I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione · Un tipo di fenomenologia come...

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1 I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione Nella “Premessa” alla Fenomenologia della percezione Merleau- Ponty inaugura il suo scritto affermando che la fenomenologia è lo studio delle essenze, delle cose stesse; studio delle essenze della coscienza e della percezione; filosofia fenomenologica come una filosofia in grado di ricollocare le essenze nell’esistenza e quindi una filosofia all’altezza del gesto husserliano, che alle essenze e alle cose che trascendevano la loro fenomenicità fenomenologica nell’adombramento già si rivolgeva, ma rinunciando a qualsiasi pretesa di una filosofia come scienza rigorosa e per certi versi paradossale; si tratta di capire l’uomo e il mondo a partire dall’evenemenziale, o meglio dalla effettività, e a partire da una intenzionalità non più propriamente intesa come noetico-noematica e quindi intersoggettiva – , avanzare verso una nuova intenzionalità dalla caratura corporea, restituita soprattutto nell’ iper-dialettica – e non in una cattiva e oppositiva dialettica di “figura-sfondo” (che oltrepassa senza residui l’intercorporeità dell’ultimo Husserl giungendo all’ambiguità, al chiasma della percezione).

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I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione

Nella “Premessa” alla Fenomenologia della percezione Merleau-

Ponty inaugura il suo scritto affermando che la fenomenologia è lo

studio delle essenze, delle cose stesse; studio delle essenze della

coscienza e della percezione; filosofia fenomenologica come una

filosofia in grado di ricollocare le essenze nell’esistenza e quindi una

filosofia all’altezza del gesto husserliano, che alle essenze e alle cose

che trascendevano la loro fenomenicità fenomenologica

nell’adombramento già si rivolgeva, ma rinunciando a qualsiasi

pretesa di una filosofia come scienza rigorosa e per certi versi

paradossale; si tratta di capire l’uomo e il mondo a partire

dall’evenemenziale, o meglio dalla effettività, e a partire da una

intenzionalità non più propriamente intesa come noetico-noematica –

e quindi intersoggettiva – , avanzare verso una nuova intenzionalità

dalla caratura corporea, restituita soprattutto nell’ iper-dialettica – e

non in una cattiva e oppositiva dialettica – di “figura-sfondo” (che

oltrepassa senza residui l’intercorporeità dell’ultimo Husserl

giungendo all’ambiguità, al chiasma della percezione).

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Un tipo di fenomenologia come fenomenologia della percezione,

scrive Merleau-Ponty, è una filosofia in grado di essere una riflessione

concretamente radicale e in grado di inaugurarsi perpetuamente in una

epochè degli atteggiamenti naturali e astrattamente al quadrato delle

scienze e in una ulteriore epochè di tipo eidetico, riscoprendo il

mondo che precede ogni riflessione e cercando di offrire uno statuto

filosofico nel resoconto di un mondo sempre vissuto e di un

riconquistato contatto con le cose stesse. La fenomenologia è una

descrizione diretta – bisogna rammentare poi come nella prima parte

de Il visibile e l’invisibile sarà indiretta – della esperienza,

indipendentemente dalle impostazioni delle scienze naturali e umane.

Una descrizione diretta in grado di scioglierci da quelle contraddizioni

che Husserl presentava con se stesso – e attraverso i quali inciamperà

più volte su se stesso e di cui gli esiti heideggeriani non sono altro che

esplicitazioni a potenza – una teoria non astratta ma concreta della

percezione. Scoprire, dunque, la fenomenologia come uno stile e come

un particolare movimento dell’esperienza medesima, che non deve

essere costruito, realizzato, spiegato o analizzato ma riconosciuto e

descritto nell’intreccio dei temi fenomenologici: questo è l’opera che

si prefigge Merleau-Ponty. Secondo Merleau-Ponty bisogna muovere

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dall’impegno descrittivo della prima fenomenologia husserliana per

