sai? Però impareròad usare quella che ho: in fondo ho solo trentasette anni elui quasi sessanta.

Montarono sulla teleferica. Si sentivano spossati dal-l’acqua salata e dal sole. Pensavano al vino, al cibo e alsonno pomeridiano con le tende accostate. Tacevano eMedina prese sottobraccio il cugino per sostenersi vistoche c’erano solo posti in piedi: – Mi tengo qua, così migodo questo capogiro, questo ondeggiare. Che bello, chebello…

Avvenne a metà del percorso, dove, di solito si incontra-

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Il sovrintendente, che aveva già controllato anche lui,fece un passo in avanti tenendo le mani dietro la schiena:

– È stato il dottor Malagrida. L’hanno come incollata,con una specie di mastice che usano anche per i vivi… havisto? È rimasta solo una linea grigia.

Glicerio continuò a osservare Medina Xaxa.Il cono di luce che entrava nella cella era rassicurante

perché, mettendo la mano dentro la luce, si sentiva un te-pore da vivi che consolava.

Glicerio rifletteva:– Aumentano i dubbi, fermentano i fatti, come sempre.

Possibile che le cose passino attraverso quel piagnone diEnrico Ricasoli e quel Battistino Mattiolo? La sicura del-la portina della teleferica è comandata dal macchinista…eppure si è aperta! E ancora quell’odore di pesche!L’hanno sentito tutti.

In quel momento bussò Egeico Lago.Era un’abitudine di Glicerio investigare col morto re-

cente e, meglio ancora, presente: tutti diventavano, se-condo questa sua idea, più vulnerabili. Diceva sempreche la prima reazione rivelava tutto di una persona ed eraaddirittura inutile andare avanti con interrogatori e pro-cessi. L’indiziato si mette a ragionare, a pensare cosa è me-glio o cosa è peggio per lui, e allora addio verità.

Egeico non disse una parola. Chiese con un gesto chevenisse spostato il lenzuolo dal volto di Medina e cercò unpunto nella cella da dove poterla vedere di profilo. Lotrovò e lì si sedette a guardarla. Anche Glicerio gli si se-dette accanto e osservò il profilo della morta.

– Guardi bene, dottor poliziotto. Questo è un profiloche non è mai stato esibito! Eppure, se lei studia i profili

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Sbatté la faccia sul linoleum e morì.Il bacino e le gambe di Medina caddero alle pendici

delle mura impigliandosi a un bel pino. La parte inferioredi Medina spettò al quartiere più basso. Lei non si era la-mentata perché era troppo grande la cosa che le era capi-tata. Era verde come un germoglio.

* * *

Un’ambulanza portò la metà superiore a ricongiunger-si con quella inferiore all’obitorio di Santa Vincolata.

Un’altra ambulanza condusse invece, più tardi, Enricoa Villa Teresina, tra gli abeti, in montagna, perché quellastoria lo aveva fatto correre a casa dove aveva ingoiato unpugnetto di sedativi. Così Melania Lampreda lo avevatrovato mentre dormiva e piangeva insieme, e, sempreaddormentato, l’avevano caricato e trasportato in clinica.

* * *

L’ex convento di Santa Vincolata era adatto, con tuttele cellette basse, ad ospitare salme che ricevevano luce dauna finestrella quadrata.

Glicerio aveva quella mattina successiva alla disgrazial’occhio rasserenato dai farmaci. Sporgeva, sì, ma senzaflussi esagerati. Inoltre, davanti a Medina Xaxa le cui metàerano state riunite, l’occhio si ritirò ulteriormente nellasua naturale cavità.

– Chi l’ha ricomposta così? – Domandò a Bombòi sol-levando il lenzuolo e guardando sotto: – È un capolavo-ro! Nessuno potrebbe immaginare!

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a vivere, ma proprio a vivere, l’aveva avuta perché avevacapito che Fabiano ci poteva essere ancora.

– Fabiano? Il figlio morto? – domandò il sovrintendente.– Sì. Allora ho pensato che si era ribellata al cilicio, per-

ché quel lettino era il cilicio di Medina. Ma ora penso chela gioia è un pericolo, commissario…

– Quindi non era una che pensava al suicidio, secondolei? Ma cosa voleva dire che Fabiano ci poteva essere an-cora?

– Non lo so, però sembrava contenta, come mai era sta-ta… Non so esattamente cosa passasse nella sua testa, erachiusa e senza serratura, ma era felice e cominciava a usa-re, uno alla volta, tutti i suoi sensi. Più in là, giacché erauna donna intelligente, avrebbe imparato a usarli tutti in-sieme.

Bombòi sussurrò piano piano all’orecchio del commis-sario:

– Dottore, deve prendere la pastiglia, sennò esce di sen-no come l’altro giorno che se l’è dimenticata.

Glicerio strinse la mano molle di Egeico. Si segnò con lacroce. Contemplò il profilo di Medina per l’ultima volta.Pensò che tutta questa dolcezza era stata dolce per pocotempo. Guardò Egeico, curvo, spettinato, e con il collettodella camicia sporco: “Cosa c’entrava con Medina que-st’uomo? Però… quel naso… quel naso dice qualcosa, èvero: un nasino dominante.” Si palpò l’occhio ribelle, in-goiò la pastiglia e se ne andò.

* * *

Battistino, coricato sul divano, al buio, le finestre aper-

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di Epipanormo o i ritratti di donne del nostro quartierealto, questo profilo, da secoli, li contiene tutti: è un mira-colo! Tutte le altre facce sono nate da questa! C’è tutta lanostra razza davanti a lei… quel nasino è tutti i nasini,quel mento è tutti i menti e quella fronte è tutte le fronti…

Bombòi si commosse pensando a sua figlia che avevapreso il naso della madre che era stato del nonno e primaancora di tanti altri. Glicerio trovò bellissimo questo di-scorso funebre e l’occhio ricominciò a fiammeggiare:

– Professor Lago, perché Medina Xaxa aveva deciso diandare al mare? A detta di chi la conosceva non ci andavada quando era bambina.

La domanda non fece girare Egeico Lago che continua-va a fissare il profilo di Medina:

– Commissario, Medina dormiva nella culla del figliomorto, lo sapeva? Una culla di metallo con le sbarrette, ciavrà dormito anche lei da piccino…

– Sì, ne ho avuta una così sino a cinque anni.– Beh, Medina ci dormiva da molto tempo… Però da

tre giorni aveva ripreso a dormire da sola nel letto matri-moniale. Inoltre, ho visto a casa sua cose mai viste prima.

– Cioè?– Fondo tinta, profumi, mascara, creme da donna…

Mai viste!Egeico si voltò verso il commissario, sobbalzò per l’oc-

chio infuocato che gli sembrò un ex voto e continuò:– Era successo qualcosa. Aveva anche ripreso a ballare.

Gliel’ho chiesto e sa cosa mi ha risposto mentre danzavail Valzer dei Glicini?

– Cosa le ha risposto? – chiese Bombòi.– Beh, mi ha detto che la prova che si poteva continuare

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tutti i profili della stanza erano uguali salvo che sul diva-no, dove prima c’era lui, ora c’era una bella figura, blu co-me tutto il resto, che lo guardava.

“È vapore entrato nella camera!” pensò.Desiderò di scappare: quell’ombra era contro tutto

quello che la sua testa aveva pensato in quarantotto anni,e non poteva esserci. Ma lui ai sensi credeva, a cosa dove-va credere sennò? Guardò ancora.

“Il vapore può prendere qualsiasi forma, ma non restafermo a guardare, le finestre sono aperte…”

Quella forma, ancora più blu, si mosse e Battistino sentìla paura del condannato:

– Cosa vuoi?– Sto rimettendo le cose a posto, Battistino Mattiolo. Le

rimetto come si deve… in bell’ordine… vedrai.Anche Battistino, senza vergogna, ma solo perché era

l’unica soluzione, svenne perché non voleva vedere e sen-tire di più.

Cadendo sentì un denso, rappreso, nauseante odore dipesche mature.

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te, sentiva la musica dell’appartamento di sopra a occhichiusi. Scosso ma lucido, in mutande ma dignitoso.

Il suo amico era ancora ricoverato e dormiva da duegiorni; era Melania Lampreda che ascoltava musica a casadi Enrico: “Beato lui,” pensò Battistino. “Riesce sempre ascappare… non ce la fa a stare al mondo quando c’è dasoffrire… E Melania che lo ama soprattutto quando nonc’è! Mah, forse è meglio così! E quel commissario? Maiche gli si senta un ragionamento, un’ipotesi, una doman-da intelligente…”

Pensava ai fatti degli ultimi giorni in ordine di orrore enon sapeva bene se più orrenda fosse stata la morte di Te-be Mistrè o quella di Medina Xaxa. “Tagliate, l’una e l’al-tra tagliate, in modi diversi. E questa storia delle pesche…Perfino il cane è un morto alla pesca…”

Era un uomo duro ma provava una debolezza addossoche lo innervosiva: tutta quella morte devastava anche lui.“Morte pelosa!”

Battistino odiava le medicine, specie quelle che serviva-no per funzioni normali come il sonno, ma quella notte neavrebbe voluta una, di nascosto, senza che nessuno sapes-se i fatti suoi.

C’era luna piena e la luce della stanza era blu, vedevabene le ombre familiari dei mobili. Si alzò e si guardò in-torno e disse a voce alta: – La luna oggi sparge bianco aEpipanormo anche dentro le case.

Vide una nube, un vapore, un velo passare nella finestrae cambiare la faccia della luna. Si affacciò: il gatto porti-naio passeggiava sotto casa, avanti e indietro. La musicadi Melania cessò.

Quando si voltò una cosa nel soggiorno era cambiata:

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II

Dagli spalti delle mura bianche di Epipanormo le senti-nelle gridano l’ora agli abitanti e sudano indolenzite den-tro le armature arroventate. Tra le giunture di ferro co-mincia a infilarsi l’aria fresca dei monti e il metallo si raf-fredda.

A casa Redenti, come in tutte le case dei ricchi, sannocome difendersi dal caldo:

– Quando arriva il ghiaccio dalla montagna, Sertolino?Sertolino, raccoglie piatti e bicchieri sparsi per la ter-

razza illuminata dalle torce e dalla luce rossa del sole chetramonta:

– Come volete che arrivi, signore? Andrò io a dorso dimulo quando avrò messo in ordine quello che voi avetemesso in disordine… Studiate giorno e notte l’ordine delcielo, ma qui in terra, quello che mettete, è disordine…Posso tenermelo questo mezzo boccale di vino? L’astro-labio lo lascio qua, tanto ve lo portate voi nel frutteto…

Il giovane non ci bada al suo servitore:– I baci dell’addio… ecco!Poi, al servitore che si ferma ad ascoltarlo:– Ma ti pare, Sertolino, che basti dire addio alle cose e

le cose diventano inesistenti? Credi che se uno si allonta-

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troppo caldo durante il giorno per trasportare il ghiaccio,ma Sertolino inizia ad avere paura quando gli chiudonoalle spalle la grande porta settentrionale di Epipanormo eritirano il ponte levatoio.

Guglielmino dei Redenti ha ventisette anni, alto, elasti-co e un po’ curvo per l’umore melanconico, la pelle comela cera, per nobiltà, ma le guance rosse per natura, i ca-pelli lisci e neri, gli occhi arrivati da oriente, le mani belleche molte donne di Epipanormo si immaginano addossoalla ricerca della propria pietra filosofale.

Il terrazzo di Casa Redenti da un lato dà sulle mura diEpipanormo e dall’altro lato sul frutteto, circondato damuri alti.

Il frutteto è di piante di pesco che il padre di Gugliel-mino ha piantato alla nascita del figlio.

Al centro c’è l’osservatorio del giovane Guglielmino:una cupoletta di legno con una grande apertura sull’apice.

Tutti gli alberi sono carichi di frutti e il profumo è tantoforte che l’aria si muove pesante.

La luna è davvero una mamma questa sera e riempie latesta di Guglielmino che suda: ha bevuto troppo vino diTalattone, un vino salato che lo stordisce dalla prima boc-cata.

È coricato, sui gradini dell’osservatorio, perso tra rettee volute che traccia nel cielo stellatissimo. Sa dividere iltempo: non ha bisogno che glielo segni il colpo di canno-ne al tramonto: gli basta la luna e qualche astro. Col sole,poi, è ancora più facile.

“Non finirò più, ce n’è troppe… non le conterò mai e

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na da una cosa questa cosa non esiste più? – si alza discatto, guarda il cielo estivo di Epipanormo, stelle e astrilucenti e pensa all’altra metà del mondo al sole.

Da casa Redenti si vedono i galeoni nel porto e ancheuno che arriva, con le vele sanguigne al crepuscolo, e a luiil mare, questa sera, sembra un’immensa palude.

Il colpo di cannone segna il tramonto e l’ora del riposoper tutti in città.

Sertolino discende in cucina senza rispondere alla do-manda e consegna le stoviglie ad Amelina, la sguatteradal naso un po’ porcino che però a lui piace, anche sedorme in un angolo della cucina dove le pulci considera-no Amelina una riserva infinita di cibo buono.

– Senti, pensaci tu. Io parto per monte Morrone a cer-care ghiaccio. Ghiaccio in agosto! Accidenti a chi gli hainsegnato a leggere e scrivere… Così ricco, non ne avevabisogno di leggere e scrivere… Meno male che c’è questaluna che sembra una mamma anche se il sole non è anco-ra scomparso… A proposito, Amelina, guarda che beltramonto…

Amelina, zitta, prende piatti e bicchieri e sparisce nellaluce dorata della cucina da dove esce un soffio caldo diarrosto e carbone. Sertolino, la guarda. È pelosa, ma que-sto collo carnoso gli muove il sangue sino alla punta delledita e pensa che a toccarla deve essere come l’uovo sodo.E poi, quando lei sorride, si muove tutto intorno e la fu-liggine della cucina sembra un mantellino di seta. Sertoli-no riempie una zucca col vino, guarda la zucca pensandoalle cose di Amelina, lega il mulo al carretto, assicura l’ar-chibugio alla sella, monta e esce, meno vivace del solito,dal grande portale. Partire al tramonto è necessario, c’è

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quale ha provato un rimescolamento mai provato prima,una specie di eruzione, quando l’aveva vista passare perstrada lasciando una scia e Medina gli era sembrata unacometa.

Cerca i versi che ha nascosto, li rilegge e straccia il fo-glio.

La stessa tempesta tra pianeti ha colpito Medina degliXaxa e anche lei aveva visto una scia che seguiva Gugliel-mino.

Medina aveva smesso ogni attività: non cuciva più, nonleggeva più, non passeggiava più - non guardava più gli al-tri, ci guardava attraverso. Il suo sguardo attraversava an-che le pareti della casa, poi quelle della villa di Guglielmi-no dei Redenti, poi il frutteto di pesche e arrivava, propriocome un raggio miracoloso, sino all’osservatorio del gio-vane astronomo.

Medina non pensava all’infinito anche se, senza saperlo,dall’infinito era attraversata da una parte all’altra.

Guglielmino ha riflettuto e ancora riflettuto sul fattoche tutto è mosso da una forza unica e che quella che gliarriva da Medina è la stessa, ma proprio la stessa che muo-ve sole, luna e maree, fa maturare le sue pesche e lo ha fat-to crescere sino a essere pronto per questa ragazza.

Gli appare mentre lui si attorciglia i capelli sudati.Il vento si è fermato, e lui si è tolto la camicia. La vede arrivare dritta dalla luce della luna.Possibile che da lì arrivi Medina, circondata da tutto

questo pulviscolo? Un chiarore mistico.Sente il collo battere forte, tanto forte che gli fa male e si

spaventa. Lei è più vicina. Guglielmino respira profondo

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non saprò mai dove stanno esattamente! Segnarle tutte!Io ho solo un miserabile lenzuolo nero dove ogni giornoaggiungo un puntino bianco e gli do un nome… Sono undisgraziato! E quelle che vedo una volta sola? Come leconto? E quelle che passano per un istante? Sono un di-sgraziato, ecco! Ecco…”

Come i bambini offesi: Ecco.Si versa un altro bicchiere di vino e lo ingoia in una

volta.“E quelle che non vedo quante saranno? Arrivo a un

palmo del mio naso col cannocchiale… Quelle vorreicontare, che nessuno è mai arrivato a contare…”

Accende le candele all’interno dell’osservatorio, guar-da il suo planetario nero con pochi puntini bianchi e glisembra così povero rispetto al cielo vero sulla sua testache si arrabbia ancora di più e lo getta in terra.

“E cosa dovrei fare? Mettermi a guardare l’orto e con-tare le foglie? E non faccio parte di tutto questo che mista sulla testa? Le foglie e le stelle non si contano, si guar-dano… Così si usa la testa per contemplare e non per da-re giudizi sul creato facendolo a pezzettini sempre piùpiccoli… Ecco.”

Raddrizza la schiena.– E no! Avrà pure una misura questo cielo!Il vino tossico di Talattone gli fa calore nel cervello e

pensa a voce alta:– È una forza sola che lo muove e fa muovere anche me.

L’infinito sono io e mi riconosceranno…Qualche settimana prima ha annotato, mettendo poi

l’idea in versi, che tutte le energie si assomigliano. Lo ha ispirato un’adolescente: Medina degli Xaxa, per la

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Lui si alza, tira su un secchio d’acqua dal pozzo e la lavatutta con la sua camicia come straccio. Poi la riveste e lemette in ordine i capelli neri.

– Cosa mangio?Guglielmino riempie un cestino di pesche e inizia a

sbucciarle e a mettergliele a pezzetti tra i denti affilati.– Ma come sei arrivata? – domanda ancora guardando

tutto quello che riusciva a guardare di Medina ma ren-dendosi conto di non riuscire a guardarla tutta.

– Non lo so… io non volo… Senti, piuttosto, com’è chenon provo vergogna?

Lui si alza, corre verso il muro di oriente e ritorna colfiatone:

– C’è la porticina aperta… quella porta è quasi un se-greto anche in casa mia… come lo sapevi?

– Non lo sapevo. Sono tutta appiccicosa per le pesche,dovrai lavarmi di nuovo.

Gugliemino riempie ancora un secchio. Mentre la lavadice:

– È acqua gelata. – È meravigliosa. Io non lo sapevo di essere fatta così.

Niente mi può fermare più. Non provarci mai, Guglielmi-no!

Il cielo è chiaro e qualcuno a casa Redenti comincia amuoversi. Questa volta Medina, andandosene, segue vievisibili e sguscia dalla porticina. Perché lui non l’ha vistaarrivare da lì… e come gli è apparsa? Lei vola per stradaall’alba, arriva al muretto di cinta di casa Xaxa, attraversail giardino, si arrampica al balcone della sua camera e simette sotto il lenzuolo fresco, nasconde la testa e sente,

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e sente i polmoni riempirsi di pesche. Medina sale i gradi-ni dell’osservatorio quando lui si alza per abbracciarla.Allarga le braccia, fa in tempo a sentire che anche lei è su-data. La ragazza bisbiglia qualcosa e Guglielmino si sentel’orecchio colpito da un fulmine.

Sviene felice aggrappandosi alle braccia di lei. Quando Medina lo vede per terra e mezzo nudo è colpi-

ta dallo stesso lampo e gli cade vicino, ma con grazia e, ca-dendo, sente ben chiaro l’odore da prepotente di Gugliel-mino.

– Ma come sei arrivata?– Non lo so… io dormivo… e sono qua… tu cosa face-

vi?Sono rinvenuti che il colore del cielo cambia e la brezza

dei monti gli ha calmato la pelle e la testa. Gugliemino al-lunga un braccio e prende l’astrolabio di ferro e argentoper mostrarglielo. Mentre lo avvicina a Medina la graffiacol bordo e dal seno della ragazza esce - come se non aves-se aspettato altro - uno schizzo di sangue azzurro che colasino all’ombelico. Lei sorride.

Guglielmino impallidisce e resta a fissare il rivolo checontinua a scorrere per qualche minuto sino a quando siferma da sé dopo aver fatto un laghetto nell’ombelico.

Lui l’abbraccia, lei continua a sorridere:– Se fosse stato sangue mio, non sarei stato capace di

sorridere come te.– E cosa avresti fatto?– Non so, sarei svenuto di nuovo… ecco. Medina chiede:– Puliscimi e poi dammi da mangiare.

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Medina finge di svegliarsi quando la mamma, Eponina,entra in camera.

– Medina! Che bella faccia! Chissà che bei sogni haifatto! Beviti il latte.

La ragazza non risponde, finge di essere abbagliata dal-la luce, con gli occhi chiusi, si beve il latte. Poi apre gli oc-chi che mettono buon umore alla mamma Eponina e leescono di bocca dei versi.

Dice che non teme la miseria… che fugge la materia…che vano è il braccio di quel mago che arrancando col suodrago cerca un varco per vedere nel giardino del piacere do-ve il muro è di cristallo e protegge… il suo…

– …il mio?E fa schioccare le dita, nervosa perché la rima non ar-

riva.Eponina ride e pensa che questa creatura di diciotto

anni sta proprio cambiando: “Ora scrive versi… beh, ènormale alla sua età… suo padre mi scriveva cose bellissi-me… nel mese di agosto poi ancora di più…”

La mamma si commuove: vede il marito nella facciadella figlia e sorride perché lo immagina al femminile.Medina che guarda fuori, verso l’orto di casa Redenti, simette ancora a cinguettare saltellando per la stanza:

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con una nostalgia che le fa dolore, un buonissimo odoredi pesche mature.

Per Medina l’infinito ha, d’ora in poi, un profumo.

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Torna il padre, Battista Xaxa, Capitano della città, cherisale da Talattone:

– Quartiere alto, quartiere alto e aria buona! Si respiraqua ad Epipanormo… giù a Talattone oggi tutto puzzadella stessa cosa… forse anch’io adesso ho quell’odore dipalude… E sì, qua è un’altra cosa… Che buon odore dipesche! Arriva dal giardino dei Redenti?

Dal cortile di casa gli arriva la voce di Medina che, aforza di parlare tutto il giorno, si è un po’ inasprita:

Babbo mio non domandaredel miracolo rotondoche spuntò venendo al mondodalle gemme di quel ramoper cui oggi dico…

La rima viene in testa a tutti nella casa e anche a Capi-tan Battista Xaxa.

* * *

L’aveva pensato che sarebbe arrivato disordine nellecose dopo l’incontro con Medina.

L’arrivo di Medina dritta dalla luna, abbracciarla, ba-ciarla e, soprattutto, pulire il suo sangue gli ha dato unacertezza di intimità eterna che lo distrae da tutto. Perché,pensa il giovane, se avesse fatto solo l’amore sarebbe sta-to come tra altri esseri viventi. Medina è la ragazza piùbella e forte di Epipanormo, con pelle e carne sopranna-turali, profumata, è dolce anche il sudore di ragazza. Apensare ai particolari, Guglielmino perde il pallore e il re-

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Sangue caldo e celestinom’ha legato al tuo destino.Dal mio seno gonfio è uscito.Lui, toccando, m’ha guarito.Stesso sangue che da orientegenerò la nostra gente.

Eponina continua per qualche ora a prendere quelle ef-fusioni come un mutamento naturale della figlia che, infondo, è arrivata al limite intimo dei diciotto anni che an-che il mondo riconosce legittimo per una donna: perciònon c’è niente di male se Medina, così bella e bianca parladi destini legati dal sangue e di toccamenti magici cheguariscono le ferite. Il sangue, poi, non spaventa Eponi-na: è un segno buono, anzi la spaventerebbe una cosa pal-lida e senza sangue.

Comincia a preoccuparsi a metà giornata: Medina nonla smette di esprimersi in versi, versi lunghi, versi brevi,versi riusciti e versi zoppi, versi allegri e versi tristi, ma co-munque pieni di forza da bruciare chi si avvicina troppo.

– Medina, smettila! Per un momento parlami normal-mente… non può durare così tutto il giorno… smettila…smettila o chiamo il medico…

Non essere nell’orto delle pesche insieme a Gugliemi-no, le procura un dolore tale che l’unica anestesia è quel-l’ossessionante fare versi. Con i versi può parlare di luisenza che gli altri capiscano.

Così la voce della madre gli arriva da dietro una nube ementre la sente Medina non pensa di essere impazzita madi essere solo molto concentrata sull’amore.

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to: è proprio tale e quale a quello della figlia. Questo pro-filo è stato il profilo dei profili per lei. Ora ci sono rughe,guance che cadono, e la linea del mento ha perso ogni gra-zia, però a saperli guardare sono proprio profili identici.

– Battista, tu hai visto la ferita sul seno di Medina?Lui non sopporta l’attenzione ai particolari inutili che

Eponina ha sempre avuto e che con gli anni è diventataun vizio, un peccato che la tiene lontana dalle cose im-portanti, e una delle ragioni per cui Battista Xaxa con lamoglie parla poco:

– Non ho visto nessuna ferita, lo sai che Medina con mesi vergogna da molti anni. E poi, ti chiedo, era una feritamalata, era nera, sembrava perniciosa? Se era una feritapiccola e con la crosta allora tutto va bene: era un graffio.

Lei si nasconde sotto il lenzuolo e bisbiglia perché siimmagina la reazione di Battista a quello che sta per dire:

– Dalle ferite esce il sangue… Ma dalle ferite può ancheentrare qualcosa…

Invece Battista non risponde neppure con un sospiro.Prendono sonno tardi. Sognano tutt’e due Medina che

a tre anni si era tagliata un polpaccino con un coccio: ilsangue che non finiva di venire fuori dalla gambetta rosae nessuno che se ne preoccupava perché, tanto, sarebbebastato darle altro latte.

Battista si sveglia e vede la stanza triste per la luce del-l’alba: fuori è nuvoloso e da Talattone salgono vapori chescalano le mura alte dell’acropoli.

Medina dorme e il respiro si sente sino dall’andito.La guarda a lungo: Medina è proprio lui stesso. Lo sa

senza bisogno di controllare profili, occhi e altre somi-glianze.

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spiro diventa profondo: quanti particolari in una perso-na! Possibile?

Ma è il sangue di lei, schizzando dal seno teso, che lo hafatto sicuro di come Medina lo cercherà per tutta la vita.

Lo ha reso vertiginoso, incapace di camminare in linearetta, di sollevare pesi, esente da fame e da sete, infastidi-to da qualsiasi cosa che non riguardi Medina e il liquidoche le circola dentro e la tiene in piedi, le dà colore, sapo-re e odore. Lui è entrato nel tabernacolo di Medina, nonquello in cui sarebbe potuto entrare anche un altro, ma inquello segreto che miracola la ragazza.

* * *

Il medico visita Medina e non trova malattie studiatesui libri né viste negli uomini: è onesto e non raglia al cie-lo. Certo, un riscaldamento nella ragazza c’è e può darsiche gli umori, mescolandosi a temperature troppo altenella scatola della testa, abbiano prodotto questo feno-meno e il riscaldamento si è diffuso tanto che c’è, a suoparere, anche il rischio che emani verso altri. Così se neva lasciando Capitan Xaxa e mamma Eponina a chiedersicosa sia successo.

Arrivano il tramonto e l’ora di cena. Medina mangiacon una fame che stupisce i genitori, si corica rauca per-ché non è stata zitta un momento e si addormenta conviolenza come fanno i ragazzi, più forti degli adulti nellaveglia e nel sonno.

Battista ed Eponina, invece, hanno gli occhi sbarrati. Lamoglie spia contro la luce della candela il profilo del mari-

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al bell’animo perfettodi quel corpo a me diletto.

Verso mezzogiorno la voce non ce la fa più e le cordevocali di Medina sono viola e gonfie.

Si corica e dorme triste.Quando solleva la testa dal cuscino sudato sente il desi-

derio di Guglielmino ed ha coliche così dolorose che ledevono fare impacchi caldi.

In effetti Medina ha proprio una congestione degliumori. Non ha più voce e dalla gola le escono solo sibilicome un serpente. Si dispera, si tortura i capelli e suda. Isibili sono incomprensibili.

– Scrivi! Scrivi! – le dice Battista disperato.Lei ha infradiciato lenzuola e materasso, non riesce ad

alzarsi per il dolore che sente in pancia. E scrive soltanto:«Sangue suo, sangue mio».Cade dal letto svenuta quando lo scirocco incattivito le

porta un odore esagerato di pesche dal giardino di Gu-glielmino.

Cadendo desidera l’acqua fresca del pozzo che lui hausato per lavarla: perché non la bagnano con quella? Conquella guarirebbe.

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“Si è innamorata! E allora? Perché sono preoccupato?Cinguetta, salta, ha un odore che neanche un fiore all’oradella rugiada…”

Medina si rigira con la grazia di una statuina e nel son-no sussurra:

Io non so cosa succede…ma vorrei darvi un erede…

Battista non ha sentito bene, si affaccia alla veranda egli arriva l’odore delle pesche che questa mattina stagna.Preferirebbe un vento da nord per il sonno della figlia,più fresco e più buono d’animo: quello scirocco viene dalquartiere dove pensieri maligni e commerci torbidi locontaminano. Arriva, sì, dal mare pulito, però nella cittàbassa si impregna di polvere e cattiveria.

* * *

La condizione di Medina cambia col vento malignoproprio quella mattina.

Ora canta.Insomma non solo dice versi, ma li canta con una bella

voce, proprio bella, e i passanti si fermano tutti, a piedi, acavallo o sui carri.

È una melodia infelice:

Ecco, sento ormai esalare ogni forza mia d’amareogni sangue se non quelloche è servito da suggello

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– Il conte Guglielmino con la testa è dove neanche ilsuo telescopio arriva… i genitori pensano alla terra e in-vitano mezzo consiglio, commercianti… affari, soldi, na-vi, grano, orzo per i semolini dei vecchi senza denti…Noi, invece, i denti ce li abbiamo sani, eh, Amelina? Tu,poi, ce li hai bianchi bianchi.

Sono soli e sentono anche un poco di dolore per tuttaquella forza che sta per venire fuori.

– Che buon odore, Amelina.Amelina bisbiglia:– Anche tu hai bei denti, scommetto che tagliano come

coltelli.Sertolino cerca di morderle il collo polposo. È così tie-

pida che dimentica l’orzo, la semola, i Redenti e il ghiac-cio. Amelina torna indietro, sino all’angolo più nero dellacucina con Sertolino attaccato al collo.

In mezzo al nerofumo la pelle è ancora più candida ecarbone sembrano i peli di Amelina che si è spogliata eappoggiata a pancia in giù al suo lettino di paglia.

Si spoglia anche lui ma, mentre scioglie la cintura, lospadino da servo scivola, cade su Amelina e le ferisce unanatica. Ne esce un sangue rosso pieno di energia cheschiuma. Lei si volta e si mette a ridere e lui, nudo e incan-descente, si mette a pulirla con la voglia che aumenta e

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Guglielmino si siede per terra, all’ombra di un pescogigante dove pendono frutti grandi come un ginocchio esi tormenta i capelli:

– Siamo tutti uguali, Sertolino… tutti uguali, ecco… ec-co.

Sertolino ha sviluppato, per essere un servitore, unabella capacità di discutere. Gli è sempre piaciuto passareore seduto a dire e parlare di tutto quello che arrivava atiro di pensiero e dice continuando a girare come un asi-nello alla mola intorno a Guglielmino:

– Sarà vero in generale, ma a me sembra che Amelinasia unica… che arrivi da lontano, da un’altra razza… Equando sorride? Si accende anche il carbone della cucinae la cenere diventa cipria! Mi vergogno un po’ a dirlo manon la cambierei con nessun’altra… solo lei…

Guglielmino, allisciandosi i capelli, quasi gridando:– Certo, bravo, hai ragione! Il trucco è questo, altro che

stregonerie! L’amore è una mania! Ecco! Non la cambie-resti con un’altra, hai detto… una mania!

Sertolino a sentirsi dare ragione vince anche il pudore:– Quando ho sentito il sapore del suo sangue e l’ho ripu-

lito mi sono sentito come… non so neanche dirlo… comese avessero legato le sue budella alle mie… come se…

Da un ramo del pesco cade una pesca troppo matura.Sertolino si distrae, è figlio di contadini poveri lui:– Bisogna raccoglierle e venderle al mercato, padrone.

Cominciano a cadere.Guglielmino guarda il pesco, dove ha lavato il sangue

di Medina:– No, no. Ho già parlato con mio padre. Non voglio ri-

nunciare a questo profumo.

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approfittando per guardare tutto quello che ha sognatoda mesi, da quando Amelina è arrivata dalle montagnecon i suoi stracci.

La ferita smette di sanguinare.Sertolino si è innamorato.Amelina ora non ride, ha una faccia feroce e ogni tanto

mostra i denti. Lui immagina che sia piacere e allora spin-ge di più per vedere se il ringhio aumenta. La ferita si ria-pre e solo dopo si accorgono di essere mezzo insanguina-ti. Restano muti, lei con un respiro da cerva, lui da muloin salita.

La ragazza prende un secchio d’acqua fredda e si fa la-vare, ride illuminando la cucina, si riveste e riprende asbucciare patate sorridente ma ancora col fiato lungo.Sertolino si vergogna d’essere là gocciolante e sporco egli viene in mente la macelleria di Talattone con tuttequelle bestie insanguinate. Si sente forte, allegro, conti-nua a sorridere e non riesce a smettere.

* * *

– Sarà una strega?Guglielmino è di un pallore che fa luce:– Ma cosa ti passa in testa? È solo una ragazza di mon-

tagna che fa l’amore come ha visto fare a donnole e furet-ti. Tu l’hai vista subito e lo sai: la vista è il desiderio e l’oc-chio è la voglia.

Sertolino, non capisce bene, cammina intorno al pa-drone, sempre lo stesso cerchio:

– Donnole e furetti? Scusate ma non è il paragone giu-sto, padrone. Non era roba da donnole e furetti.

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Page 38: Giorgio Todde Ei

– Io sono il Capitano della città! Commercianti, avvoca-ti… anche duchi e marchesi, conti e contini… tutti devo-no passare da qui! E aspetto qui i medici, sopratutto i me-dici!

Battista Xaxa è un uomo malato e nessun medico, nean-che quello chiamato dalle Isole Felici, aveva capito cosa selo sta mangiando. – Sembra che bruci, – aveva detto il me-dico dei nobili e dei ricchi di Epipanormo. “Brucerà tut-to, pezzo per pezzo, fino a quando il cuore gli scoppieràcome un tizzone,” aveva pensato il medico delle Isole do-po dieci giorni di viaggio in mare. Non lo aveva detto aBattista, tanto era inutile.

– Quelli di Talattone, le troie, i ruffiani, i bari, i ladri, glistrozzini, tutti prosciugati dalla sifilide, ce li dobbiamo te-nere come ci teniamo le parti del nostro corpo che non cipiacciono… A lasciarli fare, arrivano alla città alta, come ibubboni della peste… e invece bisogna tenere tutto bendistinto come Dio ha voluto sin dall’inizio… capito?

Il Capitano parla ai cento uomini della guarnigione.– Chiudere le porte di Epipanormo al tramonto è come

dare la purga a un brav’uomo che ha mangiato troppo…Serve a tenere l’ordine nel corpo della città.

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– Non volete rinunciare al profumo? Ma ragionate…passa lo stesso…

L’amore non è pratico e Gugliemino si infastidisce peril tono della domanda, lo stesso che si usa con i folli:

– Ho le mie ragioni… questo odore mi serve, ognunoha le sue manie… Mi hai detto che hai pulito il suo san-gue? – chiese torturandosi i capelli.

Sertolino ora si vergogna di nuovo:– Sì, insomma, si è tagliata e io l’ho pulita… Beh, vi

sembrerà strano, ma a me quel sangue ha fatto da filtromagico, si è mischiato col mio…

La giornata sta terminando. Tra qualche ora Guglielmi-no ricomincia a guardare il cielo e a contare. Si affaccia alterrazzo e guarda verso Talattone. Lo scirocco ha con-densato vapore, come sempre, nella città bassa. Sporgen-dosi e guardando in giù vede che quel vapore peloso ten-ta di scalare le mura.

Ma non c’è pericolo: Epipanormo mantiene un’aria dicristallo.

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Page 39: Giorgio Todde Ei

so all’insù per cercare l’aria di Epipanormo, ma non ci ar-riva mai perché il suo naso, per quanto lo indirizzi verso ilcielo, resta piegato come un becco in basso. È calmo da-vanti al Capitano e non spreme nulla del veleno di Talat-tone.

– Porfirio, ti ho voluto qui perché…– Capitan Battista, la vita è inflessibile… Domani mo-

rirò?– Senti, la vita è inflessibile anche con me… Siediti.Porfirio ha vissuto da ricco. Sa molte cose senza aver

fatto scuole e senza aver avuto precettori. È figlio di dueladri che si erano voluti molto bene prima di finire deca-pitati insieme quando lui era ancora un bambino. Nonusciva di casa per settimane. Riceveva, riceveva mattina esera, uomini e donne del quartiere alto e del quartierebasso e nessuno sapeva cosa si dicessero, cosa passasse traPorfirio e i suoi visitatori. Ma per vivere come faceva, Por-firio aveva necessità che la Giustizia lo lasciasse stare e unmese prima Capitan Xaxa, stufo dei suoi traffici, lo avevafatto arrestare con l’accusa d’aver ordinato l’uccisione diun commerciante di granaglie.

Porfirio ha un aspetto, in tutto e per tutto, di poiana emette un brivido vedere come gira la testa a scatti per tre-centossessanta gradi, proprio come un rapace e con l’oc-chio che cerca sempre qualcosa di cui appropriarsi.

– Domani, Capitano? – insiste Porfirio.– Sì, Porfirio. Domani a mezzogiorno, quando il canno-

ne del porto segnerà l’ora, verrai spinto in basso dalla por-ta della città con la corda al collo…

– La testa si staccherà, Capitano.– Se si stacca tanto meglio. Tutti se lo ricorderanno, an-

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I soldati oscillano. Il Capitano continua e le sue parolesono combustibile:

– Cosa succederebbe se mischiassimo Talattone ad Epi-panormo? Il porto morirebbe, nessuna nave, nessun com-mercio… sparirebbero le puttane, che sono un segno dibuona salute per la città, gli avvocati, altro segno di salute,non avrebbero chi assistere, persino i frati se ne andreb-bero in altre città… e voi non avreste nessuno da arresta-re, da frustare, da mettere alla gogna in piazza… Perciòdomani dovremmo impiccare Porfirio! Anche se quelli diTalattone lo vogliono vivo! Impiccato alla porta di Epipa-normo e se la testa si stacca tanto meglio! Ha un solo mo-do per salvarsi…

Il Capitano Battista brucia quelli della prima fila guar-dandoli dritto negli occhi e li congeda ordinando:

– Portatemelo qua, davanti a me, ha un solo modo disalvarsi.

È un uomo intelligente, ma la malattia e il comando, atratti, creano delle turbolenze nei suoi discorsi pubblici.Quando però passa alle cose sotterranee dell’amministra-zione della città - quelle che non diventeranno mai pub-bliche - allora la sua ragione, magari con mille contorci-menti e salti, arriva comunque all’obiettivo. Quei salti equei contorcimenti non sono follia ma seguono la lineatutt’altro che retta delle cose. Quelle vie vuole seguire perguarire Medina.

* * *

Porfirio Ronzi contiene tutto Talattone e respira col na-

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– È alta, è bella! Ha un nasino che viene da lontano…un nasino che va verso il cielo, piccolo piccolo, ma sem-bra che unisca cielo e città… i maschi ci si aggrappereb-bero per cercare salvezza… ma, ti giuro, Porfirio, se netrovo uno appeso al naso di mia figlia…

Porfirio è un uomo senza sole ma tutto il male di Talat-tone lo ha reso scuro di pelle. Sa che non morirà domaniperché troppe cose passano attraverso di lui. Per questodorme profondo anche sul tavolaccio della prigione eparla tranquillo con i ratti, molto più nobili di tanti suoidebitori:

– Perché sono qua, Capitan Xaxa?Battista Xaxa è in piedi e fissa a lungo Porfirio:– Non ti dico cosa vedo nella tua faccia, nei tuoi occhi da

poiana. Ascolta: mi servono tutte le orecchie di cui dispo-ni. L’importante è che i padroni di quelle orecchie usino labocca solo con te e tu solo con me. Avrai salva la vita.

– Cosa devono dirmi queste bocche?Battista si asciuga l’occhio rosso che ormai è una fiam-

ma:– Voglio sapere perché Medina soffre tanto da parlare

in versi, perché canta e dorme e poi canta ancora…– Ma sarà amore, solo amore.Il Capitano si alza, solleva dalla sedia il talattonese e gli

sente odore di muffa:– Attento, Porfirio, potrebbe essere qualcosa di magi-

co, oppure gli umori di Medina che si rimescolano, op-pure nulla… Ma tu stai attento… L’impiccagione è poco,tu sai come togliamo la pelle a palazzo… e tu non morire-sti come muore un santo che sorride agli scorticatori…non guarderesti Dio dritto negli occhi…

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che fra duecento anni, anche fra trecento. Ci sono le car-te del processo e c’è la memoria della gente che serve aquesto.

Porfirio è sereno, ha capito che non è là per sentire ladescrizione dei suoi ultimi orrendi istanti e sa che le forzedi Talattone, magari passando tra gli interstizi delle portee risalendo le mura, riescono ad arrivare anche nella cittàalta:

– È troppo crudele. Buttato nel vuoto dalla torre, poi lacorda si tende, la testa si strappa e il corpo cade nel fossa-to. Ma voi non mi avete chiamato per raccontarmi comemorirò…

Battista si toglie l’elmo. La testa gli brucia e da qualchesettimana gli brucia più della testa un occhio, che gli sem-bra voglia venire fuori. Ora, però, il dolore per Medinasupera il bruciore.

– Mia figlia è strana Porfirio, è diventata strana da gior-ni. Recita versi, canta versi, è rauca, non ce la fa con la vo-ce e dorme, dorme un sonno di pietra. Poi si sveglia e ri-comincia. Io sono il Capitano della città e non possopiangere…

Porfirio accavalla le gambe:– Ma potete piangere! Davanti a me, potete.Capitan Xaxa guarda il talattonese che ha segnati in

faccia tutti i traffici del porto. Porfirio cambia posizione eraddrizza le gambe.

– Davanti a te? Davanti a te posso fare quello che vo-glio, tutto quello che voglio… Comunque ho pianto sta-mattina quando il vento mi ha portato in casa l’odore del-le pesche di casa Redenti e Medina cantava.

Prende Porfirio per le spalle e lo libera delle catene:

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che brucia a dispettodel corpo che langueper chi del mio sangueha visto il colorespezzandomi il cuore.

La cinica adolescenza di Medina continua l’opera didistruzione fermentando il veleno dell’innamoramentoin una quantità miracolosa. Non ha più voce e i versi seli fa girare per la testa dove l’ordine delle idee si sta di-sfacendo:

L’acqua fresca della fontevorrei ancora sulla frontedispensata dalla manodel mio pallido sovrano.Mai i miei occhi da fanciullasbarro ormai davanti al nulla.

Il respiro di Medina non ritorna normale. Affanna e,qualche volta, un piccolo rantolo fa disperare la madreche vede più di tutti il margine lungo il quale la figlia cam-mina insicura.

* * *

Arriva il quinto tramonto di spavento per Capitan Xaxae Medina non migliora. Anzi, la testa le si è così ingorgatache il dolore è incessante e suda. Suda tanto, un sudoresenza sale e le guance hanno perso quell’aspetto di polparosa che faceva girare i ragazzi di Epipanormo. Sta a letto

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– Non me lo dimenticherò, Capitano.– Siamo fatti di porcherie che vengono fuori continua-

mente, ma tu più di tutti…– Lo so, lo so.– Ora vattene, sei libero ma sorvegliato. Prendi aria e

lavora.Porfirio esce dalla sala: i suoi occhi tondi non brillano e

fissano tutto Talattone. I commercianti della città bassa lucidano i frutti: po-

modori e peperoni luccicano. Le strade si riempiono dibatuffoli bianchi che fanno starnutire, e i bambini li chia-mano angioletti.

La gente di Epipanormo, con quella bella luce e quelbel vento, si getta i peccati dietro le spalle e a Talattone liraccolgono. I peccati già usati sono molto diffusi nellacittà bassa; sono sempre gli stessi che la gente rigira. Ca-pitan Xaxa lo sa bene ma meglio di lui lo sa Porfirio che liammucchia e li mette in vendita in un modo che non sipuò rifiutare.

Porfirio esce per strada e l’odore a palazzo migliora.

* * *

Medina svolazza da ore in giardino, ma ritorna sempresul balcone da dove vede casa Redenti. Allora respiraprofondo e chiude gli occhi poggiandosi la mano sulla fe-rita.

Non è forza umanache regna sovranasul mio cervelletto

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na vengono da ancora più lontano… dalle stelle, dal cie-lo… da lontanissimo…

Porfirio non trema neppure quando Capitan Xaxa gliprende la gola tra le mani e continua deciso sottovoce:

– È tutta forza dentro casa vostra… si agita, si ferma e sicondensa… il vento non se la porta via… viene fuori davostra figlia… e se la sta mangiando. Me lo ha detto Tebela Monaca, voi la conoscete… Tebe la monaca di Talatto-ne! Ve la ricordate, vero?

Battista lascia il collo di Porfirio:– Dove vive ora?– Al Convento di Santa Vincolata.

Tebe Mistrè ritorna chiara in mente a Battista Xaxa.La Confraternita feroce dei Ficcadenti l’aveva accusata

di convivenza bestiale con i demoni dei boschi e lui, Bat-tista, aveva ordinato l’arresto di Tebe.

Il Capitano non ci ha mai creduto e le torture che avevascelto per quella donna rosea e rotonda erano state le me-no dure possibili. Al processo era riuscito a farla condan-nare soltanto al “mezzo dito”: un colpo d’ascia al migno-lo: accorciato di due falangi. Pena pubblica, la condanna-ta esposta in Piazza Maggiore per tre giorni.

Solo che in tre giorni il mignolo era ricresciuto e tuttiavevano pensato al diavolo.

Ma, quando già stavano per appiccare il fuoco, il boiae il frate si erano accorti che il mignolo era, sì, ricresciu-to ma con una falangetta di traverso e che aveva assuntola forma di un crocefisso. Tebe era quasi rimasta soffoca-ta dall’incenso e dall’alito di centinaia di peccatori di Ta-lattone.

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e si occupa soprattutto di respirare. Respirare, respirare,aria del giardino di Guglielmo. Vuole aria del giardino enessuno gliela porta, perché?

* * *

Sottovoce, a palazzo:– Allora, Porfirio? – domanda Battista Xaxa senza tono

di minaccia tenendosi un impacco di malva sull’occhioche gli brucia.

– Non ho saputo nulla, Capitano. Ho solo un consiglioda riferirvi. Io parlo dal mio posto e voi ascoltate dal vo-stro. Poi deciderete.

Porfirio gira la testa da poiana veloce intorno e CapitanXaxa lo ferma:

– Non c’è bisogno di minacce, vero? Sei un uomo intel-ligente… un talattonese, è vero, ma sai mettere le ideeuna dietro l’altra, vero? Quindi parla.

Porfirio respira profondo, si decide e il naso rapace un-cina l’aria:

– Medina è capace di distruggersi da sola, sino da pic-cola ne era capace. Ora… scusate, Capitano… ora stasuccedendo…

Battista ringhia:– Cosa sta succedendo?A Porfirio appare in faccia la verità come non gli capita

mai e gliela abbellisce un poco:– Succede che la distruzione è iniziata e non so come si

ferma, non lo sa nessuno. I sensi di Medina sono molti,tanti che non ce li immaginiamo neppure. Il nasino? Voiavete detto che viene da lontano… Ecco, i sensi di Medi-

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Ei

Si alzarono prima che il cielo leggero della Megaridecambiasse colore.

Il pastorello Peante nella sua capanna si vestì, uscì sul-l’aia dove, come faceva ogni giorno da bambino, contò lepecore e il conto tornò.

In una vera casa, all’interno del paese, si svegliò ancheNicteo e si avvicinò alla fonte per lavare il viso gonfio peril sonno profondo dei diciassette anni. Tutta la casa dor-miva.

Il monte Citerone era coperto da un lenzuolo biancoche era un buon segno perché quei vapori sarebbero di-ventati nuvolette per fare da scudo al sole.

I due ragazzi mangiarono e si diressero verso il luogoconcordato sulla riva del fiume. Da lì avrebbero seguito ilfiume quasi sino alla foce.

Sui due asinelli avevano caricato qualche mina di for-maggio, fichi, pane e due otri d’acqua.

Quando si incontrarono, in cielo si vedeva a oriente unapiccola falce di chiarore.

Senza parole, ma con l’emozione che gli faceva pruderele palme delle mani, iniziarono il cammino voltandosi aguardare ogni tanto il villaggio che si allontanava in unmare soffice di ulivi argentati.

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Da allora vive in clausura, autorizzata a mostrare solo ilmignolo miracoloso attraverso una grata.

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contrario - da molto tempo pensava a luoghi dove impara-re, vedere e capire quello che dalle sue pecore non riusci-va a sapere.

Così, quando a Nicteo era venuta in testa l’idea della fu-ga, Peante, che in genere era il freno del compagno, avevaaccettato la proposta.

Viaggiavano soli e pensierosi per i rimorsi e la paura, inuna giornata di sole sopportabile a quest’ora fresca e peril fiume vicino, sbatacchiati dagli asini al trotto. Ma Nic-teo, quando il villaggio non fu più visibile, non resisté piùal voto del silenzio che avevano pattuito per evitare pen-timenti.

– Per mio padre io non sarei pronto all’esperienza dellacittà. Dice che in città c’è troppa eguaglianza, che nessu-no deve cedere il passo a nessuno, dice che persino i caval-li e gli asini credono di avere dei diritti in città. Secondolui sapere le cose troppo presto può nuocere. Ma cosa do-vrei aspettare? Di avere trent’anni e una moglie che nonmi farebbe partire per vedere le cose che nel nostro villag-gio non vedremmo mai? E perché non dobbiamo sentirele idee di tanti grandi uomini che stanno nelle città?

– Ma perché, secondo te, questi grandi uomini si pren-dono la briga di insegnare la propria conoscenza? Se latenessero per sé, diventerebbero ricchi, – osservò Peantecon la voce spezzettata dal trotto dell’asino.

– Proprio perché sono superiori! Le idee sono infinite,Peante. Appena prodotto un grande pensiero lo spiega-no a noi, lo lasciano in eredità, e subito dopo sono già allavoro per produrne un altro. Perciò sono grandi, ecco.

– Comunque non faranno tutto da soli.

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Nicteo e Peante erano due adolescenti riscaldati dal-l’età e dal sole, unici figli delle loro famiglie.

Nicteo era figlio del commerciante Terambo, scappatoda Atene vent’anni prima a causa della politica.

Peante era solo figlio di un pastore, Picnòs, che era di-ventato il mezzadro di Terambo.

Ma i due ragazzi erano cresciuti insieme, amici, tantoche avevano finito col sembrare gemelli nati dallo stessouovo.

Terambo, che veniva dalla città, aveva tenuto a far edu-care Nicteo, e Peante aveva partecipato anche lui alle le-zioni del vecchio maestro Mitrone di Mileto. Così aveva-no acquisito una conoscenza straordinaria per due cam-pagnoli.

Un anno prima della loro fuga, era giunta al villaggio lanotizia della morte per cicuta di un vecchio saggio. Nes-suno aveva capito perché un vecchio, e per di più saggio,era stato messo a morte, ma tutti ne discussero a lungo.

I commercianti portavano le notizie e Nicteo ascoltavaquando gli raccontavano della città, delle piazze, dei tea-tri, dei bagni o dei mercati, come se ascoltasse un poema,una poesia, una melodia.

Come? C’erano luoghi dove trovare spiegazioni a tuttele cose e loro, lui e Peante, se ne stavano lì e già gli spun-tavano i primi peli?

Ormai il vecchio maestro Mitrone aveva esaurito il suosapere e i due ragazzi, con spavento, avevano notato chericominciava da principio.

Lo stesso Peante che raggranellava la sua conoscenzastando al fianco dell’amico - anche se il padre pastore era

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* * *

Era sera e il cielo già viola.– Ancora ragazzi! Ma è una mania qui a Mègara! Non

ho stanze libere! Tutti in questa città riuniti per parlare,parlare! Non si cambia il mondo a parole!

