I QUADERNI - cittastudi.org · 5 1. Fra le iniziative collegate al Premio “Biella Letteratura”,...

44
I QUADERNI PREMIO BIELLA LETTERATURA E INDUSTRIA

Transcript of I QUADERNI - cittastudi.org · 5 1. Fra le iniziative collegate al Premio “Biella Letteratura”,...

I QUADERNI PREMIO BIELLA

LETTERATURA E INDUSTRIA

CONCORSO PER LE SCUOLE

2001/2008

5

1. Fra le iniziative collegate al Premio “Biella Letteratura”, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Biella e Città Studi bandiscono un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuo-le medie superiori della Provincia di Biella per un percorso di ricerca sul tema: “Primo Levi e l’etica civile”.

2. Ogni concorrente dovrà inviare il suo ela-borato alla Segreteria del Premio “Biella Letteratura” - Città degli Studi di Biella, Corso Pella 2, 13900 Biella, entro il 5 aprile 2001.

3. Ogni elaborato dovrà essere contraddistinto da una sigla o da uno pseudonimo. Le genera-lità del concorrente, con pseudonimo o sigla, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequentata, dovranno esse-re contenute in una busta chiusa riportante all’esterno il solo pseudonimo o sigla.

4. La giuria del concorso è composta da do-centi in rappresentanza di tutte le scuole su-periori del Biellese ed è presieduta da Pier Francesco Gasparetto.

5. Ai tre elaborati classificati primi saranno assegnati tre premi da un milione di lire cia-scuno. Per gli elaborati classificati dal quar-to al decimo posto verranno assegnati premi consistenti in abbonamenti a pubblicazioni periodiche o a stagioni teatrali o di concerti, e cd rom di vocabolari o enciclopedie.

6. I nomi dei vincitori verranno resi noti a conclusione del convegno su Primo Levi che si svolgerà nella mattinata del 21 aprile 2001, giorno della consegna del Premio “Biella Letteratura”.

Presidente: Pier Francesco Gasparetto Premio Biella Letteratura

Franca Di Palma Istituto tecnico “E. Bona”

Enrico MartinelliLiceo scientifico “A. Avogadro”

Ivano MaffeoITIS “Q. Sella”

Marco Neiretti Fondazione Cassa di Risparmio

Corrado Ranucci Istituto per geometri “V. Rubens”

Giuseppe Trimboli Liceo classico “G. e Q. Sella”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2001

6 7

PRIMO PREMIOMichele Lancione Istituto Istituto Tecnico Commerciale “E. Bona” - Biella

Etica civile non significa soltanto rispetto for-male di regole, ma interiorizzazione di valori che trovano nell’applicazione delle regole una loro manifestazione esteriore. Attraverso que-sta mia relazione ho cercato di individuare un rapporto tra il concetto di etica civile di Primo Levi, il mio e quello della nostra società. Primo Levi ha fatto più volte intendere, nei suoi libri più famosi, che l’etica civile, in pri-mo luogo, è dentro ognuno di noi e si mani-festa con l’attaccamento alle proprie radici. Il concetto di etica civile si rinnova nel tem-po e nel corso della storia dell‘uomo. Intorno ad esso ruotano tutta una serie di domande e problematiche fondamentali per la convivenza tra uomini.In questo mio elaborato ho provato ad affron-tare questo argomento anche da un punto di vista personale, tenendo però sempre in considerazione i pensieri di un uomo che ha ben definito il tema nel corso della sua vita, un uomo come Primo Levi. Tutti conosciamo, anche solo superficialmente, le varie vicis-situdini di questo personaggio e sappiamo che esse sono state piuttosto dure ed avver-se, specialmente negli anni della giovinezza. Primo Levi ebbe la fortuna di riuscire a studia-re al liceo e poi di entrare in università, prima che le leggi razziali ne precludessero l’acces-so agli ebrei o a persone con queste origini. Questo fu molto importante perché gli permise

di crescere culturalmente e quindi di maturare una capacità critica notevole, che lo portò a prendere coscienza delle assurdità del siste-ma fascista. Infatti ebbe modo di dire che: “... si era dimenticato il volto criminale del fasci-smo, restava da vederne quello sciocco “.Laureatosi cercò lavoro, ma quel “lato sciocco” ostacolò questa sua volontà, ren-dendo difficile la ricerca di un posto sicuro, che troverà poi in una fabbrica di svizzeri. In quegli anni si mosse entro di lui una forza che lo spinse a ripudiare il fascismo e tutto ciò che ne concerneva, si iscrisse anche a partiti atti-visti ed allacciò contatti con i primi partigiani. Cercò fin da giovane di mantenere integra la coscienza di se stesso che, come si vide più avanti, gli fu di grande aiuto. Quando i tedeschi entrarono in Italia, Primo Levi si aggregò definitivamente ai gruppi par-tigiani, ma si trovò presto nelle mani dei tede-schi, che lo mandarono prima in un campo ita-liano, poi nella macchina quadrata e spinosa per la quale, secondo lo stesso autore, “non può esserci Dio “: Auschwitz. Alle difficoltà fisiche, quali malattie, fame, in-fezioni e dolori di ogni sorta, si aggiunsero e le prevaricarono i veri obbiettivi del Reich nei campi: la distruzione morale e psicologica delle persone, che diventavano, giorno dopo giorno, cadaveri senza anima. P. Levi non af-fermò mai che l’internato, il prigioniero avreb-be dovuto ribellarsi contro il suo oppressore, non ne avrebbe avuta la forza e sarebbe stato immediatamente ucciso. infatti tutti i prigionie-ri si aggiravano per il campo come scheletri, sotto il peso degli oneri, delle sofferenze di ogni tipo, sotto quello della consapevolezza di stare morendo e di dover ancora partecipare alle fanfare di chiusura giornata, che non ave-

vano altro scopo se non quello di abbatterli ancora di più. Il nostro autore vide come unica via d’uscita, sempre che il fisico reggesse la persona stessa, il pensiero, le abitudini e i sen-timenti e lo capì stando a contatto con molte persone, che contribuirono ad alimentare in lui intuizioni e convinzioni. All‘interno del Lager, Levi perse persino la vo-glia di lavarsi perché era un’operazione ormai inutile: l’acqua era inquinata, torbida e spor-cava solamente di più il corpo. Notando però i ‘affannoso e minuzioso lavoro di pulizia di un amico, dopo una breve discussione con lui, capì che, anche soprattutto questi piccoli ge-sti, contribuivano a conservare in lui un bricio-lo di vitalità e a non perdere l’umana dignità, che quel concentramento voleva strappargli. La forza era proprio questa: mantenersi vivi, cercare di non farsi uccidere dagli or-dini e dagli sguardi gelidi, né dalle sadiche imposizioni di chi godeva vedendo soffrire. Primo Levi apprese questo a pieno e ce lo in-segnò nei suoi libri; nel campo ricercò le sue radici che erano così violentemente turbate e percosse dal regime e riuscì a mantenersi uomo con una dignità, che, se non era più fisi-ca, era perlomeno morale. La dignità morale è più importante delle due, perché senza di essa si crolla, come fecero molti suoi compagni la-sciandosi morire. Grazie a questa sua ricerca, uscito dal campo riuscì a risorgere, a riflettere e a non dimenticare, proprio perché al suo in-terno aveva conservato la sua persona.Molti suoi “colleghi “, sopravvissuti alla morte del corpo, vollero volutamente dimenticare, mentre lui si fece testimone di quello che era successo. Dove prese questa forza Primo Levi? Sicu-ramente la sua cultura lo aiutò molto a com-

prendere ciò che stava accadendo intorno a lui. Nel Lager era fondamentale capire..., guai a chi non afferrava al volo ordini e minacce; le sue esperienze di persona, poi, sicuramente in possesso di certi valori, furono complici della sua resistenza, della sua ricerca della verità, che, come sappiamo, durò a lungo e terminò su questa terra con la precisa volontà del pro-tagonista.Il rispetto per sé e per gli altri è un valore fon-damentale dell’etica personale di Primo Levi e si basa e si rafforza nella presa di coscienza delle proprie radici, nella volontà di capire e nella razionalizzazione del proprio dolore. Levi parlò di “Dolore della casa” (heimweh); quan-do si soffre non si ha tempo di pensare ma a posteriori, non si può dimenticare. Èil dolore per tutto quello che ha visto e che ha provato nel Lager; sapeva che tutto era nato da questo male ed esso diventava quindi un valore per-ché da lì riusciva a risorgere, a capire la sof-ferenza successiva, a non dimenticare. Dopo essere stato liberato dal Lager Primo Levi ha creduto di esorcizzare i ricordi attraverso la scrittura. Tuttavia a partire dagli anni ottanta, i fantasmi del passato, nascosti in qualche par-te del suo animo, ma non sconfitti, tornarono a tormentano sotto forma della vecchiaia del re-visionismo e dell’oblio della memoria. Il cerchio si è progressivamente chiuso: l’unico reale momento liberatorio è stato quello in cui Primo Levi si è suicidato. In realtà, studiando fondo questo autore ci si trova di fronte ad un uomo molto complesso: analitico, asettico e quasi privo di ogni emozione come scrittore, tormen-tato, fragile e sensibile nella vita di tutti i giorni. Nonostante questa apparente contraddizio-ne, egli riuscì a costruire il proprio equilibrio, che presentò comunque delle zone d’om-

I VINCITORI

8 9

bra riconducibili alle angosce più frequen-ti che Levi provò e che diventarono in un secondo momento per lui quasi ossessive. Fin dal primo periodo del suo internamento nel Lager, Levi fu disposto a lottare per sopravvi-vere per denunciare agli occhi del mondo ciò che i nazisti avevano compiuto. Non si auto-commiserò mai. Tale comportamento faceva parte della sua etica. Anche il suo amico Alberto viene ricordato nei suoi libri come esempio da imitare per la sua non comune personalità, infatti egli era entrato nel Lager a testa alta, illeso incorrot-to, ed era una rara figura di uomo forte e mite contro cui si spuntano le armi dalla notte. Pro-prio nella notte del 18-01-1945 Alberto scom-parve per sempre durante la marcia di eva-cuazione del campo. Mettendo a confronto il comportamento fiero di Primo Levi e di Alberto con quello dei giovani d’oggi si notano alcune differenze. Per Levi il rifiuto dell‘autocommise-razione era un modo per superare con dignità ogni sopruso, nella società moderna, invece l’autocommiserazione è quasi diventata, “uno stile di vita” per non far fronte a responsabilità e a problemi. Io penso che i motivi che spin-sero Levi a scrivere siano stati almeno due: in un primo luogo usò la “carta e la penna” per liberare la mente dagli orrori visti e subiti, in secondo luogo ebbe la volontà di lasciare una testimonianza incancellabile dell‘accaduto. Questo fu il suo scopo, che assume presto i li-neamenti di un problema prettamente etico: egli volle che la testimonianza avesse sì un valore filosofico e sociologico, ma soprattutto storico. Nelle sue testimonianze cercò di essere oggetti-vo, evitando di esprimere propri giudizi personali. Il risultato di questo sforzo è racchiuso in una fra-se che dice: “Primo Levi non grida, fa gridare “.

