I temi

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I temi Ogni anno le attività di BombaCarta hanno un tema generale di approfondimento. Il cuore "critico" di BombaCarta è costituito da un cammino che procede per significati, parole chiave e percorsi di lettura. Scegliere un tema significa scegliere un punto di vista sul reale e sull'espressione artistica. Ci offre la possibilità di legare arte e vita in un binomio inscindibile perché apre un discorso ampio e significativo anche a livello di vita vissuta. Lavorare a partire da un tema ispiratore ci consente inoltre di considerare tutte le forme artistiche (letteratura, cinema, musica,… ) senza compartimenti stagni e attraverso un approccio che fa interagire tra di loro opere molto diverse. La scelta dei temi, fin dal primo anno di BC, ha toccato argomenti fondamentali che sono capaci di congiungere saldamente letteratura e vita. Quest'anno il tema è COSE CHE BISOGNEREBBE SAPERE. Ecco, in sintesi, i temi sviluppati negli anni precedenti: Nel 2005: Nodi dell'esistenza Ci sono eventi nella vita che fanno fermare la ruota vorticosa del nostro essere al mondo e ci fanno vedere dall'alto e dall'interno. L'evento può essere una grande gioia, un grande dolore, un amore o un lutto, una illuminazione interiore o una nuova amicizia... In questi momenti la vita fa appello a una profonda autenticità a un rinnovato patto con l'esistenza. La vita, a volte, cambia. Ci sono punti di svolta, dei "nodi" dell'esistenza: momenti nei quali il filo della vita, pur continuando a scorrere, si ferma per abbracciarsi un istante e prendere consapevolezza della propria consistenza e del proprio valore. Tante persone vivono senza sapere perché: il filo scorre e basta. E allora torna la domanda di una poesia di Raymond Carver: "E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? ... E cos'è che volevi?". Questa domanda ha un potere immenso. Potremmo dire che è intrinsecamente poetica, cioè fa fare esperienza. Allora la domanda è: come l'arte e la letteratura manifestano questi nodi? Come si fa a dare una "forma" in parole, immagini, suoni... alla vita che giunge a momenti critici o, meglio, "nodali"? Quali sono questi nodi? Come l'arte e la letteratura hanno rappresentato questi nodi? Si apre un campo immenso e un ponte gigantesco, quello che collega l'arte e la vita. 1. IN FORMA DI AFFETTO - 16 ottobre 2004 2. IL DOLORE COME ESPERIENZA E CONOSCENZA – 13 novembre 2004 La qualità di un racconto si misura dalla sua capacità di entrare nelle vene della vita e di toccarne i nervi scoperti della "condizione umana".

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I temiOgni anno le attività di BombaCarta hanno un tema generale di approfondimento. Il cuore "critico" di BombaCarta è costituito da un cammino che procede per significati, parole chiave e percorsi di lettura. Scegliere un tema significa scegliere un punto di vista sul reale e sull'espressione artistica. Ci offre la possibilità di legare arte e vita in un binomio inscindibile perché apre un discorso ampio e significativo anche a livello di vita vissuta. Lavorare a partire da un tema ispiratore ci consente inoltre di considerare tutte le forme artistiche (letteratura, cinema, musica,… ) senza compartimenti stagni e attraverso un approccio che fa interagire tra di loro opere molto diverse. La scelta dei temi, fin dal primo anno di BC, ha toccato argomenti fondamentali che sono capaci di congiungere saldamente letteratura e vita. Quest'anno il tema è COSE CHE BISOGNEREBBE SAPERE.

Ecco, in sintesi, i temi sviluppati negli anni precedenti:

