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Amedeo Furfaro

VERSUSArtisti Contro

Sfide liti censure fra spettacolo e cultura

Biblioteca FonotecaCJC Editore

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© CJC 2012Supplemento a Musica News n. 2/2012

Musica News - Bimestrale del Centro Jazz CalabriaEditor: Francesco Giuseppe Stezzi

Responsabile: Amedeo FurfaroDirezione e redazione: C.so Garibaldi, 14 - CosenzaTel. e Fax 039+0984.015376 - Cell. 360.644521

Siti Internet: www.centrojazzcalabria.commyspace.com/centrojazzcalabria

E-mail: [email protected] - [email protected]. Trib. di Cosenza n. 529 del 6-10-1992

ed in 4ª: Il vecchio Teatro / Il nuovo Teatro

In copertina: disegno di Martha Thompson

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INDICE

Nota introduttiva Pag. 7Premessa p. 9

Parte prima

Cap. 1 - Uomini controFalcone sfida Raval p. 17Scacco matto p. 19Leti all’indice p. 21Metastasio, il ripudio imperiale p. 23Saverio Mattei, la vertenza impossibile p. 27

Cap. 2 - Penne proibiteA colpi di... sonetto p. 31Letterati alla sbarra p. 35Moralisti fondamentalisti p. 37J’accuse p. 38Sue – Pinard p. 39

Cap. 3 - Liti e spartitiCuori ingrati p. 43Leoncavallo v/s Caruso p. 45La sindrome di Salieri p. 47Divisi da Bohème p. 49Un pamphlet di Torrefranca p. 53Processo a Puccini p. 55Schipa e la belva p. 57

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4. Dissapori teatraliLibertini e pruderies p. 61Se il Vate è offeso p. 63Scarpetta e il giornalista p. 65D’annunzio parte lesa p. 67

5. Note di censuraIl Tenentino p. 71Il jazz censurato di Gabrè p. 74Signorinella v/s Giovinezza p. 76Faccetta nera antirazzista p. 78Al Bano/Jackson p. 80Senza luce p. 81Jazz contro rap p. 82Fedelmente Beckett p. 83

Parte seconda

“Pagliacci” querelle sull’idea p. 89Procida, il pungolatore p. 96Oratoria e musica. La “difesa” di De Marsico p. 104Pasolini alla sbarra p. 106

Ringraziamenti p. 119

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Nota introduttiva

Oltre cinquanta pubblicazioni fra cartacee e multime-diali, compresi lp, cd, film, audiolibri, e book fruibili opensource sul sito www.centrojazzcalabria.com, 15 collane, unarivista – Musica News – anche on line, che ha raggiunto esuperato il ventennio di attività.

I numeri dell’attività editoriale del Centro Jazz Cala-bria dimostrano che quella che doveva essere un’attivitàcollaterale al periodico ai concerti alla didattica e al siste-ma biblio-fonotecario, ha assunto col tempo una dimen-sione di tutto rispetto, con un catalogo ricco e qualitati-vamente pregevole, come dimostrano le varie recensioniche nel tempo si sono susseguite positivamente.

Un catalogo che oggi si arricchisce di un’ulteriore pro-dotto editoriale, un saggio di taglio storico ma non acca-demico, che pone questioni vitali per il mondo delle arti,della cultura e dello spettacolo.

Nel farlo, l’Autore riesce a muoversi liberamente fra igeneri superando i limiti spesso troppo angusti dellospecialismo ad ogni costo.

Francesco StezziDirettore editoriale CJC

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Premessa

Rileggendo alcuni miei scritti e monografie e pensandodi raccoglierli in modo unitario, mi son reso conto che, permolti di essi, poteva esserci una sorta di filo conduttoreinterno, un elemento che definirei dialettico interpersonale.

Pillole di storia, aneddoti, saggi, ricostruzioni biografi-che e di eventi di cultura in particolare di musica e spetta-colo dei quali mi ero occupato si soffermavano cioè in piùpunti sulla “conflittualità” fra soggetti privati e istituzio-nali. Ho lasciato sfilare la composita galleria di personag-gi illustri della lirica e del rock, del canto e del jazz, dellascena e delle lettere, le cui storie “di contrasto” sono par-se meritevoli di esser riprese e commentate.

Con l’occasione, pur discettando di improvvisazione ecreatività, di censura e diritto d’autore, di giudici ed accu-sati, inquirenti e inquisitori, roghi e imprimatur, conaccostamenti trasversali fra musica e oratoria, Bach eCicerone, Metastasio e Derek Bailey, o di “genere” fra Dallae Puccini, Pasolini e “il contesto”.

È lapalissiano che anche in ambito cultural-spettacoli-stico ci si trovi di fronte a un pezzo di società, e che interpre-ti, artisti e autori si siano dibattuti e si dibattano tutt’oggifra le polemiche, subiscano antipatie, provino risentimen-ti, accusino e siano accusati, si fronteggino in un non rarointerfacciarsi litigarello, rivendichino i diritti di proprietàmorali e intellettuali, siedano sul banco degli imputati odegli accusatori.

C’est la vie, certo, a dispetto di lustrini e luci della ri-balta letteraria e dello spettacolo. Perché una poesia o unmelodramma, un romanzo o una canzone possono anchediventare motivo di rivendicazione o scontro, sul dirittod’autore come sul comune senso dell’onore o del pudore,magari fino alla condanna.

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Versus è avverbio di sintesi per questa condizione he-geliano/hobbesiana utile a segnare una riflessione di fon-do su gran parte delle storie quivi ricucite, in un ambienteche si frappone talora ad artisti e intellettuali, frena leloro energie psichiche, il loro interrogarsi sulle cose, il loroprodurre creativo.

A.F.

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Alla Creatività

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Parte prima

“La posta in gioco è sempre dipiù il controllo dei frutti della crea-tività, da circondare con robustebarriere di filo spinato, garitte,bunker e fortificazioni giuridiche”.

F. Rampini“La Repubblica”, 10 aprile 2012

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Cap. 1Uomini contro

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Falcone sfida Raval

Alla voce improvvisazione nella musica, la net-enci-clopedia Wikipedia espone, prima delle foto di Armstronged Ellington, quella di Johann Sebastian Bach.

Strano? Non tanto. Fra jazz, musica afroamericana, emusica barocca, europea anzi “eurocolta” secondo visio-ne eurocentrica, esiste una nota comune – l’improvvisa-zione - anche se si fa fatica ad accostare Haendel e CharlieParker.

L’arte dell’improvvisare infatti affonda le radici nelvecchio continente, essendo più che presente, per esem-pio, in Giovanni Gabrieli e Girolamo Frescobaldi. E nondeve far pensare solo a sax e trombe che si inerpicanosul pentagramma ma anche a organi chiesastici che ab-belliscono liberamente melodie ed clavicembali che tem-perano acciaccature a piacimento; oltre a blues e ballad,anche preludi, toccate, fantasie possono diventare op-portuni format per occasionare creazioni al momento al-l’interno di un dato canovaccio. Per intrattenere piace-volmente. Per esercitare la propria abilità. Per inseguireprimati gareggiando in specifiche competizioni.

Grandi compositori si misero alla prova in sfide(Mozart versus Clementi, Domenico Scarlatti controHaendel) e lo stesso giovane Beethoven vi si cimentò.

Poi, nell’ottocento, il trionfo della partitura scritta sullaestemporaneità interpretativa rese alquanto marginalel’improvvisazione nel mondo della musica europea e, purrestando patrimonio tecnico di musicisti quali Mendels-sohn, Chopin, Liszt, Franck, Perosi, si ancorò essenzial-mente al mondo delle musiche popolari.

Andando a ritroso nel tempo si ritrovano due singola-ri gare nel comporre “all’improvviso” disputate nel 1600

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fra il cosentino Achille Falcone, maestro di cappella aCaltagirone e lo spagnolo Sebastiano Raval, a sua voltamaestro della cappella vicereale di Palermo dal 1595, asuo dire “il miglior musicista al mondo”.

La vicenda è raccontata da Antonio Falcone, padre diAchille, nella relazione su quanto avvenne nell’aprile diquell’anno nel capoluogo siciliano. Achille aveva vinto inprima battuta la tenzone ma “la bile del Raval per questasconfitta lo spinse a sfidar una seconda volta il Falconee tanti sotterfugi mise in opera che tra per questi e tral’imbecillità degli esaminatori ebbe il voto favorevole. Ciòavvenne nel luglio di detto anno (...) Falcone appellossiai Musici di Roma per venire in quella città a un terzocimento col Raval. Ma caduto infermo morì il 9 novem-bre dell’anno medesimo 1600”.

Il musicista bruzio passò a miglior vita senza aver iltempo di “giocarsi”, dopo vincita e rivincita, quella “bel-la” che gli avrebbe dato ragione, una sfida all’ultima nota,e all’ultimo verso, che potesse chiarire che il primatoquale miglior compositore all’improvviso era solo lui apoterselo aggiudicare.

Ma l’eco del mancato certamen, tramite la storia del-la musica, è arrivata fino a noi1.

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Scacco matto

Gioacchino Greco nacque a Celico attorno al 1600 dauna famiglia di umili origini. Scacchista professionista,viaggiò in Francia, Inghilterra e Spagna e si confrontòcon gli avversari più prestigiosi dell’epoca.

Teorico e studioso dei giochi aperti e della partita ita-liana, inventò il controgambetto Greco, noto comegambetto lèttone.

Alla sua morte, avvenuta nel 1634, durante un viag-gio nelle Indie occidentali, forse le Antille, lasciò in ere-dità i suoi averi ai gesuiti.

Dopo di lui l’Italia avrebbe perso per sempre l’egemo-nia scacchistica.

Ma la sfida transtorica che gli annali tramandano loprecede. Un suo conterraneo, Leonardo Giovanni Di Bonadetto il Puttino, vissuto fra il 1552 e il 1597, divenne aMadrid, alla corte di re Filippo II di Spagna, nel 1575, ilprimo campione di scacchi “d’Europa e del nuovo Mon-do” superando il miglior giocatore del cinquecento, RuyLopez vescovo di Segura.

Morì, a 45 anni, alla corte del principe di Bisignano,pare avvelenato per invidia.

E fu scacco matto al Puttino nella sfida anzitempocon la morte2.

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Biografia di Sisto V di Gregorio Leti (frontespizio)

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Leti all’indice

L’ambientazione iniziale della sua storia potrebbe es-sere quella del film La mala educaciòn di Pedro Almo-dòvar. C’è uno studente di seminario, attorno a lui laluce e il silenzio di un paesaggio mediterraneo; ma lalocation è Cosenza, il collegio è dei gesuiti, e si è a metàdel milleseicento non nella Spagna degli anni ‘30.

Il giovanetto, di famiglia bolognese, viene da Milano,dove è nato nel 1630.

È nel capoluogo bruzio a formarsi e a forgiare il suocredo militante nella fede.

Non si hanno notizie su quegli importanti anni di crescita.Certo è che Gregorio Leti, perché di lui si tratta, lo

ritroveremo a seguire in veste di licenzioso libellista sa-tirico, autore di pepati divertissement, dissacranteanticlericale pronto a spiattellare le dissolutezze dellachiesa del tempo, a volte sotto lo pseudonimo di AbateGualdi (Gualdus), cui sono attribuite anche opere altrui,molte delle quali destinate al rogo.

È questo l’aspetto che lo rende famoso sin da allorain tutta Europa, contrastante, eccome, con i principi im-partitigli da ragazzo dagli istitutori bruzii.

Ma oltre a fare il pamphletaire Leti ha un’attività ri-conosciuta e accreditata di cerimonialista, storico ebiografo (di papa Sisto Quinto) sia pure oggetto di diver-se perplessità critiche.

Alcune fonti lo giudicano impreciso e infedele(Mosheim) altre mendace (Enciclopedia Cattolica) inesatto(Trollope) un cervello balzano (De Sanctis) c’è chi addi-rittura ne parla come un falsificatore di epistolari, unasorta di dr Jekyll and mr. Hyde dalla disinvolta storio-grafia, in bilico fra sacro e profano.

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Ma il lato ufficiale del bipolare Leti cela a sua voltaun’altra zona grigia, quella di informatore politico.

Insomma questo avventuriero della penna è uno spre-giudicato doppiogiochista. A farne le spese i protettori,Madama Reale di Savoia e Cosimo III dè Medici.

Scrivere è per lui un mezzo da impiegare per il rag-giungimento di obiettivi che attraversano e interessanoducato sabaudo, repubblica di Ginevra fino all’ Inghil-terra, luoghi dove, dall’Italia, è costretto a riparare pri-ma di morire ad Amsterdam nel 1701.

Evidentemente l’educaciòn in terra di Calabria nonne piegò lo spirito autonomo e irrequieto.

Vale la pena ricordarne la figura ma più che altro comeantesignano del moderno giornalismo scandalistico, au-tore delle prime pruriginose inchieste a luci rosse, la pre-istoria del gossip sui potenti e sul nepotismo di Romaancora oggi di voga. Ben quattro secoli fa3!

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Metastasio, il ripudio imperiale

Quella improvvisativa, ricorda il jazzista inglese DerekBailey, è pratica molto diffusa.

Ma oltre al canto gregoriano e alla musica barocca, alraga indiano e al flamenco spagnolo, c’è anche la poesiaorale, sin dagli aedi omerici, composta, sottolinea JohnMiles Foley “ come un musicista jazz o folk usa dei mo-delli nell’improvvisazione musicale”.

Professionisti dell’improvvisazione poetica operarononell’Italia del settecento, molto prima della beatgeneration. Per farlo occorreva avere il giusto senso delritmo, della metrica, e soprattutto saper versificare inmodo immediato. E via l’endecasillabo sciolto, il senarioal momento, la rima di “un poema, liberato dalleapparecchiature dello scriba” per dirla alla Mallarmè.

Soleva creare in pubblico versi estemporanei il romanoPietro Trapassi, poeta “istantaneo”. Intuiva, meditava,organizzava, strutturava, declamava. A 12 anni aveva giàtradotto l’Iliade in ottave! Finchè un giorno GianvincenzoGravina, da Roggiano, il fondatore dell’Arcadia, nel ve-derlo esibirsi e intrattenere il pubblico, decise di “adot-tarlo”.

Ne ribattezzò il cognome, ellenizzato, in Metastasio egli conferì un’investitura poetica confidando che il gio-vane avrebbe diffuso i principi arcadici nel teatro.

Era un illustre patronage accademico, quello diGravina, che aveva previsto, per un periodo, l’affidamentodel giovane “creativo”, a Scalea, alle cure del cartesianoGregorio Caloprese.

I risultati non tardavano ad arrivare. Intanto una pri-ma raccolta di poesie era pubblicata nel 1717 a Napoli,vicereame austriaco.

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Pietro Metastasio

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Ma era nei melodrammi che Metastasio apportava si-gnificativi cambiamenti che facevano di fatto rivivere sullescene europee, fino a Vienna, l’ideale classico.

I suoi libretti erano fluidi, cantabili, equilibrati frarecitativo e aria, con personaggi storicamente verosimili- Didone, Artaserse, Catone, Demofonte - in una tramacomplessa (Gallarati); con un “gioco dell’intelletto,labirintico” l’”inventore di una forma d’opera” (Arruga) siavvaleva fra gli altri di musicisti come Leonardo Vinci.

Divenuto dal 1730 poeta cesareo alla corte imperialeviennese e riconosciuto in tutta Europa come il massi-mo autore di poesia per musica, Metastasio si rivelavaautore “emigrato” in grado di scrivere anche in altra lin-gua, in francese, a differenza di Goldoni.

In tale prospettiva andrebbe inquadrato anche il suorapporto con la riforma di Gluck e il propugnato supera-mento dei caratteri nazionali nel teatro d’opera.

Resta il fatto che la perfetta e spontanea arte meta-stasiana trae origine nell’iniziale attività di improvvisa-tore della scrittura poetica.

Epilogo. Metastasio morì a Vienna “dopo la soppres-sione della pensione reale” (Ferroni) addolorato per il tortofatto “al suo merito e ai suoi lunghi servigi” (Da Ponte).

Una decisione, più tardi revocata, vissuta come un’in-giustizia, un’onta, una metastasi morale, quel ripudioimperiale, insanabile per lo spirito offeso del poeta “istan-taneo” Pietro Trapassi4.

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Saverio Mattei

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Saverio Mattei, la vertenza impossibile

Nella cartellonistica stradale cosentina esiste un’ar-teria, vicina al tribunale, intitolata a tale Saverio Matteo.Abbiamo provato a chiedere ad un operatore della zonachi fosse costui, per sentirci rispondere “ma, forse, chis-sà, un centravanti brasiliano?”.

In realtà si tratterebbe di Saverio Mattei, giurista,musicista e poeta settecentesco nativo di Montepaone.

Se è così, e chi scrive era nella commissione toponoma-stica da cui emerse l’opportunità di intitolargli una strada,sarebbe stato il caso di porre rimedio a tale inesattezza.

L’erudito, a dire il vero, non è più fra i mortali dallontano 1795.

Non sussiste pericolo di danno, certo.Il fatto è che travisare un cognome di un così sommo

personaggio, modificandone la finale del cognome, di fattone travisa la personalità storica, non lo individua, anzilo de-identifica.

