I Quaderni del Ramo d'Oro, N° 6 (2013-2014)

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Università degli Studi di Siena Centro Interdipartimentale di Studi Antropologici sulla Cultura Antica I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE n. 6 (2013/2014) http://www.qro.unisi.it

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Studi Antropologici sulla Cultura Antica

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  • Universit degli Studi di Siena Centro Interdipartimentale

    di Studi Antropologici sulla Cultura Antica

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE

    n. 6 (2013/2014)

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  • I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014) http://www.qro.unisi.it

    PARTE PRIMA - ATTI DEL CONVEGNO "PRESTARE LA VOCE" MAURIZIO BETTINI E LUIGI SPINA, Introduzione. Idee per un convegno............................

    MAURIZIO BETTINI, Il profumo della voce......................................................................

    CARMINE PISANO, La voce della Pizia: tra mito, rito e antropologia.............................

    TOMMASO BRACCINI, Peripherein ton daimona: la voce del ventriloquo......................

    CARLO BRILLANTE, La voce delle Muse nella poesia greca arcaica .........................

    GIUSEPPE PUCCI, Perch non parli? Prestare la voce all'opera d'arte nel mondo antico

    LUIGI SPINA, Discorsi in prestito (logografi, interlocutori immaginari, ghostwriters, portavoci, eccetera eccetera)....................................................................................

    MARIO LENTANO, L'etopea perfetta. I declamatori e il prestito della voce...................

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    PARTE SECONDA - SAGGI GIUSEPPINA PAOLA VISCARDI, Usi letterari e significati culturali del krdemnon in

    Grecia antica: la retorica costitutiva del velo nella prassi dell'invisibilit

    LAVINIA SCOLARI, La vita degli oggetti: il ruolo della cosa donata in Seneca...............

    LUIGI SPINA, Una suocera invadente..............................................................................

    MARCO VESPA, Animali maestri: un sondaggio zooantropologico sul De natura animalium di Claudio Eliano

    DAVIDE ERMACORA, Sulla costruzione della possessione europea (I): il ragno. A proposito di un libro recente di Giovanni Pizza

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  • Universit degli Studi di Siena Centro Interdipartimentale

    di Studi Antropologici sulla Cultura Antica

    PRESTARE LA VOCE

    Atti del Convegno

    Siena, 21 e 22 febbraio 2014

    a cura di

    Maurizio Bettini e Luigi Spina

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014) Prima parte

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  • I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014) PARTE PRIMA http://www.qro.unisi.it

    PRESTARE LA VOCE

    MAURIZIO BETTINI E LUIGI SPINA, Introduzione. Idee per un convegno............................

    MAURIZIO BETTINI, Il profumo della voce......................................................................

    CARMINE PISANO, La voce della Pizia: tra mito, rito e antropologia.............................

    TOMMASO BRACCINI, Peripherein ton daimona: la voce del ventriloquo......................

    CARLO BRILLANTE, La voce delle Muse nella poesia greca arcaica .........................

    GIUSEPPE PUCCI, Perch non parli? Prestare la voce all'opera d'arte nel mondo antico

    LUIGI SPINA, Discorsi in prestito (logografi, interlocutori immaginari, ghostwriters, portavoci, eccetera eccetera)....................................................................................

    MARIO LENTANO, Letopea perfetta. I declamatori e il prestito della voce...................

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  • MAURIZIO BETTINI E LUIGI SPINA

    INTRODUZIONE

    IDEE PER UN CONVEGNO

    Vi sono circostanze in cui possibile delegare, prestare, attribuire voce a chi (o a che cosa) di suo non ne avrebbe alcuna, o ne avrebbe comunque una differente. Casi in cui lecito dubitare se chi parla veramente lui / lei a parlare oppure, fra gli armonici della voce udita, non si stiano insinuando quelli di qualcun altro.

    ci che accade, per esempio, allorch l'aedo incanta le orecchie di chi lo sta ascoltando - la sua voce, quella della divinit che lo ispira, entrambe? oppure quando la profetessa comunica l'oracolo del dio, o quando in sogno qualcuno ci parla con la sua voce o era quella di qualcun altro? quando il posseduto, lindemoniato, pronunzia parole di fuoco, quando il ventriloquo (i Greci lo chiamavamo ) d la parola a un pupazzo o allimmagine di un dio. E via di questo passo. Senza peraltro dimenticare tutti quei casi, apparentemente pi normali, in cui per esempio un oratore o un retore prestano la loro voce a una figura muta e immaginaria per raggiungere una maggiore efficacia nel discorso (la prosopopea, la sermocinatio), un attore presta la propria voce a un personaggio mitologico (qualcuno fa parlare Agamennone o Edipo, dunque), un poeta fa pronunziare un epigramma a un defunto, oppure unelegia a una statua. E si potrebbe arrivare fino a quei personaggi che dovranno parlare su uno schermo (quindi non solo dentro un libro), con voci adeguate al loro corpo e al loro carattere, situazione resa complicata, almeno in Italia, dalla pratica del doppiaggio (un attore che presta la voce a un altro attore).

    Casi normali? Solo perch tali ce li ha resi la consuetudo, direbbe Cicerone; solo perch son cose che si sono sempre viste: ma il fatto che la Patria, un personaggio che vive solo nei racconti del mito, o una statua si mettano improvvisamente a parlare, tanto normale non . O per meglio dire, se si riesce a uscire dalla consuetudo, ci si potr almeno domandare come funzioni questa attribuzione di voce, quali procedimenti si mettano in atto per produrre un fenomeno simile. quello che abbiamo tentato di fare con il riuscitissimo convegno Prestare la voce, di cui pubblichiamo qui gli Atti. Il convegno si tenuto a Siena il 21 e 22 febbraio 2014, nellambito delle attivit previste dal protocollo dintesa fra il Centro A.M.A. e la Direzione Generale per gli Ordinamenti Didattici e per lAutonomia Scolastica del MIUR, la cui responsabile, dott.ssa Carmela Palumbo, ha aperto i lavori.

    Si pubblicano qui i contributi di Maurizio Bettini, Carmine Pisano, Tommaso Braccini, Carlo Brillante, Giuseppe Pucci e Luigi Spina, ai quali si unito negli Atti il prezioso contributo di Mario Lentano.

    PRESTARE LA VOCE

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014), pp. i-ii

  • MAURIZIO BETTINI E LUIGI SPINA ii

    L'intervento sul tema Parole e visioni dello scrittore e sceneggiatore Umberto Contarello disponibile sul web agli indirizzi: (I parte): https://www.youtube.com/watch?v=mecjcPiyaBk (II parte): https://www.youtube.com/watch?v=emrIpP_jlSQ I singoli interventi sono stati preceduti da brevi letture di Carlo Bernardini e Francesco Puccio (per i testi cfr: http://www3.unisi.it/ricerca/centri/cisaca/nuovo/attivita/citazioniintroduttiveprestarevoce.pdf). Maurizio Bettini Luigi Spina

    PRESTARE LA VOCE

  • MAURIZIO BETTINI

    IL PROFUMO DELLA VOCE

    In uno dei suoi commenti alla Genesi Agostino esprimeva una preoccupazione gi presente in Filone di Alessandria, il celebre allegorista giudaico del I secolo d. C.; e che continuer peraltro a suscitare discussioni e interpretazioni divergenti, fra gli esegeti del testo biblico, anche nelle epoche successive. Agostino sta analizzando la celebre frase Et dixit Deus, Fiat lux; et facta est lux. Ecco il suo commento1:

    Non dobbiamo intendere che Dio avesse detto fiat lux con una voce che proveniva dai polmoni, e neppure con la lingua e i denti. Questi infatti sono pensieri carnali, e sapere secondo la carne, morte. Fiat lux fu detto ineffabiliter.

    Non c' dubbio sul fatto che Agostino avesse una buona conoscenza di quali fossero gli organi fonatori necessari alla produzione linguistica mostra infatti di sapere che i suoni articolati implicano l'azione combinata di polmoni, lingua e denti. Ma a interessarci soprattutto la natura del problema che egli si pone. Agostino si preoccupa infatti che qualcuno possa attribuire a Dio funzioni linguistiche umane, producendo cos una visione decisamente antropomorfica della divinit. Insomma, non si pu accettare che Dio sia dotato di voce come gli essere umani. Il fatto che il testo sacro affermi espressamente che Dio disse fiat lux non preoccupa il sottile dialettico, che se la cava brillantemente ricorrendo a un ineffabiliter dictum est. Un'espressione che attribuisce a Dio un dire che nello stesso tempo un non dire (ineffabilis infatti etimologicamente non dicibile). Secondo Agostino insomma Dio disporrebbe di una voce ossimorica, tramite la quale la lettera del testo, e le preoccupazioni antropomorfiche dei commentatori, si conciliano perfettamente. Il parlare di Dio un parlare ineffabilis.

    La sostanza de problema resta, per, e va ben al di l delle espressioni usate nella Genesi: la divinit, sia essa Dio unico o divinit pagana, come l'avrebbe definita Agostino, parla? E se parla, che voce ha? E ancora: ammesso che abbia una voce, i mortali possono udirla o meno? E se possono udirla, qual la lingua in cui la divinit si esprime? Dato per che, a fronte di simili ricorrenti domande, sta una divinit che al di l dei sogni, delle visioni e delle invenzioni dei poeti resta ostinatamente muta, potremmo formulare cos la nostra domanda: quale voce stata prestata alla divinit nel mondo antico? Se Agostino gliene dava una abilmente ineffabilis, come se la sono cavata altri di fronte allo stesso dilemma?

    1 Filone, De decalogo 32; Agostino, De Genesi liber imperfectus, 19: Deum dixisse: Fiat lux, non voce de pulmonibus edita, nec lingua et dentibus, accipere debemus. Carnalium sunt istae cogitationes: secundum autem carnem sapere, mors est Sed ineffabiliter dictum est: Fiat lux.

    PRESTARE LA VOCE

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014), pp. 1-7

  • MAURIZIO BETTINI 2

    Data l'occasione, questo problema potremo affrontarlo solo in modo cursorio, trascegliendo pochi esempi fra i molti possibili. Ci auguriamo per che anche questa breve esplorazione possa fornire qualche spunto utile alla discussione.

    Cominciamo da Filodemo, il noto filosofo epicureo dei I a. C. Al contrario di Agostino, egli sosteneva che gli di non solo avevano voce, ma dialogavano gli uni con gli altri (prs alllous omilin)2. Questo ovviamente in armonia con la visione fortemente antropomorfica della divinit propria degli Epicurei, quella di cui si far beffe lo scettico Cotta nel De natura deorum di Cicerone. Infatti, diceva Filodemo, non potremmo pensare che gli di sono felici e incorruttibili, se non parlano e non comunicano gli uni con gli altri, bens sono simili a uomini muti. E anzi, continuava, per Zeus, bisogna anche ritenere che gli di parlino greco, e che usino suoni forniti di logos, ben distinti, i pi corretti, cos come fanno in Grecia le persone colte (sophi).