Per Primo Levi scrivere ha sempre rappresen-tato l’ideale terreno su cui esercitare l‘auto-controllo. Fu importante per lui la memoria. Lo stesso autore si stupì di come le vicende del Lager fossero ancora impresse in modo lucido nella sua mente, ed ebbe un duplice atteggia-mento nei confronti della memoria: da un lato la considerò la sua migliore alleata, dall‘altra temette che i meccanismi difensivi filtrassero i ricordi al punto di farli svanire. Cercò di ri-accendere il filo dei ricordi attraverso le cose che aveva a portata di mano: foto, monete, stoffe... La paura di non riuscire a ricordare con precisione fu uno dei motivi che spinse Levi a ritornare sul tema con un saggio intitola-to:” I sommersi e i salvati“,in cui si percepisce la sua angoscia che preannunciò la sua fine. In un certo senso Levi ha fissato sulla carta il male che ha minato i ‘essenza dell‘inte-ra umanità, rendendo indimenticabile per noi ciò che è stata quella parte di storia. Non solo, Primo Levi ci indicò la strada da seguire, quasi le massime per riuscire a so-pravvivere in tutti i tempi, di fronte a tutte le avversità. Per i ‘autore è stato fondamen-tale non rinunciare alle proprie radici per vedere rispuntare in sé la saggezza di ca-pire, di comprendere. Disse di sé: “Siamo chimici“, cioè cacciatori ed ebbe come suo pericoloso avversario soprattutto il timore di vedere vanificata la ricerca di chiarezza. Sempre, in ogni luogo, in ogni situazione è importante imparare molte cose sugli uomini e sul mondo. Il Lager è stato per Primo Levi la vera università perché ha evitato il naufragio spirituale aggrappandosi all‘uomo, alla sua capacità di comunicare e di rendersi utile. L’ autore si compiacque dell’attività e dell‘ar-te dell’uomo. Lo comprendiamo leggendo ad

esempio “La chiave a stella“, in cui celebrò le moderne avventure di lavoro. li protagoni-sta, operaio specializzato è innamorato del suo lavoro, concepito come un valore po-sitivo in sé e un ‘occasione per dimostrare la propria capacità, anche di comunicare. Questa fu l’etica di Levi, che, se fosse capita e accettata da tutti, si tramuterebbe in pacifica convivenza tra gli uomini. Nel nostro mondo però, la realtà è ben diversa. Troppe volte invece ci si lascia andare a fa-cili conclusioni, permeate di rassegnazione, guardando il mondo che ci circonda, perché non si vede la speranza di migliorare, di riu-scire a stare meglio. Purtroppo capita anche alla mia età. Io mi chiedo spesso: è davvero tutto così in salita?...Ho paura di sì. Non è possibile a diciotto anni, avendo la fortuna di aver superato non solo i problemi legati alla sopravvivenza, vivere con una perenne insoddisfazione addosso. Da quello che si sente/vede in giro, osservando la nostra so-cietà, cercando di non farsi influenzare troppo dall‘informazione manipolata della televisione, si capisce che si ha un costante declino della nostra moralità. Non si ricerca più il contatto con le persone o con se stessi ma, una conti-nua soddisfazione materiale: si ricerca il pia-cere dietro alla plastica, ai colori della moda e al consumismo. L ‘uomo medio, che vive nel “nord del mondo “, ha perso tutta la sua sfera interiore. Il progressivo deperimento spiritua-le delle persone, che trascorrono i loro giorni tra televisione, negozi, centri estetici e mas-sificazione di sconti è sempre più frequente. Tutti i giorni assisto ad un bombardamento intensivo di pubblicità, sotto ogni forma, che promette ogni tipo di contenitore pronto solo per l’interlocutore, che neanche conosce.

Si ha, in pratica e lo si capisce largamente, guardando le cose un po‘ più criticamente, un circolo vizioso di acquisti e desideri sempre più superflui, che soppiantano l’io personale e favoriscono l’abbattimento interiore per poter aver in mano il cuore e la mente delle persone. Sicuramente chiunque legga queste righe potrà darmi ragione, ma mai e poi mai si ri-specchierà totalmente in quello che ho den-tro, per due ragioni: o perché ha trovato una sua dimensione esterna o perché è anch‘egli artefice di quello che sta capitando. Ho ini-ziato questo mio pensiero parlando dell’in-soddisfazione che circola sempre più tra i ragazzi della mia età. e ‘è quella causata da motivi materiali e quella che è preludio della dimensione stessa a cui accennavo. Quest’ul-tima è più vicina a Primo Levi per due motivi. • perché rifugge l’autocommiserazione• perché è basata sul rifiuto di una società ma-terialista e scevra di valori.Bisogna quindi, essere forti ma, soprattutto, pronti. In diciotto anni la vita per me, ha già dato di-mostrazione della sua durezza, ma è in que-sto periodo che ricevo esempi di vita, che mi aiuteranno a formare una mia etica in modo più consapevole. È per questo che sono alla ricerca anche di basi, di conferme, di signi-ficati a cui aggrapparmi. Primo Levi affrontò con forza e con le basi giuste una realtà atro-ce come quella del Lager, da cui la società in cui vivo ha preso esempio perché, ha messo in atto un meccanismo di annientamento dell‘individuo. Mi sento frustrato e tradito da tutto questo, ma ringrazio comunque (non so chi), per avermi sollevato dalle sofferenze del corpo, che affliggono gran parte della popo-lazione mondiale. Per procedere con un po’

10 11

di ottimismo penso si debba anche riuscire ad apprezzare quello che si ha intorno. Spi-rito d’adattamento all‘ambiente e soprattutto alle persone non sono due obiettivi facili da raggiungere, in quanto la vita di gruppo è dif-ficile, ed io, forse, non sono l’esempio miglio-re ma, credo di aver capito, come dice Primo Levi, parlando di una sua cara amica, che: “riconoscere nelle prove più dure della vita, negli altri degli uomini e non delle cose “, sia la strada da percorrere. Questo rispetto, prima di tutto, si basa sulla tolleranza e sulla capacità di andare incontro agli altri, di comunicare, di adattarsi agli inevitabili dissapori, che sorgo-no tra le persone. La convivenza sarebbe sta-ta impossibile all‘autore nel campo e fuori se non avesse avuto dentro di sé anche questo valore, che concorre a formare la sua etica. Un altro bene, come ho già detto, che secon-do l’autore è fondamentale, è il lavoro. Amarlo e compierlo con forza e volontà, dimostrando le proprie capacità è importante per avere sti-ma di se stessi. Anch‘io credo sia necessario rendersi utili, ma in questi anni è sempre più difficile perché, molto spesso, si è costretti a svolgere lavori denigranti per la persona stes-sa. Tutto questo fa sempre parte della nostra società, dalla quale ci si può salvare (se lo si vuole), solo cercando di rimanere il più possi-bile se stessi come P. Levi, con il suo esempio personale, ci ha insegnato. Comprendere il passato e agire sul presente è il messaggio di etica civile che Primo Levi ci trasmette at-traverso tutta la sua produzione letteraria. Ci fa anche capire che ciò è possibile solo se si coniugano i valori del passato con i valori dello spirito perché, solo in questo modo si evita di essere superati da forme di tecnicismo, che dimenticano l’uomo.

SECONDO PREMIORoberto Panella Liceo Classico G. e Q. Sella - Biella

Quando un gruppo di persone, non importa il numero o le differenze tra di loro, si trova a vivere insieme per un periodo di tempo abba-stanza lungo si creano una serie di rapporti che corrispondono a quelli che intercorrono in ogni società. La situazione in cui si viene a creare il gruppo indubbiamente influenza il gruppo stesso e determina le regole che i suoi membri, inconsciamente, si danno. Ciò non toglie che alcune leggi e situazioni si ri-presentano sempre uguali in ogni gruppo. Nel nostro secolo ci sono state decine di mas-sacri, di stragi, di stermini, di cose che per i nostri occhi sono terribili. È stato durante la Seconda Guerra Mondiale che la crudeltà dell’ uomo ha toccato il fondo. I campi di con-centramento, costruiti dai nazisti per stermi-nare persone che avevano la colpa di essere appartenenti al popolo ebraico, sono stati la cosa più terribile che l’uomo sia stato in grado di pensare per uccidere degli altri uomini. Lì, lontano dal mondo normale, da tutto ciò che noi consideriamo giusto uomini e donne mo-rivano senza aver commesso nulla di male. Chiudete gli occhi, lasciatevi dietro i rumori della vostra casa, il ticchettio dell’ orologio sopra la televisione, il vostro respiro tranquillo mentre siete seduti sulla poltrona del vostro salotto, i passi del vostro vicino di casa che abita al piano di sopra ... Fate sparire il calore dal vostro corpo, il maglione, i jeans, il tepore dei termosifoni accesi ... Aprite gli occhi del-

la vostra mente su un grande piazzale di ter-ra battuta circondato da casermoni di legno, seguite il percorso di quei buffi uomini ballon-zolanti dentro divise troppo grandi, osservate la loro fatica mentre spingono via un carretto pieno di terra nera. Sentite il vento freddo del nord che vi colpisce il volto in pieno e entra anche nelle fessure della vostre scarpe buca-te gelandovi le dita dei piedi. È questo il lager? No, questa è solo un’ immagine ipotetica, co-struita usando le testimonianze di chi ha vissu-to in un lager ed è tornato a casa portando la sua testimonianza. Decine di scrittori in tutto il mondo hanno parlato dei lager nazisti. In Ita-lia quando si dice lager si pensa subito a un solo nome: Primo Levi. Levi nella sua opera si sofferma sulle sue esperienze dentro il lager, riportando episodi di quella terribile prigionia. Da questi racconti, tenuti insieme dalla pre-senza opprimente del lager e della morte che lì regna sovrana, esce fuori un affresco di una società complessa i cui componenti cerca-no solo di sopravvivere. Soprattutto si riesce a vedere la visione del mondo di Primo Levi, perlomeno la sua visione del mondo dentro il lager. Levi divide i prigionieri in due categorie. La stragrande maggioranza dei prigionieri ap-partiene alla categoria dei Sommersi, ovvero di coloro che sono condannati a morte. La loro morte è già fissata nel momento in cui entrano in lager, essi non sono abituati ad essere astu-ti, crudeli, pronti a compiere furti e a mentire per salvarsi. Le loro qualità, che nel mondo normale, nel mondo fuori dal lager, fanno di loro delle brave persone, degli ottimi vicini di casa, dentro il lager sono una condanna non scritta. Chi lavora con zelo, accetta solo la sua razione e non si preoccupa di diventare un “Prominent”, un personaggio influente del