Sarebbe come dire corso Garibaldo o via Manzone.Lo scopo della toponomastica dovrebbe semmai esse-

re quello di tenere viva, partendo dal nome appunto, nellamemoria dei cittadini, personaggi che meritano questoriconoscimento.

Se se ne alterano i dati anagrafici non si raggiungel’obiettivo prefissato di ricordarli. Si è provato a rivolgereistanze in passato a chi di competenza ma senza risultati.

Dobbiamo rinunciare a chiedere alla burocrazia unarettifica dal singolare – Matteo – al plurale Mattei?5.

Chissà, dopo questo libro...

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Cap. 2Penne proibite

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A colpi di … sonetto

Da una lettera del maggio 1868 scritta dal duca diSan Donato al “Roma”.

“Il giornale La Patria nel suo numero di ieri, stam-pando un sonettaccio di non so quale epoca allo indiriz-zo di Ferdinando II, si permette di appiccicarvi il mionome. Anche il sistema delle deliberate calunnie dovreb-be avere un limite, ed è però che di tale enormezza iovado a dare querela non solo per diffamazione ma anco-ra per falsità. Io raccapriccio, miei carti amici, nel vede-re a che genere di polemica si è arrivati. E qui fo’ puntolasciando a’ Tribunali la cura del resto”.

In parole povere Gennaro Maria Sambiase duca di SanDonato negava al giornale partenopeo La Patria la pa-ternità di un d’un celebre sonetto a Ferdinando II ristam-pato su quella testata ottocentesca.

Ma La Patria rispediva al mittente le accuse preci-sando che ci si era semplicemente limitati a ristampareil sonetto in questione pubblicato prima che il Sandonatovenisse destituito dall’impiego dai borboni al tempo incui agli stessi regnanti giurava eterna fedeltà.

“La ristampa di un sonetto può costituire attentatoalla proprietà letteraria, ma non diffamazione. Quantoal processo di falsità che ci minaccia temiamo abbia arimanere sempre allo stato di minaccia”.

Vittorio Imbriani venne apposta da Firenze a Napoli atutelare il proprio buon nome di editore, per far sì che lacausa non si prescrivesse e venisse portata a ruolo pertempo. Parecchi testimoni sostennero che il sonetto erastato stampato nel 1844 a nome del San Donato e distri-buito la sera del 12 gennaio al teatro di Caserta. E cheaddirittura aveva dato spunto per una parodia per l’ec-

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cesso di servilismo del versificatore.Ed è lo stesso Imbriani a sintetizzare l’esito della vi-

cenda sottolineando che era stato lo stesso procuratoredel re a sottolineare, nella requisitoria, che “in quantoall’imputazione di falsità in privata scrittura, a parte laconsiderazione d’essersi con la istruzione raccolti deglielementi che argomentano il rovescio della medaglia del-la cennata falsità, non esiste la circostanza elementareche da vita a tal reato, la contraffazione di firma ed ildanno eccetera”.

Il San Donato, dunque, ripudiando la paternità delsonetto e calunniando i (ri)stampatori che lo avevano trat-to dall’oblio e riproposto, aveva mentito.

Imbriani così scriveva il 18 marzo del 1869.Strano caso, quello del duca, poeta agiografico pentito,

querelante poco attendibile, smentito dai testimoni e daifatti.

Un plagio all’incontrario, di un autore che disconosceun proprio scritto e attacca chi lo rispolvera.

Chi cunfessa è ‘mpisu. Come dire che il duca rimaseimpigliato dalla sua stessa denuncia6.

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Il sonetto “incriminato”

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Una replica, in forma di sonetto

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Letterati alla sbarra

Flaubert, condannato per offesa al pudore arrecatadalla pubblicazione di Madame Bovary, rincuorava Guyde Maupassant in attesa di giudizio per i suoi versi invi-tandolo a denunciare al procuratore perché li sopprimessei classici greci e latini “da Aristofane fino al buon Orazioe al tenero Virgilio: in seguito, tra gli stranieri, Shake-speare, Goethe, Byron, Cervantes; da noi Rabelais, poiChateubriand il cui capolavoro si aggira su un incesto, epoi Molière, e il grande Corneille e papà La Fontaine eVoltaire e poi Giangiacomo Rousseau naturalmente”.

E così il nome di Flaubert si andava ad aggiungere aduna lista lunghissima di illustri personaggi, da Boccac-cio a Petrarca, da Sacchetti a Zola.

Il ricordato autore del Cid subì l’onta del rogo per lasua Occasion perdue, reputata licenziosa e da distrugge-re nel processo celebrato al Tribunale Correzionale dellaSenna il 12 maggio e il 13 giugno 1865. Stessa sortetoccata a Voltaire, per la sua Pulzella d’Orleans con lacomminazione della pena del carcere agli editori.

Fu colpito anche dagli strali di giudici rigorosamentebigotti anche Baudelaire, i cui Fiori del male erano statiritenuti rei di offesa alla pubblica morale.

In proposito Victor Hugo, nel 1857, gli aveva scrittoche “una delle rare decorazioni che il regime attuale puòaccordare voi l’avete ricevuta. Ciò che esso chiama lasua giustizia vi ha condannato in nome di ciò che chia-ma la sua morale ed è questa una corona in più”.

Non poteva mancare fra le fedine macchiate dallapruderie giudiziale quella di Verlaine.

Da distruggere, su disposto dei magistrati giudicanti,Amies, raccolta di sonetti da lui scritta sotto pseudonimo.

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Andando a ritroso si ritrova, nel 1825, perfino laManon Lescaut messa all’indice.

Ci avrebbero pensato poi, prima di Puccini, i lettori ariabilitarla7.

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Moralisti fondamentalisti

Xavier de Montepin scrisse nel 1855 il romanzo insette volumi dal titolo Filles de plattre.

Ed ecco, anche in quel caso, le rigide forche caudinetribunalizie prenderlo di mira.

Fra le frasi incriminate “Jane stava nuda”, “vi era at-torno alla nuova visitatrice un’atmosfera di febbre e didesiderio”, “ti prometto la nuda proprietà e il godimentodella mia persona”.

Risultato? Tre mesi di galera e 500 franchi di multasanciti dalla famigerata Sesta Sezione penale del tribu-nale parigino, anno di grazia 1836. data dell’udienza incui è emessa la sentenza di condanna , il 14 luglio, anni-versario della presa della Bastiglia.

Quando l’Europa era fondamentalista … secoli fa, sipenserà. Ma la concezione ancora medioevale della mo-rale da parte del potere giudiziario poteva scatenarsi li-beramente anche in pieno ottocento e nella (già) rivolu-zionaria Francia avendo di mira intellettuali e opere delloro ingegno.

Ma la rivoluzione, quella culturale e liberale, dovevaancora fare il proprio corso per intero8.

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J’accuse

Il poeta Jean Richepin, reo di aver pubblicato nel 1876la Chanson des Gueux, e per questo imprigionato a San-ta Pelagia per scontare la pena che gli era stata irrogata,ebbe a scrivere contro avvocati e giudici il proprioj’accuse: “Baudelaire e Flaubert furono difesi, come sonostato difeso io, con argomenti pietosi, che tentavano didimostrare che l’opera incriminata non era immorale insé stessa, discutendo passo passo lo stile e l’ispirazione,appoggiandosi sull’autorità di esempi illustri, volgariz-zando il pensiero dell’autore, discutendo insomma comechiedere le circostanze attenuanti. È il modo più perico-loso di tentare di salvarci. A seguire l’accusa su questoterreno di quisquilie, di arguzie, si finisce col riconosce-re che essa ha il diritto di perseguitare. Io protesto contutte le mie forze contro questo assurdo, la giustizia checontrolla la letteratura sono due cose che distano traloro milioni di chilometri”.

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Sue - Pinard

Eugène Sue, l’autore dei fortunati Misteri di Parigi,pubblicò nel 1850 i Misteri del popolo o la storia di unafamiglia di proletari attraverso le età.

Ma Pinard, l’accusatore di Flaubert e Baudelaire, erain agguato.

E la denuncia per offesa alla morale civile oltraggio alpudore vilipendio alla religione eccitamento all’odio fra icittadini era quasi istantanea rispetto all’uscita del libro.

Sue nel corso dell’istruttoria processuale passò a mi-glior vita.

La corte, recependo le richieste della pubblica accu-sa, statuì la distruzione delle copie del volume già editatee in commercio e la condanna a 1 anno di carcere pereditore e tipografo oltre ad una congrua ammenda mo-netaria.

Problemi anche, in Italia, col Mafarka di Marinetti del1910 processato e poi assolto dall’accusa di oltraggio alpudore.

Sequestri, censure, roghi, condanne già da allora fun-zionavano come trampolino di lancio del libro e dell’au-tore.

Una pubblicità involontaria, dovuta al gusto del proi-bito che inquisitori alla Pinard avrebbero disseminato,anche nel secolo seguente, nelle aule dei tribunali delmondo, perseguendo le migliori intelligenze per dare sfogoalle proprie ossessioni sessuofobiche9.

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Cap. 3Liti e spartiti

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Cuori ingrati

L’esistenza di ogni uomo è caratterizzata da conflittie relazioni con persone che determinano svolte impor-tanti nella vita.

Come nella biografia di Enrico Caruso, il tenore cheda Napoli portò nel mondo la melodia italiana, arie d’operae canzoni d’arte, in una storia caratterizzata da successima anche da delusioni e dolori.

Quale quella di partire per l’America. Apparentemen-te esplosa dopo una stroncatura sul periodico “Il Pungo-lo” da parte di Saverio Procida che ne sottolineò alcunesmagliature nella prova vocale offerta in un Elisir d’amo-re andato in scena al San Carlo: “per cantare l’Elisir oc-corre una voce di tenore non di baritono”.

La messinscena donizettiana poteva essere un sem-plice episodio da dimenticare, e invece per il cantante ful’occasione per rafforzare la scelta di abbandonare il cam-po, di portar avanti una decisione maturata da tempo adispetto di un ambiente difficile ed estraneo alla propriaformazione e ceto sociale.

E via, Caruso varcava l’Atlantico. Per riprendere inAmerica la scalata al trionfo, alle vette nella vendita didischi, i pesanti 78 giri dell’epoca.

C’è un brano-manifesto che rappresenta la condizio-ne di “migrante” della musica e il distacco malinconico enostalgico dalla propria terra d’origine.

Si tratta di Core ‘ngrato, musicato da Salvatore Cardillonel 1911, su testo del giornalista-poeta Riccardo Cordiferroal secolo Alessandro Sisca, classe 1875, di San Pietro inGuarano, emigrato in U.S.A. sin dal 1892, co-fondatore,l’anno dopo, del settimanale “La Follia di New York”. Testa-ta questa che annoverò come caricaturista lo stesso Caruso,

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avvalendosi fra gli altri delle collaborazioni di Trilussa,Roberto Bracco, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo,Carolina Invernizio, oltre a Nicola Misasi e al Rapisardi.

Sisca-Cordiferro, personaggio di primo piano nel mon-do della literacy, la letteratura degli italoamericani d’ol-treoceano dei De Lillo e Fante, compose i toccanti versidel ritornello Catarì che Caruso si tessè addosso al mald’amore causatogli dalla fuga in sudamerica della com-pagna, il soprano Ada Giachetti, con l’autista di casa,tale Cesare Romati.

Ma l’ingratitudine, tema principale del brano, era unsentimento che il cantante si portava impresso dentrogià dall’ Italia.

E Lucio Dalla, nell’interpretare Caruso, è riuscito a rece-pire e trasmettere quel senso di saudade tutta meridionaleche la figura del tenore nella storia del belcanto impersoni-fica, al di là delle qualità e specificità canore e di certa per-sistente sufficienza della critica musicale nei suoi confronti.

Resta il fatto che furono anche due intellettuali cala-bresi, Procida e Cordiferro, a segnarne la vita interioreinnescando, con quanto scrissero, effetti e situazioni disegno opposto10.

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Leoncavallo v/s Caruso

Può capitare, e capita, nella vita, di ritrovarsi in si-tuazioni distanti, apparentemente contraddittorie.

Di essere offesi e poi di offendere; di additare colpe eresponsabilità e di ritrovarsi poi dalla parte dell’additato.

Il grande Enrico Caruso, che aveva tacciato Napoli diingratitudine, non aveva tenuto conto che il suo anate-ma alla città di Pulcinella gli avrebbe impedito di aderireall’offerta di Leoncavallo di diventare l’interprete princi-pale di un opera intrisa di napoletanità fino al collo.

E di esser visto, perciò, come l’ingratitudine in perso-na dall’autore che forse più di ogni altro aveva contribui-to a decretarne il successo teatrale e discografico a iniziosecolo scorso.

I successi i sogni le delusioni. È questo il calzante sot-totitolo del volume su Ruggiero Leoncavallo che MauroLubrani e Giuseppe Tavanti hanno pubblicato a Firenzeper Polistampa nel 2007.

La parte forse più interessante del lavoro è proprioquella finale del bilancio di una carriera.

Dopo la inebriante sera della “prima” di Pagliacci al DalVerme di Milano il 21 maggio 1892 il percorso si era fattoman mano più difficile per Leoncavallo così come i rapporticon colleghi operatori editori protagonisti della scena.

Anche appunto con il “suo” Enrico Caruso, magicointerprete del suo capolavoro.

Esattamente da quando, era il 20 luglio del 1914, e siera all’Hotel La Pace di Montecatini, Leoncavallo gli ave-va letto parte dell’opera Avemaria (dal nome della prota-gonista), soggetto incentrato sulle cospirazioni partenopeeantiborboniche a cui stava lavorando sulla base di unlibretto di Illica e Cavacchioli.

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L’idea era di affiancare al soprano Eugenia Burzio l’ugoladorata del tenore che in quell’occasione aveva a fianco ilsoprintendente del Metropolitan di New York, Giulio GattiCasazza. Ma, seppur cortese, la risposta era stata un rifiu-to, motivato da un’agenda di impegni fin troppo fitta peralmeno tre anni, Nuova York, Londra, Germania...

In effetti le perplessità sull’opera patriottica e “napo-letana”, già espresse da Sonzogno sul piano economico,avevano, nel caso di Caruso, un retroterra dal saporeamaro risalente al distacco dalla città del golfo avvenutodopo la stroncatura ad opera del critico Saverio Procidasul periodico “Il Pungolo”, in occasione di una sfortuna-ta esibizione del 30 dicembre 1901 e al conseguente giu-ramento del tenore di non cantar più a Napoli.

Un nido di memorie pareva riemergere da un passatonon lontano, ma di fatto non riemerse, per l’opposizionedel cantante. Il core ‘ngrato sembrava stavolta, a Leon-cavallo, quello di Caruso oltre che di Gatti-Casazza (eindirettamente di Toscanini).

Avemaria non meritava quei no, specie ove si pensi atutta la ricerca musicale – la ripresa di materiali folkloricisui quali aveva lavorato Leonardo Vinci, l’operista diStrongoli, per Le zite ‘ngalera, e Le grida di venditori diNapoli raccolte da Federico Ricci – che stava comportando.

Ma indietro, il grande Caruso, non tornò, non abiuròal giuramento di tredici anni prima quando garantì chesarebbe tornato in città solo per riabbracciare la madreo mangiare gli spaghetti alle vongole. E fu di parola. Soloche questa coerenza lo allontanò dal padre dei suoi ado-rati Pagliacci.

La verità storica si presenta come un gioco angolaredi specchi che ne rifrangono le immagini, le presentanouguali o contrarie, a seconda di dove si vadano a collocare.

È quanto accadde a Caruso, prima accusatore poi,suo malgrado, accusato11.

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La sindrome di Salieri

A Catulle Mendès, poeta librettista e drammaturgofrancese vissuto fra il 1841 e il 1909, capitò di essereaccusato di imitare lo stile dei contemporanei eviden-ziando, secondo Renè Lalou, “un’incredibile assenza dipensiero profondo”.

Critiche feroci al suo indirizzo, di mediocrità, e di ri-far il verso ad altri, proprio a lui, il parnassiano generodi Teophile Gautier, l’amico di Baudelaire, l’esegeta diWagner! Incredible!!!

Questa immagine contrasta con l’aneddotica, peraltrosconfessata, che ci ha invece consegnato un Mendès neipanni del (presunto) plagiato non del saccheggiatore di ideealtrui.

La vertenza intentata oltralpe è datata 1899. L’occa-sione era stato il libretto inizialmente intitolato Il pagliac-cio (poi Pagliacci) di Leoncavallo. Oggetto della causa, lasomiglianza del melodramma verista con il precedente,La femme del Tabarin Tragiparade en un act, del 1887, afirma di Mèndes, pubblicato originariamente in “LaSemaine Parisienne”, nel 1874.

Mendès trascinò Leoncavallo in giudizio per le analogieriscontrate rispetto alla propria pièce specie nell’esito fina-le dell’attore che uccide la propria donna.

All’epoca Mendès scrisse varie lettere a giornali peropporsi alla rappresentazione di Pagliacci nei teatri fran-cesi, per un “embargo” mai attuato.

Nel petitum figurava la richiesta di inserire il proprionome nei titoli dell’opera, tesi perorata anche dinanzialla Società Francese degli Autori.

