II Numero Speciale 2014 -...

41
II NUMERO SPECIALE 2014 CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI” BOLLETTINO

Transcript of II Numero Speciale 2014 -...

II NUMERO SPECIALE 2014

CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BOLLETTINO

AVV. RENATO ALBERINI

Ringrazio tutti i presenti di essere intervenuti a questo importante appuntamento, ringrazio anche i colleghi venuti da fuori sede, che ci fanno l’onore di partecipare ai nostri incontri.

Prima di iniziare i lavori desidero ricordare un nostro collega che di recente è scomparso, dopo una breve, ma inesorabile, malattia che non gli ha lasciato scampo: è l’Avvocato Giorgio Pavan. Di lui in questi giorni si sono dette molte cose: battagliero mai domo, pronto a dare tutto per l’Avvocatura e per garantire i servizi ai cittadini, persona di grande intelligenza, simpatia e umanità. Definizioni che tutti noi gli riconosciamo e che condividiamo, però quest’oggi mi piace, proprio in occasione di un convegno della Camera Penale, poter ricordare Giorgio come un grande amico, che molto ha dato alla nostra Camera Penale e il cui intelligente puntuale contributo certamente ci mancherà. Ci stringiamo tutti idealmente al figlio Francesco, che è un nostro collega, che tra l’altro lavora nel Consiglio direttivo della Camera Penale, e, per tale ragione, proprio nel ricordo di questo grande amico e collega, vi chiedo di alzarci in piedi e di osservare un minuto di raccoglimento.

VIENE OSSERVATO UN MINUTO DI RACCOGLIMENTO

Quando, pochi giorni dopo l’uscita della sentenza della Corte Costituzionale, in Consiglio direttivo abbiamo pensato di organizzare un convegno proprio sulle numerose tematiche che avrebbe comportato l’interpretazione e l’applicazione pratica di questa sentenza, abbiamo pensato di fare un gentile omaggio al nostro amico Zaffalon investendo la Commissione Cultura per vedere se riesca ancora una volta a stupirci e ad organizzare in un mese da par suo un convegno sul punto. Devo dire che non ci ha sorpreso il fatto che sia riuscito miracolosamente ad organizzare un convegno di siffatta levatura, con relatori veramente di altissimo livello e profilo, soprattutto che dia risposte in tempo reale alle numerosissime questioni che questa sentenza ha portato.

Sull’ultimo fascicolo di Guida al Diritto si dice che gli effetti della sentenza della Consulta n. 32/2014 hanno prodotto problemi interpretativi e legittimato un sistema di norme carenti e a volte irragionevoli.

Per tali ragioni abbiamo deciso, cercando anche di arrivare prima di quella che potrà essere la risposta delle Sezioni Unite (investite di varie questioni dalla prima sezione della Corte di Cassazione), che se non sbaglio dovrebbero pronunciarsi il 28 maggio prossimo venturo, di affrontare noi subito queste questioni e cercare di dare delle risposte.

Do’ la parola al nostro amico Elio Zaffalon per una breve introduzione, dopodiché cominceremo con i vari interventi.

AVV. ELIO ZAFFALON Cercherò di soddisfare queste esigenze di brevità. Vorrei però prima ringraziare anch’io i relatori per la loro disponibilità ed in particolare il Prof. Manes per averci mandato quel suo magnifico lavoro che è stato distribuito.

Come sapete, la sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014 ha di fatto ripristinato la normativa del D.P.R. 309/90 sul punto principale della distinzione fra droghe leggere e pesanti. Sapete anche che si è trattato di una sentenza che non ha toccato il merito della disciplina, ma ha rilevato la illegittimità sotto il profilo formale, in quanto la legge di conversione del D.L. Fini-Giovanardi si era spinta al di fuori e al di là delle tematiche che erano state trattate dallo stesso decreto. Per la verità, non è del tutto vero questo punto, nell’originario Decreto Legge essendovi una norma sul recupero dei tossicodipendenti.

Si sono aperti immediatamente i problemi in ordine all’applicazione oggi di una disciplina di 25 anni fa. Sapete tutti che le tabelle sono provvedimenti amministrativi e non legislativi. Da quell’epoca erano stati introdotti aggiornamenti, modifiche, integrazioni di quelle tabelle, seguendo il percorso perverso delle nuove droghe.

Il Governo è corso ai ripari con il D.L. n. 36/14 (ancora non convertito), cercando in qualche modo di aggiustare la situazione per quanto fosse possibile. Al momento questo decreto, da una lettura sommaria, non sembra soddisfare tutte le attese; per esempio, per quanto riguarda le tabelle di cui si diceva prima, i cannabinoidi sintetici e le droghe chimiche, tabellate dopo gli anni ‘90, ovviamente non erano nelle tabelle originarie; ma, anche, non so quanto sia stato preso in considerazione un punto che riguarda la cannabis indica, con i suoi derivati, hashish e marijuana, che (come sappiamo), in forza di non so quali diavolerie chimiche, mentre all’origine avevano principi attivi di 0,50, 1 o 2%, poi sono arrivati anche al 10 o 15%. Tra l’altro, questo, come ricordiamo, era il motivo per cui la Fini-Giovanardi ha unificato le tabelle dicendo che ormai anche questo settore della cannabis indica doveva ritenersi una droga pesante. Adesso non voglio mettermi a discutere di questo, ma accenno soltanto: in realtà il criterio, come abbiamo letto negli articoli scientifici, badava solo all’unificazione sulla base della quantità cioè dell’aumento del principio attivo, ma non ha badato più di tanto alla qualità, cioè al fatto che, comunque, non si trattava di eroina o di cocaina; e quindi era discutibile quell’unificazione. Non vedo però quanto il D.L. n. 36/14, in via di conversione, abbia esaminato questo profilo.

Anche in tema di disciplina dei medicinali con stupefacenti è un po’ la stessa cosa: tutti i medicinali che si usano nell’ambito della cosiddetta “terapia del dolore” hanno questi problemi di classificazione, anche in ordine al fatto che i reati riguardanti l’uso di questi medicinali hanno una sanzione attenuata rispetto a quelli comuni. Non vedo anche qui quanto ci sia stato di considerazione da parte del cit. recentissimo decreto.

C’è poi un punto importante, cioè la scomparsa della cosiddetta “q.m.d.”, “quantità massima detenibile”, prevista dalla Fini-Giovanardi. Ne consegue l’“eccessiva” discrezionalità dell’Autorità Giudiziaria in ordine a due valutazioni molto importanti: quella sull’uso non personale, che la precedente legge con tutti i suoi difetti aveva in qualche modo agevolato introducendo una presunzione iuris tantum di spaccio quando fosse stata superata la q.m.d.; e quella sulla “quantità ingente”, perché tutta la giurisprudenza, secondo cui le quantità inferiori alle duemila dosi di q.m.d. non giustificano (salvo prova contraria) la definizione di quantità ingente, ora evidentemente non ha più il punto di riferimento.

Come effetti abbiamo intanto un ripristino secco del minimo edittale per le droghe pesanti di 8 anni; con la Fini-Giovanardi, come ricordate, l’unificazione aveva portato a un’attenuazione del minimo, appunto in riferimento al fatto che si disciplinavano anche le droghe leggere; adesso ciò è stato rideterminato con la vecchia disciplina e quindi si ripropone quel minimo. E’ quella giurisprudenza costituzionale che il prof. Manes definisce “in malam partem”nel suo articolo (che personalmente ho molto apprezzato, essendo io molto curioso delle intersecazioni fra le istituzioni costituzionali, una tematica molto importante per una democrazia parlamentare, intersecazioni che nella prassi purtroppo non vedo molto rispettate; Manes ha sottolineato quello che avviene per i decreti-legge: già da anni è stato denunciato l’abuso di questa forma di provvedimento legislativo da parte del Governo; ma adesso la Corte Costituzionale è intervenuta piuttosto pesantemente, o quanto meno più di altre volte, forse innovando come linea, in ordine alla legittimità di una legge di conversione che non rispetti l’oggetto che era stato trattato dal decreto legge).

Considerazioni di diritto intertemporale. C’è ovviamente un problema di applicazione della legge più favorevole: per i fatti precedenti alla sentenza n. 32 per le droghe pesanti potrà in astratto invocarsi l’applicazione sempre del minimo di 6 anni.

C’è poi una questione che attiene al giudicato. La dottrina (per quanto ho visto) è in grande prevalenza d’accordo sul punto che il giudicato è intoccabile dalla sentenza n. 32 della Corte Costituzionale: per l’art. 673 della procedura penale la revoca della sentenza definitiva può intervenire soltanto per abrogazione o incostituzionalità della norma incriminatrice: ma qui abbiamo solo la modifica del trattamento sanzionatorio; per l’art. 30 della Legge 87/53, in tema di effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, l’efficacia immediata (così come prevista dalla norma) riguarda solo i procedimenti pendenti.

Ci sono alcuni cenni da fare per quanto riguarda la questione dei processi pendenti. Naturalmente, se il processo è pendente non c’è la sentenza passata in giudicato; ma se l’impugnazione proposta fosse inammissibile, voi mi insegnate che il giudicato si è già formato e quindi non cambia nulla, non c’è nessuna efficacia su un processo con impugnazione inammissibile.

Per quanto attiene il reato continuato, tutti sappiamo che con la legge dichiarata incostituzionale nel caso di condotte illecite attinenti a droghe sia leggere che pesanti

era caduta l’ipotesi del reato continuato perché si trattava di un unico reato. Adesso, con il ripristino delle due categorie, evidentemente si tratta di due reati distinti e quindi la contemporanea detenzione a fini di spaccio di questi due tipi di droghe determina se ci sono i presupposti la commissione di due reati che vengono legati dalla continuazione. Nel caso di reati commessi prima della sentenza n. 32, ma successivi alla Legge Fini-Giovanardi che escludeva la continuazione, ovviamente diventa legge più favorevole la Fini-Giovanardi e quindi non si applicherà l’aumento per continuazione.

Un ultimo cenno sulla custodia cautelare. La riduzione delle pene per quanto riguarda lo spaccio di droghe leggere determina la conseguente riduzione dei termini massimi di fase della custodia cautelare, quindi (ricordo): indagini preliminari 3 mesi, giudizio ordinario 6 mesi, giudizio immediato 3 mesi.

Vengo ad altre due normative che vanno trattate (cerco di farlo telegraficamente), in quanto la prima è rimasta integra nonostante la sentenza n. 32, la seconda ha abrogato un istituto importante: il lavoro per pubblica utilità.

Vengo alla prima normativa, il D.L. n. 146/2013, convertito in legge n. 10/2014. Come tutti ricordiamo, con questa normativa il fatto lieve è stato trasformato, almeno così è stato ritenuto dalla dottrina e ha avuto conferma in giurisprudenza, in reato autonomo. Subito è stato posto un problema (ma forse qualcuno va in cerca di sfrugugliare un po’ troppo) di illegittimità costituzionale sotto il profilo, dal punto di vista logico proponibile, che si tratta di una norma con una sanzione indiscriminata – da 1 anno a 5 anni, essendo stata ridotta la pena massima di 6 anni – mentre, dopo il ripristino della normativa del 1990 che prevede due categorie con due sanzioni, si sostiene che anche il fatto lieve avrebbe dovuto venire sanzionato con pene edittali diverse: una per il fatto lieve sulle droghe pesanti, altra minore per il fatto lieve su droghe leggere. Per la verità è intervenuta già la Cassazione, con una sentenza peraltro mi pare un po’ sbrigativa, dicendo che siccome da 1 anno a 5 anni l’escursione della sanzione è rilevante, il Giudice ha tutte le possibilità di proporzionare la sanzione alla tipologia della lievità. Ricordo soltanto che la riduzione della pena massima da 6 a 5 anni determina delle conseguenze ovvie: la riduzione dei termini di prescrizione e la riduzione della durata massima della custodia cautelare.

Ultima osservazione riguarda il decreto legge n. 78/2013, convertito in legge n. 94/2013, sul lavoro di pubblica utilità. Questo istituto era previsto dalla Legge Fini-Giovanardi, quindi la illegittimità determina la scomparsa dell’istituto, non previsto né dal D.P.R. n. 309/90 né dal cit. D.L. n. 146/2013. Il D.L. 36/2014, emanato a marzo, non se ne occupa proprio. Mi auguro che in sede di conversione il Parlamento si ricordi che questo era uno degli istituti che più facevano onore alla Legge Fini-Giovanardi (sotto altri profili molto vituperata). La dottrina, come dicevo, è piuttosto conforme nel sostenere questa scomparsa. Ricordo soltanto che l’art. 73 con le modifiche intervenute nel tempo contiene i commi 5 bis e 5 ter: il primo è illegittimo

in base alla sentenza della Corte Costituzionale, il secondo ha per oggetto il primo. Quindi secondo la dottrina non c’è nessuna possibilità di recupero, è una illegittimità a cascata. Per la verità Giuseppe Amato, autore prima citato dal nostro Presidente, ha sostenuto il contrario, però con argomenti che non voglio qui affrontare perché, da un lato, mi sembrano di difficile condivisione e, dall’altro, penso che i nostri relatori vorranno esaminarli come si deve. Sottolineo che anche qui si pone il problema della legge più favorevole: per i fatti successivi alla Legge Fini-Giovanardi, quindi al 2006, fino alla sentenza n. 32, la legge più favorevole è quella sul lavoro di pubblica utilità e quindi sembra che possa prevalere, anche se non si tratta proprio di una norma incriminatrice.

Ho già parlato troppo, quindi vi chiedo scusa e vi ringrazio per l’attenzione.

AVV. RENATO ALBERINI Grazie, il tuo intervento ha già inquadrato le varie questioni poste dalla sentenza della Corte Costituzionale. Per la quale qualcuno addirittura ha parlato di intervento demolitorio; proprio su questo è intervenuta anche la nota del prof. Vittorio Manes, che ringrazio per avercela mandata in anteprima, onde sarà lui a cominciare a darci qualche indicazione più specifica dal punto di vista dottrinario ma anche qualche risposta.

Ricordo che il prof. Vittorio Manes è associato di Diritto Penale presso l’Università di Bologna e lavora presso il Servizio Studi della Corte Costituzionale: quindi nessuno meglio di lui ci può dare indicazioni sulle specifiche tematiche di effetti diretti e indiretti provocati da questa importantissima e rilevante sentenza.

Prego, Professore.

PROF. AVV. VITTORIO MANES Grazie, anzitutto, alla Camera Penale Veneziana per questo invito, a parlare di un tema che francamente non è affatto semplice, soprattutto è molto poliedrico, molto sfaccettato.