Nicteo e Peante pensarono di cercare un’altra locandama una giovane bruna, con la stessa faccia rotonda dell’o-ste e una bella pelle, gli disse sottovoce:

– Non badateci, mio padre è contrario alla nuova sa-pienza che, dice lui, porterà il paese alla rovina. Ma io soche senza i nuovi saggi qui sarebbe vuoto e le cucine spen-te. Da quando è morta mia madre sono io che mi occupodelle faccende da donne nella locanda. Mi chiamo Etilla.

Nicteo si rivolse all’oste Trittolemo attento all’effettodelle parole sulle facce tonde del padre e della figlia:

– Vorremmo un alloggio semplice e poco caro perché,come vedete, siamo giovani di poche possibilità. Però sia-mo onesti e rispettosi, come ci è stato insegnato dai nostrigenitori e dal nostro maestro Mitrone.

– Educati all’antica! Bene! – disse Trittolemo: – Non sene sentono più così ben educati! Etilla, accompagnalinella loro camera e poi prepara da mangiare.

Sistemate le loro cose, Nicteo e Peante scesero in giar-dino dove la giovane aveva apparecchiato e si avventaro-no sul cibo interrompendo di masticare solo per bere e ri-mandando a dopo cena le attività del cervello.

Alla loro destra, illuminato dalle torce, seduto sulle ra-dici di un ulivo, stava un uomo di mezza età, dall’aspettocurato. Fissava i due giovani.

– Buona sera, signore, scusateci se non vi abbiamo salu-

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– Sono gli dèi a scegliere!– Il nostro Mitrone ha imparato tutto a Mileto da altri

uomini, non dagli dèi.– Gli dèi, però, hanno voluto che nascesse a Mileto. Lui

ci ha sempre detto di avere imparato dai sacerdoti delgran Re persiano.

– Vedi che da soli non ce la fanno, vedi?Continuarono a discutere sino a che il cielo diventò

bianco per il calore. Si fermarono in un boschetto pienodi uccellini esaltati dalla bella giornata che esaltava ancheNicteo:

– Sembra di sentire il flauto di Pan nelle campagne de-serte. È a quest’ora che esce per rallegrare la campagnaaddormentata dal caldo.

– Io sento solo i passeri che cantano, – disse Peante.Nicteo si infastidì:– La fantasia è importante! Serve a vivere meglio! È la

fantasia che ci ha spinto a scappare… Senza fantasia sia-mo come gli animali! Ecco! – E ripeté come un bambino:– Ecco!

– Sì, ma bisogna tenerla distinta dalla realtà. Certo chese ti intestardisci a credere che il vento che muove le cimedei cipressi è il suono del flauto, alla fine ti convinci. Ma sepoi cerchi il flauto per suonarlo, allora le cose cambiano.

Ripresero il viaggio, tutto scossoni per il passo disordi-nato degli asini, sino a sera. La notte, meno disponibili al-la discussione ma contenti della loro saggezza e del co-raggio, precipitarono in un sonno agitato da qualche ri-morso portato dal buio e intorno gli danzarono sino al-l’alba i genitori offesi e la barba del precettore.

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Nicteo, stordito dall’accoglienza, attinse alle formulemigliori che la sua famiglia gli aveva insegnato e, sudatoper la vergogna, inspirò profondo e disse a tutto il gruppoche si era radunato intorno:

– Grazie, grazie! Noi veniamo da un villaggio piccolodella Megaride sul fiume che nasce dal monte Citerone evorremmo migliorare le nostre conoscenze da paesani.Lui è Peante e anche lui è qui per capire qualcosa di piùsull’universo, su quello che lo muove…

– E, se è possibile, per sapere cosa ci stiamo a fare inquesto bellissimo mondo e se è stato fatto per noi e per lecreature che ci vivono come noi… – aggiunse Peante.

Tutti sorrisero e ai due amici sembrò di avere trovato illuogo giusto: la sicurezza bonaria di Echecrate e di tuttigli altri sembrava volere dire che loro le risposte le aveva-no già trovate. Echecrate condusse i due ragazzi, tenen-dogli le mani sulla nuca, in uno spiazzo ombroso davantial più vecchio dei maestri:

– È Pericleto, studia la geometria degli astri. Avvicina-tevi.

Il ricercatore tremava e fissava un punto all’infinito:– Benvenuti, come vi chiamate?– Io mi chiamo Nicteo.– Sei Nicteo della stirpe nobile? Fratello di Lico e figlio

di Irieo e di Clonia? Anche se la storia confonde due Lico,uno figlio di Poseidone e di Alcione, facendo così Nicteofiglio di Celeno e Poseidone. O sei discendente di Ctonioche generò Nicteo e Lico dopo aver ucciso Flegia?

Nicteo non trovò il coraggio di rispondere.Peante non vide nessun alone intorno a Pericleto e dis-

se:

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tato ma la stanchezza e la fame ci hanno distratto, – disseNicteo.

– Buona sera, signore, scusateci, – disse Peante a boccapiena.

L’uomo ricambiò:– Mangiate e riposate. Ci vedremo sicuramente doma-

ni. Dedicate questa notte alla cura del corpo perché lamente poi sia luminosa come si deve.

* * *

Svegli dall’alba i due ragazzi innamorati della cono-scenza chiesero notizie a Etilla sull’uomo della sera pri-ma. La faccia rotonda della ragazza sembrava un buonaugurio:

– Si chiama Echecrate e lo troverete nel campo di Eno-pe. L’assemblea li ha sistemati là i maestri.

– Quello era un maestro? – domando Nicteo.– Sì, viene spesso a mangiare da noi. Si siede mangia e

poi resta là a pensare. Prepara le idee per il giorno dopo.Il colle di Enope lo trovarono fuori città, tutto lecci, er-

ba e ombre. Maestri e alunni erano divisi in gruppi, alcu-ni in movimento, altri fermi intorno alla propria guidache occupava un posto più elevato, era vestita di bianco eaveva il privilegio di un angolo fresco e ventilato. Nicteoe Peante si sentirono improvvisamente estranei e pensa-vano di ritornare alla locanda quando gli venne incontrol’uomo salutato la sera prima a cena:

– Avanti, avanti! Due giovani che vengono da lontanotroveranno nel campo sacro di Enope una ricompensa. Èsicuro! Io sono Echecrate.

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stica, la frugalità a tavola è una forma di riflessione sullacaducità dei nostri doni. Disprezzarli trascurandoli, i do-ni dico, sarebbe disprezzare il creato e l’opera degli dèi:quindi si peccherebbe di empietà. E dalla paura dell’in-vecchiamento deriva, se voi collegate tutti gli anelli delragionamento, una naturale e potentissima attrazione diciò che è vecchio verso ciò che è giovane.

Nicteo e Peante ascoltavano e riflettevano. Finalmentela conoscenza! Forse anche loro un giorno trasmetteran-no in questo modo la conoscenza ad altri giovani e questi,poi, ad altri!

Echecrate completò l’opera di stupefazione:– Per esempio, voi due adolescenti, per nulla alterati da

giorni di viaggio sotto il sole, neppure sfiorati dalla stan-chezza, dalla sete e da tutto quello che segna un vecchio,siete voi stessi il più perfetto spettacolo che la natura met-te davanti ai miei occhi e paragonabili alla perfezione delcielo, della luce e delle acque.

Malizia non ce n’era fra le provviste che i due ragazziavevano caricato sui loro asini e Peante guardò Nicteocercandovi tutta quella perfezione. Ma Echecrate li preseper mano e disse ancora:

– Qui troverete tutto quello che cercate ma, vi avverto,dovete abbandonare ogni pregiudizio e prepararvi a met-tere in discussione tutto ciò che avete appreso sino ad og-gi, dimenticando tutto quello che sino ad ora avete rite-nuto ovvio.

* * *

Da circa quaranta giorni Nicteo e Peante andavano

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– Il mio nome è Peante e mio padre è un pastore conduecentoventitre pecore mentre il padre del mio amico èun commerciante di granaglie con una bella casa, almenoper il nostro paese.

Echecrate si occupò ancora dei due. Nicteo lo ringra-ziava:

– Come avremmo fatto senza di voi! Che gentilezza ciavete usato! Come potremmo mai ricambiare?

Echecrate accarezzò le guance rosse dei suoi protetti.– Prendete almeno un po’ del nostro pane e formaggio,

– disse Peante.Nicteo lo sgomitò:– Come vuoi che gli interessi il nostro pane e formag-

gio?Echecrate, invece, si dimostrò interessato:– L’anima sanguinaria del pastore e quella placida del

contadino, il formaggio e il pane!Addentò il dono e disse:– Vedete, il vostro maggior tesoro è la giovinezza incor-

rotta. L’apprezzare bellezza e gioventù non è segno di su-perficialità e poca profondità di pensiero. Quelli che so-stengono il contrario, sono proprio loro vuoti e poco ri-flessivi.

Nicteo sbalordì per il pensiero: lui aveva sempre rite-nuto il contrario ma pensò che era influenzato dal suopaese di poveri pastori.

– A nostro avviso, – proseguì il saggio, – chi si preoccu-pa per il proprio corpo si preoccupa anche per la propriaanima, perché le due cose in vita sono una sola cosa. Se èvero che l’invecchiamento prelude alla morte è vero pu-re, per conseguenza, che tentare di evitarlo con la ginna-

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Così discutevano a pancia all’aria i due amici e quandoarrivò Echecrate si zittirono.

– Io vi metto a disagio? Perché avete taciuto al mio arri-vo? Non avete fiducia nel vostro maestro? Dobbiamoavere confidenza totale su ogni argomento, nessuna ver-gogna, se vogliamo che il sapere diventi profondo. Io ac-crescerei insieme a voi la mia conoscenza dell’essere. Ca-pite?

A queste parole Nicteo si sentì promosso ad un mondodi uomini superiori che, per ora, gli accordavano fiducia:un giorno, magari, avrebbe potuto farne parte. Si inginoc-chiò davanti a Echecrate baciandogli le mani. Il sapientelo abbracciò a lungo e a Peante disse:

– Vieni, Peante, dimostrami anche tu il tuo affetto.Il pastorello sentiva chiara l’agitazione di cui aveva par-

lato:– Io, maestro, vi sono grato, anzi, gratissimo, ma a dire

la verità non sono ancora abbastanza disinvolto… Certo,certo è colpa mia e l’abitudine a frequentare le bestie hareso un po’ bestia anche me.

E sfuggì all’abbraccio.

* * *

Nicteo e Peante pensarono che due giorni in meno discuola e conoscenza non sarebbero stati un grande pecca-to quando Etilla, una sera, con la faccia più rosa e rotondadel solito, aveva proposto ai ragazzi un viaggio in compa-gnia sua e del padre al mercato di Nisea, sul mare.

Nisea era vicina e i quattro arrivarono, seguendo la mu-raglia che la collegava a Mègara, con carro, cavallo e asini

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ogni giorno alla scuola dove, con cura affettuosa, Eche-crate faceva loro da guida e da maestro presentandoli,spiegando e indirizzandoli.

Una mattina, all’ombra di un leccio, seduti tra le radici,Peante e Nicteo discutevano:

– Vedi, Nicteo, se mio padre sapesse che l’amore, sicco-me è bontà, non ha limiti tra gli esseri viventi, chissà cosadirebbe. Anch’io ho difficoltà. Sarà così che sono nati imezzo-uomini e mezzo-animali? Da un amore senza limi-ti? Lo devo chiedere a Echecrate.

– Qui, caro Peante, non ci sono confini! Dove la mentearriva non si ferma e continua a cercare, continua…

– Già, ma devo farti una confidenza, tutto questo pensa-re, ma il perché non lo so, mi sta facendo provare una cosamai provata prima: sono agitato. Io non avevo mai pensa-to alla mia fine, sapevo che ci sarebbe stata e mi bastava.Adesso, non ci crederai, mi ossessiona, è un chiodo. Pove-ro corpo mio destinato al decadimento, alla morte e allaputrefazione.

– Ma l’anima, l’anima resta! Hai sentito Echecrate? Tisopravvive! Di cosa ti preoccupi?

– Bella consolazione! L’anima! Inutile che ci chiediamodov’è, l’ha detto anche lui… potrebbe essere in qualun-que parte… Il fatto è che sono triste e che me ne tornereialle pecore se mi facessero dimenticare… ma neanche lo-ro ci riuscirebbero. Sono diventato intelligente di colpo?Ha ragione tuo padre: bisogna imparare lentamente.

Nicteo si stese sorridente sull’erba:– A me, invece, consola l’immortalità della mia anima…

Io sono la mia anima… Siamo eterni, Peante, siamo eter-ni! Coraggio!

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nia, voglio conoscere gli uomini, riflettere e capire i lorodèi. Non potrò mai ringraziare abbastanza Echecrate…

– E me? A me non devi nulla?– Beh, certo, anche a te, – rispose stupito. – Ma è diver-

so… Noi siamo due giovani e le cose sono diverse tra igiovani.

– Ma con chi stai meglio, con me o con Echecrate?– Insomma, Etillina cara…– Come mi hai chiamato? Come hai detto?Lei si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla nuca acca-

rezzandolo.Anche Nicteo provò le forze che regolano il mondo.

Perse la parola e il fiato e anche lui pensò che Etilla aves-se la febbre delle paludi.

L’indomani tornarono a Mègara col carro carico affian-cato da Nicteo e Peante a dorso d’asino che non smette-vano di parlare.

* * *

Ripresero la loro vita e trascorsero alcuni mesi durante iquali il bagaglio di sapienza aumentò caricandosi di co-noscenze che arrivavano da tante direzioni diverse.

Etilla continuava a dividersi, mantenendosi fresca e in-nocente, fra Nicteo e Peante. Nessuno dei due aveva il co-raggio di confidarsi con l’altro per paura di procurarglidolore.

Ma una di quelle sere un poco melanconiche che segna-no la fine della bella stagione, Nicteo, più sentimentaledel solito, disse all’amico:

– Peante, è il mese di Boedromion, il sole se ne va prima

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davanti al mare azzurro e tanto luccicante quella mattinache non lo si poteva guardare.

I due amici non avevano mai respirato l’aria marina e sisentivano strani.

Mentre Trittolemo e Nicteo, curioso di conoscere unanuova città e i suoi abitanti, combinavano affari al centro,Etilla e Peante passeggiavano e saltellavano tra gli scogli.

Peante aveva già provato quel rimescolamento vicinoalla pelle di una donna, ma non ne aveva mai toccato una.Si sentì soffocare dalla voglia di abbracciarla. Provò a te-nerle la vita e quando si accorse che lei si appoggiava glimancarono le gambe e si appoggiò ancora di più a Etillache era incandescente.

“Ha la febbre,” pensò. “Dicono che qui è frequente acausa delle paludi.”

Scapparono in mezzo agli alberi e Peante, guidato dal-le sue poche conoscenze che si riducevano all’aver vistole sue pecore accoppiarsi - e alle pecore si ispirò - ci mi-se tanta energia che produsse un’estasi quasi mistica inEtilla la quale, ma di questo Peante non si rese conto,nella successione dei fatti non aveva dimostrato nessunaincertezza.

Il giorno seguente l’oste disse:– Peante, oggi spetta a te vedere la città.Senza protestare per non insospettire l’amico, accettò

l’invito col cuore come un chicco d’uva passa.Mentre Trittolemo e Peante, che si girava continua-

mente a salutare, si allontanavano, Nicteo diceva:– Cara Etilla, viaggiare è meraviglioso, quante cose si

apprendono! Io voglio conoscere il mondo, sino a Babilo-

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Nicteo e Peante, taciturni e nervosi, frequentarono dipiù il campo di Enope, e Echecrate fu contento.

* * *

Un giorno Echecrate, che sorvegliava sempre i suoi dueallievi, trovò Nicteo nella sua camera solo e ancora ad-dormentato.

Lo svegliò accarezzandolo e il ragazzo, contento chequalcuno si occupasse affettuosamente di lui, gli fece unbel sorriso:

– Buongiorno, maestro! È tardi o passavate da questeparti e avete avuto la gentilezza di venirmi a trovare?

– Ti invito a casa mia, dove mia moglie Ciane ci prepa-rerà un bagno e poi ci darà latte di capra fresco. Vestiti,Nicteo, così sei uno scandalo.

– Uno scandalo?– Scherzo, cosa c’è di scandaloso in un giovane nudo di

primo mattino? È normale che sia in questo stato, sei bel-lissimo, ogni tuo angolo è bellissimo.

E lo accarezzò in ogni angolo dicendo:– Così sarai ben sveglio quando arriviamo a casa. Ci so-

no dei punti nel nostro corpo che tu devi conoscere me-glio.

Quando arrivarono a casa dello studioso, intraviderosoltanto la moglie che salutò, squadrò il ragazzo e si ritirò.

Echecrate spogliò in silenzio l’allievo e lo aiutò a im-mergersi nel bagno, lo lavò con cura e lo asciugò a lungo.Nicteo pensò ai genitori - ci pensava poco negli ultimitempi - e disse:

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e una certa tristezza, chissà perché, mi fa parlare delladolce Etillina…

– Dolce Etillina?– Sì, di lei: insomma, Peante, credo di amarla e che an-

che lei mi ami! Peante restò zitto per qualche minuto, con la mascella

che pendeva, mentre Nicteo lo fissava in attesa:– Nicteo, non so cosa pensare! Anche io credo che Etil-

la mi ami e anche io credo d’amarla! Facciamo l’amoreogni giorno da tre mesi.

– Come sarebbe “ogni giorno”?– Beh, quasi, e, comunque, spesso. E poi cosa cambia

se è ogni giorno o no?– Dunque tu mi hai nascosto tutto questo per tanto

tempo?– E tu allora?– Basta! Ma dove è cominciato?– A Nisea.– Anche tu?– Non dirmelo…E continuarono a parlare sempre più disgustati dal

comportamento di Etilla, trascurando di disgustarsi di séche profittavano della bontà di Trittolemo il quale nonesigeva più nessun compenso dai suoi due ospiti che trat-tava come nipoti.

Non la salutarono più ma per questo Etilla non si sentìoffesa, tanto più che da alcuni giorni aveva conosciuto unragazzo di Eleusi, campione di pugilato della città, conuna vaga espressione da cavallo che alla ragazza piacevatanto. Di notte lo ospitava nella sua stanza, di giorno lonutriva e lo accudiva.

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uomo scuro, sulla quarantina, coi capelli raccolti, mentreguidava il carro una donna più matura.

Etilla uscì dalla cucina e si inchinò:– Signori, benvenuti.– Veniamo da Atene. Il viaggio è stato faticoso. Voglia-

mo alloggio e cibo. Quanta polvere!– Siete forse Menecteo di Efeso?– Sì, – disse l’uomo guardando la faccia rotonda della

ragazza, – e questa donna impolverata è mia sorella Pito-ne.

Peante sussultò: Un sapiente più sapiente degli altri!Cominciava ad averne abbastanza - in certi momenti la

nostalgia per il padre Picnòs e per le pecore diventava unapunizione - però capiva che la conoscenza poteva strap-parlo al suo stato di pastore, magari con sofferenza, perfarlo vivere di sole idee nel più semplice e elevato dei modi.

La sorella del pensatore provvedeva a scaricare i baga-gli e Peante, sempre solidale con chi usava il corpo per fa-ticare, si offrì di aiutarla giacché la vispa Etilla si era presacura di Menecteo che chiedeva informazioni sulla città.

– Bravo ragazzo, grazie! Finalmente qualcuno che faqualcosa di concreto, – disse la donna trascinando unasacca. – Devi sapere che da qualche tempo mio fratello ètriste perché dice che il suo pensare e pensare non è utilea nessuno. Io lo so che non è vero, però a Efeso ne sonosuccesse di tutti colori senza che i pensieri di Menecteoabbiano cambiato le cose di una sola virgola.

Continuava a parlare e Peante pensò che c’era sale inquello che diceva.

– Grazie, ragazzo, si vede che non vieni dalla città.– Io e il mio amico Nicteo, che in questo momento non

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– Grazie, maestro, per quello che fate per me.– Ormai sei il figlio che non ho mai avuto e sarebbe un

dolore grande se la tua fiducia venisse meno adesso. Per-ché tu hai fiducia, vero? Qualsiasi cosa io faccia tu avraifiducia in me, giuralo sugli dèi.

Nicteo giurò e capì che era arrivato il momento. Non sa-peva bene di che cosa si sarebbe trattato ma sarebbe cer-tamente servito a farlo entrare in un mondo nuovo, sem-pre più lontano dal suo paese e lontano anche da Etilla.

– Il tuo maestro può avvicinarsi? Sei fatto come un dio!– Non ho giurato di avere fiducia?Echecrate iniziò senza impazienza. Disse solo:– Vedi? Basta sfiorarti e guarda cosa ti succede!Poi non parlò più. Per Nicteo non ci fu nulla di doloro-

so ma quanto a sentire piacere non fece paragone con lavertigine che Etilla gli provocava ogni volta. Però Eche-crate lo consolava, corpo e anima, e dopo si sentì sereno,ripulito e rivestito dallo stesso maestro che lo aveva adot-tato e nel cui cuore, lo sentiva, lui occupava un posto im-portante.

Il precettore gli portò del cibo, Nicteo mangiò e, stancoper le troppe novità, si addormentò.

* * *

Da molti giorni aspettavano l’arrivo del filosofo più ce-lebre delle colonie orientali, Menecteo di Efeso.

Peante, solitario perché il suo amico trascorreva pocotempo con lui e molto col suo pedagogo, era seduto sottoil pergolato dell’ostello quando vide un bel carro trainatoda due piccoli cavalli neri. Coricato sui bagagli c’era un

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Nicteo viveva con Echecrate, dormiva nella sua casa,mangiava con lui e andava alla scuola stando al fianco delsuo maestro.

Peante non comprendeva bene ma non si preoccupava.Era infatti tutto preso a seguire i discorsi di Menecteosempre sotto la stessa quercia, ascoltato da un numerosempre più grande di ragazzi. La sera rifletteva su quelloche aveva sentito la mattina. La notte dormiva ma solodopo aver spiato dentro la stanza di Etilla che, da qualchetempo, era triste per la partenza del giovane di Eleusi.

La ragazza, in una bella notte di plenilunio, fredda esecca, si affacciò alla sua finestra con un’espressione infe-lice e vide Peante arrampicato a un albero che la guarda-va. Etilla sorrise e, di lontano, allargò le braccia come adaccoglierlo. Peante, a vedere quella faccia rotonda comela luna, riprovò la stessa agitazione profonda di sempre,scivolò tra i rami graffiandosi dappertutto e saltò nellacamera della giovane la quale confermò da vicino quelloche aveva promesso da lontano.

* * *

Un giorno Menecteo non venne alla scuola. Tutti si do-mandarono perché. Così Peante, solo solo perché Nicteose ne stava con Echecrate, tornò alla locanda sperando ditrovare Etilla libera. Ma la ragazza non c’era e nel loggia-to, coricato su un tappeto, con gli occhi chiusi c’era addi-rittura Menecteo che respirava pesante.

– Chi è là? – chiese aprendo un solo occhio. – Ah, sei tu,ragazzo, Pitone mi parla spesso di te.

Peante era emozionato.

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è qui, siamo scappati dal nostro villaggio per sentire i sa-pienti del campo di Enope. Sentire la parola del filosofopiù celebre delle colonie d’oriente sarà una gioia doppia,proprio perché non l’avevamo prevista.

Pitone si fermò per asciugare il sudore:– Fate bene, tu e il tuo amico, a cercare conoscenza, ma,

– e abbassò il tono della voce, – non è nella filosofia chetroverete soddisfazione. Mio fratello è un genio, su que-sto non c’è dubbio, e poi lo dicono tutti. Dovreste vederecon quale rispetto gli si rivolgono. Adesso c’è rispetto peri sapienti in questo paese. Ma quando si tratta, non dico didecidere una guerra, ma anche solo di costruire un portoo una strada, di distribuire il denaro pubblico eccetera ec-cetera, beh, allora mio fratello vale meno di uno zero. E nesoffre, meschinetto. In confidenza, sta cercando da annidi ottenere una carica pubblica e non ci riesce. Ora la si-tuazione si è complicata e staremo qui un bel pezzo.Guardalo, ora sta sicuramente pensando a quello che tiho detto.

Peante si rattristò tutta la sera dopo questo discorso. Laconfusione aumentava. Apprendere che la forza del pen-siero non era sufficiente a mettere armonia nelle cose de-gli uomini gli toglieva la forza.

Nicteo tornò tardi anche quella sera senza voglia di par-lare.

* * *

Per molti mesi, tutte le mattine, i maestri si riunivano ela sapienza continuava a travasarsi dalle teste dei saggi aquelle degli allievi.

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ma non ricordo il nome: Triante, Creante, qualcosa del ge-nere.

– Peante, mi chiamo Peante.– Bene, caro Peante, quello che è successo fra noi non

ha di per sé un significato, né buono, né empio. Può aver-lo a seconda del nostro comportamento futuro.

Il giovane si sentì umiliato per il fatto che tutto fossesuccesso senza che quell’uomo sapesse il suo nome e an-cora più offeso dal fatto che il maestro non attribuissenessun significato a quello che era successo.

– Ma come? – singhiozzò: – Gli ho offerto il mio corpocon buona grazia e lui… non sa proprio come si tratta unragazzo. E io che pensavo…

Una vergogna.

* * *

Il giorno dopo, al risveglio, Peante sentiva un’umiliazio-ne che sommava bruciore a bruciore. Decise di raccontaretutto a Nicteo. Andò alla scuola ma non lo trovò. Si dires-se verso casa di Echecrate dove il suo amico era occupatonel compenso al suo pedagogo e attese pazientemente.

Fu difficile per Peante confessare l’errore all’amico. Lochiamò inciampo, cedimento, debolezza e in tanti altri mo-di ma il succo era che non se ne capacitava e non riuscivaa darsi pace. Ancora più difficile fu per Nicteo, colpitodalla sincerità del compagno, confessare un comporta-mento, il suo, che durava da mesi.

Ma parlarne fu una purga miracolosa, un balsamo divino.– Ti immagini cosa direbbero i nostri venerabili genito-

ri… e Mitrone… e i nostri amici?

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– Vieni avanti! Eri preoccupato perché non mi hai vistoal campo di Enope? Come sei caro! Sei venuto a infor-marti! Ma che garbato! Hai sentito ieri il mio discorso sulpaese dei Cimmeri dove non sorge mai il sole e la miaspiegazione alla leggenda?

– Sì, signore. Avete detto che in realtà si tratta di mina-tori schiavi e che su di essi fanno la guardia Gerione e leGorgoni che vegliano sull’arricchimento di pochi.

– Bravo!– E che non è vero che il sole inizia ogni giorno da lì il

suo cammino notturno. Ho imparato la trigonometriache spiega anche il viaggio del sole.

– Un allievo perfetto! Ma io tra qualche mese ripartiròad Atene… e allora? Come farai? Tu potresti seguirmi,l’Assemblea mi ha concesso una parte del terreno sacrovicino alla città… che te ne pare?

– È troppo per un pastore.– Un pastore? Ma è meraviglioso che il tuo desiderio di

conoscenza superi così le difficoltà che derivano dal tuostato!

Peante diventò rosso e, in particolare, le orecchie che siinfiammarono da fargli male.

– Così timido in un’epoca di arroganti e violenti! Avvici-nati! Dimmi, hai già avuto altri maestri o sono io il primo?

– Il primo.– Il primo? Mai avuto un vero maestro? Avvicinati, av-

vicinati.Lo prese per mano e lo condusse oltre l’orto guardan-

dosi intorno con circospezione.Dopo, mentre si lavava, gli domandò:– Come ti chiami? Ho sentito parlare di te, te l’ho detto,

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– Delfi!Il cielo era stellatissimo.– Delfi! – ripeté Peante.Delfi, certamente! Da lì partiva in tutte le direzioni la

luce degli dèi che avrebbe illuminato anche loro e là dires-sero i musi dei loro asini a notte fonda dopo una prepara-zione rapida e furtiva. Sparirono nel buio che cancellavabruciori e ricordi.

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Rifletterono per la prima volta che il dolore non è con-divisibile. Ciascuno, pensarono, soffre per conto proprioe non ricava sollievo dal condividere una pena con altri.Fu una riflessione precoce, considerata la loro età, ma uti-le, e non la dimenticarono.

Cominciavano davvero a fare da soli.Decisero di lasciare Mègara, ma non sapevano dove an-

dare: non erano delusi dalla filosofia, erano delusi di sé.– Se poi penso che questa conoscenza cambia continua-

mente, come dice Menecteo, mi viene una rabbia… – sitorturava i capelli: – Per una cosa che cambia senza sosta eche tra un po’ non è più la stessa noi abbiamo…

– Non parlarne, Peante, e non nominare nessuno diquesti… almeno per un po’, ti prego.

Restarono a lungo in silenzio mentre passeggiavano incampagna, lontani dal campo di Enope.

Al tramonto rientrarono in città con una decisione chia-ra nella testa.

– Solo dagli dèi ci verrà una risposta, Peante!– Sì, solo gli dèi ci forniranno un antidoto al dolore e

una risposta alle domande che abbiamo in testa. Sai cosaho imparato qua?

– Non so, amico mio. Tante cose, immagino.– Ho imparato a farmi domande. Sono arrivato a Mèga-

ra che ne avevo due o tre in testa: una sul mondo, una su dinoi e una sulle pecore. Adesso di domande ne avrei alme-no cento da fare, mi si sono moltiplicate nel cervello comele locuste.

Nicteo si fermò, sorrise e sussurrò a occhi chiusi:

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III

La luce del convento entra costretta attraverso una feri-toia e fa da meridiana alle donne in clausura.

– Tebe, che forza consuma mia figlia? Che forza c’è acasa mia?

Tebe mostra il suo mignolino mostruoso, bianco e contre unghiette, attraverso la grata:

– Capitano, a me lo chiedi? Io sono chiusa qui a causadi forze che non conosco. Non so cosa abbia fatto ricre-scere questo dito. Me lo domando da dieci anni. Sarebbestato meglio con nove dita ma a casa mia. Mi ricordo lapuzza del porto come il più buono dei profumi… Talat-tone è il paradiso per me… E quante volte ho chiesto allastessa forza che mi ha fatto crescere questo crocefisso dicarne di farmelo cadere, di farmelo mangiare dai topi delconvento, di farmelo finire in cenere! Lo sai che quandodormo mi dimentico questa appendice e, invece, ognimattina, la prima luce della cella illumina proprio la ver-gogna che io vorrei nascondere, tagliarmi e seppellire eche, invece, la gente mi bacia?

Capitan Xaxa prende il mignolo a croce nella sua ma-no:

– Ma io non voglio sapere che razza di forza è entratadentro Medina, voglio sapere come scacciarla, solo que-sto!

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* * *

Il sudore di Medina è diventato brina e lei si conservafresca e lucente, coperta di aghi di ghiaccio.

Decidono di aprirla dopo una settimana che CapitanXaxa la veglia.

Il dottor Fiammatorta parla sottovoce con Porfirio alquale il Capitano si è attaccato in questi giorni pensandoche tutta la malvagità di cui il talattonese è a conoscenzapossa spiegargli le cose o, almeno, portare un poco diequilibrio nel miracolo osceno di questa morte.

– È morta senza i segni della morte, Porfirio, e odora dipesca e così resterà per chissà quanto tempo. Ma è morta.

– Guardate questi fogli, dottore, Capitan Xaxa ha dise-gnato il naso di Medina centinaia di volte, sempre di pro-filo e sempre, dice lui, rivolto al cielo… Dice anche che ilcielo non cambierà mai e neanche sua figlia… Ora quelnaso non sente più odori e per lei profumare di pesco o dipesce non fa differenza…

– Ragionamento da talattonese. A Epipanormo le cosele vediamo diversamente, perciò siamo così diversi, alme-no da vivi, s’intende, e qualche volta, come vedi, ancheda morti. Noi vogliamo capire e anche Capitan Xaxavuole capire: perciò apriremo Medina.

– Era amore, credete a me, enorme… l’amore l’ha im-balsamata, l’ha avvolta di questa brina, e non c’è vermecosì coraggioso da farsi avanti… Ho il naso impestatodall’odore dell’orto dei Redenti. Intanto do altro oppioalla madre.

– Sì Porfirio, che dorma anche un anno se occorre.

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– Medina non può scappare, non c’è un luogo… nean-che io posso scappare… non si può scappare…

– Qui! Qui, in convento, vicino a te, Medina deve starevicina a te. Tu mi devi molto, Tebe, e il tuo mignolo ser-virà a qualcosa finalmente.

Tebe si rosicchia il dito per la rabbia:– Io, forse, ti devo questo mignolo storpio che qualun-

que peccatore si tiene tra le mani mentre prega… mani diogni rango… odio le mani… sono diventata una specie disanta che tutti consumano, Capitano… ti devo questo…

– Qui in convento, Tebe. Medina verrà qui a toccare latua mano.

In quel momento dal lungo corridoio bianco arrivaun’ombra sotto forma di odore che diventa subito un su-dario su Tebe e il Capitano.

– Odore di pesche! – dice lei, annusando l’aria e il mi-gnolo.

Battista Xaxa salta all’indietro e corre verso casa manon sente la forza nemmeno per camminare. L’odore dellutto toglie forza e vita ai vivi.

* * *

Il pesco più vecchio dell’orto ha scricchiolato. L’alberoinfelice ora ha prodotto il più bello e grande dei suoifrutti.

Il mantello del lutto ondeggia e ad ogni onda diventapiù grande, ricopre case e giardini e cala giù dalle muraattirato dalla città bassa.

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Guarda a lungo l’ombelico che per lui è il centro di tut-te le forze e misura. Gli basterebbe un taglio di un palmoper entrare nel mistero. Violare un ombelico è una cosaper lui fatta e rifatta, ma l’ombelico di Medina lo conosceda quando era un monconcino che lui stesso aveva taglia-to. Prende ugualmente in mano la lama e il lino con cuisposta la brina sulla pelle della ragazza che, però, subitosi riforma.

Quando ha inciso inizia uno stupore che non finirà più.

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Battista Xaxa si raddrizza e, poiché è rimasto sempreinginocchiato accanto alla figlia, non riesce a stare in pie-di, cade a terra e tutti vedono le ginocchia piagate. Lo fa-sciano e lui si vuole sedere sul letto della figlia:

– Fiammatorta, apritela mia figlia Medina e preparatetutto per richiuderla di fretta se dentro esistesse ancoraqualcosa che imita la vita… Anche solo un’imitazione mi-serabile… mi basterebbe un segno piccolissimo che qual-cosa di vivo è rimasto, anche un pezzettino insignifican-te… Non è possibile che qualcosa non sia rimasto. Sì, Por-firio, alla mamma dài tanto oppio da dormire sino a noncapire più se è sonno.

Posa la mano sulla fronte gelata di Medina e sente gliaghi di ghiaccio.

La ricorda questa figlia sua: nata da pochi minuti, pic-cola, bianca e non viola come tutti quei neonati gonfi peril dolore. E come ricorda il primo respiro senza pianti!S’era presa la sua prima aria con una grazia… con una gra-zia… Da subito si era capito! Si capiva che tutto correvaverso di lei, tutte le linee del creato! E se il sangue - hannosangue anche i serpenti, c’è sangue dappertutto - se il san-gue non fosse sempre lo stesso che travasiamo dall’uno al-l’altro, se il sangue ricominciasse a muoversi, a moltipli-carsi e sciogliesse questo lenzuolo di ghiaccio… se il san-gue dei serpenti servisse a farla vivere… se il sangue nonavesse l’odore dei campi di battaglia. Se tutto non si co-prisse di polvere… Ma il sangue vuole salvarsi e spessotrova un modo e: “Io, vedi, avevo salvato il mio con te.”

Il dottor Fiammatorta apre le tende perché ha bisognodi molta luce. Scosta la camicia di Medina e le scoprel’addome.

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– È un uomo che ha sbagliato lavoro, Battistino.– E invece sbagli tu, ecco, sbagli perché quell’occhio ti

distrae nel giudizio. È messo lì apposta per distrarre i de-linquenti che arresta: quelli pensano all’occhio e lui, in-tanto, ragiona e li mette in cella. Ecco.

– I tuoi giudizi sono sempre basati sulla pietà, neancheuna terziaria francescana.

– Beh, senti, intanto se tu ci avessi messo non dico amo-re, ma almeno qualche sentimento con Tebe, forse adessonon saremmo qui.

Enrico e Battistino, scambiandosi acido, aspettavano inquestura il commissario Glicerio che li aveva convocati.

Quando Glicerio arrivò, l’occhio era in piena ma lui in-goiò subito due pillole e si sedette alla scrivania toccan-dosi l’occhio come se toccasse un animale feroce:

– Ho scoperto qualcosa. È stata una riflessione di Egei-co Lago che mi ha ispirato…

– Ispirato? – domandò Battistino ravviandosi i capelli efacendo la bocca piccola.

Enrico temeva Battistino perché il dispetto causa altrodispetto. Glicerio diede una manata alla scrivania da do-ve venne fuori un rumore da ultimo giorno:

– Esatto, caro professore, ispirazione! Vorrebbe discu-

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te di Medina. Non so chi fosse, mi ricordo che aveva unbel passo elastico che solo da giovani si possiede.

Battistino, allisciandosi più velocemente i capelli, a vo-ce bassa:

– Anche a casa mia, commissario, anche da me l’odoreha assunto una forma. L’ho visto seduto, al buio, sul miodivano illuminato dalla luna. Mi vergogno a dirlo, ma so-no svenuto. E non so altro.

Enrico, sbalordito dall’amico che aveva confessato ladebolezza dello svenimento, prese coraggio e disse lenta-mente perché Bombòi potesse scrivere:

– Con me l’odore ha parlato… – e, fissando Battistino,sillabò: – Io non sono svenuto e l’odore se n’è andato.

Glicerio aveva preso le pillole, instillato il collirio, zitti-to Battistino Mattiolo e ascoltato. Ma tutto iniziò a rime-scolarsi dentro con le dichiarazioni dei due amici.

Non sapeva come dirlo, ci aveva pensato dalla sera pri-ma e non sapeva come dirlo. Allora scelse la via breve, co-me avevano fatto Enrico e Battistino raccontando il loroincontro con l’odore.

– Bombòi, mi dia le fotografie.Ne scelse alcune e disse:– Basteranno queste. Prima di farvi vedere queste foto-

grafie voglio chiedervi se sapevate che Egeico Lago con-sumava cocaina.

Enrico chiese spontaneo:– Consuma… Intendete dire che usa cocaina, che Egei-

co si droga?– Si drogava…Battistino aveva riacquistato acidità:

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tere sull’ispirazione? Io sono pronto, ma non è il mio la-voro e poi qua non siamo a scuola, lo sa? Qui siamo inquestura!

Enrico fu contento della risposta del commissario eBattistino si zittì.

– Bombòi, mi porti il verbale di Egeico Lago.Il sovrintendente posò il verbale e un collirio sulla scri-

vania.– Grazie. Dunque, vado all’argomento. – Si sgocciolò

l’occhio di medicina e proseguì: – Ho detto ispirazioneperché qualcosa nei fatti supera i fatti in sé. All’inizioquella faccenda dell’odore l’ho solo tenuta a mente. È in-solito, sarete d’accordo, che nel luogo del delitto ci siaodore di pesche senza che ci sia una pesca, è insolito cheun cane morto sappia di pesca, che aleggi odore di pescaa casa di una morta sgozzata senza che ci siano pesche incasa, è insolito che ci sia odore di pesche nella teleferi-ca…

Enrico ebbe un brivido, ma decise di interromperlo,ormai gli sembrava ora:

– Scusi, commissario, ma è ancora più insolito quelloche le dirò: quattro giorni fa l’odore è diventato, come sipuò dire, così denso da farsi materia, mi ha inseguito sinoal mio letto e mi ha detto: “Sei pallido”. Ecco, non ne hoparlato neppure col mio amico e neppure con MelaniaLampreda, – e qui si interruppe cercando una parola chenon trovò: – Inoltre l’odore l’ho sentito anche in altre oc-casioni, persino nell’atrio di casa mia quando ho salutatoun giovane…

– Quale giovane?– Un giovane che stava in portineria il giorno della mor-

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– Ogni pezzo dell’assassinato si trovava in stanze diver-se… La testa sul cuscino della camera da letto, gli occhiaperti, come vedete… Il tronco in cucina, sul tavolo… Legambe: tutt’e due in soggiorno, ciascuna su una poltro-na… Le braccia: nello studio, una vicino all’altra. Il de-pezzamento è stato accurato… eseguito con una lama damani esperte che hanno disarticolato i vari pezzi senzastrappi o lacerazioni rozze. Il sangue ripulito. È verosimi-le che la testa sia stata tagliata per prima.

Enrico, guardando la testa mozzata di Egeico adagiatasul cuscino, sussurrò:

– Cosa c’entra la cocaina, commissario, cosa c’entracon tutto questo.

– Esami tossicologici, professore. Era sotto l’effettodella cocaina quando gli è stato fatto questo. È stato unvantaggio, credo, per Egeico Lago. Non sappiamo altro,neppure con che lama è stato fatto a pezzi. Comunque…

Battistino si teneva la testa:– Finiremo tutti a pezzi ad Epipanormo.– Comunque, – proseguì Glicerio con l’occhio quieto

di colpo, – non mi avete ancora domandato quello che miaspettavo…

Un altro silenzio.Enrico sussurrò tenendosi la testa con le mani sulle

tempie:– Glielo chiederò io, commissario: c’era odore di pesca,

vero?L’occhio del commissario pulsò:– Sì, c’era odore di pesche dappertutto in casa. Enrico si afflosciò sulla sedia e poi scivolò giù. Bombòi

dovette raccoglierlo da terra.

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– Egeico è un idiota pigro, la cocaina non trasforma unidiota in un genio. Lui è un raccoglitore di notizie sullacittà… figuratevi che è tanto pigro che non le scrive nep-pure… La cocaina bisognerebbe fornirgliela con una col-letta tutti i giorni.

Glicerio sorvolò, pazientò, si toccò l’occhione e chieseancora:

– Quindi voi non sapete che uso ne faceva? Non sapetese la prendeva solo quando andava da Medina Xaxa?

Enrico fece una domanda da insegnante, ma, mentre lafaceva, sentì un tremore nella schiena e debolezza, e an-che spilli da tutte le parti:

– Perché usate l’imperfetto, commissario? Perché?Un silenzio severo, come quello che precede sempre un

dolore, riempì la stanza.Il commissario gli avvicinò le foto sulla scrivania e li

fissò:– Guardate, professor Ricasoli, e anche lei, professor

Mattiolo, guardate bene.

Egeico era fotografato a colori. Non stava tutto nellostesso posto e usciva fuori, inarrestabile per i cuori debo-li di Enrico e Battistino, dalle fotografie numerate.

Glicerio iniziò a leggere:– È la relazione del medico legale. Ascoltate, leggerò so-

lo le parti essenziali. Quello che vedete nelle foto si chia-ma depezzamento, il termine è questo.

Enrico e Battistino sembravano di colpo due candeleche si scioglievano, e guardavano le foto vedendo tutto loscandalo. Depezzamento.

Glicerio leggeva e aggiungeva di suo:

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– Oggi non svieni, Enrico, eppure sul giornale ci sonopiù morti che nati.

– Oggi no… merito tuo… quando ci sei mi dimenticoanche quelle fotografie orrende… e persino Medina di-mezzata… Forse più tardi potrò svenire.

Melania gli diede un bacio, gli grattò la nuca e si alzò.Quando le energie si coagulano in un punto, prendono

forme diverse: trombe d’aria, onde smisurate, grandi do-lori, record, lampi… insomma, fenomeni. Così riflettevaEnrico guardando Melania in mare.

Un volo di pesci argentati schizzò dall’acqua e corteg-giò subito Melania. Lei lasciava una scia azzurra e si al-lontanava scortata dai pesci.

Enrico stava osservando quel corpo che galleggiava per-fetto, i fianchi, le gambe, tutto, ed era abbagliato quandoalle narici, che gli si aprirono come crateri, arrivò l’odoredi pesche.

Si voltò e vide l’odore, giovane, bruno, sdraiato accan-to a lui. Richiuse gli occhi per non svenire e disse:

– Non vorrai ammazzarmi? Non so neppure chi sei. Soche c’eri quando è morta Nellina, quando è morta Tebe,quando è morta Medina, quando è morto Egeico… mor-ti ammazzati… anche Medina, vero, è stata ammazzata,non era un incidente?

Enrico teneva gli occhi chiusi e, chissà perché, non sen-tiva paura:

– Ma perché giri intorno a me e a Battistino? Tu sei diEpipanormo, vero? Perché hai scelto questa forma delprofumo?

Melania nuotava lontana senza fatica seguita dai pescipilota contenti.

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Battistino allontanò le fotografie e singhiozzò, un solosinghiozzo.

Quando Enrico si riprese, Glicerio aveva in mano unfoglio scritto a mano:

– È scrittura di Egeico Lago. Come vede, professorMattiolo, Egeico scriveva… Comunque sentite:

«Lo stemma con le pesche appartiene a una famigliaestinta da tre secoli, la famiglia Dei Redenti di Epipanor-mo. Enrico Ricasoli e Battistino Mattiolo non troverebbe-ro acqua in mare, figuriamoci. L’ultimo Dei Redenti forseera creatura che veniva, come me e come Medina, da trop-pi incroci, come tutti, d’altronde, qui ad Epipanormo. Orasono stanco. Nei prossimi giorni vedrò l’altra faccendadell’albero infelice… ora sono stanco.»

* * *

Enrico entrò nell’acqua sino all’ombelico. Le acque del-lo stabilimento della Grotta di Panope gli sembravano ac-que morte come il suo umore. Un pesciolino sbiadito feceun salto fuori dell’acqua e dopo una misera parabola cad-de con un piccolo spruzzo. “Acque morte” pensò ancora,ma era lui che vedeva così una bella giornata di fine giugno.

Nuotò, galleggiando come un relitto consumato, sinoalla punta degli scogli.

Melania era già là, sotto un ombrellone che a Enricosembrò la tenda di uno sceicco quando si sdraiò aspiran-do il buon odore di Melania:

– Melania, sei bella, ma così su un fianco sei più dea delsolito.

Lei scherzò:

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fronte, alla mia bella fronte. Il tuo cane si è spaventatoquando mi ha visto, deve avere capito qualcosa…

– Nellina era così intelligente.Enrico sentì un dolore forte occupargli lo stomaco per-

ché si ricordò Nellina, un pezzo per ogni pianerottolo:– Dimmi cosa devo fare.Il giovane Io rispose:– A guardare il mare non sembra cambiato nulla, è lo

stesso che vedevo dal mio terrazzo. La città è cambiata mavoi di Epipanormo no. E neppure i talattonesi. Avete con-tinuato nello stesso modo. Sempre nello stesso modo.

Enrico fissò il cielo e bisbigliò: – Il nome… Il nome…– Mi chiamo Guglielmino dei Redenti.Melania aveva iniziato il ritorno girando alla boa. Enri-

co non sentiva paura e neppure sentiva forte l’odore dipesche:

– Guglielmino dei Redenti…– Sì. Ma non l’ultimo dei Redenti, come credevo quan-

do mi sono appeso all’albero infelice. Ricordatelo, Enri-co, non sono l’ultimo dei Redenti.

E gli raccontò la sua storia sino all’albero infelice e alparto miracoloso di Medina.

Poi sparì.Enrico vide Melania che saltellava tra gli scogli per rag-

giungerlo. La gratitudine di Enrico traboccò per la conso-lazione che lei gli dava.

L’abbracciò, la baciò e l’asciugò a forza di accarezzarla.

* * *

– Come vedi, – disse Enrico a Battistino, – tutti i tuoi

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L’odore rispose:– Perché a me è rimasta una sola memoria, quella degli

odori, una memoria dolorosa per gli odori, ecco… Un so-lo odore mi ricorda la mia Medina… Mi sono condanna-to da me alla pena dell’albero infelice. Ho già scontato lamia pena. Di me è rimasto l’odore del trapasso. Ma avevoun figlio e non lo sapevo ancora quando mi sono appesoall’albero

“Che bel giovane…” pensò Enrico quando riaprì gliocchi e il profumo si rapprese ancora di più.

– Ora puoi ridere, Enrico, puoi ridere di me, se vuoi,tanto non posso ucciderti, c’è un motivo, un buonissimomotivo. Ora puoi ridere.

– Mi dispiace, il buonumore non mi è tornato ancora, civorrà tempo, solo Melania che vedi nuotare laggiù, è ca-pace di farmi dimenticare per un po’… Quanto agli odo-ri e alla memoria, hai ragione.

– Oh, a me il buonumore è passato da quattrocento an-ni e non tornerà più. Non posso dimenticare quel cuorluccicante e il sen sanguinante…

– Un cuore che luccica, un seno che sanguina…– Una tristezza eterna.– Eterna? Ma cosa ne sai? Chi l’ha detto che la tua è una

forma eterna? – domandò Enrico.– Sono eterno perché questo che vedi sono Io.– Eterno perché hai trecento anni? Ci vuole altro per

essere eterni.L’Io eterno scoppiò a piangere:– Sono passato al mondo senza rughe, o meglio, avevo

una sola ruga che mi è comparsa sulla fronte quando èmorta lei. La vedi? È ancora qui, verticale, in mezzo alla

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– Signora Lampreda, qui, a casa di professor Ricasoli lacornice è lei! Meglio di ogni ciliegio intarsiato, che, – pre-cisò Porfirio, – è il materiale più caro!

Melania sorrise e davvero incorniciò tutti col sorriso.Enrico la baciò e disse:– Il signor Rubinacci ci ha portato un ritratto di Gu-

glielmino Redenti.Battistino si accese una sigaretta e rifinì:– Un probabile ritratto di Guglielmo Redenti.Porfirio non poteva aspettare:– Eccolo, ve lo scarto.Apparve un ritratto, alto due palmi, di un giovane palli-

do su uno sfondo annerito, con i capelli lunghi divisi alcentro, con un tocco di etilico nello sguardo che, nelle in-tenzioni del pittore, doveva essere la rappresentazionedella melanconia nella faccia ovale. La guance erano rossee le labbra socchiuse. Si intravedevano i denti appuntitidel ragazzo. Nell’insieme dava l’impressione di un prepo-tente triste perché non riusciva ad avere ciò che voleva.

Porfirio interruppe il silenzio:– Consiglierei il legno di rosa, è caro, ma con una corni-

ce così questo bel giovane pallido verrebbe fuori dalla te-la, ve lo assicura Porfirio Rubinacci.

Melania disse:– Per carità! Se questo giovane salta dal quadro combi-

na guai… Ce l’ha scritto in faccia… ci manca solo questo!Porfirio domandò:– È un vostro antenato?Enrico era sempre più emozionato e quasi tremolava

tenendo il quadro tra le mani:– È un antenato di tutta Epipanormo. Vedete l’anno?

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giudizi sono andati a quel paese. Glicerio ha capito e hacapito molto. Egeico aveva trovato una strada…

– Due teste di terracotta che hanno capito quello cheabbiamo capito noi.

– Due teste, né più né meno delle nostre o della tua.– Non ci sono due teste uguali. Bussarono a casa di Enrico.Porfirio Rubinacci era nato cinquanta anni prima in

una casa del porto da un mamma conosciuta nel quartie-re per aver messo al mondo altri dodici Rubinacci.

Porfirio aveva studiato sino al diploma delle scuoleprofessionali e poi aveva lasciato gli altri Rubinacci a Ta-lattone per aprire una bottega di corniciaio a Epipanor-mo cercando di scalare la città alta. Ma tutti i cognomiche finivano in acci e altri dispregiativi erano un marchiodi Talattone e, comunque, Porfirio sarebbe restato un ta-lattonese anche se si fosse cambiato il cognome in ucci oin elli, per via del naso a vela e di quelle rughe salate dacommerciante della città bassa.

Faceva cornici perfette, rinomate. Veloce, attivissimo,aveva incorniciato tutto quello che era incorniciabile nelquartiere. Vedeva una cornice intorno a ogni cosa e avevateorizzato con la sua vasta clientela che tutto, proprio tut-to, doveva avere un contorno, almeno un alone.

Enrico e Battistino lo stavano aspettando e quandobussò interruppero la discussione sulle teste di Glicerio edi Egeico:

– Credo di avere trovato il ritratto! – disse forte Porfi-rio.