Leoncavallo respinse le denunce mentre, dal cantosuo, la Societè non andò avanti. Il giudizio venne lasciato

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cadere anche in quanto si appurò che lo stesso Mendèssi era ispirato a sua volta al Drama Nuevo (1867) di DonManuel Tamayo y di Baus’s.

Non è dato conoscere se Leoncavallo avesse o menoofferto del denaro a Mendès come affermato di recentedal biografo Richard Dryden.

Ma le cause vere dell’azione giudiziale di Mendès qualierano state?

Invidia del successo, sindrome di Salieri, semplice ri-valsa economica? Di fatto all’erudito ma non genialeMendès sfuggì la Grande Occasione per arricchire il pro-prio curriculum del pezzo pregiato, quello con il voltotragico del Clown più famoso del mondo.

Ma poi quello della festa devastata dalla catastrofenon è un tema così ricorrente nella storia dello spettacolo?

Nello specifico il diritto d’autore non poteva esser ri-vendicato laddove fonti letterarie diverse – il Victor Hugodi Notre Dame de Paris oltre alla mascagniana Cavalleriarusticana – si erano aggrovigliate attorno al tema deldoppio in maschera, con sullo sfondo il trittico gelosia/amore/morte.

Finale di partita. Alcuni anni dopo Mendès morì incircostanze misteriose. Il suo corpo venne ritrovato inun tunnel ferroviario di Saint Germain-En-Laye.

Triste epilogo di una vita segnata dalla battaglia lega-le e mediatica, inutile e disperata, combattuta e persa,per attribuirsi la paternità di Pagliacci.

Nonostante tutto Mendèz non merita, fuori dalla Franciae dagli sciovinismi di maniera, l’oblìo riservato ai vinti12.

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Divisi da Bohème

Così bello, così conteso Scènes de la vie de Bohème diMurger, editato per la prima volta nel 1851, con il sennodel poi, era un testo che andava adattato per il teatro.Meglio ancora se musicale.

Avvenne invece che la sua trasposizione in melodram-ma, anzi in due, determinò una delle querelles più ro-venti di inizio secolo scorso. Ma di chi il merito, laprimogenitura, dell’idea? Di uno dei compositori interes-sati all’operazione, Ruggiero Leoncavallo. Guido Marotti,amico di Puccini, l’antagonista autore di Bohème, ci rac-conta i fatti in Giacomo Puccini Intimo. Nel piccolo libro,pubblicato da Vallecchi nel ’25, il biografo, affidabile perla sua vicinanza all’operista toscano, racconta “tempoaddietro, Ruggiero Leoncavallo gli aveva proposto un suolibretto intitolato Vita di Bohème, ma Puccini, cui frulla-vano altre idee per il capo, e non conosceva il romanzo diMurger, oppose un cortese rifiuto, senza neppure guar-dare il lavoro del collega. Solamente un anno dopo, aven-do letto il romanzo ed essendosene entusiasmato, tantofece, tanto tempestò, che Giocosa ed Illica, col paternoaiuto di Giulio Ricordi, gli fecero il libretto dell’opera fa-mosa. Se non ci fosse stato il buon Sor Giulio, sarebbeandato tutto a monte, perché Puccini e Illica attaccava-no certe liti di inferno da non potersi ridire. Giocosamansueto, Ricordi conciliatore, furono una vera provvi-denza. Quando Puccini incontrando Leoncavallo a Mila-no gli accennò casualmente al lavoro che stava facendol’autore dei Pagliacci montò su tutte le furie”.

Era la scintilla dell’incrinamento dei rapporti fra i due,l’istigazione alla sfida sul palcoscenico. Eppure si trat-tava di due Bohème dissimili, autonome, anche nella ca-

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ratterizzazione nella dolce (?) vita dei bohemiens parigini.Konrad Dryden, nel suo Leoncavallo Life and Works

(Scarecrow, 2007) è chiaro al riguardo: “l’opera di Leon-cavallo è più ponderosa di quella di Puccini, si concen-tra su povertà e tragicità dei caratteri piuttosto che sullerelazioni romantiche”. Dal canto suo il lavoro pucciniano“è un canto d’amore e morte laddove quello di Leonca-vallo rappresenta un ritratto di miseria sociale e dispe-razione”.

Insomma due approcci distinti, uno aperto in esten-sione al sociale l’altro concentrato sull’espressione liricae vocato alla rappresentazione dell’interiorità psicologi-ca dei personaggi.

Mosco Carner, in Puccini. A Critical Biography (Surrey:Duckworth, 1974) aveva rilevato il “crudele senso dram-matico” di Leoncavallo superiore in potenza a quello del-la Bohème di Puccini in assenza, peraltro, di una memo-rabile invenzione lirica.

Destino - o sarebbe meglio dire pubblico - volle che ilfragore risonante di “Che gelida manina” avrebbe avuto,sì, un contraltare leoncavalliano di uguale intensità mariscontrabile in “Ridi Pagliaccio”. Era stato l’irripetibileclimax di Pagliacci a ispirare quel superbo momento cre-ativo, proveniente dalla lontana esperienza giovanile inMontalto Uffugo.

Per Bohème Leoncavallo aveva confermato la capacitàdi “leggere oltre” il soggetto drammatico, di intravedernela stesura in libretto, di immaginarlo rappresentato (an-che in quel caso, senza un team di letterati-librettisti asuo fianco che potessero lasciarlo libero esclusivamentedi comporre), di disegnare le impressioni nette di un’am-bientazione popolata da tipologie ben delineate; e se bor-ghesi, riconducibili ad una fauna antropolirica ripresadal basso, da pieghe e piaghe collettive prima che esi-stenziali come quelle dell’amore tragico dei Mimi e Rodolfo

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del capolavoro pucciniano. Ma il duello a distanza conPuccini fu perso. Al botteghino, certo, ma essenzialmen-te per quel mancato guizzo inventivo.

Di Leoncavallo si conosce l’aria “Vesti la giubba” piùdi ogni altro acuto della sua Bohème. Perché la storia sipuò ricordare di noi ma non si saprà mai a fondo comeconsegnarsi alla sua memoria13.

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Necrologio di Chiara Sprovieri (“Cronaca di Calabria”,prob. 1941) in cui si attesta della importante testimo-

nianza resa dalla stessa nobildonna al processo fra Mendèz e Leoncavallo

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Un pamphlet di Torrefranca

Era il 1910 quando il musicologo vibonese FaustoTorrefranca redigeva la stesura di Giacomo Puccini e l’ope-ra internazionale volume che i Fratelli Bocca di Torinoavrebbero pubblicato due anni dopo.

Si tratta di cento e passa pagine dedicate al “melo-dramma internazionale” per le quali non è dato conosce-re le cause dell’interminabile fase di gestazione ed editing.

Sfogliandolo oggi quel pamphlet ne risultano pratica-mente intatte franchezza espressiva, freschezza discor-siva, coloritura di immagini.

Ma come mai Torrefranca, l’apprezzato autore di tomicome Le origini italiane del romanticismo musicale, inte-se, con quella sorta di instant book, eleggere Puccini abersaglio della propria attenzione critica, pronunciandoquella appassionata filippica contro il demi-monde spic-ciolo, tipico del teatro (musicale) alla moda del tempo?

La cosa andrebbe inquadrata dal suo punto di vistadi una musicalità nazionale che peraltro vedeva incar-nata, nel compositore, certi elementi di decadenza tipicidella musica italiana coeva, quali la “pietosa impotenzae la trionfante voga internazionale”.

Certo il parlare, per Puccini, di “miseria ideale”, suo-nò e suona eccessivo ma, nel mondo della cultura e dellospettacolo di allora, capitava anche di esprimersi senzase né ma, senza distinguo o ipocrisie di facciata.

Torrefranca era consapevole della forza contenutanelle proprie parole, sicuro, per tale motivo, che “di que-sto saggio si tacerà” in quanto disamina “spregiudicatae spietata” della cosiddetta giovane scuola italiana a cuiPuccini veniva evidentemente accostato.

Al di là della vis polemica quel lavoro, che pare scritto

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di getto, contiene su Puccini delle intuizioni che, al dì làdella contingenza, si sarebbero rivelate di particolareacume; insomma se si va oltre gli orpelli sarcastici e lavibrante vis polemica si ritrovano nel testo almeno unpaio di sottolineature centrali nella poetica musicale delmaestro toscano.

La prima: laddove è sostenuto che l’operista “non èmusicista nazionale” e che ne individua di fatto il lavorodi snazionalizzazione dell’opera lirica come uno degli ele-menti caratterizzanti la sua pratica compositiva, magarisanzionabile secondo il Torrefranca strenuo difensoredella tradizione strumentale italiana sviluppatasi con esitipositivi anche per l’opera lirica.

La seconda è data dal riconoscere all’operista la ca-pacità di compenetrare la psicologia femminile dei per-sonaggi, specie le eroine cui “riuscirà una buona volta apuntino il manichino, sul quale dovrà tagliare e cucire ilvestito della musica”. Puccini possiede, per il critico ca-labrese, “ una mollezza tutta sua che, se spesso è ca-scaggine, talora è intimità e comprensione delle piccolegioie e degli umili dolori, perché la sensualità facile ha diquesti sinceri ritorni di candore compassionevole”. Con-notazione decadente, in un certo senso. Ma nello stessotempo elemento di vitalismo che il biografo Mosco Carnerapprofondirà in chiave più prettamente psicanalitica.

Spunti analitici raccolti, ben un secolo fa, in questoscritto “necessario peccato di gioventù” per detta diTorrefranca, prima che Puccini passasse alla strumen-tazione raffinata delle ultime opere.

Un saggio comunque a riprova di una scrittura coltae pregevole nell’osservazione radicale del mondo musi-cale ma soprattutto opera di uno spirito intellettualmentelibero quale fu Fausto Torrefranca14.

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Processo a Puccini

Schoemberg ne aveva apprezzato le capacità compo-sitive.

Enzo Siciliano ne sottolineò da parte sua l’ansietàispirativa in una apprezzata biografia che è un ritrattorealistico di un compositore capace di trovare armonieirripetibili “per esprimere l’incrinatura sottile che tagliain due l’esistenza e la corrode”.

Leggendo di Puccini su quel suo volume edito da Rizzolinel ’76 mi aveva sempre incuriosito il riferimento a un pro-cesso subito dal maestro al tempo della sua frequentazio-ne con la goliardica confraternita chiamata Club dellaBohème.

L’allegra combriccola era stata descritta più dettaglia-tamente in Giacomo Puccini Intimo scritto da GuidoMarotti editato nel 1925 da Vallecchi.

Un libro introvabile poi guarda caso rinvenuto e ac-quistato a pochi euro in una bancarella di un mercatino.

Alla vicenda Siciliano dedica alcune righe, dove siparla delle rischiose battute di caccia al lago di Massa-ciuccoli e di quando, assieme all’amico Giovanni Man-fredi, il musicista viene arrestato per “caccia in stagioneproibita, sconfinamento e mancanza di porto d’armi”.

Sarà il difensore, l’insigne avv. Pelosini a salvarePuccini dalla condanna.

Ma esattamente in che modo?Gustosi dettagli sulla vicenda si trovano nel diario di

Marotti.Par quasi di vedere prefigurata una commedia all’ita-

liana in bianco e nero col pretore intimorito dall’autoritàdell’imputato, l’oratoria sfrontata del legale, il finale rosa.

“La causa ha inizio con la lettura del verbale. Si in-

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terrogano gli imputati: Puccini Giacomo, fu Michele, natoa Lucca, cavaliere della Corona d’Italia, che cosa ha dadire?

- Nulla di più di quanto è contenuto nel verbale. Per ilresto mi rimetto completamente a ciò che il mio illustredifensore dirà tra breve.(…)

- Benissimo! Dice il Pretore, si accomodi egregio Ma-estro(…)

Delle accuse s’è detto.Le ragioni della difesa: “ dov’è il corpo del reato?”Dov’è l’anatra, contro la quale avrebbe sparato due

colpi di fucile Giacomo Puccini?Non c’è, non esiste (…) non c’era.Perché allora quei colpi di fucile?Furono dal Maestro Puccini sparati per provare un

nuovo tipo di cartucce.Ecco il vero crimine”.La sentenza.Il pretore assolve l’imputato per non aver commesso

il fatto (secondo i maligni per la paura d’esser traslocatoin Sicilia).

E poco manca che, invece, siano condannati carabi-nieri e guardie.

All’avvocato, in segno di riconoscenza, arriva in dono unospartito della Manon con una dedica sperticata dell’autore.

Due libri a confronto.Il primo, quello di Siciliano, reperibile quantomeno in

biblioteca.L’altro, del Marotti, almeno nell’edizione originaria

della Vallecchi, raro come un quadrifoglio.Ambedue a riparlare di un aneddoto forense poco co-

nosciuto del personaggio pucciniano. Che l’uomo fosse cacciatore lo si sapeva già. Puccini,

a modo suo, lo fu due volte, di anatre, e diciamo, di gal-linelle. Con alterna fortuna15.

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Schipa e la belva

Schipa Tito, alzatevi!Il convenuto aveva un nome illustre.L’accusa partiva dall’impresa, la Riboldi-Leffi, che

aveva stipulato con lui un contratto il 9 agosto 1916 peruna tournèe in America.

Ma il cantante non aveva inteso onorare l’impegnoassunto per i pericoli della navigazione in pieno conflittobellico 1915-18.

La causa era, ovviamente, civile, e la richiesta dellaparte attrice era un cospicuo risarcimento danni.

Ma il mare era divenuto un campo di insidie fra minee agguati da parte di sottomarini nemici.

E, fra la paura di rimetterci la pelle e l’obbligo con-trattuale, il comm. Schipa non aveva avuto più dubbi.

Il contratto non poteva essere una “forca di carta bol-lata, destinata a troncare il capo dei più insopprimibilidiritti degli uomini”. In effetti, almeno così la corte d’ap-pello aveva ragionato, lo stato di guerra è una causa diforza maggiore e se sussiste un ragionevole pericolo perl’incolumità anche le eventuali pattuizioni devono esservisacrificate poichè il diritto alla vita è superiore all’adem-pimento di una ragione creditoria.

Racconta Giovanni Porzio, difensore vittorioso del ge-niale tenore pugliese, che a Parigi, al Teatro Porte di SaintMartin, si doveva rappresentare il dramma L’Orso deiPirenei.

Secondo copione l’orso interveniva nella scena finalea salvare una giovane donna che riconoscente si buttavanelle braccia del salvatore.

Le prove, con una volenterosa attricetta, andaronobene ma la sera della prima la giovane fu preda di un

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irrefrenabile attacco di panico. Giunti alla scena clou, labella si tirò indietro, sparì chissà per quale presentimentoo brivido trasmessole dall’occhio della bestia.

Così Schipa di fronte alla belva, quel mare trasforma-to in un campo di battaglia, diventato all’improvviso unosteccato interminabile fra l’Europa e le Americhe16.

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Cap. 4Dissapori teatrali

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“Libertini” e pruderies

Notari, giornalista ed editore, fondatore di vari quoti-diani e periodici, subì processi a Milano e Parma per ilsuo libro Quelle Signore edito nel 1904.

Si trattava del “giornale di una prostituta”, di nomeMarchetta, un documento sicuramente più “umano” cheosceno.

Scritto sotto l’influsso dei Mystères de Paris di EugèneSue il lavoro riscosse un grosso successo che la pienaassoluzione nel 1906 non fece sfiorire.

Per la censura, che si era mossa più per l’argomentoscabroso che per gli effettivi contenuti, fu una sonorasconfitta.

Cadeva l’accusa di oltraggio al pudore, la stessa cheavrebbe portato sul banco degli imputati Settimio Manellinel 1909 per La vita e un decennio appresso, MarioMariani per Le adolescenti e Virgilio Scattolini lo scritto-re di A fior di lussuria e La signora che non fu signorina.

Ricorda Riccardo Reim che anche la giustizia di que-gli anni in cui D’Annunzio e Guido da Verona erano proi-biti alle signorine perbene finiva spesso per assolvere ipresunti rei.

Ma una novità di Notari, e l’attualità, sta nell’avver-tenza ai lettori, che “non è in giuoco che la più formida-bile molla della società attuale – “il Piacere” – con tutti isuoi dolori, le sue febbri, le sue vertigini e le sue mo-struosità”.

Una verità cinica e amara basata sul “determinismoedonistico”. E fu fors’anche questa teorizzazione che fecegridare allo scandalo i virtuosi del tempo scatenando lacuriosità dei tanti, e la moltiplicazione delle vendite nel-l’ordine delle decine di migliaia di copie.

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Un’opera “trasgressiva” che stimolò, come nota ilLorenzoni, intellettuali come Simoni, Borgese, Butti,Niccodemi, a farne occasione di difesa della libertà distampa nelle aule forensi.

Il piacere, dopo de Sade e prima di quello dannunzia-no, è per Notari una spinta che aziona il sociale. A pen-sarci bene, sembrerebbe una cronaca dei giorni nostri,almeno per alcuni settori della nostra vita pubblica eprivata!17.

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Se il Vate è offeso

Milano, 2 marzo 1904. Al Lirico debutta La figlia diIorio.

Sul palcoscenico Irma Gramatica, nuova fiamma, cosìsi dice, dell’autore Gabriele D’Annunzio. Grande il suc-cesso per quel dramma pastorale, ed echi di stampa aiosa.