Cercherò, visto che questo mi è stato chiesto, di introdurre le questioni principali soprattutto muovendo dalla decisione della Corte Costituzionale, anche se (approcciandomi a questa materia, soprattutto a quella che in queste settimane dopo la decisione della Corte la giurisprudenza sta cercando di governare: la frantumazione stellare che è stata indotta da una decisione così importante), mi viene in mente una prima riflessione su quanto oggi si siano alterati, direi rovesciati, i rapporti tra diritto e processo. Nell’immaginario illuministico, lo sappiamo tutti, il diritto sin dai progetti

delle codificazioni, il diritto penale tanto più, era immaginato per durare nel tempo, per resistere al tempo, e questa era l’idea di fondo che ispirava il Codex come testo conchiuso, anche in una certa compiutezza e graniticità, e il processo, invece, doveva essere molto breve. Gli illuministi patrocinavano una giustizia facile, pronta, imparziale, un processo di brevissima durata, e invece paradossalmente i rapporti oggi tra processo e diritto, proprio con riferimento alla durata, sembrano essersi rovesciati e descrivere quasi un chiasmo: il processo è estremamente lungo e ha nella sua lunghezza anche una carica di afflittività che più volte ci ha esposto e continua a esporci alle reprimende della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e la durata invece del diritto, anche del diritto penale e della sua vigenza, è sempre più breve: il diritto penale è diventato effimero, cambia completamente e continuamente, e questo naturalmente scarica su chi deve applicarlo il compito, spesso immane, spesso molto difficile, di dover gestire le ricadute consequenziali di questa dimensione intertemporale ormai diventata così rutilante, incalzante. In queste settimane la giurisprudenza sta dando adito a una serie di indirizzi, di orientamenti, i più divergenti tra loro, non c’è assolutamente uniformità. I nostri colleghi americani dicono che sembrerebbe uno scenario da “breakfast sentencing”, cioè dipende tutto se il Giudice abbia consumato o meno una buona colazione per capire cosa deciderà nel caso concreto, tali e tante sono le possibilità interpretative aperte da questa decisione, che interviene dopo quasi dieci anni di vigenza della legge Fini-Giovanardi. Dalla quale vorrei partire perché ricordo ancora quando, proprio su impulso del Prof. Gaetano Insolera, che non solo in questa materia è un maestro soprattutto nell’individuare i temi da affrontare, una decina di anni fa, a ridosso di quella importante riforma, la legge Fini-Giovanardi, decidemmo di scrivere un libercolo dal titolo abbastanza significativo: “La legislazione penale compulsiva”. In quel libro si denunciavano già dei profili di marcata incostituzionalità di quella riforma, che sostituiva la precedente legge cosiddetta Jervolino-Vassalli, allora esito della consultazione referendaria del ‘93, lasciando in qualche modo intatto l’impianto di fondo del modello italiano di contrasto agli stupefacenti, ma introducendo delle gravi, estremamente significative, innovazioni di carattere sistematico. L’impianto di fondo lo conosciamo tutti, il modello di contrasto italiano al traffico della droga, un problema anzitutto sociale della droga, e un modello declinato su un proibizionismo penale, punitivo, temperato in particolare dalla distinzione tra attività di spaccio, cioè attività lato sensu di detenzione, importazione, esportazione, acquisto a fini non esclusivamente personali, e attività invece di consumo personale. La seconda costellazione di ipotesi è accompagnata da una rilevanza meramente amministrativa, ancorché si tratti di sanzioni amministrative piuttosto graffianti, contundenti; la prima, costellazione di ipotesi riconducibili all’attività di spaccio è invece accompagnata da un trattamento punitivo molto severo. Questo modello di proibizionismo temperato è declinato su una distinzione di tipi criminologici che è quella tra spacciatore e consumatore, sulla quale peraltro oggi ci sarebbe molto da riflettere visto che questa distinzione, questa dicotomia, sembra sempre meno rispondente al vero, perché ci sono molti consumatori che si finanziano con lo

spaccio e quindi, di conseguenza, questa alterità tra figure criminologiche non appare fondata. Dicevo, quando interviene la legge Fini-Giovanardi interviene con innovazioni sistematiche di grandissimo rilievo. Interviene anzitutto ed è veicolata da un procedimento legislativo rocambolesco dal punto di vista formale. C’è un decreto legge in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino che si occupa di vari profili, anzitutto di carattere finanziario, e tocca il tema delle tossicodipendenze solo quanto a misura di recupero del tossicodipendente. Durante la conversione in legge di questo decreto vengono surrettiziamente introdotte due norme che modificano in modo estremamente significativo il nucleo duro della legge Jervolino-Vassalli. Le innovazioni principali sono (lo ricorderete) lo slogan con cui fu accompagnata dieci anni fa: “Tolleranza zero contro qualsiasi tipo di droga e parificazione del trattamento sanzionatorio quale che sia la droga oggetto dell’attività illecita, sia essa rientrante nella categoria delle droghe pesanti (eroina, cocaina), sia essa rientrante invece nella categoria delle droghe leggere (derivati della cannabis: hashish, marijuana e cannabinoidi).

Altra innovazione di grande impatto allora, che vedremo ormai è lettera morta, fu quella di cercare di governare la profonda discrezionalità giudiziaria che spesso, secondo taluni commentatori, degenerava in arbitrio nella distinzione tra consumo per finalità squisitamente personale e spaccio. Si introdussero dei criteri, in particolare di carattere quantitativo, per distinguere le condotte di detenzione orientate o ancora compatibili con la finalità di consumo squisitamente personale da quelle, invece, incompatibili con questa finalità: lo ricorderete, si scelse di guardare anzitutto al superamento della quantità massima detenibile come prevista da un decreto ministeriale, con dei coefficienti diversi per singolo tipo di droga, e guardare anche alla modalità di presentazione della sostanza e alle altre circostanze dell’azione.

Su questo impianto, su questa gravosa riforma della legge Fini-Giovanardi, i primi commentatori alimentarono subito e prospettarono diversi profili di incostituzionalità, di carattere sia procedurale che sostanziale. I vizi di carattere procedurale allora prospettati concernevano la modalità di adozione di questa riforma, lamentando in particolare una violazione, sia della congruenza necessaria, del nesso di omogeneità funzionale (come ci ha confermato la Corte un mese fa) tra legge di conversione e decreto legge, sia lamentando la carenza dei presupposti di necessità ed urgenza che (come ben sa chi mi ascolta) rappresentano, da un lato, il presupposto ma, al tempo stesso, il limite della legislazione governativa, in particolare della decretazione d’urgenza. A fianco furono però prospettati subito, e la questione è di non poco momento, dei vizi di carattere contenutistico; in particolare si lamentò un difetto di ragionevolezza della nuova riforma nell’avere equiparato droghe pesanti e droghe leggere, dove il difetto, secondo chi sosteneva questa lettura, risiederebbe nel fatto di aver omologato condotte aventi ad oggetto sostanze dal contenuto lesivo per il bene salute tendenzialmente non equiparabile, e soprattutto aver realizzato questa omologazione tra droghe pesanti e droghe leggere senza alcun rispetto o senza alcuna considerazione davvero profonda delle scienze di settore, in particolare delle scienze

tossicologiche. Su questo punto apro una parentesi: il dibattito è ancora molto instabile e molto incerto, non sembrando che le scienze tossicologiche diano degli esiti inequivoci; anche la settimana scorsa durante le audizioni delle Commissioni riunite Giustizia e Affari Sociali della Camera, mentre si discuteva della conversione del nuovo D.L. 36/2014, il direttore del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio, Serpelloni, ha portato una serie di statistiche secondo cui, per esempio, i vecchi derivati della cannabis e quelli attuali in circolazione sono profondamente diversi, perché in base alle statistiche tossicologiche recenti, almeno quelle portate dal Dott. Serpelloni, in realtà il contenuto di principio attivo di thc (tetraidrocannabinolo) presente oggi nei derivati della canapa indiana in commercio, hashish in particolare, sarebbe molto, ma molto superiore a quel 3-4% che caratterizzava una volta marijuana e hashish; ciò dovuto a una serie di fattori che lui ha spiegato: p. es. la coltivazione in serre sotto le lampade alogiche con modalità agrarie del tutto particolari. Insomma, la sua tesi è che si sarebbe ridotto questo diaframma, questa diastasi che distingueva droghe pesanti da droghe leggere. Per la verità, altre statistiche dicono qualcosa di diverso. A margine di questo vizio si lamentava un contrasto ancor più evidente con il principio di proporzionalità della pena, la quale per essere funzionale a un disegno di rieducazione imposto dal comma 3 dell’art. 27 della Costituzione deve essere proporzionata, mentre una sperequazione sanzionatoria di questo genere fu vista come un grave attacco al principio di proporzione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza di cui oggi parliamo e soprattutto dei cui effetti oggi parliamo, lo dico subito a scanso di equivoci, ma credo ben lo sappia chi mi ascolta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis e 4 vicies ter della Legge 49/2006, che convertì il D.L. 272, la cosiddetta Fini-Giovanardi, accogliendo un vizio di natura procedurale. Questo è molto importante perché la riforma è stata invalidata non nel suo contenuto normativo, ma nel suo aspetto di fonte. In particolare la Corte Costituzionale ha ritenuto rilevante la violazione dell’art. 77 comma 2 della Costituzione, cioè quel principio costituzionale che impone un nesso di congruità, di omogeneità tra le disposizioni oggetto di un decreto legge e le disposizioni oggetto della legge di conversione. Dice la Corte, la legge di conversione è una legge che ha un impianto e una natura funzionale, cioè una legge che non può prescindere dalla congruenza con le disposizioni del cui decreto legge vuole effettuare la conversione.

Questo nesso di omogeneità funzionale, secondo la Corte, nel caso di specie era del tutto assente, e mi verrebbe da dire a buon diritto, perché la modifica introdotta in sede di conversione, con un emendamento peraltro blindato con il voto di fiducia (perché su quell’emendamento il Governo chiese la fiducia), non fu accompagnata da nessun dibattito parlamentare, evidentemente, e fu in qualche modo introdotto con una sorta di colpo di mano, pur essendo l’oggetto di quella riforma così significativo e così invasivo. La Corte ha dichiarato illegittima la riforma proprio invocando il principio dell’art. 77 comma 2 e ritenendo assorbita l’altra censura, che pure era stata

prospettata, in subordine, cioè il difetto di necessità ed urgenza in quel decreto legge, che pure probabilmente avrebbe potuto avere qualche chance di accoglimento.

Sono rimaste invece in ombra le censure di carattere sostanziale, prospettate dalle parti private, ma prospettate in una sede che la Corte ha ritenuto inidonea per poter essere prese in considerazione, nel senso che la parte privata che può presentare memorie davanti alla Corte sino a 20 giorni prima dell’udienza in camera di consiglio aveva introdotto questi nuovi temi estendendo il tema decidendum e, visto che in sede di processo costituzionale vale il principio per cui con si può andare extra petita partium, questo profilo è stato giudicato inammissibile. Dunque violazione di carattere procedurale. E’ di grande rilievo sottolineare questo vizio, perché l’accoglimento della questione di costituzionalità in relazione a questo specifico punto comporta delle conseguenze del tutto diverse dall’accoglimento di una questione di costituzionalità relativa al contenuto normativo della riforma. La conseguenza più significativa è il ripristino della vecchia normativa: cioè la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge Fini-Giovanardi secondo la Corte implica anche l’incostituzionalità del momento abrogativo che essa conteneva rispetto alla normativa precedente. Lo sottolineo perché la questione è molto aperta soprattutto nel dibattito in seno alla letteratura dei costituzionalisti. Non è così pacifico che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge determini la reviviscenza della vecchia normativa. Qui la Corte ha giustificato la tesi della reviviscenza e (voi capite) anche per una sorta di horror vacui, perché viceversa sul tema del contrasto agli stupefacenti si sarebbe prodotto un effetto tabula rasa il cui spettro non è del tutto fugato, per le ragioni che dirò. La Corte ha voluto chiarire expressis verbis che questo tipo di effetto tabula rasa non si era creato proprio perché l’invalidità atteneva alla fonte e, quindi, allo stesso momento, abrogativo che, pur in altre ipotesi, secondo i costituzionalisti, atterrebbe ai cosiddetti rapporti esauriti e quindi non sarebbe comunque toccato dalla declaratoria di illegittimità. Qui invece nessun dubbio su questo, almeno secondo la Corte: rivive la vecchia normativa Jervolino-Vassalli. La Corte, proprio per consolidare questa posizione senza lasciare dubbi, accompagna questa affermazione con una argomentazione - verrebbe da dire con un obiter dictum, perché non fa parte della ratio decidendi, ma appunto è una argomentazione in più - di estremo significato, perché a suggello di questa tesi della reviviscenza ricorda che sull’obbligo di penalizzare le condotte di traffico in materia di stupefacenti esiste ed insiste una decisione quadro dell’Unione Europea che prevede, che richiede, che obbliga, che impone ai singoli Stati membri di penalizzare, appunto, queste condotte. Il ragionamento della Corte segue un imperativo di coerenza, cioè dice: “Non possiamo accogliere e quindi sanare una censura di illegittimità costituzionale, al contempo simultaneamente creandone un’altra, perché se noi, dichiarata illegittima la legge Fini-Giovanardi, ritenessimo che non rivive la vecchia disciplina punitiva sugli stupefacenti, sul punto ci sarebbe una lacuna di intervento penale incompatibile con l’obbligo discendente dall’Unione Europea”. Si creerebbe dunque, secondo la Corte, un contrasto rilevante anche dal punto di vista dei principi costituzionali, ai sensi dell’art. 117 primo comma della Costituzione, cioè

quel principio che impone alla legislazione statale e regionale di adeguarsi, di essere conforme agli obblighi sovranazionali.