    Come si vede agli di non solo viene attribuito un linguaggio di tipo umano, ma questo riconoscimento si realizza all'interno di un quadro decisamente etnocentrico. Quale altra lingua potrebbero mai parlare gli di visto che parlano e dialogano se non la greca? Certo non le lingue dei barbari. La voce che viene prestata agli di da Filodemo, dunque, quella propria di un greco, sia pure colto ed educato. Se ne potrebbe concludere che il greco una lingua divina, cosa sulla quale molti inveterati grecisti sarebbero peraltro verisimilmente d'accordo.

    Tanta fiducia epicurea nella parola degli di verr messa in ridicolo da Sesto Empirico, II secolo d. C., che (riprendendo verisimilmente Carneade) dir3:

    poniamoci dunque il problema se il dio dotato di capacit fonatoria o afono. Definirlo afono assurdo e ripugna alle opinioni correnti [qui bisogna pensare a tutti i casi omerici in cui la divinit "parla" a un mortale, alle tradizioni religiose, ai sogni, alle voci divine che si odono, etc. etc.]. Se dotato di capacit fonatoria dispone di voce e di organi fonatori, come polmoni trachea arteria lingua e bocca. Ma questo assurdo e simile alla mitologia epicurea. Per cui non pi dio. E se dispone di voce, dialoga con altri (omili). E se dialoga, per forza lo fa in qualche lingua, e se cos, quale, la lingua greca o una lingua barbara? e se la Greca, quale, la Ionica, l'Eolica o quale delle altre? Certo non tutte. Dunque nessuna Bisogna concludere che gli di non dispongono di voce e per questo motivo tutto ci privo di fondamento (anparkton).

    Dal canto suo l'allegorista omerico Eraclito (prima et imperiale), posto anche lui di fronte al delicato problema della voce degli di, si rivolger al pensiero stoico, e alla visione del linguaggio elaborata in quest'ambito. Gli stoici distinguevano infatti fra linguaggio endithetos, ossia interiore, e linguaggio prophoriks, quello esterno, proferito. Se il linguaggio prophoriks il diggelos, il messaggero, l'araldo dei pensieri, il linguaggio endithetos resta invece chiuso in fondo al cuore. Eraclito concludeva dunque che gli di dispongono s di un linguaggio, per solo di quello interno, endithetos. E questo per un motivo intrinsecamente legato alla loro natura: gli di, non avendo bisogno di nulla, tengono chiuso in se stessi l'uso della voce4. Inutile dire

    2 USENER 2002, p. 356; Cicerone, De natura deorum, 1. 92. 3 USENER 2002, p. 357. 4 Eraclito, Allegoriae Homericae, 72. 17.

    PRESTARE LA VOCE

  • IL PROFUMO DELLA VOCE 3

    che da questa affermazione traspare una visione decisamente utilitaristica della voce, ne dispone chi ne ha bisogno. Ecco un altro modo per attribuire alla divinit una voce muta.

    Resta il fatto, per, che nell'opinione comune, come diceva Sesto Empirico, cio nella tradizione letteraria, in quella religiosa, nel sistema delle credenze, e cos via, gli di comunicano con gli uomini. Ma come? A questo punto sarebbe interessante vedere che cosa aveva detto in proposito Platone, quali soluzioni aveva escogitato relativamente al problema della voce degli di. Lascio da parte lo Ione e il tema dello hermenuein: ossia la riarticolazione in linguaggio umano che prima il poeta, e poi il rapsodo, realizzano di ci che suggeriscono gli di5. Vediamo piuttosto ci che accade nel Simposio.

    Siamo al momento in cui Diotima spiega a Socrate qual la natura di Eros. Esso un dimon, dice Diotima, e come ogni daimnion sta a met (metax) fra il mortale e l'immortale, fra il dio e l'uomo. E quale sarebbe, chiede allora Socrate, la dnamis, la virt di un dimon? La seguente, risponde Diotima6:

    egli interprete e intermediario (hermenuon ki diaporthmuon) per gli dei di ci che viene dagli uomini; per gli uomini di ci che viene dagli dei; degli uni recando le preghiere e i sacrifici, degli altri le disposizioni e il contraccambio relativo ai sacrifici. Stando nel mezzo (en msoi), fa da complemento per l'uno e per l'altro, in questo modo garantendo che il tutto sia connesso (sundedsthai). attraverso costui che passa (chori) la mantica e la scienza dei sacerdoti, per quanto riguarda i sacrifici e le iniziazioni, gli incantamenti, la divinazione di ogni specie e la magia. La divinit infatti non si mescola (ou mignutai) con gli uomini; ed attraverso il dimon che ogni congiunzione e ogni colloquio (psa [...] h homila ki h dilektos) si svolge fra dei e mortali, sia nella veglia, sia nel sonno.

    Dunque il dimon una figura che sta letteralmente tra ovvero nel mezzo fra dei e umani, in qualit sia di hermenuon che di diaporthmuon. Esso capace di mediare tanto preghiere e disposizioni, sacrifici e relativi contraccambi (doni, benevolenza, protezione), quanto vere e proprie nozioni, conoscenze: in particolare, per, tocca ancora a lui mediare il colloquio (dilektos), il dialogo fra uomini e dei, che si svolge nella veglia o in sogno. Notiamo anzi una cosa. Nel suo mediare il passaggio (chori passa) fra mortali e immortali, il demone si comporta come un vero e proprio traghettatore. Il verbo diaporthmuo infatti significa proprio traghettare, passare o far passare un fiume7. Dunque la sua proprio l'opera di un mediatore, una figura che sta nel mezzo, capace di operare scambi di merci con il passaggio da una sponda all'altra: preghiere e sacrifici contro disposizioni e ricompense. Contemporaneamente per il demone in grado di mediare anche lo scambio linguistico la dilektos fra dei e uomini, due gruppi i quali non parlano manifestamente la stessa lingua.

    Il problema della comunicazione fra di e uomini viene dunque risolto da Platone ricorrendo alla presenza di una terza figura, un mediatore, il dimon. Questo demone funziona alla maniera di un vero e proprio commutatore dal soprannaturale al naturale e viceversa. La sua

    5 Me ne sono occupato in BETTINI 2012, pp. 128-132 (dove si troveranno svolte pi ampiamente anche le considerazioni che seguono: pp. 121 ss.) 6 Platone, Symposium, 202 e. Concetti simili vengono espressi anche in Epinomis, 985 a ss. 7 Erodoto, Historiae, 4. 141; 1. 205. 5 e 52.

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  • MAURIZIO BETTINI 4

    funzione quella di un mediatore di beni, se cos possiamo dire, e di un mediatore linguistico nello stesso tempo. Fra le due parti che non possono venire in contatto, il demone favorisce il passaggio di sacrifici e ricompense ma, nello stesso tempo, media lo scambio linguistico che, nella veglia o nel sonno, ha luogo fra uomini e dei.

    Se si osservano con attenzione le parole di Diotima, ci si accorge anzi che ella opera qui una distinzione tanto sottile quanto rilevante.

    interprete e intermediario (hermenuon ki diaporthmuon) per gli dei di ci che viene dagli uomini; per gli uomini di ci che viene dagli dei; degli uni recando le preghiere e i sacrifici, degli altri le disposizioni e il contraccambio relativo ai sacrifici.

    Diotima infatti sembra attenta a distinguere due diversi piani dello scambio fra dei e uomini: uno diciamo di carattere verbale preghiere degli uomini, disposizioni degli dei l'altro di carattere piuttosto materiale sacrifici degli uomini, contraccambio ai sacrifici da parte degli dei. Ecco perch, si pu credere, il dimon viene definito non solo hermenuon fra dei e uomini, ma anche diaporthmuon traghettatore fra di essi. In quanto hermenuon, potremmo dire riarticolatore, il demone garantisce la comunicazione linguistica fra dei e uomini, offrendo un canale per preghiere da un lato, disposizioni dall'altro; in quanto diaporthmuon, traghettatore, egli garantisce invece il transito di entit non verbali, sacrifici degli uomini e contraccambio da parte degli dei. Ecco un esempio abbastanza chiaro, ci sembra, di come lo hermenuon, il mediatore linguistico, il riarticolatore, sia tenuto separato dalla sfera pi decisamente pratica, per riservargli piuttosto lo spazio della comunicazione. Sar proprio in quanto hermenuon, e non diaporthmuon, che il dimon favorir ogni congiunzione e ogni colloquio (psa [...] h homila ki h dilektos) che si svolge fra dei e mortali, sia nella veglia, sia nel sonno, come Diotima afferma subito dopo.

    Ma a parte le riflessioni dei filosofi, sul problema della voce prestata agli di ci sarebbero soprattutto da considerare le rappresentazioni delle interazioni linguistiche fra divinit e, soprattutto, fra dio e uomo, che ci vengono dalla letteratura antica. Se si prende l'esempio dei poemi omerici, per, si rischia di restare delusi. Il poeta infatti non sembra particolarmente preoccupato di definire in che modo si realizza lo scambio linguistico che coinvolge una divinit. Gli di dell'Olimpo dialogano tranquillamente fra loro senza che mai venga sottolineato l'eventuale carattere speciale di questo scambio; e anche quando le divinit interagiscono linguisticamente con gli uomini, sia dopo aver assunto identit umana, sia senza che questo sia avvenuto, il loro parlare non esce dalle normali modalit del discorso omerico. Il problema della verisimiglianza linguistica, come sappiamo, non stava particolarmente a cuore alla letteratura antica. Omero si preoccupa forse del fatto che i Troiani, di per s, dovrebbero parlare una lingua diversa da quella degli Achei? Per non parlare del messaggero (persiano) dei Persiani di Eschilo, che annunziando ad Atossa (regina di Persia) la disfatta subita dalla flotta persiana, non solo si esprime in ottimo greco, ma addirittura parla dei Persiani come farebbe un Greco: tutto perito l'esercito dei barbari8. Come in quei film di Hollywood in cui ufficiali tedeschi della II

    8 Eschilo, Persae, 255. Cfr. LEJEUNE 1940-1948, pp. 45-61; per la convenzionalit dei rapporti interlinguistici in Omero, cfr. ROTOLO 1972, pp. 395-414 (p. 397); per Erodoto cfr. DE LUNA 2003, p. 137.

    PRESTARE LA VOCE

  • IL PROFUMO DELLA VOCE 5

    guerra mondiale, comandanti vietcong e giapponesi della Yacuza dialogano in perfetto inglese con gli eroi americani di turno.