campo, non è riuscito a capire che la scala di valori che viene applicata nel mondo normale in lager è invertita. Levi non nutre verso queste persone alcun tipo di sentimento, ma dice di loro che questa massa di derelitti senza volto e senza vita è la vera immagine della tragedia del lager. La vita da questi mussulmani è usci-ta fuori quando hanno letto la scritta ARBEIT MACHT FREI. Solo una volta Levi ci dice di aver avuto un moto di pietà verso uno di questi mussulmani. Un giorno, tornando dal lavoro, Levi ha guardato gli occhi di un contadino un-gherese che in quel periodo lavorava con lui e in quegli occhi lo scrittore ha visto l’Uomo, la sua vita, non il Sommerso, il condannato a morte.Nel mondo del lager c’era chi si salvava, quel-li che Levi chiama i “Prominent”, i prigionieri che hanno raggiunto una posizione di prestigio nella particolare scala gerarchica del campo. La loro vita, la loro sopravvivenza all’ interno del lager è fondata sull’ astuzia e sulla capa-cità di cogliere al volo le occasioni favorevoli. Il Salvato non si preoccupa di coloro che ca-dono davanti a lui, in pratica anche lui come il Sommerso ha perso la sua personalità e la sua umanità. La sua vita è tesa al raggiungimento di una stabile sopravvivenza. L’uomo si nasconde profondamente nell’ animo e lascia che siano i suoi istinti ancestrali a guidano nelle sue azio-ni. Ciò che è amorale per noi è invece giusto nella visione del prigioniero che cerca di sal-varsi. Levi sa però che l’unico modo che ha per riuscire a sconfiggere il sistema nazista è non lasciarsi sottomettere. Uno dei prigionieri dice che “per umiliare una persona bisogna essere in due: colui che umilia e colui che si lascia umiliare”. La capacità di mantenere la propria umanità intatta all’ interno del lager è l’unica

12 13

reale vittoria dell’ uomo. Levi stesso cerca in ogni modo di continuare a comportarsi come una persona, egli rifiuta di lasciarsi assogget-tare dall’ idea del lager. Sa che lui non è un numero, ma una persona e tenta di compor-tarsi come tale. I suoi moti di orrore davanti alle ingiustizie del lager evidenziano la sua straordinaria lucidità anche in una situazione così disperata. Levi ammette che nel mondo reale non esistano solo i Sommersi e i Salvati ma vi è anche la possibilità di una terza via, quella dell’ uomo normale. Levi sostiene anzi che questa terza via sia addirittura la più pre-sente nella società fuori dal lager. Nel mondo normale non ci sarebbe un così alto numero di Sommersi, perché l’uomo che vive in società difficilmente subisce un numero di cadute tali da affossarlo definitivamente. L’ uomo sareb-be aiutato sicuramente da chi gli sta vicino o dalla società in termini assoluti e riuscirebbe grazie a questo aiuto a risollevarsi. Nel lager invece I’ uomo è solo, non c’è nessuno che lo aiuta quando cade, anzi a volte le sue cadute vengono enfatizzate dai compagni di prigionia che mirano a diventare “Prominent”. La natu-rale solidarietà che muove l’uomo nella vita di tutti i giorni viene a sparire in una situazione estrema come quella del lager. Non vi è spe-ranza in questo mondo e anche i suoi abitanti lo sanno, visto che ironizzano spesso sulla loro prossima uscita dal Camino, unica possibilità di lasciare il campo. Al di là di tutte queste considerazioni è importante vedere come un uomo di grande levatura come Primo Levi non perda di vista pur nell’ esperienza del lager quella che è una morale normale. Anche se si trova costretto a compiere azioni terribili, an-che se sopravvive ad una selezione a scapito di un altro prigioniero, Levi non giustifica que-

sti avvenimenti usando la scusa della diversa moralità del lager. Il senso di orrore, determi-nato dal persistere nell’ anima dell’uomo Levi delle leggi dell’ etica del mondo fuori dal lager, ci fa capire che Levi non si è mai lasciato umi-liare nel profondo del suo animo. L’ Uomo Levi ha battuto il sistema nazista.

TERZO PREMIOElena Botta I.T.I.S Q. Sella Il termine “etica” deriva dal greco “ethos” che significa consuetudine, costume, ed è, per definizione, quella branca della filosofia che si occupa dello studio del comportamen-to umano in quanto giudicabile come buono o cattivo; essa viene perciò considerata come la dottrina che, ponendo giudizi di valore morale, consente di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. L’analisi degli eventi storici che hanno interessato l’umanità permette la for-mulazione di riflessioni a riguardo che voglio-no provare a descrivere e comprendere con maggiore oggettività anche le zone più oscure e remote dell’animo umano.Un particolare terreno fertile per condurre un’indagine ditale genere fu fornito dalla Se-conda Guerra Mondiale e dall’antisemitismo che caratterizzò Hitler e la sua politica volta a conseguire quella che fu definita “soluzione fi-nale”, cioè l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei tramite le camere a gas ed i forni crematori al-lestiti nei numerosi campi di concentramento che sorgevano ormai in tutti i Paesi sottomessi

al dominio tedesco. Il problema ebraico ebbe origini antiche, si può stimare che esso nac-que intorno al IV secolo d.C., quando il Cristia-nesimo si impose come religione dell’Impero romano; da allora, in conseguenza di confu-sioni, errori, e pregiudizi, si formò un vero e proprio mito ebreo, che sta alla base dei diver-si aspetti del problema ebraico. Due furono i temi principali su cui si eresse l’antiebraismo: il popolo è collettivamente responsabile della morte di Gesù e la sua dispersione nel mondo rappresenta il castigo per tale delitto. Tuttavia si tratta di argomenti che non tengono alcun conto della realtà storica, quale risulta dalle testimonianze dell’epoca e, in particola-re dello stesso Nuovo Testamento: un notevole numero di essi si trovò infatti accanto a Gesù, ebreo egli stesso, per assisterlo fino all’ultimo, la massa del popolo ebreo lontana da Gerusa-lemme ignorava completamente quell’avveni-mento e la sua dispersione era incominciata diversi secoli prima di Cristo. Il mito dell’ebreo errante che trascina per il mondo la sua ma-ledizione e miseria fu all’origine dell’antigiu-daismo cristiano che rimase saldo fino alla Rivoluzione francese. Vittime di episodi di violenza durante la prima Crociata, dopo la seconda gli ebrei furono definitivamente posti fuorilegge nella società cristiana col Concilio Lateranense IV del 1215: vennero chiusi in ghetti, contraddistinti dal cappello a punta e dall’emblema della ruota gialla sull’abito, furono esclusi dalle attività economiche tradizionali confinandoli nel com-mercio del denaro. Alla segregazione sociale si aggiunse quella psicologica. L’accusa di deicidio li designò alla vendetta po-polare, alla persecuzione, all’esilio e fece pe-sare su di loro sospetti di colpevolezza in tutti

i campi della vita, così che furono considerati come i responsabili di numerose catastrofi. In Spagna le loro condizioni furono eccezio-nalmente favorevoli durante la dominazione musulmana, ma andarono progressivamente peggiorando man mano che, con l’unità stata-le, si cementava lo spirito nazionale e la fede cattolica culminando con l’editto di espulsione del marzo del 1492 che ebbe gravi e negative conseguenze sulla stessa economia spagno-la. Nel Medioevo si sviluppò il fenomeno del parossismo: gli ebrei erano massacrati da bande fanatizzate a cui né le autorità laiche né quelle ecclesiastiche riuscirono a porre un freno efficace. Verso la fine del XVIII secolo, però, i dati del problema ebraico mutarono perché diversi spiriti illuminati presero coscienza ditale se-colare ingiustizia, in Italia, in particolare, gli ebrei ottennero la pienezza dei diritti civili e politici in Piemonte nel 1848 con l’articolo 24 dello Statuto Albertino e tale parità giuridica si estese successivamente agli altri Stati della penisola col progredire dell’unificazione. Tuttavia l’antiebraismo non scompare per-ché il riflesso dell’ostilità cui erano stati fatti segno per secoli gli ebrei, era penetrato trop-po a fondo nei costumi e negli atteggiamenti tradizionali delle varie società per dissolversi completamente. Così l’antiebraismo si colori nel XIX secolo di tinte nazionalistiche e prese il nome di “antisemitismo”; quando gli ebrei divenivano cittadini di un Paese, infatti, si met-teva spesso in dubbio il loro patriottismo e si contestava il loro inserimento nella comunità nazionale, per quanto essi fornissero gene-ralmente prova di lealtà nella rispettiva patria e la servissero con intelligenza e coraggio. Col XX secolo fece la sua comparsa in Ger-