Qui apro una parentesi, perché questa affermazione è di grandissimo significato: ci si potrebbe domandare se la Corte con questa affermazione abbia voluto, in qualche modo, dare un qualche indirizzo di chiarimento sul tema degli obblighi punitivi di natura sovranazionale, che (come probabilmente voi sapete) sino a pochi anni fa erano un orizzonte solo futuribile e invece oggi sono un orizzonte attuale, perché l’art. 83 del Trattato di Lisbona prevede la possibilità da parte dell’Unione Europea di emanare direttive di armonizzazione anche in materia penale, cioè di introdurre dei livelli di sanzione minimi e massimi per talune condotte non solo afferenti alla costellazione del crimine transnazionale. Ci si potrebbe quindi chiedere se un’affermazione come quella che ha fatto la Corte voglia dire che un domani, qualora vi sia su una certa materia un obbligo di penalizzazione di matrice comunitaria, un eventuale inadempimento dello Stato possa essere censurabile davanti alla Corte, in particolare non un inadempimento tout court, ma un eventuale inadempimento statale sopravvenuto. Cosa significa? Che lo Stato di fronte a quell’obbligo, prima ha dato esecuzione all’obbligo di punizione, trasponendo in seno al proprio ordinamento quella disciplina punitiva; successivamente, per esempio, ha depenalizzato le stesse condotte violando così quell’obbligo di tutela. Questa ipotesi che sembra periferica non lo è affatto e si verifica anche molto di frequente, sempre di più, e oggi queste affermazioni della Corte potrebbero lasciare intendere che di fronte a un eventuale inadempimento statale sopravvenuto di un obbligo di natura comunitaria si potrebbe invocare l’intervento della Corte Costituzionale per dichiarare illegittima la norma che ha decriminalizzato o depenalizzato o comunque depotenziato la tutela rispetto allo standard richiesto in sede comunitaria. Questo scenario preoccupa molto i penalisti, così abituati a pensare al problema penale, alla potestà punitiva come oggetto di una precisa riserva, perché nullum crimen sine lege (come ben sa chi mi ascolta) da sempre significa nullum crimen sine lege del Parlamento dello Stato; ed è un orizzonte che si prospetta in modo estremamente problematico.

Altro dato di grande rilievo nell’accogliere questo vizio di carattere procedurale. La Corte si diffonde anche in un monito a mio avviso inusuale, perché ricorda come, non solo è stato violato quel procedimento e quella necessaria omogeneità funzionale che deve caratterizzare il rapporto tra legge di conversione e decreto legge, ma più a monte, sembra dire la Corte, è stato violato nell’occasione della legge Fini-Giovanardi un imperativo che sembrerebbe richiamare l’esigenza di una riserva assoluta, e non relativa, di legge in certe materie penali: “Una riforma così significativa come quella che è stata introdotta dalla legge Fini-Giovanardi, che implica problemi sociali, giuridici e medici di estremo significato, avrebbe dovuto essere varata con l’ordinaria procedura legislativa prevista agli artt. 72 e seguenti della Costituzione e non avrebbe dovuto essere rimessa all’operatività di un decreto legge”. Qui la Corte davvero sembra richiamarsi a un monito che da tempo non si leggeva nei tracciati della giurisprudenza costituzionale: “E’ vero che ormai ci siamo abituati in materia penale a una riserva solo relativa, cioè si ammette che la norma

penale possa essere affidata non solo alla legge in senso formale, ma anche ad atti aventi forza di legge”; in particolare un tempo è stato dominante il decreto legge; ma ormai, soprattutto dal 1996, dopo la stretta importante della Corte sulla reiterazione dei decreti legge, oggi il modello nominante in materia penale è quello della legge di deleghe, dei decreti delegati: ce lo ricorda la novità di estremo rilievo approvata dal Parlamento tre giorni fa sulla messa in prova, con due deleghe sulla depenalizzazione e sulle sanzioni sostitutive che dovranno essere attuate in sede di decretazione delegata. La Corte sembra dire: “D’accordo che in linea di principio non è impossibile utilizzare la decretazione delegata in materia penale, ma ci sono alcune materie che per importanza necessitano di una riserva assoluta e non solo relativa”. Monito di grande rilievo, di grande importanza, perché evidentemente si trascina dietro anche un’istanza di sussidiarietà e di extrema ratio del diritto penale, perché la riserva assoluta garantisce anche o dovrebbe garantire una tendenziale riduzione dell’ambito di rilievo penale.

Altro dato di grande rilievo è che la Corte dichiara illegittima la legge Fini-Giovanardi, dichiarando anzitutto ammissibile la questione e quindi superando un possibile ostacolo in punto di rilevanza. Come ben sapete, il primo presupposto nel modello accentrato di controllo di costituzionalità del nostro ordinamento, il primo presupposto per poter prendere in considerazione una questione di costituzionalità, è che sia ammissibile ed è ammissibile solo ove sia rilevante nel caso concreto. Come diceva Crisafulli, per giudicare incostituzionale una legge bisogna attenderla al varco di un caso concreto, questa è anche la ragione per la quale la declaratoria di illegittimità della legge Fini-Giovanardi è arrivata dopo dieci anni di vigenza. La Corte Costituzionale è un organo responsivo, risponde a un Giudice a quo che ha sollevato la questione e risponde solo se quella questione è rilevante.

Qui c’era un grande problema, perché l’accoglimento di questa questione di costituzionalità da un lato ha effettivamente un ventaglio di effetti positivi in bonam partem, in particolare per quanto concerne, tendenzialmente, non sempre, le droghe leggere; dall’altro, però, ha anche effetti peggiorativi, perché con riferimento alle droghe cosiddette pesanti riprende vigore la vecchia legge Jervolino-Vassalli che aveva delle cornici edittali più severe. Voi sapete che la produzione di effetti peggiorativi vieta, in linea di principio, la possibilità di sindacato alla Corte; normalmente una regola consolidata o tendenzialmente consolidata fino a pochi anni fa avrebbe impedito la possibilità di sindacato della Corte, qualora la decisione manipolativa o additiva richiesta avesse una direzione in malam partem, perché in questo modo la Corte si sarebbe, da un lato, sostituita al legislatore, violando la riserva di legge, l’art. 25 comma 2 della Costituzione, e, dall’altro, avrebbe creato nel caso concreto degli effetti punitivi inapplicabili in forza del principio di retroattività. Quindi quella decisione non sarebbe stata comunque mai rilevante nel caso concreto, non potendosi applicare nel giudizio a quo l’esito peggiorativo di quella decisione.

Questa posizione, che è rimasta viva sino direi a 6-7 anni fa, sino al 2006, nonostante ci fosse stata una prima apertura nel 1983 con la sentenza n. 148, negli ultimi anni mi

sembra che ormai si sia sgretolata. Sempre di più la Corte Costituzionale ammette la possibilità di interventi in malam partem o di accoglimento nonostante effetti in malam partem, dicendo sostanzialmente, e questo è un altro dato di grande significato, che il seguito della pronuncia di incostituzionalità sarà un problema del Giudice a quo, cioè sarà un problema del giudice comune. Dice: non può inibire la possibilità di intervento della Corte un ipotetico effetto peggiorativo, perché è il Giudice a quo il dominus degli effetti intertemporali e dovrà risolvere lui le questioni che si creano - a volte delicatissime come nel nostro caso - facendo governo delle garanzie intertemporali in materia penale, cioè facendo governo del principio del divieto di retroattività in materia penale o, viceversa, del principio della retroattività della legge penale più favorevole, principio della lex mitior, che (come voi sapete) con la decisione della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 17 settembre 2009, Coppola contro Italia, ha assunto un rango addirittura di diritto fondamentale come declinazione dell’art. 7 della Convenzione Europea. Questo è un altro dato di novità di questa decisione, perché ci consolida una sorta di riparto di competenza tra Corte Costituzionale e Giudice comune. La Corte Costituzionale si occupa del vizio di illegittimità a prescindere dalle sue ricadute nel caso concreto; non si preoccupa più, non nega la rilevanza della questione, perché ammette che la questione sia rilevante anche se può incidere solo sulle formule di proscioglimento; delega la risoluzione di questi problemi al Giudice a quo, o meglio, al Giudice comune che dovrà poi fare applicazione di queste garanzie.

Questo, a mio giudizio, e chiudo questo mio intervento, salvo poi ritornare in sede di dibattito, è un altro profilo di grave problematicità, perché il giudizio di costituzionalità che dovrebbe intervenire sulla validazione o sull’invalidazione di una legge generale astratta, risolvendo per tutti problemi di carattere generale, invece rappresenta solo un frammento, una sorta di semilavorato che sarà poi il singolo Giudice o il singolo Avvocato a dover completare nel caso concreto.

Grazie.

AVV. RENATO ALBERINI Grazie, Prof. Manes, anche perché ci ha illustrato la sentenza della Corte Costituzionale soprattutto sotto il profilo del diritto costituzionale, che ha degli aspetti diretti e indiretti nell’ambito dell’applicazione della legge penale. Ha delineato i vari problemi derivanti dalla consequenziale riviviscenza della precedente normativa in materia di stupefacenti. Uno dei tanti problemi che dobbiamo affrontare anche con riferimento alla normativa successiva è quello del fatto di lieve entità, in quanto è evidente una certa irragionevolezza nel trattamento sanzionatorio.

Il prof. Gaetano Insolera è anche avvocato, come Manes, quindi ci fa piacere averli come colleghi oltre che come esponenti della dottrina. Ordinario di Diritto Penale

presso l’Università di Bologna, amico della Camera Penale Veneziana, cosa ci può dire sul punto, trattando adesso nello specifico un singolo tema che ci può interessare anche nell’applicazione pratica? Prego.

PROF. AVV. GAETANO INSOLERA Sono io ad essere lusingato dall’ amicizia della Camera Penale Veneziana, con cui ho condiviso altre esperienze di approfondimento.

Prima di entrare nel merito chiederei ai colleghi di fare una riflessione di carattere più generale sul tema delle leggi penali nel tempo.

Argomento classico che, peraltro, trovava nel Codice del 1930 una scelta, ben costrutta, tanto che, se non ricordo male, la sentenza Scoppola della CEDU, che evocava il collega Manes prima, nell’individuare il principio della lex mitior come principio facente parte delle tradizioni costituzionali comuni, ha espresso un esplicito apprezzamento proprio della legislazione italiana vigente, che sancisce il principio della applicazione della legge più favorevole. Principio assente invece in Costituzione.

Fatta questa premessa, che non vuole essere nostalgica, intendiamoci, in realtà il congegno era ben costrutto e alcuni chiarimenti li fornì la dottrina, forse la migliore dottrina italiana (penso a Marcello Gallo) sul punto di che cosa dovesse intendersi per legge più favorevole, affidando al Giudice il compito di identificare in concreto la conseguenza più favorevole per l’imputato.

Quindi l’anima della scelta del nostro Codice era proprio quella di lasciare al Giudice, in caso di successione di leggi, il governo della situazione concreta. Riecheggia molto di questo nella sentenza della Corte Costituzionale di cui ci occupiamo oggi. Chiarito questo, restavano due punti: uno non riferibile alla disciplina del Codice ma a quella della Costituzione che non contiene il principio della lex mitior, per la cui consacrazione abbiamo dovuto aspettare la recente giurisprudenza della Consulta.

In secondo luogo un problema, che emerge nella nostra vicenda: quello del limite del giudicato rispetto all’operare del comma 4 dell’ art. 2 c.p., con le possibili ingiustizie sostanziali che questo può indurre.

L’argomento della successione , che in un corso normale di diritto penale un tempo occupava qualche lezione, sufficiente per offrire una buona “bussola” agli studenti, oggi è diventato un ambito di tale complessità da imporre un ben diverso approfondimento.

Questo per una serie di ragioni e già nel caso di successione di leggi.

Si pensi alle questioni poste dalla riforma dei reati contro la P.A. del 1990 e da quella più recente: quanta fatica, studio, riflessione, interventi delle Sezioni Unite. La stessa cosa per le riforme dei reati tributari, dei reati societari. Ma a questo panorama si è aggiunto poi quello, così ben descritto da Vittorio Manes in un libro molto fortunato, meritatamente, uscito di recente.

Il sovrapporsi di decisioni delle Corti sovranazionali, la loro influenza nella chiave di cui, sempre Manes, ci ha parlato prima, quando sono state, in vario modo, colpite norme di favore intermedie, con le conseguenze legate a quello che Manes definiva un inadempimento comunitario sopravvenuto [ad es. in materia di rifiuti, ma come non ricordare la vicenda del falso in bilancio].

A questi elementi, che ci spostano da quello che è il modello di successione di leggi, aggiungiamo poi le operazioni chirurgiche della Corte Costituzionale, come quella che ci occupa in questo momento, preceduta da analoga operazione, anche quest’ultima è una straordinaria palestra, che riguarda la declaratoria di incostituzionalità della norma concernente le associazioni militari. Non so se qualcuno l’ha letta, solo se segui la giurisprudenza costituzionale può essere d’interesse, a parte che qui in Veneto non è detto!

Voi capite che quello della successione delle leggi penali nel tempo diventerà sempre di più un tema a cui dedicare gran parte dell’insegnamento, della preparazioni per gli esami da avvocato e da magistrato, e della formazione continua degli avvocati, perché è argomento che, per le ragioni che ho sintetizzato, impegna sempre di più la nostra attività.

Due osservazioni prima di entrare nel merito, a coté dell’intervento di Vittorio Manes. Interessante questa scoperta dei vizi procedurali della legislazione da parte della Corte [ vedi anche sentenza sulle associazioni militari, n. 5/2014]

Si può ipotizzare che costituisca un modo della Corte per non prendere posizione rispetto ad un forte movimento di opinione sul tema degli stupefacenti. Pensiamo ad alcuni stati in USA che hanno depenalizzato la cannabis. Anche in Europa, e da sempre anche in Italia, c’è un forte movimento favorevole a un’ulteriore riduzione della logica proibizionistica. Teniamo però presente che una scelta di questo genere (i.e. censura per vizio procedurale) potrebbe consentire di riproporre la Fini-Giovanardi. Le scelte che fossero passate attraverso un controllo di ragionevolezza ovvero un riferimento alla decisione quadro in materia di stupefacenti, quanto all’omologazione della risposta punitiva per le c.d. droghe pesanti e le c.d. droghe leggere, di certo avrebbero avuto un diverso effetto vincolante per il legislatore. I contenuti da tutti criticati o da molti criticati della Fini-Giovanardi, a questo punto sono assolutamente indenni, perché se il vizio è procedurale può essere superato.

Veniamo al secondo aspetto: alla problematica della successione di leggi penali, sempre più spinosa, sempre più complicata. In questo caso ci pone veramente di fronte a questioni ardue. Riassuntivamente: è stata dichiarata l’ incostituzionalità

dell'art. 73, in punto equiparazione delle sostanze a fini penali, conseguentemente anche quella degli artt. 5bis e 5ter; il Decreto Legge 146/2013 ha modificato il quinto comma dell’ art. 73 [ il fatto lieve è ora divenuto reato autonomo], quando lo si considerava circostanza, aveva un diverso compasso sanzionatorio, 1–6 anni; ulteriore questione, messa in rilievo dall’Avvocato Zaffalon: poiché il Decreto Legge di cui stiamo parlando è stato emanato e convertito prima della declaratoria di illegittimità costituzionale, non ha differenziato tra droghe leggere e droghe pesanti.

