I Siracusani - n°68

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1 i Siracusani Copia Demo

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Trimestrale di Storia, arte e tradizioni del territorio siracusano

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1 i Siracusani

Copia

Demo

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sommario

8RICORRENZE

17EVENTO

Buon compleanno mia bandiera 3Corrado Di Pietro

La Sicilia di domani 6Corrado Piccione

I diritti degli esclusi - Avvocato di strada 7Corrado Giuliano

Riflessi Archimedei

Tra mito e scienza 8Giancarlo Germanà

Macchine del III secolo a.C. 9Enza Giuffrida

Viaggio nel caveau del Paolo Orsi 10Angela Maria Manenti

La ceramica in Sicilia 12Paolo Giansiracusa - Salvatore Di Stefano

Il capolavoro incompreso 15Jean-Luc Roux

Salvo Li Puma e la sua camera delle meraviglie 16Eleonora Romano

Giorgio La Pira - Le radici cristiane dello Stato 18Konfindustria Albania 21Lorella Pallavicino

La fine dell'ebraismo a Siracusa 22Carlo Augusto Monteforte

I nostri gabbiani 27Salvatore Baglieri

Buccheri - La Grangia e la Chiesa di Sant'Andrea 31Laura Cassataro

Stentinello - Pietre e villaggi del Neolitico 35Carmelo Tuccitto

Civiltà di Stentinello 36Silvia Caruso

Nascita e peripezie dell'Annunciazione di Antonello 38Luigi Lombardo

libroSPAZIO 77

Pasqua nella tradizione iblea 42Giuseppe Mazzarella - Maria Mazzarella

Viaggio in provincia: Rosolini 45Rosetta Savelli

Antichi inni in onore di Santa Lucia 47Mons. Pasquale Magnano

Come nasceva un codice 49Concetta Genovese

Gli scatti di... Vito D'Ambrosio 50Cronache di guerra da Melilli 52Paolo Magnano

La festa della musica 55I pupi di Gianfranco Salonia 56Corrado Di Pietro

L'impegno rinnovatore di Carlo Maria Martini 58Maria Nivea Zagarella

Lotte sociali e sindacali nella Sicilia del dopoguerra 60Roberto Bruno

Le ragioni dell'Arte contemporanea 63Nino Portoghese

Teatro e Mafia 65Luisa Guerrini

Ferruccio Ferri - Un pittore toscano a Siracusa 66Aldo Formosa

Essere Lions oggi a Siracusa 67Eleonora Romano

Le Baccanti - Il cielo vuoto di Euripide 69Mario Blancato

La ribellione di Prometeo 74Mario Blancato

e la sua camera delle meraviglieSalvo Li Puma

8RICORRENZE

22STORIA

La fine dell'ebraismo a Siracusa

8RICORRENZE

69CULTURA

Le BaccantiIl cielo vuoto di Euripide

i SiracusaniAnno XVI Gennaio - Marzo 2012

n. 68

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© È vietata la riproduzione parziale o totale di testi e foto. L’editore si dichiara disponibile a regolare le eventuali spettanze per le immagini e i testi di cui non è stato possibile reperire la fonte.

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Coordinamento Nora Romano

Capo redattoreCorrado Di Pietro

RedattoriSilvia CarusoGiancarlo GermanàGiovanna Megna

Redazione TorinoGiovanni Firera

Redazione RomaMaura Morrone

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Hanno collaborato:Salvatore Baglieri, Diego Barucco, Mario Blancato, Roberto Bruno, Laura Cassataro, Salvatore Di Stefano, Aldo Formosa, Concetta Genovese, Paolo Giansiracusa, Enza Giuffrida, Corrado Giuliano, Luisa Guerrini, Luigi Lombardo, Mons. Pasquale Magnano, Paolo Magnano, Angela Maria Manenti, Giuseppe Mazzarella, Maria Mazzarella, Cettina Messina, Carlo Augusto Monteforte, Lorella Pallavicino, Corrado Piccione, Jean-Luc Roux, Rosetta Savelli, Maria Nivea Zagarella.

In copertinaOrtigia, la Graziella. Ph Vito D'Ambrosio

Giuseppe Aloisio

La crisi non può bloccare la culturaSe la crisi strisciante fa arretrare ogni attività sociale, la sete di cultura e di dialogo che da sempre ha contraddistinto "I Siracusani" ci spinge ad operare in controtendenza. Noi andiamo avanti.Siamo noi stessi a volerlo, sono i nostri lettori a spingerci a questo atto di coraggio, a questa iniezione di fiducia nella parte viva della tradi-zione, della lingua, della storia, della cultura in generale, nella nostra rivista che nel panorama siracusano rappresenta ancora una parte più che valida dell'informazione culturale.Noi abbiamo operato la parte più difficile: abbiamo portato davanti ai vostri occhi questo primo numero del 2012 cercando di incuriosirvi, di entusiasmarvi e di catturare il vostro interesse per gustare, come un tempo, il fascino di uno scritto letterario, di una descrizione avvincen-te, di una storia poco nota, di un commento che può appagare il vostro animo. Facendovi immergere nella magia della parola scritta.Il resto è compito vostro: se "I Siracusani" vi piaceranno, sostenete "I Siracusani", sicuramente sarà il prodotto culturale che non vi delu-derà mai! Grazie.