    Lo stesso vale in Omero per gli di, a cui vengono prestati una voce e un linguaggio decisamente umani, anzi greci. Ci sono vero alcuni casi in cui sembra affiorare l'esistenza di un qualche scarto linguistico fra di e uomini: in particolare la distinzione fra lingua degli uomini e lingua degli di che sembra ricorrere in certe designazioni, come nel caso dell'uccello che gli di chiamano kmindis, e gli uomini chalks9. In forme di questo tipo per ci muoviamo su un piano piuttosto diverso rispetto ai precedenti. In gioco infatti non c' la voce, o il linguaggio che parlano gli di, ma una sorta di lessico riservato, segreto, che appartiene solo a loro ma che, a quanto pare, alcuni sono stati in grado di decifrare e riconoscere, visto che ne conoscono i sinonimi umani. Si tratta di una forma culturale decisamente affascinante, che trova paralleli almeno nel mondo vedico e antico germanico, e sulla quale sono state fatte anzi di recente osservazioni di grande interesse10. Sempre restando all'interno dei poemi omerici, vi poi il misterioso verbo audn, che sembra designare la modalit di espressione linguistica propria di certe divinit estranee al mondo Olimpico, come Circe e Calipso, e dotate di una 'parlata' umana11. Per quanto mi riguarda per preferirei concentrarmi su un caso meno studiato di interazione divinit / uomo, interessante soprattutto per il contesto in cui compare: non epico o comunque narrativo, ma teatrale, dunque 'messo in scena', recitato, nelle forme di un dialogo vero e proprio. Un caso in cui alla divinit viene effettivamente prestata una voce, c' un attore che la fa parlare gi, ma che genere di voce? E come si articola questo dialogo fra il dio e l'uomo? Come vedremo, si tratta di un dialogo straniato, deviato rispetto alle usuali linee della comunicazione, e in cui la dimensione olfattiva gioca un ruolo molto importante. Si tratta di un episodio tratto dall'Ippolito di Euripide.

    Siamo alla fine della tragedia, quando Ippolito, consumatosi il suo dramma, giace ormai morente e prossimo alla fine. A questo punto entra in scena Artemide in persona, la dea che il giovinetto ha amato con uno zelo unico ed eccessivo, fino al punto di offendere Afrodite: la dea che, come sappiamo, ha provocato la sua rovina, assieme a quella di Fedra e dello stesso Teseo. Dunque Artemide si avvicina al ragazzo morente e gli si rivolge direttamente12:

    o sventurato, da quali disgrazie sei vinto! La nobilt del tuo animo ti ha perduto.

    Stranamente per Ippolito non replica a queste parole - sente altro, parla ad altro: Che accade? Oh soffio di divino profumo (thion osms pnuma)! Ti (su) sento sento te - anche fra queste sofferenze e il mio corpo ne sollevato. La dea Artemide in questi luoghi.

    Come si vede il giovinetto percepisce non la voce della dea, che pure gli si rivolta, ma il divino soffio della sua osm. A certificare la presenza di Artemide non il suono delle sue parole, peraltro appena echeggiate sulla scena, ma lo pnuma che da lei spira: ed con questo soffio

    9Hom. Il. 14. 291. 10 Cfr. HELLER-ROAZEN 2013, pp. 84-89. 11 Su audn cfr. la messa a punto di C. Franco in BETTINI - FRANCO 2010, pp. 144-149. 12 Euripide, Hippolytos, 1389 ss.

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014)

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    profumato, non con la dea, che Ippolito si mette dapprima in comunicazione, apostrofandolo con il tu come si fa con un vero e proprio interlocutore. Inizialmente dunque la dea entra nel dialogo solo come un terza persona (la dea Artemide in questi luoghi), potremmo dire che vi entra come un'inferenza, tratta dal profumo che ella emana. E questa inferenza seguita da un'apostrofe rivolta non alla dea, ma alla divina qualit che ha permesso di intuirne la presenza. Inizialmente infatti Ippolito si rivolge con il pronome tu (su) non alla dea, ma al profumo che essa emana, un tratto caratteristico della divinit antica (e non solo di quella antica, come sappiamo). La vera e propria comunicazione fra Artemide e Ippolito si stabilir soltanto dopo, allorch il dcalage linguistico fra umano e divino sar stato colmato da questo singolare intreccio di soffi, profumi e parole che non si incontrano.

    S sventurato Ippolito replica infatti Artemide alle parole del giovinetto sono qui, la dea che tu ami di pi E Ippolito: Mia signora, vedi in che stato sono?

    Solo a questo punto il dialogo fra l'uomo e la divinit avr effettivamente inizio e continuer a svolgersi - ma prima c' stato bisogno che un evento soprannaturale, lo spirare del profumo divino, assestasse in qualche modo il contesto dell'interazione linguistica e ne sottolineasse il carattere eccezionale.

    Questo episodio, in cui la voce da un lato e il profumo dall'altro appaiono cos strettamente connessi, apre la via ad un'ulteriore riflessione sul rapporto fra la voce e la sfera olfattiva: ossia il profumo che pu non semplicemente accompagnare, come nel caso di Artemide, una voce straordinaria, ma emanare direttamente da essa. Lo spunto ce lo d un episodio narrato da Plutarco. Sta parlando Cleombroto, uno degli interlocutori del dialogo De defectu oraculorum13:

    Non esito a farvi dono del discorso di un barbaro, la cui ricerca mi costata una lunga peregrinazione e parecchio denaro. Egli si lascia avvicinare una sola volta all'anno, sulle rive del Mar Rosso, e passa il resto del suo tempo, come dicono, in compagnia di ninfe erranti e di demoni. Lo trovai dunque a fatica, ma ne ottenni un colloquio pieno di benevolenza. l'uomo pi bello che io abbia mai visto, e vive immune da ogni malattia grazie all'amaro frutto di un'erba medicinale, che egli ingerisce una volta al mese. Sa parlare molte lingue: con me ha usato quasi sempre un dorico simile a poesia. Quando parla, il luogo si riempie di un dolcissimo profumo che alita dalla sua bocca (phtheggomnou d tn tpon euoda katiche tu stmatos hdiston apopnontos). Ogni sorta di scienze e di studi vive tutto il tempo con lui: ma l'arte profetica lo ispira una sola volta all'anno, ed allora che scende al mare per dare responsi. L vanno a consultarlo sovrani e grandi dignitari, che poi tornano ai loro paesi.

    Nell'episodio narrato da Plutarco il possesso di una voce profumata si unisce a svariati altri doni che tutti fanno capo alle capacit fonatorie dello straordinario barbaro: il poliglottismo, la perfezione poetica con cui usa la lingua cui ricorre per comunicare con l'interlocutore, la

    13 Plutarco, De defectu oraculorum, 421 a- b (CAVALLI - LOZZA 1983). Ringrazio Carmine Pisano per avermi suggerito questo confronto.

    PRESTARE LA VOCE

  • IL PROFUMO DELLA VOCE 7

    capacit profetica. Il profumo che caratterizza la sua voce, insomma, sembra costituire una sorta di cifra simbolica delle straordinarie risorse linguistiche di cui questo personaggio in possesso, esprimendo nel codice olfattivo la forza seduttiva che la sua voce in grado di esercitare su chi lo ascolta. Non a caso il barbaro anche caratterizzato da grande bellezza, e tutta la descrizione di Cleombroto esprime una straordinaria ammirazione nei suoi confronti. Avere una voce profumata significa insomma avere una voce che seduce e soggioga, suscitando meraviglia. quello che inviterebbe a pensare, del resto, non solo il significato che il profumo tradizionalmente ha nella cultura antica, e non solo, ossia quello di un potente strumento di seduzione; ma anche un'altra credenza legata al profumo, se non della voce, almeno del respiro. Dopo aver attraversato la sfera divina e quella delle meraviglie dei barbari, il tema della voce profumata ci porter cos a concludere le nostre riflessioni nel meraviglioso mondo degli animali. Sappiamo infatti che, fino da Aristotele e Teofrasto, alla pantera viene attribuita la capacit di emanare unico fra gli animali un odore soave, che essa utilizza come un'esca per attrarre le sue prede. Eliano specifica che tanta soavit viene emanata dalla pantera attraverso il proprio respiro, e di questo fiato soave essa si serve come di un incantesimo d'amore (unx) che irresistibilmente attira le prede verso di lei. Questa credenza, ripresa dal Fisiologo, si diffonder poi nei bestiari medioevali, e far della pantera un perfetto emblema da bestiario d'amore. Allorch la voce dell'amata, o forse sarebbe meglio dire quella che l'amore le presta, risuoner del suo inconfondibile profumo nella mente dell'amante. Maurizio Bettini

    Universit degli Studi di Siena e-mail: [email protected] BIBLIOGRAFIA

    BETTINI 2012: Vertere. Un'antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino 2012.

    BETTINI Franco 2010: M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe, Torino 2010.

    CAVALLI - LOZZA 1983: Plutarco, Dialoghi delfici; introduzione di D. Del Corno, traduzione e note di M. Cavalli, G. Lozza, Milano 1983.

    DE LUNA 2003: M. E. De Luna, La comunicazione fra alloglotti nel mondo greco, Pisa 2003.

    HELLER-ROAZEN 2013: D. Heller-Roazen, Dark Tongues. The Art of Rogues and Riddles, New York 2013.

    LEJEUNE 1940-1948: M. LEJEUNE, La curiosit linguistique dans l'antiquit classique. Confrences de l'Institut de Linguistique de l'Universit de Paris, 8, Paris 1940-1948.

    ROTOLO 1972: V. Rotolo, La comunicazione linguistica fra alloglotti nell'antichit classica, Studi classici in onore di Quintino Cataudella, Universit di Catania, Facolt di Lettere e Filosofia, Catania 1972, vol. I.

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    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014)

  • CARMINE PISANO

    LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA

    1. DALLA LETTERATURA AL CULTO In un noto articolo, posto a introduzione dell'ormai classico volume Divinazione e razionalit1, Jean-Pierre Vernant illustra in modo efficace gli interrogativi che inevitabilmente accompagnano qualsiasi indagine riguardante il santuario di Apollo a Delfi, le procedure di interrogazione oracolare, i responsi della Pizia. Si chiede Vernant: Le domande erano preparate e presentate in anticipo o formulate l per l, al momento stesso della consultazione? Erano sempre espresse in forma di alternativa, di scelta fra due soluzioni [] o potevano assumere forme differenti secondo i casi? In che senso, d'altra parte, era ispirata la Pizia? [] Vaticinava in reale stato di trance [] o si deve supporre che parlasse a sangue freddo e che la presenza del dio il cui soffio l'ispirava si manifestasse in lei senza per sconvolgere la sua bocca e la sua mente? I responsi erano dati in prosa o in versi, registrati per iscritto o trasmessi oralmente? Erano precisi e chiari, come certi documenti lasciano supporre, o enigmatici e ambigui, come afferma tutta la tradizione letteraria?2.