Altro aspetto su cui riflettere, sulle nuove dinamiche della successione delle leggi penali: questi interventi si intersecano con quelli legislativi.

Ricordiamoci come la Corte Costituzionale, in materia di riforma dei reati tributari all’ inizio degli anni '90 in qualche modo dialogò col potere legislativo. Oggi, è forse la caratteristica di tempi che si dicono liquidi, si coglie, al contrario, una sorta di disarticolazione nel rapporto tra le istituzioni.

I problemi ricadono così sulla giurisdizione ordinaria.

Infine il Decreto Legge del marzo 2014 ( n. 36/2014): affronta il problema, avendo avuto come conseguenza la decisione della Corte anche il travolgimento degli artt. 13 e 14 della Fini-Giovanardi, delle tabelle. Giustamente la Corte Costituzionale non è intervenuta sul nuovo art. 73, comma quinto, sul fatto di lieve entità: quella fattispecie non rientra infatti nel contesto normativo, viziato da un punto di vista procedurale, che è stato sottoposto alla sua attenzione, infatti è intervenuto successivamente. E’ vero che vi è la possibilità di colpire anche d’ufficio norme che sono necessariamente implicate dalla declaratoria di incostituzionalità, però l’effetto sarebbe stato disastroso: l’eliminazione della circostanza attenuante. L’Avvocato Zaffalon ha accennato ad una possibile irragionevolezza. Ma la risposta è forse nella sentenza della Corte di cassazione [ sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 10514] che ritiene infondata la questione della permanente omologazione delle due droghe quoad poenam. E’ robusta l’ obiezione della Cassazione in considerazione del largo compasso sanzionatorio. Da considerare, poi, che la Corte costituzionale, in tema di controllo di ragionevolezza sulle sanzioni è sempre stata molto restrittiva e rispettosa della discrezionalità legislativa ex art. 28 della legge n. 87/1953.

Vediamo che succede con tutti questi ingredienti.

Direi di procedere esaminando due situazioni. Processi in corso e processi in cui vi è stato un giudicato. Occorre poi fare riferimento a diverse eventualità.

Anzitutto: si ragiona di fatti avvenuti, prima ipotesi, antecedentemente alla Fini-Giovanardi. Quindi prima del 28 febbraio 2006. Devo immaginarmi un Giudice, gli avvocati dovranno muoversi in questa direzione, che individui in concreto, quale sia la legge più mite, la legge più favorevole, tra la disciplina del Decreto legislativo 309/1990, che è “rivissuto”, e il Decreto Legge poi convertito del 2013 che ha trasformato il 73 quinto comma in fattispecie autonoma, con un minore carico sanzionatorio. Se il fatto è stato commesso, penso che sia difficile – però non è detto

– prima dell’entrata in vigore della Fini-Giovanardi, secondo me si può sostenere che non si debba tenere conto della lex intermedia, cioè quella legge che è stata dichiarata invalida; cosa della quale, invece, di norma, se non ci fosse un problema di invalidità, bisognerebbe tenere conto, perché la successione può essere tra più leggi. Nel caso che ipotizziamo il processo è ancora in corso. Se pure la legge intermedia è più favorevole in quanto dichiarata invalida è come se non fosse mai esistita, sempre che il fatto sia stato commesso prima [in tal senso la Corte cost. n. 394/06 e n. 28/2010). Quindi il confronto, in concreto, circa le conseguenze migliori per l’imputato va fatto tra le conseguenze indotte dalla Jervolino-Vassalli e le conseguenze indotte dall’assetto normativo attualmente vigente, con riferimento anche al modificato dell’art. 73, 5° comma.

Vediamo ora il caso di fatti commessi nella vigenza della Fini-Giovanardi. In questo caso il principio della lex mitior rispetto alla guida in concreto che dovrà seguire il Giudice, riprende forza. Andiamo a vedere le possibili conseguenze: rispetto all’ art. 73, quinto comma. Non è stato travolto dalla declaratoria in quanto norma nuova non affetta da un vizio procedurale. Quali sono le norme da confrontare a fini applicativi nel caso concreto? L’art. 73 della Jervolino-Vassalli e rispetto al quinto comma la sua configurazione come circostanza ovvero come fattispecie autonoma; se ci riferiamo alla Fini-Giovanardi può essere più favorevole la disciplina base per le droghe pesanti, se ci si riferisce alla pena minima. L’art. 73 è diventato una fattispecie autonoma, abbiamo detto. Ecco il quesito da porsi: è sempre più favorevole l’applicazione dell’art. 73 quinto comma come novellato, come attualmente vigente? Abbiamo due fattori: la cornice edittale, che ragionando in astratto in tema di successione ci dovrebbe portare a dire che è più favorevole, ma sappiamo che non è questo il modo. Infatti la natura circostanziale della precedente disciplina ci porta immediatamente a considerare la questione degli eventuali risultati di un bilanciamento. Un esempio problematico può essere quello – lo accennava l’Avvocato Zaffalon – della contestuale detenzione di cocaina e di hashish, dove in base alla Fini-Giovanardi noi avremmo un solo reato, più la circostanza, riferibile all’una o all’altra sostanza, del fatto di lieve entità; in base alla Jervolino-Vassalli invece avremmo due reati, è facile immaginarsi le combinazioni, nel caso che una sostanza, o l’una o l’altra, sia accompagnata dagli elementi fattuali della lieve entità, e l’altra no. Due reati con la Jervolino-Vassalli, pena differenziata. Attenzione, perché quando ho detto in premessa che non è detto che l’attuale disciplina sia sempre la più favorevole, occorrerà vedere la questione anche alla luce della identificazione del reato più grave. Quindi tutti questi ingredienti dovranno guidare la decisione e dovranno essere tutti contemplati per giungere alla soluzione più favorevole. Questo per l’idea che si potrebbe avere circa il fatto che l’attuale disciplina sia sempre e comunque più favorevole. Il problema si pone, ad esempio, quando il bilanciamento sia sfavorevole. Tra l’altro è proprio un caso affrontato della Cassazione [Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 13903]: quello, frequentissimo, nella materia di cui ci occupiamo, della recidiva ritenuta prevalente. Quindi occorre valutare se l’ art. 73, quinto comma, risulti o meno soccombente; valutare le

conseguenze dello sdoppiamento di reati, quindi del loro possibile concorso e della decisione su quale sia più grave. Quindi manca una soluzione di diritto transitorio predefinita: bisogna tenere in considerazione tutte queste caratteristiche del vigente sistema, e per vigente intendo riviviscenza della Jervolino-Vassalli e nuova conformazione della attenuante, e poi vedere nel caso concreto qual è la soluzione. Certamente non si può dire che l’una o l’altra sono sempre da privilegiare.

Altra questione di rilievo è quella che riguarda il problema del giudicato. Credo che vi sia accordo su una considerazione: il concetto di giudicato ha subito un’erosione rispetto alla idea che gli assegnava il significato di un dogma.. Erosione del giudicato, anche essa stimolata fortemente dall’influenza delle giurisdizioni sovranazionali, in particolar modo della CEDU. Anche qui chirurgia della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113/11 sull’istituto della revisione. Però nel nostro caso il problema, per com’è stato affrontato nei tanti interventi che abbiamo visto, nasce quando ad essere colpita dalla Corte Costituzionale è una norma sostanziale, ma non una norma incriminatrice: una norma che concerna le conseguenze sanzionatorie (circostanze, cornice edittale etc.). L’operare di una circostanza in termini più favorevoli. Nell’ordine, perché queste sono le norme che ci interessano: l’art. 2 quarto comma non dà soluzioni a questo proposito, o meglio le indirizza solo verso l’intangibilità del giudicato. Già è stato evocato il fatto che il 29 maggio 2014 si riuniranno le Sezioni Unite per decidere proprio che cosa succede se non rientriamo nel secondo comma dell’art. 2 c.p., ma abbiamo un problema di successione di leggi penali che è pertinente al trattamento sanzionatorio.

Possibili soluzioni. Una, ed è secondo me la più convincente, è quella che passa attraverso l’art. 670 del Codice di Procedura Penale. Questione che può essere portata al Giudice dell’esecuzione, concernente il titolo esecutivo. E’ stata utilizzata dalla Corte di Cassazione in un’altra ipotesi di pena "illegale". E’ il caso dell’aggravante della clandestinità (che era prevista dall’art. 61, c. 1, n. 11-bis, c.p., dichiarato illegittimo da Corte Cost. n. 249/2010) . Da un punto di vista tecnico è forse la strada che meglio si presta, perché consente al Giudice dell’esecuzione di sottrarre il frammento di pena irrogato sulla base di una norma censurata dalla Corte Costituzionale.

Le altre norme di riferimento sono i commi 3 e 4 dell’art. 30 della legge n. 87/1953. Comma 3, : "Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Comma 4: "Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali".

Non condivido una posizione, che peraltro mi sembra contrastata dalle Sezioni Unite del 2012 [sentenza Ercolano], secondo la quale non si può fare questo percorso perché l’art. 30 si riferisce solo alle norme incriminatrici. Gli argomenti che mi vengono in mente contro questa posizione: quando parla degli effetti della

declaratoria di incostituzionalità, la legge del 1953, fa riferimento a tutto l’ordinamento, quindi, da dove si ricava quella limitazione?

In secondo luogo, la disposizione normativa è la legge, la norma costituisce il risultato delle regole operazionali che vedono applicate le disposizioni normative al caso concreto. Ebbene, il riferimento alla norma, in questo caso contenuto nell’art. 30, co. 3 e 4 della l. 87/1953, a parer mio non vieta assolutamente di comprendere quella che è la norma reale, cioè la conseguenza effettivamente ricadente sul destinatario a seguito della declaratoria di incostituzionalità.

Altra ipotesi è rivolgersi all’art. 673 c.p.p.. Mi riferiva il prof. Manes di avere esaminato una decisione del G.I.P. di Rovigo – non ho fatto in tempo a vederla anche perché sono tutte cose recentissime – che fa applicazione analogica dell’art. 673. Io ritengo che non ci sia spazio in quella direzione. Mentre il percorso che passa per il 670 può prescindere da un intervento della Corte Costituzionale, lo stesso non può dirsi per l’ art. 673 che parla espressamente di abrogatio criminis ovvero di declaratoria di incostituzionalità.

E allora, riassumendo, percorso direttamente interpretativo, e secondo me non assolutamente irragionevole, che passi attraverso l’ art 670; per ricorrere all’ art. 673 occorrerebbe un’additiva della Corte Costituzionale. Corte che, però, già ha “risposto male” alla richiesta di un’ additiva equiparante l’ overruling favorevole all’abolitio criminis, anche se è vero che questo caso è diverso. Ho concluso, grazie.

AVV. RENATO ALBERINI Grazie, Prof. Insolera, lei è stato molto preciso nell’individuare le problematiche che gli operatori del diritto, non solo gli Avvocati, ma pure i signori Magistrati, devono affrontare in ordine alla successione delle leggi penali, ma anche e soprattutto agli effetti della sentenza sui processi in corso.

Sotto tale profilo i prossimi due interventi affronteranno nel concreto gli effetti sul processo in corso e sul giudicato.

Il primo a intervenire è il Consigliere Dottor Antonio De Nicolo, sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Venezia, che tutti conosciamo e apprezziamo sempre per i suoi interventi, spesso molto puntuali (e non sempre generosi nei confronti dei difensori quando deve criticare i nostri atti d’appello!), ma che sempre ascoltiamo con interesse e per l’intelligenza e la precisione delle sue argomentazioni. Aspettiamo da lei qualche indicazione precisa anche sulla base delle esperienze che lei ha sicuramente già incontrato nei primi processi dopo la sentenza della Corte.

Prego, Consigliere.

CONS. DOTT. ANTONIO DE NICOLO Ringrazio la Camera Penale Veneziana e tutti gli intervenuti.

Siccome sono un pratico che si rivolge a dei pratici, vi darò subito delle indicazioni pratiche.

Però consentitemi d’iniziare con una premessa provocatoria, che è una critica agli Avvocati ed ai Magistrati, e prima di tutti a me stesso. La sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014 interviene su input della Corte di Cassazione del giugno 2013, otto anni dopo rispetto ad un problema di violazione dell’art. 77 della Costituzione ad opera della L. 49/2006, problema facilmente individuabile ed individuato da tempo dalla dottrina: dov’erano finora i magistrati di merito e gli avvocati? La dottrina ci aveva fornito gli strumenti, ma non li abbiamo saputi vedere! Io vi posso dire che m’ero fatto ingannare dal fatto che nel decreto legge poi convertito c’era un accenno al tema dell’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei tossicodipendenti recidivi con un programma terapeutico in corso, sicché ho pensato che la legge di conversione non fosse proprio tanto “stonata”, visto che nel decreto legge non si parlava solo dei finanziamenti per le Olimpiadi invernali di Torino, con le quali effettivamente l’assetto normativo del D.P.R. 309/90 modificato non c’entrava per nulla. Però la Corte Costituzionale ha spiegato che quel riferimento al tema degli stupefacenti era labile, poiché riguardava esclusivamente l’esecuzione della pena dei recidivi condannati, mentre la legge di conversione ha completamente ridisegnato e rivoluzionato l’apparato sanzionatorio.

Detto questo, veniamo senz’altro alle indicazioni pratiche.

Innanzi tutto è necessario ricordare quattro date importanti:

• la prima data è l’11 luglio 1990, data di entrata in vigore della Legge 162/90, poi trasfusa nel Testo Unico D.P.R. 309/90: prima di allora in materia di stupefacenti c’era una legge del 1975, che i meno giovani tra noi ricordano perfettamente e hanno avuto occasione di applicare; comunque partiamo da questa data, perché i fatti anteriori molto probabilmente sono ormai tutti coperti da prescrizione;

• la seconda data è il 28 febbraio 2006, data di entrata in vigore della Legge 49/2006 dichiarata incostituzionale;

• la terza data è il 24 dicembre 2013, data di entrata in vigore del D.L. 146/2013 poi convertito, con modificazioni, nella L. 10/2014;

• l’ultima data è il 6 marzo 2014, data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza 32/2014 della Corte Costituzionale, di cui stiamo parlando.