Si ricominciaSi ricomincia, anche se, in realtà, non ci siamo mai fermati. La redazione ha continuato a lavorare e a studiare nuove e opportune strategie per-ché la rivista ritornasse nelle vostre case.Non si può far finta di non vedere cosa accade nel mondo e nella nostra Isola; le aziende stanno cadendo come mosche, e se si vuole tentare di vedere un orizzonte più sereno occorre non sprecare energie. "I Siracusani" è stata ed è ancora considerata un fiore all’occhiello della nostra provincia, ma – dice Charlie Brown in una sua celebre strip – “Io ho provato a pagare le tasse con un sorriso… ma quelli vogliono i soldi!”Non volendo pesare con i costi di gestione sui nostri lettori e non volen-do tenere sul filo del rasoio la rivista, abbiamo individuato due vie da percorrere: evitare che la pubblicità sia determinante per la vita della rivista; limitare gli sprechi di carta e adottare un’impronta ecologica, contenendo le emissioni di CO2.Pertanto "I Siracusani" continuerà ad approfondire con articoli, saggi, documenti e immagini le tematiche legate alla cultura e all’identità sici-liana in una veste consolidata nei contenuti, ma sarà diffusa esclusiva-mente in abbonamento.Niente auto in circolazione per la distribuzione, niente caccia allo spon-sor, niente tirature incontrollate e incontrollabili. Si ricomincia con la benedizione del caro amico e collaboratore Carmelo Tuccitto, che ci ha lasciati proprio a rivista chiusa e in fase di stampa. Lui, collaboratore sin dal primo numero (sedici anni fa), mio personale amico e collega nella lunga carriera di insegnanti nella stessa scuola, ormai rassegnato ma sorretto da una fede autentica, nella mia ultima visita era riuscito a sorridere e a congratularsi per il ritorno “della nostra rivista” che ha tanto amato. Mi ha chiesto di salutare i lettori. Lo faccio volentieri e, se me lo permettete vorrei dedicare a lui, anche a nome vostro, questo numero. Arrivederci Carmelo.

Carlo Morrone

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Il percorso espositivo si snoda dalle pri-me zecche delle colonie greche della Sicilia, Naxos e Catania, fino a quelle delle città si-culo-puniche, come Segesta e Mozia, della Sicilia Occidentale. Importanti i ripostigli da varie località della nostra isola: sono gruzzo-letti di denaro, nascosti dai proprietari ma-gari in particolari situazioni difficili (rivolte, guerre, pericoli di vario genere) e rinvenuti dopo molti secoli. Essi contengono spesso gli esemplari più interessanti, i c.d. “fior di co-nio”, monete che non hanno subito l’usura della circolazione e che testimoniano la cir-colazione delle monete nelle poleis greche.

Se infatti, come ben si conosce dalla storia, ogni città ha la sua zecca, ritrovare un “accu-mulo” di monete di varie città, non solo della Sicilia, ma anche della madrepatria greca, per lo più di Atene, è un indizio rilevante a livello storico e politico.

La moneta è il documento “archeologico” più interessante, perché offre tutta una serie di informazioni, non solo a livello di icono-grafia: la raffigurazione principale, che co-stituisce il tipo e la legenda, che in genere riporta il nome della città che l’ha battuta, testimoniano le vicende di secoli, di sovrani e tiranni, di dei e di uomini.

Angela Maria Manenti

Ripostiglio Megara

Kimon frontale

Nell’aprile 2010 il Museo Archeologico Re-gionale Paolo Orsi di Siracusa si è arricchito di un nuovo prezioso settore, il Medagliere, in cui sono esposte monete in oro, argento e bronzo, per lo più del mondo greco.

La collezione numismatica, trasferita dal-la vecchia sede di Piazza Duomo, in cui era stata collocata ed esposta alla fine degli anni ’60, secondo il progetto espositivo curato dal prof. Luigi Bernabò Brea, oggi arricchisce il percorso museale del P. Orsi con adeguati sistemi sia per la climatizzazione e per l’il-luminazione, ma soprattutto per la tutela e la sicurezza di un così prezioso patrimonio.

Il caveau in cui sono esposte le monete si trova nel piano sotterraneo del museo.

Importante novità costituisce l’accesso facilitato per le persone diversamente abi-li, in particolare per gli ipovedenti a favore dei quali sono stati realizzati una guida in braille e alcuni calchi per riconoscere al tatto gli esemplari fondamentali della produzione monetale. Per tutti i visitatori è disponibile, in ogni vetrina, una lente di ingrandimento che permette di comprendere meglio quan-to si “legge” in ogni moneta, soprattutto ne-gli esemplari di piccole dimensioni (oboli e once).

Accumulo del ripostiglio di via Tevere

Viaggio nel caveau del Paolo Orsi

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Filistide

Filistide retro

Nella parte centrale del Medagliere partico-lare rilievo ha la città di Siracusa che batte moneta dal VI secolo alla conquista romana del 212 a.C. Se l’Aretusa circondata da delfini è il “tipo” costante per secoli, è la resa icono-grafica della stessa testa della ninfa a variare, in particolare nelle acconciature, fino ai capo-lavori della fine del V secolo a.C. In questo pe-riodo, infatti, si realizzano i famosi decadram-mi dei c.d. maestri firmanti. Tutti a Siracusa conoscono bene Cimone che firma alcuni conii di straordinaria bellezza, come quello con le lettere ben leggibili sul diadema e il volto reso di prospetto, o Euaineto, il cui nome è inciso nella tabella che la Nike porta con sé volando per incoronare l’auriga. Ma molti sono i mae-stri (Eumenes, Frigillo, Chorion, Eukleidas) che firmano capolavori anche per altre città, come Catania e Camarina.

Interessanti ancora le emissioni siracusane di età ellenistica, in cui i sovrani introducono nuovi tipi per celebrare le loro vittorie nelle campagne militari, come nel caso di Agatocle, a cui si riporta anche la prima rappresentazio-ne della triskeles su una moneta, o per met-tere la città in competizione con l’altra gran-de metropoli ellenistica, Alessandria d’Egitto: ed ecco la rinomata raffigurazione di Filistide, moglie di Gerone II, celebrata come regina nelle monete del tempo, molto simili nell’ico-nografia a quelle dei Tolomei.