ritornare alle cose stesse. Questo ritorno alle cose stesse può essere

inaugurato solo a partire da una messa tra parentesi, una messa fuori

circuito, una riduzione trascendentale dell’atteggiamento naturale e

naturalmente a potenza della scienza esatta che riducono l’esperienza

a un comportamento, come totalità di meccanismi fisiologici, e ad

attività elettro-chimicamente cerebrospinali e il mio corpo a duale

individualità di una pura coscienza e di un puro oggetto,

determinazioni possibili a partire da incroci di catene causali o come

reale esterno intellettualmente restituito da uno sguardo disinteressato,

da uno sguardo senza pupilla. L’esperienza scientifica è una

esperienza definita come “l’espressione seconda” di una esperienza

sempre vissuta, l’esperienza di un mondo di senso d’essere percepito

ma in contemporanea occultato da una sua spiegazione e

determinazione.

Io non sono il riportato di una proiezione oggettiva caratterizzata

dalla portata sociologica, psicologica, biologica e di tutte quelle

stratificazioni e atteggiamenti scientifici (espressioni seconde) ma più

originariamente “la fonte assoluta” che sostiene e sussume queste

ultime e le eclissa o le rinsalda a partire dall’attraversamento ad opera

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del mio sguardo effettivo di un corpo impegnato. La mia effettiva

“visione” è sempre la mia esperienza del mondo, un punto di vista

incarnato, una esperienza e una visione sempre nascoste dalle

scenografie dell’atteggiamento scientifico e di quella conoscenza che

non può parlare di altro che di se stessa; ma questa conoscenza, che ci

riduce a “manichini mossi da molle”, è nutrita da un’altra veduta,

quella della coscienza, di cui la declinazione criticisticamente pura e

la scienza medesima è una mera astrazione e una traccia;

diversamente, il mondo della percezione è quel mondo che si

sventaglia intorno a me e diviene sensato per me; lo stile della

fenomenologia e il movimento di questa ultima verso le cose stesse,

ovvero verso quei paesaggi in relazione ai quali ogni geografia è

espressione ulteriore, non è però un ritorno all’idealismo della

coscienza kantiana o un indietreggiamento all’autocoscienza

hegeliana e quindi un ritorno a una analisi riflessiva o a una

spiegazione scientifico-matematica. L’andare alle cose stesse è per

Merleau-Ponty un risalire alla sorgente, un risalire l’originarietà

dell’ambiguo, sospendendo l’abbaglio cartesiano e della rivoluzione

copernicana di Kant, che definiva la sintesi universale del pensiero e

della rappresentazione intellettuale dello stesso, una condizione di

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possibilità autonoma dell’esistenza di un mondo. In altre parole le

astrazioni e i segni della “miope visione” della scienza e della filosofia

della coscienza costruisce un mondo invece di viverlo e di muovere a

esso e in esso.

Secondo Merleau-Ponty, Husserl sindaca proprio su questo nei

confronti di Kant e mette tra parentesi la sintesi e la sua attività

universale del Soggetto, sostituisce all’analisi noetica, «la sua

riflessione noematica» che prende atto della promiscuità e degli

involgimenti delle relazioni tra le cose stesse, anziché pensare di

costituirla e di costruirla e quindi generarla. La spiegazione scientifica

come del resto l’analisi riflessiva, secondo Merleau-Ponty, rendono la

percezione introvabile e riducono il mondo, i corpi e le cose a meri

oggetti di tematizzazione e di de-finizione. Ridurre la percezione a

sintesi predicative o a sintesi intellettive di sensazioni vuol dire per

Merleau-Ponty ridurre la percezione a astrazioni, dunque a dei

cammini a ritroso di una «costituzione preliminare» verso un «uomo

interiore» e una “antropologia psicologica del profondo” e quindi

all’identità e “coincidenza” della costituzione con se stessa. Fino a

quando si persevererà nella visione che ignora se stessa e il suo punto

cieco e il mondo nel quale è sempre presa e catturata, secondo

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Merleau-Ponty non recupereremo mai l’effettività dell’esperienza e