Roma. Eduardo Scarpetta è impegnato a quel tempoal Valle, con la pièce La geisha, che vede il debutto diEduardo De Filippo nei panni di un bambino giapponese.

Ispirato da cotanti rumeurs Scarpetta ha l’idea di scri-vere una parodia di quel testo, e lo fa a tempo record,nasce Il figlio di Iorio, sbeffeggiante caricatura del capo-lavoro dannunziano. La rappresentazione avviene il 3 di-cembre dello stesso anno al Mercadante di Napoli. Perun insuccesso clamoroso. Meglio l’originale della copia,questo il responso del pubblico e della critica.

Ma non finisce lì. La vicenda ha uno strascico giudi-ziario perché Marco Praga, procuratore del Vate, querelaScarpetta per plagio e contraffazione in rappresentanzaanche degli interessi della Siae. Di Giacomo è dalla suaparte reputandola una stomachevole imitazione mentreCroce si schiera con il parodista ritenendo quel lavoroun tributo, non un’ingiuria. Ne nasce un processo epo-cale, il primo che dibatte sul diritto d’autore e sui limitidella parodia. Che coinvolge l’opinione pubblica e tra-sforma l’aula del tribunale napoletano in un palcoscenico.

E anche stavolta Scarpetta ha la meglio. Il reato nonsussiste. Si crea così una giurisprudenza favorevole chefarà da trampolino di lancio per un genere vero e proprioche troverà in Totò il primo grande maestro di un genereteatrale e cinematografico.

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L’attore è assolto ma la ferita del fiasco sulla scenagli brucia addosso. Solo cinque mesi dopo la sentenza siritirerà. E sarà quella la sanzione che il grand’attore siimporrà ed imporrà al pubblico che aveva decretato ilfallimento del suo Figlio di Iorio18.

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Scarpetta e il giornalista

Est modus in rebus.C’è un modo proprio nel gestire le cose, i rapporti.E certamente la maniera ripetitiva con cui il dr. Pane

aveva personalizzato l’attacco del suo “Corriere Vesuvia-no” contro l’attore Edoardo Scarpetta era troppo diretto,troppo violento.

La risposta di Scarpetta era quasi scontata, una que-rela per diffamazione ed anche per estorsione perchè iltutto sarebbe nato da richieste di palchi non esaudite.

Una storia di miserie e nobiltà, dunque, nelle relazio-ni fra mondo dello spettacolo e stampa più o meno ac-creditata.

Il cav. Scarpetta difendeva se stesso e il suo don Feli-ce Sciosciammocca.

E il tribunale gli dava in parte ragione, il dr. Pane eraassolto dall’accusa di estorsione mentre era condannatoa sette mesi di detenzione per ingiurie continuate a mez-zo stampa.

Il comico vinceva, la “critica” era sconfitta in quantoingiuriosa.

Ma forse, alla fine, era la sua maschera partenopeaoffesa ad aver perso un pezzo di comicità19.

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Frontespizio di “Quelle Signore” opera di StanislaoGiacomantonio da U, Notari

(Biblioteca Nazionale di Cosenza)

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D’annunzio parte lesa

Un duello tardottocentesco. Non in senso figurato. Mauna sfida a sciabole fra due solisti della penna primaamici.

Uno è Gabriele D’Annunzio, al tempo collaboratoredella Tribuna, rivista che aveva preannunciato agli ab-bonati del 1887 in omaggio il suo libro dal titolo IsaottaGuttadauro. Dall’altra Edoardo Scarfoglio che dalla trin-cea del “Corriere di Roma” aveva mal digerito, e con luila Serao, a livello concorrenziale, l’altrui iniziativa edito-riale, e sotto pseudonimo aveva iniziato una campagnadi sfottò dietro il paravento di un presunto poema Risaottaal Pomidauro a firma Raphaele Panunzio con un prologoin ottave dedicato al principe Maffeo di Sciarra Colonna,l’editore di Cronaca bizantina diretta dal D’Annunzio.

Apriti cielo! La parodia, che poteva chiudersi nel“piombo” dei caratteri tipografici e senza padrini né spar-gimento di sangue, degenera.

Stuzzicato a dovere sulla rubrica “Api Mosconi e Ve-spe” il Vate in una sua lettera del 27 ottobre sulla “Tri-buna” si lascia andare all’invettiva, parla di battersi, sfi-da il suo ex amico a scendere sul terreno. E così avviene.La lunga scelta delle armi prelude a tre assalti frontali,l’ultimo della terna si chiude col D’Annunzio ferito.

Innaturale epilogo di una contesa fra un poeta e ungiornalista. Le parole sono pietre, a volte diventano dar-di che prendono fuoco mentre sono scagliate e vanno acolpire. Fisicamente. Sia detto senza metafore20.

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Cap. 5Note di censura

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Il tenentino

Non se ne parla né se ne scrive ma le cronache diinizio secolo scorso riferiscono come, nello specifico aCosenza, fosse solito far tappa e inscenare spettacoli nien-temeno che l’inventore della macchietta, Nicola Maldacea(1870 -1945). Don Nicolino, nell’esibirsi, poteva unirel’utile (il lavoro di teatrante) al dilettevole (il contatto conla terra d’origine dei suoi) sentendosi un “sangue mi-sto”, napoletano figlio di un maestro elementare di origi-ne cosentina. Divenuto, all’epoca d’oro del cafè chantant,il divo incontrastato del Salone Margherita fu attore co-mico di punta delle compagnie teatrali di EduardoScarpetta e Gennaro Pantalena, insomma uno fra i per-sonaggi più autorevoli del mondo partenopeo del varietàe del teatro comico di inizio ‘900.

Ma la specialità che lo distingueva, la sua “creatura”,era la macchietta, e cioè quella sorta di “impressionismofigurativo”, applicato alla messinscena, che consistevanello schizzo fatto di fretta del soggetto prescelto, dei tic,le spigolature fisiche e comportamentali, per suo stessodire «come un disegnatore mi ripromettevo di dare al pub-blico un’impressione immediata schizzando il tipo, se-gnandolo rapidamente, rendendone i tratti salienti. Daciò l’origine della parola macchietta, che è propria del-l’arte figurativa: schizzo frettoloso, che renda con pochepennellate un luogo o una persona in mododa dameun’impressione efficace con la massima spontaneità ca-ricaturale».

Un’arte vera e propria, d’autore se si considera che lesue macchiette vantavano parolieri illustri, come Trilussa(Tri-Tri) e Di Giacomo, e autori musicali di chiara fama,come Vincenzo Valente.

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Alcuni personaggi “‘O rusecature” (un capolavoro, se-condo Roberto Bracco) e “‘O iettature” - disegnati e ri-creati sui palcoscenici dei cafè chantant e di teatri eteatrini di Italia e d’America, sembravano prefigurarecerte successive caratterizzazioni di Totò. Ma il gusto delfine dicitore, abile nel gioco linguistico del paradosso allimite del nonsense, sarebbe stato tipico di Petrolini, comedel resto quello della satira sociale e prepolitica. Non acaso “Il collettivista” con il ritornello-invito «il tuo non èpiù tuo, il mio non è più mio, se producete voi/ debboprodurre anch’io/ avete dei risparmi/ embè mettete ccà/ bisogna riconoscere/la collettività» innescò la roventepolemica dei socialisti dell’epoca mentre si racconta cheD’Annunzio ebbe a gradire molto di esser preso di mirain “il superuomo” testo di Lustig, scritto sotto pseudoni-mo da un procuratore del re, di sorprendente attualità.

Tempi duri per la satira a teatro! Addirittura la cen-sura si abbatté sulla innocua macchietta “Il tenentino”per offesa al decoro all’esercito per poi esser annullata aseguito del superiore intervento di sua altezza reale ilconte di Torino.

E per salvarsi dal moralismo imperante “La cocotteintellettuale” venne riportata sull’etichetta originale deldisco come inteletuale con una t sola per nascondereeventuali allusioni. Famosi, all’epoca, i personaggi dellagalleria Maldacea che prendevano in giro il bel mondo; èil caso di “Il tenore di grazia” mentre altri tipi come “Ilbalbuziente” rimandano la memoria in avanti ad altrigrandi della risata, vedi Pietro De Vico e Walter Chiari.

Rodolfo De Angelis ha sottolineato che «le precipuedoti di don Nicolino furono: la fissità comica dei suoiatteggiamenti, il porgere composto e signorile, una di-zione pastosa e intelligente, la scrupolosità del trucco, ilsenso della caricatura, la cura dei particolari. Il suo nome,salito ai fastigi della celebrità, costituiva per gli impre-

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sari il più sicuro richiamo. Durante le sue apparizioni al“Margherita” il manifesto giornaliero, anziché elencare imolti numeri del programma, se la sbrigava con tre pa-role: Questa sera Maldacea. Fu e restò in quel genere uncaposcuola. A lui spetta la qualifica di capostipite dellafamiglia dei comici del varietà.

Purtroppo la predisposizione a costituire varie fami-glie e il gioco del lotto lo ridussero in tarda età a compa-rire in qualche pellicola in parti secondarie (dopo le mol-tissime, attorno al centinaio, partecipazioni a film fra il1935 e il 1944 con registi come Matarazzo, Bavarese,Carlo Ludovico Bragaglia, Gallone, Goffredo Alessandrini,Mattali, Mastrocinque, Guazzoni, Bonnard) per sbarca-re il lunario «per modo che quando lasciò questa terra(un anno prima della fine del secondo conflitto mondia-le) nessun notaio ebbe a scomodarsi».

Maldacea, Totò, Petrolini, Rascel, e oggi Proietti, ulti-mo erede di quella comicità parlata gestuale espressivafatta di guizzi istantanei, dai sensori accesi verso il pub-blico, pronta a catturarne ogni reazione e a guadagnar-ne l’applauso. Segno che il filo rosso-sipario di quellagrande tradizione teatrale è ancora teso in mezzo allaplatea21.

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Censurate il jazz di Gabrè!

Nel 1929, mentre Romano Mussolini, il figlio del ducefuturo jazzista, ha ancora solo due anni, alla radio il pro-gramma EIAR Jazz viene annullato mentre Gabrè cantaQuel ritmo americano e Villico Black Bottom.

Perché pericoloso sovversivo? No, assolutamente,Aurelio Cimati, in arte Gabrè, è un tenore nato a VillaSan Giovanni nel 1890 ed è figlio di un professore diletteratura italiana dell’università di Roma.

Una persona perbene, artista eclettico che spazia dallecanzoni patriottiche come La canzone del Piave al varie-tà, che si è affermato con le canzoni alla moda nella Na-poli di Anna Fougez, Gennaro Pasquariello, GiovanniDonnarumma. E pure presente anche nel 1924 nel castdi Piedigrotta Rossi, primo Festival-gara canora con pub-blicazione di dischi, promosso dalla Phonotype, rasse-gna poi replicata in America (che derivi da lì il suo gustoper il sincopato?).

Gabrè è soprattutto l’interprete più accreditato dellacosidetta canzone feuilleton.

Il 1928 è il suo anno d’oro grazie a uno dei brani piùstranianti della storia musicale del belpaese; il testo scrit-to da Cherubini per Tango delle Capinere recita “laggiùnell’Arizona” mentre inizia la musica di Bixio, e unos’aspetta popular music con cactus e coyote mentre in-vece sopraggiunge un tanguero 2/4: con le capinere! Mil-le, e tutte innamorate (sarà un’epidemia) cantano al suo-no di chitarra (no, non è ancora nato Cocco Bill e cosìpure El Merendero), dopodiché appare un bandolero stan-co che scende la Sierra (Nevada?) senza arrivare allePampas. Nonsense e absurde abbondano eppure quan-do esce, oltre ai consensi, il brano è identificato come

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esempio di canzone “riformata”, orecchiabile, popolare,non maledetta come certe musiche da perdizione in stiledannunziano che tabarin e varietà vanno perpetuando.

Ma Gabrè non è censurato mentre canta Scintilla dovela donna traditrice muore con l’amante nell’alcova.

Sono le melodie che si rifanno ai demoplutogiudaico-massonici americani, al jazz, a quei ritmi di one step efox trot ed agli inglesismi mal digeriti da Roma che nonsono tollerate.

Tutte cose che Gabrè non può conciliare con la suasupposta adesione alla linea narcotizzante e piccolo bor-ghese che si pretende dall’alto, dalla politica del tempo.

Evidentemente la sua successiva assenza dalla radioè dovuta a questo “peccato” nonostante l’allineamento al“nuovo corso” perbenista imposto dal regime su massmedia, radio e dischi anzitutto, a superare quei residuidi satira libera ed ilare che lo stesso Gabrè aveva fino aun certo punto coltivato cantando la naja e la tassa su-gli scapoli.

Gabrè è stato il primo minimalista della canzone ita-liana ad accostarsi con successo alla vita di tutti i giorni.

Anche se gli autori talvolta lo portarono ad evaderedalla realtà.

Finì sommerso anche lui dagli eventi che stavano cam-biando il volto dell’Italia e il costume degli italiani 22.

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Signorinella v/s Giovinezza

Vasco Rossi canta Senorita alla sua maniera alluden-te e allusiva. I Beatles intonavano Girl su una dondolan-te cadenza da sirtaki. Dean Martin (s)canzonava con ca-denza slang la sua Bonazera Signorina Bonazera.

Ma la Signorinella dei nostri nonni era tutt’altro. Leiun’antilolita. Lui, un notaio in età avanzata, in preda airicordi. Un romanzo melodico, con un testo zeppo di sil-labe come un rap e una storia precisa e toccante.

Le parole erano di Libero Bovio, su musica di NicolaValente, figlio di Vincenzo, in lingua italiana ma d’am-bientazione partenopea.

Per una canzone che visse due volte. La prima neglianni trenta quando la interpretavano Carlo Buti e lo stes-so Gennaro Pasquariello, dismesso il repertorio dialettale.Un successo, per questo condensato di memoria e me-morie, un tuffo nel privato fuori dalla retorica di inni alregime del tipo Giovinezza, Giovinezza.

Brani incompatibili, aggressiva quest’ultima, malin-conica invece quella della ricamatrice della porta accanto.

A modo suo controcorrente. Il conflitto bellico la rele-gò nel dimenticatoio. Poi, nel dopoguerra, mentre impaz-zava il boogie woogie, riecco apparire la Signorinella dol-ce dirimpettaia del quinto piano, con la voce di AchilleTogliani, a richiamare immagini romantico-soft come “almio paese nevica” e campanili bianchi.

Oggidì la cosa provocherebbe fax di allerta della pro-tezione civile e allarme valanghe. All’epoca no, soloinoffensiva coltre bianca. Il bambino del protagonistadella canzone in un vecchio libro di latino aveva trovatouna pansè. Al tempo odierno si preferisce incatenare aponte Milvio un lucchetto, Moccia docet, e buttare la chiave

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nel Tevere. Sarà meno ecologico ma fa tanto trend!.Miss mia cara miss cantava il Totò d’avanspettacolo,

ma non poteva immaginare l’avvento della velinocrazia.La signorinella pallida, in assenza di fard, non era FrouFrou né frequentava i tabarin, era una timida Penelopedi un’epoca tramontata, senza finanziarie, senza tv, tut-ta radio novelle e focolare.

La canzone di Bovio e Valente la sceneggiò in versi ecanto dal punto di vista dell’appartamento a fianco congli occhi di un ammiratore, interni di un quadro cosìdelicato da non passare inosservata a ben due genera-zioni. Un classico italiano del sentimento, superato dal-le Barbie Girl della cronaca non solo musicale dei nostrigiorni23.

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Faccetta nera antirazzista

La buonanima di don Peppino raccontava, a me an-cora ragazzo, delle disavventure degli italiani in Abissinia.

Lui, di rappresaglie ed eccidi, non sapeva nulla. Ita-liani brava gente. Era quella l’idea che circolava fra icommilitoni che, da emigranti e colonizzati, si erano ri-trovati a emigrare in divisa ma da colonizzatori. Mi rife-riva che la colonizzazione era stata politica culturale ses-suale, pronunciava certi strani nomi, tipo brombillo, chela truppa aveva ripreso, appreso, e storpiato, dal gergolocale. Che alfieri dell’italica stirpe si fossero “accompa-gnati” a bellezze locali era cosa scontata, se si pensa allasolitudine di quei militari, in quelle terre assolate e lon-tane.

La canzone Faccetta nera era stata concepita in quelclima di boria espansionistica in cui anche l’esoticoeroticoandava assumendo valenza di prima fotografia sonoradell’Italia coloniale.

Anche se associata comunemente e identificata comeinno del regime fascista la vicenda di questo brano è inrealtà molto più complessa.

Nata dall’ispirazione di Micheli e Ruccione, come be-nevolo paternalistico “apprezzamento” della bellezzaabissina, Faccetta nera si presentava come una sorta diGiovinezza Giovinezza color cioccolato.

Ed era un modo per cementare, dall’alto, il rapportocon i sottomessi, valorizzandone le beltà locali, implici-tamente autorizzando i soldati a lenire la nostalgia conunioni temporanee o stabili in quel lembo d’Africa fino aun certo punto apparso come ospitale. Era una specie dislogan, richiamava seni neri al vento, relazioni estese epoligamiche che, per chi proveniva dalla patria bigotta

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tutta casa e famiglia e pruriginosa delle case chiuse,poteva sembrare un invito a scoprire nuove “frontiere”,specie a voler considerare il precedente dell’eccitazionetribale di tanti europei di fronte al gonnellino di bananedi Josephine Baker.