Per l’età romana, desta particolare curiosità il ripostiglio di più di mille denari romani re-pubblicani rinvenuto, agli inizi degli anni ’60, in unico blocco conglobato negli scavi di un edificio, nel centro di Siracusa.

Valore aggiunto al Medagliere di Siracusa sono poi le collezioni: quella dei marchesi Ga-gliardi, donata dagli eredi al museo per il rap-porto che li legava a Paolo Orsi, che costitui-sce con la ricca scelta di monete della Magna Grecia un unicum in Sicilia; quella del celebre collezionista siciliano, il barone Pennisi Flori-

stella, che, acquisita dal museo di Siracusa alla fine degli anni ’80, viene esposta ora per la prima volta. Di questa collezione fanno parte alcune monete molto note, come l’uni-co esemplare, finora segnalato in Sicilia, del Demareteion, emesso secondo le fonti dal sovrano Gelone in onore della moglie Dema-rete o come il decadramma di Agrigento o una piccola e particolarmente rara emissio-ne in oro di Messina, che il barone Pennisi acquistò a un’asta ai primi del ‘900.

E che dire ancora dell’abbondanza di mo-nete tardo imperiali, bizantine, arabo-sicu-le, normanne e, sebbene in numero mino-re, di esemplari medievali e moderni, fino a quelli dei Borbone.

Il Medagliere del Museo P. Orsi è aperto dal martedì al sabato dalle 9 alle 13.30, il mercoledì fino alle 17.30 con orario con-tinuato. L'accesso per i resi-denti a Siracusa ha il costo di € 1,00.

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Negli anni Cinquanta il critico d’arte Bernard Beren-son descriveva il Seppellimento di Santa Lucia caravag-gesco con queste parole: “...un bestione che scava la fossa, il suo compare che nel chinarsi fa gran sfoggio di natiche...l'incongruenza di allontanare nello sfondo le fi-gure del dolore, mettendo in grossolana evidenza il fatto materiale, rasenta il cinismo”.

A questa lettura critica si aggiungeva quella di Roberto Longhi, il quale descriveva la tela in questo modo: “... due manigoldi giganteschi che conducono il loro gioco brutale di fronte al terrore dei fedeli...”.Eppure, più di trent'anni prima era stata pubblicata a livello internazionale la lettura critica di Gabriel Rouchès e la riscoperta del capolavoro di Caravaggio portava Matteo Marangoni ad affermare di non capire “come il Caravaggio abbia potuto impiegare più che metà della tela per il fondo, che una volta pare rappresentasse una porta della città”.

Nella sua lettura critica è probabile che Longhi abbia scelto, da accademico, la necessità di una logica interna allo scorrere nel tempo delle vicende pittoriche del Merisi e solo quella necessità di vedere nel Seppellimento sira-cusano un seguito, un prolungamento alla Decapitazione maltese permette di capire l’errore con cui poté parlare di manigoldi dal gioco brutale per i due becchini e di fedeli colpiti da terrore per i sette personaggi che assistono al funerale in uno stato privo di qualsiasi violenza.

Dopo la loro pubblicazione le osservazioni dei critici verranno poi sempre riprese da tutti quelli che dopo di loro si interesseranno al dipinto. Pochi sono stati quelli che, come la Cinotti o Alfred Moir, hanno provato ad an-dare più avanti nella comprensione dell'opera.

A Siracusa lo storico dell’arte Paolo Giansiracusa ebbe la valida intuizione di una trasmutazione fra il corpo cada-verico di una Lucia terrena e quello vivo illuminato di una Santa Lucia rinascente in gloria, la sua tesi non ha trovato molta eco. Il malinteso nasce dal fatto che il Caravag-gio ha imposto una vera e propria messinscena teatrale all'azione con dei figuranti attorno ai tre attori principali disposti su un terzo piano a loro riservato al centro del palcoscenico. Come a teatro chi guarda l'opera deve rife-rirsi al libretto per non trovarsi ingannato dal gioco delle

comparse, così qui il libretto del-la passio luciana non evidenzia qualche personaggio in partico-lare, bensì encomia il mistero del martirio quale riproduzione della Passione di Cristo.

Al centro di tutto si colloca quel momento impercettibile in cui, per la grazia legata al pro-prio sacrificio, Lucia passa dalla condizione umana alla santità. Tutto il resto è decoro, tutto il resto è scenario, tutto il resto è teatro.

Quando si parla di teatralizza-zione si è molto vicini al concet-to di barocco: tutti gli autori ci-tati mai hanno riconosciuto una dimensione barocca all'opera del Merisi. Per il Berenson il barocco comincia con Rubens e poco im-porta l'influenza che il Caravag-gio ebbe sullo stesso Rubens. Nessuno ha colto appieno che quella messinscena geniale che assieme alla sottile complessità del significato fanno del Seppel-limento un capolavoro a parte nella produzione del Caravaggio.

Superato il dogma, dimentica-te le vecchie antifone, chi vorrà approdare oggi al detto capola-voro lo dovrà fare usando i propri occhi e tenendo presente la frase con cui lo stesso Longhi parados-salmente concluse l’introduzione alla mostra del 1951: “Il pubblico cerchi dunque di leggere natural-mente un pittore che ha cercato di essere naturale, comprensibi-le; umano più che umanistico; in una parola, popolare”.

Il capolavoro incompresoJean-Luc Roux

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Non era raro in passato entrare nei con-venti o nelle abbazie e trovare interi

locali adibiti a raccogliere oggetti rari, intro-vabili, frutto di donazioni e spesso argomen-to di studio per molti dotti del tempo.