    Vernant non d una risposta univoca a tali domande, ma piuttosto propone di distinguere tra la pratica concreta delle consultazioni e le rappresentazioni della funzione profetica, attestate nella letteratura cresmodica. Nel caso della pratica oracolare, come si esercitava effettivamente in epoca classica, Vernant ritiene che la risposta della Pizia si conformasse al modello binario suggerito dalla domanda. Essa risolve un dilemma, designa chiaramente quale, fra le opzioni proposte, deve apportare i migliori frutti, rivelarsi pi utile3. Per dirla con Plutarco, sacerdote di Apollo a Delfi per circa vent'anni tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C., la congiunzione ipotetica se occupa il posto principale nelle domande dei consultanti, ogni volta che essi domandano se vinceranno, se si sposeranno, se il momento buono per navigare, se conviene far l'agricoltore, se meglio partire4. L'interrogazione oracolare, riguardante per lo pi questioni pratiche e concrete, relative agli affari pubblici delle citt o alle molteplici aporie della vita dei singoli, si svolge attraverso la proposta di due possibilit alternative fra le quali il dio dovr indicare quella che per il consultante preferibile seguire5: il consultante [] non si aspetta dall'oracolo che gli predica un avvenire gi inesorabilmente

    1 VERNANT ET AL. 1974. 2 VERNANT 1974, pp. 7-8. 3 VERNANT 1974, pp. 19 e 21. Sul funzionamento degli oracoli cfr. anche GEORGOUDI 1998, pp. 315-365; CATENACCI 2001, pp. 149-159; BONNECHERE 2007, pp. 145-159; BONNECHERE 2013, pp. 73-94. 4 Plut. De E Delph. 386B-C. 5 Cfr. Xen. Mem. 1. 4. 15: a Senofonte, che aveva chiesto ad Apollo Pitico a quali di doveva sacrificare per partecipare con successo alla spedizione di Ciro, Socrate obietta che avrebbe dovuto semplicemente domandare se era preferibile o meno per lui partire. Su Senofonte e la mantica delfica si veda BRUIT ZAIDMAN 2013, pp. 59-72.

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    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014), pp. 8-20

  • CARMINE PISANO 9

    fissato, ma che gli indichi, in un caso preciso, ci che deve fare o non fare perch le cose volgano a suo vantaggio e si realizzino le eventualit pi favorevoli6.

    Se dal piano delle pratiche rituali ci spostiamo all'ambito delle tradizioni narrative e della letteratura oracolare, ci accorgiamo nota Vernant che la situazione muta radicalmente: la parola dell'oracolo, come suggerisce la famosa formula di Eraclito7, [] non dice in realt il destino pi di quanto lo nasconda; lo accenna solamente (seminei). Lo d a vedere dissimulandolo nello stesso tempo, lo lascia indovinare per mezzo di una parola enigmatica, di un "detto" che funziona come un segno, ma un segno oscuro, difficile da decifrare, per l'intelligenza degli uomini, come gli avvenimenti stessi a proposito dei quali hanno consultato l'oracolo8. In tale contesto, l'ambiguit della parola oracolare svolge una funzione narrativa precisa: esprime il carattere necessariamente aleatorio delle previsioni e dei progetti umani, mettendo in discorso quell'ignoranza radicale del futuro che definisce la condizione umana e la distingue da quella degli di9.

    Non si pu non riconoscere alla teoria di Vernant un merito indiscutibile: la decostruzione del mito storiografico della Pizia che, in preda a raptus divinatori ed esaltazione isterica, vittima di un delirio forsennato e incosciente, avrebbe profetizzato l'avvenire in forma disarticolata e confusa, con tanto di chiome all'aria e schiuma alla bocca10. Non difficile accorgersi come tale immagine della profetessa debba molto alle rappresentazioni moderne del posseduto, oltre che a certe rappresentazioni cristiane e romane, ognuna delle quali ha i suoi modelli letterari, i suoi codici espressivi, la sua funzione contestuale11. Ebbene, a dispetto della mythologie savante sviluppatasi attorno alla figura greca della Pizia, Vernant ha avuto il grande merito di riaffermare la chiarezza della profezia oracolare chiamata, nella realt del rito, a indicare la scelta preferibile tra le opzioni prospettate dalla domanda del consultante. In tale contesto, la chiarezza non solo un elemento caratteristico dell'espressione profetica, ma ad essa addirittura vincolata l'affidabilit del responso ( ). Lo scoliasta a Pindaro afferma, infatti, che allora la Pizia vaticina nel modo pi preciso ( ), quando anche il dio presente presso l'oracolo12. L'avverbio segnala la precisione, ma anche la frugalit, l'economia dei mezzi espressivi, che distingue il linguaggio della Pizia. Plutarco non a caso lo paragona alla definizione della linea retta che danno i matematici, ovvero la pi breve tra due punti perch, ignorando le deviazioni e le sinuosit dello stile, gli equivoci e le ambiguit, esso va diritto alla verit13. E se tale brevit e precisione, in una parola tale , testimonia la presenza oracolare di Apollo, la sua partecipazione al responso della 6 VERNANT 1974, p. 15. Cfr. anche BREMMER 1996, pp. 246-247 (La funzione degli oracoli nell'antichit era di assistenza nelle scelte da prendere e di approvazione delle decisioni collettive: difficilmente si trattava di predire il futuro); JAILLARD - PRESCENDI 2008, p. 85 (Le pratiche divinatorie non mirano tanto a conoscere l'avvenire quanto a guidare l'azione degli uomini, i quali cercano un consiglio, una ratifica, il consenso di una potenza superiore); JOHNSTON 2005, pp. 1-28. 7 Heraclit. fr. 93 DK. 8 VERNANT 1974, p. 21. Cfr. anche BURKERT 2005, pp. 29-49. 9 VERNANT 1974, p. 21. 10 Sulla storia e la fortuna del mito storiografico della Pizia delirante cfr. CATENACCI 2001, pp. 144-148; JAILLARD - PRESCENDI 2008, p. 80. 11 Cfr. infra, 2. 12 Schol. Pind. Pyth. 4. 8. 13 Plut. De Pyth. orac. 408F.

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  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 10

    Pizia, perch, come dice ancora Plutarco, Apollo ama la concisione e la stringatezza degli oracoli: lo stesso epiteto Lossia, obliquo, con cui il dio venerato, sarebbe legato, secondo lo scrittore di Cheronea, non alla mancanza di chiarezza (), ma al desiderio di evitare la prolissit del linguaggio14.

    2. I GESTI DELLA PIZIA Le testimonianze esaminate confermano il carattere preciso e sintetico della risposta oracolare, limitata probabilmente in molti casi a un s o un no15, restituendo ambiguit, enigmi e polisemia all'ambito delle tradizioni narrative e della poesia oracolare o cresmodia. Ma se il consultante poteva percepire in modo distinto la risposta, chiara e articolata, della Pizia16, che cosa risulta dalle fonti riguardo il presunto invasamento isterico della profetessa?

    Abbiamo gi ricordato come la Pizia che delira forsennata appartenga essenzialmente a certe rappresentazioni cristiane e romane della profetessa. Per quanto riguarda gli autori cristiani, in particolare Origene e Giovanni Crisostomo17, l'immagine isterica della Pizia sottende un chiaro intento polemico, legato al confronto tra profezia giudaico-cristiana, da un lato, e profezia greca, dall'altro: nel primo caso, l'espressione chiara e la compostezza dei gesti testimonierebbero il contatto autentico con Dio; nel secondo, l'oscurit del linguaggio e il corpo che eccede in gesti incontrollati, che ricordano quelli dell'epilettico e delle donne con l'utero malato18, rivelerebbero la possessione demonica19. Naturalmente, l'intento polemico e la funzione ideologica non consentono di utilizzare le rappresentazioni cristiane per ricostruire il comportamento rituale della Pizia, tanto pi se si considera che lo stesso Origene testimonia come un autore greco, Celso, utilizzasse gli stessi argomenti addotti dai cristiani (chiarezza vs. oscurit, compostezza vs. eccedenza) per sostenere l'autorit della profezia greca e romana a discapito del tipo di divinazione proprio della Fenicia e della Palestina20.

    Per quanto riguarda le testimonianze latine sulla Pizia, occorre notare che esse obbediscono a codici di rappresentazione propri della cultura romana e presumibilmente molto lontani dai modelli greci. Prendiamo ad esempio il passo della Farsaglia in cui Lucano parla dell'oracolo reso dalla Pizia ad Appio21. Il poeta descrive la profetessa che delira forsennata [] agita con le chiome irte le bende e le corone di Febo [] ruota il capo oscillante, rovescia i tripodi che si oppongono al suo vagolare, e ribolle di un gran fuoco; e poco pi avanti aggiunge: La schiuma del delirio cola dalla bocca dell'invasata ed escono dalla gola ansimante gemiti e

    14 Plut. De garr. 511B. Come nota SISSA 1987, p. 53, per Plutarco impensabile che il discorso apollineo utilizzi la metafora, che si serva d'immagini per velare la verit. Al contrario, l'espressione enigmatica che valsa ad Apollo l'epiteto di obliquo, di loxs, una specie di mimo verbale, tanto pi eloquente quanto la phon economizzata. 15 CRAHAY 1974, pp. 218-219. La Pizia poteva rispondere anche attraverso l'estrazione di o sassolini (cfr. Suda s.v. ). 16 JAILLARD - PRESCENDI 2008, p. 80. 17 Orig. Cels. 7. 3-4; Jo.Chrys. In epistulam I ad Corinthios Homilia XIX 260B-C. 18 SISSA 1987, pp. 32-44. 19 Clemente Alessandrino oppone ai profeti ebrei, ispirati da Dio, i falsi profeti pagani, spinti dai demoni o messi in trance da certe acque, fumi, una qualit speciale dell'aria (Strom. 1. 135. 2-3). Tertulliano descrive quelli che passano per essere ispirati da un dio mentre, con la bocca spalancata, profetizzano con molti tremiti e voce ansimante (Apol. 23. 5). 20 Orig. Cels. 7. 9; 8. 45. Cfr. ARCARI c.d.s. 21 Luc. Phars. 5. 161 ss.

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    mormorii confusi frammisti a lugubri ululati. Ispirata alla descrizione virgiliana della Sibilla Cumana (Aen. 6. 77 ss.)22, la descrizione lucanea della Pizia rivela una rappresentazione della possessione apollinea, che risulta sensibilmente diversa rispetto a quella degli autori greci.