Faccetta nera era la rappresentazione in note diun’Italietta buonista, di fatto funzionale al regime.

Che subì le sue censure. La prima versione, scritta inromanesco, nel 1935, fu accusata di incoraggiamento allacommistione delle razze.

Per prevenire problemi l’autore dei testi l’aveva modi-ficata depurandola delle sdolcinatezze. Addirittura si eratentato di contrapporle una Faccetta bianca di Grio eMacedonio ma con scarso successo.

L’adozione delle leggi razziali, nel 1938, fece il resto.Anche Faccetta nera, da inno ufficiale, si trovò a subire iniet della politica centralistica in quanto espressione trop-po benevola dell’imperialismo coloniale24.

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Al Bano v/s Jackson

È noto che Al Bano reputando che Michael Jacksonavesse plagiato la sua “I cigni di Balaka”, adì le vie legalinel 1992 per attivare le relative tutele.

La causa andò avanti per le lunghe prima di conclu-dersi pacificamente fra i due una decina di anni dopo.

Da notare che nel verdetto emerse che ambedue i braniderivavano da melodie popolari ancor precedenti.

Pur dando per scontata la buona fede dei musicistic’è da sottolineare, come la giustizia italiana abbia inquell’occasione utilizzato un metodo storico, oltre che fi-lologico-musicale, per risalire indietro nel tempo alla ma-trice dei due “pezzi” musicali e capire se gli stessi esi-stessero già “in natura”.

La conoscenza di tale elemento ha assunto così unrisvolto di rilevante natura giuridica ed economica.

Ma la domanda sorge spontanea: e se Mozart o Rach-maninov si risvegliassero oggi dalle rispettive tombequante rivendicazioni potrebbero accampare a propriofavore?25

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Senza Luce

Gary Brooker, cantante dei Procol Harum, si era det-to indignato nell’apprendere, a 38 anni dal 1967, dellapretesa dell’ex tastierista del gruppo, Mattew Fisher diessere riconosciuto quale coautore della parte musicaledel famoso hit A Whiter Shade of Pale.

In appello, nel 2008, i giudici ribaltarono la sentenzadi primo grado di due anni prima che un perdente Brookeraveva definito più oscura del nero, senza luce, (ci ver-rebbe da aggiungere) e negarono a Fisher i proventi eco-nomici derivanti dalle royalties pur accordandogli il di-ritto morale sulla paternità del brano.

Non decaduto, né prescritto, quello, secondo quantosaremmo stati portati a pensare alla luce di talune con-suetudini giudiziarie di casa nostra.

Più bianco del pallido, da lassù, Bach è rimasto tuttoil tempo a guardare26.

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Jazz contro rap

L’accusa: violazione di copyright.Attore, James Newton, di professione musicista jazz,

esattamente flautista.Convenuto un gruppo rap, i Beastie Boys, rei, a suo

dire, di aver effettuato un campionamento “copia e in-colla” di sei secondi di un brano del jazzista nel proprioPass The Mic.

Non era sufficiente, secondo la tesi di Newton, avergliversato una quota di diritti rapportata allo spezzone dimusica prelevato sostenendo fosse invece dovuto unammontare proporzionato alla durata dell’intero brano.

La nona corte d’appello di S.Francisco, siamo nel giu-gno 2005, invece gli ha dato torto ritenendo i sei secondinon bastevoli a configurare il brano.

Nessuna violazione di copyright, allora. Solo un matchtribunalizio in cui il jazz o meglio un jazzista perde ilconfronto con il rock anzi con dei rappers.

Forse un pò inusuale. Perché il jazz, nell’interpreta-zione, può citare musica esistente e preesistente, utiliz-za anche il patchwork come modello esecutivo, richia-ma, echeggia, ricuce, rielabora liberamente, (ri)crea. Inquel caso l’innesto era stato una sorta di trapianto ditessuto (musicale). Era già diverso. Ma, col senno del poila causa poteva però non essere intentata. È anche veroche la giurisprudenza si alimenta di queste pronunce.E, tutto sommato, è stata un’occasione per fissare delleregole nel mare magnum del mondo musicale interna-zionale27.

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Fedelmente Beckett

Su Beckett, possiamo dirlo? i registi non possonomuoversi con troppa libertà.

Remondi e Caporossi furono costretti a rinunciareall’allestimento di un Giorni Felici con cast solo maschi-le. Più recente il niet degli eredi alla produzione dellaCompagnia Krypton L’ultimo nastro di Krapp, diretto daGiancarlo Cauteruccio, con traduzione in calabrese diJohn Trumper.

Problemi anche per un Finale di partita con FrancaValeri e Patrizia Zappa Mulas ed un Aspettando Godot alle-stito qualche anno fa dalla Fondazione Pontedera Teatro.

Tutto si gioca sul volere di chi è il titolare dei diritti,finchè durano, ma è su un piano più squisitamente arti-stico che ci si muove spesso sul limite fra fedeltà e pru-denza da una parte e rilettura e aggiornamento, dall’al-tra, nel rivisitare un classico teatrale. Interpretare untesto senza travisarne lo spirito, sembra facile, in teoria,ma su questo terreno la casistica offre esempi vari disconfessioni, anche al di fuori di Beckett. Non si trattadi parteggiare fra gli uni e gli altri bensì di stare dallaparte della tradizione o dell’innovazione. E su questo pun-to ognuno di noi ha le proprie idee, indiffidabili28.

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Note

1 In “Musica News” N. 1/2012.Cfr. www/centrojazzcaabria.com2 Cfr. E. Furfaro, Scacchi sfida fra intelligenze, “Pensiamo

Mediterraneo”, n. 10/2010.3 In “Calabria Ora”, 21 luglio 2010. Gregorio Leti nacque a

Milano il 29 maggio del 1630, d’una famiglia originaria di Bo-logna. Fece i suoi primi studi a Cosenza , e fu in seguito chia-mato a Roma da suo zio, il quale, essendo prelato, avanzarlovoleva nella magistratura o nella prelatura; ma Leti, indoledivagata e di costumi liberissimi, rifiutò apertamente tali pro-posizioni, e tornò a Milano ad aspettare d’essere maggiore.

Divenuto che fu padrone della piccola sua fortuna, fu sol-lecito ad appagare l’inclinazione sua pè viaggi e consumò ra-pidamente il suo patrimonio. Suo zio, fatto poco prima vesco-vo d’Acquapendente, il richiamò verso di sé, e sperò mediantei suoi savi consigli, di fargli mutar vita; ma scorgendolo sordoalle sue rimostranze, lo scacciò dalla sua presenza. (…) Leti sirecò allora a Ginevra e vi si fermò alcuni mesi, onde istruirsi afondo sui principi dè riformati; di là andò a Losanna dove feceprofessione di calvinismo e sposò la figlia di G.A. Guerin, va-lente medico, presso il quale era alloggiato. (…) Alcuni dispia-ceri che gli attirò il suo genio per la satira l’obbligarono a par-tire da Ginevra nel 1679. Andò a Parigi, ed ebbe l’onore dipresentare a Luigi XIV un panegirico (…) passò in Inghilterra.Carlo II l’accolse con bontà, gli donò 1.000 scudi, e gli permise discrivere la storia d’Inghilterra. Egli fu sollecito ad approfittaredi tale permissione; ma la sua opera conteneva de’ frizzi satiriciche dispiacquero; ed ordinato gli fu di uscire dal regno. Rifug-gì nel 1682 in Amsterdam ed ottenne in titolo di storiografo diessa città dove morì all’improvviso il dì 9 di giugno del 1701.(nota in G. Leti, Vita di Sisto V, vol. I, Ed. Pomba, 1852).

4 In “Calabria Ora”, 9 settembre 2010.5 Si veda dell’A., Storia della musica e dei musicisti in Cala-

bria, Periferia, Cosenza, 1987.1998.6 Cfr. V. Imbriani, Processo San Donato, 1869, Tipografia

Napolitana.

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7 Cfr sull’argomento G. Marsella, Processi letterari, in “Glioratori del giorno”, Roma, 1935, n. 7.

8 Ibidem.9 Ibidem.10 Da “Calabria Ora” 31 maggio 2010.11 Ivi, 4 luglio 2010.12 Ivi, 25 giugno 2010.13 Ivi, 13 giugno 2010.14 Ivi, 6 giugno 2010.15 Ivi, 29 luglio 2010.16 Cfr., G. Porzio, Arringhe, Jovene, Napoli, 1963.17 Cfr. R. Reim, introduzione a Umberto Notari, Quelle Si-

gnore, Milano, Lombardi, 1993.18 Cfr. L. Bentivoglio, D’Annunzio contro Scarpetta. La paro-

dia alla sbarra, “La Repubblica”, 25 maggio 2008.18 Cfr. G. Porzio, cit.20 G. Infusino, M. Serao e E. Scarfoglio, Napoli, Luca Torre,

1994.21 In “Calabria Ora” 8 maggio 2010.22 Ivi,4 settembre 2010.23 Ivi, 25 novembre 2010.24 Ivi, 2 dicembre 2010.25 Cfr., Rockol.it26 Cfr., B. Southall, Il Pop alla sbarra, Roma, Arcana, 2009.27 Cfr., Dirittodautore.it28 Cfr A. Bandettini, Beckett finisce in tribunale, La repub-

blica, 29-11-2005.

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Parte seconda

“Nel più comprensivo rapportodella vita, persino ciò che come ele-mento singolo è disturbatore e di-struttivo, è del tutto positivo; nonrappresenta il vuoto ma il compi-mento di un ruolo solo a lui riser-vato”.

G. SimmelIl conflitto della cultura moderna

e altri saggi, Roma, Bulzoni

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“Pagliacci” querelle sull’idea

Nel dicembre del 1902, al Teatro dell’Opera di Parigi,veniva inscenata Pagliacci di Ruggiero Leoncavallo. In ef-fetti la “prima” dell’opera che, con Cavalleria Rusticanadi Mascagni, avrebbe di fatto segnato i destini del verismomusicale, era avvenuta in precedenza, il 21 maggio del1892, a Milano. Senonché l’allestimento francese pro-dotto dall’Académie Nationale de Musique et de Danse,con Aino Akte nel ruolo di Nedda e Jean De Reszké neipanni di Canio, si fregiava dei bozzetti commissionati almaestro Rocco Ferrari il quale vi aveva ritratto immaginie costumi di Montalto Uffugo, Rose e San BenedettoUllano. Una novità, la sua firma su quelle decorazioni,frutto di una ricerca effettuata con scrupolo etnograficoche andava a marcare ulteriormente l’ambientazionesouthern del melodramma in direzione di un ulterioretratto realista. Era la prima volta che venivano “proiet-tate” sulla scena europea immagini di così spiccata ade-renza agli scenari disegnati dalla fervida immaginazionedel compositore-librettista Leoncavallo.

A completare il cast di Paillasse edizione 1902 c’era-no il baritono M. Gilly, debuttante nel ruolo del bel Sil-vio, il giovane Laffitte interpretava Beppe e Delmas eracalato nel personaggio di Tonio.

I cori erano affidati a M. Puget e l’orchestra alla bac-chetta di J. Paul Vidal. Lo spettacolo suscitava nel pub-blico dell’Opera una vera e propria ovazione ampiamen-te documentata dalle cronache del tempo.

Di vario tenore i commenti della critica nei confrontidell’allestimento che si avvaleva della traduzione diEugène Crosti.

Su “Le Figaro” del 18 dicembre Eugène d’Harcourt ne

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lodava la vitalità: «commedia, dramma, tragedia, tutto vipassa ed in un’ora è finita, e non ci si può annoiare unistante». Già prima, sulla stessa testata, il 4 dicembre,Adrien Bernheim, nel presentare “le debut de m. Leon-cavallo”, aveva concluso il suo pezzo biografico con uninvito ai giovani musicisti italiani dei conservatori di Na-poli, Roma, Milano, Venezia e Bologna, a «ricordare lastoria della Festa della Madonna della Serra di Montalto».

Stizzosa la nota a firma di O’Divy, apparsa su “Le Soleil”,il 18 dicembre, sin dal “cappello” introduttivo: «Paillassenon si presta a lunghe dissertazioni... tocca poco il cervel-lo. Non rivela né attività singolare né sforzo originale». Egiù l’accusa di “volgare” per l’autore e dubbi sulla solidità omeno della gloria di Paillasse: «chi vivrà, vedrà». Una svistacolossale, si può ben dire oggi, anche se mitigata dall’one-sto riconoscimento del successo della recita parigina, cosìnetto da autocostringere l’articolista «a rinunciare a de-scrivere l’entusiasmo del pubblico».

E se lo stesso O’Divy, nel definire Pagliaccio, l’istrio-ne, «un uomo in carne ed ossa come noi» ne attribuiva lapaternità, come tipologia, alla storia di Molière, altri com-mentatori – è il caso di Gaston Carrand – andavano ol-tre. Quest’ultimo, su “La Liberté” del 19 dicembre, affer-mava che «per comporre il suo libretto senza torturare lapropria immaginazione l’autore ha semplicemente preso“chez nous” la celebre avventura di Tabarin e l’ha tra-sportata sulle montagne della Calabria».

Non è ozioso riparlare oggi di tali valutazioni se sipensa che, solo qualche tempo fa, Damien Colas, defini-va nel booklet di un c.d. Philips, “leggenda” l’ambienta-zione calabrese del melodramma e “mistificazione” la di-fesa opposta da Leoncavallo all’accusa di plagio da partedi Catulle Mendés, autore della pièce Femme de Tabarinmessa in scena nel 1874. A volte ritornano!

Queste e quelle affermazioni, dal vago sapore sciovinista,

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pretenderebbero di pronunciare una sentenza mai emana-ta da tribunali. In effetti della questione venne investita lagiustizia ma non se ne fece nulla a causa del ritiro dellaquerela da parte del denunciante, il transalpino Mendés.

Del resto, sia Pagliacci che La Femme de Tabarin, de-vono molto al precedente archetipo spagnolo, il DrammaNuovo di Manuel Tabayo Y Baus, datato 1867. É statoscritto che l’assassinio del domestico di casa Leoncaval-lo, avvenuto a Montalto Uffugo nel 1865, ha costituitouna sorta di ideale antefatto, un pre-testo scolpito del-l’autore. Un’ipotesi per niente peregrina, sempre che sivoglia riconoscere un adeguato valore alle fonti che ri-portano, quali involontario testimone diretto o indirettodel misfatto, Leoncavallo fanciullo.

La place-identity, nel dramma, occupa una colloca-zione non secondaria, in quanto elemento oggettivo. Al-l’identità dei luoghi della vita – e con essi degli oggettiche vi si posano – va aggiunta quella degli avvenimentiche li hanno impressi di sé. In tal senso una chiave dilettura in termini di “significati evocativi” ci porta a va-lutare l’elemento, di tipo soggettivo, determinato dal-l’esperienza di violenza che toccò l’autore allorché, an-cora imberbe, viveva con la famiglia, nel paese affacciatosulla valle del Crati. Elemento di natura anche sociale,in quanto rapportabile alla relazione dello stesso con lapiccola comunità locale di appartenenza. Era unaMontalto di nobili e plebei, mercantile e rurale, borgopatrizio e centro cristiano, quella in cui avvenne il delitto.

Allora la “piaga” più visibile, a livello di devianza so-ciale aggregata, in un decennio sconvolto dal brigantag-gio, erano le “associazioni di malfattori”. Presenti erano ireati individuali tipici di un mondo ancora agropastorale,in cui la neonata Unità d’Italia, a seguito del passaggiodal giogo borbonico al regime monarchico nazionale, sten-tava a registrare particolari segnali di cambiamento nei

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livelli e negli stili di vita delle popolazioni autoctone.Quel crimine, uno dei tanti destinati ad essere “rap-

presentati” giudiziariamente nel capoluogo bruzio ed aconfluire negli aridi numeri delle statistiche giudiziarie,potrebbe aver fornito al compositore di Paillasse, un re-ticolo di conoscenze e affetti, di cui l’universo fantasticodell’autore si sarebbe alimentato assieme al ricordo diun ambiente sociofisico da wilderness.

Occorrerebbe, finalmente, ristabilire la verità.E sarebbe interessante ri leggere la biografia

leoncavalliana ponderando l’importanza dell’infanzia nel-la formazione della personalità e sull’imprinting che fattie circostanze possono aver conferito a un giovane in fasedi crescita, specie quando certe rotture traumatiche del-l’adolescenza creano ferite interne difficilmente accerta-bili. In Calabria Leoncavallo aveva vissuto parte dell’ado-lescenza, in quella Montalto Uffugo il cui nome aleggiaper tutta la storia sin dall’inizio. Qui l’azione ha luogo «ilgiorno della festa di Mezzagosto» fra il 1865 e il 1870.

L’allestimento francese, nel dare risalto alla “cornicefigurativa” degli eventi, sembrava evidenziare il ruolo nonmarginale di uno scenario metateatrale affollato dizampognari festosi e popolane parate a festa, da monellie contadini, zingare e acrobati; nel contempo, andava amaterializzare un’idea verosimile di luogo i cui profiliparevano incisi fra le righe del libretto.