Chi ha frequentato la mostra di Salvo Li Puma presso l'ex Convento del Ritiro in via Mirabella a Siracusa, dal 14 al 23 febbraio 2012, avrebbe legittimamente potuto pensa-re non solo di essere in una wunderkammer (camera delle meraviglie), per il tipo di allesti-mento scelto dall'artista, ma anche di avere avuto la chance di conoscere personalmente i "dotti" di questo nostro tempo che hanno studiato le opere di Li Puma: gli studenti del

Liceo artistico "M. Carnilivari" di Noto. Questi giovanissimi artisti, sotto la sapien-

te guida delle professoresse Sara De Grandi e Cristina Cataneo e dopo aver sviluppato per alcune opere i dovuti progetti, hanno saputo tradurre dalla carta in scultura quanto pre-so in esame, servendosi anche di materiali di riciclo, ma con il pregio di conferire una tan-gibilità vivace agli occhi del visitatore: egli, infatti, passando dalla wunderkammer lipu-miana alla sala delle sculture degli studenti, non può non essere rimasto affascinato, non può non aver guardato con interesse e sfio-rato con gesto furtivo per rendersi conto del-la pregevolezza della fattura, della sapienza

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Salvo Li Puma ha trasformato le sale dell'ex Convento del Ritiro in una wunderkammer, dove ha disposto le proprie tele, gli studi, i progetti che, insieme ad alcuni volumi di proprietà dell'artista, hanno costituito gli elementi della mostra e magicamente sono stati tradotti da altri in pregiate sculture.

e la sua camera delle meraviglie

Eleonora Romano

Salvo Li Puma

artigianale e soprattutto della vena artistica ampiamente applicata nella realizzazione di ogni singola opera esposta.

Ho trovato questa mostra originale e an-ticonvenzionale per la valenza didattica – un maestro diventa oggetto di studio per un'in-tera classe di studenti – e soprattutto per il valore sociale. L'immagine che si è presen-tata alla mia mente e che ha coagulato e riassunto le impressioni che questa mostra ha suscitato in me é quella della Creazione di Adamo nella Cappella Sistina, il famoso in-dice teso per infondere la vita.

Pur nella consapevolezza che qui nessuno infonde niente, si tratta di un gesto impor-

tante per i nostri giovani artisti esordienti e anche per il maestro che fiducioso li ospita e li accompagna in una sorta di piccolo mira-colo: va da sé che le mostre sono occasione d'incontro, hanno valore culturale, ma non sempre riescono a coniugare in maniera così spontanea e naturale anche l’alto valore so-ciale dell'accoglienza, dell'attenzione verso le giovani generazioni. Posso citarla come una delle poche mostre in cui è stata attuata una best practice (processo virtuoso).

Miracoli di periferia che meriterebbero ri-balte più prestigiose, così come privilegiati dovrebbero considerarsi coloro che l’hanno frequentata.

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Gli scatti di... Vito D'AmbrosioORTIGIA è come quelle nobildonne

alte e solenni, ancora intrise d’una sen-sualità prorompente anche se estenuata, che s’affacciano ai balconi per ossequiare il popolo con la loro bellezza fascinosa. Ha le guance rosee e i capelli sciolti, la veste di seta che le si stringe alla vita in un si-nuoso ritaglio di forme e sulle labbra un sorriso appena accennato, tra il civettuolo e il meravigliato.

Vito d’Ambrosio è venuto dal nord e ha messo casa a Ortigia, come uno dei tanti spasimanti che fanno ruota a que-sta nobildonna, ha preso la sua Canon 5 D MARK2, e quando le scartoffie del suo lavoro si diradano fino a scomparire, s’av-ventura per strade e vicoli del corpo nu-minoso della sua amata. Migliaia di scatti, di scoperte, di tagli, di pose, di ammic-camenti fra l’occhio dell’innamorato foto-grafo e il sembiante della terra impareg-giabile. Un clic è come aprire un cassetto di gioielli, un guardare dentro l’anima. La foto è sempre un racconto legato all’i-stante, all’impressione.

E queste poche foto che vi proponiamo non sono altro che lo svelamento impudi-co della nostra più bella amata: ORTIGIA.

Codipi

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Tutta la vicenda umana dimostra che, il pensiero precorre l’azione.

La filosofia o le varie correnti filosofiche nei secoli hanno determinato i fatti storici, plasmato la sensibilità degli uomini nelle varie epoche e i loro comportamenti: il pensiero precede sempre l’azione.

Esso influenza la cultura, l’arte perché siamo sempre figli della nostra epoca e risentiamo delle idee, anche contrastanti, che circolano nel nostro periodo storico.

Filosofia, storia, estetica, psicologia sono le in-dispensabili discipline che forniscono gli strumenti critici per attuare una seria Critica d’arte, come critica del giudizio estetico.

Fatta questa premessa, si capisce come con l’avvento del novecento, il ruolo dell’artista, so-prattutto dell’artista d’avanguardia, cambi radi-calmente.

Il suo compito non è più quello di abbellire la real-tà ma è quello di smascherare, denunciare e sbef-feggiare con irritante violenza i mali e le ipocrisie della società borghese, industriale e nazionalista.

Nascono in parallelo numerosi gruppi e manifesti all’insegna della rottura e della protesta col passato, della voglia dirompente di nuovo: un termine am-pio e generico li definisce tutti espressionisti, ma in Germania sono “Cavalieri Azzurri” come Kandinski, in Francia “Belve Selvagge” come Matisse. In Italia i Futuristi di Boccioni e Marinetti vorrebbero distrug-gere l’eredità artistica nazionale per fare spazio alla civiltà delle macchine e del movimento.

Pablo Picasso, intanto, mette in atto la sua rivo-luzione: partendo dalla scomposizione geometrica delle forme operata da Cezanne, l’artista spagno-lo smonta la realtà in singole figure solide per poi rimontarle nel quadro a suo totale piacimento: è nato il Cubismo, che avrà seguaci illustri in Braque e Lèger. Dal Cubismo alla poetica dell’astrazione il passo è breve.