Enrico aveva la pelle d’oca per l’emozione.Bussarono ancora: era Melania.

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* * *

Dentro una teca senza cornice, su un pizzo grigio e opa-co, stava un dito mummificato, color piombo, a forma dicroce, con le unghie perfettamente conservate. Era la reli-quia meno adorata di tutta la chiesa del Santo Crocefisso eveniva rifuggita da tutti i fedeli di Epipanormo. A guar-darlo con attenzione il mignolo mostruoso era coperto dauna muffetta sottile e pelosa che lo rendeva all’apparenzavellutato.

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Milleseicentoquattro. Guardate bene in faccia i vostriclienti, signor Rubinacci, ciascuno avrà almeno una goc-ciolina del sangue di questo ragazzo.

Porfirio si guardò allo specchio del soggiorno:– Già, neanche una goccia a Talattone… guardate il mio

colore. Ho il colore delle mie cornici, io. Non è roba daEpipanormo. Ma miei figli sono un po’ più chiari di me,un primo passo. Però il mio naso da falco ce l’hanno an-che loro.

Battistino prese il quadro tra le mani e lo guardò, poiguardò Porfirio:

– Lei, signor Rubinacci, ha il colore di qualche feniciolaborioso che commerciava per mare. Questo ragazzo èbianco come la cera.

Enrico era scarmigliato e Melania lo pettinava con le di-ta mentre Porfirio prendeva le misure del quadro borbot-tando:

– Gli acci in basso e gli altri, gli ini, gli ucci, in alto… tut-to come sempre.

Quando il corniciaio e Battistino se ne andarono discu-tendo di suffissi, lasciando Enrico e Melania soli, lui, do-po quella lunga pettinata, socchiuse le gelosie, fece unabella penombra e iniziò ad annusare Melania che lo lasciòfare e l’aiutò. Caddero sul divano, fecero chiasso, feceroin fretta e poi, rossi e dilatati, mangiarono tutto quello chec’era in frigorifero.

Lasciarono solo una pesca.– Sai cosa mi ha detto Guglielmino? Che le parole si di-

menticano, le facce si dimenticano, si dimentica tutto, magli odori no, gli odori non si dimenticano.

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Ei

Non salutarono nessuno, neppure Etilla e l’oste gene-roso. Fuga e vergogna.

La Focide e Delfi erano lontane ma gli avevano spiegatoche era facile trovare la valle e il tempio sacri ad Apolloperché per strada avrebbero incontrato altri pellegrini.Inoltre, a un certo punto, li avrebbe guidati la sagoma delmonte Parnaso.

Così risalirono la Megaride e quando videro da lontanoil profilo del loro monte Citerone si commossero e si ab-bracciarono a lungo piangendo.

A Egostena si accodarono a un gruppo di ricchi sparta-ni protetti da soldati vestiti di nero, diretti anche loro altempio di Apollo per interrogare la Pitia.

Nicteo e Peante avevano solo sentito parlare della guer-ra e dell’odio, ma sapevano che su tutto regnavano, ri-spettati, temuti e adorati, gli dèi.

Loro dovevano, senza impicciarsi d’altro, raggiungerel’oracolo, aspettare e, infine, interrogarlo sulle cose gran-di che gli si agitavano nella testa.

Un vecchio guerriero diceva a voce alta:– Sette anni fa ho combattuto a Egospotami con Lisan-

dro. Abbiamo vinto. Molti amici hanno perso la vita maabbiamo ucciso tremila, dico, tremila cani ateniesi. Io

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– Ma le donne vi piacciono? Io gli uomini li so valutaresubito e a guardarvi direi che vi piacciono. Non avete l’ariadi quei ragazzini corrotti di cui si dice che pulluli Atene.

A Nicteo e Peante iniziarono a tremare le gambe: – Cer-to che ci piacciono le donne! La sola idea che un vecchiocisposo si dia da fare con noi ci rivolta lo stomaco! – EPeante aggiunse sputando per terra: – Ho conosciuto unodi questi ragazzi sventurati. Poveretto! Le guance di cerae le braccia sottili da femminuccia. L’avreste dovuto vede-re!

Al guerriero spartano piacque, a istinto militare, lo spi-rito dei due ragazzi e li prese sotto la sua protezione.

Arrivò la sera.Polifonte, così si chiamava, ordinò loro di addormen-

tarsi al tramonto e lui stesso li svegliò prima del sorgeredel sole per proseguire il viaggio con la carovana.

*A Crisa convergevano molte strade dal mare, dalla Beo-

zia e dalla Locride e i due ragazzi si stupivano della molti-tudine che trovavano per strada.

Man mano che si avvicinavano al tempio della Pitia lafolla cresceva in varietà e quantità. Videro, dal dorso deiloro asini un’infinità di uomini in movimento ciascunocon una storia che riguardava il singolo, la famiglia e, viavia, il villaggio, l’intera città, l’intera Ellade ed era porta-trice di un’immensa quantità di interessi.

Peante, che aveva già dimenticato Mègara, guardava esi meravigliava che potessero esistere tante facce diverse.Nicteo si rivolgeva a tutti quelli che gli capitavano a tirodurante il cammino.

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stesso sono stato ferito e, lo vedete, ho perso il bracciodestro, tre dita della mano sinistra, quasi tutto il naso, unorecchio e un occhio. Ma sono contento e darei quelloche mi resta per la mia città!

Peante fu proprio sventato:– Non vi resta granché da dare, signore.Un soldato con l’elmo nero si abbassò dal cavallo e die-

de una manata sul collo di Peante che cascò dall’asino:– Non essere insolente ragazzo.– Non volevo essere insolente… volevo solo dire che

quest’uomo ha dato tanto per la patria che non gli si puòchiedere altro, ecco cosa volevo dire.

– E inoltre, – mentì Nicteo, – noi abbiano sempre am-mirato Sparta. Siamo nati e cresciuti in una regione che èseguace dei vostri costumi e anche a noi ragazzi nel miovillaggio si fa scuola di sobrietà ai pubblici conviti doveascoltiamo gli adulti e tra noi, evitando di essere scurrili,scherziamo senza risentirci quando veniamo, a nostravolta, burlati.

Il soldato si levò l’elmo, sorrise e diede una manata piùleggera sulle spalle del giovane:

– Bravi! Un po’ troppo chiacchieroni ma educati comesi deve, si vede subito, io conosco gli uomini. Mi sembra-te sani e robusti. Ma cosa fanno due ragazzi qui a Egoste-na da soli e a dorso d’asino?

– Siamo diretti a Delfi, signore, vorremmo interrogarel’oracolo sul futuro, sul presente e sul passato. Ci interes-sano tutt’e tre.

– Consigli sentimentali?– Non siamo quel tipo di giovani che vivono sospiran-

do per una donna.

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norme numero di persone con cui aveva la possibilità diparlare e si mise a scegliere i tipi più interessanti.

Un grande carro, pesante, coperto da una tenda bianca,ospitava un uomo corpulento, ben vestito e intento a leg-gere enormi pergamene. Viaggiava con una donna e unosmilzo giallo e calvo.

Nicteo spronò l’asino:– Buona giornata, signori! Se andate a Delfi come me,

disponete pure di Nicteo.– Grazie, ragazzo, – disse l’uomo corpulento. – Ad Ate-

ne, da dove veniamo, non capita di trovare giovani cosìservizievoli se non in cambio di qualcosa.

– Ecco una ricompensa, signore: notizie su Atene.La donna che stava accanto all’omone sorrise e lo invitò

a salire sul carro. Nicteo era contento dell’approccio so-brio e, a suo avviso, poco provinciale.

– Mi chiamo Pirilampe e sono cittadino ateniese. I mieiantenati e io stesso abbiamo combattuto contro Sparta econtro l’Oriente. Il governo della città decise, grazie aimiei meriti, di affidarmi il controllo delle casse dell’era-rio…

– Non spaventarti ragazzo, mio marito non scappa conl’oro di Atene sul carro.

– Avrebbe fatto bene a farlo, – borbottò il compagno diviaggio della coppia, lo smilzo.

– Bene, dicevo che sono sempre stato, anche se nonspetterebbe a me dichiararlo, un onesto amministratore.Ma mi fu chiaro presto che gli ateniesi vivevano troppolussuosamente in rapporto alle loro ricchezze. Per mepoi, che mangerei onestà e mi vestirei con l’onestà, fu unaconstatazione amara. Guardate un po’ che tasse pagano a

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– Amico, volete che vi aiuti? La vostra magrezza suscitapietà. Volete il mio asino fino a Delfi?

– Non so cosa farmene del tuo asino che sembra piùmalconcio di me. Quanto alla mia magrezza, ragazzo pe-tulante, cerca di non pensare a chi vuole essere lasciato inpace anche se è pieno di guai come me. I medici mi han-no quasi ucciso e, non riuscendoci, si sono accontentatidi rendermi povero. Sono andato anche a Cos per le curemoderne. Ecco il risultato! Il flegma si è accumulato nelmio ventre e mi ucciderà se non riesco a scaricarlo. Mihanno imputridito l’intestino con l’orzo bollito. SoloApollo può salvarmi!

Nicteo, che non riusciva a stare zitto a lungo, si rivolseallora a una donna che viaggiava su un carro in compa-gnia di una bella ragazza:

– Signore, gradite acqua fresca? Avete le guance rosseper il caldo e le labbra asciutte.

– Io e mia figlia Cilla ti ringraziamo. Sono vedova dapoco e mi fa piacere la protezione di un uomo, anche se èancora un ragazzo.

Così Nicteo appaltava a sua volta la protezione accor-datagli da Polifonte anche perché da quel carro arrivavaun profumo buono di muschio e ambra.

– Vedi, giovane gentile, – disse la vedova, – andiamo ainvocare Apollo, secondo solo a Zeus, perché a Messe-ne, la nostra città, venga giudicato l’assassino di mio ma-rito, stupratore mio e, quello che più addolora, della miaunica figlia. L’uomo che ora si è impadronito della miacasa.

Trottando sull’asino troppo lento, Nicteo perse di vistail carro trainato da due cavalli. Ma era euforico per l’e-

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fidato tutto, mi invitò nella sua bellissima casa e durantela festa cercò di consolarmi: “Godi Pirilampe, gli dèi so-no dalla nostra parte e non solo gli dèi”. Tornai a casa coldesiderio di essere cittadino di Sparta, non mi vergogno adirlo. Volevo diventare cittadino di Sparta!

– Credo di avere capito, signore. È una storia che con-tiene grandi insegnamenti per un ragazzo.

– Eh, hai capito che le cose vanno male ad Atene daquando la politica è diventato un mestiere per abbindola-re i babbei?

Nicteo aveva avuto il tempo di elaborare la sua osserva-zione:

– Credo, così mi è stato insegnato, che tutte le cittàgrandi mostrino come il potere e la ricchezza portino lacorruzione e che un giorno si potrà calcolare la corruzio-ne conoscendo il numero degli abitanti.

– Che giovane acuto, – gracchiò lo smilzo. – Troppoacuto per essere del tutto onesto.

– Perdonalo, ragazzo, è afflitto dalla bile nera. Però èl’unico segretario fidato che mi è rimasto. Forse è cosìperché non ha avuto un padrone ladro che lo ha riempitodi dracme.

– Ma cosa vi aspettate dalla Pitia? – domandò Nicteo.– In due parole: o taccio e resto, oppure me ne vado.

Insomma, chiedo alla mia onestà - che, non spetterebbe ame dirlo, ad Atene è proverbiale - se resistere o recedere.

– E lo chiederete anche alla Pitia?– Esatto, ragazzo, esatto. Qui la giovane età tradì Nicteo che avrebbe dovuto an-

darsene a trottare da un’altra parte:– Perdonatemi: se la vostra onestà è così sviluppata e se

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Sparta! Lì sì che governanti e cittadini fanno il loro dove-re! Ad Atene no!

E iniziò a cambiare il colore della faccia:– Ad Atene si paga secondo umore e ispirazione. E io

dovevo arrabattarmi per pagare strade, templi e statue.Stavo diventando pazzo. Dunque inventai nuove tassema con astuzia e, anche se non spetterebbe a me dichia-rarlo, sono stato abile perché ho iniziato piano piano,abituando la gente ad allargare i cordoni della borsa. En-trava molto più denaro nelle casse della città. Fui aiutatoda tutti in Assemblea e, pensa, allora li ammiravo e crede-vo che loro ammirassero me…

– Siete stato saggio, signore, di sicuro. Ma un certo miomaestro mi ha insegnato che molte tasse rendono più co-stoso vivere: il pane costa di più, comprare le vesti di-venta difficile, gli schiavi costano un occhio eccetera ec-cetera.

– Il tuo maestro aveva ragione. Ma il punto non era l’ec-cesso di tasse. Purtroppo scoprii che una parte del dena-ro che affluiva agli uffici non me la ritrovavo nei conti.Avevo molti segretari…

Lo smilzo ridacchiò e Pirilampe lo fissò con severità:– I loro averi erano cresciuti senza spiegazione. Appena

me ne accorsi avvertii i magistrati deciso a spedirli davan-ti all’Areopago. Ma anche i magistrati avevano cambiatovita, banchettavano ogni sera con le etere più belle a di-spetto dei loro capelli bianchi. Li minacciai di denunciar-li all’Assemblea.

– E cosa avvenne?– Nulla, anzi, peggio, molto peggio di nulla. Il nobile

Cronate, un uomo molto importante al quale avevo con-

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senso si sia svelato attraverso una capra stordita dai fu-mi?”

Protetti da Polifonte che aveva indossato le armi piùtremende, arrivarono al tempio dove salutarono il solda-to abbracciandolo e ringraziandolo.

– Addio ragazzi! State attenti, la Pitia la sa lunga! At-tenti anche alle puttane, ne ho visto un’infinità in giro!Ma dimenticatevi la paura, Fobos bisogna guardarlo ne-gli occhi! Addio!

Erano di nuovo soli.Sulle scale restarono incantati a contemplare la costru-

zione meravigliosa: non avevano mai visto nulla di cosìbello. Anche lì Apollo aveva quell’espressione paziente esorridente che avevano già visto.

– È il dio più comprensivo.– Sempre gentile con noi esseri umani che strisciamo

sulla terra.– Peante, ho un presentimento…– Dimmi.– Ho paura…– Paura?– Sì, ho paura che, se la nostra ricerca è affidata a que-

sto tempio e alla Pitia, dovremo faticare… e poi, chi ciguiderà qua dentro?

– Coraggio, Nicteo, ho sentito dire che questo luogo èl’ombelico del mondo perché qui si sono incontrate al ri-torno le aquile che Zeus aveva inviato alle due estremità.

– E ti pare una buona ragione?Guardavano e guardavano. Peante si fermò con il naso

per aria:

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voi avete ben chiari chi è ladro e chi non lo è, avete da so-lo trovato la risposta. Che bisogno avete della Pitia? Sitratta solo di decidere se volete andare ad aumentare l’e-sercito dei disonesti oppure no.

Pirilampe cambiò argomento:– Guardate quanti pellegrini! Sarà difficile trovare una

locanda! Affrettiamoci!Nicteo saltò giù dal carro e raggiunse Peante nel grup-

po spartano.Polifonte gridò a tutti:– Poco cibo e subito a dormire. Lo stomaco pieno osta-

cola il sonno e impedisce all’anima di sognare.Come gli altri, Nicteo e Peante mangiarono poco, bev-

vero acqua, pregarono gli dèi e si avvolsero nelle coperte.

* * *

Delfi non era il luogo mistico, silenzioso e soprannatu-rale che i due ragazzi avevano immaginato e aveva pocodi sacro. Un unico brodo di uomini ricchi, poveri, sani,malati e storpi che protestava in una varietà impressio-nante di dialetti, confluiva verso quel punto dove, antica-mente, la terra si era aperta facendo uscire le esalazioniche ispiravano la Pitia. E quanto più ci si avvicinava aquel punto tanto più diminuiva il desiderio di pregare edi riflettere.

Peante, che non dimenticava le sue pecore, si teneva ilmento dubbioso.

“Chissà perché la capra fu considerata uno strumentodegli dèi e questo luogo diventò sacro ad Apollo, il piùragionevole degli dèi. Possibile che un dio così di buon

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celle che hanno la grazia trasmessa dal dio. E infine ci so-no le guide, insomma quelli come me. Capito?

– Ma tutti questi che avete elencato, quanti sono? – do-mandò Peante.

– Beh, circa cinquecento persone. Ma il numero varia.Durante la bella stagione aumentano perché aumentano ifedeli.

– Ma come vivono, voglio dire, come si mantengono aquesto mondo? – insistette Peante.

Nicteo si guardava intorno:– Ho sentito che oggi è il giorno del mese in cui la Pitia

prende ispirazione. Potremmo assistere ai suoi oracoli e,magari, porre noi stessi dei quesiti?

– Siete ricchi?La domanda scosse i due giovani. Aghirte camminava e

spiegava:– Vedete quelle cassette di ferro con una piccola fendi-

tura? Lì dovete versare la vostra offerta che non deve es-sere misera, mi raccomando, il dio vi guarda.

Nicteo e Peante si consultarono a lungo e versaronouna somma - che li impoverì ancora di più - nella casset-ta dove notarono in bassorilievo un Apollo molto sorri-dente.

Da quel momento Aghirte assunse un’aria di contrizio-ne con il collo torto da un lato e le mani unite all’altezzadel cuore.

Il breve tragitto fu un viaggio al centro della terra, versol’adito della Pitia. Ecco l’adito ed ecco la fenditura! Ovun-que si sentiva un tanfo di alghe marce.

La crepa sacra era deludente: un buco senza niente dimaestoso che per di più puzzava. Sopra la crepa c’era un

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– Lassù… Cosa vuole dire quella grande E incisa nelmarmo?Nicteo non rispose:– Andiamo avanti, ormai non si torna indietro…Nicteo prese per mano l’amico pensieroso ed entraro-

no nel grande vestibolo.

Un uomo elegante con un mantello bianco gli si avvi-cinò:

– Il tempio è troppo grande per voi ragazzi. Il dio vimanda una guida. Mi chiamo Aghirte e sono a disposizio-ne dei pellegrini.

I due amici erano diventati sospettosi con le guide e imaestri. Nicteo parlò per primo:

– Signore, siamo due giovani nati ai piedi del monte Ci-terone, semplici, è vero, ma con una grande sete di cono-scenza. Abbiamo domande importanti da fare alla Pitia.

Peante aggiunse:– Prima, però, dobbiamo sapere come funzionano le

cose qui per distinguere quelle buone da quelle cattive.L’uomo rispose:– Io vi posso aiutare perché questo è il mio mestiere.

Vedete, ciò che qui bisogna imparare subito è la gerar-chia. Ascoltatemi bene: l’ordine è tutto. Prima di ogni co-sa e sopra ogni cosa c’è la Pitia. Attualmente ne abbiamoaddirittura tre perché il lavoro è tanto e una sola finiva in-tossicata dai fumi della sacra fenditura da dove il diomanda l’ispirazione. Poi ci sono i sacerdoti soprinten-denti al tempio che sono di stirpe nobile. Ancora sottostanno i sacerdoti chiosatori, quelli, insomma che spiega-no i vaticini che, sennò, sono incomprensibili. Poi le an-

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nienti dalle budella della terra sino a che il suo sguardo -così sembrò a Nicteo e Peante - diventò vacuo ma attra-versato da lampi di follia che peggioravano la smorfiadella pitonessa e fecero indietreggiare i pellegrini.

La Pitia, finalmente, trascendeva.Un sacerdote parlò:– È il caso che sceglie tra gli uomini quelli che possono

parlare alla somma sacerdotessa del dio. Non c’è bisognoche il prescelto spieghi la propria storia: la sacerdotessasa e parla di conseguenza. Noi prendiamo nota e gli ad-detti spiegano il vaticinio. Gli altri possono rivolgersi anoi. Vediamo chi è il primo.

Ma la sibilla, sorprendentemente, parlò rivolgendosi atutti:

– Segui il carro. Un punto della terra o del cielo è quellodove gli uomini si congiungono al loro spirito. Cercate illuogo, cercate il luogo. Il cavallo è la forza, il delfino è ilcuore. Mangia sempre tavole quadrate. Evita di guardarel’orizzonte sino a Targelione. Non indire feste e banchet-ti ma volteggia solo nella tua casa.

La folla restò sbalordita. Non si aspettava la grazia diun vaticinio buono per tutti. Qualcuno, più pronto, ave-va annotato le parole che al momento, è vero, erano im-perscrutabili ma che poi avrebbero assunto un chiaro edefinitivo significato.

Peante si avvicinò all’orecchio dell’amico:– Tu hai capito? Echecrate, con tutti i suoi difetti, era

più trasparente.– Io intanto ho scritto tutto, poi vedremo di capire.

Quel “cercate il luogo”, in fondo, non è quello che stia-mo facendo noi due?

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tripode d’oro sul quale era poggiata una piastra simile auno scudo.

Alle pareti era appeso di tutto: offerte nelle quali si erasbizzarrita tutta la fantasia degli uomini quando cercanol’aiuto degli dèi.

La folla parlava a voce bassa e si percepiva un’inquietu-dine che col passare dei minuti diventava eccitazione.

Doveva essere d’origine divina quello stato alcolico che sisentivano addosso e li teneva tesi come le corde di una lira.

Peante provava un grande bisogno d’aria e pensava aisuoi prati e alle sue pecore, tanto che gli sembrò di vederli.

Nicteo, invece, provò la sensazione di essere con la ma-dre che gli preparava il bagno e gli oli balsamici.

C’era qualcosa in quell’aria che arrivava da sotto la terra.Si scossero tutti e ammutolirono quando entrarono i

cinquanta sacerdoti vestiti di bianco, una grande entrata.Tra la folla i due ragazzi riconobbero Polifonte e gli al-

tri spartani, la vedova con la figlia e anche Pirilampe conla moglie e il segretario che sgomitavano in prima fila.

Da una porticina entrò una vecchia, piccola e magra,imbellettata e coi capelli dipinti di nero e scarmigliati.

Si sentiva solo il lamento di qualche malato.Peante sussurrò:– Che occhi terribili! E che unghie, sembrano artigli e

guarda i denti…– Zitto, è solo il tramite del dio, cosa ce ne importa del-

l’aspetto.– E abbiamo pagato metà dei nostri averi per trovare

questa donna!– Zitto.La Pitia respirò profondamente le esalazioni prove-

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– Dunque, noi abbiamo perfetta conoscenza del quesi-to che tu ci poni. L’onestà dell’uomo è un buon oggettoper le predizioni della sibilla perché l’onestà non è un va-lore assoluto ma è del tutto relativa alle situazioni e allecondizioni in cui gli uomini si vengono a trovare. Ciò cheè onesto a Atene non lo è a Sparta. Solo la nostra divinapuò discernere tra le nebbie del dubbio.

– D’accordo, alto sacerdote, – disse Pirilampe sottovo-ce. – Ma chi mi spiega ciò che l’indovina ha detto?

– Io sono qui apposta, – rispose il sacerdote indispetti-to. – Quel responso può solo significare che tu, propriotu, visto che il responso è fatto a tua misura, e per questoci aspettiamo molta gratitudine, devi smettere di giudica-re gli uomini raggruppandoli in onesti e disonesti. Que-sto è compito degli dèi o, al massimo, dei semidei. La tuapresunzione sta esagerando e può divenire degna di unapunizione da parte degli uomini. Stai attento!

Pirilampe si arrovellava:“Ma come sanno dell’erario, delle tasse, dei ladrocini,

come fanno a sapere tutto?”Il sacerdote continuò:– Così ha deciso la pitonessa: tu limiterai il tuo lavoro

all’amministrazione del denaro pubblico che ti passa traquelle mani oneste che gli dèi ti hanno fatto crescere.Storna lo sguardo dagli altri e guarda solo alla tua fami-glia. Sarai felice.

Pirilampe, dopo l’offerta, offeso e triste, faceva ritornoal carro. Desiderava stare tra le braccia della moglie. Ilsuo stupore fu grande quando, dietro una delle colonnedel tempio, vide Cronate, il suo consigliere dell’Assem-blea, che confabulava col sacerdote brutale che gli aveva

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– Sarà. Ma come me le spiegherai le “tavole quadrate” equesta storia di volteggiare da soli?

– Beh, anche evitare di guardare l’orizzonte sino al mesedi Targelione non è facile, né da fare e neppure da capire.

La perdita dello spirito è il primo segno vero di invec-chiamento e Nicteo e Peante erano davvero ancora deiragazzi.

Aghirte guardava soddisfatto.Sentirono il nome di Pirilampe che, chiamato da un sa-

cerdote, cadde in ginocchio davanti alla pitonessa la qua-le aveva assunto un aspetto ancora più terribile e tiravafuori la lingua. Pirilampe era agitato e non aveva il corag-gio di guardare la Pitia:

– Nel vortice del cielo nero non è dato comprendere al-l’uomo il perché della tempesta. Perché il vento abbattele capanne, spazza le spiagge e stronca gli alberi? Chi losa? Neppure la Pitia può saperlo!

Rivolse lo sguardo al pubblico e ai sacerdoti con unlungo giro. Peante notò che la donna non si reggeva benesulle gambe.

– Quindi tu, uomo che strisci sulla terra, cosa vuoi giu-dicare? Non puoi, devi solo tacere, tacere o le aquile diZeus ti mangeranno il cuore! – roteò gli occhi, si morsicòla lingua e con un gesto scacciò via Pirilampe.

L’ateniese, rosso, sudato e stordito dai fumi, cadde al-l’indietro tra le braccia di un sacerdote che lo aspettavaalle spalle.

– Ateniese, io sono il sacerdote prescelto dalla Pitia perspiegarti il tuo responso, vieni.

Si appartarono in una delle celle che si affacciavano suun lunghissimo colonnato.

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– Silenzio, – sussurrò Aghirte.Con la voce da ventriloqua, a occhi chiusi e con le brac-

cia in alto, l’oracolo gorgogliò:– Noi tracciamo il solco ma il solco è già tracciato. E i

nostri giochi saranno graditi agli dèi? E cosa fare davantial leone che agita la coda e ringhia?

La folla, sempre più stordita dalle esalazioni e dalle pre-dizioni oscure, si sentì a disagio. Un altro vaticinio in co-mune? E poi si chiedevano: Ma come, la Pitia, fa lei le do-mande?!

Peante, dopo un lungo silenzio, disse all’orecchio di Nic-teo:

– Ora capisco la mania dei nostri maestri di volere chia-rire ogni cosa… Avranno i loro difetti, è vero, ma almenosi sforzano di decifrare le cose. Matematica, geometria,filosofia, qui ce n’è un grande bisogno. E poi io mi sentosempre più strano, quest’aria mi avvelena il cervello!

Nicteo apprezzò molto il giudizio dell’amico.Ora la donna di Messene, Plissena, quella alla quale era

stato assassinato il marito, fu condotta tremante davantialla Pitonessa che continuava a tenere gli occhi chiusi:

– Quando è fitta l’oscurità bisogna sperare di non incon-trare nemici. Arriverà l’alba e io già vedo la luce. La luce!

Fu un vaticinio breve.Un sacerdote ripeté con Plissena il rituale della cella:– Dunque, donna, devi tornare a Messene e cercare la

pace con l’uomo che in un momento di debolezza…– In un momento di debolezza?– … che in un momento di debolezza ha ucciso tuo ma-

rito. Quest’uomo, ascoltami attentamente, ti ama. È cosacerta.

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comunicato la volontà di Apollo. Cronate, qua, a Delfi!Fu una folgorazione:

– Dunque sono arrivati sin qui! Addirittura alla Pitia!Vagò per Delfi sino al tramonto, quando le bancarelle

chiudevano e i mercanti si placavano. Si sedette e pensòa lungo. Pensò che se lui non poteva giudicare gli altri al-lora neppure gli altri potevano giudicarlo. Insomma,nessuno poteva giudicare nessuno perché ciascuno pec-cava e, quindi, tutti peccavano. E ne discendeva che nes-suno peccava. Improvvisamente apprezzò la perfezionedivina del sistema. Non doveva essere difficile adattarsi.Lui era un uomo come tutti gli altri, fatto come gli altri,e ora aveva il più sacro dei permessi.

Tornò allegro dalla moglie e dal segretario. Voleva sa-crificare ad Apollo e banchettare.

Dopo il vaticinio per Pirilampe ne erano venuti moltialtri. Ma con qualche inciampo.

Infatti l’indovina, con gli occhi bianchi, stramazzò conun urlo, cadde dal tripode e restò incastrata con unagamba nella fenditura sacra.

– Niente paura! – disse Aghirte. – Guardate!Due sacerdoti portarono via la pitonessa svenuta attra-

verso una porticina da dove, in un battere di ciglia, entròun’altra donna, abbigliata allo stesso modo ma più gras-sa tanto che fu issata sul tripode a fatica.

– Ne abbiamo anche un’altra se serve, – bisbigliòAghirte, – e questa è un vero talento.

Una volta guadagnata la posizione anche la seconda in-dovina inspirò a fondo i vapori:

– Possibile che l’ombelico del mondo sia così puzzo-lente? – chiese Peante. – Non sembra l’ombelico.

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– Beh, si capisce, avete visto l’alto grado dei questuan-ti, l’importanza dei quesiti, il numero dei fedeli. E poi, dicosa vi lamentate? Avete avuto la fortuna di due vaticinibuoni per tutti. Non capita spesso.

– È vero, – disse Nicteo. – Ma sono misteriosi. Co-munque li abbiamo scritti nelle nostre tavolette, qualcu-no ce li spiegherà.

Aghirte improvvisamente esclamò entusiasta e batten-do le mani:

– Issione! C’è Issione! Che fortuna! Potete fare a lui levostre domande. È il più saggio e anziano dei chiosatorie ha fatto voto di povertà, non vi costerà nulla. È un po’mutevole…

– Mutevole?La guida si avvicinò al vecchio che se ne andava lento

per i fatti suoi e lo convinse a dedicare qualche minuto aidue giovani che aspettavano con le tavolette in mano.

Issione si sedette a fatica, ansimando, ai piedi di unastatua di Apollo danzatore e sorrise con una faccia cheesprimeva, finalmente, bontà:

– Cosa vi addolora?– Non si tratta di dolore, – iniziò Nicteo, – siamo due

giovani della Megaride assetati…– Non mi interessa chi siete e come vi chiamate. Io sono

cieco ma la cispa che mi fa ombra alla vista non mi fa om-bra alla mente e so giudicare due ragazzi. Cosa chiedete?

– Vorremmo conoscere il significato di due vaticinidella Pitia. Ecco, li abbiamo scritti qui… Voi non ci ve-dete ma noi possiamo leggerli…

Issione si ravvivò, chiuse le palpebre rosse e iniziò:– Bene! In principio era il Caos…

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– Tanto da violentarmi e, visto che l’amore era moltogrande, tanto da violentare anche mia figlia. Io lo odio,lo odio e voi…

– Zitta! Anche Zeus stuprò Leda. E tu, povera vedova,rifiuteresti un uomo che ti ama tanto da uccidere tuo ma-rito per averti?

Non c’era tempo: altri pellegrini subivano lo stessotrattamento con risultati alterni, compreso il malato cheNicteo aveva apostrofato in viaggio.

Alle parole della sacerdotessa, oscure quanto quelledei medici di Cos, il malato si sentì meglio e rafforzò ilsuo cattivo concetto su chi l’aveva curato sino ad allora.Entusiasta, riferì che immediatamente dopo il vaticinio idolori terebranti allo stomaco che lo affliggevano da me-si erano scomparsi, che già dopo due ore era in grado dimangiare l’agnello arrosto sacrificato al dio guaritore e,sopratutto, che era riuscito a liberarsi di tutti i fluidi ma-ligni che aveva accumulato nelle viscere.

– Anatema ai medici e specialmente a quelli di Cos!Che Apollo ne disperda la razza e affondi l’isola di Cos!– urlava nelle vie di Delfi.

Quando Nicteo e Peante uscirono all’aria aperta respi-rarono profondamente, felici di essere fuori dell’antroma ancora più confusi di quando erano entrati. Però colvento fresco della montagna, il sole e la luce arrivò nuo-va forza. La giovinezza li proteggeva più di ogni altrodio.

– E ora?Si rivolsero ad Aghirte:– La Pitia non ci ha degnato di uno sguardo.

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non so a chi rivolgo le mie preghiere… Troverò il nulla enon capirò cos’è… Ho passato la vita a spiegare la formadel mondo a migliaia di idioti in ascolto e ora… È orribi-le, orribile, capite? Non ho capito e non c’è più tempo!

Mutò ancora, diventò iracondo e iniziò a gridare:– Ecco cosa serve a quegli sciagurati che vengono da

noi a fare domande, ve lo dico io! Serve che noi gli spie-ghiamo tutto con l’Armonia, qui è il segreto. Voglionoche noi gli diciamo, comunque sia, che il mondo e le loroinsignificanti vite sono governati dall’Armonia. E se pro-prio armonico il mondo non è, noi glielo facciamo crede-re. E li convinciamo che per ogni storpio che resta stor-pio c’è uno sfacciatamente bello e sano, per ogni mortoammazzato c’è un nuovo nato che è accolto con amore,per cento poveri c’è un ricco, per ogni donna stuprata cen’è una vergine e che tutto ciò dimostra senza possibilitàdi discussione il supremo equilibrio del creato, l’architet-tura sublime del mondo e che sono gli dèi a regolarla. Maquando muoiono hanno tutti lo stesso terrore e muoionocon gli occhi aperti perché vogliono vedere cielo e terrasino all’ultimo! La stessa paura! E io ho paura! Scappatedalla paura!

Fu preso da una risata nervosa, poi di nuovo dal piantoe poi, respirando come uno che ha corso, tacque.

Aghirte retrocesse sino all’ultimo ordine delle colonnee si dileguò.

Nicteo, superata la sorpresa, domandò:– Dunque è una farsa?– Un mercato? – aggiunse Peante.Issione aveva le braccia penzolanti e con la bocca aper-

ta cercava aria:

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– Potete anche saltare questa parte, sacerdote, la cono-sciamo già, – disse Peante.

– … poi gli dèi crearono il cosmo e l’ordine delle stel-le…

– Non siamo ignoranti come credete, lo sappiamo che ilcosmo…

Issione si imbizzarrì e la bontà scomparve dalla sua fac-cia:

– Insomma! Io sono qua a cercare di mettere le cose inordine a loro posto e voi mi interrompete! Qui convergo-no tutte le storie degli uomini e noi, da questa fogna im-monda, ricaviamo un ordine! Non vi rendete conto diquello che avete visto oggi… del potere del dio. Qui sidanno risposte che guariscono e ci sono voluti secoli, se-coli, per fare tutto questo, capite? E voi vorreste com-prendere tutto in un giorno, in un attimo. Siete matti!

– Scusate, sommo sacerdote… – disse Nicteo.– Non sono sommo, sono solo un sacerdote chiosatore

e anche vecchio. Io spiego, chiarisco e ho fatto voto dipovertà.

– Scusate, ma l’ordine di cui parlate ci chiarisce solouna piccola parte. Noi domandiamo al dio…

Il vecchio si coprì il viso cattivo con le mani e improvvi-samente iniziò a singhiozzare:

– Ma cosa volete da me?Si scoprì la faccia e a Nicteo e Peante apparve la Paura

attaccata come un mostro all’espressione del vecchio: – Sono vicino alla morte, affacciato sul vuoto e ancora

non ho capito cosa mi aspetta dopo. Io supplico, un an-no, un mese, un giorno, un istante di vita in più e ancoranon so se qualcuno mi ascolta… Non so a chi domando,

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ventù, li salvava dall’oscurità. Erano passati da uno statodi intelligenza sorgiva a un altro più evoluto per cui i fattidovevano essere prima esaminati e poi accettati o rifiuta-ti. Intanto, però, la Pitia avrebbe farneticato a lungo.

Restavano due sacchetti di dracme.– Abbiamo cercato la conoscenza e ci ha sopraffatto,

abbiamo cercato conforto negli dèi e ci hanno intossicatocon i suoi vapori…

– E io comincio a provare troppa nostalgia, Nicteo. Fi-losofia e religione! Che cambino il mondo, a me non im-porta. Io voglio il mio, di mondo… io sono un pastore.Ho capito che, tanto, non cambierà nulla: si continuerà avivere con la paura di morire e a morire lo stesso anche seun esercito di Echecrati e di Pitie si opponessero.

– Questo è vero, Peante. Ma io voglio conoscere, cono-scere… Te le immagini le sere al paese? No, no! Lo sape-vamo che sarebbe stato faticoso. Fammi riflettere. Il col-po è stato forte.

Al tramonto, dopo una lunga passeggiata tra gli ulivi,Nicteo affermò:

– Amico, gli dèi ci hanno illuminato. Ascolta bene cosaho pensato.

Peante era sospettoso, però Nicteo era sicuro e fermo:– Quali sono, Peante, i prodotti dell’uomo che si fanno

ammirare solo per quello che sono e non perché truccatio imposti con la forza?

– Il grano, l’orzo, il vino…– No, no, questi sono i prodotti della natura, non c’en-

trano con quello che intendo io.– E cosa intendi tu?

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– È la risposta che la gente vuole.Improvvisamente Issione divenne amichevole:– Cari ragazzi, volete altre spiegazioni?– No, grazie, siete stato esauriente.– Mi raccomando, dietro la statua ci dovrebbe essere

una cassetta, siate generosi.– Ma voi avete fatto voto di povertà, – osservò Peante.– Io certamente, ma il dio no. Qui ci sono cinquecento

bocche da sfamare e non si tratta di bocche qualsiasi.Peante raccolse da terra un chiodo e lo mise nella cas-

setta.Il sacerdote non possedeva più la vista ma l’orecchio

era esercitato:– Che suono strano! Non è un tintinnio di monete gre-

che.– Sono dracme di semplice piombo della Megaride, –

disse Nicteo.Fu conviviale:– Ora che avete trovato la risposta che cercavate vi con-

siglio di sacrificare un capretto dall’oste Licopèo che ar-rostisce ispirato da Apollo in persona. Vi consiglio anchedi non usare con lui quelle dracme di semplice piombodella Megaride.

Dopo queste parole il vecchio mistico si alzò e si allon-tanò tastando il muro.

Un vecchio svaporato e folle. Una bella esibizione difurbizia secolare. Però quel discorso sull’Armonia avevacolpito Peante. E tutte quelle bocche da sfamare apertecome quelle dei pulcini che aspettano nel nido!

L’apprendistato di Mègara aveva conferito ai due amiciuna certa malizia e uno spirito critico che, con la gio-

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IV

Uno stupore che non finirà più.Dentro la pancia candida di Medina, accucciato e sod-

disfatto, c’è un bimbo già bello e grande, rosa, con le pal-pebre ben aperte che fissa tutti dritto negli occhi, fulmi-nandoli uno per uno con uno sguardo prepotente. Escequalche goccia di sangue bianco dalla ferita di Medinache il medico deve allargare tremando come una canna alvento per far uscire il bambino enorme.

Il bambino, con qualche sforzo, porgendo la mano aPorfirio esce gocciolante continuando a fissare tutti.

Il dottor Fiammatorta taglia il cordone, l’annoda e cimette una garza, poi sente un fortissimo dolore alla testa,si porta le mani alle tempie, lancia un urlo e cade a terratenendo ancora la lama con cui ha aperto l’ombelico diMedina.

Porfirio, moltiplica le rughe, piega il becco più in giù,muove tutte le penne e dice soltanto:

– Ecco cos’era! Era amore! Avevo ragione: un amoreesagerato, esagerato!

Battista Xaxa inizia in silenzio il suo pianto e ordina al-tro oppio per la moglie.

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– L’Arte, caro mio, con l’Arte non si bara! Se una statuaè brutta e sproporzionata non puoi convincere qualcunoche è un capolavoro! Se una tragedia è noiosa non puoiimbrogliare il pubblico che non applaude e non torna avederla.

Peante pensò che il ragionamento era sottile e cheEchecrate si era dedicato al suo compagno con bei risul-tati.

– E dov’è concentrata l’Arte? Dove?Peante non ebbe dubbi:– Atene.Così prepararono i pochi bagagli, pulirono gli asini,

mangiarono pane e fichi, dormirono sonni intossicati e sisvegliarono all’alba. Diressero i musi delle loro cavalcatu-re verso meridione, contro la corrente dei pellegrini follicome quegli animali che si muovono solo in mandrie allaricerca dell’acqua e ricominciarono a parlare e parlare.

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sce, poi, quando finisce, dopo una serie innumerevoli disputi, si decide a parlare con uno sforzo smisurato:

– Porfirio, tu puoi chiedermi tutto, lo sai. Ma CapitanXaxa ha impiccato mio fratello, mi ha chiuso senza pro-cesso in una cella coi topi che mi morsicavano e senza lu-ce… e ora guarda cosa sono! Non esco da questa stan-za…! Ho i polmoni in piena!

Porfirio accende il fuoco sotto una pentola:– Ora farai i fumenti con la polvere di artemisia che ti

ho portato.Solleva Basilio, lo accosta alla pentola quando l’acqua

calda inizia a fumare e lo ricopre con un panno sporco diogni peccato di Talattone. Da sotto il panno ogni tanto Ba-silio toglie la testa a sorpresa da una parte o dall’altra lan-ciando sputi una volta qua e una volta là. È una mortifica-zione vedere quest’uomo curvo che parla da sotto il telo:

– Tu lo sai Porfirio che io ho dovuto usare quello che hotrovato per fare la minestra della mia vita. E se ho trovatosolo il male e i rifiuti, rovistando da bambino in mezzo al-le porcherie di questa città, non è una mia colpa… E in-vece tutto mi è stato rovesciato addosso e mi sono spor-cato…

– Respira, Basilio, respira.– Chi ha deciso di lasciare qui noi, in basso, a crescere

tra il letame? Quando è successo? Io domando un gior-no, un’ora, un respiro in più… un mendicante d’aria…ma noi non siamo ascoltati perché è così da quando c’èquesta città… Le fogne in basso e noi vicini ai topi…

– Respira, Basilio.– Dev’essere stato così sin dall’inizio, dev’essere stato

deciso dagli inizi… E dove vuoi che venga mantenuto

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* * *

Tutti hanno saputo la notizia del miracolo mostruoso, equalcuno dubita che sia un miracolo.

Il vento arriva dai monti e spazza i vapori fetidi di Talat-tone. Le prostitute escono per strada. I pederasti del por-to escono dall’ombra delle stanze e fanno uscire anche ibambini pallidi. Esce tutta la brodaglia ristretta del quar-tiere basso. Anche l’unico prete di Talattone esce e, no-nostante il naso sempre umido, sente anche lui nell’ariaquell’odore di pesche. Anche nel convento Tebe Mistrèsente l’aria di miracolo e si morsica il dito a croce perchéodia i miracoli e pensa che vengano da sottoterra e nondal cielo.

* * *

Porfirio bussa.La stanza è buia e si vede il naso bianco di Basilio, l’uni-

ca parte che ha resistito al disfacimento di quest’uomo al-to e malato:

– Senti Basilio, c’è bisogno di te a casa di Capitan Xaxa.Basilio non s’alza più da anni dal suo letto sporco per-

ché al posto dei polmoni ha due bolle d’aria piene di li-quido. A sentire il nome di Capitan Xaxa, diventa azzur-ro, non respira, si contorce, rumina e rumina a lungo unosputo tra palato e lingua e poi lo schizza in terra.

Porfirio non ci bada:– Ti ho portato pesce bollito, ecco, mangialo. Ma c’è bi-

sogno di te per mandare via il diavolo da casa Xaxa.Basilio mangia anche le pinne e gli occhi bianchi del pe-

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Sertolino ha gli occhi rossi e stringe forte la mano diAmelina che ha giurato di sposare.

– Se io non fossi stato innamorato, e coricato con Ameli-na sulla paglia, l’avrei salvato e lui sarebbe ancora qui, ma-gari disperato, a contare le stelle. Sono salito io a staccarloda quell’albero infelice… il più bello dei frutti che quelmaledetto pesco ha prodotto… Era il suo albero preferi-to: quante cose mi ha insegnato là sotto, quando il solepicchiava o la notte, all’ombra della luna… I genitori lovogliono imbalsamare, pensate, per poterlo almeno vede-re ancora e, magari, parlarci quando ne hanno voglia… Siè ucciso per quella poverina che è morta con suo figlio inpancia…

Amelina singhiozza e piange.Porfirio non si commuove mai perché lui è la strada che

tutti i vizi attraversano per arrivare al dunque:– Ora c’è da purificare il bambino da questa maledizio-

ne che inizia dall’albero infelice e chissà dove arriverà.Tiene già la matita in mano e cerca di scrivere, pensa…

– Studierà il cielo come il padrone, mio Dio!– Mi serve una goccia di sangue del tuo padrone.Amelina scappa via.Sertolino impallidisce:– Sangue di Guglielmino Redenti? Ma è sangue fermo

ormai! Come faccio a toglierglielo?

Può sposare Amelina con tutti i soldi che gli dà Porfirio,tenersi sempre vicino quella pelle da uovo sodo, respiraree sentire l’odore di Amelina che gli fa tanto sangue, il col-lo peloso, la bocca. Gli manca il respiro. Deve solo spre-mere sangue da Guglielmino, spremerne qualche goccia

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uno che, come i topi sa prendersi il male addosso, ancheil peggiore, senza morire… È il male che mi allunga la vi-ta, senza male e dolore io sarei già incenerito… Morirò enon avrò capito nulla… Ora vuoi che venga a prenderealtro male che mi si attacca e mi prolunga la vita…

– Ti farò portare io in carrozza e Capitan Xaxa si ingi-nocchierà…

– Si inginocchierà? – rantola togliendosi il drappo dallatesta e allargando le narici per prendere più aria.

– Beh, insomma ti chiederà, si piegherà a chiedere chetu gli liberi la casa e salvi il bambino che il diavolo sta fa-cendo crescere ogni ora di più. In un giorno da che è usci-to dal ventre materno ha imparato a camminare, pensa. Ildottore ha avuto una flussione alla testa ed è morto davan-ti al bambino. La moglie di Capitan Xaxa è soffocata per-ché hanno esagerato con l’oppio. Dicono che è il diavoloo qualcosa di simile che lo muove. Dimmi cosa ti serve,ma ricordati che, secondo me è solo un’esagerazione del-l’amore: hanno esagerato ed ecco cosa ne è venuto fuori.

– L’amore esagerato? E chi ce la fa, Porfirio? Io non ciho mai provato…

– Vieni?Basilio rumina ancora, pensa e rumina di nuovo, poi, al

posto di un sì, lancia uno sputo catramoso che finisce piùlontano di tutti gli altri sputi.

* * *

Porfirio ha continuato con la luce e col buio il giro perle sue vie oblique:

– Sertolino, lo so che tu volevi bene al conte.

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frutteto e guardato il cielo: “Medina, polverina celeste, èil sangue tuo che ha fatto tutto.”

Quando era saltato giù non aveva ricevuto la punizionedesiderata.

Era azzurro, quando l’aveva trovato Sertolino, e ancoraondeggiava spinto dallo scirocco forte. Non sembravamorto, era anche più bello del solito e Sertolino avevapensato, ma solo un istante, che giocasse all’altalena. Nonaveva mai visto un morto così aggraziato con il capo cosìgentile piegato da un lato.

Aveva tagliato la corda col suo spadino da scudiero e loaveva disteso tra le pesche mature cadute.

Guglielmino Redenti, bello, pettinato e freddo.

* * *

Basilio viene coricato dentro la carrozza che riempie disputi lavici e riportato alla sua tana a Talattone. Ha respi-rato un poco d’aria di Epipanormo, sta meglio; i suoi pol-moni gorgogliano come prima ma lui si regge in piedi. Èun poco di vita in più.

Ricompare il vento nobile del nord.Il bambino ora dorme in una culla e piange come tutti i

bambini chiedendo un capezzolo e un capezzolo enormeviene fatto arrivare dalla montagna e fa un latte al rosma-rino.

Tutti mettono il vestito nero in casa.Medina è murata nella sua stanza di ragazza ma il padre

vuole che un mattone in alto non sia messo al suo posto inmodo che un unico raggio di luce entri nella camera dellafiglia dal lato del balcone che dà verso casa Redenti.

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direttamente dal cuore. Deve pungerlo in un punto preci-so che Porfirio gli ha spiegato. Poi con quel sangue biso-gna bagnare il bambino che nessuno ha avuto ancora ilcoraggio di battezzare, neanche il prete raffreddato e umi-do di Talattone.

* * *

Basilio è stato trasportato in barella, con i polmoni li-quidi, davanti al neonato che cerca di tendere un arco elanciare una freccia in aria. È saltato fuori dalla pancia diMedina solo da quattro giorni. Ma il talattonese non sistupisce e sembra che capisca subito di cosa si tratta ecompiacendosene sputa nel fazzoletto. Rantola solo:

– Ce ne vorrà.Capitan Xaxa è peggiorato e ora un occhio gli sporge

spaventosamente più dell’altro ed è rosso come una tor-cia. Non dorme più e non mangia, abbrustolito dalla ma-lattia. Aspetta Basilio, non bada agli sputi, si inginocchia eindirizza come una lancia l’occhio verso Basilio:

– Porfirio salverà il collo dal cappio. Ma tu devi liberarela casa e questa creatura terribile.

Basilio sputa ancora, per rispetto, in un panno pulito, ciguarda dentro e poi inizia.

* * *

Era curvo quando aveva fatto passare la corda sopra ilramo più robusto del pesco grande. Si era raddrizzatoquando aveva fatto passare il cappio che aveva stretto be-ne al collo. Si era allisciato i capelli, ascoltato il vento nel

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vare nella stanza più fredda del palazzo. Ma dopo alcunimesi è così cambiato che dapprima lo guardano solo inpenombra e poi, siccome ha smesso del tutto di assomi-gliare a Guglielmino - tanto che può essere chiunque e diqualunque età - preferiscono seppellirlo, non vederlo piùe guardarlo solo in un bel ritratto che si portano nella ca-mera da letto.

Il padre fa tagliare tutti gli alberi di pesco del frutteto fa-tale e lo lascia raso e melanconico con la cupoletta, l’os-servatorio del figlio che non ha il cuore di distruggere.Spariscono passeri, allodole e merli e rimane qualche tor-tora per il lamento funebre a ogni alba. – Tutto, tutto…ma sentire quell’odore di pesche non posso più, mai più.

La madre tiene in un sacchetto di lino una ciocca dei ca-pelli di Guglielmino e ogni volta che abbassa lo sguardo,se la vede al collo e ricomincia il ciclo nero del lutto di cuisente dappertutto le zampe brutali.

Per il nipote Enrico non sanno bene cosa provare: pen-sano spesso al bambino che è stato liberato da Basilio,morto soffocato un mese dopo.

Padre Onagro, interrogato su quello che i due vecchidovrebbero fare per il nipote, risponde: Difficile, diffici-le!

I due vecchi e invecchiati genitori vogliono sapere sedevono considerarsi nonni.

Padre Onagro ha un muso da ciuccio e nitrisce: – Quelbambino viene dal vostro sangue e il vostro sangue vieneda lontano. – Arriccia le labbra: – Volete che si esaurisca ilvostro sangue? No, certo! Ma come è stato generato? Ec-co, questo è il nodo che procura dolore… Come è statogenerato? C’è un difetto di legittimità, questo è certo. E

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Eponina, uccisa dall’oppio, viene sepolta al promonto-rio sotto una croce di marmo bianca nel cimitero sabbio-so. Ognuno pensa che l’oppio è una cosa benedetta datutti i santi perché lei, con l’oppio, è morta senza smorfie,e senza paura ha lentamente preso il largo senza strappa-re le corde che la tenevano al molo.

Battista Xaxa ha scelto il nome per il bambino: Enrico.Lo fa battezzare nella cattedrale bianca dove le luci, inuna bella giornata di settembre, entrano come un liquidoargentato e si incrociano arrivando al fonte dalle finestrealte. Uno di questi raggi colpisce l’occhio gigante di Bat-tista.

È l’occhio della fronte, l’occhio destro, quello del futu-ro, dell’eternità, l’occhio senza palpebra, l’occhio lungo.

Lascia il comando della città al suo luogotenente ener-gico.

Segue le poppate, il sonno, le giornate di Enrico. Con-trolla il seno della balia Egidia ogni mattina spingendolocon un dito e dicendo: – Va bene, però mangia più carne.