14 15

mania una nuova forma di antisemitismo, nata dalla filosofia di Heghel, quello razzista che provocò uno dei più terribili crimini di massa della storia dell’umanità. Primo Levi visse in prima persona l’esperien-za nazista; nato a Torino nel 1919, trascorse un’esistenza serena fino al 1938, quando il go-verno italiano emanò alcuni provvedimenti de-cisamente restrittivi nei confronti degli ebrei: con difficoltà riuscì a laurearsi alla Facoltà di Chimica e tuttavia col massimo punteggio. Qualche mese dopo si trasferì a Milano dove, sotto falso nome, iniziò a lavorare e contem-poraneamente si iscrisse al Partito d’Azione clandestina. Ben presto fu costretto a fuggi-re in Valle d’Aosta dove entrò in contatto con uno sparuto gruppo di partigiani privi di armi e mezzi, sorretti solo dall’entusiasmo. Nel giro di poche settimane, il 16 dicembre 1943, Levi fu catturato dai fascisti e inviato nel campo d’internamento di Fossoli, presso Modena, ma solo dopo qualche settimana si aprirono per lui le porte di Auschwitz. Levi amava definirsi un “centauro”, poiché ibrido, anfibio; la sua vita era un continuo dimezzamento: era chimico e scienziato, ma anche scrittore, era ebreo, ma Italiano e tale duplicità costituiva uno sdop-piamento morale che gli permise di rivedere la propria interpretazione del nazismo, cercando di giustificare il fenomeno proprio in base al concetto di “centauro” ed alla molteplicità di esemplari che esso può proporre traendo spunto dal genere umano; tuttavia fu impos-sibile per l’intera umanità trovare attenuanti alle violenze che contraddistinsero il regime hitleriano e quella dello scrittore ebreo restò solamente un’ipotesi. Nel lager ognuno perse la propria identità di uomo per divenire solo un numero, quello

tatuato sul braccio sinistro degli internati, i quali, sottoposti ad una serie inaudita di bar-barie, vennero uccisi a milioni ed i soprav-vissuti riportarono comunque conseguenze indelebili che li condannarono a vivere im-prigionati nel passato, nel ricordo, situazio-ne per molti intollerabile e che indusse al suicidio lo stesso Primo Levi, l’11 aprile 1987. Levi appare un uomo estremamente comples-so: analitico, asettico e quasi privo di ogni emozione come scrittore; tormentato, fragile e sensibile nella vita quotidiana. Nel lager lo stimolo a sopravvivere coincideva per l’autore proprio nella volontà di denuncia-re al mondo le crudeltà compiute dai nazisti, voleva essere testimone e riteneva tale com-pito un dovere, un impegno inderogabile affin-ché l’umanità non dimentichi. Lo stile sobrio, scarno, il tono colloquiale, la narrazione impersonale, la scrittura chiara, precisa, rigorosamente aderente ai fatti e attenta alle sfumature che caratterizzano i suoi scritti, esprimono l’intento di offrire una testimonianza che solleciti la riflessione del-la civiltà occidentale ed è probabilmente per tale motivo che egli riesce a cogliere con equilibrio ed analisi lucida, che si riconosco-no solitamente nei classici, i momenti cruciali della vita nei lager, rifiutando ogni indugio e puntando all’essenziale, cercando di restituire ai fatti la dignità umana e civile di cui erano stati privati. Lo scrittore intende solo lasciar parlare gli or-rori, senza nulla concedere all’esigenze esteti-che, e non considera l’esperienza del lager un incidente storico, imprevedibile e circoscritto, bensì la vicenda esemplare con cui valutare fino a quale livello l’uomo può identificarsi nel ruolo di carnefice o di vittima. Le violenze fi-

siche e psicologiche, tese ad annientare ogni forma comunicativa e ad annullare gli uomini prima di ucciderli lentamente, mettono allo scoperto anche la progressiva disumanizza-zione: il passato ed il futuro non avevano più alcuna importanza perché come animali gli internati erano ristretti al presente. Il lager fu però anche un immenso laboratorio, un campo da cui trarre insegnamenti e inda-gare le discipline umane nella loro ambiguità; il soggetto che detiene la posizione di osserva-tore diviene più volte oggetto e i risultati delle sue ricerche possono risentire di tali scambi, ma Levi, nella pratica del suo primo mestiere di chimico, riesce a trovare quell’atteggiamento di distacco proprio del metodo scientifico e necessario per non farsi ingannare e anda-re oltre le apparenze che può essere talvolta confuso per cinismo. In realtà esso è mitezza, una di quelle virtù che insieme all’umiltà, alla castità, alla sobrietà, alla semplicità e alla dol-cezza costituiscono le virtù deboli, cioè quelle di coloro che desiderano un mondo senza né vincitori né vinti, di coloro che si battono per una giusta causa fino in fondo, ma non ac-cettano la lotta di tutti contro tutti con obiet-tivi di potere. Nei campi di concentramento la realtà perse le regole proprie della logica e del mondo civile per assumere i caratteri del sogno, o meglio dell’incubo; fu come se il giorno e la notte si fossero rovesciati: il lager diviene l’incubo a cui il sogno cerca di sottrar-si dando forma ai propri desideri elementari come per proteggersi dalla quotidiana realtà. Nei rapporti col prossimo, come già la tradi-zione filosofica aveva insegnato, diviene fon-damentale per Levi lo sguardo. Esso è inteso come per Levinas, quale punto di partenza per un rapporto di amicizia, di dono

reciproco; tale concezione è stravolta dal na-zismo che lo utilizza come violenza, come un mezzo per imporre la rinuncia della soggetti-vità, della possibilità di chiedere e rispondere, dell’essere uomo. La produzione di Levi può quindi essere defi-nita militante, in quanto combatte contro ogni forma di falsificazione e negazione dell’uma-nità, contro l’inquinamento del senso etico e l’assuefazione di degradazione dell’individuo che riempie le cronache degli ultimi decenni. Il compito dell’intellettuale promosso dall’au-tore è quello di denunciare con estrema fe-deltà ai valori morali imponendosi di essere il più possibile oggettivo, evitando di far trape-lare ogni giudizio esplicito, le sofferenze cui l’uomo è soggetto, facendo assumere alla sua testimonianza, oltre che connotati filoso-fici, sociologici e psicologici, soprattutto un valore storico. Alla volontà di denunciare si accompagna però anche la volontà di tacere, un silenzio che è riflessione attiva che ognuno dovrebbe attuare per giudicare gli eventi passati. La memoria risulta così essere la pro-tagonista principale della vita di Levi: alleata in un primo momento, perché l’unico mezzo per trasmettere al mondo con lucidità le vicende vissute nel lager, col tempo si tra-sforma in pericolo poiché, con la vecchiaia, tende a selezionare i ricordi e deformare il passato. È per tale motivo che egli la teme, ha paura di non riuscire più nella sua opera di denuncia ed è probabilmente questa la causa che lo spinge al suicidio. Tuttavia i suoi ricordi sono fedel-mente descritti nelle sue opere che risultano essere la dimostrazione di come i suoi obiettivi tenacemente perseguiti, siano stati raggiunti:

16 17

la volontà di impedire che i fatti che egli rac-contò venissero dimenticati ed archiviati per-ché scomodi spettatori delle barbarie di cui il genere umano è capace, il desiderio di evitare che la spersonalizzazione organizzata torni a trionfare, che visione del mondo fondate sul principio di autorità riducano ancora una volta l’uomo a cinico esecutore di ordini.Così potranno anche evitare di ripetersi even-ti tragici come quelli che hanno reso Levi un intellettuale del terzo millennio, vigile denun-ciatore di ogni attentato alla dignità umana e fautore della nascita di una coscienza sempre più responsabile nell’intera umanità.

PREMI SPECIALIMonica BorioV B - ITIS “Q. Sella”Liceo Scientifico Tecnologico

Elisa CodaIII B - Liceo Ginnasio Statale “G. e Q. Sella”

Davide ColomboIV B - Liceo Scientifico Statale “A. Avogadro”, Cossato

Daniele GalazzoIV B - Liceo Scientifico Statale “A. Avogadro”, Cossato

Elena MalderaV biologico - Istituto S. Caterina

Omar PiantinoIV B - Liceo Scientifico Statale “A. Avogadro”, Cossato

19

1. Fra le iniziative collegate al “Premio Biella Letteratura”, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Biella e Città Studi bandiscono un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuo-le medie superiori della Provincia di Biella per un percorso di ricerca sul tema: “Scuola e la-voro nella narrativa di Lucio Mastronardi”.

2. Ogni concorrente dovrà inviare il suo ela-borato alla Segreteria del “Premio Biella Letteratura” - Città degli Studi di Biella, Corso Pella 2, 13900 Biella, entro il 6 aprile 2002.

3. Ogni elaborato dovrà essere contraddistinto da una sigla o da uno pseudonimo. Le genera-lità del concorrente, con pseudonimo o sigla, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequentata, dovranno esse-re contenute in una busta chiusa riportante all’esterno il solo pseudonimo o sigla.

4. La giuria del concorso è composta da do-centi in rappresentanza di tutte le scuole su-periori del Biellese ed è presieduta da Pier Francesco Gasparetto.

5. Ai tre elaborati classificati primi saranno assegnati tre premi da 500 € ciascuno. Per gli elaborati classificati dal quarto al decimo posto verranno assegnati premi consistenti in abbonamenti a pubblicazioni periodiche o a stagioni teatrali o di concerti, e cd rom di vo-cabolari o enciclopedie.

6. I nomi dei vincitori verranno resi noti a con-clusione del convegno su Lucio Mastronardi che si svolgerà il 19 aprile 2002, giorno della consegna del “Premio Biella Letteratura”.

Presidente: Pier Francesco Gasparetto Premio Biella Letteratura

Franca Di PalmaIstituto Tecnico “E. Bona”

Marco Neiretti, Fondazione Cassa di Risparmio

Liliana PoliLiceo Classico “G. e Q. Sella”

Corrado RanucciIstituto Tecnico Statale per Geometri “V. Rubens”

Enrica RausoITIS “Q. Sella”

Giuseppe Trimboli Liceo Scientifico “A. Avogadro”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2002