E’ sempre utile rammentare una quinta data, di cui spesso nelle aule di udienza gli Avvocati tendono a dimenticarsi: l’8 dicembre 2005, data di entrata in vigore della c.d. “ex Cirielli”, la Legge 251/2005, quale spartiacque tra il vecchio ed il nuovo sistema di calcolo della prescrizione; va rammentata la norma transitoria dell’art. 10 della Legge 251/2005, così come risultante dopo la sentenza 393/2006 della Corte

Costituzionale e dopo i plurimi interventi delle Sezioni Unite (uno, tra gli altri, su un ricorso per Cassazione proposto da me: le Sezioni Unite hanno dato ragione alla tesi che io sostenevo e che, ovviamente, non faceva piacere al Foro …). Dunque, sulla base della norma transitoria, se alla data dell’8 dicembre 2005 è stato già pronunciato il dispositivo della sentenza di primo grado (la motivazione potrebbe essere anche successiva a tale data), indipendentemente dal fatto che questo dispositivo sia di condanna ovvero di assoluzione, il prosieguo del processo vede applicarsi i termini prescrizionali anteriori, anche se meno favorevoli.

Ciò detto, ho suddiviso il mio intervento in quattro “direzioni di marcia”. La prima: che succede nei processi pendenti per i fatti di “droghe pesanti” (chiamiamole così per immediatezza) non di lieve entità? La seconda: che succede nei processi pendenti per i fatti di “droghe leggere” non di lieve entità (il redivivo quarto comma)? La terza: che succede nei processi pendenti per i fatti previsti dal quinto comma (qui dirò qualcosa in aggiunta a quello che ha detto benissimo il relatore che mi ha preceduto)? La quarta: accennerò soltanto ai problemi che si pongono rispetto alla fase dell’esecuzione e del post giudicato, della quale in particolare parlerà il collega Termini.

Iniziamo dal primo argomento.

Sappiamo che dal 6 marzo 2014 rivive la norma del D.P.R. 309/90, anzi, quella della Legge 162/90, che precede le modifiche operate dalla legge 49/2006 dichiarata incostituzionale. Cioè, chi commette un reato non di lieve entità per le sostanze stupefacenti in tabella 1 è punito con la pena della reclusione da 8 a 20 anni e la multa da 25.822 a 258.228 Euro (il calcolo era stato fatto ancora in lire e quindi il ragguaglio in Euro comporta dei numeri non tondi), e non più la reclusione da 6 a 20 anni e la multa da 26.000 a 260.000 Euro. La pena più grave, ovviamente, è quella per chi commette il reato dal 6 marzo 2014 in poi: infatti è pacifico che, ai fini della valutazione di gravità, si guardi alla pena detentiva, che è ontologicamente più grave della pena pecuniaria. Quindi, anche se c’è una pena pecuniaria più favorevole, e cioè se la sanzione minima di 25.822 Euro è meglio di quella di 26 mila Euro, per la valutazione di gravità si deve guardare alla pena in concreto più grave nella previsione di un reato punito con pena congiunta, e cioè alla pena detentiva. Ebbene, fra 6 e 8 anni di reclusione è più grave la pena minima di 8. E’ pacifico ovviamente – lo dico perché talvolta qualche Avvocato tenta di indurre in errore i Giudici sotto questo profilo – che non si può fare una combinazione delle due norme e costruire un’inesistente terza norma, perciò non si può dire: “Prendiamo la detentiva vecchia e la pecuniaria nuova”: è necessario invece valutare qual è la norma complessivamente più favorevole fra le due e prenderla in blocco. In questo caso la pena detentiva più favorevole trascina con sé la pena pecuniaria meno favorevole.

Dobbiamo, a questo punto, porci il problema della norma più favorevole in rapporto all’art. 2 quarto comma Codice Penale. Qui trovo perfetto ciò che ha detto il Prof. Insolera, cioè il discorso dell’impossibilità di utilizzare una norma che è stata

dichiarata incostituzionale come norma più favorevole, se non per i fatti commessi nella sua vigenza: al di là di questi, e cioè nei casi in cui la norma poi dichiarata incostituzionale si pone come norma intermedia, l’utilizzo in base all’art. 2 quarto comma Codice Penale non è possibile.

Mi spiego meglio.

Sappiamo che dal 6 marzo 2014 rivive la norma abrogata.

Per i fatti commessi in vigenza della legge incostituzionale, cioè tra il 28 febbraio 2006 e il 6 marzo 2014, si applica la norma incostituzionale, perché più favorevole.

Invece, se dobbiamo giudicare oggi, dopo il 6 marzo 2014, un reato commesso prima del 28 febbraio 2006 (in Corte d’Appello non è proprio una cosa rara il fatto che capiti di giudicare un reato commesso ad esempio nel 2004 e deciso con una sentenza di primo grado del 2005: siccome si tratta di un reato a prescrizione lunghissima, la Corte d’Appello può ben fissarlo oggi nel 2014), ci si può porre il problema se applicare la meno favorevole norma oggi vigente ovvero la più favorevole norma intermedia.

In passato, abbiamo avuto casi di frenetica successione di norme penali intermedie: ricordo il caso della contravvenzione di cui all’art. 186 c.d.s., che per un breve periodo di vigenza è stato affidato alla competenza del Giudice di Pace. Siccome l’art. 2 quarto comma Codice Penale parla di “norma vigente” al momento in cui fu commesso il reato e di “norme succedutesi” nel tempo – al plurale –, evidentemente il legislatore già presupponeva che ci potesse essere una pluralità di norme posteriori tra il momento del fatto e il momento del giudizio. All’interno di questa successione di norme posteriori si deve scegliere comunque quella più favorevole. Esemplificando, se si giudica il reato commesso durante il periodo di vigenza della norma A che lo puniva con pena più grave, quando v’è stata poi una norma intermedia B che lo puniva con pena meno grave, e quando al momento di giudizio vige la norma C che ripristina le pene di A, è pacifico che bisogna sanzionare il fatto, se siamo oggi nella fase del giudizio, con le pene della norma B.

Tuttavia ciò non può accadere se B, anziché essere una “normale” disposizione poi modificata dal legislatore, è una legge dichiarata incostituzionale, per le ottime ragioni che sono state già illustrate e che quindi non voglio ripetere.

Insomma, se dopo il 6 marzo 2014 la Corte d’Appello giudicasse un fatto commesso prima del 28 febbraio 2006 e deciso in primo grado prima del 28 febbraio 2006, potrebbe tranquillamente confermare la pena detentiva nella cornice edittale 8-20 senza porsi il problema della vigenza intermedia di norma più favorevole, perché quest’ultima è stata dichiarata incostituzionale.

Mi pare che sotto il profilo delle droghe pesanti non dobbiamo dire nulla sul problema della prescrizione, perché nulla è innovato, in quanto la pena massima è quella di 20 anni in ogni caso. Semmai il problema della prescrizione riguarda il

regime ante e post “Cirielli” (L. 251/2005), perché la prescrizione post è di 20 anni più un quarto, quella ante è di 15 anni più la metà, quindi abbiamo la conseguenza che la prescrizione massima post è meno favorevole perché è pari a 25 anni, mentre quella massima ante è pari a 22 anni e mezzo. Sono comunque termini prescrizionali lunghissimi, che non mi pare giustifichino qui particolare attenzione. Né, infine, è innovato alcunché sulle misure cautelari, perché vengono parametrate alla pena massima, che è sempre 20 anni in ogni caso.

Secondo argomento: i fatti riguardanti hashish e marijuana, non di lieve entità.

Qui qualcosa bisogna dire, perché c’è stata una “rivoluzione copernicana”, e cioè siamo tornati all’antico quarto comma della norma incriminatrice: pena della reclusione da 2 a 6 anni più la multa (che era stata formulata in lire e dunque ha numeri non tondi, se espressa in Euro), e non più quella della reclusione da 6 a 20 anni più la multa. Anche qui è pacifica l’applicazione retroattiva ai fatti pregressi, ex art. 2 quarto comma del Codice Penale, per cui la nuova norma (che nuova non è, ma è la vecchia che ritorna) vige ormai senza soluzione di continuità dall’11 luglio 1990.

E’ giusto quello che l’Avvocato Zaffalon poco fa ci stimolava a ricordare, cioè che la struttura della fattispecie è cambiata, perché i fatti riguardanti più sostanze di diverse categorie consistono in più reati e non in un reato unico, come la giurisprudenza aveva invece stabilito nella vigenza della legge incostituzionale. Dobbiamo tornare allora alla giurisprudenza pregressa: quando ci si era occupati dei tanti casi in cui c’era una detenzione congiunta di sostanze in tabella 1 e di sostanze in tabella 4, si diceva che il reato non è unico, ma c’è una sommatoria di reati: in tali casi, più che la continuazione evocherei il concorso formale, perché con la medesima azione (od omissione) si violano due o più disposizioni di legge.

Conseguenze sul trattamento sanzionatorio: qui dobbiamo riflettere bene, anche per valutare che cosa possono fare i Giudici dei gradi successivi.

Intanto, cosa può fare la Corte di Cassazione? La Corte di Cassazione deve risolvere un problema drammatico, che è quello dell’eventuale ammissibilità o inammissibilità dell’impugnazione. Penso in particolare ai tanti ricorsi inammissibili contro le sentenze di patteggiamento, che tutti voi fate per altri fini, e cioè ad esempio per mantenere una situazione di arresti domiciliari che è più favorevole della detenzione carceraria: la legge ve lo permette, avete un ministero difensivo a cui dovete far fronte, quindi dovete comportarvi così: però sapete bene che questi ricorsi sono tutti inammissibili.

Cosa farà la Cassazione con questi ricorsi?

Vi posso dire che secondo me anche la Cassazione “ha un cuore”! Cioè tutte le volte che potrà farlo, tenterà di superare il vaglio dell’ammissibilità in nome del principio della non illegalità della pena. Si tratta di due principi confliggenti, perché se l’impugnazione è inammissibile, non è mai sorto il diritto ad avere una pronuncia della Cassazione, in quanto non c’è mai stato un valido rapporto di impugnazione:

infatti l’inammissibilità è originaria, e cioè riguarda il momento in cui depositate quel ricorso che voi ben sapete essere inammissibile.

Però io sono convinto che in questo caso la Cassazione tenterà di allargare le maglie della valutazione di ammissibilità per rimediare alla illegalità della pena, che è un principio che la Cassazione non potrà mai avallare, sicché largheggerà nell’operare annullamenti dei patteggiamenti con rinvio al Giudice di merito, per farli ridisegnare nell’ambito della cornice edittale più favorevole.

Al di là dei patteggiamenti, sicuramente nelle impugnazioni ordinarie la Cassazione pronuncerà tantissimi annullamenti con rinvio, perché il Giudice di merito rivaluti il trattamento sanzionatorio.

La Cassazione, in qualche caso, potrebbe persino decidere essa stessa qual è la pena congrua. Per esempio, se nei gradi precedenti di merito ci fosse stata un’univoca valutazione del fatto di minimale gravità, la Cassazione potrebbe dire: “I Giudici di merito hanno dato 6 anni di reclusione perché hanno detto che questo fatto di hashish, pur non da quinto comma, è di minimale gravità; ora il minimo non è più di 6 anni ma è diventato di 2 anni. Ebbene, determino io stessa la pena in 2 anni”. Così sarebbe direttamente la Cassazione a intervenire sulla pena, per non gravare i Giudici di merito con troppi annullamenti con rinvio: è già successo in passato che la Cassazione abbia fatto qualcosa del genere, e potrebbe farlo ancora.

Se, invece, non ci fosse stata univoca valutazione che àncora alla minimalità del fatto la sanzione nel minimo edittale, la Cassazione dovrebbe rinviare al Giudice di merito per la decisione sul trattamento sanzionatorio.

Per quanto riguarda la Corte d’Appello, secondo me v’è un ampia serie di possibilità, ed in particolare penso a due situazioni.

Se la sentenza di primo grado esplicita che è stata scelta la pena minima per la gravità minimale del fatto, credo che la Corte d’Appello non possa, in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero, rivalutare questa minimale (attenzione: non “modesta”, ho detto proprio “minimale”) gravità, e quindi dovrebbe applicare il nuovo minimo di pena puramente e semplicemente.

Se invece questa valutazione non c’è, e cioè non c’è un aggancio di scelta della pena, pur nel minimo, ad una valutazione di minima gravità, credo che non si possa verificare un automatismo, nel senso che si debba per forza sostituire la cornice edittale vecchia con quella nuova, il minimo vecchio con quello nuovo, e magari persino con il medesimo scostamento dal minimo edittale. Sono convinto di questo, perché il Giudice d’Appello è pur sempre Giudice di merito: ad esempio, se può dire che in una cornice fra 6 anni e 20 anni il fatto concernente mezzo chilo di hashish può “valere” una pena di 6 anni e mezzo, non è detto che quel medesimo fatto debba “valere” 2 anni e mezzo nella cornice fra 2 anni e 6 anni, e cioè con il medesimo scostamento del minimo. Si tratta di una valutazione che va riservata al Giudice di merito, il quale dovrà, in base ai suoi parametri ragionevoli di scienza e coscienza,

rivedere la vicenda nel nuovo confine sanzionatorio della fattispecie. Insomma, non c’è un automatismo cieco fra la vecchia cornice edittale e quella nuova.

Ho trovato delle sentenze di Cassazione che stabiliscono questo principio. Ciò che è importante è che la Corte d’Appello espliciti, con idonea motivazione, le ragioni del diverso scostamento rispetto a quello operato in primo grado, nell’ambito della valutazione meritale di gravità della vicenda: valutazione che può benissimo non essere la stessa di quella che era stata formulata all’interno di una cornice così sfavorevole com’era quella da 6 a 20 anni di reclusione per i fatti delle cosiddette “droghe leggere”.

Anche sul punto della prescrizione si verifica una rivoluzione, e qui si pongono tantissimi problemi a cui posso soltanto accennare.

Tendenzialmente, sotto il profilo qui esaminato, con un reato punito con pena da 2 a 6 anni di reclusione la prescrizione ha il suo grande spartiacque nella data di entrata in vigore della c.d. “ex Cirielli” (L. 251/2005), e cioè nella data dell’8 dicembre 2005: se in quella data è stata già pronunciata la sentenza di primo grado, di qualsiasi tipo (condanna o assoluzione), s’è consolidato il previgente sistema della prescrizione 10-15 (e cioè 10 anni come termine ordinario, e 15 anni come termine massimo a seguito d’interruzione); se, invece, a quella data non è stata ancora pronunciata la sentenza di primo grado, la prescrizione diventa quella di 6 anni come termine ordinario, più un quarto, e cioè 7 anni e mezzo, come termine massimo a seguito d’interruzione. Quindi in tale situazione non conta tanto quella sequenza di date che ho indicato all’inizio, quanto l’entrata in vigore della c.d. “ex Cirielli” come spartiacque tra vecchio e nuovo sistema prescrizionale.