Ogni dieci giorni va a portare notizie alla tomba dellamoglie.

Ogni sera, dopo che chiudono le porte tra città alta ecittà bassa, dà consigli con il suo enorme occhio al luogote-nente, troppo onesto per governare da solo su Talattone.

Ogni notte si appoggia ai mattoni della camera di Me-dina e racconta del bambino sussurrando alle pietre.

* * *

I genitori di Guglielmino guardano ogni volta che nehanno voglia il figlio imbalsamato che hanno fatto conser-

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padroni, gli mostra Melania e la fa avvicinare al figlio diGuglielmino e Medina che tante ne ha passate anche se hasolo un anno. Però ora sembra un bambino come gli altri.

Enrico è afflitto da tutta quella gente che lo tocca e loprende in braccio, ma quando vede la piccola Melania,scura, bella e pelosa, e quando gliela avvicinano sente l’o-dore, la annusa a lungo e si consola.

Nessuno se ne accorge ma il corso della vita dei duebambini è cambiato in questo momento ed è cominciataun’assistenza reciproca che avviene con un linguaggio in-finitesimo iniziato con l’olfatto. L’odore non cambia e peril piccolo Enrico si tratta di una zampata affettuosa e sen-za unghie che gli arriva al naso e da lì alla memoria impri-mendosi come un marchio a un vitellino.

E ogni volta, quando Sertolino porta Melania a casaXaxa, Enrico sente subito l’odore prima di vederla e lasciaanche il capezzolo della nutrice e, per gentilezza, lo dà dasucchiare a Melania. In questo modo crescono sviluppan-do in comune tutti i sensi che possono condividere.

Quando Melania perde la sua peluria e, in cambio, hadenti a sufficienza il suo sorriso incomincia a far luce, unaluce bianca che fa saltare come un folle Enrico qua e là, lastessa che è apparsa al momento della sua uscita dal ven-tre materno e che ha illuminato Sertolino e la levatrice.

Un giorno Battista Xaxa vedendola ridere sente l’oc-chio bruciargli di meno e il cuore battere più tranquillo epensa: “Questa bambina consola gli afflitti.” E una voltache la vede giocare in giardino: “La fontana manda piùacqua… i girasoli si voltano… arrivano più farfalle e i ca-labroni volano più veloci… Tutto per questo sorriso…”

Ripensa al naso di Medina che è venuto da lontano per

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sul difetto di legittimità dovrei sentire altri pareri canoni-ci. Ci vorrà tempo e gli avvocati di più di una curia, giac-ché il caso è unico.

Vanno ugualmente al compleanno.

* * *

Nel frattempo è successo.– Spingi Amelina, spingi forte… sei troppo soda, fa fati-

ca a venire fuori… pensa alle tue pecorelle… come se fos-si sola nel bosco… Spingi…

Amelina non era spaventata. Mostrava i denti al dolore,spingeva e si concentrava sul ricordo di Sertolino che,quando era addosso a lei, non capiva più nulla.

Amelina aveva riempito del suo buon odore la stanza.Aveva sorriso, spinto e illuminato tutto intorno:– Ecco.Con la luce era venuta fuori una bambina scura, solida,

un po’ pelosa ma con una bella pelle salutare solo a veder-la. La bambina, sorprendendo Sertolino, prima di pian-gere, aveva fatto un bel sorriso e cosparso madre e padredi un buon umore dorato che gli si era attaccato addosso enon se ne sarebbe andato più via.

La levatrice, tagliandole il cordone e coprendolo di pol-vere da ombelico, aveva detto:

– Melania, chiamatela Melania.

* * *

Così al compleanno di Enrico Xaxa partecipa, aiutandoa servire i gelati, anche Sertolino che aiuta i suoi vecchi

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V

Erano in auto e andavano a palazzo di giustizia, costrui-to giù a Talattone dove ce n’era sempre stato più bisogno.Un edificio in stile egizio che non conteneva faraoni.

– Dunque è una sostanza? – domandava Enrico.– È un’anima o una sostanza? Vogliamo consumare l’a-

nima e la sostanza nostre in questa discussione? – chieseBattistino mentre guidava nervoso.

– È una cosa imperfetta, e fa paura, a me fa molta pau-ra, – disse Melania. – Però ha avuto un figlio, così ti hadetto questo Guglielmino… vero, Enrico? Ha detto cheha avuto un figlio?

– Sì, ma l’ha saputo solo dopo che si è appeso all’alberodi pesco. E mi chiedo di continuo: perché non mi ha vo-luto uccidere? Ha detto che non poteva farlo con me.

Melania si raccolse i capelli. Enrico, che era seduto die-tro, le vide la nuca e si incantò, come sempre, davanti aquella sostanza sostanziata da cui emanava qualcosa chemagari era proprio l’anima di Melania:

– Ha detto che non poteva farlo, che non poteva ucci-dermi. Ecco.

Melania si girò e sorrise ad Enrico:– A Epipanormo sono nati e morti in tanti, ed è questo

che fa disperare Enrico… Si dispera perché li hanno di-

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andarsi a depositare sulla faccia del nipote Enrico. E pen-sa anche al futuro più distante sperando con tutte le sueforze che quel naso passerà da faccia a faccia per tutta ladurata di Epipanormo, forse, e anche dopo.

* * *

Guglielmino aveva sentito il crac del collo senza spa-vento e aveva aspettato che il buio entrasse nei suoi occhiperché si era convinto che quello era proprio morire.

Il collo era spezzato, non muoveva più neppure un dito,il torace non si muoveva, già diventava freddo alle estre-mità… però il freddo lo sentiva. Sentiva.

Aveva aspettato così, fermo perché era morto, che spa-rissero anche le tracce minime della vita. E aveva conti-nuato a sentirsi Guglielmino, prepotente, innamorato diMedina… e invece ciondolava freddo, spinto dallo sci-rocco. Come un pendolo andava una volta nell’aldilà epoi tornava di qua.

Cosa era quell’energia che ancora sentiva? Si era arrab-biato, aveva divincolato i pensieri per fuggire da lì, maquesto lo aveva fatto soffrire troppo e aveva smesso.

Non gli era toccato aspettare molto.Si era portato via il ricordo profumato dell’albero infeli-

ce mormorando come un bambino dispettoso: Ecco, ec-co…

E quello che restava di lui lo aveva lasciato a pendere dalramo.

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– A cosa ci serve un avvocato?Melania non si voltò neppure:– Tre morti, un commissario che ci studia al microsco-

pio…– Con quell’occhio ci studia al microscopio?Melania non ci badava all’acido di Battistino:– …un commissario che spia ogni cambiamento nelle

nostre espressioni, che ci gira intorno e tu domandi a cosaci serve un avvocato? Battistino, sei seccante…

– Forse ci servirà un giorno… io domando: a cosa ci ser-ve ora?

Arrivarono a palazzo e scesero dalla macchina.Lei non rispose a Battistino e salì le scale facendo girare

un bel po’ di maschi.Enrico iniziò una vertigine sottile e continua. Era tutta

questa gente che qua - distratta dalle cose terribili che av-venivano in questo palazzo - si dimenticava che dovevaprima o poi andarsene, tutta questa processione che lo fa-ceva stare male.

In effetti, come aveva detto Melania, trovarono nelgrande andito l’avvocato Eligio Petinicchio, curvo e palli-do, i capelli tinti nerofumo, vestito di nero anche d’estate,le scarpe gommate.

Petinicchio passeggiava in atteggiamento di confidenzacon qualcuno, lasciava la sua manina per un istante im-percettibile in quella di chiunque incrociava, sorrideva diprofilo, e continuava a tenere stretto in un braccetto mol-le quello con cui parlava il quale era sempre diverso al-l’andata e al ritorno lungo l’androne.

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menticati e non se ne sa più niente. Strati su strati di corpie nessuno si ricorda nulla, vero?

Enrico annuì anche se questo era un altare che nonamava scoprire in presenza di Battistino:

– L’altro giorno sei svenuto su strati di morti, Enricomio… non perché quella donna con le zanne ti alitava ad-dosso.

Battistino succhiava una sigaretta:– Enrico sviene su morti definitivi e non sviene davanti

a quella specie di odore, ombra, anima…– Beh, io ho paura della morte definitiva, non delle om-

bre, anzi… Da piccolo speravo sempre, prima di spegne-re la luce, di vedere una di quelle anime di parenti chepapà e mamma ne parlavano sempre. Poi ho iniziato apensare alle cose vere e da allora ho iniziato a prendereun quarto di pastiglia per dormire, poi una metà… e conle pastiglie la fantasia se n’è andata. Ci ho messo anni:adesso ne ingoio una intera solo ogni tanto.

Ammutolì: si era confessato senza pudore e senza ac-corgersene. Melania lo guardò benigna. Battistino sog-ghignò soddisfatto:

– Lo fanno in tanti quello che fai tu, non tutti, ma intanti si impasticcano.

Melania gli disse:– È solo l’inizio dei tuoi racconti, Enrico. Se l’avessi fat-

to prima… Purché adesso non esageri! Eccoci, siamo ar-rivati. L’avvocato Petinicchio non dà appuntamenti, losapete… Mi ha detto: mi troverete nell’androne a palaz-zo, tra una causa e l’altra. Non fatevi ingannare dall’a-spetto… e non giudicate, eh!

Battistino era cupo:

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– Almeno due: il lato storico e quello religioso, tutti edue da unificare, poi, sotto l’aspetto forense per il qualela signora Lampreda si è rivolta a me.

Battistino si scosse la polvere e rispose protetto dal suoacido:

– In un argomento si può entrare di fianco, di fronte edandogli le spalle. Quale lato sceglie lei, avvocato?

L’avvocato rispose con un sorriso di cenere:– Entrare in una storia come questa con passo di corsa

significherebbe inciampare subito e cadere senza potersirialzare più. Di fianco, invece, si può guardare in due dire-zioni: davanti e dietro, se mi capite. La sua ostilità la capi-sco solo se non è personale, professor Mattiolo… la capi-sco solo se è rivolta a tutto l’ordine degli avvocati, a tuttol’ordine giuridico, allora sì, la capisco e la capisco bene.

Battistino si ravviò i capelli:– È che non arrivo a capire a cosa ci serva un avvocato.

Non siamo indagati, nessuno ci cerca, ci hanno solo fattoqualche domanda…

Petinicchio spruzzò:– È una storia in cui si può restare impigliati come un

tonno in una tonnara…Enrico si sentì pesante, senza più un futuro da sperare,

tramonti da guardare, bagni, cibo, libri… più nulla gli sa-rebbe piaciuto. Forse - ma non poteva pensarci - neppureMelania lo avrebbe più interessato. Nulla: c’era la giusti-zia che lo inseguiva e per quanto ne sapeva lui erano inse-guimenti che non finivano mai e che, sino ad allora, eranocapitati solo ad altri. Ora toccava a lui. Come la morte. Esi appoggiò, sfinito, al muro per non cadere.

Invece la testardaggine caustica di Battistino - che lui

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Enrico notò subito che tutto quello che veniva guarda-to, sfiorato o preso a braccetto dall’avvocato si ricoprivaimmediatamente di una patina grigia miracolosa e, quan-do si trattava di persone, vide che quelle, ingrigite, rallen-tavano idea e azione.

Battistino fu subito maldisposto e pensò che la peggiorespressione di un essere del genere in natura era proprioPetinicchio che usava le mani in modo indecente comeprolungamento di un’anima che avrebbe voluto moltopiù di due mani.

Quando, lasciato l’ultimo braccio, arrivò il turno dellemani di Melania, Enrico e Battistino, Petinicchio le presetutt’e tre nelle sue e li condusse come bambini in una del-le stanze intorno all’aula.

– Signora Lampreda, ho già parlato con il commissarioGlicerio, – disse ingrigendo subito tutta la stanza e poisfregandosi la fronte lucida:

– È una storia che giuridicamente ha mille lati, e nonsolo giuridici: tra il romantico e il forense, tra il forense eil magico, tra lo storico e il forense, tra la religione e…

– Abbiamo coscienza, avvocato, della complessità diquesta storia, anzi, nessuno, come noi, ce l’ha, – disse Me-lania coprendo lei di bianco col sorriso l’avvocato che lediede ragione:

– Ma noi possiamo considerare solo alcuni lati, – feceuna pausa. – È vero, è verissimo, signora.

– Quali possiamo considerare? – domandò Battistinogià molto ostile accendendosi una sigaretta.

Spruzzandogli un bel po’ di grigio addosso Petinicchiorispose:

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– Più di cento, signor Rubinacci, e ho ottantasette anni.E respiro nella mia cella sempre la stessa aria respirata dame stesso, l’unica di cui mi fido. E non mi muovo quasimai dalla mia sedia, ho avuto anche piaghe a forza di stareseduto, ma non mi muovo. Ogni tanto viene il dottore amedicarmele, lui non capisce com’è che non peggiorano.Sono le mie stigmate.

Continuando a misurare, Porfirio Rubinacci parlava: – È una zona da stigmate, dottor Gracchini? Le stigma-

te vengono nelle mani, nelle ginocchia, in fronte… Anchenel punto dove compaiono a lei sono considerate un mira-colo?

La astiosa determinazione del dottor Gracchini non erasolo legata alla vecchiaia ma veniva da un carattere dispet-toso e pieno di risentimento che aveva sin da bambino eche tutti avevano avuto in odio tanto da spingerlo a isolar-si, pagando una retta mensile, nel convento del SantoCrocefisso dove tolleravano anche la collezione di botti-glie vuote:

– Senta, Rubinacci, lei deve fare una cornice a questa re-liquia. Voglio stare qui dentro e il padre provinciale mi haconcesso di tenere questo dito a croce nella mia cella, tan-to non lo guardava nessuno e chi lo guardava sentiva unbrivido che veniva da sottoterra e non dal cielo. Perciò vo-glio tenerla io questa oscenità, che non faccia male a chi laosserva. Qui il dito ha a che fare con me: nessun influsso,nessun veleno, niente mi si attacca. Quanto alle mie stig-mate, può darsi che arrivino anche quelle da sottoterrama me le tengo come un segno di attenzione che fuori diqui non ho mai trovato. Non le chiederò di incorniciar-mele, ma non le permetto di fare lo spiritoso su questo fe-

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chiamava coraggio - gli mandò in giro per il sangue unascarica di forza irritata: – Io non sono un tonno, avvocato,non sono un animale.

Poi guardò Enrico:– Questo sviene, questo sviene…

* * *

Porfirio tirò fuori dal taschino un metro pieghevole edisse:

– Cinquanta centimetri per quaranta. Una cornice chedovrà essere una corona per questa reliquia, dottor Grac-chini, una corona. Quanto fumo, però…

Il dottor Gracchini era un vecchio sempre seduto, ossi-dato dalle sigarette e dalle candele, ed evocava, anche senon era un prete ma un ospite laico del convento del San-to Crocifisso, punizioni eterne, terribili come la reliquiaplumbea del dito a forma di croce.

Viveva in una cella dove aveva fatto ridurre la finestra aun oblò per privarsi di cielo e mare, e gli bastava per capi-re il tempo a seconda della luce che entrava impaurita inquella grotta.

Conosceva da quando erano ragazzi Enrico Ricasoli eBattistino Mattiolo e riteneva, pensando a loro, che l’ami-cizia maschile era proprio contro l’interesse dell’associa-zione umana.

Conservava nella sua cella centinaia di bottiglie vuoteammucchiate. Porfirio se ne stupì ma, abituato a entrarenelle case della gente e a trovarci le cose più inaspettate,non fece domande sulle bottiglie.

– Quante sigarette fuma, dottor Gracchini?

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all’improvviso un giovane che prima non c’era, seduto sulsuo tavolo di lavoro con le gambe accavallate.

Guardò il quadro, riguardò ancora il ragazzo e cadde al-l’indietro battendo la testa su una cornice dorata.

Guglielmino saltò elastico giù dal tavolo, si avvicinò aPorfirio e lo svegliò con la birra fredda. Quello aprì gli oc-chi ma li richiuse subito e allora Guglielmino gli disse:

– Non faccio male ai talattonesi che mi hanno dato unamano a suo tempo. Un altro Porfirio, color mattone comete, ha salvato il sangue del mio sangue.

Porfirio sentì improvvisa una tranquillità azzurra in gi-ro per tutto il corpo e si mise a sedere muto. Questa eraun’apparizione… e, pensò, rendeva inutile e ridicolo ilsuo sforzo giornaliero di far combaciare angolo con ango-lo, misura con misura, millimetro con millimetro… tuttoinutile… Un’apparizione!

Guglielmino continuò:– Prima di andarmene volevo distruggere questo qua-

dro. Mi ha dipinto un pittore di fuori città, venuto appo-sta per me: avevo diciannove anni. Ero bello. Ma il ritrat-to, quando è così penetrante sparge intorno qualcosa del-la persona ritratta e io non voglio che niente di mio vengasparso intorno, devo conservarmi e non è facile teneretutto insieme.

– Magari era un artista… – disse Porfirio estatico.– È tutta forza che se ne va… me l’hanno rubata e io la

riprendo. Enrico Ricasoli non ha colpa. Lui vorrebbe unalinea, un filo, una traccia, vorrebbe capire. Fosse solo perlui o per Melania Lampreda o per Battistino Mattiolo, la-scerei fare. Però ci mettono il naso in tanti, tanti nasi chefrugano… io mi consumo…

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nomeno: io continuo a stare fermo e non peggiorano, ca-pisce o no? Le bottiglie, stia attento alle bottiglie, si muo-va con cautela.

– Sto attento, ma lei non sente almeno un formicolio al-le gambe?

– Le gambe? Quelle servono a chi deve camminare inquelle luride strade della città. Io faccio tutto qui, tuttoqui nella mia sedia. Formicolio!

Rubinacci rinunciò alla discussione, si allontanò dallacatasta di bottiglie e si informò:

– Oggi mi hanno detto che vengo da commercianti feni-ci, ma io devo chiederlo prima: quanto vuole spendere? Èuna reliquia, non c’è da risparmiare su una reliquia.

* * *

Tornando a bottega Porfirio rifletteva sul ritratto di Gu-glielmo Redenti e quella reliquia orrenda. Brutta mattina-ta! Meglio incorniciare grappoli d’uva, pernici, fiori, bar-che… Quella faccia pallida del ritratto e quel dito mozza-to li avrebbero dovuti bruciare, e seppellire le ceneri, nonlasciarle al vento, ché sarebbero potute finire in faccia aqualcuno.

Arrivato al negozio in via degli Scalpellati, alzò la ser-randa a metà. Erano le quattro del pomeriggio, stappòuna birra e accese una sigaretta. Guardò una bella steccanuova e intarsiata di ciliegio.

Odorò e riodorò birra e sigaretta: perché sapevano dipesche? Si guardò intorno, aprì il frigo: pesche non ce n’e-rano. Si guardò ancora in giro cercando pesche ma vide

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tutto quello che l’avvocato sa da voi e dal commissarioGlicerio e ha ritenuto opportuno farmi conoscere; ora staa chi è sopra di me dirmi in quale direzione devo muover-mi, anzi, in quale strato devo muovermi.)

– Strato? – domandò Enrico: – Cosa vuol dire?– (È semplice, io non ho un valore specifico, ce l’avrei

solo se venissi messo in relazione con quello che cerco, maio relazione con quello che cerco non ne ho: quindi possomuovermi o sotto le cose o sopra le cose, mai insieme allecose e a chi le muove. Ora, avete capito? A seconda di co-me mi viene ordinato: sopra o sotto.)

Petinicchio guardò il suo uomo, strinse contempora-neamente tre mani dei suoi tre clienti, come un giuramen-to di coscritti, e lasciando una nube di grigio nella camerase ne andò dicendo:

– Si dà per inteso che qualunque fatto deve essere co-municato, oltre che al commissario Glicerio e al suo gran-de occhio che vede lontano, al mio studio. Oppure, signo-ri, in caso di urgenza mi troverete in questo androne doveil va e il vieni dei dolori umani, sempre gli stessi, badate,sempre gli stessi, io cerco di lenire, con la mia opera.

E riprese il suo movimento di marea, inciambellando ilbraccio del primo passante che trovò oltre la porta al qua-le aderì immediatamente spruzzandolo di grigio.

* * *

– (Dunque non sapete dove fu sepolto questo Gugliel-mino Redenti?)

Battistino provava disprezzo e diffidenza verso il cardotalattonese che non aveva neppure un pensiero proprio.

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Si prese il quadro e se ne andò dal negozio di Porfirioche restò seduto, distratto da pensieri che gli stavano arri-vando chissà da dove, certamente da parabole che, nor-malmente, i suoi pensieri non seguivano.

* * *

L’avvocato Petinicchio aprì la porta dello studio doveerano seduti compunti Enrico, Melania e Battistino. Conun gesto di richiamo da animale domestico, fece entrareun uomo piccolo e spinoso, uno di quei cardi che cresce-vano a Talattone, e lo presentò avvolgendolo in un brac-cetto che era un segno di fiducia: – Il signor Amoracchioci aiuterà: lui non ha pareri, non fornisce punti di vista. Èun registratore di fatti, di cose.

– Anche se non hanno tre dimensioni come nel nostrocaso e quindi non sono né fatti né cose? – domandò Batti-stino.

Basilio Amoracchio parlava solo tra parentesi, salvoche in famiglia, dove, però, ogni tanto le parentesi gliscappavano anche con la moglie. Lui non doveva immet-tersi nelle cose, nel senso che non doveva mai, in nessuncaso, fare parte degli eventi, e perciò, qualunque frasepronunciasse, era tornita da parentesi, in genere curve,qualche volta quadre e, nei casi eccezionali dai quali lui siestraniava totalmente sotto l’aspetto della oggettiva re-sponsabilità, faceva uso di parentesi graffe. Il suo nomefiniva in acchio e inutilmente aveva cercato di mutarlo inicchio come il suo padrone. Era una terza persona nata efatta.

– (Ho raccolto tutto quello che si sa in questo quaderno,

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Amoracchio. Sono domande desolanti che rivelano l’as-senza di un qualsiasi disegno, di un’ipotesi…

Enrico lo interruppe. Gli luccicavano gli occhi:– Sentite che odore ha lasciato Guglielmino!– (È il solito odore di pesca per quanto ne posso sapere

io.)– Sì, signor Amoracchio, e l’abbiamo sentito anche per

strada quando siamo scesi dall’auto, vero?– È vero Enrico, – disse Melania seria, – quindi era pro-

prio Guglielmino Redenti che si è ripreso il suo ritratto.Sorprendendo tutti, il cardo saltò fuori dalla bottega di

Porfirio e corse, corse sino a scomparire dietro l’angolocon via dei Coltelli.

Tutti tacevano cercando di capire qualcosa da quell’u-nica traccia che Guglielmino aveva lasciato: l’odore. L’o-dore per la memoria, aveva detto Guglielmino a Enrico.

Dopo un quarto d’ora Amoracchio ritornò ansimando:– (È arrivato a casa vostra, professor Ricasoli, nel vostro

palazzo, sino all’ultimo piano. L’odore si sentiva forte sinoa via del Compasso, e ancora più forte nelle vostre scale.) –Continuò fra parentesi graffe a significare che stava peresprimere una deduzione. – {Ritengo che stia mantenen-do la stessa forma che ha assunto in presenza del signorRubinacci e che ora circoli per casa nel suo appartamento,professor Ricasoli, non ne ho la certezza ma mi sembraplausibile e, comunque, le conseguenze dei fatti, che io ri-porto fedelmente, non devono essere tratte da me.}

Porfirio, che nel frattempo era uscito dallo stato di ine-betimento e estasi si guardava intorno perché aveva l’im-pressione che qualcos’altro mancasse dal disordine delsuo laboratorio. Gridò:

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Enrico rispose:– No, non lo sappiamo. L’assessorato responsabile dei

cimiteri, non sa nulla dei morti di quattro secoli fa. I se-polcri più antichi sono di duecento anni fa. GuglielminoRedenti ci sarà pure in cimitero ma non sappiamo dove.

– (E se l’avessero sepolto in giardino come si usava tra iricchi? Dico per dire, solo per registrare un’ipotesi.)

Ora in macchina erano in quattro. Amoracchio sedevadavanti insieme a Battistino.

Non parlarono più sino a quando arrivarono in via degliScalpellati, alla bottega di Porfirio che trovarono con laserranda mezzo abbassata. Dovevano far vedere ad Amo-racchio il ritratto di Guglielmino. Amoracchio doveva fo-tografarlo e poi sarebbe andato alla ricerca seguendo latraccia del ritratto e dell’odore di pesca.

Porfirio Rubinacci era seduto con la testa tra le mani efissava il tavolo su cui aveva visto il contino, poi, con losguardo faceva in continuazione il tragitto verso la portache il giovane aveva fatto tenendo il quadro tra le mani equando gli altri entrarono non smise di farlo:

– Chi? – domandò Melania.– Vi dico che era Guglielmino, si è preso il quadro e se

l’è portato via.– (L’avete visto bene in faccia? Siete sicuro? Che dire-

zione ha preso? E quanto tempo fa se n’è andato?)Porfirio guardò Amoracchio, lo conosceva perché veni-

va dal suo stesso quartiere ma non aveva mai provato l’a-scesa alla città alta restando nel brodo appiccicoso di Ta-lattone.

Battistino si tirò i capelli indietro e gridò:– È desolante sentirvi fare queste domande, signor

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La dispettosa misantropia del dottor Alberico Gracchi-ni - contenuta anche nel suono del nome, alimentata dauna ricca rendita che, in cuor suo, un cuore tutto screpo-lato ma regolare, lo faceva sentire più in alto, sopra unabase di ferro e circondato da mura che nessuno avrebbescalfito - era all’origine della richiesta di incorniciare la te-nebrosa reliquia, schivata anche dai fedeli più fedeli. Luise la voleva tenere in cella, da solo e a sua protezione per-ché era un vecchio e, visto che non ci pensavano gli altri,lui si sarebbe protetto da solo aiutato da questo dito mor-tificato che faceva coppia con le sue stigmate.

Gli portavano il cibo in cella. Quel giorno a pranzo ave-va, come sempre, minestra e bollito.

Quando Gracchini vide l’occhio del commissario Gli-cerio - una meteora di fuoco - lo considerò come una stig-mate, molto diversa dalle sue ma che gli fece sentire unpo’ più vicino il poliziotto e non si indispettì:

– Si accomodi, commissario. Stia attento alle bottiglie.Io continuo a mangiare.

E iniziò a succhiare la minestra.– Dottor Gracchini. Lei è un conoscitore profondo di

Epipanormo… e di Talattone.

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– Il dito a croce! La reliquia di Gracchini! Si è preso an-che la reliquia di Gracchini!

– (Quale reliquia, prego?)– Quel dito immondo… scusate… quel dito conserva-

to nella chiesa del Santo Crocifisso che tutti evitavano…nessuno la guardava più da tanto tempo… un dito a for-ma di croce appartenuto a chissà quale storpio… Non c’èpiù! Se l’è preso Guglielmino!

Amoracchio prese nota:– (Gracchini, immonda reliquia, dito storpio, Gugliel-

mino, s’intende Redenti, avete detto voi, badate benenon io: confermate?)

Enrico non impallidì. Prese Melania per mano e fecerodi gran passo via degli Scalpellati, attraversarono via deiColtelli e risalirono via del Compasso, spostarono il gattoportinaio che annusava ispirato l’atrio col pelo dritto, sali-rono le scale e aprirono la porta di casa. Lì l’odore era for-tissimo.

Sul divano era sdraiato Guglielmino Redenti che conun coltellino grattava via la pittura del quadro. Melanianotò subito che bocca, naso e occhi li aveva cancellati e re-stava solo il viso ovale e i capelli neri raccolti. Enrico, inve-ce, sarà stato per lo sforzo della corsa, sarà stato per l’e-mozione, si appoggiava al tavolo tremando e cercava diaprire una finestra perché aveva bisogno di vedere cielo,nuvole e luce, soprattutto luce. Non ci riuscì e allora si ri-volse a Melania e guardò quanto era bella con quei capellineri e scarmigliati, rossa per la corsa, forte e calda.

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Gracchini continuava a sbranare la carne:– Lo conosce?– L’ho conosciuto ieri. È venuto a denunciare il furto di

un quadro e anche quello della reliquia.Gracchini scricchiolò, cigolò e si voltò con tutto il dolo-

re delle stigmate che erano il suo perno:– Hanno rubato la mia reliquia?E si mise a lacrimare senza singhiozzi e in silenzio, tanto

che Glicerio si alzò e gli posò una mano sulla spalla ossu-ta. Ma Gracchini non tollerava la solidarietà che potevacostituire poi un qualche debito, un diritto alla ricono-scenza che non voleva contrarre con nessuno, e si rivoltòdolorosamente nella sedia riprendendo a mangiare il bol-lito.

Glicerio sentì il desiderio di andarsene ma vide in quel-la nuca scavata qualche notizia annidata nel cervello sec-co del vecchio e gli disse tutto in una volta:

– Dottor Gracchini, quel dito a croce apparteneva auna donna che magari non era una santa, ma era venerataquattro secoli fa. Perché piange? Io le domando: di chiera quel dito, che rapporti aveva con la città? Poi le do-mando ancora: chi era Guglielmino Redenti, come èmorto? E poi: cosa c’entrano le pesche con la morte? Miaiuti.

Gracchini non rispose, finì il bollito, bevve il bicchieredi vino, guardò la bottiglia piena a metà controluce.Scricchiolò ancora sulle sue piaghe con una smorfia e sivoltò verso Glicerio fissandolo nell’occhio della verità:

– Le pesche? Lei mi chiede delle pesche? Sulle pescheposso dirle qualcosa.

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– E perciò sono chiuso in questa stanza. Non portatemila città qui dentro, commissario. Sapete perché questacittà non ha mai avuto un unico nome come ogni altracittà?

– Perché non è mai stata una città sola… lo so, lo so.– Insomma, non ne voglio sapere di miserie e la mia

città è questa sedia. Glicerio si asciugò l’occhio:– Dottor Gracchini, tre morti, una sgozzata e due fatti a

pezzi non vi toccano? No, non rispondete, lo so, non vitoccano neppure di striscio. Ma, vede, la morte mette inmoto i vivi.

Colpito da questa frase di Glicerio, Gracchini smise diaspirare la minestra:

– La morte mette in moto i vivi? Questo è certo, certis-simo… Tutti ad agitarsi intorno a un morto… si infervo-rano, proprio vero.

Fece una pausa per finire la minestra, poi riprese:– Ottobre del 1639. Sa cosa è successo qui a Epipanor-

mo? È morta una donna che aveva poco di santo, eppuretutti le giravano intorno.

L’argomento metteva appetito a Gracchini il quale pas-sò a sbranare il bollito. Nutriva le sue stigmate:

– Poco di santo aveva questa donna, salvo un dito che leera ricresciuto dopo l’amputazione, ma le era ricresciutoa forma di croce. Quando è morta le è stato amputatouna seconda volta e mummificato. Ora è una reliquia chenessuno vuol vedere salvo il sottoscritto che l’ha data daincorniciare al miglior corniciaio della città, un talattone-se che è emigrato, diciamo così, a Epipanormo…

– Il signor Rubinacci.

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– Il pesco fiorisce precocemente a primavera, perciò è ilrinnovamento, la fecondità e, siccome è la prima fioritura,vuol dire verginità, badi… protegge dalle cattive influen-ze, esorcizza, protegge dal tuono… dal mantello dellamorte… i bastoni dell’oracolo erano di pesco… e la portaimmensa degli spiriti era protetta da un enorme pesco…l’orlo del mantello non sfiora neppure l’albero che è anco-ra da qualche parte, inviolato… Allora, commissario, cer-chi di usare quell’occhio della verità che lei considera, atorto, una malattia e guardi dentro le cose… Qui abbiamouna storia infelice, un odore meraviglioso che preservadalla putrefazione e, però, accompagna la morte… comesi spiega? Usi il suo occhio, lo usi. Mia moglie ha un soloocchio da vent’anni eppure con quell’occhio, piccolo e vec-chio riesce a vedere tante cose che lei, commissario, conquesto globo che le è cresciuto nell’orbita dovrebbe vederemeglio di tutti.

– Lei ha una moglie?Gracchini addolcì il profilo:– Io ho una moglie da cinquantasei anni. Sempre la stes-

sa. Non la cambio come fanno altri, e non perché sarebbetroppo tardi ora. Ho provato una gioia celeste a lasciarla acasa, in penombra. È innocente ma capisce tante cose.Ora che mi hanno rubato la reliquia mi resta lei, polvero-sa, vecchia, tutti scappano e lei è sola… sola come quel di-to a croce.

– E questo dito a croce com’è finito qua dentro? Vi te-neva compagnia?

Non era una domanda da fare al dispettoso Gracchini.– Quella era la parte più importante del corpo di una

donna santa! Cosa ne vuole capire lei, commissario?

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* * *

Melania trovò che Guglielmino era bellissimo. Enriconon era riuscito ad aprire la finestra ma si sentiva affaccia-to sul cielo intero e fissava la faccia pallida e le guance ros-se del giovane.

Guglielmino sussurrava guardando in una direzioneprecisa fuori della finestra:

– Sono venuto al mondo come tutti gli altri. È il modo incui me ne sono andato che è diverso e ancora soffro. Cosaè rimasto di Guglielmo Redenti lo vedete qua: è rimastolui. Quello che è rimasto appeso all’albero e che mio pa-dre fece mummificare non c’è più, neanche una traccia.Non è bello rimanere…

Guglielmino raccontò ancora la sua storia sino all’albe-ro infelice e sino al figlio Enrico.

Quando arrivò al figlio suo, nato dalla pancia già mortadi Medina Xaxa, Melania aveva le lacrime agli occhi e En-rico era in uno stato di transizione verso la perdita dei sen-si. Non voleva svenire ma venne giù lentamente, senzafarsi male e Melania lo accarezzò a lungo e continuò a ca-rezzarlo anche dopo che Guglielmino se ne andò lascian-do nella casa un delicato odore di pesche.

* * *

Gracchini ricompose i suoi lineamenti da possessore dipiaghe dolorose, da grigio diventò bianco, e distese legambette. Glicerio pensò che stesse per alzarsi. Il vec-chio, si pulì le labbra e guardò la luce giallina che entravadall’oblò:

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* * *

– Come te la immagini, Bombòi?– Chi?– La signora Gracchini, dico. Una vittima della misan-

tropia di sicuro. Ma come sarà?– Una donna trascurata, commissario, poco usata.Glicerio scrisse nel taccuino: “Un corpo mai usato”.– In che senso “trascurata”?– Nel senso che il marito l’ha lasciata perdere, com-

missario. Fece i quattro piani a piedi e trovò il pianerottolo più

lucido che avesse mai visto e le foglie più luccicanti delquartiere.

La signora Tilde Gracchini non aveva colpe, aveva unafaccia stupita e sembrava che tutto fosse stato creato in-torno a lei in quel momento:

– Dio mio! Cosa ha fatto all’occhio?– È colpa della tiroide, signora.– E cosa c’entra la tiroide con l’occhio? Io l’ho perso

perché si è ammalato… ha fatto da solo. I dottori lo chia-mano bulbo, bulbo, capisce? Mi spaventavo a sentirlochiamare così…

Glicerio evita di guardare l’occhio solitario della vec-chia Gracchini:

– Signora Gracchini, devo farle delle domande. Suomarito…

Alla parola marito Tilde si spettinò e le labbra diventa-rono viola:

– Alberico è chiuso da tanti anni che sarà marcito. Delsuo corpo faccia quello che vuole. Io ho desiderato per

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Quello era un segno dell’esistenza, un segno della presen-za, della forza! Io conservo, metto da parte l’energia piùforte. È sempre la stessa quantità che non cambia, sa? E iola conservo!

La pancia di Gracchini si stava gonfiando e su quel cor-po mortificato era un’escrescenza che preoccupava:

– Lei mangia troppo in fretta! – gli disse Glicerio pen-sando di trovare un ingresso nella fortezza del misantropoche verso il cibo sembrava provare sentimenti.

– Mi gonfio anche se mangio piano. Io so cosa resterà dime e come lo conserverò. Si ricordi, commissario, chenon è vero che la materia non è eterna. La materia è sem-pre la stessa, è eterna e io la conservo. Senta, sulle peschele ho già risposto e lei ha preso nota. Sulla reliquia le hodetto qualcosa di sacro e la capirà, ci vorrà un po’, ma ca-pirà.

Glicerio sentì l’occhio spingere:– E su Guglielmo Redenti?– Non è conservabile come credevo, bisognerebbe con-

servare anche lui, ma non ci riesco.Di colpo il cibo aveva raggiunto il cervello, a Gracchini

cadde la mandibola, le palpebre si chiusero e si addor-mentò con una smorfia.

Glicerio si gettò un po’ di gocce nell’occhio, guardò tut-te quelle bottiglie intorno, sentì improvvisamente la puzzadi quell’aria respirata e rirespirata da anni e scappò fuoridel convento. Entrò nell’auto dove Bombòi l’aspettava,aprì il finestrino e si mise a scrivere sul suo blocchetto.

– Bombòi, questo mezzomonaco ha una moglie. Viadelle Tovaglie 12, a Epipanormo.

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to dove è lei adesso ma a me non mi guardava neppure.– E i respiri si imbottigliavano da soli… È così, signo-

ra? Per questo poi si è chiuso in cella da solo…– Si è chiuso in convento, senza avermi mai usato, e lì

aspetta gli ultimi respiri che arrivano da quelle parti at-traverso un oblò…

– Suo marito ha mai conservato un odore?– Non è più mio marito. Quanto all’odore io so che una

volta ci ha provato… ci è riuscito ma l’odore è scappato enon so nulla di quella bottiglia.

– Che odore era? Di pesca, per caso?– Non lo so, commissario. Sono contenta che abbia le

piaghe che poi sono un annuncio chiaro e tondo che staper trapassare. E non si continua a vivere in una bottiglia,come dice lui. Vivere è un’altra cosa.

Glicerio guardò bene la vecchia sulla trapunta e la tra-punta gli sembrò un sudario:

– Signora, questa storia della conservazione dell’ultimosospiro è un’idea come un’altra… voglio dire, suo maritosi sforza… cerca qualcosa.

L’occhio senza sugo della vecchia fu l’ultima cosa chevide uscendo dall’appartamento.

* * *

L’avvocato Petinicchio guardava il cielo dal suo studioma senza la serenità necessaria. Quello, per lui, era unpuro cielo catastale di cui gli spettava una parte che avevaindividuato, delimitato e fatto registrare. Non ci vedevabellezza e non pensava al creato.

Si sapeva - tutti lo sapevano perché il fatto era straordi-

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anni che il mio corpo venisse usato come un corpo qua-lunque, sarei dovuta nascere schiava e non diventare mo-glie. Un giorno Alberico finirà dentro una di quelle bot-tiglie che conserva e addio corpo.

– A parte delle piccole piaghe che non vuole curarsi,suo marito sta bene, ha un corpo quasi sano.

La vecchia ebbe una piccola convulsione sul divanetto:– No, dentro una bottiglia ci finirà il suo ultimo respi-

ro, non il suo corpo.– Il suo ultimo respiro?– Lui in quelle bottiglie conserva ultimi respiri. Quel-

li che gli capitano li conserva. Una volta andava in giroper gli ospedali a conservarli. Dice che è l’ultima cosa vi-va che lasciamo in terra.

La casa della signora Gracchini aveva finestre piccolee per di più chiuse. Glicerio in quella penombra sentivail proprio globo rinsavire.

La vecchia parlava a occhi chiusi:– Ha iniziato quarant’anni fa. C’era ancora la pena di

morte in questo paese e lui ha iniziato con i condannati.Poi glielo hanno permesso negli ospedali. Io non l’homai visto ma so che metteva proprio il collo della botti-glia nella bocca del moribondo.

Bombòi impallidì.L’occhio di Glicerio sembrava un tramonto sereno e,

come un tramonto, andava verso il blu. La vecchia con-tinuava a tenere le palpebre chiuse.

– Poi, un giorno, Alberico ha iniziato a stare sempreseduto. E sa perché, commissario? Perché, diceva, in gi-ro c’erano tanti ultimi respiri che non c’era bisogno diandare a cercarli, tanto entravano in casa… Stava sedu-

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Aspettava, seduto nella sua poltrona girevole, Enrico eBattistino e, poiché non aveva mani da stringere, si tenevauna mano nell’altra.

Anche le sedie dei clienti erano girevoli, più piccole, magirevoli perché i clienti potessero seguire il legale che ave-va l’abitudine di alzarsi e camminare per la stanza.

– Avvocato, – disse Battistino protetto dalle zaffate diPetinicchio grazie all’aria della finestra aperta, – tre morticollegate da un odore…

– Quattro morti… non dimenticare Nellina, anche seera un cane, – diceva Enrico triste vicino alla finestra. –Un giovane che dovrebbe avere quasi quattrocento anni eche si trasforma in essenza e in quintessenza di pesca. Imorti che hanno spaventato tutta la città. Noi che ormaiviviamo in tre per paura.

– In tre? – domandò Petinicchio facendo girare a destrae a sinistra la poltrona.

– In tre con la signora Lampreda. Ci teniamo per mano,ecco, in questo senso viviamo insieme… più vicini possi-bile, – rispose Enrico.

Erano bersagli difficili per le polveri di Petinicchio.Battistino si tirò i capelli all’indietro sino a farsi male:– Guglielmino Redenti era a casa di Enrico, lo sapete?

Ha rubato una reliquia e un suo ritratto da un corni-ciaio…

– Lo so da Amoracchio, lo so. Ma andate piano nel rac-conto, piano, piano.

Battistino schivò una spruzzata:– E ha distrutto il quadro con un temperino. Ma la co-

sa più strana è che ha bruciato la reliquia che non le dico

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nario - che vent’anni prima era riuscito in quello che ognigiudice e avvocato ha sempre desiderato come apice as-soluto e che da allora aveva costituito il suo apogeo.

Vent’anni prima, in un’intera aula del tribunale era cala-ta, progressiva, invincibile e alata, la paralisi fatale. Attoree convenuto, giudice e procuratori, testimoni, spettatorinelle panche del pubblico, cancellieri e segretari si eranoprima ricoperti udienza dopo udienza di polvere, poi diuna patina opaca uguale per tutti, poi avevano rallentato imovimenti e infine, senza dolore e senza lamenti, si eranofermati come in un grande e grigio presepio forense. Inprincipio l’aula era stata conservata così com’era con tut-to il sinedrio nerovestito e andavano a vederla da altrecittà in silenzio ma con risentimento soddisfatto.

L’unico sul quale non era scesa la paralisi era stato pro-prio Petinicchio per la ragione che spruzzando e spruz-zando la sua polvere grigia ogni volta che prendeva la pa-rola, aveva generato lui l’immobilità nell’aula e lui si eraimmunizzato. Il giovane avvocato, all’epoca, non era co-sciente del proprio potere, e rinviando scivolando scar-tando obiettando era arrivato, stupefatto, a fermarli defi-nitivamente.

Da allora quelle di Petinicchio erano le udienze più bre-vi a palazzo. Lui aveva piegato la professione alla sua vo-lontà e si era ritrovato tanto tempo in più che utilizzava inquelle strisciatine della mano su altre mani, centinaia distrisciatine ogni mattina. Dalla sua mano usciva una bavacome quella del ragno e aveva costruito la più grande ra-gnatela della città.

Padrone delle date, delle ore e dei giorni, padrone deltempo del giudizio.

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Petinicchio, pallido e sudato, si alzò e si mise a cammi-nare per lo studio con le scarpe gommate rumorose. Glimancavano mani da toccare e braccia da inciambellare,ma pensava, pensava:

– Professori, loro hanno una possibilità… e io che cre-devo di essere all’apice… hanno una sola cosa da fare periniziare. Una sola…

– Quale? – domandò Enrico accorgendosi che gli tre-mavano le mani che nascondeva nelle tasche dei panta-loni.

Petinicchio si aureolò di grigio al centro della stanza:– Incrimineranno Guglielmino Redenti!Una lenta polvere grigiastra si poggiò sulle parti più sa-

lienti di Enrico e Battistino che ebbero un brivido e si ri-fugiarono in veranda.

– Sì, signori, – gridò dal suo studio l’avvocato. – Incri-mineranno un fantasma… Persona giuridica… o megliopersona no, ma giuridica sì… Persona…

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quale odore indescrivibile di aldilà ha prodotto. E ora…– Ora volete sapere in quale parte voi entrate in questa

storia sotto il profilo, beninteso, delle leggi e dico “delleleggi” per una ragione giacché voi non vi trovate sotto ildominio di una sola legge, né di un solo articolo. E nep-pure siete appesi a un comma. In realtà tutta una flottigliadi leggi vi punta la prua contro e naviga di conserva versodi voi.

Enrico e Battistino davanti a una grande nuvola di ce-nere che partiva dall’avvocato si avvicinarono alla veran-da e spalancarono la finestra schivando la nuvola ma av-vertendo una certa debolezza.

– E questa flotta ci sono due modi di affrontarla. O tut-ta con un’unica grande cannonata. Oppure bombardia-mo naviglio per naviglio, con pazienza. Ma…

– Ma? – domandò Enrico.– Ma il commissario Glicerio deve ancora finire di co-

struire le navi. Quindi, forse, c’è tempo.Battistino ebbe, nonostante le promesse fatte a Mela-

nia, un rigurgito acido:– Avvocato, noi insegniamo lettere, capisce? Insegnia-

mo letteratura e di metafore ne abbiamo piene le tascheperché è da millenni che poeti e romanzieri le usano edEnrico e io le spieghiamo. Ora, appunto, ne abbiamo lebisacce piene. Ascolti bene: qualcuno ci può coinvolgere,ci può portare dentro questa storia, tutto qua… E lei, lei cideve tenere fuori e difendere se ci tirano dentro. Quindieviti gli ingressi di fianco. Lei Guglielmino Redenti non lomummifica, non lo paralizza, non lo ferma col suo salegrigio sulla coda. Lo capisce? Glielo ha detto Amorac-chio?

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Come un grande feto accovacciato, il mento sullo ster-no e le braccia incrociate, Gracchini era stato fatto entra-re dentro una damigiana piena di salamoia.

Però non c’era mistero. Il vecchio era magro e il collodella damigiana largo. Ce lo avevano fatto entrare dopomorto, fratturandolo qua e là.

Lo avevano strangolato con un laccio e spinto sulle suebottiglie che si erano rovesciate e rotte liberando tanti ul-timi respiri che erano subito scappati dall’oblò della cellaverso la città alta e la città bassa.

Come poi si distribuirono, quartiere per quartiere, ap-partamento per appartamento, non si seppe mai conchiarezza anche perché nelle bottiglie non c’era un nome.Fatto sta che da quel giorno in molte case ci fu un sospiroin più.

Gracchini era stato trovato galleggiante dentro la dami-giana dal frate che gli portava il bollito.

Il frate aveva poi raccontato a tutti che nella cella, al po-sto dell’odore di Gracchini, c’era un buonissimo odore dipesca che lui aveva da subito considerato come un segnodi santità o, comunque di qualcosa molto vicina al mira-colo.

Anche il galleggiamento del vecchio dentro la damigia-na sembrava un segno proveniente dall’eternità e Grac-

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vane non ancora sfiorata dalla polvere di Petinicchio. Leiaveva disposto l’autopsia di Gracchini. Era una donnacartacea, una donna intatta, poco sangue, con le manibianche e marmoree, un bacino capace e gambe troppolunghe.

– Sulle stigmate cosa dice il referto?Glicerio si teneva l’occhio:– Il referto le chiama piaghe, semplicemente piaghe.

Non dice altro. Così le chiama il professor Petracchi, ilmedico legale.

– Commissario Glicerio, la medicina legale non è tutto!Anzi, io diffido di quei ragionamenti metà da medico emetà da leguleio che vanno dove vogliono loro dopo ave-re vagato dappertutto. In particolare diffido del professorPetracchi, è uno che chiamerebbe piaghe anche le feritedi Gesù risorto. Ascolti questo nastro.

Calcò sul tasto del registratore e si sentì una voce:

Quel renitente a morire di Gracchini è morto strangolatoe ho liberato i fiati dalle bottiglie con cui soffocava i mori-bondi. Il tempo cannibale se l’è divorato e i fiati, ora sono li-beri e sono in alto.

– Chi è? È una voce giovane, dottoressa.– Abbiamo scomposto la voce, commissario.– Scomposto la voce?– E sapete cosa ne è risultato? Ne è venuto fuori che

non è la voce di nessuno. In altre parole non è una voceumana.

– Una voce sintetica, di quelle elettroniche?– No, umana è umana, solo che non è una voce di don-

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chini sembrava, dentro quel liquido salato, destinato allaconservazione.

L’acqua e il sale ce le aveva messe l’assassino ma il frateaveva considerato l’acqua e il sale come il liquido della vi-ta e si era inginocchiato, aveva bagnato le dita dentro ladamigiana e aveva pregato a lungo prima di riportare in-dietro il bollito e dare l’allarme in convento.

Alla rottura della damigiana era presente il commissa-rio Glicerio.

Il necroforo Albertino ruppe il vetro tagliandosi dap-pertutto e senza lamenti. Depose Gracchini sul tavolod’acciaio e con un crac multiplo lo distese supino colmento aguzzo puntato verso il neon.

Glicerio pensò che quel mento acuminato fosse punta-to verso l’infinito:

– Sarà possibile, Albertino, un referto entro oggi? È evi-dente che l’hanno strangolato. Se vuole, il professor Pe-tracchi potrebbe fare in quattro e quattr’otto. Lei, aspet-tandolo, vada a disinfettarsi Albertino, è stato impruden-te rompere la damigiana a quel modo.

Arrivò il perito settore Petracchi, fissò con lo sguardoda perito settore il corpo desolante di Gracchini e poil’occhio inverosimile di Glicerio. Si mise un camicione,un grembiule di caucciù e iniziò, senza indugi, con un lun-go taglio pacato.

* * *

– Nulla di nuovo, dottoressa.La dottoressa Maria Nives Paneangelico, piemme gio-

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– E Petinicchio? E di Petinicchio cosa mi dice?Paneangelico rifletté:– Commissario, lei è un uomo coraggioso, col suo oc-

chio e con le sue malattie, non ha paura! Dopo il processoche ha imbambolato l’aula, le cause innumerevoli che Pe-tinicchio ha vinto… ecco il processo dei processi. Il pro-cesso a un fantasma - che io dimostrerò processabile - e aisuoi amici complici. Io sto entrando nella maturità foren-se e i casi sono due: o mi ricopro di polvere da sola o mi ri-copre Petinicchio.

* * *

Una piccola impiegata profumata accompagnò Enricoe Battistino che seguirono la scia della donna sino all’uffi-cio della dottoressa Paneangelico.

Enrico si era intristito per i neon accesi anche se fuoric’era il sole. Quella luce lo intorpidì.

– Battistino, perché Petinicchio non è ancora arrivato?– Ora arriva, arriva. E arriverà anche questa dottoressa

Paneangelico. Tutti questi morti ci hanno portato sin qui,davanti a un magistrato. Stiamo iniziando una strada chenon finirà più…

– Io da Petinicchio mi sento protetto e farò esattamentequello che mi dirà di fare. Sei avvertito, Battistino.

In quel momento, con la faccia di chi ha scacciato i mer-canti dal tempio, nerovestito, pallido e ispirato, entrò nel-lo studio l’avvocato accompagnato dall’impiegata profu-mata che subito scappò via:

– Buongiorno, professori. Entro subito nel cuore dellecose. Non c’è tempo.

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na, né di uomo, né di bambino o bambina. E questo hafatto maturare un sospetto… Voi non avete ancora messoin relazione i delitti con qualcuno, vero? Nutrite e fate in-grassare solo sospetti… ma di colpevoli, scusate, non sene parla neppure, vero?

Glicerio non rispose ma disse:– Quella voce, quindi, non è di Mattiolo o di Ricasoli.

Io quei due li osservo, ci penso e uno dei due, cosa vuole,sono debolezze da poliziotto, vorrei incriminarlo per qual-cosa ma non so cosa.