Nell’azione teatrale il paese calabrese è testimone del-l’arrivo di una troupe di girovaghi e fa da sfondo all’in-treccio di sentimenti ed emozioni fra attori e spettatori,fra chi agisce e chi si trova ad assistere.

Canio teme che Tonio gli insidi sua moglie Nedda chein realtà ama Silvio, un possidente locale. Lei respinge itentativi di approccio da parte di Tonio che si vendicadenunciandone al marito il legame segreto.

Canio, folle di gelosia, tace. Nel secondo atto il dram-

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ma si compie. Ne è tramite la rappresentazione di unacommedia. La donna, sul piccolo palcoscenico, assumeil ruolo di Colombina. Tonio, il corteggiatore, è Taddeo.Beppe, altro personaggio, diventa Arlecchino.

E Canio, vestiti i panni di Pagliaccio, uccide nel finaleColombina con un pugnale che si rivelerà vero. Nedda,morendo, invocherà Silvio che, accorso in aiuto, verràanch’egli ucciso da Canio.

La chiusura ha toni di pathos intenso, paragonabiliad altre opere del periodo verista che da fatti di cronacavera avevano tratto ispirazione.

La musica sembra ritagliata in modo esemplare perquella storia. Il clou sta nell’aria “Vesti la giubba”, dive-nuta un motivo popolare a livello transoceanico. Ma ètutta la messinscena a lasciar trasparire la sensazionedi una particolare “vicinanza” dell’autore all’invenzionemelodrammaturgica meglio riuscitagli.

Tutto ciò può essere considerato “leggenda”?E quale fu, realmente, il ruolo esercitato dall’espe-

rienza calabrese nella creazione del capolavoro? Ci sonoprove o indizi che autorizzino una lettura che ripercorragli itinerari pregressi nella memoria autorale fra le se-quenze della stessa vicenda umana di Leoncavallo?

Nella Montalto di allora, l’eco di un omicidio era de-stinata a risuonare ampiamente anche se taluni feno-meni di anomia legati all’autoregolazione di conflitti in-terpersonali, potevano essere per certi versi visti dallacoscienza comunitaria quasi come “normale” escrescen-za, scontata patologia della vita sociale.

Nella fattispecie più avanti descritta il senso dell’onoresi mescola a quello che si potrebbe definire un rito dipassaggio: un episodio di violenza come dimostrazionedi forza, autoaffermazione, baldanza, abilità, quasi unmessaggio ai più di aver adempiuto ad un “obbligo” peracquisire reputazione anche se al di fuori delle istituzioni.

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Una situazione che, nel melodramma, si tramuta in ven-detta per gelosia in una simbolica accezione di sangue.

Per tornare all’esperienza di Leoncavallo spesso siminimizza la supposta relazione di causa-effetto fra emo-zioni passate e intuizioni creative presenti e si sottolineainvece quella relativa alla circostanza che lo “spirito deltempo” dell’irruzione verista esercitò ai fini della stesuradell’opera. In verità nella fruizione di un’opera d’arteimporta rilevarne il significato globale, l’identità stilistica,l’essenza significante, le quote della totalità del mosaico,il genius loci, il senso stesso del messaggio dell’autorevisto in diacronia e sincronia.

Non basta esaminare l’aneddotica. Andrebbero svela-ti i particolari più riposti, in quanto ciò può essere utilea dare risposte ed a fornire spiegazioni. E, dove è possi-bile evidenziarli, i fatti, nudi e crudi.

Intanto la “leggenda” si basa su dati incontestati. Unprocesso fu effettivamente istruito da Vincenzo Leonca-vallo, il padre di Ruggero; poi celebrato per giudicare irei di un delitto che toccò da vicino quella famiglia digente perbene venuta da Napoli.

Il loro domestico Gaetano Scavello era stato ucciso neipressi di un teatro. Ciò da il senso di una festa interrotta.

Una veniale offesa aveva fatto scattare la scintilla, lacompetizione fra maschi. O meglio si era trattato di ununilaterale, preannunciato agguato di due fratelli controuna persona inerme. Un omicidio insomma dettato da ir-refrenabile impulso di attacco, destinato a ripristinare neiconfronti del gruppo sociale, più che l’onore, una malinte-sa dignità lesa da altri secondo oblique presunzioni men-tali. Elementi che anche certa saggistica locale, forse pre-occupata da rivendicazioni regionalistiche, non ha adegua-tamente evidenziato.Vero è che i tempi di diffusione, rispo-sta, assestamento della pubblicistica sono a volte lunghi.

Ma, vivaddio, a leggere Damien Colas, gli eventi luttuo-

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si del 1865 a Montalto non sono stati a sufficienza oggettodi articoli e saggi. Il rimuoverli non è utile alla causa dellacomprensione di un melodramma complesso ed enigmati-co come Pagliacci il cui impianto “doppio” ha in quella psi-cologica una delle possibili se non obbligate chiavi inter-pretative assieme al groviglio di fatti e finzione.

Ma, oltre ciò che appare, c’è l’autenticità delle infra-strutture mentali razionali e immaginative.

In tale contesto, si è pensato di riproporre alcuni scrit-ti, pubblicati in forma sparsa, per puntare a unareconductio ad unum della materia, guardando all’ante-fatto del 1865, per come descritto dagli atti processualidell’epoca, come materiale originario, traccia di un per-corso creativo da ridisegnare.

Ne è sortita una lettura forse angolare dovuta allainusuale ricerca di nessi fra tessuto socioculturale estrutture del pensiero creativo. Una ricerca inerpicantesisu itinerari non praticabili secondo consuete modalitàd’analisi; destinata ad infrangersi contro la difficoltà didecodificare segni in parte indecifrabili.

Ma una ricerca si spera non vana: anzitutto per “smon-tare” la semplicistica tesi della “leggenda”; eppoi per rac-cogliere indizi – pure se il loro insieme non costituisceuna prova –, validi comunque a restituire valore al datostorico anche se “travisato” da costruzioni di fantasia.

Uno spunto, infine, per ridare respiro alla biografiadi un artista, troppo spesso stretta entro schemi omoge-nei che la appiattiscono in nicchie chiuse, eppure inte-ressante se vista in un’ottica più ampia, di interazioni einterconnessioni. «Io sono il Prologo». é la prima espres-sione profferita in Pagliacci quasi un manifesto delverismo musicale. La storia può essere, a sua volta, “pro-logo” di un capolavoro i cui cromosomi ideativi sono an-cora da isolare.

A.F. da Pagliacci. Un delitto in musica, Cosenza, Periferia, 2006)

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Procida il pungolatore

Andrea Della Corte, in un suo celebre volume1, ricor-dando un commento a Cimarosa apparso nel 1901 sullarivista romana Cronache Musicali a firma Saverio Procida,definiva quest’ultimo “critico napoletano”.

In realtà Procida – nonostante anche dal cognomesgorgasse insulare solarità partenopea – almenoanagraficamente, era calabrese; ma integrato nell’am-biente artistico e culturale al punto da diventare un na-poletano d’adozione, attirato, del resto come tanti altriconterranei, dall’effervescenza e vitalità artistica e mu-sicale partenopea. Effetto attrattivo, questo, che avevainteressato, tanto per fare qualche nome, compositoricome Vincenzo Valente. Il musicista, nato a CoriglianoCalabro nel 1855, una volta approdato a Napoli, vi avreb-be dimorato fino alla morte avvenuta nel 1921. Propriolì, nel paese d’o sole avrebbe conosciuto fama enorme,grazie a ’A capa femmena, canzone con cui GiuseppeSantojanni, editore nativo di Lungro, avrebbe inaugura-to nel 1883 le proprie edizioni musicali2.

A quei tempi il mondo dello spettacolo partenopeo eraanche popolato da macchiettisti e cantanti da cafèchantant. é il caso di Gabrè (Aurelio Cimata o Cimati)originario di Villa San Giovanni3.

E alla Napoli musicale si ispiravano, persino oltreo-ceano, giornalisti come il poeta – paroliere nonché con-ferenziere-giornalista Alessandro Sisca di San Pietro inGuarano, dove era nato nel 1875. Sisca, il cui pseudoni-mo era Riccardo Cordiferro, era il co-fondatore del pe-riodico La Follia di New York.

Dagli Usa, dove operava anche il giornalista cassaneseItalo Carlo Falbo, Sisca scriveva il testo di Catarì, la fa-

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mosa Core ’ngrato, canzone manifesto all’ingratitudine,musicata da Salvatore Cardillo nel 1911, cavallo di bat-taglia di Enrico Caruso4.

Con i Sisca, Caruso aveva stabilito un ottimo rappor-to collaborando anche alla testata di famiglia in qualitàdi caricaturista. Non altrettanto feeling Caruso avevainstaurato con un altro operatore culturale provenientedal cosentino. Il riferimento è al barone Saverio Procida,musicologo e critico d’arte nato ad Amantea il 30 maggio1865 da Antonio, originario di Nocera Terinese e sindacodi Amantea negli anni 1835-37 e dalla gentildonnaCarolina Mirabelli. Nella sua biografia figurano brillantistudi a Napoli, città dove aveva finito per stabilirsi dive-nendone uno dei principali opinionisti e animatori cul-turali che il De Mura indica fra i frequentatori più invista del Caffè Gambrinus.

A Napoli costituiva, assieme al concittadino Alessan-dro Longo, didatta e pianista, l’Associazione “Alessan-dro Scarlatti” che annoverava Matilde Serao e SalvatoreDi Giacomo fra i soci fondatori. Per la cronaca Longo,come Procida, era una penna forbita e un ottimopolemista5.

Gli scritti di Procida ci offrono uno spaccato evidentedelle competenze possedute in varie discipline artistiche,pittoriche, musicali, teatrali e letterarie. Fra le diversemonografie da ricordare almeno quella fondamentale suArrigo Boito6.

Il taglio critico che caratterizzava i suoi scritti, e l’acu-tezza degli interventi, lo rendevano un personaggio in-fluente nell’ambiente artistico partenopeo. Una firma diquelle per così dire pesanti, destinata a lasciare il segnosulle pagine di quotidiani quali Il Mattino, Roma, Il Mez-zogiorno, su cui, l’11-12 maggio 1924, nel commentarela pittura di Nicola Ciletti, teorizzava l’esigenza di uncritico amante della «sostanza nelle plasmazioni e il sen-

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timento profondo nell’espressione e nell’ambiente».Di fronte al melodramma, a differenza delle riserve

espresse dal Torrefranca del pamphlet Giacomo Puccinie l’opera internazionale, Procida si poneva in modo piùpositivo nei confronti dell’opera pucciniana come si evincedai saggi pubblicati su Il Corriere della Sera e La Lettura7.

Ed attento alle innovazioni si rivelava sul Roma del 2febbraio 1938 nel recensire la mimocoreografia tratta daun racconto negro di Maner Lualdi, musiche di AdrianoLualdi, Lumawig e la saetta, al San Carlo di Napoli:

Musichetta arguta, estrosa di ritmi graziosissima di effettitimbrici, ricercati nella descrizione e nell’intreccio dellefigurazioni, che non sappiamo davvero per quale ragione siadispiaciuta a un gruppetto di tradizionalisti, i quali forse an-cora credono che i moderni compositori dei balletti debbanoscombiccherare polchette alla Dall’Argine, marcione barocche,cantabili barbosi affidati alla cornetta. Il pubblico di sana co-stituzione, reagì contro codesti sciacalli della platea e dellubbione con vigorosi battimani…

La notazione sul balletto dell’aviatore Lualdi va natu-ralmente letta avendo presente il quadro di un momentostorico, quello fascista, di generale conformismo, in cuiparadossi e focosità di stampo futuristico facevano an-cora presa. Intanto Procida pareva posizionarsi in ter-mini d’apertura anche se la relazione che investiva intel-lettuali e regime era estremamente complessa, comeambivalente poteva esser visto il rapporto sussistente franovità e conservazione nella realizzazione di un’idea ar-tistica.

Si consideri oltretutto che su Il Giornale della Dome-nica del 29-30 dicembre 1939 Luigi Pirandello lamenta-va che «forse manca una scuola di critici che sappianocomprendere le ragioni e le forme del rinnovamento». Ildiscorso meriterebbe ulteriori approfondimenti. Quello

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che preme rimarcare in questa sede è come la notorietàdi Procida sia dovuta, più che agli anelli di una lungabibliografia, all’aneddotica, esattamente ad una vecchiavicenda intrecciata a filo doppio con i primordi della car-riera di Enrico Caruso. Il tenore, il 30 dicembre 1901

può tornare a Napoli per presentarsi al pubblico del SanCarlo. É un’esperienza fondamentale, nel male e nel bene. Glidanno tremila lire a recita e Caruso è orgoglioso di sé. Due oreprima di cantare sale sul colle di San Martino che sovrastaNapoli, a toccare la fontana tanti anni prima forgiata con lesue mani. Ma il San Carlo è teatro tanto difficile quanto ilventottenne Caruso ingenuo. Non è andato a rendere omaggioal cavalier Alfredo Monaco detto ’O munaciello né al principedi Castagneto né agli altri notabili che con un cenno del capopossono annientare una carriera. Errore. Si apre il sipariosull’Elisir d’amore. Caruso sta per intonare Quanto è bella,quanto è cara e i suoi tifosi applaudono in anticipo. Altro erro-re. Gli uomini del cavalier Monaco e del principe di Castagnetoli zittiscono: «Aspettate, sentiamo prima». Caruso s’innervosi-sce, la voce resta ingabbiata, al San Carlo l’aria è piombo. Epesante, il giorno dopo è il piombo delle colonne del Pungolo:«Per cantare l’Elisir occorre una voce di tenore non di barito-no», scrive don Saverio Procida8.

Si precisava, in altra nota cronistica, che non eranomesse in discussione le doti del tenore ma che l’Elisirmal si adattava alla sua voce, “organo privilegiato” che isuoi “spontanei doni” andavano disciplinati con sapien-za tecnica e gli si consigliava di “fissarsi in un generedrammatico»9.

Ma la critica può a volte anche addolorare senza vo-lerlo e portare un artista a compiere scelte estreme. Ilgiovane Enrico aveva preso la cosa così male sì da giura-re che se ne sarebbe andato via per sempre. Si raccontache ritagliò l’articolo e lo infilò nel portafogli a futura

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memoria. Alcuni gli attribuirono la frase: «’O presebbio èbello, ma ’e pasture so’ malamente». Fatto è che fu diparola.

La decisione di partire Caruso l’aveva probabilmentematurata covando da tempo sentimenti di incompren-sione verso un contesto che avvertiva come non favore-vole. Troppi pettegolezzi sulla propria vita privata, eppoile vignette sui giornali, per aggiungervi l’aristocraticasaccenza del barone Procida. Era troppo!

Ma la censura soft di Procida era solo parte di unreportage del cronista teatrale teso a fare il proprio me-stiere di operatore del giudizio, per quella specifica mes-sinscena, attraverso il tracciamento del discrimen sul-l’interpretazione canora resa da Caruso.

Dopo l’incidente il critico originario del Tirreno cala-brese (come Torrefranca e Italo Maione) avrebbe conti-nuato ad esercitare con indiscusso prestigio la sua atti-vità a Napoli fino alla morte avvenuta nel 1940. Ma èquel pungolamento a Caruso che lo ha consegnato allacuriosità storicomusicale, ancor più del lavoro saggisticoe giornalistico di un’attività pluridecennale che ha at-traversato praticamente tutto l’arco dell’epoca aurea dellaNapoli musicale.

Capita infatti ancora oggi che sui siti dedicati a Enri-co Caruso si incontri il suo nome accanto alla citazionedi Libero Bovio: «Napoli tutto perdona tranne l’ingegno»10.Resta sottovalutato, a livello musicale, il suo ruolo diattento osservatore di grandi figure autoriali, da Cimarosaa Zandonai anche se è da notare interesse per il suo pro-filo di recensore del repertorio teatrale drammaturgico,sia riguardo al dialettale11 sia a livello di relazioniintessute con Roberto Bracco12, Lucio D’Ambra, lo stes-so Pirandello13.

Mentre per l’autorevolezza di critico drammatico vie-ne affiancato ai Falbo, Tieri, Alvaro, Repaci, rimane da

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recuperare nella propria totalità il suo lavoro di criticomusicale; il che dovrebbe poterlo affiancare a pieno tito-lo a Basevi, Locatelli, Marselli, Depanis ed agli altri ri-portati da Della Corte nel volume ricordato inizialmente.

Un lavoro che per molteplicità di angoli visuali e as-senza di steccati specialistici si presenta ancora oggi utilea richiamare l’esigenza per il critico, oltre che di un soli-do apparato di studi e conoscenze, di un approccio tota-lizzante al prodotto artistico ma soprattutto di una schiet-ta onestà intellettuale nella difficile opera di mediazionefra rappresentazione artistica e pubblico14.

A.F. in G. Lena, (a cura di) Ricerche archeologiche estoriche in Calabria. Modelli e prospettive, Atti convegno,Cosenza, Istituto per gli Studi Storici, Editoriale Proget-to 2000.

Note

1 A. DELLA CORTE, La critica musicale e critici, Torino, Utet,1961, p. 554. I numeri della rivista musicale sono il 6 e il 7.