Nel 2005: Nodi dell'esistenzaCi sono eventi nella vita che fanno fermare la ruota vorticosa del nostro essere al mondo e ci fanno vedere dall'alto e dall'interno. L'evento può essere una grande gioia, un grande dolore, un amore o un lutto, una illuminazione interiore o una nuova amicizia... In questi momenti la vita fa appello a una profonda autenticità a un rinnovato patto con l'esistenza. La vita, a volte, cambia. Ci sono punti di svolta, dei "nodi" dell'esistenza: momenti nei quali il filo della vita, pur continuando a scorrere, si ferma per abbracciarsi un istante e prendere consapevolezza della propria consistenza e del proprio valore.Tante persone vivono senza sapere perché: il filo scorre e basta. E allora torna la domanda di una poesia di Raymond Carver: "E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? ... E cos'è che volevi?". Questa domanda ha un potere immenso. Potremmo dire che è intrinsecamente poetica, cioè fa fare esperienza.Allora la domanda è: come l'arte e la letteratura manifestano questi nodi? Come si fa a dare una "forma" in parole, immagini, suoni... alla vita che giunge a momenti critici o, meglio, "nodali"? Quali sono questi nodi? Come l'arte e la letteratura hanno rappresentato questi nodi? Si apre un campo immenso e un ponte gigantesco, quello che collega l'arte e la vita.

1. IN FORMA DI AFFETTO - 16 ottobre 2004

2. IL DOLORE COME ESPERIENZA E CONOSCENZA – 13 novembre 2004La qualità di un racconto si misura dalla sua capacità di entrare nelle vene della vita e di toccarne i nervi scoperti della "condizione umana".I personaggi, diceva Cechov, sono "creature di caldo sangue e nervi". Se non lo fossero, essi rischierebbero di rimanere pupi, marionette, controfigure, esseri lontani dalla vita e dai suoi significati. Ma se una narrazione o una poesia tocca i nervi scoperti, allora ha necessariamente a che fare col dolore.Se un essere è "umano", allora ha sperimentato il dolore. Al di là di ogni approfondimento di carattere psicologico o filosofico, questo è un dato di esperienza, un fatto. Ciò che è tenero e debole, come è l’uomo quando nasce (e ancor prima), non può che essere aperto all’esperienza del dolore e dunque anche dell’amore, del desiderio, della felicità... Ciò che è duro e freddo non può sperimentare nulla del genere.Se il dolore è esperienza radicalmente umana, e se la letteratura, l’arte, la poesia lo sono anch’esse, allora non può che esserci qualche legame più o meno oscuro tra queste esperienze.Non bisogna però confondere il dolore con il dolorismo (quante "poesie" nascono dal dolorismo!). Il dolore è un’esperienza, è un fatto. Il dolorismo è un vago sentire compiaciuto. Il dolore è una ferita che ci fa sentire colpiti, feriti, raggiunti da qualcosa che sentiamo provenire dall’esterno (fosse anche una malattia del nostro corpo). Il dolore ci fa capire che siamo vulnerabili e dunque aperti. Il dolorismo chiude chi lo prova dentro se stesso, dentro i propri meandri angusti. Dunque, in fondo, il dolore vero è una vera esperienza di conoscenza della realtà. In letteratura è così, è proprio questo. Il dolore è una forma di conoscenza del reale.Questa conoscenza può evolversi in una forma di comunicazione. Il dolore, ad esempio, è capace di richiamare una solidarietà che unisce i personaggi e li fa sentire «a casa», come scrive Adam Haslett in un racconto della sua raccolta You are not a stranger here: «Gli dava un conforto familiare trovarsi in presenza del dolore inconoscibile di un’altra persona. Quel posto, più di qualsiasi paesaggio, lo faceva sentire a casa». Nel dolore nessuno e niente può essere conosciuto come estraneo.