l’andare alle cose stesse. La riflessione ignora il proprio evento ma

deve riconoscere che esso è solo una operazione al di là della quale vi

è un mondo irriflesso e irriducibile. Il reale «è da descrivere, e non da

costruire o costituire», ed è per questo che esso non può essere ridotta

all’ordine dei giudizi che le regionalità disciplinari, gli ambiti

scientifico-disciplinari della riflessione e della spiegazione

restituiscono, ma è «campo percettivo», il polposo campo dal quale

sono segregati e dal quale irrompono tutti gli atti, tutte le mie

percezioni. La verità, la realtà non abita le profondità di un

agostiniano uomo interiore, a dire di Merleau-Ponty, perché

considerare una tale possibilità non è che un chimerizzare della pura

coscienza, una fantasticheria che maschera e deruba l’essere-nel-

mondo e l’essere-al-mondo dell’uomo di un aperto campo di

esperienza.

È per questo motivo che Merleau-Ponty in questa premessa

recupera o cerca di recuperare il vero senso della “celebre riduzione

fenomenologica” husserliana, che secondo il filosofo francese è il

grande e immenso lavoro sul quale Husserl ritornerà più volte lungo

tutta la sua opera. La riduzione trascendentale è restituita dallo

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Husserl delle Meditazioni e della Krisis come il ritorno trascendentale

di fronte al quale il mondo, direbbe ad esempio Barbaras, “si dispiega

in una trasparenza assoluta, da parte a parte animato da una serie di

appercezioni che il filosofo avrebbe il compito di ricostruire a partire

dal loro risultato”. Il fenomenologo, secondo Husserl, deve prendere

atto del binario e sinusoidale movimento verso l’essere e verso la

soggettività, quindi, prendere atto di quel movimento che lo stesso

Husserl descrive nella Krisis come «l’apriori universale della

correlazione».

Secondo Barbaras l’epochè fenomenologica, la riduzione

trascendentale, la messa entro parentesi è una inibizione, una

sospensione ontologica senza eliminazione di una tesi di esistenza

particolare del mondo, che riduca l’essere a fisica e oggetto fisico, a

un In-sé restituito sinteticamente, colto e predicato da un Per-sé

interiore e opposto al primo, lasciando essere solo il suo fenomeno. Il

fenomeno è ciò che non veniva percepito dalla tesi naturale del mondo

ma tuttavia resisteva alla sua riduzione. La messa tra parentesi

dell’ipnotica proiezione dell’uomo interiore, della coscienza pura,

rischiara la fenomenicità fenomenologica della coscienza concreta

come senso d’essere di quest’ ultima e l’intenzionalità come continua

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donazione di senso, come continuo trasalimento di senso alla

coscienza intersoggettivamente trascendentale. L’apertura al mondo

non è uno spettacolo immanente alla coscienza o trascendente

nell’immanenza dell’autocoscienza ma è trascendente e irriducibile a

quest’ ultima. La donazione del senso d’essere come Lebenswelt non

riposa su una rappresentazione universale e necessaria del mondo ma

su un essere per una coscienza, una coscienza che è coscienza in

quanto continuamente rapportata a qualcosa, intenzionata, e quindi

aperta e impegnata a ciò che la trascende e che rimane

“trascendentalmente” Altro e altro. L’intenzionalità è l’essenza stessa

della coscienza, è continua coscienza di qualcosa, è continua

donazione – e non costituzione – di senso.

Il trascendersi della coscienza verso il mondo e la trascendenza

come mondo, la fenomenicità fenomenologica dell’apertura della

coscienza a un mondo è l’intenzionalità. La coscienza non è però

privilegiata polarità opposta a un oggetto ma un movimento stesso

della percezione e un involgimento simultaneo nella ambiguità che è

la corporeità della esperienza; il mondo è appresentato

intenzionalmente e intercorporeamente e in questo senso con-fuso, co-

implicato ma non puramente incluso e esaurito a coscienza.