20 21

I VINCITORI

PRIMO PREMIOMarco Zilvetti Liceo Scientifico “A. Avogadro” - Biella

Lucio Mastronardi è forse una figura secon-daria nel panorama letterario dell’Italia del Novecento, ma al pari di altri è riuscito a dar voce e dignità al contesto cittadino in cui è nato e vissuto: Vigevano. La vita di questa cit-tà, che egli vede proiettarsi soprattutto sulla piazza è per lui qualcosa di irripetibile e quello è il centro, tutti passano da lì con le loro vite e le loro esperienze. Sembra di assistere ad una scena teatrale in cui i personaggi che si muovono hanno l’aspetto di tipi, il cui obietti-vo è la spinta ad arricchirsi. In questo senso Mastronardi è stato accostato a Balzac, in quanto, similmente a quest’ultimo, viene a creare una sorta di piccola Commedia Umana, realizzandola a modo suo grazie alla capacità di tradurre sulla pagina la realtà con una scrit-tura graffiante, incisiva e soprattutto ironica, mostrando però di non avere il sangue roman-zesco del grande autore francese. Fedele alla propria esperienza personale, si sofferma sui due aspetti per lui più immediatamente visibili, familiari ed importanti: il mondo dei calzolai e quello dell’insegnamento, rappresentando la realtà provinciale con una lingua nuova, che Vittorini definisce “di straordinario brio”. Si tratta cioè di una sorta di “impasto”, in cui la lingua tradizionale si mescola ad espressioni dialettali che diventano incisive “macchie di colore”. Il modello di questo scrittore è dun-que quello verghiano e la lingua diventa lo strumento adatto a rappresentare la realtà vi-

gevanese che si fa specchio della realtà mon-diale. Il rapporto difficile e problematico con la scuola nasce dalla personalità di Mastronardi, insofferente nei confronti della struttura didat-tica che è in conflitto con la sua creatività. Egli viene richiamato spesso per la didattica da seguire e arriva a concepire la classe quasi come una gabbia, che non gli dà la possibilità di esprimersi e di essere se stesso. Tutto que-sto trova espressione nel Maestro di Vigevano che è soprattutto una satira del nostro am-biente scolastico e di certi metodi educativi. In questo romanzo l’autore descrive, fra l’altro, le ridicolaggini della cosiddetta “scuola attiva gli aspetti più comici di alcuni personaggi chia-mati a comandare, a dirigere. Troviamo infatti un direttore che non si può dimenticare facil-mente: con le sue incredibili fissazioni e il suo linguaggio pomposo egli costituisce un incubo per i maestri di Vigevano alle prese con i guai e i problemi di tutti i giorni. Qualcuno ha parlato a proposito di quest’ope-ra come di un libro anti-Cuore, di un opera, cioè in cui del sentimento non c’è neanche l’ombra, inteso pure in senso negativo. Nel ro-manzo di Mastronardi, però, la scuola è vista solo in funzione del maestro, o meglio di come la vede un certo tipo di maestro. Si tratta di un insegnante fallito che insegna solo per tirare avanti la carretta famigliare. Ed è logico che la sua preoccupazione ossessiva siano i coef-ficienti, ovvero lo stipendio e gli anni utili alla pensione. Con questo si tocca indubbiamen-te una piaga aperta sul corpo dell’istruzione ed è naturale che il Mastronardi si diverta a mettere alla berlina il metodo attivo e certi di-rettori che di esso sono gli assoluti e convinti assertori, senza beneficio d’ inventario. Veri

funzionari che scambiano la didattica per la pedagogia e viceversa, e cioè la lettera per lo spirito. Siamo dunque ben lontani da De Ami-cis, nel quale c’è anima, cuore, patriottismo, civismo e religiosità, ma non possiamo parlare di anti-Cuore. L’autore cerca infatti di cucire l’assunto principale- la critica corrosiva alla scuola e al suo ambiente- alla vita privata del-la famiglia Mombelli, onde imbastire la trama di un romanzo che si regga in piedi. Si riceve però la sensazione di un mondo clownesco, dove non ci sono personaggi scavati e sof-ferti, ma marionette senza anima né cuore. Di qui la gratuità di certe situazioni, a comin-ciare da quelle della moglie Ada e quella del figlio Rino, di certe figure di maestri, compresa quella del Mombelli,né buono nè cattivo, ben-sì un indifferente a tutto, rassegnato, sconfitto senza lotta, maestro senza anima nè cuore che può apparire ambiguo e contraddittorio. Mastronardi ha però un senso acutissimo di osservazione e ricava una dose considerevo-le di comicità dalle situazioni quotidiane più impensate: la gerarchia dei “coefficienti”,le contraddizioni sulle teste degli scolari a inizio d’anno scolastico. La sua occhiata irridente si sventaglia su tutta una scuoletta di maestri e la sua deformazione grottesca investe queste figure rappresentanti tutte di una categoria sociale. Nel Maestro di Vigevano non viene però trattata solo la tematica della scuola, ma anche quella del lavoro: la trama segue infat-ti la carriera del maestro Antonio Mombelli, insegnante in quella Vigevano venuta alla ri-balta negli anni di miracolo economico, per il boom arriso alle sue innumerevoli fabbriche di scarpe. L’ambizione di tutta una categoria di proletari e di piccoli artigiani è di entrare nei ranghi della borghesia industriale , di passare

dalla bottega alla fabbrichetta, dalla bicicletta alla fuoriserie. Queste tematiche sono già sta-te affrontate dallo stesso autore nel romanzo precedente: Il Calzolaio di Vigevano. Nel Mae-stro si cambia di ceto ma si resta sempre nella medesima cornice, nello stesso bizzarro am-biente vigevanese che estrae l’oro dalle toma-ie. In esso l’insegnante è una sorta di straniero che bada a non togliersi di dosso nemmeno un grammo di quella dignità -chiamata “catra-me”- che gli viene dal suo mestiere, anche se il magro stipendio lo costringe ad una vita di stenti. Antonio e i suoi colleghi pensano agli “scatti”, ai “coefficienti”, ai “ruoli”, alle “clas-sifiche”, mentre i loro concittadini pensano alle scarpe e ad arricchirsi, quasi in preda ad una febbre isterica, forse condizionati in modo decisivo da un ambiente in cui ciò che conta è la corsa al denaro e in cui i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali, in cui l’unico sogno degli impiegatucci è il pas-saggio di categoria, un passo alla volta e la neoborghesia sta accumulando enormi quan-tità di denaro del tutto impreparata a gestirlo, combattuta tra il desiderio di mostrano e quel-lo di nasconderlo, terrorizzata al pensiero di perderlo. li grottesco delle ambizioni che i suoi personaggi mostrano, inoltre, non è rappre-sentato per metterli alla berlina, ma piuttosto per metterne in luce la pochezza morale. A dif-ferenza del suo maestro Verga, Mastronardi è intransigente e a tratti cattivo nel dipingere i suoi soggetti e sa cogliere dal vivo le situazioni per poi riportarle sulla carta con segno breve, dando alla sua opera valenza documentaria. Lo stesso mondo rappresentato sembra nel Maestro meno vitale e intenso e si direbbe che l’ambiente dei calzolai vigevanesi sia più brulicante di vita e di fermenti di quello debole

22 23

e insulso della piccola borghesia. I due mondi si integrano e vanno a creare il quadro di una realtà più ampia di una Vigevano in cui brucia la febbre frenetica di lavoro e di guadagno e in cui sembra quasi di assistere ad una lotta continua: rivalità del pane, dell’abitazione, del posto di lavoro, del successo. La vita cittadina è toccata di scorcio nei rapporti che si sta-biliscono tra esigenze di prestigio esteriore, affondato nella povertà e la imperiosa legge del denaro,assai più valida e possente. Il ter-zo elemento della catena è l’immigrazione: in questi anni c’è la necessità per chi viene da fuori di inserirsi in questa nascente realtà industriale. Questi aspetti sono presentati in modo amaro e al contempo ironico nel terzo romanzo di questo autore: Il Meridionale di Vi-gevano, il cui protagonista Camillo non lavora nelle industrie di scarpe ma è un impiegato delle imposte, fa cioè parte di quell’altra legio-ne meridionale che ha occupato stanze degli uffici traendone una posizione di un certo prestigio. È perciò riverito dagli industrialot-ti per quella particella di potere che si trova tra le mani. Tuttavia è messo ai margini di un ambiente in piena ebollizione economica ed è apostrofato come “sudicio terrone” da tutti gli strati cittadini. I superiori sono impettiti e al-tezzosi e in quella cuccagna di facili guadagni si preoccupano solo di compilare moduli puliti e di applicare bolli che siano nitidi. Nella cit-tà Camillo incontra una realtà in cui vecchio e nuovo si intrecciano e si contrastano sotto vari aspetti sia dalla parte dei Vigevanesi sia da quella dei nuovi arrivati e in cui si assiste alla rapida trasformazione di questi ultimi, che arrivano sprovveduti e spaesati, ma presto si mettono al passo col ritmo del neocapitalismo. Tutte queste situazioni però riflettono non solo

la realtà vigevanese ma bensì quella di gran parte del nostro paese, trasformato profon-damente dal decollo economico degli anni sessanta e dallo sviluppo da esso portato. Progresso che, come sostiene Verga nella prefazione ai Malavoglia, è bello e grandioso nel suo risultato, visto però nell’ insieme e da lontano. Se osservato da vicino, infatti, non si può non notare le ingiustizie e i sacrifici che comporta. Mastronardi sembra condividere questa posi-zione e lo dimostra anche con la sua ironia e la sua satira: su questa materia il bizzarro tende a diventare comicità divertita e la polemica non si fa più bonaria e distesa e lo scrittore non ha timore di ricorrere con un ghigno alle battute di spinto, ai nodi umoristici più vieti per rendere meglio l’assurda situazione, la miseria economica ma anche e soprattutto mentale dei suoi protagonisti e degli altri personaggi che li circondano.Probabilmente Lucio Mastronardi, inserito nella realtà biellese avrebbe quasi l’illusione di trovarsi ancora nella sua Vigevano, in quan-to numerosi elementi e parecchie situazioni accomunano queste due città. Oltre alla simile collocazione geografica, si può parlare infatti di numerose affinità nella mentalità. Biella è infatti caratterizzata da una borghesia dina-mica, laboriosa ed audace, quanto zotica ed eterogenea, fortemente orientata verso il co-siddetto “mito della fabbrichetta” e dalla cor-sa inesausta al guadagno e all’affermazione economica. La differenza è che nella provin-cia lombarda il settore trainante è quello cal-zaturiero, nella nostra invece è quello tessile e bancario. A Biella la disoccupazione è pra-ticamente inesistente e i giovani molto spesso preferiscono abbandonare gli studi ed entrare

nel mondo del lavoro prima di raggiungere la laurea. Il livello d’istruzione di conseguenza scende per far posto all’occupazione come operai nelle numerose fabbriche. La neobor-ghesia vigevanese, così come quella biellese e quella della provincia media del centro-nord Italia si dà da fare per arraffare la maggior quantità possibile di denaro. E questo è nor-male. Meno comprensibile è invece l’esclusi-vismo, la cecità di questa corsa al benessere, il non preoccuparsi di ciò che significa , dei doveri che essa impone e delle previdenze che esige. Si tratta di un ceto ricco, in continua espansione, contraddistinto da un grande fiu-to merceologico, dall’attaccamento al lavoro, dall’audacia commerciale e dal gusto manu-fatturiero che però lascia a desiderare a livello culturale: non riesce a capire l’importanza che hanno nella società gli interessi e le iniziative culturali, indispensabili affinché la civiltà non sia solo quella dei consumi e dei profitti.