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3. DESIDERIO O UTOPIA? - Sabato 11 Dicembre 2004Un nodo della vita è certamente il desiderio, la capacità che ciascuno di noi ha di desiderare qualcosa. La letteratura e l’arte, in generale, costituiscono una ermeneutica del desiderio, un modo per interpretare il desiderio dell’uomo.Desiderio (dal lat. desiderare; rad. de-sider- = dalle stelle) significa anelare alle stelle, sentirne la mancanza, avere una nostalgia interiore profonda. Non è proprio la poesia, ad esempio, a essere uno dei luoghi privilegiati di espressione del desiderio?La questione però è che il desiderio vero, quello veramente umano, è sempre legato a due realtà:- la capacità che ha un cuore di provarlo (un cuore angusto, che vive solo per se stesso, non è aperto al desiderio) e- la capacità che ha la nostra ragione di dare un volto a quel punto di fuga che avvertiamo essere innestato profondamente in noi. La letteratura è il territorio dell’esperienza. Il desiderio in letteratura assume sempre un volto concreto e, a partire da quella concretezza, può dire: “più in là” davanti a ogni sua concreta realizzazione. Come scrive Montale: Sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:/ più in là. Ma solo a partire da una realtà concreta, pur vista nella sua precarietà.Se questo cuore desiderante però esplode in se stesso (cioè “implode”), se si limita a desiderare il medesimo desiderio, si compiace del cercare senza mai trovare; se il desiderio assume il tono di una irragiungibilità che fa sì che l’esperienza umana perda di significato e di valore, tutta bruciata da un ideale irrealizzabile, allora il desiderio si tramuta in utopia.L’utopia, per definizione, non ha luogo di realizzazione: è destinata a non realizzarsi e a non realizzare nulla, se non una vaga e continua frustrazione. Allora, sì, la vita diventa l’ombra di un sogno fuggente e non resta che l’alternativa tra il sogno e lo spreco.Cosa può fare invece la poesia e l’arte? Descrivere il desiderio non bruciato dall’utopia; descriverne le ustioni e dunque osservare le sue vie di realizzazione, cercare di intuire quali siano le esigenze più profonde di una vita umana.Come quando Testori, in Volpe d’amore, al mattino con il viso dell’amante tra le mani, scrive: Quando la notte in alba finiva/ tu mi piangevi dentro le mani/e mi chiedevi/ perché se m’ami/ tutto finisce,/ tutto svanisce. L’ustione della domanda metafisica non sfocia nel rogo dell’utopia d’amore: resta ancorata al concreto dell’esperienza e diventa, come Testori scrive, segno dell’aldilà dopo la fine.

4. LA LOTTA NECESSARIA - 22 Gennaio 2005Molte volte accade di sentire che vivere è lottare. Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. E’ frutto di un parto, che – sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa – rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: "morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello"). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri,...Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere. E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio - almeno nella rivelazione ebraico-cristiana, cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi

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32, 23-33) vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,...) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,...), i personaggi, le storie,...Valgono per l'ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. [...]. Mi dicevo: 'Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!'. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo". ?

5. AFFIDARSI: FIDUCIA, FEDE, FEDELTA’ – 5 marzo 2005Chiediamocelo con schiettezza e coraggio: di chi ci si può fidare?O meglio: a chi ci si può affidare? Mi posso affidare? Possiamo provare un istante a fermarci per porre a noi stessi questa domanda. Che cosa ci viene in mente? Un oggetto? Un animale? Non credo. Credo invece che ci venga in mente una persona (o più d’una, magari).Però un piccolo sospetto in fondo al cuore resta sempre.Magari facendo il suo nome dentro di noi c’è una piccola voce che ci suggerisce: “ma ti potrai fidare fino in fondo di lui/lei? Mi sarà fedele radicalmente?”. Sentiamo anche che dare retta a questo domanda ci porterebbe a un dubbio svilente, inutile, capace di generare in noi solo un sospetto, una chiusura. E invece noi abbiamo un bisogno radicale di aprirci di fidarci, di affidarci.Ma che tipo di esperienza facciamo quando ci affidiamo?In realtà l’esperienza dell’affidamento per noi è originaria: nasciamo affidati alle cure di qualcuno che ci accoglie, normalmente nostra madre (per questo lo scrittore svedese Goran Tunstrom ha scritto giustamente che «quando le mamme muoiono, si perde uno dei punti cardinali. Si perde il ritmo del respiro, si perde una radura»). Poi ci si desta lentamente al mondo delle persone e degli oggetti, dei volti e degli ambienti.Aprire gli occhi per vedere significa compiere un piccolo grande gesto di fiducia, di affidamento: è una apertura! Tutti i gesti di affidamento e di fiducia si radicano in questa apertura fondamentale e persino non chiaramente cosciente, che ciascuno di noi si porta dentro sin dal nostro inizio come iscritto nel nostro essere.E’ insomma originario e originante: se io incontro una persona e sento di sorriderle, non è solamente perché è buona educazione farlo o perché mi sta simpatica, ma innanzitutto è perché io sono radicalmente un’apertura sulla realtà. Se così non fosse nessuno potrebbe starmi simpatico e la buona educazione non avrebbe senso. Ha la propria radice in questa apertura radicale originaria lo «sguardo poetico» e il desiderio di dire il reale in parole, immagini, suoni: Rimani tesa volontà di dire. / Tua resti sempre / e forte / la nominazione delle cose (Mario Luzi).Ma attenzione!Proprio perché l’affidarsi è originario, fa appello e riferimento a una pienezza ultima. L’affidarsi è un richiamo, la traccia di una indigenza radicale che è (e cerca) una pienezza altrettanto radicale, come ha scritto Luzi:

Di che è mancanza questa mancanza,cuore,che a un tratto ne sei pieno?di che? Rotta la digat’inonda e ti sommergela piena della tua indigenza...Viene,forse viene,da oltre te

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un richiamo

Quando penso che mi posso affidare veramente, sento che questa fiducia non è a tempo, a scadenza limitata. Deve coinvolgere il mio essere tutto intero fino in fondo e fino alla fine. So che la mia capacità di fedeltà (come quella degli altri) è limitata, ma so che questa cosa in qualche modo, per essere vera, deve coinvolgere il mio destino ultimo, il senso della mia esistenza. Lo intuiamo, ad esempio, nella poesia che Bartolo Cattafi scrisse poco prima della sua morte dal titolo In te:

In te in te confidotutto ho rubato al mondosei il Cubo la Sfera il Centrome ne sto tranquillotutto t’è stato ammonticchiato dentro

Noi abbiamo bisogno di questo.

Un rischio, a questo punto, però, sarebbe quello di un possibile fraintendimento: scambiare l’affidarsi per un sentimento.No: l’affidarsi è una esperienza, è un fatto, non uno mero «stato d’animo». Gli stati d’animo sono a rischio di fraintendimento. Spesso si confonde la fiducia come un fatto di “provare”, “sentire”. Tutto ciò è molto importante, ma non indispensabile. Quando, ad esempio, Blaise Pascal dice che la fede è una scommessa implicitamente sta dicendo che essa non ha niente a che fare con un cuore riscaldato dalla certezza di un abbraccio. Questo abbraccio è una esperienza possibile, ma non indispensabile. Ci si può fidare anche “ciecamente”, decidere di farlo, fare esperienza di una scelta. E’ esperienza di molti che lo stato d’animo di fiducia e consolazione non tarda poi a sopravvenire, ma lo stato d’animo non si identifica con l’affidarsi vero e proprio, che può essere ben più nudo ed essenziale.

Ma, detto tutto questo, ci si rende conto di un ulteriore necessario passaggio. Non ci si fida in astratto di una persona, in fin dei conti, ma di una storia. Solo alle storie e alle persone in esse inserite si può dar fiducia. Se ci fidiamo di qualcuno, persino se egli fosse Dio, allora significa che con lui abbiamo una storia in corso, lo sviluppo di una esperienza vitale. Affidarsi a una persona significa, in fin dei conti, affidarsi a una storia, che diventa la nostra. Fidarsi di una persona significa credere in una storia, buttarcisi dentro, riconoscerla come significativa, «affidabile», degna di fiducia. Non è facile discernere quelle che lo sono veramente e quelle che sono sono abbagli, infatuazioni.

Ma questo è anche il ruolo della critica letteraria. Davanti alle storie e alle esperienze che il genio dell’arte ci propone sono possibili due atteggiamenti: o ci si crede (e allora esse si dispiegano nella loro potenza rappresentativa ed evocativa) o non ci si crede (e allora la pagina e la vita restano mute e dure). La visione dell’artista, il mondo da lui ri-costruito in maniera più o meno verosimile (e ciò poco importa) richiede una fiducia di base. Si avvia così un gioco di interpretazioni e significati, ma anche di giudizi e scelte. La critica non è un puro discettare di qualità stilistiche o di generi, perchè ha il compito di scegliere quali storie siano «degne di fede», e quali siano gli effetti di questo affidamento.Leggere (ma anche vedere un film) significa dunque entrare con «fede» in un mondo diverso rispetto al nostro per comprendere a fondo il senso proprio della nostra vita. Non avere «fede poetica» significherebbe, alla fine, narcotizzare il reale, spegnerlo, renderlo piatto, superficiale, scarno, secco. Una vita senza storie e senza fede nelle storie sarebbe ben povera. Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie significative da raccontare e più è disponibile ad ascoltarne alla ricerca di «storie affidabili».