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Nella percezione, secondo Merleau-Ponty, una soggettività si apre

al mondo senza ridurre questa trascendenza del mondo, degli altri e

delle cose stesse. Una filosofia come “scienza rigorosa e per certi versi

paradossale” è in grado di mettere fuori circuito il mondo

naturalmente supposto esistente per poi ritrovarlo nella sua stessa

trascendenza, al di là del realismo ingenuo e della sua fede percettiva,

come psichicità; questa psichicità molto particolare, al di là quindi

della psicologia empirica e critico-associazionistica o brentaniana,

della psichicità come vissuti intenziona sempre qualcosa. La riduzione

ci libera dal mondo rappresentato e consegnatoci dall’analisi e dalla

spiegazione riflessiva e ingenua del mondo e al contempo libera la

“generosità” della vita trascendentale. Il fenomeno trascendentale

stesso non è messa in scacco dell’esistenza di più soggetti incarnati e

della comunicazione di queste tra queste ma transitività simultanea tra

coscienza e altri, tramata di un fitto intreccio di relazioni

pesantemente corporee. Merleau-Ponty sostiene, ad un certo punto

della Premessa, che:

perché l’altro non sia una parola vana, occorre che la mia esistenza non si

riduca alla coscienza che io ho di esistere, ma che involga anche la coscienza

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che si può avere e dunque la mia incarnazione in una natura e la possibilità di una situazione tipica

(Merleau-Ponty, 2005, p. 21).

Solo nel momento in cui ci riveliamo sempre in situazione, solo nel

momento in cui l’ego trascendentale ci scopre non più come assoluti

Per-sé, coscienze come oggetti tra oggetti, psico-soma o grumi di

relazioni di causalità agglutinate, possiamo recuperarci come aperture

a un mondo inalienabile e inesauribile al suo pensiero e all’insieme

dei suoi significati; ergo solo quando rinnoviamo l’epochè, esso potrà

essere “nuovamente” intersoggettività, intercorporeità, intenzionalità

fungente, una trascendentale sfera d’essere come Lebenswelt, sul cui

sfondo e dal cui sfondo i corpi ex-sistono nel tessuto dei fenomeni.

L’epochè riscopre il mondo in me come «l’orizzonte permanente di

tutte le mie cogitationes» (Merleau-Ponty, 2005, p. 22) in relazione al

quale io non termino mai di situarmi. La soggettività trascendentale

husserliana non è però l’Io penso kantiano, in quanto essa non fa il

mondo immanente alla e nella coscienza, ma essa è sempre una

progettualità volta verso il mondo. Tutti i fraintendimenti o i nodi

problematici che Husserl riporta con se stesso e con i “dissidenti

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esistenziali” (vedi Heidegger) sono per Merleau-Ponty le dirette

conseguenze della convinzione husserliana della necessità di

mantenere l’interrogazione sulla possibilità stessa della riduzione. È

un fatto consolidato e che si impone da sé quello secondo cui l’andare

alle cose stesse non può mai essere completo e che a questo titolo

corrisponda, in prima istanza, a un rapporto di familiarità col mondo

che non può essere continuamente mantenuto. Confermando,

Merleau-Ponty ha scritto che: «Il più grande insegnamento della

riduzione è l’impossibilità di una riduzione completa» (Merleau-

Ponty, 2005, p. 23); ma cosa significa questo per Merleau-Ponty?

Vuol dire che la riflessione, quella che sarà poi la super-riflessione

fenomenologica è l’espressione, husserlianamente parlando, nel

medesimo flusso temporale che la riduzione cerca di riagganciare. La

riflessione radicale riconosce il debito nei confronti di uno sfondo

irriflesso della vita percettiva e di un cominciamento sempre

rinnovato. La filosofia fenomenologica non può ab-solutamente

abbracciarsi in se stessa e completamente, in quanto questa

incompletezza è una incompletezza radicale, radicata nella

intenzionalità stessa e nel movimento simultaneo della percezione di

cui l’intenzionalità è una vettorialità concreta, singolare e incompleta.