– Quale dei due?– Mattiolo. Puzza e puzza di un odore suo. In qualche

modo è collegato, insieme al suo amico, alla storia del fan-tasma. E questa voce registrata mi sa tanto di fantasmati-co… la voce di nessuno. Quanto a Enrico Ricasoli non so,c’è qualcosa che me lo fa sentire vicino…

– Vicino?– Vicino di sangue, sarà che a Epipanormo circola sem-

pre lo stesso sangue. Comunque Ricasoli non puzza.Paneangelico si alzò in piedi:– Glicerio, lasci stare le puzze e trovatemi un legame tra

Gracchini e gli altri morti. Poi tra i morti, Mattiolo e Rica-soli. E io farò cercare il possessore di questa voce. È nes-suno? È senza corpo? Non è? Voi avete capito che chi nonè - eppure ha una voce e si manifesta - altro non può essereche un fantasma. E se non lo trovo, lo farò processareugualmente!

Glicerio iniziò a sudare:– Un processo a un fantasma? Dottoressa Paneangeli-

co…– Processerò un fantasma!

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to di vista, appunto, dell’azione materiale essi sono certa-mente estranei ai fatti. Ma i fatti possono essere conside-rati anche in altro modo.

Petinicchio conservava la polvere paralizzante e taceva.Il piemme proseguì:

– Accettata anche, dico anche, attraverso una perizia fo-nica l’esistenza di un fantasma, accettato che un fantasmapossa essere, ovverossia, esistere e avere una propria es-senza, quand’anche quintessenza, egli ha, per logico effet-to, anche sostanza giuridica. Questo è lampante! Ergo, inqualità di essere che esiste, è sottomesso alla morale natu-rale e, per conseguenza, alle leggi che ne sono derivate.

Petinicchio, con lo sguardo perso tra le mattonelle, sol-levò una mano per interrompere:

– Perché avete detto “Accettata anche, dico anche, at-traverso una perizia fonica l’esistenza di un fantasma”?Avete altre prove che il fantasma esista e abbia una suaforma di essere?

– Ha un nome.– Anche i morti hanno un nome, dottoressa.– Ha un odore.– Dottoressa, non c’è bisogno di avere un’anima per

avere un odore, si sa.– Non è esattamente un odore, è un’essenza e l’essenza,

le ripeto, può venire solo da un essere. È un’essenza cheviene modulata da una volontà che segnala l’essere. Èun’essenza cosciente e sentimentale che indica sentimentianche di odio e si è associata alla morte (io direi assassi-nio) di tre persone, quattro se si aggiunge Medina Xaxa.

– Beh, quello di Medina Xaxa, per quanto se ne sa, è so-lo un incidente.

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– Sì.– Ho parlato col magistrato che sarà qui a momenti.

Cercheranno di collegarvi agli assassinati tramite il fanta-sma, questo lo avete chiaro? È chiaro?

Un dolore, una debolezza improvvisa e nebbia. Cosasuccede? Un’infinita confusione dolorosa. Si siedono En-rico e Battistino. Si tengono la testa mentre Petinicchiospiega e mormorano:

– Una cosa mai sentita prima… Un processo a un fanta-sma… mai sentito…

– Questo non vuol dire. Hanno costruito un’ipotesi ac-cusatoria e quella va avanti. D’altronde voi non potete ne-gare che questo Guglielmino Redenti esiste in una formache si può definire almeno metafisica…

Battistino fece un saltello stanco sulla sedia:– Metafisica? E questi sarebbero omicidi metafisici?

Morti metafisici? Sangue metafisico?In quel momento entrò la dottoressa Paneangelico.Petinicchio, con l’indice, zittì Battistino, accennò un in-

chino da seduto e fissò il pubblico ministero con lo sguar-do dell’avvocato che sta davanti alla legge. Come il pittoredavanti alla tela bianca, il miscredente davanti alla rivela-zione.

– Avvocato, risparmiamoci ragionamenti polizieschi…Io so bene, benissimo, che i suoi clienti non sono gli auto-ri materiali degli omicidi di Tebe Mistrè, Egeico Lago eAlberico Gracchini.

Enrico e Battistino sentirono il sangue circolare più cal-do. La dottoressa Paneangelico continuò.

– Intendo con ciò riferirmi alla materia da cui sono fattele cose e che è necessaria per compiere le azioni. Dal pun-

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- Insomma, avvocato Petinicchio questa procura lainforma che siamo intenzionati a procedere nei confrontidi Ricasoli Enrico e Mattiolo Battistino per concorso inomicidio plurimo.

Enrico sentì un desiderio così forte di Melania che lainvocò sottovoce.

Battistino non capì subito e si infastidì solo per il co-gnome prima del nome.

Petinicchio non usò la sua polvere. Aveva intuito che ladottoressa Paneangelico si era preparata e avvicinata allafinestra, pronta ad aprirla nel caso l’avvocato avesse rila-sciato le sue polveri.

– Ammesso che il procuratore generale accetti il ridico-lo del processo a un fantasma, ammesso che la giurispru-denza dia sostanza alla vostra teoria, accettata anche l’i-dea di una possibilità di colpevolezza del fantasma, io vidomando, dottoressa, e in aula ve lo domanderò moltopiù forte, che relazione abbiano i miei due assistiti con ilfantasma…

– Diamogli un nome, avvocato, cominciamo ad abituar-ci e a indicarlo come Redenti Guglielmino.

– D’accordo, il mio quesito non muta: che relazione po-tete ipotizzare tra Guglielmino Redenti e i miei due assi-stiti?

– Forse il Redenti Guglielmino non è un fantasma. For-se non è mai deceduto e questa sua capacità di cambiare lapropria sostanza gli ha evitato quello che a tutti prima opoi tocca. Se così fosse, ancora di più sarebbe incrimina-bile chi di materia è composto, di carne, pelle, organi ecervello dove risiede la volontà, in questo caso, la volontàdi delinquere dell’indagato.

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– Il professor Ricasoli era là. D’accordo, avvocato, luinon l’ha spinta, l’ha addirittura sostenuta tentando di sal-varla. Però anche nella teleferica si è manifestato l’odore.E poi, le confermo e ribadisco, io non voglio incriminare iprofessori di omicidio.

La dottoressa Paneangelico distese un foglio sulla suascrivania, lo guardò per un poco e riprese il ragionamento:

– Avvocato, lei sa che sono stati processati animali.Battistino disse che loro non erano animali ma nessuno

lo ascoltò.– So bene, dottoressa, – disse con un inchino Petinic-

chio.– Sa anche che la legge spreme succo giuridico persino

dal nascituro che, eppure, non è, non esiste.– So bene.– Sa, perché questa è la base del diritto, che lei conserva

la procura di un suo cliente anche dopo la morte del clien-te, proprio come se fosse ancora vivo… eppure, non c’èpiù, quel suo cliente… non c’è nell’accezione, diciamo,quotidiana che per praticità la gente dà a quel non c’è. Manoi non siamo la gente.

– So bene.– Dunque può, anzi, deve essere d’accordo sull’esisten-

za di un essere, anche se solo in forma di profumo, il qualepuò incidere sugli eventi e addirittura determinarli. Ed èanche d’accordo che questo essere ha intrattenuto rap-porti amichevoli esclusivamente con due persone cheavrebbe potuto uccidere mentre, come si sa dai fatti, le harisparmiate se non protette.

Paneangelico fa una pausa e si guarda le belle manibianche:

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Ei

L’aria aveva uno splendore così speciale che la città ap-pariva ancora più bella e sembrò ai due ragazzi come so-spesa al cielo dell’Attica.

La videro all’orizzonte dopo quattro giorni di camminoe la videro immensa, bianca e luminosa, oltre il fiume Ce-fiso.

Atene sembrava una dimora del sole.In realtà la parte bassa della città era un affollamento

immenso e disordinato di casupole di terra e uomini chefermentavano per arrivare alla città alta da dove venivanocacciati continuamente. Ma di questo loro non sapevano.

Nicteo e Peante, non guardarono in basso e pensaronotutt’e due che l’uomo era il più straordinario tra gli esseriviventi e che davvero era simile agli dèi. Loro non eranoancora nati quando Atene era stata fatta così bella e il pen-siero, chissà perché, li commosse.

Seguirono ancora la via sacra ed entrarono in città il po-meriggio dalla porta di Dipylon e, dopo avere trovato unalocanda in un quartiere fatto con mattoni di paglia e fan-go, lasciati gli asini, si diressero verso la città di marmo dicui parlava tutto il mondo e che il mondo lo faceva girare.

Fu un percorso che compensò da solo tutto il dolore

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– Non è ancora indagato.– È già sul tavolo del procuratore generale la richiesta

ed è articolata, motivata e giustificata dall’obbiettivo peri-colo sociale che il Redenti rappresenta.

Petinicchio aveva atteso che la dottoressa Paneangelicosi allontanasse dalla finestra per spruzzarle, alzando unbraccio, una dose della sua polvere:

– Le ripropongo il quesito: in che relazione ponete Gu-glielmino Redenti con i miei due assistiti?

Paneangelico, benché impolverata e un po’ indebolita,manteneva l’espressione della vergine senza incertezze,quindi non era un’espressione intelligente e per questomotivo faceva più paura a Enrico e Battistino.

– Per me un omicida, purché sia un essere dotato di vo-lontà, è un omicida quale che sia la sua sostanza o essenza.Se altri lo frequentano e lo nascondono ne discende, av-vocato, che sono complici. Il processo chiarirà… RicasoliEnrico e Mattiolo Battistino sono complici e hanno con-corso, dico, concorso.

– Il processo è la peggiore delle pene! – singhiozzò En-rico desiderando infinitamente di stare abbracciato aMelania.

Petinicchio si alzò, prese per mano Enrico e Battistino iquali gli si affidarono spaventati. Guardò la dottoressaPaneangelico come un soldato guarda il nemico che staper sparargli addosso, si sentì forte e protettivo, si sporsein avanti, sventolò la bandiera degli avvocati, spruzzòun’enorme quantità di polvere e gridò il suo grido di guer-ra:

– Al processo! Al processo!

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– Dove andremo a finire? Tutto si sta disfacendo. L’altrogiorno, al processo contro Eudimacripto che ha rubato all’e-rario, lui si è preso il lusso di parlare oltre il tempo concessodall’orologio ad acqua, io ero là tutta la mattina e ho sentito.

– Sei proprio un vecchio senza niente da fare. Nel mio de-mo di Ceràmico i vecchi sono esempi per i giovani, equili-brati nei costumi e nella parola. Anziché passare la mattinain tribunale a spettegolare dovresti preoccuparti di educarela gioventù.

– Questa massa di maleducati e poltroni? Ci porterannoalla rovina e tu li difendi.

– Tu perdi il cervello a pezzi.– Rimbambito, ti calpesteranno come una stuoia.

– Beh, che Telèsforo fosse un serpente lo sapevo, ma chearrivasse a dire di me quello che tu mi riferisci con tanti par-ticolari!

– Tu lo sai che io aborrisco il pettegolezzo, lo ritengo unapiaga del genere umano, eppure ho voluto riferirtelo. Saianche che non amo mettere zizzania. Voi siete i miei miglio-ri amici, non vorrei vedervi divisi per nulla al mondo. Peròtu vigila, stai attento, spesso le oneste e ben create coscienzenon conoscono la frode.

– Grazie.

– Hai sentito, Tedecteto, del monumento al povero Socra-te? Se ne accorgono ora! Ma tanti non sono d’accordo. C’èancora gente avversa alle sue idee. Figurati, fargli una sta-tua…

– Con la faccia da silèno che gli dèi gli avevano assegnatosarà difficile rendergli un buon servizio per i posteri e lo ri-

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provato, e lo sbalordimento si trasformò in una felicitàche Nicteo definì piena, suprema, sublime, assoluta e poirestò senza aggettivi. Anche Peante dimenticò pecore edubbi e si sentì più vicino alle nuvole. Trascorsero la sera-ta a guardare statue, monumenti e un’infinità di uomini edonne indaffarati.

Una giovane gli sorrise. Loro si guardarono e si reseroconto di non essere all’altezza della città e dei suoi abitan-ti con i capelli ricci e spettinati, con la peluria da radere, leunghie nere e l’odore d’asino che si portavano addosso.

Decisero di spendere per abbellirsi.Il bagno pubblico gli apparve come un olimpo lucci-

cante, un luogo dove tante semidivinità riunite si raccon-tavano, con l’acqua all’ombelico, le loro storie. Lo schia-vo bagnaiolo li guidò. Loro intanto ascoltavano tutto quel-lo che arrivava ai loro timpani emozionati.

– Locoòne? Lui dovrebbe fare la scelta delle tragedie edelle commedie quest’anno? Lui? Ma se era un commer-ciante d’olio prima di diventare arconte! Cosa vuoi che necapisca Locoòne?

– Ma davvero credi che bisogna capire d’arte, saper scrive-re o saper recitare per scegliere una bella storia? Allora biso-gnerebbe saper fare tutto questo anche per essere uno deglispettatori del teatro di Dioniso. E invece non mi pare chesiano tutti letterati.

– Beh, una cosa è stare a guardare, una cosa è scegliere,un’altra cosa è recitare e un’altra ancora scrivere. Se gli ar-conti che hanno scelto gli autori sino a oggi fossero statiignoranti come Locoòne…

– È troppo fredda quest’acqua!

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– Li correggi con l’aceto durante la cottura. Ho buonissi-mo aceto di Tito che i Fenici mi portano ogni anno.

– D’accordo. Vediamo un po’ il prezzo.

Ovunque sentivano parlare e parlare. Capirono subitoche la parola, senza smettere mai, faceva muovere la città.Tutti parlavano con tutti, senza freno e senza arrestarsidavanti a nessun argomento, tregua non ce n’era. E le pa-role entravano dappertutto. Sarebbe sembrato che nonparlassero da secoli e che dovessero rifarsi del silenzio de-gli albori, quando i loro antenati dicevano poche parolepesate. Il centro di questa frenesia che non si attenuavamai era la grande agorà, dove il chiasso diventava massi-mo e produceva una rete che raccoglieva tutto, immon-dezza e perle, perle e immondezza. Per le orecchie di Nic-teo e Peante, abituati al silenzio e al canto delle cicale incampagna, quella era una rivoluzione, una vita capovolta.

All’uscita dei bagni, puliti e freschi, anche nel cuore, sisentivano già cittadini di questa città delle meraviglie; so-prattutto Nicteo il cui talento per le parole sembravaavesse trovato il luogo ideale dove esprimersi.

– È la parola che cambia il mondo Peante. Qui le paro-le producono anche denari.

– Sarà. Ma chissà quante bisogna buttarne via per con-servare le migliori.

Nicteo non ascoltava:– Le parole, le parole, – ripeteva.

* * *

Le parole. Ci pensarono tutta la notte. Quante parole da

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pagheranno male dell’ingiustizia. Sarebbe meglio un pub-blico pentimento inciso nella pietra.

– Tutti pentiti! L’accusatore Meleto condannato a morte,Anito d’Eraclea scacciato dalla sua città, Licòne esiliato e ledracme d’oro come risarcimento a Santippe! Che ipocrisia!Solo ipocrisia! Facile, ora che è tra i più…

– Perché dici che è tra i più?– Perché quelli che sono morti sono più numerosi di noi

vivi, perciò si chiamano i più.– E chi lo può affermare con sicurezza?– Beh, c’è stato certamente un momento in cui i primi uo-

mini erano tutti vivi e nessuno era ancora morto. Poi han-no iniziato a morire e ancora per un po’ i vivi sono stati piùnumerosi dei morti. E alla fine il numero dei morti ha su-perato quello dei vivi e da allora è sempre aumentato il nu-mero dei morti perché diminuiva quello dei vivi. Questo,Tedecteto, è un ragionamento.

– Ma gli uomini hanno continuato a nascere e ne nasconopiù di quanti ne muoiono, sennò la popolazione, per esem-pio, di Atene non sarebbe in aumento. Cosa mi rispondieh! Una volta c’erano pochi uomini e oggi ce n’è molti dipiù. E allora, quali sono i più?

– Sardine, tonno, calamari e anguille? Io te li comprerei,Aristòsseno, però l’odore a dire la verità è rivoltante.

– Lo so ma puoi sempre rivenderle all’osteria di Trofiòne.Lì sono di bocca buona, i suoi clienti sono pastori che nonconoscono l’odore del pesce fresco. Li mangeranno e pense-ranno che gli ateniesi sono matti e che il loro capretto èun’altra cosa.

– La puzza è puzza, al mare e in montagna.

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Già, ma come entrarci in quel mondo?

Dopo alcuni giorni trascorsi a conoscere la città evitan-do accuratamente guide, sfaccendati, accompagnatrici -si ricordavano i consigli di Polifonte, il guerriero spartanoincontrato sulla strada per Delfi - stando lontani da com-pagnie troppo ciarliere, pensarono che il modo più diret-to di avvicinarsi al teatro fosse quello di rivolgersi a chi cilavorava.

– Come facciamo? Andiamo lì e chiediamo se possiamoessere utili anche per il più umile dei compiti?

– Sì. Mi sembra la strada più breve. Poi si vedrà. Mi rac-comando, Peante, anche se si trattasse di svuotare gli ori-nali della compagnia. Dignità e buone maniere.

– D’accordo.– Evita di accentuare quella tua pronuncia da monta-

naro.– D’accordo.– E non inchinarti troppo.– Ho capito, ho capito.

Il teatro scelto sorgeva non lontano da quello di Dioni-so, a sud della città, in un intestino di vicoli senza sole,botteghe, fabbri, falegnami e tintori che dal teatro viveva-no.

Una bella mattina di sole sorridente entrarono e si stu-pirono per la grandezza della cavea bianchissima e per ilproscenio pieno di comparse, attori, ballerine e operai.

Nicteo si informò, chiese e indagò.Per consiglio di un coetaneo che spazzava il tavolato si

rivolsero a un uomo intento a fare nodi con grosse corde

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mettere in ordine. Trovarci un filo, magari un filo spinoso,oppure nero, oppure velenoso, un filo. In fondo in questacittà avevano messo ordine anche alla materia più resisten-te e testarda: la pietra. Qua i sassi bianchi e il marmo espri-mevano il divino. E anche gli uomini non erano storti e fat-ti con poco come al paese. I corpi, da queste parti, richia-mavano la natura all’ordine e all’equilibrio. Ma le parole?

Si addormentarono parlando:– Nicteo, qui è tutto messo come si deve, almeno nella

città alta… Mi guardo intorno e respiro meglio, il cuoremi batte più lento… Ma tutto questo dire e dire di conti-nuo…

– Qua si respira armonia, Peante… Sì, le parole sembra-no troppe, e alla rinfusa… e sembra che ciascuno parli acaso… Ma secondo me anche alle parole qualcuno ci hapensato e ha trovato una disposizione… un posto dovefarle finire…

Continuarono a discutere il giorno dopo. Nicteo e Peante, dopo lunghi scambi di idee e senza ri-

sparmio di parole, avevano concordato che tutto questoraccontare convergeva e si rifugiava in un unico luogo do-ve si depositava in un flusso simmetrico e organizzato do-ve aumentava di peso e di importanza.

Il Teatro.Anche loro due avrebbero potuto vivere di parola, se-

condo Nicteo. E il Teatro era il punto geometrico perfettodove ogni brusio, voce, dolore, grido, protesta si trasfor-mava in suoni ascoltati, meditati e poi raccontati ancora.

Però la prudenza suggeriva di far procedere la fase crea-tiva vera e propria da un apprendistato che speravano nontroppo doloroso.

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in poche ore diventiamo lo zimbello di tutta Atene e voi fi-nireste spellati vivi davanti a tutta la compagnia: spellativivi, prima uno e poi l’altro.

In venti giorni di apprendistato, mani sanguinanti e mu-scoli indolenziti, diventarono, sotto la guida del maestro,macchinisti discreti, e un giorno Teofrane gli disse:

– Nicteo e Peante, oggi tocca a voi, farete da soli. Ma at-tenzione, giuro su Dioniso che se qualcosa andrà male vispellerò vivi davanti a tutta la compagnia, prima uno e poil’altro.

I due giovani avevano approfittato delle brevi pause - illoro carattere curioso era diventato ancora più curioso -per fare conoscenze. Nicteo, generalmente, gettava le ba-si e Peante, secondo i casi, serviva da freno o collaborava.Riuscirono, un po’ col lavoro, un po’ per la naturale faci-lità con cui si avvicinavano al prossimo, a guadagnarsi unacerta generale simpatia.

Avevano individuato una scala sociale con in cima l’ar-conte eponimo, i benefattori del teatro e tutta una schieradi uomini influenti. Seguivano: l’Autore, poi colui che cu-rava la messa in scena, che qualche volta erano la stessapersona. Dopo venivano gli attori e fra questi avevano no-tato gradi diversi di importanza. Più in fondo stavano ilcapo delle macchine, i coristi e, infine, le ballerine. Le bal-lerine per ultime. Ultime perché non corrispondevano al-l’idea che la gloria più grande per una donna consistevaproprio nel fatto che gli uomini non parlassero affatto dilei, né in bene, né in male. Ma Nicteo e Peante erano di-sposti, più di altri uomini, a transigere su questo ordinedelle cose e, a qualsiasi categoria appartenessero le balle-rine del teatro, avevano in abbondanza tutto quello che,

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seduto sul piedistallo di una statua di Apollo che ad Ate-ne sembrava meno sorridente che a Delfi, ma più bello.

– Buona giornata, signore. Ci hanno detto che voi co-mandate le macchine miracolose che muovono la scena.Possiamo parlarvi? Io sono Nicteo e questo è il mio amicoPeante, veniamo dalla Megaride e nostra ambizione èquella di vivere accanto all’arte del teatro, anche faticando.

L’uomo li guardò:– Sembrate due bravi giovani e vi presentate come si

deve, questo lo devo dire. Ma come ci siete arrivati qui?Raccontarono la loro vicenda omettendo alcuni parti-

colari che bruciavano ancora.– Bene, due adolescenti con l’anima in ebollizione! Ho

un lavoro per voi che vi calmerà! Alle macchine, alle mac-chine meravigliose! Non hanno pari ad Atene!

Il macchinista si chiamava Teofrane, era un uomo dicinquant’anni, rosso di capelli, robusto, irascibile, ma disangue buono.

La macchina che gli suscitava tanto entusiasmo consi-steva in un sistema pesante e complicato che cambiava lascenografia facendo ruotare un grande solido che potevamostrare tre facciate ed era mosso a mano da cavi e carru-cole. Videro anche macchine con ganci, leve e funi chedovevano far volare cavalli, fare salire al cielo eroine e farescendere in terra gli dèi che, con lo stesso trucco, poi se netornavano in cielo. Capirono subito che tutto quel corda-me sarebbe stato il centro della loro vita. Si consolaronopensando che si trattava di un compito delicato come glichiarì lo stesso Teofrane.

– Ragazzi, nutritevi bene e dormite meglio. Se sbagliatequalcosa facendo girare il periacte, salta lo spettacolo, noi

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– Benvenuti nella nostra casa.– Grazie. Giambe, sei bellissima! – e Nicteo continuò: –

A vederti così, alla luce delle fiaccole, hai occhi che inna-morerebbero un dio! Le tue pupille sono nere come l’os-sidiana, le tue ciglia muovono l’aria, le tue…

– Che esagerazione! – miagolò Giambe.– Abbiamo portato vino e fichi, – accorciò Peante, ma

vedendo Etemea anche lui si indebolì. – Etemea, sembriuna dea marina, una divinità delle acque, una…

– Anche voi siete bellini! Giambe e Etemea presero Nicteo e Peante per mano e li

condussero nel piccolo giardino dove la tavola era imban-dita con cura.

– Bene, siamo tra giovani che hanno lasciato presto le lo-ro famiglie, qualcosa in comune ce l’abbiamo, – disseGiambe guardando la luna.

– Perché avete lasciato le vostre case? – domandò Peante.– Noi veniamo da Efeso. È una bella città, ma quello che

sentivamo dire di Atene era talmente affascinante che di-ventò un’ossessione venirci, una smania. Ma non aveva-mo cuore sufficiente per dirlo alle nostre famiglie e allorasiamo scappate via. Abbiamo pianto giorni e giorni mapoi ci è passata e ora eccoci qui.

– Sì, eccoci qui con voi, – pigolò Etemea.Nicteo e Peante raccontarono la loro storia omettendo i

soliti particolari. Quello che però estasiò le giovani, giàben disposte, furono i concetti profondi e ben esposti chei due amici avevano confezionato sino dal pomeriggio perla sera.

– Sapete cosa risponderei a chi ci accusasse di essere sta-ti azzardati? Io credo che nella gioventù bisogna essere

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secondo loro, serviva ad alleviare la fatica e i dolori causa-ti dalle funi.

– Ciao Etemea.– Ciao, Peante. Come sono stanca. Micletico sarà un

bravo coreografo ma odia le donne dal momento che nonriesce a esserlo lui stesso - è così peloso… - e ci distruggecon le prove. Ho i polpacci come due anfore!

– Ti massaggio, vuoi?– Come sei premuroso! Accetto di sicuro, ma non qui.

Oggi non c’è spettacolo: perché non venite a casa tu e iltuo amico Nicteo? Vi vediamo sempre così stanchi! Pensache Nicteo ieri ha trovato il tempo per andare al mercato acomprare dei nastri e forcine per Giambe.

– È andato al mercato? Non me l’ha detto.Da un po’ di tempo Nicteo e Peante giravano concentri-

camente intorno al gruppo delle quindici danzatrici chealleggerivano la tristezza accumulata dal pubblico duran-te le tragedie.

Etemea, piccola e bruna, era una calamita per Peante.Nicteo aveva adocchiato una certa Giambe, più alta di luie di modi svenevoli. Dopo poche settimane le due ragazzeavevano superato del tutto le funi nella graduatoria di im-portanza che i due amici si erano dati. Ora, con l’invito acena, erano arrivati al cerchio più ristretto.

* * *

Su Atene splendeva una luna mirabolante. Nicteo stu-diava sempre il cielo e prese la luna rotonda come un buonaugurio.

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sibilio il pubblico. Cheremone ha scritto per il nostro at-tore un monologo sulla tristezza che si impadronisce di al-cuni uomini senza spiegazione. Guardate, il poeta è là cheprova con Pepareto.

– Teofrane, possiamo avvicinarci ad ascoltare? – chieseNicteo. – Fateci lasciare per un poco questo cordame. Ve-dere l’opera d’arte che nasce non è cosa di tutti i giorni edè più affascinante che vederla bell’e fatta.

Teofrane acconsentì. Si avvicinarono a distanza di ri-guardo al proscenio, dove l’attore e l’autore accudivano allavoro di produrre parole che dovevano toccare ogni serail cuore di tanti uomini diversi.

Come era bello Pepareto con la maschera e con la vestegrigia del fuggiasco. Ma Cheremone il poeta non era sod-disfatto:

– All’osso, all’osso! Ti dico che i movimenti devono es-sere ridotti all’osso! E queste urla che straziano? No! Sia-mo ad Atene, non c’è bisogno di troppi gesti per farsi ca-pire, la gente qui non è stupida! Su, continua… sei triste enon devi agitarti tanto… sei solo nella tua casa, solo. Chi èche si agita tanto da solo? Su, continua.

Solo a vedere un essere animatom’assale il tedio e sono disperato!Quell’ansia di conoscer nuove genti,che anima rendea e cor frementi,premonizione è divenuta, oscura,d’angoscia, di terror e, ahi, di sventura!

– Quell’ahi non è scritto.– L’ho detto solo per essere più visibile, solo per questo.

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giovani, nella maturità esperti e saper sopportare il pesodella vita, la moglie, la casa, i parenti. È beato colui che avent’anni ha provato a essere un filosofo o un libertino,poi, a trenta, ha contratto un bel matrimonio, a cinquantanon ha debiti e ha un bel po’ di dracme da parte. Costui è,sotto tutti gli aspetti, un uomo eccellente.

Anche Peante sbalordì per la saggezza dell’amico. An-cora di più le ragazze che furono felici di non essersi sba-gliate sui due addetti alle funi.

Peante, sospettando che le frasi dell’amico fossero nonsue, non si vergognò di citare i maestri di Mègara:

– Io non vorrei, quando sarò maturo, rattristarmi pen-sando che la gioventù mi è stata data invano e che i mieisogni più belli li ho lasciati marcire tradendo la natura e,quindi, gli dèi che la regolano. La gioventù è un tesoro daspendere, non si può conservare.

Giambe e Etemea collocarono i due macchinisti in unempireo di intelligenza e saggezza. Che concetti rari. Pen-sarono che avrebbero figurato in palcoscenico sulla boc-ca di Pepareto, il primo attore.

Fu per tutti e quattro una notte indimenticabile. PerNicteo e Peante la più bella della loro vita. Il mattino suc-cessivo, uscendo dalla casa delle ballerine per andare ateatro, sentivano irradiare da sé un’inesprimibile auraquasi divina.

* * *

Teofrane era preoccupato come sempre quando c’eraspettacolo.

– Attenti, eh! Questa sera Pepareto deve mandare in vi-

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ne con uno sguardo circolare e tutta la scorta fece un’e-spressione seria.

– Beh, sì, certo, io volevo solo dire, – rispose Cheremo-ne, – che con tutto quello che avrete da fare… un uomoche da vecchio vivrà a pubbliche spese nel pritanèo…

– Sono venuto a vedere come va la tragedia, con tuttoquello che ci spendo. E tu Pepareto, sempre arie dagrand’uomo, eh! Ma hai ragione, sulla scena funziona equalche volta funziona anche nella realtà, ma non con me.Badate che oggi ospito uomini importanti della Licia, fa-temi fare una bella figura! A proposito, Cheremone, cosahai deciso per la sorella di Ermes, alla fine muore?

Cheremone rispose:– Come preferite, signore.Tutta la compagnia si guardò.Silenzio e poi:– Bene, direi che farebbe più colpo farla morire. – Co-

none rifletté per qualche minuto nel silenzio assoluto epoi disse: – Sì, ho deciso: falla morire.

Nicteo e Peante avevano sentito tutto ed erano storditida tanta forza. Conone come una raffica di vento disastro-so era arrivato e andato via dopo aver scosso tutto il tea-tro. Cheremone si teneva la testa e la pancia:

– Avete sentito? E io dovrei far morire la sorella di Er-mes? E come faccio se è lei che chiude il finale con te, co-me faccio? Come faccio? Ecco, vedi? Io avrò il fuoco nel-lo stomaco tutto il giorno, mi conosco, e anche nella testa!Come faccio?

– È semplice, – rispose Pepareto, – falla morire e chiu-derò da solo.

– Lo so, lo so bene che a te non dispiace, – ringhiò Che-

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– Sei già solo in scena, Pepareto, hai un monologo lun-ghissimo e nuovo di zecca, mai portato in scena e tu… tuvuoi essere più visibile? Più visibile? È ridicolo, su, conti-nua, continua.

Il volo degli uccelli al dolce Egittom’empiva allor d’un sentimento ardito.Ora, inutil terrore d’animaleprova a schivar la morte che m’assale.Finiscon forza, energia vigore…

– Troppo forte e troppo calore! Dovresti essere triste emelanconico, svuotato, affranto e non ce la fai neppure adalzare la voce… Così invece assordi le prime file! Devi far-ti sentire sussurrando. La natura ti ha infuso questo ma-lessere nero come le penne di un corvo… Possibile che…

Improvvisamente tutto si fermò.Un gruppo di uomini del ceto alto era entrato al seguito

di uno solo che, evidentemente, gli stava al di sopra, pa-recchio al di sopra, a giudicare dalle schiene curve deglialtri.

– Conone! Che onore e che piacere, nobile Conone,vincitore di Cnido! – disse Cheremone.

Pepareto si tolse la maschera.Autore e attore si diressero verso il gruppo scostando

bruscamente Nicteo e Peante.– Disturbarsi per venirci a trovare e per di più a quest’o-

ra della giornata, con le preoccupazioni che avete in As-semblea!

– Non è più l’Assemblea di una volta, ricordàtelo, i tem-pi sono cambiati, cambiati definitivamente, – disse Cono-

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nale vero con Pepareto. La fate morire e aggiungete pochiversi scialbi per Pepareto… Intatta la vostra Opera, con-tento Conone e dopo due o tre rappresentazioni l’aggiun-ta cadrà da sola. La memoria del pubblico è per le coseimportanti. La tragedia, così com’è è bellissima. Il pubbli-co strapperà il baffo finto voluto da uno che di teatro noncapisce nulla, – e come un bambino dispettoso aggiunse:– Ecco, ecco.

Teofrane, livido, accorse con l’intenzione di frustare ilragazzo con una delle sue corde e cominciò a farlo, mal’Autore lo fermò e disse:

– Mi pare che tu sia quel nuovo addetto alle corde.– Scusatelo, Cheremone, in genere non fa così, deve es-

sere ubriaco. Ma sei impazzito, Nicteo? Non c’è bisognodei tuoi consigli qui. Torna immediatamente alle tue cor-de!

Cheremone taceva ma Pepareto disse subito:– Non è un’idiozia questa del ragazzo! È l’innocenza

che è arrivata in soccorso. Che ne dici Cheremone?L’Autore si massaggiava inutilmente la pancia, taceva e

pensava. Poi disse:– Dico che, visto che Conone vuole il cambiamento, noi

glielo daremo e dico che a questo ragazzo io darei l’alloro.Peante riprese il respiro. Aveva smesso nel momento in

cui l’amico era intervenuto eroicamente. Nicteo ingigantìil concetto, già alto, che aveva di sé. Giambe lo guardò co-me un piccolo dio.

La serata andò bene, il pubblico soffrì con Pepareto e sistupì molto vedendo che l’eroina inaspettatamente mori-va, ma non ci pensò tornando a casa. Le ballerine furonopiù leggere del solito. Conone venne a complimentarsi

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remone, – ma anche io ho una dignità! Chi crede di essereConone? In fondo cosa ha fatto? Ha battuto gli spartani aCnido comandando la flotta del Gran Re persiano! Cherazza di eroe: ha vinto con la flotta di altri! Non cambieròun bel nulla, neanche una virgola, nulla! Ho le fiammenella pancia! Mi scenderà la paralisi per la rabbia, è comese la sentissi volare qui vicino!

– Bravo, tu rifiuta e salta la compagnia intera. Bada chenon lo dico per me: io ho un nome, lo sai, e mi cercanoogni giorno da altri teatri. Ma gli altri? Alla fame per il tuoorgoglio?

– E il mio lavoro?– Già, il tuo lavoro… ma non sarebbe peggio anche per

il tuo lavoro se anziché saltarne una parte saltasse tutto in-tero? Non ne resterebbe traccia.

Cheremone si sedette zitto, all’ombra, con la testa dolo-rante e sembrava che la volesse schiacciare. Pepareto si ri-mise la maschera e continuò per conto proprio.

Nicteo sentì l’alito della follia sulla sua nuca giovane, di-ventò bianco, sudò, tremò e prese la decisione di giocarsiin un istante il lavoro alle funi, Giambe e tutto il resto. Sirivolse a Cheremone e Pepareto tenendosi fermo sullegambe e dicendo in un solo fiato:

– Ascoltate un giovane matto per un istante, vi prego!Se l’Arte deve fare, a quanto sembra, i conti con gli uomi-ni, io proporrei come si fa in Assemblea e al mercato uncompromesso che conserverà intatta l’Opera e inganneràConone. Ecco l’idea: finite l’Opera come volete, però poiappiccicateci sopra, come si appiccica un baffo finto, unapiccola appendice: la morte della sorella di Ermes volutada Conone. Appiccicata, ecco, ma solo, badate, dopo il fi-

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Questo rattristò i due giovani che per qualche giornopersero quasi l’uso della parola perché pensavano di do-versi separare dalle loro amanti. Etemea e Giambe parto-no… e loro due di nuovo soli. Che cosa potevano valeredue ragazzi che tiravano corde? Chi se li sarebbe portatiin viaggio? Ma Pepareto, uomo di sangue buono, veden-do i due addetti alle funi tristi e svogliati, ricordò a Chere-mone i meriti di Nicteo e i ragazzi furono inclusi nel nu-mero di chi partiva.

Fu il periodo più emozionante della loro vita sino ad al-lora. La conoscenza arrivava attraverso l’esperienza, sen-za fatica e senza dolore che non fosse quello - a cui si eranoabituati - delle funi. E pensavano che sarebbe stato sem-pre così.

* * *

Partirono dal Pireo distribuiti su due navi.Il mare e il vento furono amici.Arrivarono felicemente a Siracusa, uno dei due occhi

della Trinacria. Dal mare videro la città bellissima, le mu-ra smisurate e l’isola di Ortigia. Un’apparizione bianca,una nube, la città più grande del mondo. Il teatro erasplendido e la Compagnia andò a vederlo subito, prima dioccupare gli alloggi.

La gente di qui era più silenziosa che ad Atene. C’eranopiù etère e più schiavi. Le donne erano belle ma era diffi-cile parlarci. Ma cosa interessava a Nicteo e Peante, cosìfelici con Giambe ed Etemea?

Pepareto avevo portato con sé una cortigiana di Smirne,

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con Cheremone dopo lo spettacolo e elogiò Pepareto ilquale aveva recitato asciutto e semplice come si usava adAtene.

La notizia del suggerimento risolutivo di Nicteo si spar-se sino alle stradine intorno al teatro. Tutto era meravi-glioso per i due amici ma la felicità perfetta è sempre in-terrotta da qualche evento.

Una dozzina di giorni dopo l’incontro con Giambe edEtemea gli strumenti del piacere dei due giovani iniziaro-no a produrre una sostanza giallo-verde che li terrorizzò.Non pensarono alle due ragazze e, anzi, si guardarono be-ne dall’informarle del fenomeno.

Il disturbo gli appariva come una punizione divina e sirivolsero in segreto a un sacerdote del vicino tempio diAfrodite e, involontariamente, scelsero bene perché ilvecchio aveva conoscenze discrete su tutto quello che inqualche modo era connesso alla sua dea. Gli ordinò di be-re una pozione fatta secondo una regola antica e cheavrebbe guarito quello scolo. Raccomandò di far bere ildecotto ben caldo anche alle ragazze ma non spiegò attra-verso quali vie il morbo si era propagato.

Contenti, Nicteo e Peante, la sera stessa portarono a ce-na da Giambe e Etemea la bevanda fumante e gliela fece-ro bere spiegando che si trattava di una pozione rinfre-scante e purificatrice della loro terra.

Guarirono e continuarono contenti l’amore con le dueballerine.

Con il successo dell’Opera arrivò l’offerta, procuratadallo stesso Conone, di portare la tragedia nella ricca Sira-cusa e nella lontanissima Marsiglia.

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questo spurgo dai genitali che accumulano bile e flegma iquali provengono da un riscaldamento degli ipocondri le-gati alle Pleiadi che con i primi freddi tramonteranno raf-freddando anche il vostro addome. Siete fortunati a esse-re incappati in me: ho una grande esperienza e ho visto ecurato centinaia di casi come il vostro.

Nicteo e Peante ringraziarono il cielo per aver trovatoun uomo così sgombro da dubbi:

– Prendete questa prescrizione, ne ricaverete una po-zione eccellente da bere due volte al giorno per cinquegiorni. Ci vuole l’acqua della fonte Arethusa, è essenziale.E che l’orzo non sia in chicchi, sennò, entro sette giorni,morirete dopo avere subito lo sfacelo del cervello e con imembri mostruosamente gonfi.

Impressa nella memoria la raccomandazione di nonusare l’orzo in chicchi, iniziarono a disperarsi per il tradi-mento delle due ragazze. E dire che avevano desideratoche il mondo fosse popolato solo da loro quattro.

Decisero di non dire nulla a Giambe ed Etemea e si limi-tarono a somministrare la pozione anche a loro. Una serale seguirono dopo lo spettacolo. Videro con i loro occhiche le ballerine erano uno strumento infallibile con i sira-cusani ricchi i quali offrivano oro alla compagnia. Era ilbene del gruppo.

Era il bene ma fu un colpo. Però Nicteo e Peante non avevano fatto le loro espe-

rienze invano e erano diventati meno fragili:– Vedi, Peante, credevo che avrei sofferto molto di più.

In fondo, la cosa più importante è che noi due siamo an-cora amici. Sono donne di teatro, ce lo dovevamo aspet-tare.

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molto reputata ad Atene tanto che a teatro sedeva nelleprime file. Recitavano di tutto e Pepareto, intelligente eesperto, si adattava a tutto.

A Siracusa bisognava gridare in scena, alla gente piace-va così, e lui li accontentava.

– Secondo me Pepareto è grande. Ne conosci altri chefanno il tragico e il comico come lui? E quando improvvi-sa? – diceva Peante.

– A me piace quando recita secco. E poi, a dire la verità,il genere comico non mi tocca, non mi esalta.

– Sì, lo so che a te piace stordirti con re, regine e semidei,però è così irreale! Ne vedi di gente così al mercato o perstrada?

– Ma sono figure eterne! Possibile che non lo capisca!Io voglio commuovermi a teatro!

– E i poveracci non sono eterni anche loro? In più asso-migliano alla verità e poi ritorno a casa contento e non op-presso come dopo che ho visto le storie che piacciono a te.

– Giambe e Etemea dove sono?– Oggi sono invitate al palazzo con tutto il balletto. Tor-

neranno tardi.Passarono dei giorni e i due amici videro ricomparire

quell’umore giallo-verde che di nuovo li gettò nellosconforto e nella paura.

Questa volta andarono da un medico vero che dopoaverli spremuti sino alle lacrime disse:

– Si chiama scolo. Nelle sentenze Cnidie troviamo ognispiegazione di questa malattia. È un’entità emanata dalleetère che hanno rapporti carnali con molti uomini. Nelleetère lo scolo non appare, è subdolo. Ci si trasmette così

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All’inizio di Sciroforione lasciarono Siracusa e diresse-ro la prua verso Marsiglia.

Nicteo e Peante sentivano che il viaggio, lo spostamentoper mare, l’allontanamento dalla casa dove erano nati da-va loro nuove energie, tanto più forti quanto più lontani sitrovavano dalla loro terra.

* * *

Marsiglia, bianca come Mègara, come Atene e come Si-racusa, apparve in una mattina lucente per un bel ventosecco che ripuliva il cielo e che i marinai, con un sorriso,riconobbero subito.

Il colore del mare era sempre lo stesso e questo li fecesentire meno lontani da casa. Anche lì, così lontano, siparlava la loro lingua.

Il vento portava i profumi della terra verso il mare e pro-vocava un’eccitazione profonda nei due giovani sensibili.

Pepareto ripassava a prua la parte funesta di un parrici-da. Anche lui si mise a guardare la città che diventava piùvicina. Anche qui il teatro si vedeva dal mare e sembravalevitare sulla pietra candida.

– Scusa, Pepareto, possiamo parlarti?– Certo, Nicteo.– Io e Peante ti vorremmo chiedere se hai mai pensato a

qualche altro lavoro per noi. Siamo stanchi di produrretuoni finti, far girare le scene e tenere divinità appese inaria, anche se lo facciamo col massimo piacere che se nepuò ricavare.

– Siete due ragazzi. È già tanto quello che fate, una gran-de responsabilità… sapete che sghignazzi se sbagliate…un dio sulla testa del coro…

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– Dopo tutto neanch’io sono molto triste. Volevamo ilteatro? Ce l’abbiamo. Volevamo vivere vicino all’Arte? Cisiamo avvicinati troppo e ci siamo presi questo scolo che ame sembra una punizione degli dèi.

– Una punizione? E perché? Noi siamo onesti e buoni.E poi abbiamo la pozione. Peante, noi dobbiamo conti-nuare a apprendere tutto quello che…

Peante era malinconico:– Nicteo, non so più quanto lo desidero, non lo so più.

Ti devo fare una confessione a proposito del teatro. Tuttiquesti morti, questi figli che muoiono, donne murate vi-ve, padri che maledicono i figli, cominciano a farmi male,proprio un male che sento qua nel petto.

– Peante, sai cosa penso continuamente? Penso che ungiorno si reciteranno le nostre tragedie…

– Le mie non saranno tragedie.– Saremo conosciuti, stimati, purificati dall’Arte. Però,

ricordiamocelo sempre, è necessaria una dura, durissimaascesa dal basso.

– Ma a me sembra che non ascendiamo mai.– Intanto giriamo il mondo, cerchiamo di capire, cono-

sciamo… e poi, vedrai, toccherà a noi.Si abbracciarono, si commossero, Peante ricordò il suo

gregge e tutt’e due ricordarono che in fondo c’era la po-zione. Incassavano il colpo.

Così continuarono gli incontri con le due ragazze e,quando compariva l’inconfondibile umore giallo-verdedel morbo, con il decotto guarivano.

La natura, l’amicizia e l’età li facevano sentire invulne-rabili e, dopo ogni inciampo, si riprendevano con una ve-locità da uomini fatti.

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Un giorno si presentò a teatro con un gran seguito uncerto Publio Attinio, un etrusco originario di Veia e congrandi interessi in Corsica, dove, si diceva, era divenutopotente e temuto con la pirateria. Domandò di parlarecon Cheremone il quale quel giorno soffriva terribilmen-te per il suo stomaco che bruciava come una fiaccola.

Nicteo e Peante, per la loro naturale propensione a tro-varsi coinvolti negli avvenimenti, assistettero al colloquioper caso.

Publio Attinio parlava come un attore da strapazzo egesticolava senza tregua:

– Nacqui nella florida Etruria e mi fu vaticinato un futu-ro di Poesia. Invece il destino mi ha imposto finora fatica,dolori, tempeste in mare e ansie. Quando un giorno il miocorpo verrà riportato alla mia terra io, Publio Attinio, vo-glio, – e disse voglio con un lampo nello sguardo, – voglioche le mie tragedie siano offerte al pubblico e agli dèi. Chimeglio della vostra compagnia può farlo? Voi che recitatesotto tutti i cieli, recitate me per i marsigliesi!

– Ma signore, – disse Cheremone, – non potreste limi-tarvi a offrirle agli dèi?

L’etrusco non apprezzò:– Badate, non accetto rifiuti. La mia poesia è il mio san-

gue. Inoltre tutto questo oro sarà vostro se voi reciteretesolo una delle nove tragedie che ho scritto.

La cassa dell’oro era voluminosa e la scorta di PublioAttinio composta da facce patibolari. Cheremone, di cer-vello pronto, considerò l’affare vantaggioso e inoltre siimmaginò di ritrovare il pirata sulla rotta del ritorno. Co-sì rispose conciliante:

– Leggerò i tuoi versi, Publio. Chissà cosa ha prodotto

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– Tu hai iniziato a recitare a sedici anni.– Ma non parlavo, dovevo stare solo fermo e muto.– Io e Nicteo conosciamo a memoria tutti i testi che tu

reciti, quelli dei grandi e anche quelli dei meno grandi.Vuoi un esempio? – disse Peante.

– Davvero conoscete i testi a memoria? Va bene, provia-mo, ma badate che è solo un gioco eh! Dunque, vediamo,il monologo sull’amore della tragedia di Teodecte può an-dar bene.

Recitarono un pezzo a testa del monologo, alla moder-na, come si usava a Atene.

Pepareto fu gentile:– Bravi, ma non basta. Dovete ancora aspettare, col pub-

blico è un’altra cosa. Dovete farvi sentire da lontano eavete ancora la voce con qualche eco di rana. Comunqueparlerò con Cheremone di questa vocazione che, ragazzi,vi fa proprio onore.

Marsiglia era bella e il clima mite. Quasi ogni sera, al cal-do del giorno si sostituiva lo stesso vento aromatico e fre-sco che li aveva accolti all’arrivo. Inoltre non avevano maivisto una tale abbondanza di ragazze bionde. Ne vedeva-no ovunque: per strada, in piazza, a teatro, e tutte conqualcosa nella pronuncia delle parole greche che provo-cava un prurito al cuore di Nicteo e Peante.

Lì era uso che lo spettacolo iniziasse la sera e non la mat-tina o il pomeriggio come ad Atene. La gente viveva dol-cemente, il cibo e il vino erano straordinari, la campagnaprofumata e ricca d’acqua. Solo il vento, ogni tanto, esa-gerava.

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– Non tanto lontana visto che noi siamo qui. Il mare èdiventato piccolo. Che figura ci faremo? Un po’ d’oro og-gi e la cattiva reputazione sempre.

Cheremone ingoiò altro latte, si massaggiò lo stomaco edisse a voce alta:

– Insomma, vuoi proprio saperlo, Pepareto? Ho rilettoil dramma. È scritto, è vero, da un dilettante, ma c’è delsugo e non è poi così brutto. Un ritocco qua e un ritocco làlo renderanno degno del pubblico. In fondo qui la gente èdi bocca facile.

Ci fu un mormorio scandalizzato… A questo arrivavaCheremone! C’è del sugo… Un ritocco qua e là… Mac-ché ritocco, bisognava bruciare il dramma e l’autore in unrogo unico, così non ne avrebbe scritto altri di sicuro…Che vergogna per un po’ d’oro!

Era un ammutinamento e allora usò forza e autorità:– Basta, qui decido io! Tra venti giorni, non uno di più,

non uno di meno, la tragedia sarà rappresentata! Pepare-to, ecco la tua parte, studiatela!

E così fu.Il pubblico accorse alle prime recite perché incuriosito

e perché spinto dagli uomini di Publio Attinio con minac-ce o con denaro.

Ma dopo le prime tre rappresentazioni le gradinate era-no deserte.

Pepareto si lamentava:– Mai, mai durante la mia carriera sono stato così offe-

so! Ecco il risultato della tua ostinazione a portare in sce-na questa brodaglia rivoltante! Figuriamoci, un ritoccoqua e un ritocco là… sono umiliato.

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un uomo d’azione come te. Anche Eschilo era un guerrie-ro e combatté a Maratona e a Salamina.

Lesse la sera stessa la tragedia che iniziava con lo stermi-nio di una famiglia intera, continuava con matricidi e fra-tricidi, l’assassinio di un cugino primo e arrivava dopostupri e incesti a un generale macello. Cheremone bevvemolto latte di capra per il suo stomaco ma non evitò il maldi testa.

Comunque, riunì la compagnia al completo perché siera fatto una convinzione.

– Una compagnia come la nostra che ha un secolo di tra-dizione, dico un secolo, che ha recitato nei teatri più cele-bri, non può mettere in scena questa immonda concate-nazione di scannamenti scritta con stile da ubriaco. Io mirifiuto.

Il rappresentante del coro fu più breve di Pepareto:– Mi ricorda la zuppa di pesce che fanno da queste par-

ti: puzza e invoglia a cibarsi d’altro.Tutti si mostrarono d’accordo. Per ultimo parlò Chere-

mone:– Il mio stomaco sa quanto mi costa e credo che finirà

col bruciare anche le altre viscere, però ritengo che do-vremmo tutti riflettere, amici: anche l’Arte ha bisogno delpane, anche l’Arte e gli artisti!

– Ma il pane ce l’abbiamo già!– Torneremo a Atene ricchi! Conoscete l’offerta. Nes-

suno verrebbe a sapere che abbiamo recitato questa cosaorrenda e informe… Badate che sono d’accordo con voisul giudizio… ma Atene è lontana…

Pepareto replicò:

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* * *

Rividero il Pireo in una giornata grigia che immiserivail paesaggio.

Ad eccezione dell’Acropoli, tutto sembrava quella mat-tina una grande, fangosa periferia melanconica.

Tornarono al loro lavoro ma le funi gli sembravano cat-tive come il cappio del boia.

Ormai temevano le loro amanti. L’affetto era scompar-so, ma la carne, che nei due era una tiranna, faceva deglischerzi e l’uso del decotto continuò.

– Dunque non era amore? – chiedeva un giorno Peante.– Credo che abbiamo scambiato per amore il riscalda-

mento causato da una bella pelle. E poi, se fosse statoamore, sarebbe durato di più, non credi?

Peante era stanco:– Ma perché, Nicteo, più esperienze facciamo e più ne

otteniamo confusione?Anche l’amico era indebolito e non trovava chiarezza

nelle cose:– Non lo so, forse è solo questione di tempo e tutto ci si

sarà chiaro, magari di colpo, più avanti.– Ho paura che per noi due la conoscenza arriverà

troppo tardi.– Ho paura anch’io.

* * *

Seppero subito del malore di Cheremone mentre dallacavea verificava l’effetto della voce di Pepareto. La suamorte fu improvvisa in una giornata di sole e questo gliela

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– Su, Pepareto, tra qualche giorno ripartiamo per Ate-ne e Publio Attinio è stato più che generoso. Avremo ol-tre l’oro persino una nave tutta nostra.