6. LIBERAZIONI – 16 aprile 2005La parola liberazione di per sé non ha senso compiuto: non significa molto.E’ una parola monca che deve confrontarsi, se vuole avere senso compiuto e forte, con il destino ultimo dell’uomo e il suo desiderio di felicità. Lo scrittore Vasilij Grossman nel suo Vita e destino osservava: «Il grande cambiamento avvenuto nella maggior parte delle persone consisteva nel fatto che perdevano a poco a poco il sentimento della loro individualità e avvertivano con sempre maggior forza il sentimento

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della fatalità. […] Il gusto della felicità se n’era andato, non c’era più, e al suo posto la tormentava una moltitudine di voglie e progetti».Fatalità contro felicità: ecco il nodo che la libertà deve sciogliere.La fatalità nega, avvilisce, riduce a puro istinto quel che è il desiderio profondo di felicità che è in ogni uomo. Se vince la fatalità, il desiderio del cuore umano rischia di sgretolarsi in un puro flatus vocis. Così anche viene eliminata sempre e comunque la responsabilità e dunque la libertà.La figura etica dominante allora è quella di colui che “reagisce”, dell’antagonista, del ribelle, di colui che non è responsabile delle sue azioni perché la loro causa è esterna, e ad essa bisogna reagire. Egli gode dell’immunità del prefisso «re-/ri-»: reazione, resistenza, ribellione, rivolta. In questa condizione la libertà si risolve in una inutile volontà ribellistica di «liberazione».L’artista allora diventa l’incarnazione dell’eroe-vittima, il Prometeo incatenato. Lo aveva già detto Musil nel suo L’uomo senza qualità: «E’ sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può immaginare che nel caso limite il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati».Il dramma tra bene e male in tal modo sarebbe sempre fuori di me, mai in me, ma così la libertà resta impossibile, atrofizzata; la libertà rimarrebe non una forza propulsiva, ma solo un un vuoto immenso da riempire (Karol Wojtyla, Eco del pianto primigenio). Ma così, come la libertà sarebbe un vuoto, così anche l’arte sarebbe muta, puro contenitore di macchie di colore o di parole. Schizzo ribelle e secco.Come se ne esce? Nulla nella vita è stabilito in maniera automatica e anonima: i «giochi» non sono mai fatti e la storia (anche quella narrata) resta lo spazio della libertà, per quanto ferita. In questo spazio può maturare il desiderio aperto al gusto e alla responsabilità concreta, creativa e impegnativa di vivere su questa terra.?

7. OBBEDIENZE – 21 maggio 2005L’obbedienza non è una virtù. E’ vero. Meglio: non è solamente una virtù. E’ qualcosa di molto più importante di una virtù. Cerchiamo di capire meglio.Quando "vieni al mondo" non ti ritrovi solo: entri subito all'interno di relazioni che ti precedono. Ci nasci dentro. Non solo: nasci dentro una lingua particolare (italiano, inglese, portoghese,...); nasci dentro un modo di vedere il mondo, dentro una cultura; nasci dentro una religione, dentro degli affetti. In realtà nasci proprio dentro mani che ti accolgono nella vita. In quel momento comincia la tua silenziosa obbedienza all'aria che respiri, all'affetto che ricevi, alla lingua balbettante con cui la gente comincia a parlarti.Tu nasci sempre... "dentro": è questa la prima obbedienza radicale. Senza questa obbedienza saresti solo, muto, duro. Se riconosci che ciò che sei, in radice, non viene da te, allora la tua vita può fiorire perché sai di "appartenere" a un mondo di relazioni, parole, visioni.Obbedienza significa dunque (anche etimologicamente) ascoltare ciò che ci precede e ci accompagna, ciò che è presente. E cos'è la primissima "cosa" che è presente? Immaginiamo di nascere adesso, di aprire gli occhi adesso. Cosa proveremmo? Il contraccolpo stupefacente del mondo presente di colpo ai nostri occhi. Cioè? L'essere! Non come astrazione, ma come presenza che mi si impone davanti! Forse a volte, ci è capitato di provare una sensazione simile quando, dopo aver superato una curva o una collina, un panorama splendido ci si è spalancato, all'improvviso, davanti agli occhi.Certo, l'uomo cresce e si sviluppa, anche separandosi dai propri affetti originari, dalle visioni nelle quali nasce, e impara nuove lingue, nuove idee... L'uomo si differenzia, si confronta, si distingue. Ma questo viene dopo. Il primissimo sentimento originario dell'uomo resta quello di trovarsi davanti a una realtà che non è se stesso, che non è sua, che è indipendente da lui, e dalla quale dipende. Ecco la prima obbedienza, che coincide con lo stupore di essere al mondo. In genere, coincide proprio con un sorriso, quello materno.Niente è più pertinente all'uomo di questa originaria dipendenza. Solo questo stupore obbediente è in grado di fondare ogni vera successiva necessaria differenziazione, distinzione, ogni libertà che non sia malata o disperata. Solo così la libertà potrà giocarsi.L'arte è una forma di dialogo, ora fiducioso ora ribelle, con la propria originaria obbedienza/dipendenza a ciò che è. Essendo "creativa", l'ispirazione ha il potere di portarci indietro, ci fa avvertire l'eco del mistero delle origini, lo stupore di un mondo visto per la prima volta, il senso della "mappa del nuovo mondo". Ci fa riscoprire il gusto dell'obbedienza originaria.