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In altre parole la percezione, il “campo” dei campi percettivi non è

per Merleau-Ponty un altro modo di dire semplicemente

intenzionalità; infatti per l’Husserl delle Idee, secondo Barbaras «la

percezione è (…) una specie particolare di intuizione, si tratta di una

intuizione donatrice originaria» (Barbaras, 2002, p. 73), cioè una

presentazione (intuizione) “in carne e ossa” dell’ “oggetto

individuale”, l’atto primordinale e “fondamentale” che restituisce

l’essere. Essa secondo Husserl differisce, ad esempio, dalla intuizione

presentificatrice come quella immaginativa e mnestica e dagli atti

signitivi o significativi, dove l’oggetto è intenzionato attraverso un

media segnico – e tra questi i linguistici sono quelli che

presentificano senza figurazione dell’oggetto individuale,

costituiscono una intuizione a vuoto servendosi di categorie – .

Il termine percezione, in altre parole, in Husserl è come se

estensivamente raccogliesse l’intuizione in senso “strettamente

sensibile” o originaria, e quella categoriale che come una “realtà

ideale” pone una “realtà individuale”; dunque «le intenzioni rinviano

(…) insomma a una percezione che è come il sostrato della vita

intenzionale» (Barbaras, 2002, p. 74) di cui un corpo è «differenza

ontologica cardinale».

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Merleau-Ponty sottolineando un chiaro richiamo all’Husserl della V

Meditazione, chiarisce che il Leib, il corpo organico, il sostrato

primordinale dell’intenzionalità è l’originarietà stessa, l’appartentività

appaiatamente trascendentale e intersoggettivamente determinata – la

quale a sua volta radica l’intersoggettività e l’esperienza reale ed

effettiva nella corporeità e nel punto “finale, costante, iniziale”

dell’epochè fenomenologica – . L’epochè rinnova e ritaglia, per

Merleau-Ponty sulla scia di Husserl, lo sfondo del mondo-della-vita,

che nutre ogni vissuto riflessivo del mondo. Parafrasando Husserl,

Merleau-Ponty scrive nella Premessa che «ogni riduzione (…) oltre

che trascendentale è necessariamente eidetica»; dunque ogni riduzione

non può avvenire senza che vi sia un attuale impegno da parte dei

soggetti concreti, quali noi siamo. La percezione è sempre la mia

percezione e in quanto sempre impegnati al mondo non possiamo mai

scollarci da noi stessi e sorvolarci e quindi convertirci da Dasein a

“spettatori disinteressati” o “uomini interiori”; per questo a dire di

Merleau-Ponty, l’auto-comprensione e la riconquista di se stessi nella

pur sempre fluente, contingente e fatta effettività – alla quale i corpi

sono impegnati – nella e della percezione, ci è donata per il tramite

delle essenze, ovvero non di quegli In-sé e Per-sé come oggetti, ma

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per il tramite di un campo di idealità, quei che i quali proprio in

quanto ciò che si dà come differenza e eccedente in relazione al

vissuto, non riposano su se stessi. Le essenze “nutano”, sfasano la

percezione rispetto alla “coincidenza con se stessa”, in quanto pur

sempre vissuta. A tale proposito Merleau-Ponty cita l’Husserl delle

Meditazioni e afferma che: «è l’esperienza… ancora muta che ora per

la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo senso

proprio» (Merleau-Ponty, 2005, p. 24) e quindi a quella espressione, a

quella singolarità di senso che riconduce con sé «tutti i rapporti

viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e

le alghe palpitanti» (Merleau-Ponty, 2005, p. 24); ma come, appunto,

si danno le cose e non i meri oggetti completi, puri e immediatamente

consegnati, nella differenziazione dei vissuti stessi rispetto a se stessi?