– Cosa me ne faccio di una nave? La uso per cercare unpaese dove nascondermi per la vergogna? Basta Chere-mone, partiamo subito, ho nostalgia di Atene.

Per Nicteo e Peante fu una delusione. Prima l’amore ela delusione per la malattia delle due etère in erba, poil’Arte avvelenata dalla ricchezza e dal potere… E come larealtà sporcava le cose appena le sfiorava…

Su questi argomenti ragionavano una mattina appog-giati al parapetto della nave. Peante chiedeva:

– Ma tu credi che resterà qualcosa di buono di tuttoquesto contagio… di questi teatri in tutto il mondo?

– Non lo so, però mi immagino che chi leggerà le nostretragedie in futuro, se sopravvivranno alle guerre, alle fiam-me e all’incuria, si immaginerà gli artisti in un modo chenon sarà reale. Gli artisti impastano storie e la gente se lebeve come noi beviamo la nostra pozione. Oppure è solo ildesiderio di lasciare un ricordo, come piace a Pepareto.

– E a te.– Lo so cosa pensi, Peante. Io credo che non ci sia nulla

di male a desiderare di essere ricordati. Noi siamo duegiovani, forse senza nessun talento…

– E sbagliare è diventato il nostro pane… E cosa ci è ri-masto? Questo scolo immondo!

– Almeno noi chiediamo, guardiamo, sperimentiamo,insomma, proviamo!

Anche nei momenti difficili si sforzavano di riflettere esi rafforzavano ogni giorno.

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effetti non si erano ancora chiesti dove finivano i mortidella città, anzi, ai morti non avevano mai pensato.

– Guarda qui, Nicteo, leggi.

FUI LA PRIMA MOGLIE DI EURICLOO

E FINCHÉ VISSI PIACQUI A MIO MARITO.FU LUI, MENTRE MORIVO, L’ULTIMO CHE VIDI

E SENTII LE SUE MANI CHIUDERMI GLI OCCHI.

– Forse quello era amore.– Vieni qui, Peante, leggi.

MORIRE NON È STATO DOLOROSO.VIVERE, INVECE, LO È STATO.

SI VIVE SAPENDO CHE LA VITA È BREVE E LA MORTE ETERNA.

Restarono a leggere lapidi sino a che la luce glielo per-mise.

– Questa mi mette freddo addosso…

QUI È DEPOSTO MELAMPO, POVERO PICCOLO DI DUE ANNI:“ALLA MADRE MIA EMPIA E SCELLERATA GLI DEI INFERI FAC-

CIANO SCONTARE IL FIO PER AVERMI…”

– Questo qua sotto fa lo spiritoso… è morto all’età diCheremone, guarda le date…

QUI RIPOSANO IN PACE LE MIE OSSA:SONO TUTTO CIÒ CHE RESTA.

NON MI ANGUSTIA PIÙ IL PENSIERO DI TROVARMI ALLA FAME,SONO IMMUNE DALLA PODAGRA

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rese meno dolorosa perché Cheremone aveva detto chesarebbe voluto morire alla luce del teatro e sotto il cielorotondo del teatro.

I ragazzi furono scossi e spaventati. Peante non se lasentì di andare a vederlo. Di ritorno dalla veglia funebreNicteo disse:

– Dicono che non si muore mai del male che ci si aspet-ta. Uno vive temendo la peste e invece muore per il morsodi una vipera, un altro ha paura della consunzione e muo-re affogato. Lui aveva paura della paralisi e proprio la pa-ralisi gli è arrivata. Pensa!

– Penso, penso, eccome se ci penso! È tutta la notte chepenso.

– È morto dopo qualche ora di agonia. Non riusciva aparlare, poverino…

– Non riusciva a muoversi e a parlare? Che cosa orren-da! Capiva?

– Beh, ci guardava con la faccia di uno che capiva…– È vissuto preoccupato di tutto. Conone era il suo in-

cubo. Meno male che qualche gioia l’ha provata e che quigli volevano tutti bene. Le sue opere le sentiranno nostrifigli…

– Nostri figli? – domandò Peante: – E dove le troviamonoi le donne da cui avere figli? Dove?

Uscirono per una passeggiata a dorso d’asino fuori Ate-ne che quel giorno li rattristava troppo e imboccarono lavia sacra dalla quale erano entrati in città. Si accorsero cheai lati la strada era tutta punteggiata di cippi funerari. Co-sì si fermarono a leggere le iscrizioni. Alcune mostravanoattenzione alle cose che regolano la vita ma altre toccaro-no in un punto delicato le viscere di Nicteo e Peante. In

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Page 118: Giorgio Todde Ei

lui era nato lontano, in Tessaglia, e la nostalgia lo prende-va spesso ma la combatteva, disse, con la compagnia delledonne. Fuori delle scene detestava recitare e li salutò consemplicità. Non diedero l’addio a Giambe e Etemea perpaura di una ricaduta e di altre pozioni fumanti perché lacarne, lo avevano imparato, era troppo forte per loro.

* * *

In quattro giorni, maturati e anche più belli, giunsero alvillaggio con i loro asini più belli di colpo, come i padroni,all’odore dell’erba di casa. Quale fu l’accoglienza dei ge-nitori si può immaginare. Subito i vecchi dimenticaronol’offesa di essere stati abbandonati e anche il precettoreMitrone li accolse felice. Il monte Citerone riprese a rassi-curarli.

Impiegarono dieci serate intorno al tavolo di famigliaper raccontare le loro vicende omettendo particolari etentando di non esagerare. Ma fu impossibile, come perdue pescatori, magari onesti, che descrivono le prede.

Peante trascorse molti giorni solo con le sue pecore allequali raccontò proprio tutto.

Piano piano ripresero la vita per la quale avevano senti-to una nostalgia tanto forte da farli tornare.

Ma molte cose, riflettevano, non andavano bene.Mitrone gli sembrava solo un vecchio provato dagli an-

ni. Le adolescenti pelose del villaggio erano monotone eprive di ogni interesse che non fosse le labbra e tutto il re-sto, mai che avessero un volo di fantasia, uno slancio. Epensare che i genitori, spaventati dall’idea di un’altra fu-ga, premevano già per un’unione duratura e una moglie.

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NÉ MI ACCADRÀ D’ESSERE GARANTE DI UN PAGAMENTO.USUFRUISCO PER SEMPRE DI UN ALLOGGIO GRATUITO.

– Leggi qui, anche questo era amore? Lei è morta ra-gazza e i sentimenti, magari, non si sono consumati.

CHE SIA MORTA UNA DONNA COSÌ SOAVE

CREDO SIA AVVENUTO

PERCHÉ PARVE PIÙ ADATTA ALLA COMPAGNIA DEGLI DEI.È CIÒ CHE VEDI E NON PUÒ ESSERE ALTRIMENTI.

Sulla via del ritorno il silenzio sembrò il rimedio mi-gliore.

Cosa ci facevano loro lì?La voglia di rivedere la casa dove erano nati diventò su-

periore a ogni altra e il rimpianto li fece sospirare a lungo.– Cosa vorresti inciso sulla tua lapide, Peante?– Non lo so. So solamente che la vorrei vicino al mio ovi-

le. Là c’è tutto: una bella fonte, l’ombra d’estate e un ripa-ro contro la pioggia. Te lo immagini se morissimo qui? Al-tro che lapide… Partiamo, Nicteo, andiamocene.

– Io vorrei inciso: “Ha discusso tutto”.– Cambierai idea altre cento volte su quello da incidere

sul tuo sepolcro. Guarda come ci ha cambiato rifletteresolo un poco sul mondo, guarda… Partiamo, Nicteo.

Nicteo fissò a lungo l’amico, ripensò a tutto quello cheera accaduto da quando avevano lasciato la casa paterna edisse:

– Sì, torniamo, Peante, torniamo.

Salutarono solo Pepareto che mostrò di capire. Anche

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compagnato da Fobos, il demone che tu vuoi sfuggire tra ituoi Iperborei e che, invece, è ovunque, anche nel mioovile.

– Peante, forse hai ragione tu. Ma pensi che la vita tra letue pecore ottuse sia quella che vuoi fare per il resto deigiorni assegnati? Se ci tieni tanto ti ci puoi far trasportaredopo morto sotto i tuoi cipressi, anche se morissi in Pafla-gonia. Crescere e invecchiare qui, caro amico mio, no e poino! E se tu non vuoi seguirmi, io ti giuro che parto da solo!

– Di nuovo questa mania? Non ti è bastato quello che èsuccesso? Hai dimenticato Echecrate, le bugie della Pitia,quello scolo orribile e la morte di Cheremone? Io restoqui, voglio la pace, voglio assomigliare alle mie pecore!Dormire con loro e svegliarmi con loro…

Peante non era sincero. Voleva solo che il suo amico fos-se più ragionevole e coi piedi in terra, tanto più in terraquanto più lontana era la meta.

Questa volta partirono tra i peana dei paesani e bene-detti dai genitori commossi, su due cavalli e non a dorsod’asino, e con le borse piene.

Il coro cantava:

C’è ancora orizzonteinnanzi la proraarrivi laggiùeppur ce n’è ancora.E sempre mutandopaesi e cittàtu cerchi tra i vivila tua verità.

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Così, dopo poche stagioni, ripiombarono nello stessotedio che era stata la molla forte della fuga. Presto l’ansiadella conoscenza, o qualunque altra cosa fosse, li riafflissepiù forte di prima; più forte perché avevano assaggiato or-mai la vita fuori del villaggio.

Sdraiati sull’erba, guardavano le pecore pacifiche e par-lavano in un pomeriggio caldo all’ombra della capanna diPeante masticando fili d’erba del fiume.

– Te lo immagini, Peante, vivere tra gli Iperborei, tocca-re le terre del nord dove finisce il mondo, guardare il cielola notte, tracciare rette e volute e capire l’ordine del crea-to? Dicono che i loro maghi volino e spostandosi per l’ariasappiano contare l’esatto numero delle stelle…

– Gli Iperborei? Cosa ti salta in testa? Gli Iperborei…– Ma ti immagini andare lontano dal demone Fobos che

laggiù dove nasce Borea non è conosciuto… Dicono chegli Iperborei, che vivono all’aperto per il clima mite sino aduecento anni, muoiono felicemente quando decidono diaver vissuto abbastanza. Allora si mettono sulla testa unacorona di fiori e si gettano tra le onde dove trapassano congioia…

– Dicano quello che vogliono, ma mi domando come sipossa affogare felicemente. Non si affoga con piacere. Epoi, come riescono a muoversi per aria? E come possonovivere duecento anni? O non sono uomini, ma semidei,oppure non è vero quello che si dice. Certo, sono semidei!È così: gli dèi sono eterni, i semidei vivono duecento annie noi uomini molto meno e, per sovrapprezzo, tra stenti edolori. Qualcuno, addirittura, nasce già morto: all’uomoè dato anche questo dolore. E chi vive, vive sempre ac-

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VI

Dove erano andati a finire i fiati, gli ultimi respiri, con-servati nelle bottiglie di Gracchini? Si erano riuniti inqualche punto di Epipanormo o di Talattone? Erano tor-nati nelle case dove erano vissuti? Erano nascosti, spaven-tati dopo essere rimasti per tanto tempo nella stanza diGracchini e disabituati al mondo?

Tutti quei respiri erano una cosa seria e Glicerio tanto ciaveva pensato che gli avevano bendato l’occhio in fiammeper la preoccupazione.

“Con quest’occhio diventerò matto… ma se mi segnalaqualcosa allora non è solo un male… Io sono in tempestae non c’è più pastiglia che la calma… Insomma, insom-ma… Sediamoci a facciamo il punto. Ho bisogno di carta,non ce la faccio a tenere tutto nella testa…”

In cartoleria comprò un quadernetto azzurro. Si sedetteal tavolino di un bar, sotto un grande oleandro, ordinòuna birra e un panino, spianò il quaderno, tolse il tappoalla penna e scrisse:

«I respiri delle bottiglie di Gracchini sono vivi quantol’essenza di Guglielmino Redenti. Secondo me sono lostesso tipo di vita. Se io radunassi i respiri e li portassi alprocesso, forse potrebbero testimoniare che loro la forzadi ammazzare ce l’hanno o non ce l’hanno. Tanto è questo

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Speravano che questo calore quasi alcolico che li avevainvasi e che gli faceva prudere un’altra volta le palme del-le mani non sarebbe mai cessato e pensavano, guardandoi loro padri tremolanti, che è troppo breve il tempo con-cesso per conoscere.

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– Io sono un ultimo fiato, il rappresentante di tutti gliultimi fiati concentrati da Gracchini. Io, questo è il miocaso personale, sono morto con mia moglie che mi tenevala mano anche se non volevo, ma ero troppo debole peroppormi, avvocato. Non la volevo, non la volevo mia mo-glie. È lei che ha permesso a Gracchini di mettere il mioultimo fiato in bottiglia e ora, anziché essere dove dovreiessere, sono qua mezzo vivo e mezzo morto.

Araceli recuperò la voce e un sopracciglio che diventa-va alto e severo:

– Mi dica ancora, e me lo dica meglio, cosa è venuto achiedere.

– Vogliamo essere difesi dall’accusa di avere ucciso noiil professor Alberico Gracchini.

– Chi vi accusa?– Sinora nessuno… Però, ve l’ho detto, un certo com-

missario Glauco Glicerio ci cerca, ci sospetta di qualcosache è connesso all’omicidio dell’odioso Gracchini anchese, pare, un odore di pesca trovato nella cella puzzolentesia il segnale di un omicida del quale poco si sa… Noi Ul-timi Respiri non profumiamo di pesca…

Francesco Araceli riprese la padronanza delle propriesopracciglia, gli servivano e gli servivano ora, subito:

– Insomma, – diede una manata sulla scrivania che emi-se un rimbombo legale, – chi siete? Se siete qualcuno…

Il respiro rappresentante di tutti gli altri ultimi respiriaveva preso la forma più compatta possibile, però restavauna certa trasparenza che aveva lasciato senza parole l’av-vocato. Sembrava un uomo, questo sì, però senza moltamateria, non molto denso ma ad Araceli che lo fissavasembrò presentabile, sì, presentabile alla Giustizia. Per-

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il sugo del processo. Guglielmino ce l’aveva la forza diammazzare? La dottoressa Paneangelico può pensarequello che vuole… lei fa discorsi di diritto, discorsi folli,sente le voci… e il processo a un fantasma sembra chepiaccia a tutti… Figuriamoci l’avvocato Petinicchio… fe-lice di paralizzare, rallentare, fermare, obiettare… Ma iodevo trovare i respiri che il vecchio Gracchini aveva im-prigionato… Quelle sono anime che il vento si è preso emagari non le ha neanche sparse in giro ma sono raggrup-pate dove le ha spinte il vento… Ma come le riconosco?Sono respiri e non avranno forma… Come faccio, comefaccio?»

* * *

Una luce dorata e serena che non abbaglia e riposa. Dal-le finestre aperte si sentiva l’aria fresca del tramonto diEpipanormo.

L’avvocato Francesco Araceli aveva sopracciglia teatra-li e le spostava in tutte le direzioni proprio come un attore.Ogni direzione aveva un significato e i suoi clienti - anchequelli più tardi - avevano imparato a comprendere comeandavano le loro cose più dalle sopracciglia che dalle pa-role dell’avvocato il quale, tra il teatrale e il forense, usavaanche la voce come uno strumento che doveva far capiresolo dal suono quale era la direzione giuridica delle cose edove era orientato l’ago magnetico della giustizia.

Quella sera, però, sopracciglia e voce erano tutt’e due inuno stato di paralisi da alcuni secondi.

Araceli si alzò e guardò da vicino il nuovo cliente:– Lei sarebbe? Lo ripeta.

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dal presupposto accettato da tutti che voi siete… io vi ve-do e vi sento, e voi siete, siete… Se incominciamo da qui,dal vostro essere…

Le sopracciglia di Araceli diventarono cupe e feceroombra da quanto erano preoccupate.

Il Respiro diventò più compatto ancora:– Lei vuole almeno ipotizzare una nostra difesa… ho

capito bene? Nella sua testa sta imbastendo una difesa…Sono emozionato!

– Lei sente emozioni?– E lei, lei avvocato non teme il ridicolo, bravo… Ci

avevano parlato di una personalità forte e saggia…Le ciglia di Francesco Araceli si preoccuparono di nuo-

vo:– Certo, certo… ma uno spiraglio, almeno uno spira-

glio… Vedete, Professor Foramini…Gli mancavano parole. Quelle che usava di solito ora

non bastavano. Un respiro, l’ultimo, era davanti a lui a di-mostragli qualcosa di troppo grande… Sì, era la forza delsovrumano a indebolirlo.

– Professor Foramini…– Ci difenderà, avvocato? Noi siamo liberi respiri e non

vogliamo che la memoria di un assassinio ci resti addossoneppure come leggenda…

– Chi mi paga?Oreste Foramini diventò ancora più chiaro e più aereo,

un tonico, sembrava a Araceli, un sedativo:– Davanti a Epipanormo, in mare, in un punto che si

può ricavare tracciando una retta che va da capo Icone acapo Sandalo stando sul bastione della Porta Grande,quando le basse maree sigiziali sono al massimo, in quel

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ciò gli altri respiri avevano mandato lui. Gli altri non do-vevano essere così vicini a una sembianza da poterseneandare in giro.

Se questo respiro, al quale bisognava dare subito un no-me, era lì, significava che voleva un consiglio giuridico op-pure, addirittura, voleva essere assistito… Francesco Ara-celi aveva fatto la professione, era stato senatore per duevolte, aveva difeso gente importante, vinto processi im-portanti… ma, chiuse gli occhi, e pensò a tutto quello chesarebbe potuto succedere se lui avesse preso la difesa di unultimo respiro, anzi, di tutto un gruppo di ultimi respiri.

Che il respiro potesse avere una personalità giuridica…beh, questo si sarebbe potuto vedere… era da vedere…Ma quello che non si sarebbe potuto stare a vedere, nésopportare, sarebbero state le risate, le conseguenze ine-vitabili del ridicolo, entrare nella storia del palazzo comeun comico… non era un pagliaccio, lui… lo rispettavano,lo cercavano…

Il Respiro che rappresentava tutti i respiri imprigionatida Gracchini capì l’imbarazzo dell’avvocato Araceli:

– Avvocato, tra noi respiri, il destino ha voluto che nonci fossero avvocati. Gracchini ne aveva paura anche dopomorti… Io ero un professore di liceo, archeologo dilet-tante, archeologo.

– Come si chiama lei?– Ero il Professor Oreste Foramini.Araceli aveva ripreso colorito ed era molto serio. Non

capiva cosa aveva davanti ma era una cosa importante disicuro:

– Professore, se voi eravate e non siete, allora non c’èpiù nessuna speranza, – Araceli ragionava. – O partiamo

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Epipanormo… E le scorie giù a Talattone… tutto in equi-librio… e l’equilibrio è armonico, s’intende… Le due pa-role, armonia ed equilibrio…

Araceli non era un uomo di fede, perciò soffrì a crederema sentì, sentì proprio, un tepore rasserenante arrivareda Foramini.

– Sentite, Professore, datemi le prove che questa statuadell’Armonia esiste, che questa Ptea sarà vista da tuttiquelli di Epipanormo e da tutti quelli che verranno quaper trovare tranquillità davanti a Ptea… Io farò barricatecontro il ridicolo, muri, bastioni e fossati… E noi, me etutti i respiri, ce ne staremo insieme a questa Ptea chemetterà ordine alle cose… ordine…

Foramini spremette dalla sua figura trasparente una la-crima poco densa che evaporò subito.

– Avvocato, me lo avevano detto che siete un uomo aper-to e intelligente… Voi lo sapete da dove arriviamo… Nonvogliamo che la grazia dei fondatori scompaia…

* * *

Enrico Ricasoli piangeva, però non di disperazione eMelania lo teneva tra le braccia dove lui vedeva un’oscu-rità confortante, non proprio buio ma una penombra chelo faceva sentire un malato convalescente, uno che se l’èscampata e adesso il pericolo lo vede allontanarsi comeuna stazione superata dal treno in velocità.

– Cosa vuoi che sia un processo, Melania… Cosa vuoiche sia davanti a questo Guglielmino Redenti che ha pre-so forma, colore e calore davanti a noi? Abbiamo risol-to…

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punto, sotto un mantello di alghe conservative, si trovauna piccola dea naufragata e intatta, una dea di bronzocon gli occhi di lapislazzuli e il nome inciso sulla base. Ilnome della dea o della ragazza, magari era semplicemen-te una ragazza… insomma il nome ha un suono che parteproprio dalle labbra, si chiama Ptea, provate e sentite co-me battono le labbra a pronunciarlo…

Araceli provò:– Ptea, Ptea… – In effetti le labbra battevano in un mo-

do dolce e poi la lingua sul palato.– Ecco, avvocato, Ptea era il segreto della mia vita. Per-

ciò non avrei voluto mia moglie vicina al momento del miotrapasso. Lei non ne capiva nulla. Ora, il segreto lo metto adisposizione vostra e di tutti i respiri scappati dalle botti-glie di Gracchini e che al momento si nascondono…

– Dove si sono rifugiati? – Araceli era di colpo pallido estanco, davvero come se davanti si fosse trovato l’aldilà,una specie di sfinimento del corpo ma un lumicino nuovoin fondo in fondo.

– Sono tutti sott’acqua, vicino a Ptea e la guardano tutticommossi…

L’avvocato aveva il colore di uno graziato al quale han-no appena staccato il cappio dal collo:

– Guardano una statua e sono commossi… Gli UltimiRespiri…

– E aspettano il mio ritorno… Loro sono sereni ades-so… Chi vede Ptea capisce che non c’è cosa che l’occhiodeve guardare con terrore perché tanto su tutto dominasenza rivali l’Armonia… I vari Gracchini provano a di-struggere… Ma tanto vince l’Armonia… La città è cre-sciuta davanti a Ptea sommersa… ed Epipanormo resta

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Ei

Era bella, le doghe lucide, la vela col bordo azzurro eun occhio disegnato al centro.

– Venti metri? E la vendi in fretta e furia, Cleoptico? –domandava Nicteo guardando la nave tanto elegante dasembrare una nave da donne, da donne giovani, ragazze.

– Sì, venti metri e la vendo con tutto quello che c’è so-pra. Vi parlerò con franchezza, – si guardava intorno con-tinuamente e sudava, – ad Atene dicono che sono un im-broglione, un ladro senza scrupoli. Qui al porto nessunocomprerebbe neppure un chiodo da me. Nel mio demohanno smesso di salutarmi. Mia moglie se n’è tornata nelsuo paese in Beozia. Non ho figli. Ero ricco e ora mi resta-no quattro schiavi e un patrimonio che è questa nave. È ildestino dei ladri.

Peante guardava Cleoptico - ladro per sua confessione -lentamente in ogni particolare e guardava la tunica che simacchiava di sudore. Cleoptico aveva un occhio più gran-de dell’altro, rosso fiamma e sembrava che volesse usciredalla testa, forse per guardare lontano se qualcuno lo in-seguiva.

– È già qualcosa che un ladro dica di esserlo. È un belpasso avanti per te… Vivrai meglio… Ma a noi serve unanave che non affondi. Non basta che galleggi vezzosa nel

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– Hai risolto…– Ho risolto la faccenda della paura. È fatta, è fatta…

Tutta la vita che desideravo vedere un fantasma… Ecco,ecco…

– Hai la febbre, Enrico – disse Melania togliendogli iltermometro dall’ascella.

– Che razza di febbre è? Di sicuro me la sono presastando vicino alle finestre per evitare la polvere di Peti-nicchio. Hai visto quanta glien’è venuta fuori quando si èmesso a gridare “Al processo, al processo!”? Sei sicurache sia l’avvocato giusto?

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non so chi siete e non so cosa vi passa per la testa. Io sonoun disonesto e so riconoscere meglio degli altri le facceoneste… Qualsiasi colonia, qualsiasi città… nelle terredel Gran Re… dove volete! Io sarò sempre con voi con latempesta e con la bonaccia.

Ormai non guardava più Nicteo e Peante, fissava la stra-da che univa il Pireo alla città e stringeva le mani dei duegiovani come sollecito pietoso.

Peante domandò:– I cavalli?– Da me non li comprerebbe nessuno, vendeteli voi, –

rispose Cleoptico sempre più impaurito. – Io salgo a bor-do e aspetto, aspetto.

Vendere i due piccoli cavalli fu facile. Li scambiaronocon provviste, strumenti, vestiti, sementi e anche un albe-rello persiano che, disse il mercante, avrebbe prodottofrutti dolci, profumati e con una buccia vellutata.

– Come si chiamano i frutti di questa pianta? – avevadomandato Peante.

– Chiamateli come volete.Poi Cleoptico accompagnò Nicteo e Peante nella stiva

dove, avvolta da una vela, videro una forma umana. Si spa-ventarono e pensarono per un momento che Cleopticofosse anche un assassino. Ma quando il ladro svolse la velavidero, così sembrò ai due ragazzi, la statua più bella…

Gli si rizzarono i peli… Videro l’occhio universale diCleoptico scolorire e diventare rosa… Sentirono un’ondadi caldo venire da dentro il cuore e andarsene sino alleestremità… Una dea di bronzo con gli occhi azzurri, unadea di sicuro, visto che creature come questa non ne ave-

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porto. Siamo già andati per mare, Cleoptico, e sappiamoche non basta sacrificare capretti ai venti per approdaresani e salvi.

Cleoptico era un uomo ben fatto. Lo tradiva però l’oc-chio gigantesco che subito metteva in allarme chi aveva ache fare con lui:

– Parto con voi a garanzia della merce. Mi butterete inmare se la nave non va bene. Ma è un portento anche conBorea scatenato.

Nicteo rise:– Se la nave non va bene ti butteremo in mare, va bene,

però in mare ci finiremo anche noi subito dopo, caroCleoptico. Non sei una bella garanzia.

– Ma io devo lasciare Atene e questo paese, devo, capi-te?

Dalla faccia dell’ateniese scomparve ogni traccia di di-sonestà. Scomparvero trame, imbrogli e furti. Apparve ilverde della paura e il sudore aumentò tanto che sembravaun uomo appena ripescato dall’acqua. L’occhio iniziò apulsare per scappare prima del padrone:

– Tutta la verità, ve la dirò tutta. Ho venduto la casa e leterre, ma gli schiavi sono qui con me. Io devo lasciare Ate-ne perché il tribunale mi aspetta domani e io oggi devoscappare sennò finisco lapidato… Lapidato, legato a ter-ra, il mio sangue impastato alla polvere, aspettando la pie-tra più grossa che mi sfonda la testa, lanciata da uno cheneppure sa chi sono…

Quante volte aveva visto i condannati subire la pena eora se la rivedeva davanti agli occhi che gli si riempivanodi lacrime:

– Adesso mi capite? Ascoltate, non so dove siete diretti,

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– Nicteo, due donne a bordo! Non sembrano bellezze, èvero, ma con l’aria di mare e il viaggio chissà cosa succe-de! – disse Peante all’orecchio dell’amico.

– Hai paura di due donne?– Beh, hai visto cosa portano con sé le donne.– Senti, noi andiamo a cercare un luogo benedetto da

Apollo, dove all’alzarsi delle Pleiadi possiamo sentire ildio che canta. Andiamo dove nasce il vento che purificaanche l’anima più nera, dove la vita è dolce. Costruiremotempli e case… E tu ancora con questa faccenda delledonne e dello scolo. Ioppe e Ifianassa sono due schiave enon due ballerine. Insomma, vuoi provare o no? Vuoitentare o no? Sempre discorsi da pastore… Non cambi,non cambi…

Peante non rispose: accettava. Quanto alla faccenda delpastore pensò che ce ne sarebbe voluto di tempo per di-menticare pecore e ovile… Anzi, non se lo voleva propriodimenticare il suo cosmo così piccolo, tanto piccolo chegli era venuta la curiosità, un prurito irresistibile per ilquale adesso era lì.

Il sole era a metà del tragitto quando salparono. Usciro-no dal golfo incrociando imbarcazioni di tutte le formeche trasportavano ogni genere di faccia.

La nave era davvero agile e elegante.– A quest’ora domani sarei nello spiazzo della lapida-

zione, – mormorava Cleoptico affacciato alla murata.– Scappare! Che sensazione grande e profonda! Non so

descriverla, amici!Nicteo ripensò al teatro e a quante volte aveva visto l’at-

tore vestire il mantello grigio del fuggitivo:

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vano mai viste e la natura non ne aveva prodotte di donnecosì… il naso perfetto, il collo e le spalle, i fianchi… L’ar-monia e l’eternità. Quanto ne avevano parlato… E adessoloro l’avevano comprata.

– L’occhio celeste è di lapislazzuli, – disse Cleoptico co-me se l’avesse fatta lui. E invece l’aveva rubata.

– È il ritratto di una ragazza della Calcide morta d’amo-re. Si chiamava Ptea. I genitori hanno voluto conserva-re… Mi sono liberato di tutto prima di fuggire ma di que-sta ragazza no.

– E tu l’hai rubata ai genitori?– No, no, sono morti anche loro.– Ptea… Ptea… – disse Nicteo mentre l’accarezzava: –

Che bel nome!– Senza neppure un velo! – disse Peante fissando i ca-

pezzoli all’insù della ragazza che sembravano unirla alcielo.

– Questo è l’intero che contiene tutto come diceva Eche-crate… Cosa vuoi che se ne faccia di un velo, Peante?

Ricoprirono la statua e pensarono che, se nel paese de-gli Iperborei gli sarebbe stato concesso uno spazietto, al-lora là avrebbero messo la statua di Ptea, e intorno avreb-bero costruito la casa e si sarebbero consolati a guardarla,loro, i figli e i nipoti.

Non parlarono degli Iperborei a Cleoptico e tanto me-no al marinaio Porfirio, un fenicio giovane ma tutto ru-ghe salmastre, che assoldarono per poche dracme.

Nicteo e Peante si ricordarono di avere nelle bisacce lapozione contro lo spurgo ricorrente quando si accorseroche gli schiavi di Cleoptico erano, sì, quattro, però dueerano ragazze, ossute, malnutrite, ma ragazze.

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fortuna Porfirio gridò da prua moltiplicando le rughe inviso:

– Vento da terra! Ci allontaniamo veloci! Aiutatemi allavela!

Zittirono tutti. Avevano capito che il viaggio era inizia-to e quando l’isola di Salamina diventò un profilo scuro apoppa, nessuno provò più desiderio di parlare, anche seuna forza nuova e refrigerante circolava nelle vene diognuno.

Il mare era alto, scuro ma sereno. Solo nel suo fondo,dove non arrivava la luce, dove i pesci non hanno occhi,dormiva borbottando, lontana dai due giovani, la paura.

* * *

Nicteo, Peante, Cleoptico, Porfirio il marinaio, Tideo eSicano gli schiavi, Ioppe e Ifianassa le schiave ossute, tra-scorsero sulla nave tre stagioni, dal mese delle Ecatombisino a Targelione. Andavano sempre a nord.

A nord abitavano gli Iperborei ma Nicteo e Peante nonsapevano in quali terre e neppure quanto mare dovevanoancora attraversare.

Quando trovavano isole - e ne trovarono tante - quan-do vedevano città, quando incrociavano altre navi, la ne-cessità di vedere e parlare con altri uomini diventava piùforte di ogni cosa e allora si fermavano. Gli schiavi vole-vano spiegare che erano diventati liberi e Cleoptico cheera un uomo onesto. Porfirio cercava altri Fenici. Cosìconobbero altre città e altre razze, fecero provviste di pa-role, ma non incontrarono nessuna gente volante che vi-veva duecento anni.

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– La fuga! La fuga, caro Cleoptico, non è riservata soloai ladri. Qualche volta scappano anche gli onesti. Anzi, saicosa credo? Credo che un uomo più è onesto e più scappacol mantello spinoso che lo fa sanguinare dappertutto.Ecco, ecco!

Peante temeva in cuor suo i ragionamenti di Nicteo ilquale da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di alli-sciarsi i capelli quando iniziava un discorso impegnativo,ma se ne restò zitto mentre l’amico continuava.

– Vedi, Cleoptico, anche noi scappiamo, ma non ci in-seguono altri uomini.

– E da cosa scappate? – domandò il ladro che, man ma-no che si allontanava dalla costa riassumeva la sua espres-sione da sparviero e l’occhio diventava di nuovo una mi-naccia.

– Noi scappiamo e inseguiamo allo stesso tempo.– E cosa inseguite?Peante guardò l’amico pensando a quanto ne avevano

ragionato insieme all’ombra, masticando erba cipollina:– Il demone Fobos ci insegue, questo è certo. E davanti a

lui, o ti mancano i sensi o te ne vai nella direzione opposta.Così scappiamo cercando un posto dove la paura non c’è.

– Oppure, – aggiunse Peante, – un posto dove almenoce la possiamo dimenticare.

Cleoptico era sensibile all’argomento e di nuovo verdeper i cattivi pensieri:

– Fobos ci insegue ovunque andiamo, è vero. Ma è an-che una questione di distanze: è molto peggio quando tiinsegue da vicino come succede a me.

– Prima o poi si avvicina a tutti… – rispose Nicteo.La discussione era di quelle che sfinivano Peante. Per

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zi, veniamo da un villaggio delle montagne dove le don-ne sono oneste in un altro modo.

– Diventiamo dieci, Peante! Non è così anche tra le tuepecore che tu porti sempre come esempio di saggezza di-vina?

Zittirono di colpo perché sentirono un grande bronto-lio nel fondo della nave.

Guardarono tutti il mare e stettero ad ascoltare ilbrontolio, un rimbombo.

Videro gabbiani che fuggivano verso sud. Provaronoun gelo improvviso. Da nord sembrava che l’orizzontenero stesse per avventarsi contro di loro, ma non rico-nobbero subito la paura.

Porfirio piegava la vela gridando:– Ecco cosa viene dalle terre del nord che voi cercate!

Tutto quel nero là in fondo è Borea in persona che vieneverso di noi! Cleoptico, ora vedremo se questa nave dadonne è davvero resistente. Tra un po’ non sarà più vergine.Speriamo che non senta dolore e non perda troppo sangue.

Tutti si legarono all’albero, salvo Porfirio che si legò altimone.

Videro un’ombra nera distendersi sull’acqua e gonfiar-la. Il rumore delle onde e del vento diventò così forte chenon si sentì altro suono. La nave teneva la prua dritta ver-so l’oscurità. La capretta Ipsi non stava in piedi e Cleop-tico se la legò al braccio. Peante chiuse gli occhi pensan-do ai prati e agli alberi del monte Citerone.

Andavano veloci verso un’oscurità più nera ancora. Ilmare… un’infinita bolla nera dalla quale non sarebberousciti più… caduti oltre il margine del mondo.

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Ioppe e Ifianassa erano ingrassate perché mangiavanofinalmente ogni giorno e l’aria del mare le aveva abbelli-te, riuscivano a mantenere lucide le capigliature nere, acolorare le labbra e anche a profumarsi. Tideo e Sicanose n’erano rimasti in silenzio solo i primi giorni dopo lapartenza, e quando si erano resi conto che la loro vita eradavvero cambiata in meglio, rivelarono un carattere alle-gro.

La pozione fumante non servì: nessuno scolo apparvedurante il viaggio.

E intanto andavano ancora a nord conoscendo isolenuove e popoli nuovi.

Nicteo e Peante continuavano a parlare degli Iperbo-rei solo tra di loro e aspettavano il momento in cui il redei gabbiani avrebbe annunciato che le città degli uomi-ni erano finite e che là, finalmente, dovevano sbarcare.

Ioppe e Ifianassa iniziarono a vomitare tutte le matti-ne, ad arrotondarsi sempre di più e assunsero un aloneche le fece apparire ancora più belle. Durante un appro-do in una città fenicia comprarono una capretta per da-re latte alle due donne. La chiamarono Ipsi.

Non vedevano terra né navi da venti giorni e ormai, se-condo i loro calcoli, il mese di Targelione stava per ter-minare.

– Oneste? – domandava Peante?– Sì, l’onestà è ornamento di queste donne.– Ma se non sappiamo di chi sono i figli che si portano

dentro!– Avranno cinque padri.– Sarà così tra gli Iperborei. Noi veniamo da Atene, an-

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Avevano visto la terra in un momento.Una farfalla folle e stanca veniva da terra e aveva perso

la speranza. Si lasciò cadere sulla nave e si mise contro-vento a riposare le ali.

Momenti, pensava Nicteo. Ed erano ancora così giova-ni. Momenti. Tutti messi in fila ma senza ordine, micamessi lì l’uno per preparare l’altro. Che disordine… Vita acaso. Trovarci un filo, ecco cosa volevano più di tutto, otrovare almeno l’inizio del filo. Il resto lo avrebbero cer-cato gli altri dopo di loro… Una vita sola non basta.

Il popolo leggero degli Iperborei magari non abitava là,ma quello era un approdo perfetto e la sabbia una cullacalda.

Nicteo non sapeva se avrebbero trovato il popolo vo-lante ma - e l’idea era chiara nella testa - pensò che sareb-bero arrivati lui e Peante ad avere una barba bianca con laquale distillare per tutti la storia della città iniziata pro-prio da loro due. Sarebbe stata una parte del filo che cer-cavano e che non si sarebbero mai più fatti sfuggire di ma-no. E pensò anche al ritrovamento miracoloso della statuaperfetta di Ptea e alla meraviglia del pescatore che nellesue reti avrebbe trovato il fiore degli anni eterno di Ptea.

– Ptea, Ptea… come battono le labbra quando si dice iltuo nome… In fondo al mare per cacciare la paura daquesto golfo…

* * *

Dalla rocca alta scendevano tre torrenti ripidi che fini-vano in una grande laguna salmastra. A occidente unpromontorio e ancora stagni. Luce, tanta luce che Nicteo

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Era proprio paura quella che sentivano?La statua! È di bronzo.– Ptea, Ptea, dobbiamo sacrificarti alle acque… la per-

fezione alle acque!Cleoptico riuscì a fare scivolare la statua fra le onde fe-

roci e poi si mise a piangere.Al buio, improvvisamente, tutti videro gli occhi grandi

della paura e sentirono una mano gelida che se li pren-deva per la nuca. Allora capirono, chiusero le palpebre ecercarono l’ultimo pensiero.

Quando il buio era ormai quello dell’aldilà e uno strap-po della nave sembrò il salto nel nulla, proprio allora av-venne, di colpo - se lo sarebbero ricordati sempre - che lostupore e la gioia arrivarono con una folata tiepida, roseae benefica che cacciò via l’ombra nera e tirò giù il mare.

Il prodigio di Ptea.A Peante sembrò di vedere un cocchio d’oro in cielo.Cleoptico vide i delfini.Sole e azzurro riapparvero improvvisamente come se

avessero aperto una porta immensa per fare entrare la lu-ce e le onde diventarono riccioli. Sentirono la pelle pizzi-care per i raggi dorati e gli occhi smisero di bruciare.

Guardarono tutti a sud e videro l’ombra nera allonta-narsi arrabbiata, prepotente, che si contorceva e si tiravadietro schiuma e gorghi.

Poi guardarono a nord e aprirono le bocche rotonde.

Era apparsa la costa, bianca come il ghiaccio, alta sulmare e più in basso una piana che si confondeva con l’ac-qua. Tutto scintillava immobile. Il vento che arrivava daterra lo respirarono tutti in silenzio e la nave era beata.

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Peante ha trovato sterco di pecora e troveremo, per logicaconseguenza, anche il latte. Porfirio conosce bene il maree le rotte, ora sa dove si nasconde Fobos e lo eviterà. Il ma-re ci terrà uniti agli altri uomini. Cleoptico qui può cam-minare senza guardarsi alle spalle, senza temere pietre egiudici, ma dovrà essere onesto. Tideo e Sicano sono libe-ri, s’intende, ma dovranno lavorare la pietra. Insomma,noi siamo una razza fondatrice!

Peante, reso mistico dal luogo, smise di cercare sterco dipecora e disse:

– Epipanormo! La chiameremo Epipanormo! Le stra-de, i pozzi, i giardini nella città alta e la piazza! Le stradededicate a Apollo! Sarà un’età dell’oro e i nostri nomi sa-ranno scritti in eterno…

Ma Ifianassa strillò:– Le acque, le acque si sono rotte! Aiuto! Non ho mai

messo al mondo un bambino! Chi mi aiuta in questo po-sto senza templi?

L’energia che spingeva fuori il figlio di Ifianassa e dell’e-quipaggio era più forte dello scalpello col quale Peantevoleva incidere nella pietra i loro nomi. Il primo nato diEpipanormo era più forte di tutto. Ptea li avrebbe aiutatidal fondo del mare.

Trascorsero la notte a proteggere il bambino dalle zan-zare ubriache e felici perché non avevano mai succhiatosangue umano.

* * *

Le tracce di pecora avevano affascinato Peante che giàsi immaginava un ovile, latte e formaggio. Così il giorno

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e Peante credevano che ne sarebbe rimasta anche per lanotte.

Ognuno immaginò, senza dirlo, ricordandosi la tempe-sta, che il promontorio a occidente sarebbe stato il loro ci-mitero e avrebbe confortato la loro trasformazione in er-ba e alberi.

Tideo e Sicano aspiravano l’odore della terra.Ioppe e Ifianassa tenendosi le pance rotonde si sedette-

ro in riva al torrente per togliersi di dosso il sale.Cleoptico non aveva momentaneamente la faccia del ra-

pace, guardava il luogo intatto e si fregava delicato l’oc-chio gigante che guardava intorno e girava veloce.

Nicteo camminava incantato vicino a Ipsi, contenta do-po tanti giorni di mare. Erano tutti sopraffatti dal silenziosovrumano.

Peante che era corso avanti gridò:– Sterco di pecora! C’è sterco di pecora! Questo posto

magari è abitato!Ma per tutta la giornata non trovarono anima viva e

continuarono sino al tramonto a fantasticare, ciascunoper proprio conto, sparsi tra la rocca e la pianura, sul lorodestino che si stava legando a questi luoghi.

La sera Nicteo ebbe un’ispirazione e, allisciandosi i ca-pelli, illuminato dalla luna disse:

– Tutti oggi abbiamo pensato che il viaggio è finito, tut-ti! Non siamo giunti al confine della terra come ci è sem-brato per colpa della paura, terra ce ne sarebbe ancoratanta. Però qui c’è un porto, c’è una rocca dove rifugiarsie costruire palizzate e mura di pietra. C’è acqua dolce epiù di una fonte da consacrare. La temperatura è mite.Ioppe e Ifianassa partoriranno i nostri figli tra poco.

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ho visto e tu saresti l’inizio migliore per la città. Epipa-normo dovrebbe incominciare da te e resisterebbe a tut-to, sempre.

– Io abito sui monti, Peante, e vengo qui con le pecoredi mio padre perché il vento della mia città non smettemai e qualche volta è troppo forte, mi stordisce e me nevado a cercare altri pascoli.

Il vento che non smette mai? Peante domandò:– Tu abiti in una città del vento?Melania sorrise e gli alberi ondeggiarono di piacere:– Da noi il cielo è così pulito per il vento che i saggi con-

tano le stelle ogni notte. Non hanno ancora finito di con-tarle tutte ma la costellazione del Sagittario li protegge eli solleva da terra, li cosparge di polvere argentata cosìche si vedono anche la notte, e svolazzano in tutte le dire-zioni per segnare le stelle sui loro papiri. Borea nasce daqueste parti. Però io, ogni tanto, devo cambiare aria.

Borea nasce da queste parti? Peante sentì le gambe de-boli:

– E tu vieni qui senza protezione? Non hai paura?Lei sorrise e tutto si mosse ancora intorno:– Il demone Fobos? Sappiamo che Fobos accompagna

i guerrieri nei campi di battaglia, non ce ne importa, nonci sono battaglie da queste parti. Io cerco altre terre per lemie pecore.

Peante si sedette. Era possibile quello che gli stava pas-sando per la testa?

– Tuo padre si chiama Iperoche? È un pastore come ilmio?

– Mio padre è il re della città.– E la città è lontana? – domandò senza più forze per-

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seguente, alla prima luce, tanta luce, iniziò a cercare pa-scoli possibili. Salì verso il bosco sulla rocca da dove ve-deva la nave nel golfo tranquillo. Il vento produceva tragli alberi un suono che non sentiva da molto tempo.

Udì un belato e corse verso le rocce da dove proveniva,pensando che se c’erano pecore c’era anche il pastore.

Un polpaccio brillò sopra di lui tra la pietra bianca.Peante sentì il rumore di un sandalo energico e saltò an-che lui sulla roccia.

La donna non era scappata e Peante, di colpo, diventòun ragazzo di marmo. Una dea, pensò quando la vide inmezzo alle pecorelle, ma non balbettò:

– Mi chiamo Peante e vengo da Atene.– Vieni da molto lontano. Io mi chiamo Melania e sono

figlia di Iperoche, – sorrise.Peante si accorse che quel sorriso metteva in moto ogni

cosa intorno. Le lucertole uscivano dalle tane, il muschiorinverdiva, il vento si rallegrava e ogni cosa sembrava inrelazione con la pelle di Melania. Quella creatura era figliadi qualcuno che aveva pensato a tutto e Peante, messo inmoto anche lui dalla forza che da lei proveniva, disse:

– Noi siamo arrivati sin qui per costruire una città, unacittà completa col teatro, il tribunale, il cimitero. Serveun inizio anche se, forse, le cose sono già iniziate.

– Per il cimitero basterà il mare. Da noi usiamo il mare.Si seppellivano in mare? Un pensiero… ma lui conti-

nuò fissandola: – Io e il mio amico Nicteo abbiamo commesso una serie

ragionevole di errori, sofferto le stesse pene e sappiamo,più o meno, le stesse cose del mondo. Vogliamo, ti hodetto, fondare una città. Il tuo sorriso è il più bello che io

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Page 132: Giorgio Todde Ei

Nicteo, che ormai parlava come un capo pacificatore,disse:

– Molti di noi, probabilmente, erano biondi da bambi-no, chi può ricordarlo? Non ci sono qui le nostre madriper dirci come eravamo. Questi gemelli cambieranno, ve-drete, e i capelli diventeranno neri come i nostri. Oppurelo stesso Apollo, che è biondo, potrebbe conservarli conquesti boccoli dorati come augurio per tutti noi. È un se-gno divino!

Ma Porfirio aggiunse:– E gli occhi color cielo? Come si spiegano?Intervenne Peante:– Anche gli occhi cambiano colore, lo sanno tutti. Io

stesso, mi raccontava mio padre, avevo gli occhi chiari al-la nascita e ora sono scuri. Questi nuovi nati sono nostri fi-gli e cittadini della città che costruiamo. Dobbiamo dargliun nome, cibo, affetto, conoscenza e farne persone dicuore. Il maschietto lo chiameremo Palemone e la femmi-nuccia…

Ioppe era sfinita ma guardò Peante con gratitudine efiatò:

– Per la femminuccia un nome delle mie parti… Arisbe,la chiamo Arisbe.

Terminarono la casa in poco tempo. Mezzo casa e mez-zo capanna, di pietra e legno, li ospitava tutti. Da una par-te le donne con i bambini e dall’altra gli uomini. Un atriogrande e una sala dove fare il fuoco, mangiare e parlare.Quella era una comunità di conversatori dove le parole -fatta la scorta ad Atene - avevano un peso così grande dadare forza a tutti.

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ché iniziava a convincersi d’essere arrivato dove avevaimmaginato d’arrivare.

– È a nord. Tre giorni di cavallo. Io non ho la polvereargentata che rende leggeri ma conosco il cammino.

* * *

Nicteo teneva in alto il bambino di Ifianassa:– Lo chiameremo Minio, così sarà protetto da Nettuno,

casomai gli venisse la voglia di andare sul mare da gran-de. Sei d’accordo Ifianassa?

Ifianassa era nata in oriente e non capiva i nomi greci,ma gli sembrò un bel suono.

Decisero riuniti in assemblea che la prima casa di Epi-panormo l’avrebbero costruita in alto sulla rocca biancautilizzando la stessa pietra della rocca. Tideo e Sicano sa-pevano tagliare la pietra e lavorare il legno. Porfirio dise-gnò una casa fenicia e decisero di costruirla vicino a unpozzo. Nicteo aveva scelto il sito. Cleoptico progettò lacostruzione di un molo con l’aiuto di Peante.

Una mattina di sole Sicano, mentre tagliava un’asse dilegno, sentì l’urlo di Ioppe da dentro casa:

– Le acque! Partorisco! Chiamate Ifianassa!Sicano chiamò tutti a raccolta. Così anche Ioppe, con

una facilità che sbalordì tutti, partorì, ma partorì due bam-bini piccoli e magri, un maschio e una femmina biondi.

Tideo teneva in braccio i due neonati e guardava intor-no tutti gli altri color nocciola e di pelo nero. Non c’eranobiondi tra i padri possibili e qualcuno si ricordò, senzadirlo, di una città in cui erano sbarcati molti mesi prima edove gli abitanti avevano i capelli d’oro.

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tro forse? E poi, nessuno si ammalerà mai da queste par-ti? Nessuno morirà? Io mi immagino con il labbro pen-dente, cieco e sordo e tu ti immagini marito di Arisbe cheè appena nata?

Nicteo si appoggiò sui gomiti:– Peante, cosa vuoi dirmi? Che non abbiamo speranza?

Che vorresti tornare ad Atene e poi di nuovo al nostro vil-laggio disgraziato? Riattraversare la tempesta che ci sia-mo lasciati alle spalle e che adesso ci aspetta da qualcheparte in mare? Credi che nessuno approderà più a questomolo e che qui non ci sarà mai vita? Insomma, che cosavuoi?

Peante raccontò di Melania e della città a nord, dove ilvento rendeva il cielo perfetto e i saggi studiavano le co-stellazioni guardandole da vicino. Perché non andare co-me ambasciatori e chiedere aiuto a quel popolo senzaguerrieri che aveva generato una creatura come Melania?Peante chiudeva gli occhi quando la nominava e vedevale gambe al sole e il sorriso che muoveva piante e animali.Non raccontò che ogni volta che era libero correva al pa-scolo a cercarla per parlare sino al tramonto con lei.

– Compreremo cavalli, Nicteo, altri schiavi e li liberere-mo. Così popoliamo la città alta e quella bassa, maturere-mo e invecchieremo sereni.

Nicteo rimuginava guardando in cielo il pulviscolo lu-cente:

– Non posso credere che siamo arrivati nella terra doveApollo viene a far festa… Non riesco a crederci, ecco. Lacittà del vento e i saggi volanti!

E se ne andò a casa silenzioso.

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Intorno alla casa, Nicteo, aveva piantato i semi e le pian-tine comprati al Pireo tra cui l’alberello persiano che do-veva dare fiori rosa e frutti profumati e vellutati.

Anche il molo era terminato e ora proteggeva la nave.Cleoptico e Porfirio avevano costruito una casa più picco-la, con un recinto di pietra, vicino al molo e avevano pian-tato delle viti sperando in un vino forte come quello chebevevano nelle taverne di Atene. Ora aspettavano i giornigiusti per seminare orzo e grano.

Ma dovevano pensare al tempio e affrontare il proble-ma delle colonne.

Una sera, distesi sulla sabbia, Nicteo e Peante guarda-vano la luna rotonda e la luna li guardava. Il mare era fo-sforescente, sereno ma pieno di forza. Qualche pulviscololuminoso spariva e riappariva in cielo:

– Siamo una piccola tribù, caro Peante, e noi siamo i ca-pi… i capi.

– Ho fatto dei calcoli, Nicteo. Se Ioppe e Ifianassa fa-ranno un figlio all’anno fra quattro anni saremmo dician-nove. Non è un granché. E non rispondermi che i bambi-ni non nascono come i capretti, lo so che questo non è ungregge. Ma è che per fare una città occorre più gente e perfare un popolo non bastiamo noi. Per ora abbiamo soloun bel nome per la città: Epipanormo.

– Noi siamo una tribù civilizzata, Peante. E poi io ragio-no guardando più in là di tre anni. Pensa a quando avre-mo i capelli bianchi e Arisbe avrà fatto figli con noi. Sare-mo cinquanta, sessanta, come il nostro villaggio. Avremoanche un teatro…

– Un teatro per sessanta? Al villaggio avevamo un tea-

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Apollo? Perfetta come quel monte che mi fa paura? Guar-dalo, un cono perfetto. Io comincio a essere preoccupatoe non so perché.