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8. VERITA’ - 18 giugno 2005 Che cos’è la verità?E’ ciò che appare. Non ciò che mi sembra, ciò che io credo.E’ ciò che appare, cioè che si manifesta nella sua evidenza.Stiamo al chiodo e soprattutto restiamo nel nostro ambito, quello dell’espressione creativa. Si pensa, a volte, che l’espressione artistica sia essenzialmente fiction, finzione, elucubrazione mentale, frutto di fantasia. Se così fosse, se l’arte fosse un puro gioco di apparenze, allora non sarebbe una cosa molto interessante. Sarebbe un divertimento.No. Bisogna andare più a fondo. L’intuizione creativa vera vive di uno svelamento (aletheia, il termine greco per dire “verità”, significa, appunto “svelamento”) che coinvolge in un patto di sangue chi scrive, dipinge, compone,... e chi legge, guarda, ascolta...Se parlo di svelamento non intendo dire che sono io (l’io scrittore, artista,...) a scoprire qualcosa, ma è quel qualcosa che mi si svela davanti, anche senza che io possa volerlo, desiderarlo.La verità mi si impone, in qualche modo. In tal senso è inesauribile, inoggettivabile, sempre ulteriore. E questo fa paura, spesso. Per questo qualcuno pensa che “la verità non esiste” o comunque è bene non parlarne, perché è fuori controllo. A volte è bizzosa, irrequieta, im-placabile. E’ una visitazione che non può essere dedotta dai miei desideri.L’infinito al di là della siepe è una verità che si è imposta a Leopardi con i suoi “sovrumani silenzi”.Ma questa verità si svela non in generale, ma a me. E quindi vive nella mia interpretazione, senza però esaurirsi.Non bisogna aver paura della verità.E’ una bambina ribelle che ama fare a pugni, questo sì.

Nel 2004: Credere nelle storie

Sviluppato all’interno di un itinerario di 35 ore complessive all’interno di 7 workshop mensili Direzione dei workshop: Antonio SpadaroInterventi: Antonio Spadaro, Michela Carpi, Stas’ Gawronski, Andrea Monda, Saverio Simonelli, Cristiano Gaston, Paolo Pegoraro, Cecilia Pandolfi, Rachele Laurienzo, Giuseppina Oneto I temi scelti di volta in volta hanno cercato di toccare le corde profonde della natura delle storie narrate. Eccoli:

18 ottobre 2003STORIE FINITE E/O STORIE INFINITELa storia-fiction ha una durata precisa e così anche la lettura di una storia-fiction. Ma quando la storia finisce e cala il the end, la storia finisce veramente? E la lettura finisce veramente? Può continuare una storia al di là della storia? Si può leggere un testo dopo che lo si è riposto sullo scaffale da una settimana, da un mese, da un anno?

22 novembre 2003IL ‘SUGO’ DI TUTTE LE STORIESugo è molto più che "senso". Il senso indica significato e direzione, "sugo" dice la concretezza della storicità della storia e il suo gusto. La storia, le storie (la MIA storia), ha "sugo"? Qual è il suo di una storia? Dove sta? E’ la “morale”? E’ il suo “come va a finire”? Quale può essere il sugo di una storia? Può una storia non avere sugo? E se non ne ha?