Le figure più creative e speculative della prima

Nino Portoghese

metà del Novecento restano avvinte e coinvolte dall’astrattismo.

La nuova regola è: non avere regole.I Dadaisti, come Duchamp, innal-

zano un orinatoio al rango di opera d’arte, i Metafisici come De Chirico e Carrà cercano ispirazione nei mondi immateriali dell’interiorità, i Surrea-listi ricreano le inquietanti realtà del sogno e dell’allucinazione.

Attorno al 1940 l’intera Europa si trova stretta nella morsa delle ditta-ture. In Italia, Germania, Spagna e Unione Sovietica gli sperimentalismi delle avanguardie vengono messi al bando e definiti “Arte degenerata”. In ogni Nazione vi è un generale ritorno all’ordine che risveglia, nei migliori in-terpreti, l’antica tradizione figurativa classica.

Picasso è tra i primi a intuire e a ca-valcare il recupero di questo linguag-

Kandinsky, Cavaliere Azzurro

Le ragioni dell'Arte contemporanea

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13 i Siracusani

gio di forme e volumi.In Italia gli esponenti più in vista sa-

ranno Sironi e Casorati.L’intera Europa si ammanta di edifici

monumentali e razionalisti, certamente simboli delle dittature, ma la cui mo-dernità di linee e qualità estetica è oggi ampiamente rivalutata e riconosciuta.

Una spaventosa guerra mondiale ha dilaniato l’Europa e l’arte del secondo Novecento reca impresse le stigmate di questo trauma. Il riflesso più imme-diato al senso di vuoto e di sfiducia la-sciato dalla catastrofe bellica si coglie nell’arte informale.

L’artista comunica se stesso e i tur-bamenti dell’inconscio con soluzioni espressive nuove, spontanee, forte-mente individuali e lontane dai codici formali tradizionali.

Le combustioni di Burri, i tagli di Fontana, la pittura gestuale di Har-tung, le tele sgocciolate di Pollock non sono che alcuni esempi di questa ade-sione al dettato informale.

Il male di vivere e l’arte come osses-sione trovano in Francis Bacon e Lucia-ne Freud esponenti di tragica grandez-

za. A un certo punto l’artista stesso si mette in gioco, si fa osservare a lavoro nell’Action Pain-ting, inventa happening e performance, usa il suo corpo nella Body Art. Il boom economico cambia, però, la visione del mondo.

Gli artisti sono i primi a cogliere i limiti e le pa-tologie che si annidano dietro l’estasi dei consumi.

Gli oggetti d’uso, i materiali poveri, i rottami e gli scarti vengono assemblati e fantasiosamente rein-ventati fino ad assumere la dignità di soggetti artistici.

Andy Wharol è l’artista simbolo della Pop Art e il divismo da lui abilmente coltivato lo trasforma in un’opera d’arte vivente. L’esuberanza visiva della Pop Art suscita, però, reazioni opposte.

Sorge l’esigenza di recuperare un linguaggio essenziale, minimalista e il minimalismo diventa una corrente importante. Ora ciò che importa è il concetto: l’arte come idea e l’arte come azione etica sono gli approcci più innovativi. Negli ultimi decenni, i linguaggi dell’arte si moltiplicano.

Nascono la Land Art, il graffitismo, l’arte povera di Michelangelo Pistoletto, la Video Arte di Bill Viola.

L’interesse per l’arte contemporanea, veicolo sempre più incisivo di messaggi di etica, di multi-culturalismo, di difesa dei valori dell’ambiente, si allarga a fasce più ampie di persone che affollano mostre, fiere e i nuovi grandi templi della cultura artistica come la Tate Modern di Londra.

Henri Matisse, La Camera RossaBody Art

Gli oggetti d’uso, i materiali poveri, i rottami e gli scarti vengono assemblati e fantasiosamente reinventati fino ad assumere la dignità di soggetti artistici.

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Andrea Bisicchia, utilizzando una metodologia di carattere combinatorio, accompagnata da una biblio-grafia che alterna studi di storiografia teatrale con altri di storiografia del fenomeno mafioso e utilizzando una molteplicità di testi che hanno affrontato, drammatur-gicamente, il tema della mafia, anche alla luce delle loro messinscene, traccia un lungo itinerario che dal 1861, anno di composizione de “I Mafiusi di la Vica-ria”, arriva al 2011. Protagonisti sono gli autori di te-atro che, con i loro personaggi, ciascuno a suo modo, hanno cercato di ricostruire le correlazioni esistenti tra malavita organizzata, potere mafioso e potere politico.

Ne è scaturito uno studio complesso che si avva-le della forza esemplicativa del teatro, e che riesce a dare un’idea complessiva della nascita, dello svi-luppo, delle dimensioni, delle strutture organizzative, delle metastasi che stanno dietro le organizzazioni mafiose, attraverso i loro aspetti materiali e imma-teriali. Più del genere narrativo, il teatro è riuscito, in questo modo, a scrutare il fenomeno con la poten-za del suo linguaggio, delle sue metafore sceniche e, spesso, della sua poesia, offrendo uno scenario ca-pace di coinvolgere il lettore che, messo a contatto con la struttura teatrale, scoprirà di trovarsi dinanzi ad un supporto chiarificatore della struttura mafio-sa, delle sue ramificazioni oltre che dei suoi martiri.