– Ti capisco, Peante.– Cosa dovremmo fare dopo che abbiamo trovato que-

sti Iperborei?– Credo che non ci resterebbe più nulla da fare, niente

più da apprendere e niente più da patire. Avremmo unabella espressione felice, non come Cleoptico che control-la ancora l’orizzonte temendo che arrivino per arrestarlo.

– Sarà obbligatorio anche per noi contare le stelle volan-do? Il mio posto è la terra. Sopra, da vivo, e sotto, poi.Quando in questa città innocente dove stiamo andandoleggeranno le commedie e le tragedie che gli portiamo indono, quelli in volo cadranno giù e quelli a terra saprannoquale razza di uomini popola il resto del mondo. Magaripenseranno che anche noi siamo come i personaggi dellescene.

Nicteo si arrovellava:– Beh, non è necessario che noi restiamo tra questi uo-

mini felici.Peante non era sereno:– Già, veniamo solo quando sentiamo sofferenza! Se

Ifianassa ci sembrerà una donna volgare allora verremoqui a cercare donne nobili. Se Porfirio ci sembrerà unmercante avaro allora ci rivolgeremo a qualche saggio vo-lante disinteressato all’oro.

– Basta, Peante! Sei tu che mi hai fatto conoscere Mela-nia…

– È vero, però è per una tua idea che siamo fuggiti dalvillaggio sognando di non sentire più il dolore al petto che

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Non aveva il coraggio di dire quello che sospettava, luiche raramente si faceva mancare le parole. Neanche Pean-te aveva avuto l’animo di chiedere a Melania altre spiega-zioni sulla città, sull’età degli abitanti e sugli astronomi chevolavano.

L’idea di essere arrivati dove avevano immaginato li ave-va privati dell’energia che sino a quel momento li avevamossi. Non pensarono che quello sfinimento, la delusio-ne che non confessavano, fosse naturale, un poco come latristezza che aveva preso Ioppe dopo aver messo al mon-do i due gemelli che aveva aspettato con tanti pensieri.

* * *

Quattro giorni di viaggio a piedi furono leggeri.Melania viaggiava col gregge e il cane Tikos che ricono-

sceva annusandoli i sentieri.All’alba del quarto giorno Melania si stiracchiava:– Questa mattina entreremo in città.Tikos sentiva odore di casa e puntava il muso dritto ver-

so un monte a forma di cono perfetto. Ma un dubbio eraentrato e procedeva nella testa di Nicteo e Peante. Nessu-no dei due aveva chiesto, durante il viaggio, il nome dellacittà e del popolo di Melania. Non avevano trovato il co-raggio per il semplice motivo che il paese degli Iperborei,se esisteva, forse non volevano trovarlo a quel punto dellaloro vita. Era troppo presto e per questo motivo, man ma-no che si avvicinavano alla città, si immelanconivano.

Mentre Melania si lavava a una fonte parlante, loro, sot-tovoce, dicevano:

– E se fossimo arrivati davvero nella terra perfetta di

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Iperoche aveva una voce levigata e trasparente – Certamente. Questa è la città che custodisce la freccia

del dio con la quale il nostro cittadino Abasi ha attraversa-to il mondo da una parte all’altra volando sopra le nostreteste.

Dunque erano arrivati proprio lì. Si sentirono deboli dicolpo.

– Siamo qui per un consiglio, re Iperoche, che siedi sultrono della pazienza. Noi chiediamo cosa dovremmo farein undici onesti sbarcati in queste terre con l’intenzione ditrascorrere la vita, per il tempo che ci spetta, proprio làdove siamo approdati. Abbiamo un ladro tra noi che èscampato alla lapidazione, ma ora è onesto anche lui. Treneonati da allevare e educare. Due donne da proteggere.Abbiamo attraversato quella tempesta nera che vi separadal mondo.

Iperoche zittì Nicteo che avrebbe continuato. Con ungesto radunò il consiglio e si ritirò.

* * *

Melania e Peante passeggiavano alle falde del monte acono.

– Peante, mio padre ama chi parla poco perché pensache per progetti onesti bastino poche parole. Molte, se-condo lui, nascondono un imbroglio.

Peante non staccava gli occhi dal monte geometrico:– Melania, Nicteo è fatto in questo modo, lui smania,

ma è onesto e vorrebbe una città in pace.– Anche io amo chi parla poco.Peante distolse lo sguardo dal monte e la guardò:

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ci ha oppresso con Echecrate, con Etilla, con la Pitia, loscolo verde, Giambe e Etemea… Qui non si suda, cammi-niamo da giorni e non abbiamo versato una goccia di su-dore!

– Ricordati, Peante, che abbiamo sofferto, è vero, latempesta è stata tremenda, ma poi è stato bello vedere ilsereno e la costa, ricordatelo. E la paura che scappava.

Apparve Melania.Così, senza discutere davanti al suo sorriso, continuaro-

no il cammino verso il monte a forma di cono ricordando-si i monti senza geometria del loro paese.

Quando il sole era a metà, videro le mura circolari dellacittà, lisce e bianche, senza porte, senza acropoli e senzacase di fango ma solo belle case bianche e rotonde. Mela-nia salutava i contadini nei campi e Peante notò che nonavevano calli.

Finalmente entrarono nella città rotonda e videro, am-mutoliti, il tempio di piume.

Conobbero il re Iperoche, un vecchio senza tremori, alquale non poterono raccontare nessuna novità di Ateneperché la conosceva e conosceva anche le commedie e letragedie portate in dono, interi atti a memoria. Ancorameglio conosceva Delfi perché, per ordine di Apollo, ognidiciannove anni, periodo entro il quale, spiegò, gli astricompiono una rivoluzione completa tornando allo stessopunto, mandava lì due ambasciatori della città.

Nicteo aveva fiducia ma temeva ugualmente le rispostedel re:

– Re Iperoche, questa è dunque la città dove il dio Apol-lo viene a riposarsi e a cantare i suoi inni all’alzarsi dellePleiadi?

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Concesse la libertà a trenta schiavi: quindici maschi equindici femmine.

Melania, Peante e Nicteo tornarono a cavallo a Epipa-normo guidando un gregge di pecore e un branco dimaiali.

Appena scomparve la punta del monte conico, Nicteoparlò agli schiavi allisciandosi i bei capelli:

– Iperoche, che sta nel palmo di Apollo, mi ha racco-mandato parsimonia con le parole. Dobbiamo costruireEpipanormo e voi non sapete cosa vi ha portato qua e per-ché il caso, a dispetto dell’armonia, vi farà fondare unacittà…

Non riuscì a terminare il discorso perché i trenta schia-vi, spingendo i gioghi di buoi regalati da Iperoche, canta-vano:

Fuggiam noia e pauracercando l’avventurache fa dimenticarequell’orrido animale,il mostro immaterialeche scaccia l’armoniae il cuor ti strappa via.

* * *

Gli astri avevano compiuto un quinto circa della loro ri-voluzione da quando Melania e Peante si erano sposati.Nicteo e l’amico governavano la città ricordando sempre,come aveva raccomandato Iperoche, i propri difetti e leproprie colpe.

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– Ami chi parla poco?Sentiva le parole agitarsi nella testa e poi depositarsi alla

rinfusa ma si decise perché anche lui sapeva dare un ordi-ne ai discorsi e lasciò fare alla testa:

– Melania, io, a costo di darti un dolore parlando, vogliospiegarti cosa mi ha passato da parte a parte quando ti hoconosciuto.

Lei si appoggiò a un albero e ascoltò.– Epipanormo è solo una casa sulla roccia, due colonne

per il tempio, ne mancano diciotto, un molo giù in basso eun pugnetto di persone. Tutto imperfetto. C’è anche unacapra che, comunque, non migliora il gruppo.

– È tutto da fare, non c’è nulla di male. Qui è già tuttofatto.

– Ci ha inseguito, ovunque siamo stati, la paura con labocca spalancata. Ma più di tutto, Melania, siamo scap-pati dalla noia. Temo le malattie, temo la morte, temo latempesta e temo la noia. Adesso sento tutti i momenti del-la mia vita, sudo nel paese dove nessuno suda, tremo. Me-lania vieni con me a Epipanormo? Costruiremo una casa,magari rotonda, se vuoi.

* * *

Iperoche concesse la fondazione di Epipanormo pro-mettendo aiuto e alleanza e, dubbioso ma arreso alla fi-glia, concesse Melania a Peante.

– La vostra città dovrà fare i conti con i venti che arriva-no da sud e portano odori e vapori di altri paesi. Bisognafare molta attenzione. Riceverete una volta all’anno unnostro saggio che mi riferirà sulla nuova città.

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l’ombra. Forse per questo curava l’orto con impegno tan-to che i frutti polposi delle piante persiane non erano maicresciuti così belli, gonfi di sugo e avevano profumato l’a-ria dell’orto.

Il suo naso faceva voltare tutti.Uno degli schiavi artigiani, Perimele, che a Epipanor-

mo viveva libero come tutti e che scolpiva la pietra,scolpì, ispirato da quel naso, dieci profili di Medina in unmedaglione di marmo e li usò come ornamento per diecidelle venti colonne del tempio di Apollo.

Perimele fu premiato da Nicteo:– Bravo, ecco dieci monete del nostro conio. Una per

colonna, bravo!Perimele pesò le monete che avevano da un lato l’effi-

gie di Nicteo e dall’altro quella di Peante e riprese a scol-pire. Il tempio veniva su.

* * *

Melania restò incinta un giorno di vento da nord e andòa partorire, accompagnata da Peante, nella sua città. Por-tarono in dono i frutti vellutati che Medina coltivava e cheneppure nella città rotonda conoscevano.

– Si dice che vengano dalla Persia, re Iperoche, non soche nome abbiano.

Arrivò al mondo un maschio con i capelli scuri che ilpadre e la madre allisciavano di continuo. Lo chiamaro-no Teedecteto. Ma c’era qualcosa negli strilli del bambi-no - mezzo iperboreo e mezzo no - che non si intonava al-le case rotonde e al monte a cono. Iperoche più lo osser-vava e più pensava che c’era qualcosa che non andava nel

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Da alcuni giorni il vento arrivava da sud.– È morta?– No, respira… – rispose Peante controllando il torace

candido che andava su e giù.La portarono sulla sabbia calda.– Che bel naso all’insù. Il più bel naso che…– Nicteo, portiamola al porto. Come è pallida!La naufraga era stata spinta con la zattera sulla spiaggia

da un vento benigno che poi aveva cambiato direzionedopo aver salvato il bel naso.

Nicteo e Peante l’avevano vista durante una delle lorodiscussioni su quello che è giusto e quello che non lo è.L’avevano vista nuda e bianca sulla sabbia, bagnata daonde gentili. L’avevano coperta e portata nella casa diCleoptico, al porto, il quale aveva da alcune stagioni ini-ziato a produrre un vino acido che subito aveva aperto lepalpebre alla ragazza e arricciato il naso parlante.

Medina si chiamava e veniva, senza dubbio, da moltolontano.

Ma la paura aveva cancellato per sempre la memoriadella giovane conservandole solo il nome, un bel nomeche a Nicteo aveva provocato una ben percettibile debo-lezza alle gambe. Il dolore aveva cancellato tante paroledalla testa di Medina che perciò parlava poco e, per farsicapire, usava come nessun’altra il naso che aveva avuto indono.

La ospitarono nella casa che Melania e Peante divide-vano con Nicteo.

Il pallore della naufraga non le scomparve mai più. Laragazza più bianca di Epipanormo e qualcosa in lei ricor-dava il colore delle foglioline giovani che crescono al-

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vinto che ce lo dovremmo immaginare come fuori di noi,un semplice anello di una catena di corpi, un corpo che dàluogo ad altri corpi. Allora, ho riflettuto, potremmo vive-re felici e senza paura perché la paura da qui viene, dal no-stro corpo, da dentro di noi. Capisci?

Peante continuava a fissare la ruga dell’amico che, aguardarla bene, gli sembrava ancora più profonda. Nic-teo proseguì:

– Questo ho pensato, e me lo sono anche scritto per nondimenticare il concetto che mi sembrava raro. Volevo an-che farlo incidere su una colonna al tempio: Vivi lontanodal tuo corpo. E provavo a uscire dal mio involucro, a se-dermi su una roccia e guardarmi da fuori. Ma non c’eraniente da fare, Peante, non ci riuscivo.

Il naso di Medina era attento e Nicteo si allisciò i capelli:– A Epipanormo siamo un numero definito di corpi e

ciascuno con la sua importanza. Il mio bel concetto hasmesso di respirare quando mi sono guardato intorno.Ho capito che io avevo nostalgia di Peante perché Peanteè fatto così e considerarlo un anello di una catena di carnemi faceva sentire ancora più perduto nell’universo e au-mentava la paura. Ecco! Che buon odore questi fruttipersiani…

Peante sorrise come sorrideva a Teedecteto:– E quando ti sei reso conto che non c’è barba di ragio-

namento che vince la realtà e che la realtà…Nicteo lo interruppe:– Quando non c’eri e ho temuto di perderti. Mancavi un

anno, non siamo mai rimasti così lontani da quando siamonati. E così un giorno, di colpo, mi sono visto questa rugache, pure, ne sono sicuro, non è nata di colpo, però c’è sta-

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bambino, qualcosa che, magari, gli arrivava da un altro po-polo.

Quando, secondo astronomi infallibili, si compì un an-no, Melania, Peante e Teedecteto ripartirono.

Videro Epipanormo più bella, i giardini più verdi, lestrade, botteghe nuove giù al mare, un’altra nave in co-struzione, i maiali moltiplicati e buoi che trascinavanopietre bianche per le mura. Trovarono Nicteo sulla sogliacon Medina il cui naso annunciava allegria.

– Che bella casa! E quanti spigoli! Dopo la città circola-re di Iperoche questa mi sembra la città dei pazzi! Tuttostorto, tutto a caso! Però respiro meglio qua! Meglio il ca-so! Persino Teedecteto è figlio mio, di Melania e del caso.

Qualcosa di impercettibile ma allo stesso tempo di radi-cale era accaduto in Nicteo. Peante se n’era accorto e smi-se improvvisamente di parlare guardando l’amico.

Nicteo era un altro Nicteo: la prima sottile ruga sullafronte.

– Nicteo! Il primo segno del lavoro, della fatica e maga-ri di qualche dolore… te n’eri accorto? In fronte ti è ap-parsa la prima ruga! E sei così giovane… Dovrò control-lare anche la mia fronte. Ho un figlio: avrò anch’io unaruga.

Nicteo era serio:– Ci sono specchi a Epipanormo, l’ho vista anch’io la

mia ruga. E ho riflettuto per giorni da solo. La ruga è solol’inizio.

Uscirono in giardino, sotto l’albero di Medina, e Nicteocontinuò respirando l’odore dei pomi persiani:

– Ho pensato a lungo al nostro corpo… e mi sono con-

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VII

Luce e vento, gli stessi da quando esisteva il golfo e ilmare di Epipanormo.

– Signor sindaco, la statua di Ptea non può essere trat-tata come una puttana.

Battistino si annodò i capelli, si strinse la cravatta eschiacciò la sigaretta come se avesse voluto schiacciareun insetto repellente.

– Neanche una di quelle puttane che fanno concorsi dibellezza, caro sindaco, e si agitano davanti alle telecamerevengono trattate come puttane. A loro danno premi per-ché hanno un bel culo, le illudono di essere delle signore ele convincono che per essere una dama basti profumarse-la come una cosa rara. Ptea è una dea e se non è una dea,comunque, è una cosa perfetta. Le hai viste, no, le fotosott’acqua… Perfetta. Qualche giornale lo ha chiamatoPtea’s day… Te li immagini quelli che l’hanno concepita?Te li immagini se sentissero una cosa del genere? Dovrem-mo essere tutti ingoiati in una voragine… – e ripeteva ar-rabbiato, – Ptea’s day, Ptea’s day… sono pazzi…

Il sindaco, Bartolomeo Basilico, era stato un compagnodi classe di Battistino, uno che non aveva propensione anulla e perciò faceva il sindaco e aveva smesso di fare ilmedico. Era di sangue buono e chi fosse Ptea, da dove ve-

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to un momento in cui me ne sono accorto… Che buonodore questi frutti…

Peante guardò la ruga, la rocca e la città in basso. Rab-brividì un pochino anche se le giornate erano calde. Il ru-more degli scalpelli era il rumore della città e tutti queglispigoli alla fine si sarebbero composti in armonia, imper-fetta, ma armonia. Anche dalla città bassa arrivava qual-cosa di vivo che però non profumava come i frutti di Me-dina.

Dalle nuvole la luce arrivava disordinata sulla terra e sulmare, e le ombre sull’acqua del golfo producevano tristipozzanghere perché un po’ di tristezza c’era in cielo e si ri-produceva sul mare. Ma dove arrivavano i raggi, l’acquaviveva, tremolava come piccoli cristalli e rimandava buonumore agli occhi, alle narici a alle orecchie di Nicteo ePeante che guardavano, respiravano e ascoltavano.

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metà del mondo in aula a sperare che il profumo di pe-sche, il principe dei peschi infelici, Guglielmino, si pre-senti davanti al giudice. La dottoressa Paneangelico che siprepara l’accusa della sua vita e si conserva incontamina-ta… L’avvocato Petinicchio…

– Petinicchio vi salverà. Ha salvato mezza giunta comu-nale e salverà anche voi.

– Può darsi. Cosa ci vuole a dimostrare che noi non c’en-triamo niente con gli omicidi di Medina Xaxa, di EgeicoLago e di Tebe Mistrè? Nulla ci vuole. Comunque, tornia-mo a Ptea. Salvala, Bartolomeo, salvala dalle zanne di tuttiquesti sfaccendati che se la vogliono divorare, che la vo-gliono sputtanare come una troia biblica. Rinchiudila.

– Non posso.– Chiudila almeno in una protezione che non ci arrivino

mani con le unghie da predatori. Gente che se ne porte-rebbe un pezzetto a casa da mettere insieme al carillon ealla bambola vestita di tulle.

– La metteremo nel salone delle udienze alla Porta Vec-chia.

– Lontana dalle mani e anche dagli occhi della gente.Gli occhi sono peggio delle mani, hanno ancora meno pu-dore delle mani, guardano dappertutto e non c’è leggeche glielo impedisca.

Bartolomeo aveva anche lui una faccia che arrivava dalontano, non era una faccia qualunque, aveva in viso qual-cosa di marinaro che gli conferiva la calma e il distacco concui affrontava le sedute noiose e i consiglieri petulanti.

– Senti, Battistino, quando l’avvocato Araceli mi ha ri-velato i fatti, difficili da credere, di questa ragazza dibronzo che è tanto bella da far dimenticare la sofferenza e

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niva, come era stata trovata lo sapeva. Ma di come si dove-va presentarla al mondo non aveva un’idea precisa perchéidee precise non voleva averne, lo disturbavano e gli met-tevano inquietudine addosso: le avrebbe dovute spiegaree difendere. Comunque, insomma, lui sapeva che era unastatua e come statua bisognava presentarla.

– Battistino, non chiamarmi signor sindaco. Ascolta:c’è la televisione di mezzo mondo, giornali… Non dormoda una settimana… È diventata una questione…

– Non usare quella parola!– Quale parola?– Mediatica! Tu stavi per dire mediatica.– Smettila di brontolare. Sei proprio un signorino di

Epipanormo, un vero signorino. Sì, io stavo per dire chequesta è una cosa mediatica, anzi, multimediatica. Ascol-ta, quella storia dei respiri e di Gracchini non l’abbiamoraccontata ma verrà fuori e Epipanormo diventerà la cittàdei fantasmi. Il processo a Guglielmino Redenti, tu e En-rico coinvolti… Ptea serve a tutti, sarà una medicina pertutti.

Battistino si sedette e guardò il golfo dalla finestra delsindaco. Al centro del golfo, proprio nel punto geometri-co e cartografico che il professor Foramini aveva indicatoall’avvocato Araceli, c’era un groviglio di navi, barche eogni mezzo capace di stare a galla. Si vedevano le barchedella polizia che presidiavano un quadrato azzurro di ma-re e in mezzo al quadrato una bella barcona verde con unagru.

– Bartolomeo, io sono aggressivo, nervoso… in una pa-rola non sto bene. Questa storia di Ptea mi rende feliceperò… Però… domani inizia il processo e ci sarà una

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elastica con la quale stavano imbragando Ptea doveva es-sere tirata su.

I pesci del golfo erano dispiaciuti e stavano intorno alquadrato che le vedette della polizia proteggevano. Ungrande dentice di stirpe reale decise di morire facendositirare a galla con Ptea e si intrufolò nella rete. Gli altriguardavano da lontano e stavano zitti come in chiesa.

L’avvocato Francesco Araceli se n’era rimasto in studioinsieme all’etereo Foramini il quale, dopo una riunionecon gli altri ultimi respiri, aveva scritto un memoriale. Oratutt’e due erano seduti in veranda e guardavano col bino-colo, scambiandoselo di continuo, verso il centro delgolfo dove il professor Oreste Foramini aveva ritrovatotanti anni prima la statua marina.

Si era sentito un semidio, smilzo ma semidio, quandol’aveva vista la prima volta sott’acqua. Aveva trentacinqueanni e aveva creduto di essere il custode della grazia cheadesso, dopo morto, era stato costretto a rivelare per farcomprendere che loro, gli ultimi respiri, erano respiribuoni e gentili perché discendevano dai fondatori di Epi-panormo. Anche lui, come il dentice, era innamorato diPtea e tante volte l’aveva accarezzata dappertutto sott’ac-qua, l’aveva ripulita - anche nelle parti più delicate - dalleincrostazioni, dai licheni e dai coralli. Perciò ne aveva pre-so possesso con delicatezza, rispetto e, si poteva dire,amore. E non aveva fatto, come tanti altri maschi, il pre-potente. Ce ne aveva messo di tempo prima di toccarle icapezzoli che andavano dritti verso il cielo, da dove eranoprecipitati molto tempo prima.

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perfino la morte, così ha detto lui, io non ci ho creduto.Però mandare una nave e un subacqueo non mi è costatonulla, l’avvocato è un uomo stimato a Epipanormo comea Talattone. Così, quando il subacqueo è riemerso e si ètolto la maschera aveva, l’hanno testimoniato tutti, losguardo ebete dell’innamorato… E la stessa espressioneha preso tutti quelli che hanno visto le fotografie fattesott’acqua. Saranno gli occhi di lapislazzuli, non lo so. Mihanno detto che ha gli occhi azzurri e che la curva dei fian-chi…

La segretaria del sindaco entrò, lasciò fogli sul tavolo eun odore che a Battistino sembrò nauseante e pensò allagrazia di Ptea che non aveva bisogno di nulla.

– … Questa ragazza, Ptea, dico, ha protetto la città, haprotetto noi… Chissà come è finita là sotto… Magari du-rante una tempesta l’hanno buttata giù per alleggerire lanave… Poi magari sono tornati e non l’hanno trovatapiù… Ptea, però, ha continuato a produrre tanta forzache noi siamo ancora qui… senza bisogno di tingersi lelabbra di viola come la tua segretaria.

Bartolomeo guardò il quadrato in acqua e quanto eraazzurro il golfo. Qualcosa di celeste era uscito da sott’ac-qua da quel punto del golfo e si era sparso intorno sino aEpipanormo e aveva toccato sotto la pelle, in fondo, tuttiquelli che dalla città avevano preso forma, colore e con-suetudini. L’avevano proprio sentita in ogni angolo di sé -anche il più sperduto - questa forza che arrivava da Ptea.Persino Bartolomeo faceva discorsi delicati.

Battistino aveva perso molti gradi della sua acidità chese n’erano volati via. E la bella giornata luccicante era di-ventata ancora più bella perché a mezzogiorno una rete

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ce qualcosa che alle volte dentro gli occhi non ci sta tutta:la bellezza. Quando arriva la bellezza, si chiede aiuto adaltre parti del corpo. Così le bocche diventano tonde perlo stupore, più tonde degli occhi, e vengono fuori suoniprimitivi, non parole, ché per decenza si sta zitti: non cen’è parole per l’incomprensibile complessità delle cose.Ma è inutile. Tanto le mosche incominciano a cercarci davivi perché sanno che siamo naturali come gli altri resti suiquali si posano, uguali, proprio uguali per loro. Perciò inostri occhi conoscendo la pasta di cui siamo fatti, veden-do intorno un unico grande pastone che fermenta, sop-portano la vista di qualsiasi cosa ma da soli non ce la fan-no, con la bellezza.

Tutto questo passava nella testa di Enrico che aspettavadi vedere, sporgendosi dalla nave della sovrintendenza, leforme e l’essenza di Ptea che l’avrebbe dovuto consolaredi un mucchio di pensieri.

Era proprio così… che quando la bellezza era troppa luinon ce la faceva a guardarla, non reggeva… Per esempioMelania… Non ce l’aveva mai fatta del tutto neppure conMelania…

* * *

Glauco Glicerio usciva dalla farmacia dove aveva com-prato il collirio per il suo occhio metaforico.

Anche lui andava verso il pezzo di mare costruito intor-no a Ptea come una tonnara. L’occhio si lamentava, geme-va e Glicerio aveva già messo le nuove gocce all’eufrasia.Questa uscita di Ptea dalle acque era la vera causa profon-da della nuova eruzione nell’occhio del commissario.

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L’avvocato Araceli aveva disteso alla brezza le sue gran-di sopracciglia che ora, finalmente, erano serene e calma-vano anche il suo cliente la cui consistenza dipendeva dal-la salute della statua di Ptea e dai segnali che gli arrivava-no dalle sopracciglia di Araceli.

* * *

Guglielmino teneva gli occhi chiusi e aveva scelto, per lagiornata di Ptea, la forma congenita del bel ragazzo: palli-do ma con le guance rosse. Aveva scelto anche il puntodella città alta da dove guardare la nascita della dea, la se-conda nascita visto che la prima era avvenuta in una fon-deria di bronzo più calda dei grembi che avevano messo almondo lui, suo nipote e tanta altra gente della città. Unsolo grembo aveva raggiunto, e una volta sola, la tempera-tura di fusione: quello della sua Medina, ed era successotutto quello che era successo.

Se ne stava col mento appoggiato nel palmo della manoaspettando la giovane Ptea che avrebbe rimesso le cose inordine ristabilendo l’inizio. E proprio all’inizio pensava epensava.

* * *

Enrico aveva paura di vedere. Non c’è cosa che un occhio umano non può reggere.

L’occhio - come era fatto glielo aveva spiegato la professo-ressa Rampinetti che insegnava biologia - vede e guardamorti e sangue. Regge, regge qualsiasi cosa guarda. Maga-ri si gira da un’altra parte, si ammala, però regge. C’è inve-

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va con tutta la bellezza che spargeva dappertutto gli ar-rossava l’occhio all’inverosimile, tutti quegli assassinatiche con l’armonia non avevano a che fare, il piemme Pa-neangelico, la follia giuridica di Petinicchio che però unpo’ di genio la conteneva, anche se Glicerio ricordavasempre la zia zitella che, siccome lui non studiava, gli di-ceva che quando tutto sarebbe stato perduto almeno l’av-vocato avrebbe potuto farlo… Gracchini e gli ultimi re-spiri accusati anche loro. Aveva persino ricevuto una let-tera dal Presidente degli Ultimi Respiri. Avrebbero girato- a dimostrazione della loro bontà d’animo - per semprenella città alta e in quella bassa per proteggerla anche sela protezione vera, quella grande e perpetua, era compitoassegnato a Ptea. Loro sarebbero stati i soldatini di Ptea,non di piombo ma di una materia molto più lieve e quasitrasparente. I respiri si trasformavano in queste folatedolci che davano brividi al golfo.

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Non riusciva a mettere insieme le cose. Troppe cose, av-venimenti, fatti, troppo grandi, troppo numerosi e, alla fi-ne, indecifrabili e lui non riusciva a prendere le misure népoliziesche né fantastiche a tutto quello che succedeva.

Eppure lo sapeva che le cose sono tutte collegate, maga-ri da fili microscopici e senza colori di riconoscimento,oppure da un odore impercettibile. Il profumo alla pescaera stato una traccia troppo grande e altre così non neavrebbe mai più trovato.

Adesso, questa storia di Ptea.Ogni cosa cambiava intorno. Si poteva pensare che era

merito della dea che stava per venire fuori dalle acque.Una faccenda esagerata… troppo, troppo… Ci pensava eripensava.

Che cielo alto e che silenzio a Epipanormo: tutti al por-to quella mattina.

La macchina gialla della polizia non gli sembrava la soli-ta macchina. E le voci che gli arrivavano dalla radio nonsuonavano di metallo come sempre e non avevano piùl’accento abituale. Neppure l’asfalto non appariva più delgrigio solito. E il distributore di benzina non aveva più laforma orribile delle altre volte. Tutto si era ripreso unaforma che superava i ricordi e arrivava da vie del sangueche neppure l’alambicco più fine può analizzare e Glice-rio sentiva una barcarola e un canto che veniva dall’ac-qua, però lo sapeva che era il fornello della tiroide che glidava alla testa.

Insomma, Glicerio non capiva i fatti che accadevano.L’odore di pesca e la quintessenza di Guglielmino Reden-ti, Enrico Ricasoli, Battistino Mattiolo, Medina e quel na-so meraviglioso, Melania Lampreda che quando appari-

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Uno splendore, un raggio, un lampo che accecava: latarga di Petinicchio brillava più di tutte.

Intorno al Palazzo targhe lucenti d’avvocati ce n’eranotante e intorno alle targhe gravitavano dolori ancora piùnumerosi e pesanti delle targhe. Comunque, le targhesplendevano.

Giovani a centinaia, più lucidi delle targhe, ogni matti-na col vestito della domenica, borse voluminose e carta,carta che bruciava foreste ogni giorno, apprendevano laprofessione a Palazzo.

Nessuna targa, né a Epipanormo, e ancora meno a Ta-lattone dove tutto si ossidava più in fretta, produceva lu-ce come quella di Petinicchio.

Amoracchio, a giorni alterni, lucidava l’insegna dell’av-vocato e aveva l’ordine di contare i riflessi. Più erano emeglio era.

Oggi inizia il processo. Tutti puliti, lavati, sbarbati eprofumati come a un matrimonio. Bisogna entrarci pulitie uscirne più puliti.

Petinicchio - sempre uguale, in divisa nera - diceva che

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ni. Mani ossute, molli, umide, troppo pieghevoli, bian-che, pelose, mani di ogni tipo.

Ne strinse una che, però, non riuscì a percepire - nonfece in tempo a vedere di chi era - e gli lasciò un odore dipesca che lo fece vacillare.

Il pesco, il pesco! Si guardò intorno. No, nessuno: sempre le stesse facce,

a centinaia. Avanti, andare avanti… lui difendeva anche ilfantasma… Che si facesse vedere!

Entrò nell’androne e non strinse nessuna mano perchécontinuava a odorare la sua che sapeva di pesca, propriodi pesca.

* * *

Il giudice Domenico Favonio. Si torceva un orecchiocome se avesse dovuto dare la corda al cervello e si tenevail pizzo diviso in due parti, una parte per ciascuno dei dueche stavano ai suoi lati, un giudice scolorito e il cancellie-re, i quali sembravano esistere perché esisteva quel pizzoche li indicava:

– Dottoressa Paneangelico, basta, basta con i presuppo-sti. Questo non è un processo di presupposti. Tutto quel-lo che normalmente un giudice presuppone qua salta… ègià saltato. Qua è saltata la normalità e quindi non c’è unanorma… e senza norme, dalle quali deriva la normalitàoppure è il contrario… senza norme, cosa ci stiamo a fa-re? La procura generale un suo parere su questo processolo ha già dato… Non è nel mio, diciamo, umore, nelle miecorde… ma io sono ligio e obbedisco. Dobbiamo trattareun fantasma come un essere, d’accordo, lo trattiamo co-

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processo è il participio passato di procedere e che il so-stantivo era procedura. Procediamo! gridava ai suoi assi-stiti che si ritraevano spaventati.

Il raptus di Petinicchio era la sua morfina. Ma nella ine-stricabile ragnatela di interessi che neppure tre generazio-ni avrebbero risolto - aveva due figli venuti al mondo ne-rovestiti e con le scarpe di gomma nere - lui riusciva anco-ra a fare distinzioni fondamentali.

Usava la percezione e l’istinto e a un certo punto deiprocessi - lo sapevano tutti - lui non pensava più, non uti-lizzava la ragione e utilizzava, invece, una sua specifica be-stiale ottusità. Sosteneva che in un dato momento il pen-siero diventava un danno irreversibile che avrebbe potutosegnare la vita sua e dei suoi assistiti. Ma quel momento, ilmomento nel quale bisogna smettere di pensare, era ne-cessario, vitale saperlo riconoscere, sennò tutto sarebbefinito in rovina.

Alle sette del mattino si sbarbava e leggeva i giornaliche Amoracchio gli sfogliava in piedi vicino al lavandino.Era una mattina di quelle belle di Epipanormo, una gior-nata grande e azzurra.

L’emozione gladiatoria che gli prudeva addosso lo face-va sentire perfino bello. Curò i particolari - lui che pensa-va sempre all’effetto complessivo - e si fece spuntare i ca-pelli tinti da un suo assistito barbiere che lo pagava con ta-gli accurati.

Quando vide il Palazzo, sentì l’eccitazione del cantante,del concertista, dell’attore e del torero tutte insieme. Af-filò la suola delle scarpe di gomma, iniziò la scalinata delPalazzo e incominciò, sotto il sole, a stringere mani e ma-

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– Senti, io sono disperato, disperato… Non riesco nep-pure a immaginare cosa può succedere… Non so dove so-no e non capisco perché sono qua io con te affianco… Etu mi parli del pizzetto del giudice…

– L’aspetto dice quasi tutto… Questo tizio è una carica-tura e noi siamo in sue mani… L’aspetto di Petinicchionon corrisponde a Petinicchio? E quello dell’avvocatodei sospiri non ti fa pensare a un uomo saggio e stagionatoche dà buoni consigli? E la giuria… li hai visti? E il nostroaspetto? Il nostro non è un aspetto da persone tristi?

– Disperate.– Comunque l’aspetto e soprattutto la faccia di una

persona…Petinicchio li guardò e, a scopo sedativo, senza malizia,

gli spruzzò addosso un poco di polvere e loro si rincan-tucciarono, si piegarono, appiattirono le onde del dolore,abbassarono il mento e stettero zitti.

Al tavolo vicino, Foramini era sereno come il cielo diEpipanormo ma pieno di pensieri che lo attraversavanoda parte a parte e facevano qualche nuvoletta. Quel tiran-no di Gracchini li aveva imprigionati per tenersi memoriee forza… Ma da dove era arrivato l’astio misantropico deiGracchini? Di sicuro da qualche anima nera di Talattoneche aveva abitato per secoli abusivamente nella città alta,di sicuro, sicuro.

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me un essere… Ma, dottoressa Paneangelico, mi risparmii presupposti, li ho già letti…

– E non li condivide, signor giudice… Lo so e lo sento…– Questo non ha nessuna rilevanza. Dal momento in cui

sono entrato in aula la contumacia del Redenti Guglielmi-no e la presenza del Foramini Oreste hanno un valore chedà sostanza e quintessenza al processo. Insomma, in tutti icasi, le chiedo di finirla con i presupposti… Oltretuttopresupposti è una parola che non mi è mai piaciuta.

Poi il dottor Favonio smise di torturare le orecchie e ini-ziò a leggere. Guardava ogni tanto verso Petinicchio - te-meva la sua polvere ma Petinicchio aveva le polveri un po’inumidite dalle gocce distillate da un pesco - e poi guarda-va verso Araceli che aveva le sopracciglia ottimiste e spie-gate come vele al vento. Guardò anche le facce in aula.Ben distinte restavano le due razze endogene di Epipa-normo e Talattone.

Nel tavolo a sinistra, dove sedevano anche Enrico e Bat-tistino, c’era un’aria di tristezza che il giudice apprezzò.Era giusto che due imputati, soprattutto due imputati diconcorso in omicidio, avessero addosso una tristezza taleche la si poteva vedere.

Battistino disse sottovoce:– Enrico, guarda il pizzetto del giudice, diviso in mezzo

col pettine. Un pennello diviso in due. Ci deve avere pen-sato a lungo e, se lo porta, vuol dire che trova che gli stiabene. Questo è un matto… a noi ci dovrà giudicare unmatto… Un pizzo diviso in due parti uguali… la bilanciadella giustizia uguale per tutti ma non per un fantasma.

Enrico era rifugiato nel vestito buono e nell’odore vici-no di Melania:

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Per il caso di Guglielmino Redenti la varietà delle facceabituali in aula era stata sostituita da una varietà che face-va pensare alla natura stanca, sfinita dall’incommensura-bile assortimento di fisionomie che aveva prodotto e che,come le note musicali, aveva superato ogni possibilità diricombinarsi in un modo originale. A vedere tutti quei vi-si sembrava che le razze interne di Epipanormo e Talatto-ne avessero smesso di produrre novità genetiche e aspet-tassero un angelo cromosomico che li doveva salvare.

Sul tetto del Palazzo, steso alla luce, se ne stava Gugliel-mino.

– Contumace? – chiese il giudice Domenico Favonioquesta volta torcendo la punta destra del pizzo senza chenessuno sapesse dare un significato alla scelta sbilanciata,visto che il pizzo aveva la stessa funzione della bilanciascolpita nel marmo sopra Favonio.

La dottoressa Maria Nives Paneangelico era bianca,purgata e casta da molte settimane perché si era convintache la purezza derivata dall’astinenza le avrebbe fatto dacorazza oppure l’avrebbe resa invulnerabile. Si era aste-nuta anche dalla carne, dalle uova, dal latte e dal formag-gio che oggi, per la tensione, la tentavano molto.

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tato di una morale. Voleva essere giudicato e assolto per-ché aveva un’aspirazione ascrivibile, anche dal cancellie-re Rumoretti, al campo fiorito della morale e quindi dellalegge. Foramini era soave non solo perché aveva risolto ilproblema del trapasso lasciandolo sospeso, ma perché ilsuo buon nome, il ricordo, era in mano al suo avvocatoanche ora che lui era un’apparizione che, però, giuridica-mente era protetta e, soprattutto, contemplata da codicicontemplativi.

Con una sola mossa delle sopracciglia l’avvocato Ara-celi attirò in un baleno l’attenzione di tutti.

Ogni faccia, di ogni forma, colorito e sesso si voltò versodi lui. Ci fu silenzio, si spensero le voci e si accesero moltiregistratori:

– Signor giudice, non so come fare ad essere breve.Domenico Favonio si allargò la cinghia dei pantaloni e,

siccome nessuno vedeva la metà sotto la tribuna, si tolsele scarpe. Fece un gesto per dire che era lì ad ascoltare.

Le sopracciglia di Araceli diventarono padrone di tuttie tutti le guardavano:

– Il professor Oreste Foramini è morto, deceduto, tra-passato, defunto in una sera di settembre di otto anni fa…Lui stesso mi ha raccontato che tornava a casa a piedi co-me ogni sera - camminava un’ora la mattina, un’ora la se-ra, non fumava ed era parco a tavola, però non è bastato -e che, mentre guardava il tramonto verso capo Pentimele,ha sentito la zampa del dolore in mezzo al torace, il cielo siè fatto a pezzettini… Lui si è spaventato, ha fatto in tempoa pensare che quella era la sua fine, lo hanno portato inospedale perché avesse una morte moderna e progredi-

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– Lei sa già, signor giudice, che l’imputato GuglielminoRedenti non è presente a questo processo. Ne discendeche è un contumace. E che questo è un processo a uncontumace.

Aveva una voce ispirata che non fece piacere a Favonio:– Dottoressa, lo so, lo so cosa è un contumace. Ho chie-

sto solo perché venisse verbalizzato e non perché deside-ravo spiegazioni sul significato di contumace. Continui,continui ma se le fosse possibile utilizzare un tono meno,diciamo, didattico, ne sarei lieto. Cancelliere Rumoretti,scriva chiaro contumace e che non se ne parli più, almenodurante questo processo.

Le sopracciglia di Araceli sussultarono. E il suo cliente? L’istinto processuale è, appunto, un istinto e non segue

le vie tutte curve del ragionamento ma sente, piuttosto, ladirezione e la via della procedura la quale è un pachider-ma lento, magari armonico ma preistorico ed esiste, cometra gli animali, prima del ragionamento.

Araceli questo istinto lo possedeva.Le sue sopracciglia avevano sussultato: Contumace!

Foramini era presente… un composto del verbo essereoppure, in quanto ultimo respiro, lo si poteva considerareanche lui un essere contumace? Le cose cambiavano so-stanzialmente: presente o contumace.

Guardò il suo difeso che era una via di mezzo tra la so-stanza e tutto quello che, invece, non si sa definire e nep-pure pensare. Si rese conto che non riusciva a concepirenulla che non fosse sostanza. Però questa era un’altra fac-cenda e poi ce n’erano cose che non riusciva a concepire.

Concepire. Lui non doveva concepire. Foramini, qual-siasi cosa fosse, per quanto incomprensibile fosse, era do-

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cava e aveva paura perché non sapeva dove le idee sareb-bero andate a conficcarsi:

- E poi… e poi il respiro, se è tale, non è una delleespressioni più alte e complesse dell’esistere? Il Respiroè… sussiste…

Il giudice Favonio annotava dei pensieri, smise eguardò il difensore dei Respiri:

– Avvocato Araceli, non sta bene?– Sa come mi sento? – Non lo so… non si capisce a guardarla…– Mi sento davanti al sovrumano… Ma ne riparleremo,

giudice, ne riparleremo. Ora devo pensare al mio dife-so… anche se non capisco…

Tutta la varietà delle facce in aula, previste dalla natura equalcuna anche non prevista, aveva gli occhi bagnati dallelacrime.

Il piemme Paneangelico sentiva addosso un formicolioche castità e astinenza rendevano quasi un piacere inizialeche lei presentiva come un peccato molto grande… sentìun suono di cornamuse e una voce d’uomo che invocavaNives Nives…

Petinicchio si sporse per intero oltre il tavolo attrattodai sentimenti che Araceli spargeva intorno. Enrico e Bat-tistino non riuscivano a sopportare tutta l’emozione cheora arrivava da questo piccolo e inconsistente ultimo re-spiro sopravvissuto. L’infinito addolorava Enrico sino al-lo svenimento e indispettiva Battistino.

Araceli era elegiaco:– A Epipanormo e Talattone molti conoscevano Alberi-

co Gracchini. Egli viveva come un eremita che odiava i vi-vi, un misantropo, un uomo abbandonato per l’orrore fi-

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ta… E lì, in effetti, è passato ad un’altra esistenza, in mo-do agile, pulito e senza volgarità. Lui stesso mi ha detto diessersi sentito un morto dei nostri tempi. Però là, propriomentre boccheggiava, ha trovato un uomo che, per unapredisposizione caratteriale al furto nelle sue forme piùoscure, rubava al morente - ficcandogli un fiasco in bocca- l’ultimo respiro… E così Foramini, a cinquantaquattroanni, è defunto ma non si è estinto… È morto ma non èscomparso… Contraddicendo tutti i necrologi che alloraapparvero. Lui è rimasto in una bottiglia, ma in una formaincomprensibile e che non è mia possibilità comprende-re…

Fece una pausa:– Ma d’altronde, non è nelle mie capacità comprendere

la forma nella quale esisto io stesso e tutti noi qua dentro efuori di qui.

Le sopracciglia si aprirono come mai si erano aperte:– Una fisionomia dobbiamo dargliela al professor Fora-

mini perché lui la chiede e se lui lo domanda bisogna ac-cettarlo in questo mondo e se lo accettiamo dobbiamodargli un riconoscimento - per esempio abbiamo già am-messo di riconoscerlo per nome e cognome - un ricono-scimento che gli valga consistenza se non fisica e materia-le, almeno giuridica. E se questa sostanziale configurazio-ne, che gli attribuisce anche tutte le categorie della moraleammesse nella nostra specie, è lui a domandarcela… se cela chiede lui stesso, in qualità diciamo di contromateria…beh, allora qua, senza bisogno di riconsiderare e ribaltarela filosofia del diritto, il professor Foramini è accettato trale entità che hanno diritto a leggi e giustizia.

Araceli sudava perché stava creando idee incerte, fati-

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Sovrumano.– … Super umano, sopra di noi… qualcuno che è diven-

tato gente…Favonio si agitò e separò al massimo le due punte del

suo pizzo forense:– Gente? Cosa intende per gente, avvocato Araceli…

eravamo nella metafisica… mi stavo distendendo e lei miriporta al processo, alle cose… – Il giudice china il capo epensa che lui non ne vuole più sapere di condanne, di leg-gi e di responsabilità… Ha cinquantacinque anni… Hadiritto a starsene in pace… vuole pace e tutta questa tra-scendenza gli va a genio, lo allontana dalla terra e da que-sta maledetta aula dove i fatti e la materia vengono sotto-posti al suo giudizio… Finalmente qualcosa di diverso an-che se non sa di cosa si tratta… Lui una forma a questofantasma non riesce a dargliela e neppure se lo immaginacome si costituisce Guglielmino Redenti quando prendela sostanza di un profumo e, addirittura, il peso e i sensi diun corpo.

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sico e biologico dalla moglie, un carnivoro al quale i fratimercenari di un convento dove lui era un solvente, unoche pagava, lo cibavano, gli fornivano aria e uno scarico.Ho visto la cella dove lui viveva come una cozza gigantefiltrando porcherie. La luce non gli serviva.

Tutto il carnevale di facce ondeggiò.– Conservava una reliquia orribile: ricordi orribili e re-

spiri. Respiri… ultimi respiri di uomini che sceglieva one-sti e probi, ultimi respiri di brava gente… Diceva che era-no meglio delle vitamine e che gli allungavano la vita…

Le facce allargarono le orecchie che a centinaia, per l’in-teresse, diventarono rosse.

– Voleva acchiappare la forza della città. Voleva l’ener-gia che è sempre in viaggio. Ma l’energia, se la si accumu-la, supera quella di chi la conserva e lo schiaccia. Foraminie i suoi amici non ce la facevano più a stare chiusi in unabottiglia… Alberico Gracchini li aveva indeboliti con untrucco semplice: ciascuno imprigionato in una bottiglianon ce la poteva fare da solo. Magari una bottiglia ognitanto si rompeva, un respiro scappava, si avventava suGracchini ma lui con un gesto, come si fa con una mosca,lo scacciava e non ci pensava più. Ne aveva una provvistacosì grande di bottiglie con i respiri che non si dovevapreoccupare del futuro… Ma qualcosa è accaduto… Unacosa, una forza, un’energia che lo ha vinto… Incompren-sibile… Gracchini è diventato di colpo quello che era.Una specie di vecchio in salamoia… Per conservarlo nonc’era bisogno dei respiri, bastava acqua e sale. L’aspetto ela sostanza sarebbero stati uguali… Qualcosa di più so-vrumano dei respiri lo ha rinchiuso in una damigiana e haliberato gli spiriti in bottiglia…

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VIII

Sovrumano.Il grande quadrato nero di ardesia al centro dell’aula se-

gnava l’ora attraverso un cono di luce che arriva da un ab-baino del soffitto a volta.

Questa lastra di pietra esisteva prima del palazzo e, se-condo il defunto studioso inutile Egeico Lago, il palazzole era stato costruito intorno.

Nessuno ci camminava mai sopra, né giudici, né avvo-cati, né imputati. Un’area sacra.

Forse, aveva scritto Egeico Lago nell’almanacco dellacittà, era stata una lastra dei sacrifici e molti capretti era-no stati sgozzati proprio lì. E, forse, sempre secondo Egei-co, là erano stati sacrificati anche bambini che gridavanopiù dei capretti. Il sangue, di capretto, di bambino o didonna, non aveva macchiato la pietra. Però qualcosa erarimasto.

Si sapeva - e questo era certo perché sulla pietra lo si ve-deva inciso - che cinquecento anni prima, il tribunale deigesuiti aveva condotto al ceppo qualche strega di Talatto-ne e là era stata decapitata. Su questa lastra era stata tra-scinata anche una donna santa alla quale era stato tagliatoun dito per punizione e le era ricresciuto, per miracolo,un dito a forma di croce.

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Bello e pallido con un ramo in mano è apparso Gugliel-mino, proprio nel quadrato d’ardesia da dove arriva allenarici di tutti, più forte di ogni cosa, un avvincente odoredi pesca.

Sovrumano.

Come un airone che cresce e prende un’apparenza com-pleta solo quando apre le ali e produce il silenzio perfettodel volo, Guglielmino si è incarnato strato su strato sinoad assumere la forma del ragazzo bello e pallido, con leguance rosa, i capelli neri e un segno blu intorno al colloche solo quelli più vicini notano.

Il paragone è apparso nelle teste di ogni forma di tutti.E teste ce n’erano.

C’era bisogno del silenzio. Le centocinquanta personedentro l’aula sentivano, proprio in quel momento, il na-turale, primordiale bisogno del silenzio.

Silenzio.Qualcuno sente ancora parole che gli girano per il cer-

vello e scappa dall’aula per una nausea improvvisa, scap-pa, cerca un bagno e vomita.

Silenzio. Inedite facce da nulla si trasformano in facce pensiero-

se che, finalmente, qualcosa esprimono nel silenzio dellanuova espressione. Respirano e ascoltano.

Quelli che vivono della trama della parola parlata e delsuo suono hanno sprecato le parole proprio attraverso ilsuono. Ora le parole si prendono il silenzio che normal-mente le sostiene più del suono. Un silenzio, una parola,un silenzio, una parola, un silenzio.

Enrico pensa che una parola adesso sarebbe rivoluzio-

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Ma neppure Egeico aveva capito cosa erano quei graffi-ti più antichi e consumati che univano punti incerti con li-nee incerte sull’ardesia screpolata.

La dottoressa Paneangelico aspetta l’ora giusta - per leil’ora giusta è quando il sole è alto - e sceglie un angolo del-l’aula vicino a una finestra aperta, da dove arriva l’aria pu-rificata e curativa della città alta, per proteggersi dalle pol-veri mortificanti di Petinicchio. Vorrebbe essere ancorapiù bianca e più astinente per essere ascoltata e creduta:

– Guglielmino Redenti lega e collega tutte le cose, gli av-venimenti, i fatti… Sì, lui tiene insieme i fatti…

Qualcuno a quest’ora ha fame in aula ma nessuno se neva. Paneangelico si aureola d’oro, guarda in alto:

– Noi non siamo qua a spiegare l’Eternità. Ma ci è data,per un disegno divino, fatemi usare la parola divino, ci èdata la possibilità di un contatto con l’Eternità che, an-ch’essa, rispetta la legge e si presenta al suo cospetto. DiEternità sentiamo l’odore appena nominiamo il RedentiGuglielmino, quando ne riconosciamo l’essere e l’esiste-re, quando ammettiamo che egli sia capace di assumereuna consistenza simile alla materia. Una materia che pren-de forma di profumo ed esercita una forza che ha deter-minato la morte orribile di esseri umani.

L’aureola dorata della dottoressa diventa densa e spes-sa:

– L’intervento del Redenti Guglielmino…

Un boato, un tuono. Ognuno in aula si avvicina all’al-tro, tutti i polsi suonano insieme e anche i polsi rimbom-bano.

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– {Gli Ultimi Respiri ho trovato. Sono qua fuori e l’av-vocato Araceli non lo sa. D’altronde sottolineo di nonavere grandi meriti ma di avere semplicemente ottempe-rato ad una vostra richiesta}

– Ottemperato? Amoracchio, tu dici ottemperato?– {Ottemperato. Confermo}Petinicchio guarda Enrico, Battistino e Melania. Gli Ultimi Respiri, in fondo, si devono difendere anche

loro, pensa, e l’odore di pesca è stato trovato anche nellacella di Alberico Gracchini, l’odore aveva vinto sulla puz-za dell’aria consumata dal vecchio sino a diventare un ve-leno. L’odore di pesca scagionava gli Ultimi Respiri i qualierano stati liberati da Guglielmino. E poi, quella faccendache avevano ficcato il vecchio, fratturandolo qua e là, inuna damigiana dopo averlo ammazzato era stata una puni-zione che nessuno, nella città alta e nella città bassa, avevaconsiderato esagerata. Ora gli Ultimi Respiri, i prigionieridi Gracchini, sono qua fuori accusati di omicidio e più in-nocenti di un Primo Respiro per quello che hanno patito.