Nei casi concreti, si pongono vari problemi con infinite sfaccettature.

Ad esempio, che succede della prescrizione decorsa ma non rilevata? E’ possibile farla valere nel grado successivo di giudizio?

Che succede della prescrizione che intercorre dopo la sentenza di primo grado ovvero intercorre dopo la sentenza d’appello, quando il mezzo di impugnazione, che è rispettivamente l’appello per il primo caso ed il ricorso per il secondo, deduca soltanto l’intercorsa prescrizione e non aggredisca la sentenza? Qui è pacifico che il Giudice della successiva istanza debba dichiarare inammissibile l’impugnazione, donde il paradosso che sono solito enunciare alle varie conferenze che ho sempre fatto con grande piacere per platee di Magistrati e di Avvocati: “chi vuole la prescrizione, non la deve chiedere”! Infatti l’impugnazione deve consistere sempre in una critica alla sentenza precedente: il ricorso per Cassazione aggredisce la motivazione della sentenza d’appello, com’è pacifico; ma anche l’appello deve criticare le risposte date nel merito dal Giudice di primo grado; altrimenti l’impugnazione verrebbe dichiarata inammissibile. Ricordatevi di questi particolari, perché appunto non è possibile dedurre soltanto l’intercorsa prescrizione sulla base

della nuova cornice edittale, ma è necessario criticare la sentenza conclusiva del grado precedente.

Sulle misure cautelari mi pare ci sia poco da dire, poiché l’Avvocato Zaffalon ci ha dato già dei primi ragguagli. Ovvio che esse debbano essere parametrate al regime sanzionatorio sopravvenuto.

Quindi bisogna stare molto attenti: se siamo nella fase processuale del primo grado, è necessario che Procure, G.I.P. e Giudici dibattimentali immediatamente rivalutino i termini di custodia.

Se, invece, siamo nei gradi successivi al primo, quando la scadenza del termine custodiale dipende dall’entità della pena inflitta, è vero che la Cassazione cerca di salvare i Magistrati di merito ed afferma i principi dell’irretroattività e dell’autonomia dei termini di fase; però un po’ di buonsenso e di attenzione al valore della libertà personale dovrebbero imporre ad ogni Giudice di merito di andare immediatamente a vedere l’incidenza della presumibile pena infliggenda nel grado successivo, sulla base della diversa cornice edittale, e quindi di operare una rivalutazione tempestiva delle misure cautelari.

Terzo argomento.

Sul quinto comma devo aggiungere poche cose a ciò che è già stato detto molto bene da chi mi ha preceduto.

Sarebbe stato forse meglio se il legislatore non fosse intervenuto affatto, perché così sulla base della sentenza della Corte avremmo il ripristino di un sistema che manteneva il parallelismo tra i fatti modesti ed i fatti non modesti con le due rispettive fasce nonché con i loro limiti di pena tutto sommato abbastanza ragionevoli, sicché tutto sarebbe stato facile. Se così stessero le cose, dovrei ripetere a proposito del quinto comma gli stessi argomenti che ho detto sul quarto comma, perché più o meno il problema delle sanzioni sarebbe lo stesso.

Invece, visto che il legislatore ha complicato la vita dell’interprete, voglio aggiungere una piccola notazione.

Il problema che il legislatore ha voluto risolvere, se ci pensate bene, non esisteva più, perché la Corte Costituzionale con la sentenza 251/2012 l’aveva già risolto, dichiarando illegittimo l’art. 69 del Codice Penale nella parte in cui impediva al Giudice la declaratoria di prevalenza dell’attenuante del quinto comma sulla recidiva reiterata. Quindi il grande ostacolo giuridico per rimediare al quale il legislatore ha voluto intervenire era stato già rimosso. Certo, il Giudice poteva pur sempre, prima della modifica normativa, dichiarare comunque prevalente la recidiva sull’attenuante, motivando adeguatamente. Mentre prima della citata sentenza della Corte Costituzionale il giudice poteva dire: “Io dichiarerei prevalente l’attenuante, ma non posso”, dopo la sentenza della Corte Costituzionale il Giudice poteva benissimo dire: “Io dichiaro comunque prevalente l’aggravante della recidiva, perché è vero che il

fatto sarebbe attenuato, ma l’entità dei precedenti è talmente elevata che dichiaro comunque prevalente la recidiva”. Ebbene, è proprio quest’ultima la possibilità che il legislatore ha voluto precludere.

Condivido il fatto che la valutazione su quale sia la norma più favorevole vada fatta caso per caso e che tale valutazione debba essere fatta in astratto. Però quando si parla di valutazione in astratto, e cioè non ritagliata o personalizzata sul singolo individuo ma effettuata sulla sola comparazione fra le due norme, non si considera che tale valutazione deve essere effettuata dopo la formulazione del giudizio di bilanciamento. Questo è il vero problema!

Ogni giudizio di bilanciamento, infatti, trascina con sé una diversa valutazione di maggiore o minor favore fra le due norme astrattamente applicabili: se il giudizio di bilanciamento si conclude con la prevalenza dell’attenuante sulle eventuali aggravanti, per i fatti pregressi è più favorevole la disciplina del previgente reato attenuato rispetto a quella del vigente reato autonomo (parlo dei fatti pregressi perché per quelli commessi dopo il 23 dicembre 2013 il problema non si pone: esiste ed è applicabile solo la disciplina del reato autonomo). Un esempio: il Giudice direbbe che rispetto ad una recidiva, ovvero rispetto all’aggravante della cessione a persona minorenne, prevarrebbe l’attenuante del quinto comma? Allora deve concludersi che è più favorevole il regime previgente dell’attenuante.

Attenzione: il favore della previgente disciplina si manifesta non solo nei casi del quinto comma riguardanti le “droghe leggere”, in cui la cornice edittale è quella da sei mesi a quattro anni di reclusione rispetto alla cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione del nuovo reato autonomo; ma anche nei casi del quinto comma riguardanti gli stupefacenti della c.d. “tabella 1”, in cui la cornice edittale è quella da uno a sei anni di reclusione rispetto alla cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione del nuovo reato autonomo. Infatti se diciamo che, individuata quest’ultima cornice edittale, dobbiamo poi computare l’aumento per la recidiva o per un’aggravante (come quella della cessione a persona minorenne), il risultato diventa più grave.

Ecco perché dico: la valutazione va sì effettuata in astratto, ma solo dopo avere effettuato il giudizio di bilanciamento.

Quindi la vostra mission sarà quella di persuadere il Giudice ad effettuare un giudizio di bilanciamento il più possibile conveniente rispetto alle esigenze del vostro cliente, persuadendo quindi il Giudice dell’una o dell’altra soluzione fra le più alternative a cui potrebbe pervenire. Questo evidentemente vale per tutti i fatti anteriormente commessi in cui dovete valutare la norma più favorevole, posizionando bene i limiti normativi del reato di nuovo conio con la possibile prospettazione di attenuanti o aggravanti e con quel giudizio di bilanciamento che dovete cercare di convincere il Giudice ad effettuare. Da parte sua il Giudice effettuerà prima il giudizio di bilanciamento e, sulla base di quello, guarderà cosa accade col vecchio regime e cosa

accade col nuovo, e applicherà la cornice edittale che lui ritiene più equa nel rispetto dell’art. 2 quarto comma del Codice Penale.

Che accadrà nei gradi successivi del giudizio? Io penso che si debba fare sostanzialmente una sorta di “prova di resistenza”: se il Giudice, magari applicando la norma meno favorevole, giunge però a un risultato compatibile con quello cui si sarebbe pervenuti applicando la norma più favorevole, è possibile che la sentenza regga sia in fase d’appello che di Cassazione, appunto se la pena è ragionevole. Diversamente dovrebbe accadere se il risultato non fosse compatibile: per esempio, il Giudice individua la pena partendo da quella di 5 anni, quando invece con la norma più favorevole poteva partire al massimo da quella di 4 anni (penso alla cornice 6 mesi-4 anni per i fatti del comma quinto riferiti alle c.d. “droghe leggere”); qui il Giudice del grado superiore deve correggere. Ma se i calcoli intermedi sono compatibili e il risultato è adeguato, penso che nei gradi successivi quella pena possa meritare conferma, essendo il risultato confacente.

Agli effetti della prescrizione, rileva il già ricordato problema della c.d. “ex Cirielli” (L. 251/2005): con i fatti di cui al quinto comma pregressi, riferiti alle c.d. “droghe pesanti”, si consolida la prescrizione “ante Cirielli” della fascia 10–15 anni (e cioè 10 anni come termine ordinario, e 15 anni come termine massimo a seguito d’interruzione) qualora alla data dell’8 dicembre 2005 sia stata già pronunciata la sentenza di primo grado. Invece, nel caso in cui a quella data non sia stata ancora pronunciata la sentenza di primo grado, dobbiamo stare attenti a distinguere quello che accade dopo l’8 dicembre 2005 e quello che accade dopo il 23 dicembre 2013: dopo l’8 dicembre 2005, vi è irrilevanza dell’attenuante agli effetti della prescrizione (infatti la “ex Cirielli”, tra le tante contraddizioni che si porta dietro, ha stabilito pure, innovando in peius il sistema precedente, l’irrilevanza dell’attenuante rispetto alla prescrizione). Quindi la prescrizione dopo l’8 dicembre 2005 va calcolata sul reato non circostanziato, mentre dopo il 23 dicembre 2013 la fattispecie tenue è diventata reato autonomo, sicché la prescrizione è pari a 6 anni (come termine ordinario), aumentata di un quarto, e quindi pari a 7 e mezzo (come termine massimo). Ma allora, ex art. 2 quarto comma del Codice Penale, questa prescrizione deve essere applicata ai rapporti pregressi quale regime più favorevole: quindi essa vale per tutti i fatti pregressi, salvo quelli “ante Cirielli” di cui ho parlato, perché per essi si è consolidato il regime prescrizionale della fascia 10–15 anni.

Non pretendo di darvi soluzioni su tutto e non voglio esporre una casistica eccessiva perché appesantirei il tutto: però m’interessa farvi conoscere questi problemi, perché nell’esperienza pratica capita di vedere con una certa frequenza che viene ignorata la tematica della prescrizione “ante” e “post Cirielli” rispetto alla data “magica” dell’8 dicembre 2005 come data di pronuncia della sentenza di primo grado. Pertanto su questo richiamo la vostra attenzione.

Sulle misure cautelari c’è poco da dire, perché per i fatti di lieve entità normalmente non saranno emesse. Ovvio che bisogna tenere conto del nuovo assetto normativo, e

cioè della pena massima fino a 5 anni di reclusione, e dunque ovvio il dovere del Giudice di rivalutare automaticamente le eventuali misure tenendo conto di tale nuovo limite di pena.

Un rapidissimo cenno al problema richiamato dall'avvocato Zaffalon sul fatto che il comma 5 bis è scomparso (previsione del lavoro di pubblica utilità), mentre il comma 5 ter ripropone tale pena sostitutiva anche per altri reati.

Credo che entrambe le soluzioni interpretative siano ammesse.

Qui c’è un comma 5 bis a cui viene fatto un rinvio dal comma 5 ter: questo rinvio viene fatto per rendere applicabile il lavoro di pubblica utilità a reati diversi da quelli in materia di droga. Allora forse la ratio del comma 5 ter, tutto sommato, rimane inalterata pur dopo la sentenza della Corte Costituzionale. Se pensiamo che il lavoro di pubblica utilità esisteva già come sanzione (e c’è anche in altri rami dell’ordinamento penale, ad esempio a proposito della guida in stato di ebbrezza), e che quindi è un tipo di sanzione che noi già conosciamo, potremmo forse tentare di salvare in via interpretativa il comma 5 ter anziché dire che è caducato semplicemente perché richiama un comma 5 bis che non c'è più.

In fondo, la ratio della previsione del comma 5 ter è quella di applicare il lavoro di pubblica utilità a fattispecie diverse da quelle in materia di droga, sia pure commesse da soggetto tossicodipendente: ed allora mi pare veramente strano dover dire che, siccome è caducata quella legge che prevede il comma 5 bis, nemmeno a fattispecie diverse da quelle contemplate da quella legge si può più applicare questo tipo di sanzione. Peraltro, attualmente è in gestazione, come già è stato ricordato, un progetto di legge approvato in via definitiva dalla Camera, in cui sarà previsto e disciplinato il lavoro di pubblica utilità: magari, forse, verrà fatta in tale sede quella chiarezza che tutti quanti auspichiamo.

Quarto argomento: la fase esecutiva.

Mi limito ad esporre dei cenni problematici e lascerò poi senz'altro la parola al collega Termini: problematici perché, come dice un intelligente aforisma, lo stolto ha una risposta per ogni cosa, mentre il saggio ha una domanda per ogni cosa. Io ho solo domande e quindi evidentemente faccio sfoggio di saggezza …

La regola generale è l’impermeabilità del giudicato alla dichiarazione di incostituzionalità della norma penale sostanziale diversa da quella incriminatrice. Questo è stato sempre affermato dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria e questo viene confermato dalla genesi dell’art. 2 del Codice Penale, nel suo attuale quarto comma, che una volta era il terzo. I più giovani di voi forse non lo ricordano, ma l’introduzione del novellato comma terzo – che ha fatto diventare comma quarto quello che era stato fino ad allora il comma terzo – è dovuta alla cosiddetta “legge Bossi”, la L. 85/2006, la quale ha ritenuto di modificare il sistema sanzionatorio per i

reati di vilipendio, articoli 290, 291 e 292 del Codice Penale, fino ad allora puniti con pena detentiva e da quel momento in poi puniti con la sola pena pecuniaria della multa. Il legislatore si è posto il problema del fatto che però le condanne irrevocabili per vilipendio sarebbero state comunque insensibili alla modifica sanzionatoria (una in particolare era passata in giudicato ed era prossima ad essere eseguita nei confronti di colui alla cui posizione processuale la legge è stata di fatto dedicata: evidentemente colui non poteva più contare sulle sospensioni condizionali della pena, già fruite in precedenti occasioni). Il legislatore s’è reso conto che, se non avesse introdotto la norma che sto per commentarvi, la pena detentiva inflitta con sentenza irrevocabile sarebbe stata scontata a prescindere dalla modifica normativa che aveva trasformato la pena da detentiva a pecuniaria, per cui ha inzeppato questo nuovo terzo comma nel corpo dell’art. 2 del Codice Penale: tale norma dice sostanzialmente che, nel caso in cui la pena per un certo reato venga modificata da detentiva a pecuniaria, anche l’eventuale esecuzione avverrà sulla base della pena pecuniaria, opportunamente ragguagliata. Orbene, se il legislatore ha introdotto tale modifica, vuol dire che si rendeva conto che altrimenti sarebbe stata comunque eseguita la pena detentiva, perché la modifica della previsione sanzionatoria sarebbe stata insensibile al giudicato.