6 dicembre 2003IL MISTERO DELLE STORIE L’argomento della mia narrativa, scrive Flannery O’Connor, è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». È il territorio del dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione, della grazia e del diavolo: «Nei miei racconti — scrive paradossalmente la O’Connor — il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace». Il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, «una necessità drammatica dello scrittore».

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24 gennaio 2004La VERITA’ della FICTION Può una fiction essere vera? In che senso una storia inventata è "vera"? C'è differenza tra vita reale e vita immaginata? La vita immaginata e narrata è vita vera? In che senso? La fiction su un personaggio vero è sempre vera o sempre falsa? A quali condizioni? Può una storia vera essere falsa?

13 marzo 2004STORIE GRANDI E STORIE PICCOLE Grandi epopee e racconti minimalisti hanno qualcosa in comune: sono storie. Le prime sono grandi e le seconde piccole. Le prime sono “mitiche”, le seconde “realistiche”. Ma sono sempre storie. Tuttavia una grande storia è fatta di piccole storie e una piccola storia può avere un significato universale. In cosa consiste allora veramente la grandezza e la piccolezza di una storia? Nella capacità di costruire un mito, l’una, e di essere aderente all’ordinario quotidiano, l’altra? Esiste una epopea del quotidiano? Esistono storie di ordinaria grandezza?

24 aprile 2004AMORE E MORTEAmore e morte sono le due colonne tradizionali del romanzo. Qual è il loro rapporto? Cosa le accomuna? Certamente un legame essenziale è la lotta. Come si esplicita questa lotta in una narrazione? Con quali forme e immagini?

22 maggio 2004I SERBATOI DI TUTTE LE STORIE Da dove vengono le storie? Le storie sono sempre dei doni che ci vengono dati, dei regali che ci vengono fatti col fatto stesso di essere al mondo. Sono una "grazia", cioè qualcosa che si riceve gratuitamente. Le storie esistono: bisogna attendere, aprire bene gli occhi, ascoltare, elaborando quel che sembra un caos e cioè l’esperienza quotidiana. Nelle storie narrate essa viene "convertita" fino a raggiungere quella particolare "presenza reale" propria del simbolo. Dentro questa "conversione" stanno le domande che costituiscono l’unico vero soggetto per l’artista: qual è la natura dell’esperienza umana? Cosa significa essere vivi, soffrire, provare sentimenti? Fino a che punto possiamo conoscere gli altri, noi stessi o la realtà che ci circonda? Più domande grandi ci sono dentro una storia, più essa sarà “serbatoio” per altre storie...

Nel 2003: la persona, il personaggioAbbiamo lavorato su letteratura, cinema, teatro e musica per un itinerario di 35 ore all’interno di 7 incontri. I temi scelti di volta in volta hanno cercato di toccare le corde profonde della natura del personaggio. Eccoli:

- Il volto del personaggio- La caratterizzazione del personaggio- La presentazione del personaggio tra presenza reale e presenza/assenza visibile- Resistenza e permeabilità del personaggio- Pensieri e sentimenti del personaggio- Salvezza e perdizione del personaggio- Speranza e disperazione del personaggio

Nel 2002: il suonoIl suono è stato affrontato- sia come tema di narrazione ed espressione- sia come parte essenziale di un testo che ha un suono, un ritmo, una melodia- sia come referente culturale e ispirativi di ogni espressione creativa

Nel 2001: il viaggioIl binomio vita/viaggio tra nostalgia, speranza, spaesamento alla luce di Ulisse, Abramo/Enea e del

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Cacciatore Gracco di Kafka. Il percorso è ancora in fase di sviluppo.