Petinicchio si avvicina a Araceli, gli bisbiglia all’orec-chio la notizia. Le sopracciglia di Araceli saltano per ariasino alla volta dell’aula.

I due avvocati si avvicinano al piemme Paneangelico, leparlano all’orecchio e lei ha come una folgorazione misti-ca, si spettina e ruota gli occhi in alto sino a che si vede so-lo il bianco. È una che ha le visioni e chissà cosa vede.

Poi tutti e tre si avvicinano al giudice, parlottano e il piz-zo di Favonio si elettrizza e si spaventa.

Chiamano Amoracchio al banco e lui, davanti alla Giu-stizia, puntella le sue parentesi più che può:

– [( Faccio entrare?)]

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naria. Battistino che sarebbe un segno di forza. Melaniaha gli occhi chiusi e sente un piacere che non sa neppuredove se lo sente. Glicerio prova quiete dentro il suo oc-chio meteorite. Tutti sentono lo spazio immenso e, forse,infinito dal quale arriva Guglielmino Redenti.

Petinicchio sente bagnate le sue polveri paralizzanti datutto questo silenzio per l’apparizione dell’eterno Gu-glielmino. È come se gli mancasse il suolo sotto i piedi eprova un’instabilità che neppure le sue aderenti scarpegommate diminuiscono. Si tiene ai braccioli. Se la dimo-strazione dell’eternità toglie l’unica forza di cui dispone èfinita e tutto è finito. Il sovrumano non se ne fa nulla dellasua polvere rallentante. È ovvio, pensa, lui ha bisogno digente fragile e di nulla di eterno, gli serve sfuggire, sottrar-re, aggirare, scivolare, deviare, disegnare linee incerte.Ecco cosa gli serve. E invece ecco qui, davanti a lui, la cer-tezza e l’immutabile. Altro che polverina.

Mentre Petinicchio riflette sulla fragilità del proprio la-voro, sente alle sue spalle:

– (Avvocato, scusi, avvocato).Una modestia ottusa e un’intelligenza minima anche lo-

ro un colpo, una fuga in alto ce l’hanno. Così ricompare,dalle radici di Talattone - mezzo marce e mezzo fertili - ilfisico spinoso del cardo Amoracchio questa volta pieno diorgoglio:

– (Avvocato, sono qui fuori… Le ho scovate e le ho con-vinte a venire come da voi richiesto).

Petinicchio è distratto dalla bellezza di Guglielmino:– Chi hai trovato? Chi?Amoracchio rinforza le parentesi:

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– I fatti sono cominciati col cane. Il cane di Enrico Ri-casoli che mi ha inseguito, innervosito. Io ero un ragazzonervoso e sono un uomo nervoso. Così il cane l’ho messotra l’ascensore e la ringhiera: per questa ragione hannotrovato un pezzetto di cane ad ogni pianerottolo. Poi so-no rimasto a casa, e ho ascoltato. Ero più calmo e la miapresenza non ha prodotto alcun fenomeno (in genereproduco fenomeni) salvo un pezzo di formaggio che èmarcito di colpo. Le cose stavano prendendo forma, e ioincominciavo a risolverle… Ecco!

– Giravo per Talattone, senza avere una forma e neppu-re un profumo, quando mi è venuta l’idea di uccidere Te-be Mistrè.

– Guardavo il mare dal bastione di Sant’Elmo quandoho deciso di ammazzare Medina Xaxa.

– Ero furibondo quando non sono riuscito ad ammaz-zare Enrico Ricasoli: non potevo ammazzarlo… Conten-to quando ho convinto Battistino Mattiolo che io esiste-vo. Felice quando ho fatto a pezzi Egeico Lago.

Enrico si alza dalla sua sedia e si avvicina alla pietra diardesia.

– Volevi ammazzare anche me? E perché non l’hai fat-to? Perché non lo fai ora? Ora non ho più paura… Ora è

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Guglielmino aveva richiamato tutti al pensiero deglieterni giri e al silenzio.

Gli Ultimi Respiri entrano in gruppo e la brezza dolceche portano dentro l’aula provoca in ciascuno la stessasensazione profonda di appagamento, la stessa assenza didomande e di paura prodotta dal giovane fantasma.

I Respiri sono silenziosi e docili, trasparenti e impauri-ti, ondeggiano quando vedono Foramini. Sono a mezz’a-ria e qualcuno - ci sono anche bambini - gira per l’aula ecerca il cono di luce dentro il quale è apparso Guglielmi-no Redenti. Frusciano e borbottano e sembra un suonoche sa, anche questo, di sovrumano.

Araceli ha una bella voce da tribunale ma una parte glimanca e sussurra:

– Giudice…Poi ci ripensa, guarda Foramini, abbassa la testa e le so-

pracciglia, e sta zitto.

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Battistino ha un ricordo: lei che se la insaponava e dice-va che così, durante, avrebbe fatto le bolle di sapone piùgrandi mai viste. Si incurva ed Enrico, per consolarlo, glimette una mano sulla spalla che Battistino sposta via.

Guglielmino è pallido e bello e tutte le pietre filosofalidelle donne dentro l’aula, compresa quella della dottores-sa Paneangelico, se ne sono accorte aumentando di tem-peratura guardandolo. Ma, sentendo le parole della donnadalle gengive giganti, Guglielmino diventa di cera mezzosciolta e la faccia gli si confonde perdendosi per un po’.

– Di un miracolo io avevo bisogno e nessuno, nessuno loha fatto… Anzi una mostruosità mi ha fatto appendere al-l’albero del dolore…

Enrico sussurra:– Ecco l’albero… ecco il pesco e tutto questo profu-

mo… Ecco… Guglielmino lo sente:– Non dire ecco, ecco come un bambino, Enrico… È un

capriccio… eravamo ragazzi e adesso siamo uomini…Chissà dove abbiamo imparato a dire continuamente ec-co, ecco. – Guglielmino si tiene il mento e per un po’ cipensa. Poi si sposta i capelli lucenti dalla faccia:

– È una fatica per me essere morto anche se qualcunocrede che morire da ragazzi è meno doloroso. Un ragazzosi deve svezzare da pochi piaceri, non ha l’abitudine aipiaceri che arrivano col tempo e che ti attaccano alla vitae può morire in pace perché non ha nulla da rimpiange-re… E invece io ho perduto più di quello che potevo per-dere perché ho perduto lei che è morta prima di me e nonè da nessuna parte, lei… Enrico, lei non è in giro da nes-suna parte e non c’è un angelo sulla sua tomba che mi

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tutto diverso… tutto cambiato… magari anche Nellina èda qualche parte… Medina Xaxa, Tebe Mistrè, EgeicoLago… Non si muore più, non si muore… Non avevo maivisto un angelo bianco seduto sul sepolcro di uomo…

Guglielmino lo guarda:– Tebe Mistrè era una puttana rotonda e bianca, pulita e

non puzzava di Talattone. A Talattone anche i giovanipuzzavano di aringa. Avrei dovuto incominciare da lei elasciare in pace il cane che sapeva di borotalco.

La dottoressa Paneangelico interviene e la sua espres-sione è sempre più mistica, si vestirebbe di sacco e si fla-gellerebbe felice:

– Incominciare? Incominciare che cosa? – unisce le ma-ni come in preghiera. – Redenti Guglielmino, lei ha avutoun inizio come tutti, un inizio qualunque… È la fine che èdiversa. Lei non ha incominciato uccidendo Tebe Mi-strè… Questi ammazzamenti, come tutti gli assassini, so-no una conclusione! Concludono qualche cosa! Lei ce lodeve dire perché ferri di campagna e sbarre non sono unaminaccia per lei ma la memoria della giustizia e dell’ingiu-stizia vale anche per un fantasma… Pensi alla memoriadei fatti, pensi al ricordo… Quello resta, Redenti Gugliel-mino… In fondo è questo lo scopo della giustizia: la me-moria…

Tutti si stupiscono per le parole della dottoressa Pa-neangelico e una signora in prima fila, una faccia talatto-nese, mostra a tutti le sue enormi gengive rosse e grida:

– Io la conoscevo Tebe e anche se era una puttana lei fa-ceva miracoli! Nessuno ne vuole parlare! – e alza la voce si-no a fuori del palazzo: – Miracoli! – e si sente la parola del-la cinghialessa come attraverso altoparlanti: – Miracoli!

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stanza… Era tutto spiegato dal dolore e noi esistevamoper il dolore… E ora abbiamo il rimedio…

E va giù come un sasso perché deve avere superato dapoco la seconda dozzina di bicchieri:

La signora con le gengive esposte gli salta addosso:– Cosa vuoi dire, maledetto ubriaco, cosa vuoi dire con

questa storia del dolore?Ma Priamino è già morto apparente.Gli Ultimi Respiri a mezz’aria si agitano e Guglielmino

sorride:– Lo conosco questo Priamino, abita in un basso di Ta-

lattone e non proviene da una razza di stupidi. Lui, conl’alcol prova a indovinare. È una famiglia talattonese cheama l’alcol da tre o quattro secoli e forse anche da prima.Parlano da soli per strada e si vede, dall’impegno che cimettono, che parlano a se stessi e si vede - basta vedereche faccia hanno - che non parlano d’amore…

Il giudice Favonio sente arrivare dal suo pizzo uno e di-viso una scossa, un richiamo:

– Silenzio! Io uso i mezzi che ho dalla giustizia e questonon è l’antro delle streghe… Dunque cerchiamo una ri-sposta a misura…

– A misura, giudice? – Petinicchio una piccola nuvolet-ta di polvere la emette ma involontariamente, una speciedi riflesso, gli è scappata.

Favonio dà una scrollata alla toga, orgoglio giuridico:– … Intendo dire a misura di Codice visto che qua non

si leggono formule, non si commentano libri sacri, non sireincarna e non si resuscita nessuno… A misura di Codicevuol dire che da adesso in poi si riprendono le cose in pu-

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aspetta per darmi notizie… A me è capitato di diventarequello che sono, solo a me… sono solo…

La professoressa di lettere Agave Martinetto, in pen-sione e vedova da molti anni, si commuove. Molti non losanno chi era questa specie di Euridice che non si pote-va perdere, però capiscono dal colorito e dalla faccia diGuglielmino che lui sta parlando di un’anima dell’altromondo ma di un altro mondo che, per la stessa presen-za del contino Redenti e degli Ultimi Respiri, fa menopaura.

In quel momento entra in aula, senza che nessuno si vol-ti a guardarlo, Priamino: un ubriaco perenne. Nessunodirebbe che Priamino è un ubriacone perché l’alcol su dilui ha effetti soprattutto interiori e lui riesce a camminaredritto anche con le idee e i sensi impastati in un’unicaamalgama. Priamino mostra meno della sua età perché ilvino gli spiana le rughe, però inciampa in ogni pensieroche gli viene alla mente. Su certe idee, addirittura, inciam-pa in un modo che non si solleva più e resta con la fronteappoggiata al tavolo e le braccia penzolanti che sembrauno afferrato dalla morte improvvisa. Questa morte ap-parente arriva col dodicesimo bicchiere e dura mezzora.Poi Priamino ritorna in vita.

È ubriaco, e grida:– Chi schiaccia i foruncoli a Venere, visto che anche Ve-

nere ha i foruncoli in quei giorni? Chi? Ve lo dico io: Pria-mino glieli schiaccia!

Guarda tutte le facce presenti:– Facce angolari, ovali, trapezoidali, rotonde… che si

svegliano la notte per vedere se un Angelo è entrato nella

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Ei

Peante gli teneva la mano:– Se c’è… se c’è ho bisogno di saperlo da te, Peante…

Solo tu puoi…– Basta con le parole, Nicteo… Ci hanno tenuto compa-

gnia… Ma è meglio il silenzio delle pecore… Adesso ba-sta…

Nicteo alzò la testa dal letto:– Solo tu me lo puoi spiegare… proprio mentre succe-

de… Osserva e spiegami… Ecco, Ecco!– Basta con le parole… Non fare il prepotente… Tu im-

maginati in un gregge… Se ne manca una di pecora ilgregge non cambia granché, e la pecora che manca…

– Smettila tu con questa faccenda delle pecore… Comese tutta la saggezza del mondo ce l’avessero loro… Le pe-core… Le pecore… Basta con le pecore! E chi ha vissutosenza pecore? Come fa, secondo te?

Nicteo chiuse gli occhi e la testa gli cadde sul cuscino.Peante guardava le sue ciglia bianche. Possibile tutto que-sto sbiancare? Anche gli occhi sono diventati più bian-chi… Anche la pupilla di Nicteo era bianca…

Epipanormo alta e Talattone bassa facevano silenzioperché Nicteo moriva. Tutti volevano che morisse al tra-monto quando c’era ancora un po’ di luce. La città è stata

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gno e che in questo preciso istante, sono le dodici e quin-dici, il cancelliere Rumoretti verbalizza, la dottoressa Pa-neangelico fa le domande, l’avvocato Petinicchio e l’avvo-cato Araceli deducono e io presiedo… Questo vuol dire amisura di Codice. Io non conosco altri sistemi. Non sonoun prete!

Guglielmino riprende la sua bella faccia bianca e tutte ledonne si concentrano su di lui.

La dottoressa Paneangelico mette a tacere la propriapietra filosofale che era entrata in vibrazione e la facevasudare da tutte le parti.

Petinicchio si spolvera.Araceli riacchiappa le sopracciglia.Glicerio si instilla il collirio, molte gocce.Enrico e Battistino si raddrizzano sulla sedia e si petti-

nano con le dita.Priamino, in coma, si ricorda il gesto sedativo e beato

del bicchiere sollevato e avvicinato alle labbra.Melania sorride. Un lampo scocca dal prodigio inter-

planetario delle sue labbra che arriva sino alla fronte me-lanconica e prepotente di Guglielmino, e gli cade di manoil ramo di pesco che teneva dal momento della sua com-parsa sulla lastra quadrata e giusta di ardesia.

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vava sul suo viso la luce viola del sole che non precipitavama calava anche lui in armonia senza esagerare con coloriselvatici, sembrava che l’unica fondamentale e irrimedia-bile differenza tra Nicteo vivo e Nicteo morto fosse pro-prio la parola, definitivamente scomparsa dalle sue labbrae dalla sua testa bianca.

Così tutte le teste bianche di Epipanormo e Talattone -che in tanti anni si era popolato di molte teste nere e diqualche testa inspiegabilmente bionda - pensarono cheanche a loro sarebbe toccata, magari, una morte armoni-ca: la morte di Nicteo sarebbe stata un esempio per ogniabitante di questa città. Certo, loro non erano il popolofelice degli Iperborei, ma avevano trovato anche loro unmodo appagato di morire: morire parlando.

Fu l’ubriaco di Talattone, Priaminos, ad accendere il ro-go e, siccome il vino era la sua fonte sacra, la usò per com-porre il canto di morte. C’era poco tempo perché Nicteoera morto col caldo, come voleva lui… c’era poco tempo,poco tempo:

Tutto, tutto è già iniziato,mai puoi dire è terminato.

Molto vino, quando si concentra nelle vene, può finireper mandare a fuoco anche chi lo beve e Priaminos se nerestò lontano dal rogo. Lui si considerava un’anfora idea-le, semplice, senza fondo e collegata al mare che sentivaprofumato del vino.

Peante, tra i molti pensieri, chissà perché, tirò fuoriquello, leggero come una fonte, di Ptea… Ptea sott’acquache non aveva protetto Nicteo… Si diede una manata sul-

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costruita per prendere tutta la luce possibile perché que-sta era l’idea di Nicteo.

Anche Peante non voleva un’altra notte di agonia. Nonlo voleva morto col buio: chissà dove se ne sarebbe andatoa finire per lo spavento il suo amico morto. Nessun carromuove il sole e nessun gigante sostiene la terra. E le peco-re hanno un cervello piccolo, piccolo. Perciò, pensavaPeante, sono sempre così tranquille, persino mentre lesgozzano per fare un sacrificio.

Melania e Medina erano in giardino dove respiravanol’aria profumata degli alberi persiani che si erano molti-plicati e raccoglievano i frutti succosi che la sera erano fre-schi. Ne hanno portato uno anche a Nicteo e glielo hannofatto odorare perché lui diceva sempre che tutti questi al-berelli che facevano un fiore profumato e poi un fruttoancora più profumato e che si erano moltiplicati a Epipa-normo erano l’odore della città fondata da loro due.

– Seduto, Peante, voglio stare seduto e guardare davan-ti… Coricato vedo solo il soffitto…

Lo aiutarono a sedersi e gli girarono la testa verso ilgolfo:

– Mi dispiacerà non vedere più terra e mare, ecco, ec-co… e non sapere cosa faranno quelli che…

Morì parlando. Una morte così mite che per un po’ nes-suno se ne rese conto. Peante pensò che era una morteproporzionata e gli venne in testa che l’armonia aveva de-ciso tutto lei per l’amico il quale aveva utilizzato l’ultimofiato non per rantolare o gridare o fare versi spaventosi.Nicteo aveva usato la parola per andarsene all’altro mon-do. E ora che, seduto, con la testa reclinata su un lato, arri-

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IX

C’è tanto silenzio che le scarpe gommate dell’avvocatoPetinicchio fanno dolore ai denti di tutti come un’unghiache sfrega sulla lavagna. Pochi passi stridenti ed è davan-ti al giudice Favonio che, per istinto, si copre la faccia fin-gendo di stropicciarsi gli occhi:

Ma Petinicchio non vuole usare le sue polveri:– Siamo l’unica specie che si studia da sé. E qualcuno

studia le altre specie.Pausa.Il Giudice:– Filosofia, avvocato? Biologia? Antropologia? Ci pre-

venga sull’indirizzo della sua argomentazione. Dopo lametafisica del suo collega Araceli si cambia argomento?

Le gomme di Petinicchio sfrigolano:– Sì, esco dal mio terreno dove i paletti e i confini sono

asfissianti e infiniti… D’altronde la nostra è l’unica cate-goria, una specie mammifera a parte, che ha l’obbligodell’onniscienza perché tutto è toccato dalla luce del di-ritto… Dobbiamo sapere tutto!

Su questo tutto, a sorpresa, ma una sorpresa attesa cheè solo una mezza sorpresa, Petinicchio - senza che nessu-no riuscisse a capire da dove gli veniva fuori - emette unadensa, polverosa e opaca nube calcolata non per spaven-

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la guancia pendula. Ma che cosa diceva? Pensò a Ptea an-data a fondo da quando esisteva la città… Ptea l’avevaprotetto e riparato il suo amico morto a centoventunanni:Nicteo era vissuto e tutta questa serenità qua intorno, per-sino il rogo che bruciava con un crepitio dolce perché ilvento questa sera si era dato un limite di modestia… lestelle unite dalla linea che Nicteo negli ultimi anni avevadisegnato su una lastra d’ardesia… la brezza, Talattoneche produceva odori, Epipanormo profumata dagli ortidove le piante persiane avevano prodotto un’infinità difrutti profumati… tutta questa serenità era grazia sparsada Ptea.

Peante pensò a lungo alla dea della città e poi alle peco-re, all’ovile paterno dove il caldo seccava il pelo delle suebestie, e pensò all’acqua, che non c’era mai. L’acqua dalleparti sue era solo un’idea.

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soluto che un uomo possa compiere. Certo, – e si volta ver-so il professor Foramini perché si ricorda di Ptea,: – anchel’arte tocca l’infinito, qualche volta lo sfiora e qualche vol-ta ci entra dentro… ma è più difficile. Uccidere non richie-de arte e, qualche volta, neppure idee. Serve attenzione,cure, amore per i particolari ma arte no… E grande nonvuole dire grandioso… Ma abbastanza grande da distrarretutti da tutto, persino dal povero assassinato che in unacassa o in un forno diventa, a velocità differente, polveresimile a quella che io spargo intorno. È l’assassino che inte-ressa i vivi, non il morto che, tanto, è morto. I vivi si inte-ressano ai vivi, perciò chi vive fa le leggi.

Pausa giuridica.– Io voglio invece interessarmi, oggi, dei morti.Favonio ha uno scatto d’ira, lo reprime per paura delle

polveri e gli viene fuori una vocina:– E non ne avete parlato sino ad adesso? Volete interes-

sarvi a tutti i morti? Vero? Questo è un tema abbastanzafilosofico per voi? Preferirei attenermi al tema del pro-cesso. Attinenza, avvocato, attinenza.

L’ironia messa in mostra non piace a Petinicchio, luicrede che l’ironia deve restarsene nascosta. E poi non glipiace che Favonio si attenga e basta. Attenersi è da giudi-ci piccoli, superficiali, travestiti da giudici, non è suffi-ciente attenersi:

– I morti che ci hanno portato qua sono tutti i morti diquesta città, quelli che assomigliavano a noi, che avevanonasi, arti, colorito, la voce simile alla nostra. Di questi mor-ti intendo parlare. Persino gli animali morti: cani che ave-vano il pelo che ora vediamo addosso a un altro cane. Nel-lina, che mi permetto di indicare, tanto era di casa, come

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tare ma per ricordare a tutti la sua sconfinata forza para-lizzante:

– Non voglio fermare eventi o persone! Dottoressa Pa-neangelico, faccia riapparire il sereno, lei non deve giusti-ziare nessuno. Guglielmino si è dato da solo il patibolo. Egli Ultimi Respiri? Innocenti come un neonato roseo ap-pena sgusciato dalle vie materne! Alberico Gracchinidentro la damigiana ce lo ha messo Guglielmino. Gu-glielmino Redenti ha ucciso Tebe Mistrè per interrompe-re una genìa di puttane… Ha ucciso Egeico Lago e poiMedina Xaxa perché era sangue sfibrato… Non ha ucci-so Enrico Ricasoli perché era sangue vicino al suo e nean-che Battistino Mattiolo perché gli ricordava sangue buo-no… Sbaglio, signor fantasma?

La dottoressa Paneangelico, incomincia a sentire un ca-lore addosso che non è solo calore, si ricorda la castitàgiuridica e allora si raffredda:

– Avvocato, la sostanza!– La sostanza, sostanziata, ce l’avete davanti, dottores-

sa. Finalmente vi è apparsa la sostanza, l’essere sostanzia-le che, essendo, è e, se è, può essere giudicato. GuardateGuglielmino.

Lei Guglielmino l’aveva fissato sino al richiamo di Peti-nicchio. Lo guarda ancora e un’espressione da noviziapeccatrice disposta a ogni gioco appare sulla faccia delpiemme Paneangelico. Allora, anche se questo aumentagli effetti del peccato desiderato, non commesso, ma peg-gio che commesso, guarda per terra.

Petinicchio è invulnerabile:– Concorso in omicidio! Tutti sappiamo, anche i più

semplici, che l’omicidio è l’atto più grande e vicino all’as-

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Ricordi precisi levigati dai secoli:– Medina Xaxa veniva dalle parti più lontane dell’uni-

verso. La mia Medina è arrivata in una notte che le rette ele volute tracciate nel cielo stellato non si potevano piùcontare e il mio astrolabio era un giocattolo inutile. Io leho dato la sua prima agonia.

– Era un’altra Medina, un’altra!– E come avrei potuto resistere a vederla di nuovo in

una carne indebolita e scolorita, addormentata in una cul-la? È un delitto paragonabile a quelli che giudicate ognigiorno? È un delitto averla fatta contenta e poi averla uc-cisa in un modo dal quale non si torna indietro: spezzatain due parti? Io mi sono appeso all’albero del dolore e hoacquisito un diritto che voi non avreste previsto… Medi-na era morta, morta, qualunque Medina fosse…

Paneangelico sente un caldo forte intorno all’ombelico,i suoi gioielli bruciano, beve acqua, impallidisce e chiedeaiuto. Rumoretti, che durante l’udienza ha tenuto d’oc-chio le gambe senza pudore della dottoressa - gambe, ave-va pensato, di una donna pronta - Rumoretti corre ad aiu-tarla mentre sta per cadere e la sostiene.

Guglielmino non ci bada:– Non sono giudicabile, non qua e non da voi, ecco.Petinicchio l’aveva deciso dal primo momento, da ap-

pena Guglielmino era apparso sulla pietra sacra. Non lopoteva sapere se la sua polvere poteva funzionare sul fan-tasma bello e arrabbiato:

– È un delitto, Guglielmino Redenti, peggio di un delit-to perché è stato commesso con la sicurezza di scamparealla pena. Tu non credi di essere di essere carne per le no-stre celle! Ma non c’è bisogno della cella, non sempre!

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Nellina Ricasoli, chissà da dove arrivava. Anche le piantesi assomigliano da chissà quanto tempo e si ripetono.

Pausa.– Guglielmino Redenti ha bestemmiato oltre che am-

mazzato. Ha cercato di rivoluzionare questo ordine che,non ci evita l’altro mondo, ma, almeno, ci tiene in comu-nità… Lui la comunità la voleva distruggere. – Ancorapausa. – Ci ha rivelato cose importanti… Ma ha bestem-miato per un dolore personale che gli sembrava un doloreeterno e invincibile… Ha assassinato tre persone nellequali vedeva il veicolo della nostra razza, modesta, nera-stra, siccitosa ma identica… E ha portato la bestemmia al-le sue conseguenze più oscene…

Ora guarda il fantasma impallidito:– Perché Medina Xaxa era diventata improvvisamente

una donna che cercava luce e mostrava segni di felicitànuova, danzava e non dormiva più nella culla del figlio?Pezzi di pianeti fantastici erano arrivati dal cielo per Me-dina dopo tanto dolore…

Sceglie per un po’ la decenza del silenzio e poi indicaGuglielmino:

– Si era innamorata di te, vero?Lui si torce i bei capelli:– È vero, però io non potevo, non potevo…– L’hai ravvivata, riportata in vita e poi l’hai ammazzata.

L’hai imbrogliata.– Voleva morire.– L’hai imbrogliata.– Voleva morire.Guglielmino si sposta dalla lastra sacra al centro della

sala e si appoggia al muro.

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X

La prima parte di Guglielmino a diventare opaca sono ibei capelli neri. Solleva la fronte come un animale selvati-co che sente succedere qualcosa. Poi traballa, gli occhi ne-ri e smaglianti perdono lo smalto e ingrigiscono. Poi leguance rosa, poi le labbra rosse, le mani lunghe. Il sem-preverde Redenti, il due volte giovane, il quintessenziale,scatta, ma lo scatto è solo un movimento qualunque, nien-te di elastico o armonico. Cammina verso Petinicchio, madi colpo anche il passo è un passo qualunque.

Petinicchio sta facendo qualcosa di mai fatto, lo sa, cipensa e ha paura. E allora cerca aiuto nel mare davanti aEpipanormo che guarda dal finestrone dell’aula. Il mare èluccicante. Ptea l’ha cosparso di pagliuzze che tremanod’emozione e, ora, di spavento. Non guarda neppure Gu-glielmino che si avvicina.

Si concentra sul mare da dove gli arriva un fiato azzurroche per lui è il fiato di un dio al quale non ha mai creduto.

Guglielmino rallenta, si inceppa, si arrugginisce, sentedolore e la sua rabbia sale sino al tetto del Palazzo.

– Io non sapevo che sarebbe andata così quando l’albe-ro mi ha salvato e il profumo dei frutti mi ha conservatofiato e sangue…

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Guglielmino è appoggiato, spalle al muro e la testa bas-sa. Non si vede il bel viso.

320

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XI

Se un’anima con la configurazione di un’anima, incor-porea ma percettibile, apparisse in questo momento - unadi quelle anime che non sono mai ricomparse a consolarenessuno, neppure il figlio, la mamma o la persona amatadi più - se una di queste anime severe ma oneste e mossasolo dal desiderio di consolare, entrasse in aula, notereb-be che tra Guglielmino e i presenti (nel senso dell’esserepresente), tra Guglielmino e gli Ultimi Respiri - che eranoqualcosa di meno e qualcosa di più di un’anima - si è stabi-lito un astio che non ha nulla a che fare con i disegni delcatechismo che raffigurano gli angeli e le anime semprebuoni, di una bontà inespressiva e completa che oggi, in-vece, è assente tra le anime in aula.

Qua c’è un fantasma, fantasma nella verità delle cose enella verità giuridica, un fantasma verbalizzato, un’ombrascritta, un’anima affumicata da una nube che cancella laquintessenza aromatica e significante della pesca che haadornato Guglielmino sino ad ora.

La forza materiale della polvere di Petinicchio, intanto,si sviluppa con la costanza geologica della giustizia - fon-dendo ere in secondi - senza che nessuno, proprio nessu-no, possa determinare il punto di origine di quella polverepoco visibile che avanza verso un obiettivo definito.

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Si avvicina ancora.Amoracchio non è un uomo d’azione, è un uomo di ri-

serva, una mano sinistra che non ce la fa da sola:– {Signor Ricasoli, credo [ma è un’impressione] che l’av-

vocato corra un pericolo. Può essere [ma non posso affer-marlo] che le sue celebri polveri non siano onnipotenti}

Enrico si alza. Favonio solleva un braccio per fare alt.Ma Enrico fissa in estasi ipnotica Guglielmino. Sta an-dandosi incontro… sente - ma non lo sa spiegare - checammina verso un se stesso che è diventato crudele, hasofferto e ha prolungato il suo dolore all’infinito. All’infi-nito? All’infinito? E chi lo sa? Magari il suo dolore ora stafinendo e magari sta per finire tutto l’erratico muoversi eagitarsi e disperarsi suo e di Battistino… L’energia di Me-lania… perché non la sente? Non segue una linea drittaper arrivare a Guglielmino. Perché questo zig zag?

La donna dalle gengive enormi è diventata la ricono-sciuta autorità delle facce di ogni forma, naturale e inna-turale, dietro la balaustra di legno dove il coro aveva tro-vato con lei un capo sanguinario.

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– Ma non lo capisci, cardo spinoso, che sta avvenendouna cosa grande? Esci dalle parentesi, guarda e cerca dipensare e pensare.

Mancano tre metri.

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Petinicchio, lo sguardo fermo sul mare, continua ademettere una nube che ha ammutolito anche la donnadalle grandi gengive rosse, anche Paneangelico, ancheFavonio.

Amoracchio è colpito dalla nuvola solo come fenome-no oggettivo:

– {Ora aumenta, continua ad aumentare [constato]}

La nube si insinua, oltrepassando la barriera sfinita del-la cute ingrigita di Guglielmino, nell’infinito e microsco-pico delta dei capillari e poi passa nelle diramazioni arbo-ree dei vasi azzurri. Il sangue, al contatto col gas di Peti-nicchio, subisce un contraccolpo languido che gli ricordail rimbalzo dolce e duro del ramo del pesco quando si eraappeso.

Melania, la pelle aurea e il pelo d’ossidiana, mezzo di-sciolta in sudore emozionato, è vinta dai ricordi ma nonsa cosa si ricorda, non capisce.

Enrico ha capito che il sangue di Guglielmino è lo stes-so suo sangue ma che quello di Guglielmino si sta disfa-cendo e sente dolore.

Araceli non vuole perdere nulla di questo incantesimoanche giudiziario incominciato con l’apparizione - ma alui il termine comparsa piace di più - dell’impalpabile Fo-ramini degli Ultimi Respiri.

– {Tre, quattro metri [direi a occhio, ma solo come miarelativa e fallibile impressione] separano l’avvocato Peti-nicchio da Redenti Guglielmino}

Battistino mette a sedere Amoracchio:

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Ei

Quando il rogo diventò cenere pura e neanche un tiz-zone bruciava più, Peante restò solo al promontoriobianco che, dopo la discesa del sole, sembrava più altosul mare bruno e perfino più bianco.

Gli sembrò proprio che sbiancasse e facesse luce comele ceneri candide di Nicteo e si convinse che questa lumi-nescenza fosse l’ultimo barlume emanato dal suo amico.

Guardò in basso e gli scogli, che brillavano come scin-tille, gli apparvero ghiaia sparsa da una mano naturale ebenigna. La luce della scogliera non smetteva più. Il mareera di una calma da dio assonnato disteso sul suo letto disabbia.

Ora Peante aspettava il vento perché le ceneri di Nicteodovevano finire nell’acqua nutriente del golfo. Ne aveva-no parlato tante volte. E il vento, nell’ora giusta, arrivòdalla direzione del paese di Melania dove gli Iperboreiavevano continuato a vivere sereni e a morire inghirlan-dati. Questo era il vento dei prodigi e Peante, nonostantei centoventanni, si sentì un vigore pulito e onesto, non dagiovane, ma nella proporzione preziosa che tocca a unvecchio.

Ascoltò il fruscio della cenere portata via, che volò oltreil precipizio, si sollevò in alto e poi scese verso il marespargendo un chiarore notturno che lo incantò.

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Peante raccolse il bastone e iniziò il tragitto verso casadove Melania aspetta. Ancora con i capelli neri… un neroche non cambia…

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Peante non aveva mai pensato che tutto fosse nelle pa-role. Le usava per convincere, per vendere, per compra-re. Erano parole e al massimo servivano ad indicare e mo-strare. Ma poi, cosa potevano le parole davanti alle coseche c’erano intorno e come poteva, lui, esprimere senti-menti e pensieri con le sue parole? Il silenzio e le opere,bisbigliò.

Si voltò verso Epipanormo.Avevano costruito, costruito. Costruire.Le strade le avevano concepite e fatte secondo il corso

del sole e ora si vedeva che avevano seguito la più pura enaturale delle linee.

Il porto si era adattato alle curve della costa, non avevaspezzato correnti. I venti, come entravano nel porto dive-nivano brezze, e il mare non lo assediava con spruzzi altie violenti, mai.

I templi li avevano fatti, alti, utilizzando le pietre bian-che e zuccherine dei colli e il risultato era che vederli cal-mava e a entrarci si provavano sentimenti infiniti che il si-lenzio, secondo Peante, spiegava meglio delle parole.

Le case di pietra e di un impasto caldo e plasmabile dipaglia e fango.

Loro non avevano esercitato la propria forza sulle cosee le cose si erano disposte in consonanza, nella città alta ein quella bassa.

Gli stagni facevano respirare la rocca e il porto e spie-gavano perché erano diventati il rifugio di tanti uomini edonne.

Le zanzare le tenevano lontane con l’aceto così durantele notti calde e stellate tutta la città dormiva.

Arrivavano mercanti ma non portavano malattie.

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XII

Meno di tre metri e Guglielmino è toccato proprio infondo dalla polvere e dal suo sangue che rallenta. Il san-gue non può rallentare oltre un limite che è in proporzio-ne alla sua fluidità, lui, questo, lo sa: studiava le stelle el’anatomia e ha continuato per quattrocento anni.

La demenza del vecchio con la mandibola molle sinoallo sterno, la mancanza delle idee energiche, la vista de-cidua, l’udito catacombale, il tatto che non sente né spi-ne, né raso, i muscoli che fanno dolore, il dolore sentitonelle parti più infinitesime e dimenticate, dove non avevamai immaginato di sentire dolore, e la lentezza, soprat-tutto la lentezza… che patimento… lui che arrivava ela-stico come un giunco in ogni luogo mentre gli altri fatica-vano, sudavano e rallentavano pensieri e movimenti…

Petinicchio ha fatto un giro su se stesso.Petinicchio sembra il maligno, tanto più che - tutti se lo

sono dimenticato - lui doveva difendere il fantasma perdifendere Enrico e Battistino.

L’ordine, il ragionamento, la giurisprudenza e la leggesono finite gambe all’aria e adesso mostrano le loro partisconce, quelle da nascondere, le vergogne esposte comeuna puttana che attira i maschi allargando le gambe sinoa slogarsele.

331

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XIII

Glauco Glicerio era rimasto zitto e con gli occhi chiusisin dall’inizio per cercare di capire meglio. Quando li ria-pre, quello sano e quello in fiamme, vede il miracolodeforme di Guglielmino che si incenerisce piano piano adue metri dal mistico Petinicchio il quale sembra a tuttipiù alto, più pallido e onnipotente ed emette un immensospruzzo grigio come i topi di Talattone.

Allora Glicerio toglie di tasca il fazzoletto, se lo mettedavanti alla bocca e al naso per non finire intossicato,apre la giacca, cerca la pistola e si alza con uno scatto cheil ciclone, provocato dall’ingiustizia e dalla tiroide, rendefulminante.

Di Guglielmino, giovani e bianche, restano le mani elui, con gli occhi sbiaditi, se le guarda, si ricorda di quelloche ha toccato e fatto con queste mani.

Con tutta la forza degli ormoni che gli schizzano in ogniparte del torrente in piena del sangue, Glauco Gliceriosalta in mezzo alla sala, tra Petinicchio e Guglielmino. Lamano sinistra tiene il fazzoletto e la destra impugna, conuna forza virile che spaventa tutti, una pistola, ferma enera, che l’avvocato guarda con la bocca a forma di O.

Petinicchio ha una voce che viene da sotto la rocca diEpipanormo:

333

Così Petinicchio, forse stordito dalle sue stesse polveriperché in così grande quantità non ne aveva mai prodot-to, disposto ad esaurire il suo potere e a diventare un av-vocato senza polvere grigia, Petinicchio ha scelto la via,secondo lui morale ed esaltante, del profeta che perde laragione, che sorvola le leggi e le leggi le origina, le crea.

Dalla vecchiaia acuta che lui gli somministra Gugliel-mino passerà alla paralisi che sarà un monito, un avverti-mento. Poi si discuterà, poi si vedrà se è una condanna amorte, poi si vedrà se è morte.

Priamino, da una parte del cervello che il perenne co-ma etilico gli ha ben levigato, una parte antica, grida:

Tutto, tutto è già iniziato,mai può dirsi è terminato…

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Glicerio chiude l’occhio malato, punta il mirino sullafronte dell’avvocato:

– Una città normale, con morti normali, con assassinatiche hanno odore di cadavere, con processi senza paralisi,la città alta e la città bassa… Il pericolo siete voi…

– {Commissario, commissario [la prego] si fermi, perquanto vale la mia modesta, insignificante preghiera [ov-vero nulla]}

– Commissario, nel nome della legge normale, di quellache giudica cose normali, ossia nella norma, abbassi la pi-stola! Le assicuro e le garantisco sul mio pizzo che torne-remo alla norma!

– Commissario, io sono il piemme, sono io che costrui-sco le accuse… Mi pento! Ho costruito una mostruo-sità… È stata una mattana… Non spari!

– Commissario, io è come se indovinassi, quello là haucciso la mia vicina Tebe Mistrè, spari, spari, tanto lei èun commissario…

– In coro, tutti noi Ultimi respiri, la preghiamo di nonsparare e la prega anche il nostro onesto avvocato, tantoonesto che non cerca neppure più le parole…

– Commissario, troppo sangue, troppo, ecco… troppo,ecco, ecco…

Nella bufera c’è una confusione sterminatrice e c’è unrumore che batte tutti i rumori umani. E quando la tem-pesta continua e non si vede luce e non arriva calore, allo-ra ci si perde e l’espressione dell’uomo perduto è comequella del condannato che sta per morire e sta per smet-tere di esistere.

Così sembrava e si sentiva Petinicchio.

335

– Commissario! Questo è il mio difeso, mio, capisce? Ene faccio quello che voglio, come tutti gli avvocati! Èmio! È mio possesso! Ci sono donne in questa sala che loavrebbero rinchiuso nella propria casa e lo avrebberosoffocato con i loro gingilli da femmine! Ma lui le avreb-be decapitate, squartate, scannate, bruciate, torturate…Voi sapete cosa ha fatto quest’uomo - visto che tutti ab-biamo accettato che è un essere con le caratteristiche diun uomo e non solo quelle giuridiche? Lo sapete, vero?

Dall’occhio di Glicerio esce una goccia di sangue damartire perché questa energia che lo ha portato con unsalto davanti a Petinicchio non è energia sua:

– Ma io lo difendo… È come se difendessi carne mia…– la goccia rossa macchia la camicia di Glicerio. – Non homoglie, non ho figli, non mi piacciono gli uomini, se èquesto che intendete col vostro sorriso polveroso, avvo-cato. Io difendo Redenti Guglielmino da una giustizia in-feriore come è quella decisa da voi! È un fantasma!

L’occhio sanguina e arrossa la camicia:– La dottoressa Paneangelico ha sproloquiato e ora è

scombussolata dai suoi organi più incontaminati. Che sicontamini e non si distragga mentre si fa contaminare…che non pensi più al diritto mistico! Il processo astrattoha preso anche voi, avvocato… e siete diventato, a forzadi rimuginare, un pazzo infiammato.

– Guglielmino è un pericolo e l’unica soluzione, doveteconvincervi, è la paralisi delle mie polveri…

– Guglielmino l’avete già rimandato al nulla, Petinic-chio… Guardatelo… Lui ha liberato gli Ultimi Respiri…Anche loro accusati come se avessero carne, ossa e tutto ilresto… Ora il pericolo siete voi, avvocato Eligio Petinic-chio…

334

Page 170: Giorgio Todde Ei

Ei

Il bastone di legno di Peante non era pregiato - l’avevaricavato da uno di quegli alberi dei frutti profumati e nonaveva voluto che nessuno glielo scolpisse - ma, dove lo im-pugnava, aveva preso la forma giusta per la sua mano e,anche se vedeva bene, lo usava la sera per controllare ilcammino, passo per passo, e si rassicurava perché eraconvinto che la posizione più giusta di un uomo è quellaall’impiedi.

Il figlio Teedecteto lo aspettava alle falde del promonto-rio con un asinello piccolo, tanto piccolo che lui ci si sede-va come su una seggiola.

Il vecchio guardò le candele di Epipanormo e di Talat-tone, ogni casa una candela.

Lento lento percorse il sentiero in discesa. Era notte maun po’ di chiarore di Nicteo, in qualche forma sulla qualelui non si è fatto domande, era rimasto sul promontorio ePeante vide il profilo di Teedecteto.

La fronte, il naso, il mento, questo mento che conclude-va una mandibola perfetta e il collo da statua… Dunque,pensò, Melania rimaneva, continuava.

Salì sull’asino e l’animale, senza ordini e pungoli, trottòverso la città e sbatacchiò pensieri e pensieri nella testa diPeante.

337

Page 171: Giorgio Todde Ei

XIV

Formano un cerchio sacro e silenzioso, inginocchiati in-torno al corpo lungo e mezzo incenerito del giovane seco-lare, come si sta inginocchiati davanti all’eterno.

I gesti del morente. Che rabbia non capirli.Araceli sussurra:– Eppure vorranno dire qualcosa… Commissario voi

capite cosa vuol dire Guglielmino? Avete un’idea? È im-portante…

Guglielmino muove la testa di lato, lentamente e poi lariporta dritta.

Glicerio ha tutt’e due gli occhi rossi:– Qualcosa vorrà dire… Sente dolore… oppure non

sente… o pensa… oppure questa, forse, è solo un’ago-nia… solo un movimento.

Enrico è più che inginocchiato, lui è prostrato davanti aquesta ripetizione di sé che ora muore. Vorrebbe soste-nerlo ma sostanza da sostenere non ce n’è più:

– Non voglio parlare. Le cose che ho in testa non devo-no essere dette, non sono fatte per essere dette.

Avvicina l’orecchio al morente: niente, nessun bisbiglio,neppure un respiro. Ma questo movimento del capo…forse Guglielmino dice che non è possibile quello che ac-cade, ma che questo aveva voluto… voleva essere giudica-

339338

Page 172: Giorgio Todde Ei

Enrico non sa quale nuovo metabolico entusiasmo at-traversa tutto il solido corpo di Melania che si è infervora-to in una recente e orgogliosa gravidanza.

Era questo suo stato superiore che l’aveva fatta alzarequando Glicerio impugnava la pistola e la puntava sul-l’avvocato che spruzzava le sue polveri velenose. Si era al-zata e si era avvicinata a Glicerio: “Non lo ammazzi, com-missario, non lo ammazzi… Spari, questo sì, spari vicinoall’avvocato, lo spaventi… Ma non lo ammazzi… Questanon è la fine di niente.” A questo suo nuovo stato avevaobbedito, senza capirlo, Glauco Glicerio che aveva spara-to ma non su Petinicchio il quale, però, per lo spavento, siera accasciato.

Ora Enrico sente che la temperatura di Melania è muta-ta, e ci si rifugia.

Il processo.Araceli si guarda intorno… Foramini… dov’è? Gli

sembra di vederlo. Lo insegue sino al corridoio del Palaz-zo. Lo trova fermo che guarda per terra, sulle mattonelle,i segni neri delle suole di Petinicchio trascinato via:

– Avvocato Araceli, non so cosa ci aspetta, me e gli altriUltimi Respiri. Non ho paura. È che non ho capito cosa èsuccesso… Non li vedo più non ritrovo più… E anche ionon mi sento come prima.

– Il processo, professore, il processo ha avuto un effet-to… una sentenza, si può dire… Insomma un risultato c’èstato.

– Un risultato?Araceli ha le sopracciglia orientate verso terra:– Un risultato… ottenuto senza sentenze, senza parole

341

to… Sennò perché è apparso sulla lastra nera, l’ombelicodella città? Voleva una punizione e voleva questa condan-na…

Favonio, le due punte del pizzo congiunte, guarda versoPetinicchio che si asciuga il sudore, sfinito, spettinato efolle mentre lo portano via accompagnato da Amorac-chio. L’avvocato, la faccia di terracotta, ammattito e senzapolveri grida:

– Senza il verbo essere non esisterebbe la parola… Èstata la prima invenzione dell’uomo… Senza il verbo es-sere, senza l’idea contenuta nel verbo non esisterebbenulla, nulla! L’orologiaio conosce il Tempo della vittima,ma non lo può cambiare, non lo può accorciare, non lopuò allungare… Io, io, io! Io ho sentimenti da equatore!Anche lei dottoressa Paneangelico ha sentimenti tropicalima in un corpo alpino! Pensieri grandi, grandi! Io, io, io!

Melania sente caldo, sente il suo corpo tramandato:– Enrico, andiamocene, si dimentica tutto e i fatti, ve-

drai, si addolciscono… andiamo viaBattistino poggia una mano sulla spalla dell’amico:– Enrico, abbiamo visto tutto e non abbiamo capito

niente. Che razza di intelligenza… Abbiamo giusto quellache serve per vivere e di altra non ce ne facciamo nulla…Non c’è nulla da capire: sono cose avvenute… Petinic-chio è impazzito e non farà mai più male a nessuno… Maper me era già pazzo. Andiamo… Questa è cenere, non èpiù Guglielmino… Non fa più odore di pesca, non è piùquintessenza… È un morto.

Melania cerca di accarezzare la fronte di Guglielminoma ormai lui è solo fuliggine:

– Non è ancora morto…

340

Page 173: Giorgio Todde Ei

Enrico chiede alla memoria di dimenticare. Povera me-moria sfinita che lui tortura tutti i giorni e che di notte sicancella con una pastiglia candida e perfetta. Vorrebbesolo continuare il suo studio sui bagni greci della città,quanta gente c’era e viveva, immaginare, fare percorsipiccoli e fantasie grandi.

Esce, mani in tasca e capo chino tutte le mattine. Ognigiorno va a vedere, lui dice proprio che va a trovarla, co-me una visita a un vivo, la statua di Ptea. Quando non c’ènessuno la tocca e siccome Ptea è in alto, arriva solo ad ac-carezzare i piedi e i polpacci. Ecco, ecco…

Oggi, dopo la visita alla statua dell’armonia, ha preso lateleferica oscillante, ha vertigini e guarda sempre in bas-so, scende a Piazza dei Naviganti e in tram va al mare alleGrotte di Panope.

Si cambia, legge un poco il libro che gli ha dato Battisti-no e poi senza la scorta di pesci argentati, che appare soloper Melania, fa un bagno.

Ma non è un bagno, è un’immersione sacra, un battesi-mo.

Galleggia a pancia in su, vede le nuvole, se ne sceglieuna alta, bianca e ha una vertigine in forma di schiaffoperché è tutto troppo per lui. Ha bisogno di poco, pia-ceri non troppo grandi e dolori più piccoli possibile.

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sconce e frantumando perfino la procedura… il processoha ristabilito la norma. Capisce? La norma! Tutto ritornanella norma fissata e costituita…

– E noi? Noi ultimi respiri come la mettiamo con la nor-ma? Eppure abbiamo pagato la parcella: Ptea l’abbiamoconsegnata alla città… Povera Ptea…

Araceli cerca di abbracciarlo ma di Foramini non ce n’è,non gliene resta tra le braccia.

Fuori dal Palazzo il vento alto del nord ha aperto un im-menso corridoio celeste nella stratosfera e da terra si vedeil nuovo varco grande, aperto e pulito. Arriva sempre ilvento settentrionale che cambia tutto: da questo smisura-to corridoio celeste.

Così, dentro l’aula, dai vetri del lucernario entra un co-no di nuova luce bianca, e un pulviscolo che finiscono ad-dosso a Guglielmino disteso sulla lastra d’ardesia. Eognuno vede che, lentamente, lui porta la sua mano di ce-nere alla bocca come fa uno che mangia o che desidera si-lenzio - nessuno sa cosa vuole dire - e questo resta l’ultimoincomprensibile e non misurabile gesto del morto.

342

Page 174: Giorgio Todde Ei

INDICEAllora si volta e nuota. Apre gli occhi, si sente al sicuro,e sotto l’acqua vede e guarda e gli sembra di non stancar-si mai perché in questo liquido lui, in questa mattinatabianca, in questi pochi panni, si sente proprio un grandebambino sereno generato da una grande energia.

344

Page 175: Giorgio Todde Ei

VIII 299

Ei 311

IX 315

X 321

XI 323

Ei 327

XII 331

XIII 333

Ei 337

XIV 339

INDICE

Ei

I 7

II 53

Ei 83

III 107

Ei 127

IV 151

V 163

Ei 201

VI 237

Ei 245

VII 275

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Giulio Angioni, Millant’anniLuciano Marrocu, Debrà LibanòsGiorgio Todde, La matta bestialità (2a edizione)Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»Marcello Fois, MaterialiMaria Giacobbe, Diario di una maestrinaGiuseppe Dessì, Paese d’ombreFrancesco Abate, Il cattivo cronistaGavino Ledda, Padre padroneSalvatore Niffoi, La sesta oraJack Kerouac, L’ultima parola. In viaggio. Nel jazzGianni Marilotti, La quattordicesima commensaleGiorgio Todde, Ei

Narrativa

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentitoMarcello Fois, Nulla (2a edizione)Francesco Cucca, Muni rosa del SufPaolo Maccioni, Insonnie newyorkesiBachisio Zizi, Lettere da OruneMaria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanziaGiulio Angioni, Il gioco del mondoAldo Tanchis, Pesi leggeriMaria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici paraboleGiulia Clarkson, La città d’acquaPaola Alcioni, La stirpe dei re perduti

Poesia

Giovanni Dettori, AmaranteSergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondoGigi Dessì, Il disegnoRoberto Concu Serra, Esercizi di salvezzaSerge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Volumi pubblicati:

Tascabili . Narrativa

Grazia Deledda, ChiaroscuroGrazia Deledda, Il fanciullo nascostoGrazia Deledda, Ferro e fuocoFrancesco Masala, Quelli dalle labbra biancheEmilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2a ristampa)Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addioSergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeriGiulio Angioni, L’oro di FrausAntonio Cossu, Il riscattoBachisio Zizi, Greggi d’iraErnst Jünger, Terra sardaSalvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2a edizione)Luciano Marrocu, Fáulas (2a edizione)Gianluca Floris, I maestri cantoriD.H. Lawrence, Mare e SardegnaSalvatore Niffoi, Il postino di PiracherfaFlavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2a edizione)Giorgio Todde, Lo stato delle animeFrancesco Masala, Il parroco di ArasolèMaria Giacobbe, Gli arcipelaghi (ristampa)Salvatore Niffoi, Cristolu

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Saggistica

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitarioGiancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in

Pascale Dessanai

FuoriCollana

Salvatore Cambosu, I raccontiAntonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padreAlberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea

I Menhir

Salvatore Cambosu, Miele amaroAntonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta bar-

baricinaGiovanni Lilliu, La civiltà dei sardiGiulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna

In coedizione con Edizioni Frassinelli

Marcello Fois, Sempre caroMarcello Fois, Sangue dal cieloGiorgio Todde, Lo stato delle animeMarcello Fois, L’altro mondoGiorgio Todde, Paura e carne

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2004

dalla Tipolitografia ME.CA. - Recco GE