SECONDO PREMIOEugenio Licata Liceo Classico “G. e Q. Sella” - Biella

Muovere tutto e tutti: il disagio per i tempi che cambiano, il disagio per non essersi realizzati, il disagio di sentirsi un estraneo. La scuola de Il maestro di Vigevano è la somma espressione di tale morbo: antiquata, ormai incapace di com-petere con una società in continua evoluzione, tenta di portarsi alla pari con il mondo esterno e di modernizzarsi, senza però mettere in discus-sione gli antichi vizi che la opprimono, senza superare l’ormai arretrata mentalità classista (cfr. l’ingerenza delle personalità più importanti nella vita scolastica e i discorsi sulle divisioni degli alunni del cap.I, p.3) e l’obsoleta gerarchia scolastica. Mastronardi mette in evidenza questa caratteri-stica descrivendo i nuovi metodi di insegnamen-to adottati nella sua scuola: pur essendo, in linea di massima, validi, perdono ogni loro utilità in un ambiente incapace di assimilare la modernità, attaccato a vecchi schemi e ideologie che non fanno proprie le nuove idee, privandole della possibilità di attecchire e germogliare. In un tale terreno tutti i cambiamenti, alla lunga, contribui-scono alla nascita del disagio. La soluzione, totalmente inefficace, a questo di-sagio, adottata dalla Scuola, dal maestro Mom-belli e da tutto il sistema burocratico statale è il “catrame”, espressione coniata dal protagoni-sta de Il maestro di Vigevano, che descrive ef-ficacemente la maschera di fariseismo che, se a prima vista sembra tenere lontani i problemi, è destinata a crollare sotto i colpi di coloro che

24 25

hanno preferito affrontare di petto i cambiamen-ti, o che non si mettono in discussione, protetti dalla loro albagia, come la lavandaia che, con-siderando il meridionale inferiore, lo umilia con volgari ed indiscrete affermazioni. Dissolvendo-si, il “catrame” lascia un soggetto, sia esso una persona o un’istituzione, debole e vulnerabile da qualsiasi attacco esterno. Senza la protezione di questa maschera, il maestro Mombelli vede crollare inesorabilmente tutte le sue certezze, la sua tranquillità, la sua stessa vita: da uomo abitudinario, pacato e realizzato, diventa ineso-rabilmente un incapace, un elemento di disturbo alla società, un essere inutile e dannoso. I suoi costumi si corrompono, ed egli, solo dopo un lungo periodo di regressione e crisi, proverà a ricostruire un mondo ormai distrutto. La Scuola, invece, mantiene questa maschera, che si concretizza nella personalità del Direttore Scolastico, persona oltremodo formalista, che non si apre mai a relazioni più umane (incontran-dosi al bar con i docenti, si presenta con un “In iscuola siamo direttore, ma fuori sono il profes-sore Pereghi”), ipocritamente diplomatico nei rapporti con gli altri, ma sgarbato e inopportuno in alcuni momenti, come quando, nel congedare il dimissionario maestro, userà con odiosa insi-stenza il titolo di industriale. Mentre la scuola, nella Vigevano di Mastronardi, trova in questa maschera il rifugio dalla situazio-ne contingente, il mondo del lavoro cambia to-talmente: da un’economia governata da pochi padroni (Mastronardi ci offre una dettagliata descrizione di questo momento nelle prime pa-gine de Il calzolaio di Vigevano), si passa ad una situazione di frammentazione delle grandi im-prese, a causa dei numerosi artigiani ed operai che decidono di mettersi in proprio, aprendo una piccola attività.

In questo modo umili calzolai credono di poter assumere il prestigioso titolo di “padron” con i vantaggi che ne deriverebbero, ma si trovano a fare i conti con una realtà dura, dominata da elementi senza scrupoli che non esitano a truf-fare chi è alle prime armi, che non facilita certo i piccoli artigiani, e con la guerra (Il calzolaio di Vi-gevano, a differenza, degli altri due romanzi prin-cipali di Mastronardi, è ambientato nel periodo immediatamente precedente la Seconda Guer-ra Mondiale) e le sue disastrose conseguenze anche sul piano finanziario. In questo modo, l’unica conseguenza alla decisione di rischiare ed affrontare il mercato risulta essere, dopo un periodo di prosperità, l’umiliazione della rovina economica. Il desiderio di diventare più ricchi, di “fare i miliùn”, contagia tutti, specialmente co-loro che non sono dotati di “catrame”: un altro esempio è la moglie del maestro Mombelli, che, per invidia nei confronti delle amiche, ricche e sposate con uomini realizzati nella vita, decide dapprima di rinunciare ad una semplice, seppur decorosa, vita di casalinga per andare a lavora-re in fabbrica, poi, sempre per l’ansia di elevarsi socialmente, di fondare una piccola azienda con il fratello, condannando senza scrupoli il marito a dare le dimissioni dal lavoro per incassare la liquidazione. È chiara la similitudine ricercata da Mastronardi tra i piccoli “padron” e Ada e i vinti del Verga. Tutti hanno desiderato un cambiamento di con-dizione, si sono sforzati per ottenerlo, ma poi sono stati ripagati dal destino con il ritorno ad una condizione peggiore di quella precedente. È interessante confrontare le situazioni iniziali e finali de Il maestro e Il calzolaio di Vigevano: nel primo caso ci è presentata una tranquilla si-tuazione familiare (la stessa semplicità formale dell’incipit ci introduce ad un clima tranquillo e

disteso): un maestro, il figlio, la moglie. Alla fine resterà solo Mombelli, senza più identi-tà nè famiglia (nell’ultima pagina, quel “finirò per sposarmi” condensa in poche parole la volontà di chi, ormai ridotto ad una condizione di vacu-ità e di rassegnazione, guidato dal solo calcolo ragionato, prende l’unica decisione possibile).Il calzolaio, invece, ci viene presentato come di-scendente di un’antica famiglia di artigiani, con un passato rilevante, e il romanzo si conclude con l’immagine del Micca, che dopo la morte sarebbe diventato duca in virtù di un antichissi-mo privilegio, ridotto a vendere materiale di bas-sa lega ai viaggiatori che scendono da un treno. In parallelo alla realtà dell’industria scarpiera, ci viene presentato anche il mondo dei travet e degli impiegati statali, nettamente minore nella città di Vigevano (Mastronardi dice, a proposi-to della predominanza dell’industria scarpiera, «Il solo posto di Vigevano dove non si facciano scarpe è la prigione; lì si fabbricano penne a sfe-ra»). Questo mondo di persone piccole e talvolta frustrate è descritto con grandissima precisione nel Meridionale: un giovane proveniente da una non specificata zona del Sud viene trasferito a Vigevano, dove ha ottenuto un posto all’Uffi-cio delle Imposte. A causa della sua posizione influente, il protagonista viene ricercato dagli industriali, che ne approfittano per chiedere raccomandazioni, ma ben presto si rende conto della reale considerazione in cui è tenuto. Viene trattato con disprezzo da tutti i perso-naggi che gli si presentano, dalla padrona della pensione in cui è alloggiato alla lavandaia e al mediatore immobiliare: si fa spazio, in lui, l’idea di essere considerato alla stregua di un essere inferiore. Il disagio venutosi a creare si sfoga, in questo caso, nella graduale perdita dell’identità culturale, specialmente sul piano della lingua,

che si rende sempre più simile al dialetto di Vi-gevano, e nell’incubo di vedere in ogni luogo scarpe o calzolai: la scarpa diventa un mostro, il padrone di ogni cosa. Gli impiegati sono “vittime della scarpa”: si ren-dono conto di non aver colto l’occasione di ar-ricchirsi, e questa delusione si tramuta in odio: il maestro Mombelli, comprando le scarpe per la cresima del figlio, osserva con soddisfazione la loro origine bolognese,ed è felice di non contri-buire all’industria vigevanese. In conclusione, il quadro del mondo lavorativo presente nelle ope-re di Lucio Mastronardi è il ritratto di un’econo-mia non adulta, legata come la scuola a vecchi schemi, dai quali tenta di liberarsi, pagando però gli errori dovuti all’inesperienza. È una compagi-ne lavorativa ancora rigida, incapace di essere innovativa: gli impiegati statali vivono in un am-biente piatto e poco stimolante, l’industria non è ancora riuscita a diversificarsi, garantendo occasioni di lavoro a tutti. È una società giovane, intemperante, alla qua-le occorrerà ancora molto tempo per diventare una vera realtà produttiva. Mastronardi ha sa-puto vedere questo mondo non abbagliato dalle diffuse idee trionfalistiche del boom economico; ha saputo cogliere i difetti e le contraddizioni di un mondo che, oppresso dalla miseria e drogato dall’illusione di una facile ricchezza, ha persegui-to il solo obiettivo del progresso e del guadagno, senza attivare un vero processo di evoluzione e rinnovamento. È forse questa sensibilità il motivo dello scarso successo inizialmente riscosso dal-le sue opere presso il grande pubblico. Mastro-nardi è stato un veggente, non ha detto ciò che la massa si aspettava. Come il giovane protagonista de Parigi nel XX secolo di J.Verne, è stato sotto-valutato dalla massa, ma fortunatamente è stato riscoperto da un pubblico più adulto e maturo.

26 27

TERZO PREMIOCaterina LeoneLiceo Scientifico “A. Avogadro” - Biella

Vorrei sottolineare che ho incentrato la mia attenzione sul Maestro di Vigevano perché credo che sia il romanzo più significativo dell’autore in questione. È evidente nel roman-zo, a mio parere, la rabbia e la frustrazione nei confronti di una società limitante e perbenista rappresentata soprattutto attraverso il mondo della scuola e quello del lavoro nella realtà provinciale di Vigevano che diventa però sim-bolo del mondo: “Cosa c’è a Parigi che non ci sia a Vigevano? A Parigi c’è Pios Pigal; a vige-vano como Pios Ducal..”Per quanto riguarda l’ambito scolastico, la concezione negativa dell’autore emerge dalla descrizione caricaturale dei diversi personag-gi che si alternano agli occhi del lettore met-tendo a nudo le proprie frustrate ambizioni. Il direttore nel suo intento di apparire superiore al protagonista, il maestro Mombelli, risulta spesso comico; ciò appare ben evidente nel suo invito a drammatizzare le lezioni; il mae-stro amiconi, d’altro canto, nella sua ecces-siva attesa della pensione, pare dimenticarsi dello scopo educativo del suo mestiere; in ul-timo il supplente Mornini incarna il prototipo dell’insoddisfatto con chiari rimandi autobio-grafici alla vita dell’autore. Lo stesso Mom-belli, non rivela mai un’autentica passione per il suo lavoro, né alcuno slancio educativo nei confronti dei suoi allievi, come quando umilia l’ultimo della classe che ha le mani sporche, consapevole che solo con questo può sfogare