Ma allora proprio in forza della genesi storica dell’attuale art. 2 terzo comma del Codice Penale, possiamo noi pensare che possa scardinare il giudicato il nuovo assetto normativo, in cui abbiamo pur sempre una pena detentiva come pena legale, sia pure nell’ambito di una cornice edittale profondamente mutata? Possiamo affermare con certezza che ci debba essere nel sistema un principio di permeabilità del giudicato alla modifica normativa o non dobbiamo piuttosto seguire la linea “classica”, secondo la quale il giudicato non può e non deve venire travolto?

L’orientamento tradizionale della Cassazione è granitico e passa attraverso un’interpretazione dell’art. 30 della Legge 87/1953 secondo cui questa si riferirebbe soltanto alle norme incriminatrici, e non anche alle norme penali diverse da quelle incriminatrici. E’ chiaro che chi vuole invece valorizzare l’altra strada (concordo perfettamente con ciò che è stato già detto a tal proposito), deve valorizzare il citato art. 30 della Legge 87/1953: questa è la via corretta, non invece quella che muove dall’art. 673 c.p.p., la quale è norma meramente di procedura; l’interprete deve dire che tale art. 30 si applica anche alla norma penale diversa da quella incriminatrice.

Io però ora dico: ma perché vogliamo a tutti i costi che resista questo mito del giudicato, quando lo stiamo comunque perdendo per strada?

L’abbiamo perso, per esempio, come sostanza della cosa giudicata alla stregua delle modifiche che hanno attinto nell’ultimo decennio il processo di revisione. Intanto le prove nuove, che una volta si diceva dovessero essere scoperte dopo il giudicato ed essere sopravvenute al giudicato, oggi si dice che non occorre affatto che siano sopravvenute, potendo ben essere preesistenti, e basta soltanto che siano scoperte dopo il giudicato. Ma ci si è spinti anche più in là, dicendo che le nuove prove

potevano anche essere preesistenti e scoperte prima, ma semplicemente non valutate dal Giudice. Ma se è così, ne viene stravolta l’impostazione tradizionale, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, sicché la prova non valutata deve intendersi tacitamente rigettata. Ed infatti adesso non è più così: oggi è pacifico che la revisione si possa domandare anche sulla base di prove presenti in atti di cui il Giudice non ha espressamente dato conto in sentenza. Ma allora come possiamo ancora credere a questo mito del giudicato, a questa sorta di Leviatano che comunque prevale su tutto?

E non basta: il mito del giudicato sta scomparendo anche sotto tanti altri profili.

Per esempio, sul tema della continuazione. Non occorre essere vecchi come l’avv. Zaffalon per rammentare quali contorsioni giurisprudenziali ci siano state sul quesito se il Giudice del secondo reato potesse ritenere avvinto dal vincolo della continuazione altro reato già giudicato soltanto quando il primo fosse il più grave o anche quando il secondo fosse il più grave. Per anni la Cassazione ripeteva che il meccanismo poteva valere soltanto se il primo reato era il più grave, negando al Giudice del secondo reato che fosse il più grave la possibilità di compiere la medesima operazione. Poi c'è stato un salutare ripensamento della giurisprudenza, che ha preso atto del fatto che il giudicato in due episodi collegabili con il vincolo della continuazione arriva in momenti diversi per ragioni estemporanee e spesso indipendenti dal comportamento del reo. Ci può essere un atteggiamento dilatorio in un processo e non dilatorio in altri processi, ma in ogni caso il giudicato può tardare anche per la necessaria sostituzione del Giudice o per lo smarrimento del fascicolo o per altre mille evenienze. Infatti, ormai da tempo è pacifico che anche il Giudice del reato più grave che deve essere ancora giudicato possa incorporare nella sua sentenza il reato meno grave già giudicato: e questo non vuol dire sgretolare sempre più questo mito del giudicato?

Sentiremo adesso con attenzione che ne pensa il collega Termini, ma io credo che per il momento la dottrina classica abbia ancora la sua ragion d'essere, e tuttavia ci siano buone speranze che venga superata.

Noi come Procura Generale, organo requirente, non ce le siamo sentita – ve lo dico subito – di superare la concezione classica, almeno fino al 29 maggio 2014, quando sapremo come le Sezioni Unite della Cassazione decideranno sul problema perfettamente identico dell’eventuale ultrattività sul giudicato della declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 69 del Codice Penale, che imponeva un esito prefissato del giudizio di bilanciamento fra recidiva reiterata ed attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 L. Stupefacenti. Se la Corte di Cassazione darà una certa soluzione, la seguiremo. Ma fino a quel momento, noi ci attestiamo sulla tesi classica: quindi ci atterremo alla linea tesa ad impugnare quell'ordinanza di Rovigo di cui vi è stato fatto cenno, perché secondo noi non sarebbe consentita sulla base del diritto vivente.

Però ci rendiamo perfettamente conto che oggi tenere ferma una condanna per fatti di hashish a pena che superi i sei anni in rito ordinario, o i quattro anni in rito abbreviato, significa mantenere in carcere una persona per un fatto che, se non fosse già passata in giudicato la sentenza, in carcere non ci dovrebbe stare. E ci rendiamo perfettamente conto che se questa persona ha delle ulteriori malefatte da scontare potrebbe chiedere la continuazione tra i più fatti, ottenendo dal Giudice dell'esecuzione una rivalutazione della pena e quindi una modifica in melius di quella già passata in giudicato; se invece non ha compiuto altre malefatte, ciò non avviene sicché in definitiva viene trattato peggio di chi le ha compiute.

Siamo consapevoli di tutto questo, riconoscendo però che il problema giuridico è tuttora aperto. E con questo raggio di speranza vi lascio e vi ringrazio per l'attenzione.

AVV. RENATO ALBERINI

Brillante come sempre il Procuratore Generale, tranne quando si accanisce contro i nostri appelli! Credo che forse tutti prima abbiano riso: tranne l’Avvocato Zaffalon!, che ogni modo è troppo buono: come sparare sulla Croce Rossa.

Il mito del giudicato è un altro tema importantissimo; ma la tradizionale intangibilità del giudicato, come si suol dire e come abbiamo appreso fino adesso, è fatalmente destinata a sbriciolarsi pezzo dopo pezzo.

Nell'introdurre l'intervento del Consigliere Termini, che purtroppo interviene per ultimo, ma sicuramente riuscirà anche lui richiamare l'attenzione di tutti noi, mi piace introdurre il problema degli effetti della sentenza della Corte Costituzionale sulle condanne definitive richiamando un passaggio della citata sentenza Ercolano delle Sezioni Unite del 2012 proprio sul punto: "Il dogma del giudicato non può e non deve ostacolare la doverosa eliminazione dello stigma dell’ingiustizia connesso alle evidenti e pregnanti compromissioni in atto, con effetti negativi perduranti di un diritto fondamentale della persona quale certamente quello che incide sulla libertà". Parliamo del 2012 e quindi il tema è ancora più di attualità dopo questa sentenza della Corte Costituzionale sul tema degli stupefacenti.

La parola quindi al Dottor Gioacchino Termini, che non ha bisogno di presentazioni perché la sua vita professionale è trascorsa tra Venezia e Treviso e per chi non lo sapesse tra poco torna a Venezia come Presidente di Sezione della Corte d’Appello. L'applauso spontaneo è proprio sintomatico del fatto che Lei ha lasciato un ottimo ricordo a Venezia e quindi siamo contenti di riaverla tra noi, anche se già era molto

vicino a Venezia, essendo a Treviso, e quindi avendo avuto modo di apprezzarla anche come Presidente di Sezione Penale.

Prego Consigliere. Attendiamo da lei qualche ulteriore indicazione, risposta o domanda, come ha detto il Consigliere De Nicolo, alle tematiche che poc’anzi ho illustrato.

CONS. DOTT. GIOACCHINO TERMINI

Ringrazio la Camera Penale Veneziana, ringrazio tutti gli Avvocati presenti, molti dei quali ricordo ancora con i pantaloni corti, come si suol dire, ce li avevo anch’io! E’ già tanto che continui a riconoscervi, vuol dire che non sono definitivamente andato!

Io, se avessi un minimo di dignità, dovrei ringraziarvi e andarmene. Ma ho anche un forte senso del dovere e quindi sono qua e qualcosa la devo dire, anche se so che sarà assolutamente inadeguata dopo quello che è stato rilevato, la qualità dei relatori e la difficoltà delle tematiche che rimangono, sicuramente superiore alle mie risorse di modesto artigiano del diritto. Da modesto artigiano del diritto, sino ad ora sempre impegnato in primo grado, tutta una serie di problematiche che qui sono state evocate le ho conosciute soltanto per alcuni aspetti marginali. Non mi sfugge però l’importanza di alcune questioni e anche con riferimento all’intangibilità del giudicato tutte le problematiche che questo cosiddetto “principio immanente” del nostro ordinamento porta con sé tutte le volte che si tratta di svolgere le funzioni di giudice dell’esecuzione, dove questi aspetti, anche se non con frequenza statistica rilevante, si pongono e si sono sempre posti. Il problema della continuazione è uno di questi. Io addirittura ricordo la giurisprudenza della Cassazione quando diceva che il meccanismo dell’applicazione del reato continuato in executivis era improponibile perché urtava contro le regole della recidiva, anche se per fortuna poi (anche la Cassazione cambia idea) da quello siamo venuti fuori.

Mi rendo anche conto che c’è il problema di orario, di attenzione, il tema non è leggero, non me la prendo se qualcuno si addormenta, anzi siccome io tendo a leggere e quindi ho tolto gli occhiali da lontano, non me ne accorgerò nemmeno, quindi tranquillizzatevi, non fate neanche cattiva figura!

La sentenza della Corte Costituzionale della quale abbiamo sentito così autorevolmente parlare ha indubbiamente, com’è stato pure rilevato, notevoli implicazioni nella fase esecutiva. Le maggiori implicazioni, è ovvio che sia così, riguardano il regime sanzionatorio di maggior favore per le droghe leggere; per le droghe pesanti il problema credo che in concreto abbia scarsissima rilevanza pratica, se consideriamo che la Jervolino-Vassalli aveva un trattamento sanzionatorio addirittura più grave di quello della Fini-Giovanardi che è stata dichiarata illegittima. Ma questo non toglie l’enorme rilevanza pratica tutte le volte che di droghe leggere si

tratti. Non toglie secondo me nemmeno la rilevanza pratica tutte le volte che c’è un problema di commistione se questo riguarda pronunciamenti precedenti, lì dove la contemporanea violazione dell’art. 73 in punto di droghe pesanti e di droghe leggere comportava l’applicazione dell’istituto della continuazione.

Per quello che ho potuto verificare, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si possono individuare due fondamentali linee interpretative. In base al primo orientamento, peraltro di più recente formazione ed evoluzione - che segue alla dichiarazione di incostituzionalità della circostanza aggravante dell’art. 61 comma 1 n. 11 bis del Codice Penale, cioè dello stato di clandestinità, pronunciata appunto con la sentenza della Corte Costituzionale del 2010 - gli artt. 136 della Costituzione e 30 della Legge 87/53 ostano all’esecuzione della porzione di pena inflitta in sede di cognizione per effetto dell’applicazione di una circostanza aggravante che poi è stata dichiarata illegittima. Ne consegue che è compito del giudice dell’esecuzione individuare la porzione di pena corrispondente e quindi di dichiararla non eseguibile. Si arriva addirittura oltre e si dice: "È obbligo del giudice dell’esecuzione eventualmente determinarla ove questo non avesse fatto il giudice della cognizione oppure ove abbia – perché questa è pure un’ipotesi concretamente possibile – proceduto al bilanciamento tra le circostanze e quindi alla fine non ne abbia tenuto conto”. Questa conclusione è fondata su alcuni dati in qualche maniera difficilmente contestabili, cioè si dice: la pronunzia della Corte che dichiara l’illegittimità costituzionale ha una sua forza invalidante ex tunc e lo stesso art. 30 (come prima rilevava il prof. Insolera) consente una lettura che impedisce di rendere applicabile anche una sola parte del meccanismo o dell’apparato sanzionatorio determinato in sede di cognizione, cioè impedisce l’applicazione anche solo di una porzione di pena, applicata in forza di una norma caducata. Questo tipo di lettura peraltro risponderebbe a principi di rango costituzionale e in particolare dell’art. 27, quindi i principi di personalità, di proporzionalità, di rimproverabilità, che investono la pena non solo nel momento della sua irrogazione, ma che la coinvolgono anche nella successiva fase dell’esecuzione e che quindi consentono questa operazione di caducazione ex post. In questo ambito la sentenza Ingordini del 2013 della stessa sezione, dinanzi a un ricorso proposto personalmente dall’imputato, rilevava incidentalmente la sua inammissibilità per genericità dei motivi e tuttavia annullava comunque la sentenza impugnata per una sopravvenuta causa di nullità della decisione che atteneva proprio al trattamento sanzionatorio, secondo la Corte rilevabile d’ufficio anche nell’attualità della re giudicata ai sensi del combinato disposto dell’art. 2 quarto comma e 129 del Codice Penale. Il fatto, detto poi per capire di cosa si tratta e a proposito del richiamo al cuore della Cassazione, riguardava proprio il rapporto tra recidiva e attenuante del quinto comma dell’art. 73.