Con questo lavoro, l’autore, grazie alle sue compe-tenze, facendo ricorso alla rappresentazione teatra-le, alle sue elaborazioni sceniche, offre una cornice particolare, dentro la quale, la mafia viene indaga-ta con una specie di bisturi più raffinato, grazie alla forza comunicativa della messinscena la sola, forse, che permette di ricostruire meglio le dimensioni, le strategie, le devianze, le complessità, i mutamenti, gli intrecci di potere di Cosa Nostra, sempre alla ricer-ca di relazioni con il mondo dell’imprenditoria e della politica. Un libro che diventa l’ideale palcoscenico su cui sono passati tutti i protagonisti di questa storia, con le loro trame avvincenti, che, spesso, rimanda-no a certi personaggi delle tragedie shakespeariane.

Luisa Guerrini

Da tempo, Andrea Bisicchia utilizza categorie particolari per tracciare la storia del teatro in maniera personale; lo ha fatto con il sacro, con la scienza, l’economia, la lingua della scena. Con Teatro e Mafia analizza 150 anni (quanto quelli dell’Unità d’Italia) di storia del teatro legata ad autori – come Rizzotto, Verga, Pirandello, Don Sturzo, Cesareo, Eduardo, Sciascia, Fava, Luzi, Saviano – e a testi che hanno portato sulla scena il tema della violenza mafiosa in ambito sociale e politico. Il tutto con rigore scientifico e con apparati bibliografici che fanno riferimento sia alla storiografia teatrale che a quella del fenomeno mafioso.

"La mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine".

G. Falcone

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15 i Siracusani

Concetto Scandurra

In vino VeritasMorrone Editore 2011pagg. 93€ 12,00

libroSPAZIO

Non c’è provincia in Sicilia che non abbia la sua partico-lare zona di vigneti: dai rosati dell’Etna ai bianchi del trapa-nese, dai delicati vini del paler-mitano ai vini forti di Vittoria, dell’entroterra siciliano alle co-ste tirreniche; il vino, assieme al grano, ha rappresentato la più antica coltivazione delle no-stre terre. Concetto Scandurra ne dà notizia in questo excur-sus breve ma suggestivo, trac-ciando le coordinate letterarie e culturali della presenza del vino nella civiltà siciliana e soffer-mandosi anche negli usi e nelle tradizioni orali del nostro popo-lo, come se questo filo condut-tore gli servisse per legare fatti, scritti, genti e situazioni della nostra storia.

E così veniamo a sapere quanto sia stato importante il vino presso i greci e presso i romani; gente che era ben di-sposta all’uso smodato del vino fino all’ubriacatura, fino all’orgia e all’alienazione, soggiogata da questa bevanda divina, che ine-briava e premiava gli eroi. Dio-niso-Bacco era il dio della cre-atività e si serviva del vino per liberare i sacri spiriti dell’arte e della danza; ma più sommessa-mente le classi più povere si af-fidavano al vino per dimenticare la loro indigenza. Quindi il vino è stato viatico dei sacerdoti, pre-mio dei forti e oppio dei poveri!

La storia del vino è anche storia di popoli e di civiltà: dai banchetti regali ai postriboli, dai deschi familiari alle tavo-lacce delle cantine e delle pu-tìe, dalle botti di rovere alle damigianette di plastica, dalle sofisticate enoteche alle car-retterie dei contadini siciliani, il vino si fa documento del lavo-

ro, dell’impresa, dell’economia, della pazzia.

Concetto Scandurra, acca-demico della cucina, uomo di scuola e di cultura, questo lo sa e si compiace a spiegarcelo passo passo, notizia per notizia, riportando dati e brani di auto-ri antichi e moderni, indagando proverbi e indovinelli, rileggen-do canti e poesie, riportando le antiche ricette di cannoli e arancine, curiosando nella ca-bala e nella medicina popolare; sopra tutto emerge un bonario senso della levità, quasi un hu-mor leggiadro e schivo.

Ma l’autore, nelle sue con-clusioni, si domanda: “Quanto il vino, anche il più nobile, oggi in commercio, ha della simbo-logia antica?” Nulla! Oggi non c’è più un dio che lo protegga e ne declini le soavi effusioni; non ci sono gli antichi simposi letterari in cui il vino esaltava i poeti; non c’è la sacra libagione in onore degli dei e degli eroi. Il vino appartiene all’industria del consumo e della commer-cializzazione, come qualunque altra bevanda. La Coca Cola e la birra lo hanno spodestato dal-lo scranno alto e solenne della divinità e ha bisogno di botti-glie costose e di artistiche eti-chette e di passaggi pubblicitari per entrare nelle case, non più da re delle mense ma da buon compagno di pasti.

Eppure rimane nella fantasia, nel ricordo e nella storia di ogni popolo come un sincero ami-co di gioie e di dolori, quasi un compagno di strada, silenzioso e docile, capace di rallegrarci e di consolarci. Se non appartiene più agli dei, pazienza! Vuol dire che lo berremo solo alla nostra salute.

Corrado Di Pietro

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Violante Valenti

La riforma teatrale di LeopardiMorrone Editore 2011pagg. 312€ 29,00

La critica letteraria, per quasi due secoli, ha apprezzato, inneg-giato, glorificato, criticato, condan-nato, amato e, forse, a volte odia-to, la grande produzione di Giaco-mo Leopardi, ma non ne ha mai definitivamente esaurito lo studio. È come se Leopardi vivesse ancora tra le pagine degli appassionati e studiosi che, con grande scrupolo-sità, interpretano e riesaminano le sue parole cogliendo sempre nuovi aspetti e significati. In tale ottica, Violante Valenti, in questo volu-me, ha voluto donarci un aspetto leopardiano di grande importanza culturale: l’idea di una Riforma del Teatro basato non più sull’intreccio e sull’azione narrativa, ma sulla capacità narrativa dell’anima, un atto poetico e rappresentativo in-sieme.

Da un lato, il volume si presen-ta quale saggio filologico, esege-tico ed ermeneutico sulla Riforma teatrale di Leopardi, dall’altro, a conseguenza di tale ampio e ap-profondito studio, vi si propone la stesura integrale per la messa in scena dei tre abbozzi teatrali la-sciati incompiuti dal poeta: Maria Antonietta, Erminia e Telesilla.