    Che la Pizia sia posseduta e ispirata da Apollo un dato costante nella tradizione ellenica, ma nella cultura greca l' (avere il dio in s) e la (possessione divina), sebbene intesi come stati di alterazione psico-fisica, non sono necessariamente associati al delirio forsennato23. Per limitarci al caso della Pizia, Plutarco attesta l'emozione che si impadronisce della profetessa ogni qual volta si accosta al tripode24, ma identifica anche l'armonia della temperie profetica con un influsso senza danno n turbamento, privo di qualsiasi eccesso in materia di estasi e di possessione25. In un altro passo, poi, lo scrittore considera apertamente lo stato di delirio come indizio di un cattivo funzionamento del rituale di consultazione. Plutarco parla di una Pizia che era stata costretta dai sacerdoti a scendere nell' contro la sua volont, nonostante presagi negativi: la capra, scelta come vittima del sacrificio preliminare, aveva tremato solo dopo essere stata quasi affogata dagli officianti. Brutto segno quest'ultimo, cui tuttavia i sacerdoti avevano deciso di non dare troppo peso per non deludere i consultanti venuti da molto lontano. Ma leggiamo che cosa era accaduto alla Pizia indisposta a ricevere l'afflato profetico del dio: Subito, fin dalle prime risposte, risult chiaro, dal tono aspro della sua voce ( ), che non si era ancora ripresa posseduta da un'ispirazione muta e maligna, come nave sbattuta dalle onde. Alla fine, completamente sconvolta, si lanci verso l'uscita con un grido insensato e spaventoso ( ), e cadde a terra. I consultanti allora fuggirono, e insieme a loro anche il profeta Nicandro e tutti i sacerdoti presenti. La Pizia, ripresasi a fatica, non sopravvisse che pochi giorni26.

    Storico o meno che sia, l'episodio testimonia la convinzione che un forte delirio e una voce disarticolata non possano che produrre il fallimento della consultazione27. Ma non si tratta solo di questo. Commentando il passo appena citato del De defectu oraculorum, Georges Roux osserva: Tutto avviene come se i testimoni della scena constatassero lo stato di crisi della Pizia solo in base a ci che sentono, e non in base a ci che vedono28. Il profeta Nicandro e tutti i sacerdoti presenti inferiscono, infatti, che la Pizia era posseduta da un'ispirazione muta e maligna, non da eventuali gesti scomposti e isterici, ma dal tono aspro della sua voce, seguito da un grido insensato e spaventoso. Mentre la Pizia di Lucano associa a gemiti e mormorii confusi una lunga serie di azioni che ne testimoniano la possessione, in Plutarco l'attenzione si concentra sulla voce della profetessa, il cui tono aspro segno di indisposizione. Se poi da Plutarco allarghiamo il nostro campo di indagine al resto del corpus, ci accorgiamo che

    22 SISSA 1987, p. 31. Cfr. anche la descrizione senecana di Cassandra (Ag. 710-719). Sui rapporti tra Pizia e Sibilla si veda CHIRASSI COLOMBO 1996, pp. 439-444. 23 CATENACCI 2001, pp. 145-147. Cfr. anche MAURIZIO 1995, pp. 69-86 e JAILLARD 2007b, pp. 61-82. 24 Plut. Amat. 759B; 763A. 25 Plut. De def. orac. 436F-437A. 26 Plut. De def. orac. 438A-B. 27 L' si determina solo quando lo oracolare si mescola armoniosamente alla della profetessa; in caso contrario, esso causa di sconvolgimento (Plut. De def. orac. 438A-B). Cfr. BARRA-SALZDO 2007, pp. 207 ss. 28 ROUX 1976, p. 149.

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  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 12

    pressoch in tutta la tradizione greca la Pizia appare essenzialmente come voce29. Insomma, mentre nella Farsaglia la Pizia risulta dotata di quello che gli antropologi chiamano un corpo performativo, un corpo i cui atteggiamenti rivelano la funzione, nel nostro caso profetica, del soggetto, nei testi greci la performativit del corpo della Pizia risiede piuttosto nella sua voce. Tranne che sedersi sul tripode prima di emettere il vaticinio, la Pizia fa ben poco se non parlare, al punto che molti studiosi hanno ipotizzato che la profetessa fosse invisibile al consultante, che ne ascoltava unicamente la voce, o che gli autori antichi non ne descrivano i comportamenti ritenendoli un dato scontato per i lettori30. N l'una n l'altra ipotesi mi sembrano necessarie. Il confronto tra il testo di Lucano e le testimonianze greche mostra, infatti, che ci troviamo piuttosto di fronte a diversi codici di rappresentazione e a differenti scelte culturali, legate a sistemi di pensiero irriducibili l'uno all'altro: mentre il poeta romano sceglie consapevolmente di mettere in primo piano i gesti isterici della Pizia, presentandola soprattutto come corpo gesticolante, gli autori greci scelgono altrettanto consapevolmente di porre l'accento sulla voce della profetessa e, come traspare chiaramente da Plutarco, sul tono di quella voce, sulle sue differenti modulazioni.

    La scelta culturale degli autori greci, peraltro, non ha in s nulla di sorprendente. Come dimostra infatti l'indagine antropologica, la voce intesa come vocalit, come tipo di vocalit, oltre che come parola o linguaggio, , insieme o in alternativa ad altri gesti del corpo, uno dei possibili indicatori semantici chiamati a testimoniare non solo la funzione del profeta in quanto interprete della volont divina, ma anche la trasparenza, la fedelt con cui quegli trasmette la rivelazione ricevuta dal dio31. In altri termini, poich la parola del profeta sempre una parola delegata, la parola di un funzionario umano che presta la voce a una fonte appartenente alla dimensione dell'extra-ordinario32, proprio la voce e la vocalit appaiono nella documentazione antropologica come segni che, agli occhi del consultante, evidenziano e garantiscono l'ispirazione/possessione del profeta, testimoniando come attraverso quel corpo, attraverso quella voce, sia in qualche modo la stessa potenza divina a parlare.

    Alla luce di tali considerazioni riteniamo pertanto di poter aggiungere all'elenco di domande proposte da Vernant almeno altre tre questioni: che tipo di vocalit attribuito dalle fonti greche alla Pizia? Concorre il tono di voce della profetessa a segnalare che in quel momento sia proprio Apollo a parlare attraverso di lei? E come funziona questa attribuzione di voce? O meglio, come la rappresentano gli antichi? Precisiamo che in questo caso ci troviamo pur sempre di fronte a rappresentazioni indipendenti dal rito. Nella prassi rituale, infatti, simili

    29 SISSA 1987, pp. 12-17. 30 Cfr. ad esempio SISSA 1987, pp. 16-17 e CATENACCI 2001, p. 144. 31 Cfr. ad esempio RETEL-LAURENTIN 1974, pp. 325-328 a proposito delle tecniche divinatorie praticate presso gli Nzakara della regione di Bangassou (Repubblica Centrafricana). Parlando del posseduto dagli spiriti (ba do nganga), la studiosa osserva: L'uomo che sogna o che danza un messaggero []. Egli trasmette ci che ha ricevuto personalmente; ma, se la sua rivelazione non chiara, sar trattato da cattivo interprete. Il posseduto trasmette [] la comunicazione che ha avuto con lo spirito [] in termini udibili e sensati; allo stesso modo, la lucidit dello sfregatore di legni [ba sa iwa] la garanzia della sua "trasparenza", cio della fedelt con cui trasmette la rivelazione di Iwa; il suo carattere equilibrato, la sua socievolezza e gaiezza testimoniano l'attendibilit del responso divino, riferito in modo chiaro e senza ambiguit. Cfr. anche ZEMPLENI - ADLER 1972, pp. 99-100: presso i Moundang del Ciad, gli spiriti del luogo comunicano direttamente dall'aldil i propri responsi attraverso la voce delle profetesse (possessione vocale). 32 Sulla categoria di parola delegata cfr. PETRARCA 2004, pp. 117-147; 167-179.

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    problemi semplicemente non si pongono: in primo luogo, perch alla Pizia basta rispondere a una domanda strutturata in forma di alternativa; in secondo luogo, perch interviene la credenza che attraverso la Pizia sia Apollo a parlare. Sebbene non si possa escludere che nella consapevolezza comune il ruolo autonomo della profetessa fosse presente (cos sembrano indicare, ad esempio, i vari tentativi attestati di corruzione della Pizia)33, il fatto che per tutta l'antichit classica le espressioni la Pizia vaticin e Apollo vaticin si alternino nella letteratura oracolare senza distinzione e che in molti oracoli pitici il dio parli addirittura in prima persona34, sembra indicare che chi va a Delfi convinto di ascoltare attraverso la Pizia la voce di Apollo e di dialogare direttamente col dio. In altre parole, il consultante non si pone il problema della distinzione tra soggetto dell'enunciato e dell'enunciazione. Simili questioni si pongono solo per gli scrittori impegnati a forgiare l'immagine letteraria della Pizia e per gli intellettuali che, nella tarda antichit, iniziano a riflettere sulla propria cultura, in un'epoca in cui il tramonto degli oracoli rende necessario uno sforzo di comprensione finalizzato a spiegare e/o riaccreditare pratiche sociali ormai in crisi. solo allora che la credenza non basta pi e sar pertanto necessario ricorrere alla filosofia, ovvero a certi modelli culturali, per giustificare l'ispirazione apollinea della Pizia35. Precisato questo, passiamo ad analizzare la nostra prima questione: che tipo di vocalit attribuito dalle fonti antiche alla Pizia?

    3. VOCE E ISPIRAZIONE DIVINA La pi antica testimonianza relativa al tono di voce della profetessa risale a Pindaro, al passo della Pitica 4 in cui il poeta parla del vaticinio reso a Batto: L'oracolo dell'ape delfica36, col suono spontaneo della sua voce ( ), a te gridando (), tre volte il saluto ti rivel predestinato re di Cirene, mentre chiedevi agli di quale fosse il riscatto al balbettio della tua voce37. Chiariamo subito una cosa. Quando Pindaro parla della voce spontanea () della Pizia, non intende dire che la profetessa avrebbe risposto indipendentemente da Apollo, ovvero in modo indipendente dall', l'ispirazione, del dio, ma in modo indipendente rispetto alla domanda ricevuta. Come nota lo scolio, Batto chiede alla Pizia come riscattare la sua voce balbettante, e la Pizia gli risponde che sarebbe divenuto re di Cirene. Insomma, Batto chiede alla profetessa una cosa, e la Pizia gli risponde tutt'altro, anche se solo apparentemente. Il destino regale di Batto era, infatti, gi scritto nel suo stesso nome: balbettante in greco (), ma re () in libico. Sar dunque il regno della libica Cirene il riscatto della balbuzie di Batto, o forse proprio la sua balbuzie a fare di Batto il re della citt. In ogni caso, concentriamoci adesso sul termine , usato da Pindaro per indicare il tono di voce della Pizia.