la sua rabbia e la sua frustrazione. Fare il maestro è un modo per guadagnare, seppur poco, così come abbruttirsi per dare lezioni private diventa necessario per compe-rare la “moda” al figlio che deve cresimarsi. Questa soddisfazione costa, però, al maestro umiliazioni di quella dignità che il Mombelli de-finisce con tono grottesco “crosta di catrame che abbiamo addosso”.Fallimentare risulta l’esperienza del protagoni-sta nell’ambito lavorativo, ed allo stesso tem-po antiperbenista sembrerebbe ai suoi occhi un possibile inserimento della moglie nell’am-bito operaio. Tutto ciò è ben esemplificato dai due epiteti “maestrucolo” e “operaia” che i due coniugi si rivolgono nel contesto di una lite causata dalla volontà della donna di gua-dagnare soldi, in contrasto con il conformismo della società di cui il protagonista è espressio-ne. Lo stesso conformismo che si presenta nel disprezzo del maestro Mombelli verso il figlio che, a sua insaputa, diventa garzone, spinto dalla madre desiderosa di ricchezza, e che per questo viene percosso.In fondo il lavoro è ridotto ad uno status di ric-chezze futili o ostentazione delle medesime, come è dimostrato dalle diverse descrizioni delle “fuoriserie degli industrialotti” e dalle loro mogli “appesantite dai gioielli”.Mombelli, per accondiscendere ai desideri della moglie e del cognato, dà le dimissioni da maestro e impegna la sua liquidazione per “farsi la fabbrichetta”. In realtà egli nel mondo dell’industria un estraneo e appare chiaro, a questo punto, che non può fare altro che l’in-segnante.Un momento significativo del ritorno a scuola è, senza dubbio, la presentazione dettagliata dell’esame sostenuto dal protagonista per ri-

acquistare la posizione dio maestro di modo che pare essere inserito per puro sfoggio di cultura e competenza in questo ambito; allo stesso tempo è necessaria per sottolineare la volontà e l’incapacità del maestro di trovare soddisfazione dal suo mestiere realizzando l’ideale nel reale.La realtà del denaro, in una società che cono-sce il boom economico del dopoguerra, inve-ste anche il mondo della scuola dove i maestri sono valutati e si valutano secondo coefficien-ti di guadagno. A mio avviso, come ho già precisato all’inizio, il significato più profondo di questo libro non va ricercato nella superficiale analisi delle singole strutture della società descritta, quan-to nell’approccio dell’autore nei confronti di queste. Infatti traspare in maniera evidente una forte repressione e insoddisfazione che è facile carpire negli atteggiamenti che il prota-gonista assume nei confronti della famiglia e dei suoi alunni. In effetti non sono rari i litigi, i sospetti, le incomprensioni, i tradimenti verso i personaggi che gli ruotano attorno. I “presagi e gli avvertimenti che ricorrono frequentemen-te suggeriscono l’impossibilità di contrastare la ciclicità e la meccanicità che pervadono la vita del protagonista: questa triste atmosfera trova riscontro nelle morti che si susseguono nel romanzo. Sicuramente la più significativa è quella della moglie Ada che lascia il marito con una gioia grottesca e un sorriso beffardo. L’amarezza che rimane nell’animo del maestro lo porterà più avanti, addirittura, a sputare sul-la tomba della consorte segnando la disgre-gazione degli affetti famigliari che comprende anche il figlio Rino. Quest’ultimo infatti si al-lontana dal padre finendo tragicamente in una casa di correzione.

È sconvolgente quanto questo libro sia dissa-crante e distruttivo di ogni nobile valore. Lo ritengo, perciò, quanto mai diseducativo so-prattutto nella mancanza di attenzione da par-te di un maestro, il Mastronardi, nei confronti di quello che dovrebbe essere il soggetto della pedagogia, ovvero gli alunni. Sarebbe interes-sante, a questo proposito fare un raffronto tra un libro come questo e libri di analogo argo-mento ma di periodi precedenti come il famo-so Cuore di De Amicis, retorico, ma tuttavia descrittivo di personaggi infantili positivi ed adulti di un certo spessore morale. Martina CarlinoITIS “Q.Sella” Liceo Scientifico Tecnologico - Biella

“Riempierò il tempo di fatterelli oltre a pagare quotidianamente la tassa alla vita.”; queste le parole del maestro Mombelli nell’ultima se-quenza riflessiva de Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi. Anche Mastronardi fu un maestro elementare, contemporaneo della sua stessa creatura, insoddisfatto allo stesso modo della propria vita e del proprio lavoro, conside-rato, quest’ultimo, alla stregua di una “tassa” da pagare per assicurarsi la sopravvivenza. Sono profonde le riflessioni sul sistema sco-lastico e su quello lavorativo che traspaiono dalle pagine di questo autore, che vanno sa-pientemente inserite nella circoscritta real-tà della Vigevano degli anni Sessanta, una Vigevano nuova, frenetica e arricchita sotto lo stimolo del boom economico, ma che si mantiene in equilibrio precario sotto il peso della disarmonia provocata da questi re-pentini cambiamenti. E Mastronardi mette a

28 29

nudo questa precarietà, e molti degli aspetti più negativi che la caratterizzano, attraverso un implicito commento moralistico che parte dalla descrizione stessa della scuola e del lavoro in maniera estremamente efficace, ov-vero dando la parola agli stessi protagonisti. In questo modo la sfortunata vicenda del ma-estro Mombelli acquista numerosi significati e ci permette di cogliere aspetti apparente-mente nascosti e forse lievemente masche-rati dallo stile grottesco e tragi-comico della narrazione. L’immagine propostaci è quella di una scuola che si nutre principalmente di bu-rocrazia, all’interno della quale gli insegnanti si giudicano per mezzo di un coefficiente numerico, forse a causa della sua perdita di importanza in una società nella quale l’uni-co scopo è quello di arricchirsi producendo scarpe. La cultura, quindi, non è richiesta in quanto non dà da mangiare; ciò che è richie-sto sono le capacità di elevarsi allo status di “padroncino” e di portare a casa i “miliun”. In questo clima il ruolo dell’insegnante può essere analizzato sotto due prospettive: una interna alla struttura scolastica stessa, che lo vede ridotto a fare un lavoro che non ha più nulla a che vedere con la formazione cul-turale ed educativa degli alunni, un lavoro pri-vato della sua essenza che si nasconde dietro il rigoroso formalismo di un registro compilato con le “anellate” corrette. L’altra rivolta verso l’esterno, che lo vede inutile per la società e mal pagato rispetto alla massa di operai privi di cultura che possono aspirare ad un facile arricchimento. L’ andamento degli avvenimen-ti lo ha insomma posto su di un gradino so-cialmente inferiore rispetto agli altri lavoratori e il maestro diventa un esemplare di piccolo borghese tradizionalista facilmente attaccabi-

le dai repentini cambiamenti del mondo circo-stante. Mastronardi ci fornisce un’immagine triste della scuola a partire dai maestri fino ad arrivare agli stessi genitori degli alunni, per nulla interessati all’arricchimento culturale dei propri figli, “costretti” ad andare a scuola fino all’età adatta per potersi gettare freneti-camente nel lavoro. Per Mastronardi il detto “Il lavoro nobilita l’uomo” non ha valore se ci riferiamo alla società dei calzolai di Vigevano, operai o possessori di “fabbrichette” che sia-no. Ma gli abitanti di Vigevano sono disposti a tutto pur di arricchirsi e di inseguire il feticcio della scarpa ed è così che molti valori fonda-mentali quali sono i rapporti di coppia, o quelli genitori figli, sembrano scomparire a favore dell’elevazione di status. In questo modo è possibile per un semplice ed ignorante ope-raio, che conosce solo il dialetto, come ne Il calzolaio di Vigevano, divenire padrone ed ar-ricchirsi, anche se ciò non comporta che egli sia poi in grado di gestire la propria ricchezza. Mastronardi avrebbe detto: “il lavoro arricchi-sce l’uomo”, ma a quale prezzo? Disgregazione familiare, lavoro incessante a qualsiasi condizione, anche fisica, per la pura rincorsa del denaro e poi? E poi si è sempre i soliti rozzi e poco istruiti operai dipendenti da qualcuno che sarà sempre al di sopra della tua testa. Si parla in questo caso di semplice ascesa economica tipica del periodo storico, la quale non implica certamente l’affermazione di una nuova e solida classe sociale. Mastro-nardi, attraverso romanzi come Il maestro e Il calzolaio, propone a modo suo uno spaccato di una cittadina di provincia molto particola-re. Risulta molto difficile inserirli in un genere dalle caratteristiche ben definite: non si tratta

di racconti fantastici, ma neppure di racconti storici, a mio parere, in quanto i personaggi non assumono le caratteristiche di individui realmente esistiti. Questi ultimi condensano in sé un insieme di caratteri e sono sottoposti ad un insieme di vicende che non sono attribuibili ad un solo individuo, per questo possono esse-re considerati dei tipi esemplari. Per i romanzi di Mastronardi risulta impossibile scindere contenuto da forma, dalla quale molte volte si può essere distratti. Un estremo realismo caratterizza, ad esempio, Il maestro di Vige-vano, la cui narrazione procede attraverso le scroscianti parole che costituiscono i pensieri del Mombelli, incalzanti, portati avanti da un monologo interiore dal ritmo sostenuto, che a volte quasi stupisce. Il lessico dei personaggi è quello quotidiano, come allo stesso modo lo sono gli argomenti del loro parlare e del loro pensare, fatti di vicende intime e di pensieri ancora più segreti alla lettura dei quali si pro-va quasi vergogna. È forse questo che in certi punti della narrazione distoglie dall’argomento portante, ma non è un male, al contrario, per-mette di cogliere ancora più a fondo il pensie-ro dell’autore, oltre alla possibilità di leggere il testo secondo una diversa prospettiva, che non lo limita all’ambito della testimonianza storica.

PREMI SPECIALIAlessandro BarberisV A - Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Daniele BoraV C - Liceo Scientifico

Alessandro FeggiIV C - ITIS “Q.Sella”Liceo Scientifico Tecnologico

Francesco ImprimoV A - Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Sara MalenaIV C - ITIS “Q.Sella”Scientifico Tecnologico

Ploner StefaniaIV C - ITIS “Q.Sella”Liceo Scientifico Tecnologico

31

1. Fra le iniziative collegate al “Premio Biella Letteratura e Industria”, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Biella e Città Studi bandiscono un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori della Provincia di Biella per un percorso di ricerca sul tema: “La narrativa di uno scrittore arrab-biato: Luciano Bianciardi”.