Per l’Husserl delle Meditazioni – come del resto per il Merleau-

Ponty della Fenomenologia della percezione – le cose stesse si danno

per adombramenti. Qualsiasi atto intenzionale (in senso riflessivo) o

percettivo (in senso originario), dalle essenze come “intuizioni

silenziose” alle essenze come parole o intuizioni presentificazioniste

che ex-sistono – e cioè che vengono espresse a partire da un suolo di

vita ante-predicativa che le nutre – non sono mai le cose stesse, non

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sono mai un possesso totale della cosa. L’andare alle cose stesse,

l’epochè trascendentale – che è già sin dall’inizio eidetica – non è mai

completa; le essenze sono sempre cose adombrate, trascendentalmente

trascendenti a esse stesse; infatti come afferma anche Barbaras nel suo

Saggio sul sensibile:

ammesso che una cosa (un “qualche cosa”) sia proprio una realtà trascendente, cioè distinta dai miei vissuti, essa non sarà presente come cosa che a condizione di non esserlo interamente, di differire una donazione adeguata, di resistere all’appropriazione

(Barbaras, 2002, p. 75).

Le cose stesse, in quanto essenze, nella riduzione non vengono mai

avvicinate completamente ma esse sono sempre prossime, si danno

sempre come adombramenti, abbozzi di cose, sia perché la mia

percezione, la mia corporeità rimane sempre un punto di vista

incarnato, sia perché la percezione ad un certo punto differisce se

stessa e quindi il vissuto medesimo eccede il suo esser-vissuto – il

quale non è mai possesso di sé – .

Questo è il mistero e l’enigma della percezione, una continua,

simultanea e ambigua differenza, eccedenza e non-differenza rispetto

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a se stessa, uno sfasamento, un differimento e non-differimento nel

suo stesso cuore. Ogni cosa è sempre adombrata e mai posseduta.

Ogni cosa è sempre donata di vissuto in vissuto e il passato non è mai

lo stesso, ma come un passato gravido di futuro ritorna in un “mai il

medesimo”. La cosa non è mai una rappresentazione riflessivamente

abbracciata e completamente priva di residui ma sempre donata mai

completamente; essa rimane sempre mancata e a questo titolo non

appare mai pienamente. L’adombramento è la presentazione di un che

di altro dalla sua presenza e in quanto tale la cosa stessa si trascende

sempre. La presentazione di una cosa è sempre la sua non-presenza

compiuta, in quanto pur sempre in un aspetto di sé donata, in quanto

sempre adombrata; ergo la cosa adombrata è sempre mancata, è

continuamente non posseduta e baluginantesi in una apparenza

parziale. La cosa non è mai puro oggetto. L’andare alle cose stesse

essendo sempre interrotto, “chiasmicamente” mai completo in questa

effettività non è però il risultato di una deficienza del “calcolo e della

misura” ma il “battimento” della esperienza percettiva stessa.

Merleau-Ponty, citando l’Husserl delle Meditazioni, in opposizione

ai dogmatismi e agli scetticismi scrive che: «non dobbiamo dunque

chiederci se percepiamo veramente un mondo, dobbiamo invece dire:

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il mondo è ciò che percepiamo» (Merleau-Ponty, 2005, p. 25), il

mondo è ciò a cui siamo sempre dischiusi. Noi siamo esseri-al-mondo

e esseri-nel-mondo e, in quanto tali, intercorporeità involte e co-

implicate. Se dunque noi siamo “nella verità e l’evidenza è

l’esperienza della verità”, per Merleau-Ponty è ingenuo interrogarsi su

una verità platonicamente ideale ma la verità è l’esperienza stessa,

l’essere assegnati a un mondo di Altro, di altri e di cose inalienabili.

L’esperienza deve essere incessantemente interrogata non per il

ritrovamento di una sua legge di tipo fisico-chimica o per la

teorizzazione di una sua forza metafisica che la sostiene da tergo –

contemplabile solo da un pensiero obiettivante e riflessivo – ma per

rintracciare la sua “formula” in relazione con l’altro, con la Natura,

col Tempo, con la progettualità e con il fare umano; per questo la

fenomenologia non è intellezione – classicamente intesa – ma una

nozione di “intenzionalità allargata” che cerca di comprendere la

“genesi” che avviene tutti i giorni, e quella “struttura dell’essere”

implicita in ogni sua relazione. Merleau-Ponty ci conferma che ogni

veduta è vera a condizione che non la si edulcori, non la si

metafisicizzi, non la si esprima isolandola dalla sua complessità e dal

suo intreccio, dal suo tessuto di relazioni portatrici, per ogni

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prospettiva incarnata, di un nucleo di “significato esistenziale”;

quindi:

è vero come dice Marx, che la storia non cammina sulla testa, ma e altresì vero che non pensa con i piedi. O meglio, non dobbiamo occuparci né della sua «testa» né dei suoi «piedi», bensì del suo corpo

(Merleau-Ponty, 2005, p. 28).