L’analisi accurata degli appunti leopardiani, dei richiami testuali indicati dal poeta negli autografi e delle sue teorie estetiche sulla struttura drammaturgia del teatro, è un vero è proprio “dialogo” con il poeta, una immedesimazione

totale con la sua interiorità, una comprensione del mondo cultura-le, poetico e spirituale. L’accesso ai testi leopardiani avviene, dunque, con un atteggiamento ermeneu-tico, che presume una “universa-le possibilità dell’interpretazione”, supportato da “chiavi filologiche-esegetiche, che dà l’avvio ad un processo di identificazione tra l’in-terprete e l’interpretato. Ecco per-ché il saggio e le tre stesure tea-trali dell’autrice non si presentano solo come una esegesi testuale, come una metodologia formale di decifrazione dei significati del-le parole, ma soprattutto come profonda intuizione che fa rivive-re tutto quel processo spirituale che ha presieduto alla creazione dell’intera opera. Come dice l’au-trice stessa, si tratta di “entrare nell’habitus di Leopardi, vestire il suo dolore, sentire le sue vibrazio-ni” per ri-creare un’opera “diversa dalla sua nel prodotto, ma non nel processo”. Con tale procedimento ermeneutico, l’autrice ricostruisce i tre frammenti teatrali, affronta e risolve alcune difficoltà interpreta-tive, scioglie i dubbi sulle lacune degli appunti del poeta, e consente di pervenire ad una prima rappre-sentazione del teatro leopardiano, un teatro che delinea, proprio at-traverso i frammenti, una nuova idea del dramma moderno, denso di sollecitazioni significative anche per il nostro teatro contemporaneo.

libroSPAZIO Giovanna Megna

Leonardo Salvaggio

Sicilia quell'estate del '43Morrone Editore 2011 pagg. 542€ 18,00

In quell’estate del ‘43, gli oc-chi del mondo sono puntati sulla Sicilia, dove la guerra arriva con tutti i drammi e le tragiche con-seguenze. Al piano d’invasione, deciso a Casablanca nel gennaio dello stesso anno, viene dato il nome in codice “Operazione Hu-sky”. Leonardo Salvaggio in “Si-cilia. Quell’estate del ‘43”, narra, con un linguaggio semplice e di facile approccio, le vicende di quel periodo e ne analizza i fatti più

importanti, gli eventi drammati-ci, i protagonisti e la fine di ogni illusione di vittoria e del regime fascista. Ma la novità straordina-ria del volume, consiste nell’affer-mazione di una tendenza sempre più diffusa della revisione storica che offre, così, una storia sempre rivalutabile e riscrivibile. Tale ten-denza offre continuamente spunti per rivedere diverse prospettive di eventi passati, di una storia scrit-ta che, pertanto, non è mai scritta

Gime

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una volta per tutte. La ricostruzione pren-de forma in un’opera controcorrente rispet-to alla lettura ufficiale degli eventi, spesso ispirata dalla predo-minante storiografia di scuola anglo-ameri-cana. Alla tendenza di revisionismo storico, si aggiungano, in quan-to testimone oculare, i ricordi dell’autore sul-lo sbarco degli alleati in Sicilia nel luglio del 1943. Salvaggio, con un accurato e impe-gnativo studio storico, cerca di interpretare ciò che affiora dalla

libroSPAZIO

Rosa Savarino

Terre di Carta Morrone Editore 2011 pagg. 288€ 50,00

Bisognerebbe parlare, a pro-posito di questo bel libro di Rosa Savarino, come di un’opera fonda-mentale sulla conoscenza del nostro territorio. Finalmente un’indagine accurata, documentata ed esaustiva non sulla storia, sull’arte o l’arche-ologia di questa parte meridionale della Sicilia, ma sulla formazione di “catasti” municipali, feudali, chiesastici, nobiliari che in qualche modo potevano rappresentare e documentare le proprietà degli enti municipali e delle tenute dei nobili.

L’indagine della Savarino si ri-volge allo studio della misurazione e della rappresentazione dei terreni e dei fabbricati nel vasto territorio di Noto, in quel secolo dei lumi, il ’700, che cominciò a dare anche in Sicilia i primi frutti delle moderne scienze della misura e della stima.

II settecento, soprattutto a cau-sa del terremoto del 1693 che di-strusse totalmente gran parte dei centri abitati della Sicilia Orientale, fu un secolo di ricostruzione e di risistemazione dei confini feuda-li. L’amministrazione stessa delle municipalità e ancor di più quella

viceregia della Sicilia, si dotarono di strumenti legislativi nuovi e di nuove acquisizioni procedurali ten-denti a meglio disciplinare l’arte agrimensoria e a incanalare l’an-tica pratica dei periti tecnici verso studi di tipo universitario, sottraen-dole a quell’empirismo che fino ai primi decenni di quel secolo aveva formato gli agrimensori. Le tecni-che della misurazione si evolvono e così pure le carte acquistano una migliore e più qualificata rispon-denza alla realtà dei fondi.