    33 Hdt. 5. 63 e 90; 6. 66 e 123; Thuc. 5. 16; Plut. Lys. 25. 3; Paus. 3. 4. 3. 34 Gli oracoli pitici sono editi da PARKE - WORMELL 1956. 35 Cfr. BURKERT 1996, pp. 11-28; SFAMENI GASPARRO 1996, pp. 157-188; JAILLARD 2007a, pp. 149-169. 36 Si tratta con ogni probabilit di un titolo che allude alla funzione profetica della Pizia, se si tiene conto degli stretti legami che nel pensiero antico uniscono miele, api e divinazione: l'indovino Iamo fu nutrito con l'innocuo veleno delle api (Pind. Ol. 6. 45-47); a Lebadeia, in Beozia, il luogo dove sorgeva l'oracolo di Trofonio era stato indicato da uno sciame di api (Paus. 9.40.2); l'oracolo di Hermes, posto sotto la gola del Parnaso, si esprimeva attraverso la direzione del volo delle api (Hymn.Hom.Merc. 552-566). Oltre che alla Pizia, il titolo cultuale di api () attribuito alle sacerdotesse di Demetra, Artemide e Cibele (schol. Pind. Pyth. 4. 60; Porph. Antr. 18; Lact. Inst. 1. 22). 37 Pind. Pyth. 4. 60-63.

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  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 14

    In greco, , rumore, indica il fruscio del vento, il fragore delle acque che scorrono, il suono musicale di strumenti come la lira, il flauto e la siringa, il tono acuto, elevato, della voce divina (), di un inno cantato alla divinit, di un grido di approvazione o del pianto di un neonato38. Utilizzato in riferimento alla Pizia, il termine allude pertanto alla voce alta e sonante della profetessa39, simile a un rimbombo ()40. Le caratteristiche della voce della Pizia sono precisate poi dal verbo con cui Pindaro designa l'atto dell'enunciazione del vaticinio. Il verbo, generalmente ricollegato a (canto)41, indica che la profezia della Pizia una profezia cantata, pronunciata con voce armoniosa, articolata, intellegibile e dal timbro alto: 42.

    Le altre testimonianze in nostro possesso sulla voce della Pizia non fanno altro che confermare in sostanza la rappresentazione pindarica. Ad esempio, uno dei termini meglio attestati per indicare gli oracoli della Pizia , dorico , discorso o canto a voce alta, accompagnato per lo pi dal suono del flauto43: nello Ione di Euripide la Pizia siede presso il tripode delfico, cantando () ai Greci i vaticini () che Apollo le ispira ()44. Ancora una volta, dunque, la voce della Pizia una voce dal tono elevato (), che si esprime in versi (). Plutarco paragona la Pizia disposta a ricevere l'afflato profetico a uno strumento musicale ben accordato e risonante: 45. Lo scoliasta ad Aristofane e la Suda confermano il tono maestoso e solenne della voce della profetessa affermando che parlava alla maniera degli attori tragici ( )46. Come si pu notare dagli esempi citati, la tradizione letteraria fissa, a partire da Pindaro, un vero e proprio canone della voce profetica, rispetto a cui siamo in grado di comprendere meglio certe questioni affrontate da Plutarco nei cosiddetti Dialoghi pitici.

    Plutarco47 afferma che si rimprovera alla Pizia di vaticinare in prosa e che la sua voce meno armoniosa di quella della citarista Glauce: . Il verbo in associazione con indica un suono chiaro e piacevole, proprio dello strumento a corde come la , la cetra, ma anche della vocalit seducente di Muse e Sirene48. Si rimprovera insomma alla voce della Pizia di non aver pi il tono limpido e poetico riconosciutole dalla tradizione: di non risuonare al pari di una tragedia sulla scena [...] in versi ricchi di gravit [] accompagnati dal suono del flauto49. Per questo molti sostengono che gli oracoli, scorretti e prosaici, della profetessa non possono essere ispirati da Apollo, il dio citaredo, patrono delle Muse e della poesia. Alcuni arrivano addirittura ad affermare che Apollo andato via da Delfi.

    38 LIDDELL - SCOTT 19969, s.v. , e . 39 GENTILI ET AL. 1995, p. 446. 40 Cfr. Plut. De def. orac. 437D; Nonn. D. 9. 270. Cfr. CRIPPA 1998, p. 172. 41 FRISK 1960, s.v. ; CHANTRAINE 1968, s.v. . 42 Cfr. CRIPPA 1998, pp. 166-167. In Omero indica sia una parlata umana, un discorrere comprensibile sia la voce di Circe e Calipso, dee che dialogano direttamente con gli uomini, senza bisogno di assumerne aspetto e apparato fonico (BETTINI - FRANCO 2010, pp. 144-149). 43 Schol. Ar. Av. 857; Suda s.v. . 44 Eur. Ion 91-93. 45 Plut. De def. orac. 437D. 46 Schol. Ar. Pl. 9; Suda s.v. . 47 Plut. De Pyth. orac. 397A. 48 Cfr. CHIRASSI COLOMBO 1996, pp. 440 ss.; CARASTRO 2006, pp. 101-159. 49 Plut. De Pyth. orac. 405D.

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    A dispetto di tali affermazioni, Plutarco costretto a porsi per la prima volta il problema della distinzione tra soggetto dell'enunciazione e dell'enunciato: a chi appartiene la voce oracolare, ad Apollo o alla Pizia? Fino a quel momento, come abbiamo visto, il problema non si era mai posto in virt della credenza che a parlare attraverso la Pizia fosse il dio in persona. Ora invece proprio la credenza che la Pizia sia la voce di Apollo ad essere messa in discussione per l'espressione sciatta e prosastica della profetessa. E pertanto Plutarco si trova nella necessit di spiegare come Apollo possa ispirare oracoli che ormai non hanno pi nulla di poetico n di armonioso.

    Lo scrittore afferma allora che l'ispirazione e l'impulso a profetizzare vengono da Apollo, del processo divinatorio, mentre la voce, la pronuncia, lo stile e il metro appartengono alla Pizia50: come Eros non infonde () la facolt () poetica e musicale, ma, quando questa ci sia, la muove () e la riscalda, infiammando sia i poeti che hanno scritto versi sia i filosofi che hanno composto discorsi sull'amore, cos l'entusiasmo profetico, come quello amoroso, si avvale della facolt () gi esistente e muove () ognuno di quelli che l'accolgono secondo la sua propria natura51. Apollo dunque non detta alla Pizia gli oracoli, come un attore che parla attraverso la maschera52, ma si limita a dare l'impulso all'ispirazione, che ogni profetessa rielabora poi secondo la sua personale disposizione, in versi o in prosa. E se gli oracoli nel II secolo d.C. sono ormai quasi unicamente in prosa, perch la Pizia figlia del suo tempo, figlia di un'epoca che preferisce la prosa alla poesia, in cui anche altri generi letterari, come la storia e la filosofia, hanno abbandonato il verso, preferendo lo stile semplice e colloquiale a quello grandioso ed eloquente, la chiarezza didascalica allo stupore53. Questi continui paralleli che Plutarco istituisce con la letteratura erotica, storica e filosofica, sono molto eloquenti. Dimostrano, infatti, che gli oracoli di cui Plutarco tratta non sono i responsi emessi dalla Pizia nell'ambito del rito di consultazione, ma i esametrici che circolavano sin da epoca arcaica e classica sotto il nome della Pizia e che costituiscono uno dei generi letterari meglio attestati dell'antichit greca54. Questi oracoli cio non erano responsi effettivamente emessi dalla profetessa di Delfi, ma testi poetici cantati in occasione di riunioni e banchetti, in cui si immaginava, a mo' di esercizio letterario ma anche come garanzia di autorit, che fosse la Pizia a parlare, e se ne ricostruivano voce e linguaggio in base a certi modelli propri del genere.

    Certo, si potrebbe obiettare che, per giustificare gli oracoli sciatti e prosaici, Plutarco fa riferimento, oltre che alla temperie letteraria del II secolo, anche alla cultura tutt'altro che raffinata della Pizia del tempo55, quasi come se le Pizie del passato fossero state molto di pi di donne oneste e irreprensibili. In questo caso, comunque, bisogna tener presente che il

    50 Plut. De Pyth. orac. 397C. Secondo Giamblico, invece, la Pizia, quando posseduta da Apollo, diventa tutta del dio (De myst. 3. 11). Cfr. BURKERT 1996, pp. 20-21. 51 Plut. De Pyth. orac. 405D-406B. Cfr. anche De Pyth. orac. 397B. 52 Plut. De Pyth. orac. 404B. Cfr. anche De def. orac. 414E: assurdo e puerile credere che il dio stesso, come i ventriloqui soprannominati un tempo Euricli e oggi Pitoni, entri nel corpo dei profeti e parli servendosi della loro bocca e della loro voce come strumenti. Sulla voce del ventriloquo si veda l'articolo di Tommaso BRACCINI all'interno di questo stesso volume. 53 Plut. De Pyth. orac. 406C-E. 54 Sulla letteratura cresmodica cfr. GAGN 2013, pp. 95-109. 55 Plut. De Pyth. orac. 405C.

    PRESTARE LA VOCE

  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 16

    riferimento alla Pizia storica non mira alla ricostruzione di una realt cultuale, ma piuttosto funzionale alla dimostrazione della tesi plutarchea sull'ispirazione autenticamente apollinea degli oracoli in prosa. Plutarco s sacerdote di Apollo a Delfi, ma anche un platonico, un Accademico per nulla disposto a rinunciare all'interpretazione filosofica del procedimento oracolare56. Lo scrittore sostiene allora che la Pizia lo strumento musicale () di Apollo, e che il dio si serve dell'ispirazione profetica ( ) a mo' di plettro () per pizzicare la della sua profetessa come si pizzicano le corde di uno strumento57. Il riferimento al plettro suggerisce che lo strumento cui Plutarco paragona la Pizia sia uno strumento a corde sul modello della cetra58. Pi avanti, infatti, lo scrittore precisa che, se Apollo pizzica il suo , ai demoni, platonicamente intesi come sorveglianti, guardie e custodi dell'armonia della temperie profetica59, spetta invece il compito di accordare lo strumento, ora allentandone le corde (), ora facendole pi tese ()60, proprio come si fa con l'arco o la cetra. Ma perch fare della Pizia la cetra di Apollo nel contesto di un discorso volto a riaccreditare la cresmodia di ambientazione delfica?

    La risposta risiede con ogni probabilit nello stesso obiettivo per cui Plutarco ha forgiato il dispositivo culturale della Pizia/cetra: sostenere l'ispirazione apollinea della profetessa ignara di lettere del suo tempo, ovvero degli oracoli in prosa. La definizione platonizzante dei rapporti tra dio e profetessa dimostra, infatti, che il carattere scorretto e prosastico degli oracoli non imputabile ad Apollo, dio del canto e della musica, ma al suo strumento e ai suoni pi o meno piacevoli che pu emettere. Attraverso l'immagine della Pizia/cetra, Plutarco dimostra cio che Apollo sempre a Delfi e continua sempre, da buon citaredo, a suonare la sua cetra: il problema piuttosto che la cetra, ovvero la Pizia, ormai scordata.