2 Cfr. su Santoianni: A. FURFARO, Un editore musicale aNapoli, in La riproduzione sonora, Cosenza, CJC, 2004.

3 Cfr. E. DE MURA, Enciclopedia della canzone napoletana,Napoli, Il Torchio, 1979, sub voce. Cfr. altresì la nota di P.DEL BOSCO nel cd Gabrè, Fonografo Italiano, 1890-1940,Nuova Fonit Cetra, 1995.

4 Su Sisca e Falbo cfr. A. FURFARO, Dizionario dei musici-sti calabresi, Cosenza, CJC, 1996, ora anche sul sitowww.centrojazzcalabria.com. Per un panorama complessivodella storia musicale regionale cfr. A. FURFARO, Storia dellamusica e dei musicisti in Calabria, Cosenza, Periferia, 1987-1999.

5 Su Longo e altri critici musicali calabresi cfr. A. FURFARO,La critica musicale in Calabria, in Atti 1995-2000, Cosenza,Accademia Cosentina, vol. I, 2001. Il presente contributo su

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Procida rappresenta un’ideale integrazione a quel saggio.6 Cfr. S. PROCIDA, Arrigo Boito, L’uomo e il poeta, Milano,

1918.7 Cfr. S. PROCIDA, I caratteri dell’arte di Puccini, in “La

Lettura”, a. XVIII, n. 2, febbraio 1918; S. PROCIDA, I profilimusicali nel “Trittico” di Giacomo Puccini, in “La Lettura”, a.XIX, n. 4, aprile 1919.

8 P. GARGANO, G. CESARINI, La canzone napoletana, Mi-lano, Rizzoli, 1984, p. 93

9 Ibidem.10 Cfr. www.teatrotrianon.it/IT/mediateca/Enrico_caruso/

biografia. Per questa fonte, la nota soprariportata sarebbe dariferire a un allestimento al Trianon nel 1895.

11 Cfr. S. PROCIDA, Un teatro d’arte in vernacolo a Napoli,Milano, 1916.

12 Cfr. di Procida, su “Il Mezzogiorno” del 19 giugno 1923,testata ormai fascistizzata cfr. l’entusiastica nota su I pazzi diRoberto Bracco.

13 Cfr. la lettera indirizzata a Pirandello l’11 luglio 1936 inA. BARBINA, Critici teatrali calabresi fra Ottocento e Novecen-to, in V. COSTANTINO, C. FANELLI (a cura di), Teatro in Cala-bria 1870-1970, Vibo Valentia, Monteleone, 2003, p. 307. L’au-tore ricorda che Viviani, nella sua Storia del teatro napoleta-no, definì Procida «il maggiore critico di quegli anni al quale èlegato il risveglio della cultura musicale a Napoli sotto l’agita-ta bandiera del wagnerismo».

14 L’esperienza di Procida ha fornito spunto iniziale per unnostro contributo al volume Timida creatività edito dall’Asso-ciazione Promozione Arte di Roseto degli Abruzzi nel 2006 chedi seguito riportiamo. Il titolo è Critici “timidamente” creativi.«Ma la critica può essere timidamente creativa? L’ipotesi nonè tanto peregrina. Il giudizio, in effetti, è soggettivo. Come l’ideaartistica. Entrambi poi si oggettivizzano in un quadro una scul-tura un libro un disco da una parte; dall’altra in un articolo,una recensione, un saggio critico, una monografia. Dal cantosuo l’artista si muove in spazi estesi ma anche il critico è libe-ro di dare la propria lettura, anch’essa più o meno ispirata, osemplicemente di mestiere. Con delle differenze sostanziali.

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L’artista di norma non sbaglia. Si esprime. Il critico dal cantosuo esprime concetti su realtà e sentimenti che non gli appar-tengono. Ed è maggiormente sottoposto al rischio della disatten-zione nel maneggio di dati o di sguardo corto nello scrutare laproduzione artistica. Un Saverio Procida più o meno trentenneche stronca Enrico Caruso, determinando nel tenore ferito ladecisione di andarsene da Napoli e dall’Italia, viene smentito dallastoria (anche se non c’è riscontro se nella esibizione a Napolinell’Elisir d’amore di Donizetti recensita su “Il Pungolo” oltre unsecolo fa Caruso fece o meno cattiva figura).

True Confessions. How The Critics Got It Wrong, titolava incopertina “JazzTimes” nel novembre 1999, e giù autocritichesu abbagli vari da parte di molti critici pubblicamente costrettia fare ammenda rimangiandosi passate parole e affermazioni.Con l’errore in agguato, il rischio che il critico si attardi a suavolta in tentativi metacritici e astratti di andare oltre l’operarisulta incombente. Qualche maligno potrebbe leggervi unafreudiana invidia del pennello per gli esperti d’arte pittorica opròtesi dell’arto fantasma per i mancati musicisti passati dal-l’altra parte del palcoscenico. Eppure una certa, timida, crea-tività del critico può forse essere lecita. In che senso? Va da séche la funzione della critica e dell’estetica in genere resta so-vrana quando decifra codici, porta alla luce l’interiorità piùprofonda, traduce in comunicazione linguistica o scritta unacomunicazione artistica che si muove su piani semantici spe-cifici utilizzando canali e segni spesso criptici, quando codifi-ca il sublime. Occorre talvolta che il critico sappia immergersinell’universo estetico dell’artista, nel liquido amniotico dellasua essenza creativa, immedesimarvisi calcando le orme la-sciate dall’atto creativo in fieri, sulla spinta di un’esigenza forte,in un percorso istitintivo e/o razionale. Il critico segue l’arti-sta per inquadrarne come ricompone i magmi mnemonici, in-nova metodi, scrive segni, disegna linee, tratteggia segmenti,impasta colori, nel dar sfogo alla creatività, dote innata, donoacquisito “senza merito” (da un dialogo di Il regista di matri-moni di Bellocchio): DNA identitario. E così il critico che nonla possiede le si può timidamente accostare per rivelarla almondo».

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Oratoria e musicaLa “difesa” di De Marsico

Lo stile è l’uomo. L’arte, la musica, in quanto comu-nicazione e linguaggio umano, ne sono rappresentazio-ni. Fra stilistica e retorica, poi, il passo non è lungo,essendo la prima sviluppo naturale della seconda.

L’ars retorica e la stilistica sono, comunemente, quel-le tipica di oratori, avvocati, statisti, conferenzieri. Ma an-che l’arte, la musica possono contenere elementi di reto-rica e stilistica.

Fra Cicerone e Bach un punto di collegamento idealeallora forse esiste: lo stile “arricchito” rispettivamente diparola o nota.

Ambedue utilizzano la propria arte per la costruzionelinguistica, il fraseggio, sviluppano concetti, intratten-gono, creano ridondanze, obbediscono ai principi di ognistruttura linguistica consolidata.

Un qualche riscontro si evince nella lettura di un te-sto giuridico dell’introduzione alle Arringhe (vol.III,Laterza, 1952) di Alfredo De Marsico.

Il famoso giurista? Giustappoco lui, nato a Sala Consilinanel 1888 e vissuto fino al 1985, in biografia studi a RossanoCalabro, l’università a Napoli, una folgorante carriera nelforo napoletano, ruoli politici di rilievo dentro il regime (maquesta è storia che non riguarda questa sede).

Dal testo si possono riprendere – a mò di richiamosul rapporto fra retorica e stilistica artisticamente inte-so – alcuni spunti interessanti.

Per esempio in termini di vicinanza fra parola e musicale quali hanno come termini di comparazione un modelloideale, non raggiungibile, a differenza delle arti figurativeche guardano spesso alla realtà.

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Nel “pentagramma mentale” di De Marsico l’oratoriaè vista “come un’immensa e segreta fatica dello spirito(…)un grido che scoppia dall’inesprimibile consumar piùdi un pacato racconto, e un intero libro non comunicapiù emozioni del pensiero musicale di Chopin che durasolo quattro minuti”.

Altre considerazioni sulla differenza fra avvocato e ar-tista in merito alla “minore libertà nel metodo e nel fine.L’artista lancia le sue creazioni, e non può temere che lacritica, il cui giudizio, anche se sollecitato, non è maidefinitivo; l’avvocato non può esporre la sua interpreta-zione senza prepararsi all’immediato controllo spesso delcontraddittore, sempre del giudice, ed alla sentenza, chein tutto o in parte, subito o tardi, sarà definitiva. Eglinon può quindi usare la sua libertà che nei limiti dellaresponsabilità.

L’artista, secondo il suo credo filosofico e religioso, puòservire ad aggredire la legge morale o sociale, ma di quantol’artista usa la libertà di tanto l’avvocato obbedisce alla re-sponsabilità. Quanto la “civitas humana” può temere dal-l’uno tanto può sperare dall’altro: le pietre, potrebbe dirsi,che dall’edificio cadono sotto i colpi dell’artista, l’avvocatocorre a raccogliere e ricollocare. Solo i ciechi, gl’istintivi egl’ignari possono negargli di essere un insonne geniere chevigila e lavora per l’equilibrio morale della civiltà”.

Una visione forse mistica dei depositari dell’arte ora-toria rispetto a quelli dell’arte tout court intesa.

Ma preme qui però rilevare come l’accostamento effet-tuato dall’insigne penalista possa essere come un input perapprofondire della tematica su due forme di “abilità creativa”.

Lo stile è l’uomo, si diceva. E la sua manifestazione,nella parola e nelle forme artistiche storicamente date,resta comunque un’ espressione del pensiero e dell’iden-tità. Appunto umane.

A.F., da “Calabria Ora”, 19 dicembre 2010

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Pasolini alla sbarra

Nell’estate del 1959 Pasolini pubblica sulla rivistamilanese “Successo” un suo reportage in tre puntate daltitolo La lunga strada di sabbia.

Da Ventimiglia a Trieste lo scrittore si porta in paesi,città, regioni che si affacciano sui mari italiani.

La sua non è “un’inchiesta, e neppure un viaggio didocumentazione, ma una variazione letteraria su queitre mesi d’estate ... un imprevisto e fragoroso diario diuna contraddittoria “vacanza in Italia”. Tra le tante “cro-nache balneari” ribadite sulla frivolità e la banalità, que-sta di Pasolini, oltre ad essere personalissima, sorpren-deva per la carica dei contrasti, dei colori, delle defini-zioni, anche se qualche volta azzardate”.

Sin dall’inizio del viaggio, dalla Liguria, al “termitaio”di Ostia, attraverso la costiera amalfitana, egli annota lesue impressioni rapidamente, come in una serie di foto-grammi. In Calabria, giuntovi da Maratea, lo scrittore sitrattiene per poco tempo: “riparto, mi perdo nelleCalabrie: che si fanno sempre più Calabrie, sempre piùCalabrie, finché a Mileto, a Palmi, comincia la Sicilia”.

Trasferitosi, nel mese di luglio, da Villa San Giovanni aSiracusa, Pasolini annota: «avevo sempre pensato e dettoche la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrarae Livorno. Ma non avevo visto ancora e conosciuto bene,Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il mini-mo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non dipace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia». E prose-gue: «pur con degli splendidi scorci e orlate di strade di unbarocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezzainaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sem-brano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un

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maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incom-pleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovreiviverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che sivocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: comeniente qui potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annun-zio, alla Gide».

Il fascino della decadenza di queste città colpisce Pa-solini.

E l’“incanto” perdura nei paesi costieri.Proseguendo il suo vagare per i confini sabbiosi della

penisola, egli risale in Calabria costeggiando il mareJonio, dalla Sicilia, prima di continuare la sua inchiestasulle spiagge dell’Adriatico.

Il crotonese, Cutro specialmente, lo impressionano.“... Appena partito da Reggio — città estremamente dram-matica ed originale, di un’angosciosa povertà, dove suicamion che passano per le lunghe vie parallele al maresi vedono scritte come “Dio aiutaci” — mi stupiva la dol-cezza, la mitezza, il nitore dei paesi della costa. Così,circa fino a Porto Salvo. Poi si entra in un mondo chenon è più riconoscibile...

«... Ecco, a un distendersi delle dune gialle, in unaspecie di altopiano, Cutro. E il luogo che più m’impres-siona di tutto il lungo viaggio. É veramente il paese deibanditi. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi.

Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge,o, se non dalla legge dalla cultura del nostro mondo, aun altro livello ...».

«... Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atrocelavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

Sono espressioni senza mezzi termini che suonano comeschiaffi per quanti non tollerano la curiosità invadente equerula di un personaggio scomodo, una sorta di giornali-sta d’assalto, alla ricerca di ferite occulte da rendere pale-si, sviscerare, esporre come verità dirompenti.

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Ciò che innesca la miccia è l’allocuzione usata perdefinire Cutro, come terra di “banditi”.

Deformazione letteraria, immagine poetica, si dirà.Fatto sta che c’è chi la interpreta come appellativoantisudista, manifestazione di fobia anticalabra,denigrazione bella e buona. Eppoi è un famoso intellet-tuale a mettere al dito sulla piaga. E la cosa spiace eduole a molti.

Scoppia il caso politico.Nei confronti della sua “offesa” si scatena, su diversi

organi di stampa, un violento imperversare di attacchiche le imminenti elezioni caricano di livore politico neiconfronti del “polemista” Pasolini.

La vicenda ha uno strascico giudiziario. La giuntacomunale di Cutro, con deliberazione adottata il 18 set-tembre 1959, anche con contrasti interni alla maggio-ranza moderata oltre alla netta opposizione del PCI, de-cide di ricorrere avverso Pasolini e contro il direttore di“Successo”, Arturo Tofanelli.

Il 17 novembre viene presentata la relativa querela alProcuratore della Repubblica di Milano. Il reato conte-stato è “diffamazione a mezzo stampa”. Nella denunciasi accusa lo scrittore di aver definito Reggio Calabria «cittàestremamente drammatica e originale, d’una angosciosapovertà». Ironizza l’esposto: “Sembra la descrizione d’unborgo di poveri pescatori e si riferisce ad una delle piùdeliziose città d’Italia che vuole, come tutte le altre, es-sere ancora più bella e divenire più prosperosa, ma nondenuncia, nell’incanto del suo lungomare che si spec-chia nelle acque dello Stretto e di tutte le sue nitide eluminose strade, l’angosciosa povertà denunciata daPasolini”. A proposito delle ragazze di Taranto Pasoliniaveva scritto “Vedo delle femmine piccoline, piccoline,nere come vermetti ma già un pò gonfie di anche, ben-ché magari adolescenti, con gli occhi neri, affumicati,

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misteriosi e insipidi”... Ribatte l’esposto: «Le donne d’unatribù africana: ecco, per Pasolini, le belle donne dellaoperosa Taranto, porto della nostra flotta militare e sededei famosi cantieri navali». Pasolini ha scritto d’aver no-tato per chilometri di litorale, «femminucce nere e inele-ganti, adolescenti gelatinose» mentre a Pescara e poi nellacosta romana le belle donne sono incontrastate protago-niste: «Non c’è più gruppo di ragazzi tra cui non ci sianoanche delle belle ragazze abbronzate, efebiche intelligenti,carine. Poveri branchi di maschi del Sud!» Si legge nel-l’atto di querela «Eh già, poveri branchi come se si trat-tasse di animali alla pastura ...!» Pasolini dichiara:«L’Jonio non è mare nostro.» L’esposto diventa caustico:«Diamolo alla Russia, tanto cara a Pasolini!».

Ma la vera nota dolens è l’immagine che il poeta hadato di Cutro.

L’esposto mette da parte il sarcasmo e sentenzia so-lennemente: Esposto: «La reputazione, l’onore, il decoro,la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro sono statievidentemente e gravemente calpestati... le dune gialle,altro termine africano usato da Pasolini, sono punteg-giate di centinaia e centinaia di casette linde, policrome,gaie, dell’Ente di Riforma dove la laboriosa gente del Sud,della Calabria, di Cutro, fedele al biblico imperativo, gua-dagna il pane col sudore della propria fronte, e non scri-vendo articoli diffamatori contro i propri fratelli controgli italiani...».

Orgoglio e pregiudizi, retorica e risentimenti, fannoda detonatore ad una polemica che, quasi una maledi-zione, anche stavolta rischia di trascinare Pasolini in tri-bunale, cosa che, probabilmente, egli non si sarebbe maiaspettato salutando, nel suo pezzo su “Successo”, ii Sud:«E provincia, non più area depressa. E tutto si può ama-re fuori che la provincia.

Addio Sud, cafarnao sterminato, alle mie spalle; bru-

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lichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura edoscura riserva di vita ...

Poi sempre in autunno, un avvenimento culturale cheriguarda la vicina città di Crotone – retta da una ammi-nistrazione di sinistra – surriscalda l’ambiente.

Trapelano in ottobre indiscrezioni sul nome dello scrit-tore cui assegnare, a cura di una giuria presieduta daGiacomo Debenedetti, il Premio Crotone che, con il “Vil-la San Giovanni” ed il “Salento”, costituisce la triade dimanifestazioni a carattere meridionale della nascentestagione autunnale dei premi letterari.

Al “Crotone”, che aveva già laureato Repaci nel ’56 eSalvemini nel ’58, partecipano diciannove candidati fracui una folta rappresentanza di settentrionali comeArbasino, Testori, Zolla, Pasolini.