Ogni discorso intorno al mondo è essenzialmente un punto di vista

radicato all’interno di una determinata struttura di esistenza e situata

nella complessità di un tessuto di fenomeni, di un intreccio di una

genesi del senso, Sinngenesis, rinnovata sempre in adombramenti, in

presentazioni fenomeniche e mai in “presenze intellettuali” o esatte.

Noi, come dice Merleau-Ponty, siamo condannati al senso e non può

essere fatto o detto nulla che non assuma un “nome nella storia”, che

non sia determinato e figlio del suo Tempo, della sua effettività

intercorporeamente tramata, la quale non è né Spirito assoluto né

l’esatto mondo della scienza ma il farsi dell’esperienza e della verità

come percezione; infatti:

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in ogni istante assistiamo al prodigio della connessione delle esperienze, e nessuno sa meglio di noi come esso avviene, giacche noi siamo questo nodo di relazioni

(Merleau-Ponty, 2005, p. 30).

Il sorvolo di un soggetto ab-solutus, di una coscienza pura e lo

sguardo di uno spettatore disinteressato o il mito dell’oggetto di una

tematizzazione possibile, come abbiamo detto sopra, sono mere

chimere. Il mondo e la sua razionalità sono l’enigma e il mistero

dell’esperienza che una filosofia fenomenologica della percezione

interroga secondo un movimento mai completo e risoluto. Il gesto del

fenomenologo è un fare educativo che tenta di re-imparare a vedere e

di ri-educarci a vedere il mondo in virtù di una riflessione e di una

decisione o di una progettualità militante che agisce nella nostra

esistenza.

È per tutti questi motivi che la fenomenologia trascendentale, come

recupero del contatto originario con le cose, sconfessa «l’astrattezza

del sapere riflessivo e l’illusione della semplice fede percettiva,

tentando un contatto con l’essere tramite un pensiero che non sorvoli

ma che si inserisca» (Delogu, 1980, p. 91) nella percezione.

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Sulla scia della interrogazione del cogito husserliano,

l’interrogazione non di un Soggetto puro o di una coscienza

solipsistica ma cogito come “essere-al-mondo”, e quindi come

corporeità, Leib, rilievo sullo sfondo della Lebenswelt, trascendente a

se stesso e squadernato a un mondo e all’essere, è per Merleau-Ponty

“un dialogo o una meditazione infinita”, una filosofia sempre mancata

ma mai vacua.

La fenomenologia prima di essere filosofia è già sempre un

movimento della percezione e per questo motivo mai un pensiero di

mondo o una ulteriore teoresi sulla percezione stessa ma un andare e

ritrarsi alle e dalle cose stesse, un risalire l’origine del senso nel suo

stato nascente. Questa filosofia che interroga “l’intersoggettività come

compartecipazione intenzionale” tende a farci ritrovare la vita

originaria della percezione e la sua dimensione come una struttura alla

quale ci deve condurre la riduzione fenomenologica. Questo ultimo è

però costantemente un «risultato da riconquistare contro ogni fatale, e

talvolta utile e necessaria astrazione e schematizzazione» ( Paci, a

cura di Invitto 1982, p. 152).

In altre parole la fenomenologia interroga, come direbbe Carbone,

la “storicità primordiale”, l’irruzione e il trasalimento dell’ordine del

Page 21: I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione · Un tipo di fenomenologia come fenomenologia della percezione, scrive Merleau-Ponty, è una filosofia in grado di essere

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senso e della Kultur. Il «corpo è il «perno» della Lebenswelt»

(Carbone, a cura di Invitto, 1982, p. 93) e a questo titolo un

interrogante sempre in debito.