    4. UN PAESAGGIO SONORO La riflessione plutarchea sui rapporti Pizia/Apollo non una sorta di parola ultima e definitiva su un problema ormai destinato a scuotere la credenza negli oracoli, quanto piuttosto uno dei tentativi attestati nella tarda antichit di spiegare e/o riaccreditare una pratica sociale in crisi. Come facile immaginare, non sono mancati altri tipi di spiegazione o di interpretazione, alcuni dei quali presenti ancora in Plutarco accanto all'immagine della Pizia/cetra e a conferma del carattere provvisorio del modello: la Pizia rifletterebbe in forma pi o meno precaria i pensieri di Apollo come la luna riflette la luce del sole61; oppure la Pizia, ingravidata dall'ispirazione profetica, partorirebbe i responsi del dio62. A guisa di conclusione, preferiamo tuttavia mettere un po' da parte Plutarco e concentrarci su una differente rappresentazione della procedura di interrogazione oracolare, documentata da Nonno di Panopoli, in Egitto.

    56 Sulla posizione culturale di Plutarco, a met strada tra religiosit tradizionale e formazione filosofica, cfr. gli articoli citati a n. 35. 57 Plut. De def. orac. 436E-F; cfr. anche 437D. 58 Gi Aristotele attribuisce alle donne una vocalit acuta, simile al suono prodotto dagli strumenti musicali con corde sottili, dall'eco e dai bronzi (Pr. 11. 16; 34. 62). 59 Sulla demonologia plutarchea cfr. SANTANIELLO 1996, pp. 357-371. 60 Plut. De def. orac. 436F-437A. 61 Plut. De Pyth. orac. 404D. Cfr. SISSA 1987, pp. 17-24; CHIRASSI COLOMBO 1996, pp. 444-447; CRIPPA 1998, pp. 179-180. 62 Ps.-Longin. Subl. 13. 2; schol. Ar. Pl. 39. Plutarco paragona la Pizia alla sposa, che offre al suo dio un'anima vergine e pura (De Pyth. orac. 405C-D). Cfr. SISSA 1987, pp. 32-44.

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  • CARMINE PISANO 17

    Vissuto intorno al V secolo d.C. e forse convertitosi al cristianesimo, o almeno cos sembra indicare la sua Parafrasi in versi del Vangelo di Giovanni, Nonno un personaggio che vive al confine, per dirla con Dan Sperber63, tra esegesi e interpretazione, nello stesso tempo dentro e fuori: ancora dentro la cultura greca ma nello stesso tempo abbastanza fuori da essa per sentire il bisogno di esplicitare ai suoi lettori il significato di certe rappresentazioni culturali. Nella fattispecie, Nonno sembra aver sentito il bisogno di spiegare l'autorit della parola oracolare delfica, chiarendo nello stesso tempo la portata culturale di certe affermazioni piuttosto comuni nei testi antichi. Per essere pi precisi, gli scrittori greci usano spesso espressioni che sembrano attribuire ai diversi elementi dell'antro pitico una propria voce. La fonte Castalia descritta come l'acqua parlante ( )64. Del tripode, su cui la Pizia sedeva, si dice addirittura che sembrava dialogare direttamente con i consultanti, come era accaduto per esempio ad Apollonio di Tiana65: la parte concava del recipiente, quella su cui la profetessa trovava posto, era detta del resto , termine tecnico usato per definire l'imboccatura del flauto, a conferma del carattere sonoro dell'artefatto66. Lo stesso antro profetico doveva apparire luogo di echi e rimbombi, se si considera che il termine greco che lo definisce, 67, risulta apparentato al verbo (soffio attraverso il naso, sbuffo, brontolo, sospiro, gemo) e ai sostantivi (mormorio, gemito, rantolo) e (gemito, strepito, urlo)68. Insomma, i vari elementi dell' oracolare, in associazione alla Pizia, sembrano delineare le coordinate acustiche di un complesso paesaggio sonoro. Ma ecco finalmente quello che dice Nonno.

    In un primo passo delle Dionisiache, la Pizia, vergine dalla voce divina () rappresentata nell'atto di amplificare () l'eco straniera ( ) della voce sotterranea ( )69. Il verbo , legare, stringere, serrare, appartiene al lessico tecnico della musica: il suo composto indica l'azione di stringere l'ultima corda ( ) dello strumento per renderne il suono pi acuto, pi elevato70. L'uso di in relazione alla voce della Pizia ne conferma dunque la tonalit alta insistendo, sulla scia di Plutarco, sulla comparazione tra la profetessa e lo strumento a corde. Nel testo di Nonno, tuttavia, compare anche un importante elemento di novit: gridando (), la Pizia rende pi acuta, amplifica () l'eco prodotta dall' (cui allude l'aggettivo sotterranea attribuito alla della profetessa), che funziona come una vera e propria cassa di risonanza.

    Le sonorit dell'antro oracolare prendono pienamente il sopravvento sulla voce della Pizia in un secondo passo delle Dionisiache, in cui si afferma che ai cittadini riuniti [i Delfi] la rocca dalla voce divina () della Pizia interprete del dio () risuonava () e il tripode dotato di parola propria (), l'acqua parlante () di Castalia, la fonte mai

    63 SPERBER 1974, pp. 19-51. 64 Passio S. Artemii 35D. La Passio ci ha conservato il testo dell'ultimo oracolo pitico conosciuto, reso nel 362 d.C. agli emissari dell'imperatore Giuliano: Dite all'imperatore: al suolo precipitata la corte adorna; Febo non dimora pi qui, n l'alloro profetico, n la fonte loquace, anche l'acqua parlante si essiccata. 65 Suda s.v. . 66 LIDDELL - SCOTT 19969, s.v. . Sulla voce attribuita a statue e artefatti cfr. SEVERI 2009, pp. 11-41 e l'articolo di Giuseppe PUCCI all'interno di questo stesso volume. 67 Aesch. Eum. 39; 180; Eur. Tr. 952. 68 Sul linguaggio dei suoni cfr. BETTINI 2008. 69 Nonn. D. 9. 270-271. 70 Ael. VH 9. 36.

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  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 18

    silenziosa (), ribolliva () attraverso le sagge correnti71. Mentre nel passo precedente l'accento cade ancora sulla voce della Pizia, che fa risuonare l'antro oracolare amplificandone l'eco, ora l'attenzione si sposta decisamente sul contesto sonoro che circonda i consultanti. I suoni che essi ascoltano (il risuonare della rocca e del tripode , il ribollire delle correnti della loquace fonte Castalia) riuniscono in una vera e propria costellazione acustica i vari elementi del paesaggio sonoro dell', spesso citati isolatamente nelle fonti, delineando il contesto che fa da preludio all'ascolto della parola divina. Il vaticinio della Pizia non riferito n descritto. Nonno si ferma un attimo prima. L'autore si limita a ricostruire i contorni di uno spazio fuori dal comune, in cui l'attribuzione di una propria voce a elementi naturali e artefatti ha la funzione di accrescere il valore eccezionale dell'esperienza della comunicazione con Apollo. Carmine Pisano

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    PRESTARE LA VOCE

  • LA VOCE DELLA PIZIA: TRA MITO, RITO E ANTROPOLOGIA 20

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    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014)

  • TOMMASO BRACCINI

    PERIPHEREIN TON DAIMONA: LA VOCE DEL VENTRILOQUO1

    In una voce non firmata presente nel trentacinquesimo e ultimo volume dell'Enciclopedia italiana (1937), la ventriloquia definita come

    l'arte di emettere suoni e parole in modo che sembrino avere una origine diversa dall'apparato vocale di chi effettivamente li produce. In antico si credeva che, in tal modo di parlare, lo stomaco o il ventre avesse una speciale importanza: da ci il nome. Si tratta invece di un funzionamento particolare dell'apparato vocale: le labbra vengono tenute quasi immobili e semichiuse; della lingua solo l'estremit viene mossa; la glottide abbassata, la voce emessa in tono profondo e nasale, il respiro rattenuto e l'espirazione rallentata. Con un'appropriata mimica, mediante l'uso di fantocci, di animali, ecc., l'illusione riesce in molti casi perfetta. []

    Si tratta, insomma, di una forma particolare di illusionismo (numero di variet, come prosegue la voce dell'Enciclopedia italiana). Il ventriloquo finge di non parlare affatto, e presta la sua voce a un animale o un pupazzo, producendo cos la straniante impressione che sia quest'ultimo a discorrere. I termini ventriloquo e ventriloquia, ci informano i dizionari etimologici, entrano in italiano a partire dal Settecento, ma ventriloquus esiste gi nel latino di un padre della Chiesa, Tertulliano. Questa pratica di illusionismo fonico, affermano enciclopedie e dizionari, era infatti ben nota anche nell'antichit, nella quale in ambito greco gi Aristofane e Platone conoscevano gli engastrimuthoi (coloro che parlano nel ventre). Senz'altro ci risulta in larga parte condivisibile dal punto di vista strettamente fisiologico; resta da vedere, tuttavia, se la percezione della ventriloquia da parte degli antichi possa essere effettivamente messa in parallelo con quella dei moderni, e se sia opportuno estendere al passato una ricezione che vede il fenomeno essenzialmente come intrattenimento. Le prime testimonianze antiche sugli engastrimuthoi ci giungono dall'ambito medico, e risultano caratterizzate da un atteggiamento pragmatico: viene riferito il fenomeno, senza alcuna interpretazione. Si pu pensare in particolare a due passi che compaiono nelle Epidemie del Corpus Hippocraticum, in due sezioni sostanzialmente identiche (5. 1. 63 e 7. 1. 28) datate generalmente alla met del IV secolo a.C2. Qui si fa riferimento a donne affette da angina

    1 Desidero ringraziare Maurizio Bettini per l'invito iniziale a riflettere su questo tema, e per aver poi contribuito generosamente, nel corso di conversazioni e scambi epistolari, a chiarirne le implicazioni e la portata. 2 Cfr. almeno CONNOR 2000, p. 50; TORALLAS TOVAR - MARAVELA-SOLBAKK 2001, pp. 419-420.

    PRESTARE LA VOCE

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014), pp. 21-33

  • TOMMASO BRACCINI 22

    tonsillare, e il cenno deriva dal fatto che alcune pazienti respirano con difficolt facendo un leggero rumore (hupopsophein)3:

    , , 4 E riprendeva fiato come quelli che riemergono dall'acqua, ed emetteva un leggero rumore dal petto, come le cosiddette engastrimuthoi

    Il rapidissimo cenno rimanda soltanto al suono emesso dalle ventriloque (si pu pensare alla voce emessa in tono profondo e nasale ricordata nella definizione dell'Enciclopedia italiana), ma non fornisce altre precisazioni. Il termine engastrimuthoi aveva in seguito suscitato l'interesse di Galeno, che cos lo chiosa nel suo Glossario ippocratico (19. 94. 10-11 K.):

    : , . Engastrimuthoi: coloro che parlano con la bocca chiusa e sembrano parlare dallo stomaco.