Il lavoro della Savarino passa dunque in rassegna, con precisione certosina, le varie rappresentazioni topografiche dei feudi di Noto, ac-compagnando queste “Carte feuda-li” con una scheda descrittiva esau-riente e costituendo un archivio del catasto descrittivo di quel tempo, modello ed exemplum degli altri catasti regionali e forse nazionali. Un capitolo a parte, documentato e approfondito, è stato dedicato alla figura professionale dell’agrimen-sore del ‘700, il capostipite del ge-ometra di oggi: figura di estrema importanza nell’economia profes-

Corrado Di Pietro

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sua memoria attraverso la consul-tazione di documenti e ricostruisce tutte le operazioni, anche quelle che hanno preceduto lo sbarco, taciute dalla storiografia ufficiale. Egli ci offre una lettura delle vi-cende emendata dagli stereotipi, definiti da lui “leggende metropo-litane” e da quegli elementi inqui-nanti della propaganda del tempo e della storia, mettendo il lettore in condizione di guardare quelle imprese da una prospettiva diver-sa, una prospettiva che dà rilievo a operazioni scoordinate, a comuni-cazioni mancate, ad accordi e me-diazioni presi in nome dello spirito di libertà e democrazia, di povertà e inadeguatezza di mezzi, ma an-che di atti eroici, dettati dalla fede e dall’orgoglio di appartenenza.

Già nel prologo, appare prepo-tentemente la naturale volontà di capire fino in fondo gli oscuri in-trighi internazionali e locali degli accadimenti di quella stagione si-ciliana, intrighi che sono sfuggiti alla comprensione di molti, e che, proprio per la loro incomprensibi-lità, spingono gli studiosi e gli ap-passionati, ancora oggi, verso la ricerca continua ed approfondita di ogni documento e testimonian-za, anche quelli volutamente oc-cultati o trascurati.

Opera indispensabile per avere un quadro d’insieme dello svol-gersi di quegli avvenimenti, sup-portata da carte dettagliate che aiutano il lettore nel seguire il percorso geografico delle innume-revoli campagne.

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sionale di quel tempo perché racchiudeva in sé vari mestieri: misu-ratore, architetto, esti-matore, matematico, costruttore egli stesso di quegli strumenti di misura che gli consen-tivano di ben svolgere i suoi compiti.

La Seconda Guerra Mondiale, in un arco temporale che va dal 21 di-cembre del 1941 all’estate del 1945, è ricostruita con scrupolosa precisio-ne storica e offre alla creatività del nostro autore una grandissima varie-tà di stimoli e suggestioni. Questi si sviluppano prevalentemente in una narrazione, che nasce dalla commi-stione tra fantasia e realtà: Mirabel-la, infatti, colloca fatti e personaggi, realmente vissuti e d’invenzione, su uno sfondo storico preciso e puntua-le, cercando di fornire al lettore tutti gli elementi fondamentali del conte-sto storico e culturale necessari alla comprensione della vicenda.

Sono rievocati tutti gli avveni-menti in modo rigoroso, non solo negli aspetti riferibili alla “grande storia”, ma anche per quanto ri-guarda fatti antropologici e sociali. Il furto di un carico di uranio, da par-te di un comando delle SS, a danno di un mercantile alleato in partenza dal Congo Belga, è il motore d’azio-ne del romanzo di Luigi Mirabella; un’invenzione che parte da un dato storico: l’acquisto di uranio belga da parte degli Stati Uniti.

Il rigoroso impianto diaristico se-gue l’ordine cronologico e fornisce al lettore gli elementi necessari per la comprensione di tutti gli aspetti della vicenda, grazie anche alle indicazioni spaziali offerte all’inizio di ogni capi-tolo. Ma quando sembra che fabula e intreccio coincidano perfettamente, ecco che, sapientemente, Luigi Mira-bella interrompe una storia nel mo-mento cruciale del suo sviluppo per passare – con un intreccio comples-so, a incastro – a un’altra azione, a un’altra situazione che, addirittura, si

sta contemporaneamente svolgen-do magari al di là dell’Oceano, in tal modo l’interesse del lettore è costan-temente ravvivato.

Lo stile è semplice, lineare, pre-valentemente paratattico ma, al tempo stesso, originale perché ba-sato sulla compresenza di registri e linguaggi settoriali diversi. Il coin-volgimento emotivo del lettore è ot-tenuto anche tramite l’uso insistito di parole ed espressioni funzionali a sottolineare sia il valore dei soldati sia l’asprezza dei combattimenti. La guerra è, nella tradizione letteraria europea, uno dei temi fondamenta-li. Anzi, si può dire che la letteratura europea inizi proprio con un poema guerresco, l’Iliade di Omero.

La consapevolezza che la con-cezione tradizionale della guerra (la guerra degli eroi e degli aristo-cratici; del coraggio, dello spirito di sacrificio) è ormai priva di senso caratterizza tutte le opere novecen-tesche sulla guerra. E La caduta de-gli dei di Luigi Mirabella si inserisce pienamente in questo filone lettera-rio: nella guerra il ruolo dell’indivi-duo perde importanza; non c’è più spazio per gli eroi né per le grandi imprese personali.

A una lettura attenta – il romanzo di Luigi Mirabella risulta una prolun-gata riflessione sulla completa in-sensatezza della guerra e sul totale annichilimento della volontà dell’in-tera Germania che, come sostiene Goffredo Adinolfi, “completamente umiliata dalle dure condizioni di pace imposte alla fine del primo conflitto mondiale, ingenuamente vede nel progetto Hitleriano la possibilità di trovare il paradiso in terra”.

Aleprivi

Luigi Mirabella

La Cadutadegli dei Morrone Editore 2011pagg. 493€ 19,00

Lo squadro innanzitutto, e poi il quadrante e il cerchio graduato. Sulle basi della geometria di Eu-clide e di Pitagora, costruiva trian-goli e poligonali che gli consenti-vano di misurare lunghe distanze e di rappresentare sulle carte gli irregolari perimetri dei fondi. Il tutto era accompagnato da una descrizione dei luoghi e delle col-

ture, anzi spesso si rendeva visi-bile attraverso il disegno l’orogra-fia dei suoli e le coltivazioni che in esso insistevano.

Il libro è arricchito pure dai pro-fili dei maggiori architetti che ope-rarono per la ricostruzione di Noto e che lasciarono la loro impronta nella magnificenza architettonica di quella città.

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