C’è però un altro orientamento. In particolare, Sezione Prima del 19 gennaio 2012, procedimento Amruni, afferma che la pena inflitta con la sentenza irrevocabile resta insensibile alla sopravvenuta modificazione in senso favorevole al reo delle disposizioni penali, la cosiddetta lex mitior, con la conseguenza della doverosa

espiazione di una pena addirittura superiore al massimo edittale fissato con la più benevola norma incriminatrice successiva. Rileva la sentenza che con la pronuncia di una sentenza divenuta irrevocabile si esaurisce l’applicazione di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio e l’esecuzione della pena (che sfugge quindi a questo meccanismo) trova esclusivamente titolo nel relativo provvedimento di irrogazione della sanzione che, in virtù dell’efficacia preclusiva del giudicato, diventa insensibile ad ogni questione che attiene all’applicazione della norma che ormai è stata definitivamente operata dal Giudice. Detto in altri termini: una volta che il Giudice ha fatto buono o cattivo governo, ma comunque ormai giudicato, della norma incriminatrice, il problema applicativo, cioè della espiazione della sanzione è insensibile a tutto quello che riguarda la norma. Non ci sarebbe più potestà del Giudice. Bisogna dare atto che in questa sentenza il percorso sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità avesse inciso sul dogma della re giudicata, però anche qui si limita in questa sorta di percorso ermeneutico soltanto alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali. Giunge quindi alla conclusione che la cessazione di tutti gli effetti penali di cui parla l’art. 30 della Legge del '53 implica necessariamente il presupposto dell’abolitio criminis. Ci arriva anche per un’altra strada, perché non è buttata lì, ci arriva individuando nell’art. 673 una norma che avrebbe implicitamente abrogato l’art. 30, assorbendola completamente e quindi dettando una nuova regolamentazione delle conseguenze dell’abolitio criminis o delle sentenze della Corte Costituzionale, perché in realtà l’art. 673 è un po’ diverso dall’art. 30. Dal fatto che questa sentenza sia stata confermata anche da altre sentenze della Corte è poi seguita la rimessione alle Sezioni Unite. Io potrei limitarmi a riferirvi questo, a ringraziarvi, ad alzarmi e andarmene. In realtà qualche domanda me la sono posta anch’io. Quali possono essere gli sbocchi di questa impasse, di questa diversità di orientamenti e quali possono essere le soluzioni non solo più giuste, ma più coerenti con l’attuale assetto di riferimento, che non è più solo rappresentato dalle norme della Costituzione, ma anche da quelle di rango internazionale.

Qui bisogna dare atto che il percorso della giurisprudenza della Corte Costituzionale su questo punto si muove su delle linee che sono ben individuabili e cioè in primo luogo quella del diverso fondamento costituzionale e quindi della diversa forza del principio di irretroattività della nuova legge penale sfavorevole, si tratti sia di norma incriminatrice sia soltanto di disposizioni che aggravano il trattamento sanzionatorio, rispetto al principio di retroattività della legge più favorevole, perché l’irretroattività della norma sfavorevole trova fondamento nell’art. 25 della Costituzione, che lo afferma in termini assoluti, e quindi di insuscettibilità di bilanciamento con qualsiasi altro valore costituzionale; lo individua come uno strumento essenziale di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore e come espressione dell’esigenza di prevedibilità e quindi di calcolabilità delle conseguenze giuridico penali della condotta.

Il discorso invece del principio di retroattività della legge più favorevole non trova nessun aggancio specifico nella Carta Costituzionale. Viene quindi incastonato nel

principio di eguaglianza dell’art. 3 e quindi qui si dice: sul presupposto di una lettura oggettivizzata del disvalore del reato impone di trattare nella medesima maniera, quindi con lo stesso trattamento, non solo sanzionatorio, ma addirittura sul piano delle conseguenze, i medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore di una norma più favorevole o addirittura dell’abolitio criminis. Però questo incastonamento nell’art. 3 non ha più la stessa forza cogente del principio di irretroattività, perché diventa suscettibile di deroghe ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli sempre sul piano costituzionale. Il problema allora è: quali sono queste ragioni che possano legittimare un trattamento differenziato tra chi ha commesso la stessa tipologia di fatto nel vigore di norme che hanno una diversa severità? Nelle pronunce più datate si faceva riferimento al dato del giudicato: cioè il solo dato del giudicato come valore intangibile e immanente dell’ordinamento costituiva valida giustificazione razionale. Si parlava quindi dell’esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, si definivano eccezionali le deroghe al principio del giudicato e questo era l’indirizzo tracciato dalla Corte. Si diceva: “Lo stesso fluire del tempo costituisce di per sé elemento differenziatore, capace quindi di ricondurre a ragionevolezza il diverso trattamento riservato agli autori di violazioni della stessa tipologia”.

Negli ultimi anni le cose sono cambiate. Da una parte vi è la presa di consapevolezza delle fonti internazionali e comunitarie che affermano il principio della retroattività della legge più favorevole: il patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York nel dicembre del '66, ratificato nel '77 da noi; l’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea di Nizza che poi è stata recepita nel trattato di Lisbona, modificativo del trattato istitutivo, quindi del 2009; le pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, ancora prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, indicavano il principio di retroattività della legge più favorevole come un principio insito nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, destinato quindi a diventare parte integrante dei principi generali del diritto comunitario. Però è l’art. 7 della Cedu, come interpretato peraltro dalla Corte di Strasburgo, e qui il riferimento è alla sentenza Scoppola, famosissima e qui già più volte citata, che attribuisce al principio un nuovo fondamento costituzionale, non più solo di origine pattizia e convenzionale. Infatti proprio in quella pronuncia la Corte stabilisce che l’art. 7 paragrafo 1 della Convenzione “non sancisce solo il principio della retroattività della legge penale meno severa, traducendosi nella norma secondo cui se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il Giudice deve applicare quelle le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”. Il problema però è che da qui non ne possiamo derivare una conseguenza di costituzionalizzazione del principio, perché la stessa Corte ammette che gli ordinamenti costituzionali possano prevedere ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato quando si debbano ritenere prevalenti altri valori ugualmente dotati di dignità costituzionale. Qui il richiamo, questa volta sì di carattere pregnante, è la

tutela della libertà personale, che rischia di essere sacrificata in base a una norma incriminatrice, pur intervenuta dopo l’emanazione di una sentenza irrevocabile.

Cosa si può arguire da questo percorso? Che forse oggi ci sono gli spazi perché la Corte Costituzionale possa rivedere la rigidità del pregresso orientamento interpretativo sulla intangibilità del giudicato. Io ovviamente non ho la sfera di cristallo, meno che meno sono in grado di fare previsioni su come si muoveranno i Giudici costituzionali. Certo però è che anche in quella sede credo non potrà non tenersi conto del fatto che, poiché comunque il problema alla fine riguarderebbe la concreta esecuzione e quindi il limite delle competenze riservate al giudice dell’esecuzione, non potrà non considerare che ormai il giudice dell’esecuzione, in quanto investito di ampi poteri, di fatto non si occupa più solo delle questioni di validità e di efficacia del titolo esecutivo, ma sempre più spesso ha la possibilità di incidere sul contenuto del titolo esecutivo. Il primo passo indubbiamente è capire quale sarà l’orientamento delle Sezioni Unite, non so poi da lì se ci saranno spazi o meno per intervenire: immagino che il grimaldello potrebbe essere proprio quello del procedimento di esecuzione, intervenire e quindi sollecitare la pronuncia della Corte. Staremo a vedere. Ripeto, questo è uno degli aspetti che a ben vedere non riguardano soltanto il tema di cui oggi trattiamo, ma che ha una portata e una valenza sicuramente più ampia.

Io mi fermerei qui, perché credo di avere già abusato parecchio. Ci sono altre cose su cui potremmo pure discutere ma se è il caso, se c’è tempo e modo di un dibattito, possiamo senz’altro farlo.

AVV. RENATO ALBERINI

Grazie, Presidente. Il tema forse è più spinoso proprio perché mancano gli strumenti e noi come operatori pratici ci poniamo il problema di quale possa essere lo strumento, pur rendendoci conto dei limiti anche ristretti in cui operare.

Volevo sapere se c’era qualcuno che voleva intervenire.

AVV. ELIO ZAFFALON

Mi ero dimenticato prima di accennare ad un profilo che mi sta molto a cuore: quello del lavoro di pubblica utilità. Si tratta quindi di domande che rivolgo al prof. Manes e magari anche al Consigliere De Nicolo che ne ha parlato.

La prima osservazione è questa: nel Decreto Legge Fini-Giovanardi, continuo a chiamarlo così, a proposito del fuoriluogo normativo adottato dalla legge di conversione rispetto all’oggetto del Decreto Legge (profilo che ha determinato la declaratoria di incostituzionalità), si parlava di interventi di recupero dei tossicodipendenti. Quindi mi ha sorpreso che la Corte Costituzionale, nel momento in

cui ha dichiarato il fuori luogo normativo della legge di conversione, non abbia salvato la norma sul lavoro di pubblica utilità previsto dal Decreto Legge n. 78/2013 sotto il profilo che c’era invece per questo tema la connessione, in quanto nel Decreto Legge si parlava del recupero dei tossicodipendenti e il lavoro di pubblica utilità è proprio attinente a questo tema. Mi ha quindi sorpreso, e chiedo al prof. Manes se c’è qualche cosa da dire o qualche cosa da salvare su questo punto, che la Corte abbia invece annullato anche questa normativa.

Il secondo profilo riguarda quello di cui anche il Dottor De Nicolo ha parlato: l’art. 73 comma 5 ter tratta di lavoro di pubblica utilità per reati diversi da quelli previsti dalla legge, cioè le sanzioni penali sui reati di stupefacenti. Quindi sembrerebbe che in qualche modo si potesse tirare in salvo questa parte del lavoro di pubblica utilità. Ma allora la domanda è: come si fa a salvare un lavoro di pubblica utilità per i reati di tossicodipendenti che non attengono agli specifici reati previsti dalla legge (per esempio sarebbe possibile per il tossicodipendente che commette un furto, sia pure a fini ovviamente di consumo), e non sarebbe però possibile il lavoro di pubblica utilità per il tossicodipendente che spaccia. Questa allora sarebbe un’ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della irrazionalità. Su questo punto sono molto pessimista, perché se aspettiamo una sentenza della Corte Costituzionale quando c’è il detenuto in carcere che chiede il lavoro di pubblica utilità, costui fa molto prima a scontare la pena. Mi domando se qualcuno sia in grado di proporre soluzione.

Grazie.

AVV. RENATO ALBERINI

Prof. Manes, vuole rispondere alle due domande che ha formulato l’Avvocato Zaffalon?

PROF. AVV. VITTORIO MANES

Il problema dell’art. 73 comma 5 ter è il seguente: faceva rinvio al comma quinto bis, che è stato caducato con la sentenza della Corte. Ora si pongono due problemi, due orizzonti interpretativi: se sia ancora in vita o se non sia più in vita. Il Consigliere De Nicolo prima ha sostenuto una lettura che potrebbe essere anche condivisa, cioè che quel rinvio al 5 bis, o meglio, la caducazione dell’oggetto di quel rinvio del 5 ter - che ricordo ampliava, come è stato ricordato, ai reati diversi dal piccolo spaccio la possibilità di fruire del lavoro di pubblica utilità - rappresentava una soluzione alternativa radicale alla sanzione detentiva per gli autori dei reati di condotte di lieve entità (se si applica ancora, che pure è una tesi assolutamente sostenibile; prima il Consigliere De Nicolo diceva: “a me pare che la ratio sia ancora salva”; può essere).

Si prospetterebbe però una soluzione alquanto irragionevole, perché questo profilo è stato oggetto la settimana scorsa di audizione alle Commissioni riunite Giustizia e Affari Sociali della Camera, ove si è discusso molto della situazione concernente l’attuale art. 5 ter, per ragioni anche legate a profili di sovraffollamento carcerario e quindi profili su cui l’attenzione politica oggi è molto alta. L’indicazione che io stesso proponevo era quella di fare chiarezza anzitutto sulla perdurante vigenza del 5 ter; se dovesse ritenersi vigente bisognerebbe probabilmente pensare in sede di conversione del Decreto Legge n. 36 di ripristinare anche la vigenza per quella che è la condotta normalmente più frequente se guardiamo all’id quod plerumque accidit: il piccolo spaccio è attività normalmente utilizzata come modo di autofinanziamento dallo stesso consumatore. Sembrerebbe irragionevole ammettere il lavoro di pubblica utilità per reati diversi da quelli della costellazione della lieve entità e non a questi ultimi; ma io mi permetto di dubitare (ovviamente l’opinione è strettamente personale) che questa irragionevolezza attinga ad un livello di manifesta irragionevolezza che raggiunga quella soglia, come diceva prima il prof. Insolera, che rappresenta le colonne d’Ercole al di qua delle quali la Corte non interviene - perché sulla cornice sanzionatoria, lato sensu intesa, quindi estesa anche alle sanzioni sostitutive, la Corte è molto restia ad interventi, se non c’è un pertinente e stringente tertium comparationis -. Certo il legislatore dovrebbe fare chiarezza “su quel che resta del giorno”, come diceva il titolo di un film.

CONS. DOTT. ANTONIO DE NICOLO Volevo solamente aggiungere una notazione.

Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che l’art. 2 quarto comma del Codice Penale consenta la possibilità di applicare il lavoro di pubblica utilità ai fatti di piccolo spaccio commessi prima del 6 marzo 2014. Quindi la norma in argomento non potrà più essere applicata per il futuro, ma colui che ha commesso un reato nella vigenza della norma dichiarata incostituzionale – e questa è una norma sanzionatoria che prevede una sanzione di favore –, credo che ne possa fruire. E allora, se è così, per lo meno per i reati commessi dopo il 3 luglio 2013 (allorché è stato introdotto il comma 5 ter), ed almeno fino al 6 marzo 2014, dovrebbe coerentemente potersi ammettere la stessa possibilità di applicazione del lavoro di pubblica utilità anche a reati diversi da quello del comma quinto. Per un brevissimo periodo c’è stata una convivenza parallela del comma 5 bis e del comma 5 ter, e per un periodo più lungo, praticamente per il periodo che assorbe il termine prescrizionale del quinto comma, il comma 5 bis è vissuto e quindi dovrebbe essere applicato.

Anch'io auspico, come il Prof. Manes, che il legislatore in sede di conversione di questo Decreto Legge intervenga pure sotto questo profilo perché altrimenti abbiamo un vuoto normativo: infatti, questa normativa di favore si può applicare, ma con il limite dei fatti commessi per il 5 bis prima del 6 marzo 2014 e per il 5 ter solo dal 3 luglio 2013 al 6 marzo 2014. Quindi abbiamo un regime sanzionatorio che sa

veramente di schizofrenia assoluta, sicché è bene che il legislatore intervenga. Insomma, questa norma per il futuro è cancellata, ma per il passato vige nei termini di date che ho indicato.

AVV. RENATO ALBERINI

Sono stati tutti interventi di grossissimo spessore e desidero qui ringraziare tutti i relatori. Sono stati molto precisi nell’individuare tutti i punti deboli di questa nuova situazione normativa che sicuramente ha degli aspetti di schizofrenia. Speriamo che il legislatore non perda questa occasione di conversione del Decreto Legge del 2014 per sistemare e riequilibrare la disciplina sanzionatoria, anche se ultimamente le speranze nel legislatore sono sempre più spesso deluse.

Grazie a tutti voi e al prossimo incontro.