Nel 2000: il tempoil tempo e i 5 sensi;tempo oggettivo, soggettivo e relativo; il passatoil principio (l’«incipit» in musica, cinema e letteratura)Due le questioni centrali sviluppate durante l’anno: la relazione tra passato, presente e futuro e il tema del «principio» inteso some inizio del mondo (genesi) e inizio del mondo di significati che è un’opera d’arte («incipit» letterari, sequenze iniziali cinamatografiche e «ouverture» musicali).Circa il primo punto ci si è soffermati sul fatto che - Il passato viene dal futuro: è il desiderio che orienta la memoria. - Il futuro viene dal passato: è l'esperienza che orienta il futuro.- Il presente viene dal passato: io sono «questo qui» perché ho un background. - Il presente viene dal futuro: se sono qui, è perché la vita che vivo mi supera ogni istante, risucchiata (o «chiamata» o «vocata») dal futuro.La seconda questione: dal pensiero del principio nascono due situazioni emotive fondamentali dell’essere al mondo: angoscia e meraviglia.1) Angoscia – Io sono nel mondo. Prima non c'ero, dietro di me c'è il nulla e davanti a me anche. Noi quindi siamo praticamente gettati nel mondo. L’unica salvezza potrebbe essere, come per Camus, la solidarietà. Siamo buttati nel mondo: io non c’ero, ci sono e non ci sarò, vivo un frattempo e cammino su un terreno sfondato, pronto a cadere nell'abisso.2) (Meraviglia) – Dietro di me c’è il nulla e quindi io sono da esso liberato. Ci sono!

Nel 1999: i sensi… attraverso (in ordine):olfattouditovistagustotattoL’espressione «applicazione dei sensi» è di Ignazio di Loyola che nei suoi Esercizi Spirituali vuole che l’esercitante applichi la sensibilità al mistero che contempla. I sensi si applicano al mistero: sembra quasi una contraddizione. Il senso percepisce e il mistero si intuisce. E invece no: per Ignazio di Loyola il mistero si percepisce e ad esso si applica la sensibilità. Cosa significa applicare? Far aderire, impegnare, impiegare,... ma etimologicamente significa «piegare verso». L’uomo si piega verso la realtà (e anche verso il mistero) in un gesto che può avere il significato dell’investigazione calcolante o della prostrazione adorante. Dimmi come usi i sensi e ti dirò chi sei e come stai al mondo. L’uso dei sensi dice lo stile del nostro essere nel mondo. Che cosa significa vedere, sentire, ascoltare, gustare, toccare? Come l’arte nasce e modifica la nostra sensibilità? Durante il 1999 Bombacarta ha fatto esercizi di percezione. I sensi sono diventati luogo e ispirazione di espressione creativa e comunicazione. I sensi sono anche le nostre porte all'esterno di noi, il luogo di mediazione tra noi e il mondo e gli altri...

Nel 1998: leggere e scrivereScrivere – La prima sfida è consistita appunto nel dichiarare in forma libera (lettere, racconti, poesie, canzoni, disegni) e pubblica la propria poetica. «A sette anni, componeva romanzi sulla vita/ del grande deserto, dove splende la Libertà rapita/ foreste, soli, rive, savane!», scriveva il dolce e terribile Arthur Rimbaud. I testi di ciascuno sono stati letti, commentati, limati. Si è compiuto un percorso di testi giovanili saporosi e acerbi come mele verdi, forse, ma assolutamente coinvolgenti e profumati.Leggere – Abbiamo successivamente dedicato vari incontri del nostro laboratorio BombaCarta alla lettura, al dove, come, cosa, quando, se, perché si legge. Abbiamo distinto tre approcci fondamentali al testo:L’approccio estetico nel senso di «sensibile», fisico, quasi feticistico al libro. I lettori di fronte ad un libro cominciano ad assumere atteggiamenti strani: lo portano al naso per odorarne la carta (e può profumare di petrolio o di legno), per toccarne sensualmente le pagine (e tastare se la pelle del libro è rugosa o patinata), per osservarne il volto: la copertina, i colori.

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L’approccio emotivo ben definito da Tondelli: «Dopo due righe il lettore deve essere schiavizzato, incapace di liberarsi dalla pagina; deve trovarsi coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è letteratura» («Colpo d’oppio»).L’approccio interiore, legato alla coscienza, alle emozioni non solo forti ma anche profonde. La parola scende in fondo, lascia tracce profonde, crea echi, muove interiormente. Il libro, per citare Mario Luzi, non è fatto per accogliere parole che siano «disabitate trasparenze», ma parole talmente dense da essere trasparenti per chi le legge: attraverso di esse il lettore può leggere se stesso e trovarvisi dentro, inquilino di quelle parole che egli stesso accoglie nella propria coscienza