L’importanza dell’avvenimento, il cui carattereantimondano deriva dal fatto che si tiene in una cittàoperaia per volere di una amministrazione comunale chene è espressione, e che sposta in Calabria l’attenzione dimolti osservatori ed inviati della critica e della stampanazionale, lascia in secondo piano gli aspetti, per cosìdire, extraletterari, della vicenda.

Il verdetto della giuria, sottoscritto dai membri Bas-sani, Bosco, Gadda, Moravia, Repaci, Sansone, Ungaretti,Rosario Villari e dal presidente onorario on. Messinetti, as-segna il premio di un milione a Pasolini per il suo secondoromanzo Una vita violenta, denuncia di un mondo residualeall’Italia del benessere, ma anche indicazione di una purtenue prospettiva di speranza riposta nella consapevolezzaacquisita dal protagonista prima della sua morte.

Dalla motivazione: “il romanzo Una vita violenta di PierPaolo Pasolini si presenta come una dolorosa epopea diquel sottoproletariato nazionale che si addensa alla cin-tura di Roma, o quasi assedia la metropoli. È un veroracconto, un susseguirsi di episodi di intenso contenuto

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di drammatica tensione, che tiene avvinto il lettore dallaprima all’ultima pagina.

Nella moderna narrativa italiana, la quale sta oggiimponendosi all’interesse del mondo intero per la suatenace, pratica ed intelligente indagine della nostra real-tà o storia attuale, non sarà facilmente dimenticata lavicenda di Tommasino, che dopo il breve affiorare di unacoscienza nuova nata dalle cose, soccombe nel disperatosforzo di redimersi e di superare la propria condizioneumana e sociale”.

La relazione della giuria si sofferma, inoltre, sul ro-manzo in quanto “principalmente l’opera di un poeta.Non decade nelle compiacenze pittoresche né nei valoriillustrativi a cui l’eccezionalità dell’ambiente e la singo-larità della trama avrebbero condotto un narratore digusto più facile: qui non c’è traccia di fumettismo né diromanzo di appendice. Una vita violenta è il risultato diuna serissima costruzione mentale e morale. E l’espres-sione matura di uno scrittore che ha già segnato tapperilevanti: cogli studi sulla poesia popolare e sulla poesiadialettale, nutriti di una solida filologia e di una espe-rienza davvero vissuta della lirica contemporanea; conle poesie originali in dialetto friulano, in lingua, come Leceneri di Gramsci; con l’altro romanzo, Ragazzi di vitache nel 1955 lo rivelò come narratore.” Riappare, con ildialetto, l’itinerario filologico momentaneamente abban-donato che si intreccia, ora, con quello dello scritturanarrativa.

“La caratteristica più vistosa e più largamente discussadi Una vita violenta è l’impiego del dialetto, che, quantun-que attinto con piena evidenza a fonti dirette documen-tabili, è tuttavia una continua creazione. Nella poeticadi Pasolini, il dialetto serve non per indulgere a un im-pressionismo folcloristico, ma per penetrare in quel mi-nimo, in quel barlume di intimità che è concesso a co-

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scienze rimaste ancora allo stato larvale a causa dellosradicamento delle tradizioni dei luoghi nativi, vecchioma pur sempre civile, e delle bestiali condizioni di vita.Per intendere a fondo questo romanzo bisognerà rifarsial dilacerato nucleo lirico delle Ceneri di Gramsci, dove ilPasolini rivela con toccante sincerità la sua posizioneumana e ideologica di uomo diviso tra l’imperio della ra-gione e della moralità e quello dell’abbandono all’incan-to contraddittorio dell’esistenza.”

Ed è significativo che l’altro premio di un milione vengadiviso, ex aequo, fra Ernesto De Martino, per Sud e ma-gia, saggio rivolto a un mondo contadino condannatoanch’esso, per ragioni storiche, a esistere alla periferiadella vita civile, e Elemire Zolla, autore del libro Eclissidell’intellettuale, altro episodio dell’antitesi fra uomo estoria.

Dure reazioni precedono e seguono la premiazione.Favorevoli e contrari scendono in campo sulla stam-

pa e si schierano in fronti contrapposti.In tale atmosfera incandescente, la decisione di pre-

miare Una vita violenta viene ad assumere il valore di unatto di coraggio in almeno due direzioni: da una partecontro la campagna accusatoria orchestrata a danno delloscrittore-regista, già abituato a subirne per la sua sceltadi non tacere; dall’altra, come annota Adolfo Chiesa su“Paese Sera” “verso certi settori della vita culturale ita-liana, che hanno accolto con freddezza o addirittura conostilità il romanzo di Pasolini. Forse il compito diDebenedetti, Ungaretti, Moravia e degli altri membri del-la giuria è stato facilitato dal fatto che il Premio Crotoneè ancora libero, per essere un premio «giovane», dallepressioni di natura extra-artistica a cui sono sottopostialtri premi. Senza dubbio ha influito un largo movimen-to di opinione pubblica in favore dello scrittore friulanoe della sua ultima opera”.

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Carlo Salinari è dello stesso avviso: “Comunque il ver-detto della giuria del premio di Crotone è venuto a ripa-rare un’ingiustizia, a rendere meno opaca la stagione let-teraria, a ridarci speranza nel prossimo avvenire (ed èun buon segno che i nuovi premi — meno soggetti algioco delle ambizioni e degli interessi editoriali — si af-fermino e acquistino rilievi nazionali). Sul libro del Pa-solini — che i nostri lettori conoscono bene — la giuriaha dato un giudizio che coincide, nell’essenziale, con quel-lo che demmo sulla nostra rivista al momento della suapubblicazione. Ha insistito sul valore sperimentale, e co-raggiosamente sperimentale, del libro, che ha tanto mag-gior rilievo in quanto capita in un momento di stasi dellaletteratura a contrasto con la rapida evoluzione dellarealtà. Ha valutato come funzionale — almeno nella mag-gioranza dei casi — l’uso del dialetto, che in Una vitaviolenta vuole avere un preciso significato antilirico eantipatetico, liberando Pasolini di quel tanto dipascolismo che ancora poteva trovarsi nel precedenteromanzo (e nelle stesse Ceneri di Gramsci). Ha, quindi,riconosciuto l’importanza della proposta narrativa avanza-ta dal libro che pone di nuovo il problema del personaggio,come problema chiave del romanzo. Personaggio che nonpuò più essere concepito alla maniera della narrativaottocentesca, che non può tener conto delle scomposizionipsicologiche, dell’alternarsi di diversi piani di conoscenza,degli impulsi del subcosciente, della presenza del sesso,dei nuovi rapporti fra soggetto e oggetto, fra protagonista eambiente (non più organici, ma straordinariamente frammen-tari) a cui ci ha abituati la letteratura del Novecento: mache, tuttavia, deve essere ricostruito, come un fatto unita-rio, se si vuole ancora parlare di romanzo o di racconto”.

In quell’occasione, Gianni Rocca registra una tormen-tata testimonianza del Poeta, colto in un momento di ir-requietezza a stento celata da un atteggiamento solo al-

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l’apparenza distaccato: “Quando, dopo il conferimentodel premio, andai alla tribuna per ringraziare, fui co-stretto ad improvvisare un discorso. Meglio così, del re-sto, perché gli applausi m’impacciano in tal misura daconfondermi, da non farmi aprire più bocca. Che cosadissi? Press’a poco questo, se ben ricordo: «Sono felice dinon aver avuto il Viareggio o lo Strega, perché consideroquello che mi avete dato, come il più adeguato riconosci-mento della mia opera. I protagonisti del mio romanzo,anche se vivono nella Capitale, fanno parte del Mezzo-giorno d’Italia, ed è giusto che, qui a Crotone, trovasserol’esatta comprensione, in una terra cioè giovane, perchénasce ora alla vita sociale, e in modo fresco, genuino,prende coscienza della sua forza, dei suoi bisogni».

Tuttavia il giornalista dice di credergli solo per metà:“Ma a Pasolini scotta ancora l’ingiustificabile esclusionedal Viareggio. Ed è giusto che sia. Uno scrittore, immersonei conflitti morali e sociali del nostro tempo, quindi inprima linea, è esposto alle insidie, ai tranelli, alle piccole egrandi congiure di una società che si sente messa a nudo,colpita nei suoi valori tradizionali, coinvolta in responsabi-lità che vorrebbe eludere, addirittura misconoscere. Devequindi combattere, colpire ed essere colpito. Di questo cre-diamo che Pasolini abbia piena consapevolezza.

Il «no» che gli è stato sanzionato a Viareggio era il «no»dell’Italia ufficiale, di quella che affronta i drammatici einquietanti aspetti del nostro tempo, più che mai visibilinella gioventù, con parole di fuoco sui teddyboys, e propo-ne, quale rimedio, un prolungato richiamo alle armi perannullare crisi che sgorgano non già in cervelli malati, madalle aspre contraddizioni della vita d’ogni giorno. Un «no»che non poteva offendere chi, come Pasolini, ha preferitocondividere, in questi dieci anni, la turbinosa, amara espe-rienza delle borgate di una metropoli che assicurava, pe-raltro, nel suo centro, facili e tranquilli guadagni ai pigri

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ingegni, fama e notorietà a chi volutamente trascurava, nelsuo cammino artistico, la ricerca della verità (...).

Sulle gazzette locali Pasolini venne dipinto come unnemico, un diffamatore della Calabria, quasi che i malisecolari di questa pur notabile regione fossero daascriversi all’autore di «Una vita violenta». Sicché quan-do si diffuse la voce che il Premio Crotone sarebbe statoassegnato proprio al Pasolini, i notabili tentarono di sa-botare la cerimonia, facendo affiggere manifesti di biasi-mo, di condanna per la scelta che la Giuria stava percompiere. Vi fu anche chi temette pericolose provocazio-ni. Tutto si svolse invece nella calma e in un clima direciproca stima e fiducia.

Saltò fuori dai ragazzi calabresi con i quali Pasolini fuvisto discutere una realtà assai meno colorita, rispetto alsuo servizio giornalistico, ma in compenso più scarna edrammatica. Discussero le condizioni di vita delle genticalabre, le storie di famiglie costrette ad abitare in dieci inun vano frammischiati agli animali, ma che pur nel disagiosi sforzano di conservare i tratti della gentilezza del rispet-to umano, di cento casi curiosi, tragici, paradossali, comedi quell’emigrato negli Stati Uniti che avendo letto della«rinascita» di Cutro decise di vendere il suo bar e di tornareal paese natio, per scontrarsi poi, ancora una volta, con lavecchia, immutabile realtà calabra”.

Fin qui la cronaca dei fatti che portano Crotone e laCalabria alla ribalta nazionale fra l’estate e l’autunnodel ’59. È essenziale, a questo punto, ricordare una notascritta dallo stesso Pasolini e pubblicata da “Paese Sera”,il 28 ottobre, nel tentativo di chiarire il suo interventogiornalistico su “Successo”. A rileggerla oggi la Letteradalla Calabria si rivela un’interpretazione autentica deisimboli e delle metafore usate per descrivere questa re-gione in quel piccolo reisebilder estivo a causa del qualeera stato dichiarato nemico della patria.

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Contrariamente a quanto si era potuto pensare, tra lespiagge viste, quelle calabresi gli erano sembrate stu-pende nel versante tirrenico, incantate su quello jonicoe tremende nella zona di Cutro: “Tremende non in quan-to spiagge, ma in quanto luoghi appartenenti a una frale più depresse delle aree depresse italiane. Non ho po-tuto affrontare in una sede come quella di Successo lacosa in termini sociologici e nemmeno veramente lette-rari e così ho un po’ scherzato linguisticamente come intutto il resto del mio servizio.

Dicendo che la zona di Cutro è quella che mi ha piùimpressionato in tutto il mio viaggio, ho detto la verità:chiamandola poi zona di «banditi», ho usato la parola: 1)nel suo etimo; 2) nel significato che essa ha nei filmwesterns, ossia in un significato puramente coloristico; 3)con profonda simpatia. Fin da bambino ho sempre tenutoper i banditi contro i poliziotti: figurarsi in questo caso”.

Forse — egli suppone — le persone che hanno finto diessersi offese per le sue parole lo hanno fatto per ragionidi tattica elettorale.

“Un’ondata di indignazione contro di me ha percorsola pubblicistica calabra in prima pagina. In prima pagi-na, su tre colonne, magari colonnette, le vestali del luo-go hanno lanciato insulti neoclassici contro la mianeorealistica persona. Se la prendono contro la mia ag-gettivazione: per esempio, contro la terna di aggettivi chenel mio pensiero accompagna lo Jonio: «nemico, stranie-ro e seducente». Ammetto che tre aggettivi non sonostilisticamente gran cosa, che sono tolti un po’ dal ronron rondista (era il primo materiale linguistico che micapitava sottomano per esprimermi nella a me insolitamaniera giornalistica): ammetto tutto. Macché, mutilatidi un corno, («seducente») e ridotti al moncone «nemico estraniero», mi vengano gettate addosso con l’accusa dinon sentire la grandezza della Magna Grecia è troppo”.

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E giunge la precisazione sul significato del termine“banditi”.

“Anzitutto, a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulte-riore considerazione, il quaranta per cento della popolazio-ne è stata privata del diritto di voto perché condannata perfurto: questo furto consiste, poi, nell’aver fatto legna neiboschi della tenuta del barone Luigi Barracco. Ora vorreisapere che cos’altro è questa povera gente se non «bandi-ta» dalla società italiana, che è dalla parte del barone e deiservi politici. (...) La storia della Calabria implica necessa-riamente il banditismo: se da due millenni essa è una terradominata, sottogovernata, depressa. Paternalismo e tiran-nia dai Bizantini agli spagnoli, dai Borboni ai fascisti, checos’altro potevano produrre se non una popolazione neicui caratteri sociali si mescolano una dolorosa arretratez-za e un fiero spirito di rivolta? E appunto per questo non sipuò non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non aversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuolperpetuare questo stato di cose, ignorandoli mettendole atacere mistificandole”.

Si può immaginare quella delucidazione “impigliata”in una “superficiale” scusante che rimanda tutto al meroartifìcio letterario?

Di certo, Pasolini si rivela autenticamente partecipeallorché ricorda che, proprio in quei giorni, ricorre il de-cimo anniversario dei fatti di Melissa, nei quali vede ri-siedere “i germi per la rinascita della Calabria e del Sud”.

Infine, confermando il suo “essere dalla parte del po-polo”, confessa che la poesia della raccolta Le ceneri diGramsci che gli è più cara, oltre a quella che da il titoloal libro, è La Terra di lavoro, del ’56, riguardante il Sud ei “poveri morti della Calabria”.

Dall’incontro con la gente del crotonese egli trarràspunto per nuovi versi che, come situazione, richiamanoi Quadri friulani, del 1955, in cui ricordava le sue espe-

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rienze a contatto con i braccianti del Friuli ritrovando inessi — come nei meridionali —la certezza di chi “credevanel mondo senza altra misura che l’umana storia”.

Il “Crotone” non si conclude con la cerimonia dellapremiazione. Dopo di essa tutti i presenti alla manife-stazione si recano in viaggio a Melissa per rendere omag-gio alla memoria dei tre contadini uccisi durante i tragi-ci giorni della protesta popolare.

Poeti, scrittori, giornalisti e contadini risalgono, tuttiinsieme, il pendio che porta sull’altura del cimitero. Èun’esperienza toccante, di contatto “vero” della culturacon i lavoratori meridionali.

Si legge in una nota di cronaca: “Il viaggio a Melissaera potuto sembrare all’inizio un omaggio doveroso aimartiri della strage di Fragalà, senza legami col premio,del quale pareva tutt’al più una casuale appendice. Que-sto fino al discorso di Francesco Carruba, sindaco diMelissa. Parlò brevemente (in quel momento a casa sta-va morendo sua madre: ce lo disse più tardi per spiegareil proprio pallore), ma in modo incisivo. Ricordò gli avve-nimenti di dieci anni prima, nei quali trovarono la mortei tre contadini, dimostrò come il loro sacrificio non erastato inutile e concluse dicendo che ogni conquista delSud aveva al suo inizio il suo tributo di sangue. Non fudetto, ma si capì che era là che bisognava cercare anchele lontane origini del Premio Crotone”.

Si chiudeva così, in un’atmosfera di riconciliazione, ilsoggiorno di Pasolini nel crotonese, nelle ultime setti-mane del ’59.

Il processo intentato dal sindaco di Cutro non si sa-rebbe mai tenuto. La nuova amministrazione civicainsediatasi nel 1960 avrebbe ritirato l’esposto e, nel 1962,il Tribunale di Milano, avrebbe sentenziato il non dover-si procedere a causa del ritiro della querela.

A.F. “La Calabria di Pasolini”, Cosenza, Periferia, 1990.

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Ringraziamenti

L’Autore ringrazia gli editori di “Calabria Ora”, Periferia eProgetto 2000 (Cosenza) nonché l’Istituto per gli studi storici,la Biblioteca Nazionale di Cosenza e l’Associazione PromozioneArte di Roseto degli Abruzzi.

Ancora un grazie per la collaborazione a Franca Santelli,Franco Cappuccilli, Nelly Sprovieri e Chiara Sprovieri.

Un particolare ringraziamento va ad Ernesto d’Ippolito,presidente dell’Accademia Cosentina ed insigne penalista.

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