    Si tratta di una definizione semplice e nitida, che probabilmente troverebbe d'accordo anche gli specialisti attuali. C' tuttavia un aspetto da sottolineare: dalle parole di Galeno (sembrano parlare dallo stomaco), cos come dal nome stesso di engastrimuthos, emerge che a differenza dei suoi colleghi moderni il ventriloquo o la ventriloqua antichi non prestano la voce ad oggetti inanimati o esseri non parlanti, ma in un certo senso la introiettano e la fanno risuonare dalle proprie viscere. Una prima cesura tra la nostra ventriloquia e quella del passato consiste proprio nell'assenza di quello che oggi l'accessorio indispensabile dell'illusionista, ovvero la marionetta alla quale prestare la voce. L'uso di pupazzi, infatti, pare documentato esclusivamente a partire dal Settecento. La prima testimonianza sarebbe quella dell'abate Jean-Baptiste de la Chapelle, autore de Le ventriloque, ou l'engastrimythe (1772), che racconta di aver scambiato lettere con un ventriloquo tedesco (noto come Barone di Mengen), e di averne conosciuto personalmente un altro, un ortolano parigino di nome Saint-Gille, che faceva uso di un fantoccio per i suoi spettacoli5. Nel mondo greco e romano non sembra attestato nulla di simile: la fonazione dell'engastrimuthos proviene da una sede inusuale che tuttavia non estranea alla persona, ma interna ad essa.

    Il ventriloquo dell'antichit, dunque, in un certo senso non dissimula la propria fonazione trasferendo la parola a quel che muto; si esprime anzi in prima persona, ma per mezzo di organi che normalmente non sono deputati alla parola. E proprio a causa di questa apparente impossibilit prendeva sviluppo un particolare approccio verso la ventriloquia, attestato molto diffusamente nell'antichit classica e non solo.

    3 TORALLAS TOVAR - MARAVELA-SOLBAKK 2001, p. 420, notano che quest'affezione produce uno spasmo dei muscoli della mascella che rende difficile parlare. 4 Si tratta del testo di Epidemie 5. 1. 63; cfr. il quasi coincidente dettato di 7.1.28: , , . 5 Cfr. CONNOR 2000, pp. 209-225, 250. Come mi fa notare Carlo Severi, che qui ringrazio, con gille in francese si pu indicare una maschera carnevalizia che, anche sotto forma di marionetta, pu rappresentare il tonto (niais).

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  • PERIPHEREIN TON DAIMONA: LA VOCE DEL VENTRILOQUO 23

    Come punto di partenza si pu prendere un celebre passo delle Vespe di Aristofane (vv. 1015-1020), nel quale il poeta si rivolge direttamente al pubblico, rivelando di aver fatto rappresentare le sue prime commedie sotto nome altrui (per la precisione, quello di Callistrato):

    , , , . . ' ' , , Ora, gente, fate attenzione, se amate la schiettezza. Il poeta adesso vuole rivolgere un rimprovero a voi spettatori. Dice che l'avete trattato ingiustamente, lui che prima vi aveva fatto tanto bene: in principio non apertamente ma aiutando di nascosto altri poeti, imitando l'arte divinatoria di Euricle, si insinuato nel ventre di altri e ne ha riversato un mare di comicit

    Il riferimento chiarito dagli scolii al v. 1019:

    : . , , . . , . L'arte divinatoria di Euricle: si dice che costui, in qualit di engastrimuthos, profetizzasse il vero ad Atene per mezzo del daimon che era dentro di lui. Anche il poeta, a quanto dice, si serv di questa modalit utilizzando altri come portavoce6 nelle sue commedie; come se avesse detto agendo come coloro che hanno un agathos daimon dentro di s. In seguito a ci tutti coloro che profetizzavano erano chiamati engastritai ed Euriclidi, da Euricle che per primo fece ci.7

    Il brano delle Vespe fa risaltare quello che nell'antichit era uno dei ruoli principali del ventriloquo, ovvero quello di indovino (non dunque un semplice entertainer come adesso!), e implicitamente fornisce una risposta all'aporia accennata in precedenza: dal momento che la voce del ventriloquo sembra uscire da lui ma non dalla sua bocca, si finisce per ritenere che esca dalla bocca di qualcun altro situato all'interno del ventriloquo, nella fattispecie un daimon8.

    6 Visto il contesto, portavoce mi pare preferibile a servitore come traduzione di diakonos. Questo termine del resto utilizzato per indicare il messaggero soprattutto in ambito teatrale: cfr. p.e. A. Pr. 942, S. Ph. 497, Ar. Ec. 1116, ma anche Demostene, In Timocratem 197. 7 Sul passo, e su varie interpretazioni che ne sono state date, cfr. in ultimo TORALLAS TOVAR - MARAVELA-SOLBAKK 2001, pp. 433-434. 8 L'aspetto controintuitivo che chiama in causa l'interpretazione sovrannaturale, occorre ribadire, dato dal fatto che non si concepisce un'emissione di voce al di fuori della bocca, tantomeno dal ventre. Questo induce a considerare con estrema cautela le affermazioni di KATZ - VOLK 2000, pp. 126-127, 129, per i quali l'esistenza degli engastrimuthoi dimostrerebbe che nell'antichit il ventre poteva essere considerato an entity capable of issuing intelligent, even

    I QUADERNI DEL RAMO DORO ON-LINE n. 6 (2013/2014)

  • TOMMASO BRACCINI 24

    Gi un secolo fa, nel pieno fervore del comparativismo ci si era resi conto che in effetti la ventriloquia comunemente associata, presso molte culture, con la possessione da parte di spiriti o demoni, e questo sembra parallelo alle speculazioni associate all'indovino Euricle9. Ci spinse Dodds ad affermare con molta decisione che gli engastrimuthoi antichi erano semplicemente dei posseduti in guisa di medium in trance, e non avevano molto a che vedere con i ventriloqui moderni10. Quello di Aristofane, del resto, non l'unico riferimento ad Euricle; ne parla per esempio anche Platone nel Sofista, quando fa dire allo straniero di Elea (252C), in polemica contro coloro che non permettono di chiamare una cosa in base alla comunanza che essa ha con l'affezione di un'altra cosa:

    , , . non hanno bisogno di altri che li confutino, ma avendo, come si suol dire, in casa il nemico che li contraster, viaggiano sempre portandolo in giro mentre parla dentro di loro come il bizzarro Euricle.

    C' qualcun altro che parla dentro il ventriloquo, dunque. La formulazione del testo platonico, peraltro, presenta una difficolt: il bizzarro Euricle espresso all'accusativo, dunque apparentemente dovrebbe costituire il complemento oggetto di peripherontes, che qui abbiamo tradotto portando in giro. Ci ha indotto alcuni a ritenere che con il nome di Euricle qui non si indichi tanto l'indovino, quanto il demone che viene trasportato dentro di lui11; un'interpretazione di questo tipo si scontra tuttavia con gli scolii, che in maniera assai limpida spiegano cos il passo:

    , . Euricle infatti sembrava avere un daimon nello stomaco, che su suo comando gli riferiva degli avvenimenti futuri; per questo motivo veniva chiamato engastrimythos.

    Come spiegare allora la presenza dell'accusativo? Si potrebbe pensare ad una sorta di attrazione, ma a patto di non intenderla come un fenomeno puramente meccanico. In realt l'impressione che lo slittamento della menzione di Euricle all'accusativo, se davvero, come affermano con certezza gli scolii, con questo nome si indicava l'indovino, sia dovuta al fatto che pi o meno

    inspired, speech, al punto che l'epiteto di gasteres rivolto dalle Muse ai pastori all'inizio della Teogonia esiodea alluderebbe (forse ad insaputa del poeta stesso) anche alla loro capacit di divenire cantori ispirati. 9 Cfr. il commento di PEARSON 1917, I p. 37 a Sofocle, fr. 59 Radt, dalle Aichmalotides. In riferimento all' sofocleo, lo studioso notava come presso molte popolazioni il ventriloquismo avesse una spiegazione demonologica, rifacendosi a TYLOR 1876, p. 63: The primitive and savage theory of inspiration by another spirit getting inside the body is most materialistic, and cheating sorcerers accordingly use ventriloquism of the original kind, which (as its name implies) is supposed to be caused by the voice of a demon inside the body of the speaker, who really himself talks in a feigned human voice, or in squeaking or whistling tones thought suitable to the thin-bodies spirit-visitor. In particolare si fatto riferimento agli Eschimesi per questo tipo di credenze: cfr. SCHMIDT 1998, pp. 289-290. 10 Cfr. DODDS 1951, pp. 90-91: certo, non erano ventriloqui nel senso moderno, come spesso si crede. 11 Cfr. SOMMERSTEIN 1983, p. 101; CONNOR 2000, p. 50; KATZ - VOLK 2000, pp. 124-125.

    PRESTARE LA VOCE

  • PERIPHEREIN TON DAIMONA: LA VOCE DEL VENTRILOQUO 25

    consapevolmente si tende a personificare e rendere attrice la voce che esce da lui. Il veicolo umano della voce demonica, dunque, perde importanza e l'attenzione viene traslata, almeno a livello linguistico, al vero parlante annidato al suo interno. La medesima ambiguit grammaticale sembra in effetti rilevabile anche in un altro celebre passo sui ventriloqui che compare nel trattato di Plutarco Sulla scomparsa degli oracoli, dove peraltro l'autore lascia intendere come il termine Eurukleis ai suoi tempi fosse in qualche modo desueto e risultasse sostituito da un sinonimo (414E):

    . assurdo e puerile credere che il dio stesso, come gli engastrimuthoi soprannominati un tempo Eurukleis e adesso Pitoni, penetrando nel corpo dei profeti parli servendosi delle loro bocche e delle loro voci come strumenti. Chi mescola la divinit alle funzioni umane non rispetta la sua maest n ha riguardo per la dignit e la grandezza della sua virt.

    Il nome di Euricli sarebbe stato dunque soppiantato da Pitoni12. Il termine deriva, con ogni verosimiglianza, dal Pitone delfico, il drago dotato di poteri profetici13 che era stato ucciso da Apollo. Si pensato che fossero stati gli stessi ventriloqui a farsi chiamare in questo maniera, nel tentativo di nobilitarsi con un riferimento all'oracolo di Delfi; oppure che la comparsa di questa denominazione sia lo specchio di un'interpretazione in qualche modo svilente delle attivit dell'or