2. Ogni concorrente dovrà inviare il suo ela-borato alla Segreteria del “Premio Biella Letteratura e Industria” - Città degli Studi di Biella, Corso Pella 2, 13900 Biella, entro il 26 aprile 2003.

3. Ogni elaborato dovrà indicare le generalità del concorrente, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequen-tata.

4. La giuria del concorso è composta da do-centi in rappresentanza di tutte le scuole su-periori del Biellese ed è presieduta da Pier Francesco Gasparetto.

5. Ai tre elaborati classificati primi saranno assegnati tre premi da 500 € ciascuno. Per gli elaborati classificati dal quarto al decimo posto verranno assegnati premi consistenti in abbonamenti a pubblicazioni periodiche o a stagioni teatrali o di concerti, e cd rom di voca-bolari o enciclopedie.I nomi dei vincitori verranno resi noti in occa-sione della cerimonia di consegna dell’edizione 2003 del “Premio Biella Letteratura e Industria” che avrà luogo il 9 maggio 2003 presso la Città degli Studi di Biella

Presidente: Pier Francesco Gasparetto, Premio Biella Letteratura e Industria

Luciana Bianciardi, Fondazione Luciano Bianciardi

Franca Di Palma, Istituto Tecnico “E. Bona”

Ada Landini Zanni, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella

Ivano Maffeo, ITIS “Q. Sella”

Liliana Poli, Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Corrado Ranucci, Istituto Tecnico Statale per Geometri “V. Rubens”

Giuseppe Trimboli, Liceo Scientifico “A. Avogadro”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2003

32 33

VINCITORI

PRIMO PREMIOFrancesco AmprimoLiceo Classico G. e Q. Sella - Biella

Il torracchione , ossessione del protagonista del romanzo La vita agra di Bianciardi, è il simbolo dell’effervescenza economica degli anni del Boom , gli anni Sessanta , prodotto del passaggio da un’Italia post-bellica an-cora di stampo contadino a una nuova Italia , industrializzata e arricchita, così ansiosa di crescere ma ancora troppo piccola per non sentirsi sola, spaesata, nella continua ricerca della chimera del progresso . In questo pano-rama sociale ed economico la letteratura ha preso una nuova via, con una serie di autori che, interpretando in modo nuovo il rapporto con la vita quotidiana, si sono allineati in qual-che modo alla “Beat generation” dei paesi anglosassoni ; il più rappresentativo , estroso , capace è stato sicuramente Luciano Bian-ciardi . Egli è , nella descrizione fatta dal suo amico Giovanni Arpino , un bombarolo timido , appartenente alla tribù così rara dei “Grandi Bizzarri “, degli “scrittori contro”, con la capa-cità — o dovrei dire : la grazia?- di scorticare quanto accade, uomini e cose, crocevia esi-stenziali e amorazzi da corridoio. Grossetano impiantato nella fredda, frenetica, febbrile Milano , Bianciardi con la sua opera ha dato un importante contributo alla narrativa italiana della seconda metà del ‘900, rivolgendosi ad un pubblico che va dall’appassionato medio-colto al più esigente letterato. La scrittura, “la grazia” di Bianciardi è assolutamente origina-le, è difatti riscontrabile un elegante pastiche,

che a differenza della scrittura gaddiana è di certo più leggero , veloce , pungente e di più facile comprensione . Difatti elude l’effetto “choc” e la fatica della lettura inevitabilmen-te legati al passaggio da termini appartenenti al livello sublime a vocaboli di uso comune, spesso gergali , concretizzandosi in una prosa che amalgama con sapienza lessico e registri diversi sortendo l’effetto di vivace e morden-te naturalezza; ciò arricchisce sensibilmente la rosa di lettori a cui l’opera di Bianciardi si rivolge. Lo smisurato patrimonio culturale di Luciano Bianciardi si insinua in modo imper-cettibile tra le righe dei suoi testi , nei quali i lettori più attenti hanno occasione di ritrovare celeberrime citazioni che vengono ad essere un tutt’uno con la vivace prosa dell’autore.A volte però persino il lettore più attento e scrupoloso può non rendersi conto che il cie-lo longobardo, così bello quand’è bello è un chiaro rimando manzoniano , ma è intuibile un’analogia con il Marcovaldo al supermarket nel passo de “La vita agra” in cui il protagoni-sta si trova in un grande magazzino. La verve di questa prosa trae alimento sia dalle situazioni usuali , quotidiane che descri-ve sia dal sarcasmo , o per meglio dire dalla lucidissima analisi sarcastica spesso irresi-stibilmente comica con la quale l’autore de-scrive aspetti e macchiette della società del benessere, cogliendo ed anticipando quelli che diventeranno degli “stereotipi”, ma che prima di lui nessuno aveva individuato , dalla segretaria scostante , allo stress della città (in comune con Calvino), col suo grigiore , lo smog, lo stress , il traffico ove “anche Vittorio, uomo mite e pacioso ... appena ha in mano un volante diventa una belva “... Si riscontra tra l’altro nella prosa dell’autore toscano una par-

ticolare varietà lessicale, che lo porta a tro-vare sempre la parola più efficace , stupefa-cente ed al contempo elegante per descrivere una persona , un paesaggio , una situazione o ancor meglio un’emozione. Pare di esser lì mentre narra della partecipa-zione “casuale” ad una manifestazione ope-raia di protesta dei primi anni ‘60 , o quando assiste al recupero dei cadaveri alla miniera scoppiata , entrambi fatti descritti ne “La vita agra”, il suo romanzo più conosciuto ed ap-prezzato, facente parte del trittico sul lavoro e la vita negli anni del Boom, insieme a “Il lavoro culturale” e “L’integrazione” . Pubblicato nel 1962 , La vita agra è un raro esempio di analisi del grande disagio che trovava luogo dietro le quinte dell’effimero spettacolo che fu il “Boom”, e contemporane-amente si ritrovano quei valori , quella rabbia, quel bisogno di farsi sentire che caratterizze-ranno di lì a poco la contestazione studente-sca ed operaia. All’interno della narrazione si inseriscono con naturalezza alcune pause riflessive , alcune digressioni “teoriche” che partono comunque, in genere , dalla situazio-ne della società del tempo.Memorabile è quella ne La vita agra che ri-guarda la “natura veridica del coito” , feroce critica con la quale l’autore esprime in modo assai originale il suo disprezzo verso una so-cietà in cui l’uomo è privato dei piaceri più na-turali dal continuo bisogno di un riscontro in campo economico e sociale, dalla necessità di apparire , dall’ossessione di procacciarsi “grana” , quotidiana esigenza e solo oggetto del desiderio, davvero l’unico superstite, negli individui della società del capitale. È chiaro che il “maudit” Bianciardi non si sente a suo agio in una società come questa e senza tirar-

si fuori descrive il suo “male di vivere” , pre-vedendo con grande anticipo e irresistibile , seppur amara, comicità, effetti catastrofici , in primo luogo di tipo esistenziale ,in cui oggi si identificano in molti. Bianciardi nella sua ope-ra ha sempre voluto lanciare un messaggio di tipo sociale , analizzando e criticando la so-cietà di uno Stato in improvvisa crescita. Nella sua narrativa vi è una critica piena di disprezzo verso la bruttura , la freddezza di quel mondo di cui il torracchione di vetro e cemento veniva ad essere l’emblema. Inizialmente il protago-nista de La vita agra progetta di far saltare in aria il torracchione col grisù , la sostanza che provocò lo scoppio della miniera , ma l’idea fortemente utopica , velleitaria, ad un tratto si ferma. Questa sosta nella ribellione è sinonimo di una sconfitta contro forze più grandi , trop-po grandi per l’uomo quale individuo singolo , privato della sua libertà. In Bianciardi vi è una visione allegorica della vita negli anni ‘60 , con una rappresentazione della grande folla , uno sfondo di autobiografia , uno sdoppiamento del personaggio . L’utopia si impossessa della mente del protagonista , morendo poi uccisa dalla monotonia delle giornate , dai rumori del traffico, dal vuoto interiore di una società in-sensibile. Su uno sfondo avveniristico e rivolu-zionario vi è una fedele descrizione della vita comune della “città” per eccellenza, Milano , in quegli anni , con un personaggio che però non accetta l’idea della sconfitta, ma che ha un ideale di realizzazione complessiva della vita. Questo aspetto si nota molto ne “La vita agra”, nella sua connotazione di cruda realtà a cui si mischia il fantastico l’utopico, mentre è meno evidente ne “Il lavoro culturale” del ‘57 e in “Integrazione” del ‘60. Luciano Bianciardi è anche un grande traduttore , che si può dire

34 35

abbia tradotto di tutto e di tutti; da Steinbeck a Faulkner , da Bellow a Henry Miller (il tro-pico del cancro e del capricorno). Altre sue importanti opere , di carattere storico, sono La battaglia soda , in cui ha rispecchiato, at-traverso le memorie di un ex-garibaldino , le delusioni del momento postrisorgimentale , e “Aprire il fuoco”. Nel parlare di Bianciardi occorre innanzitutto puntualizzare che egli è riuscito con la sua opera di grande valore linguistico e sociale a rimanere sulla breccia da oltre quarant’anni , impresa non facile in un panorama letterario come quello italiano , assai ricco ed in continuo fermento , ma quasi privo di autori che riescano ad affermarsi per così tanto tempo. Egli non visse gli anni della contestazione studentesca come è possibile presumere , infiammandosi davanti allo spet-tacolo di quella rivoluzione, a quel bisogno di libertà, poiché aveva imboccato la via del len-to suicidio provocato dall’alcol, che lo porterà a morire a Milano il 14 novembre 1971 , a soli quarantanove anni ( era nato a Grosseto il 14 dicembre 1922). Così non poté assistere all’af-fermazione della libertà, la sua libertà, quella libertà che ha sempre ricercato quale unico modo in cui l’essere umano in quanto tale può affermarsi , la libertà che brucia, che fa male, ma che rimane il sogno di chi vuole vivere la vita pienamente, in tutte le sue infinite sfac-cettature. Un grande interprete della società degli anni del Boom , in una metropoli spigolo-sa , fredda diversa da quella del suo immagi-nario; un sogno , forse irrealizzabile , ma vivo e arrabbiato , quello di Luciano Bianciardi, lui che, se qualcuno gli avesse chiesto com’era la vita in città, avrebbe risposto che lassù non c’è nessuno che ti aiuta a rialzarti se cadi, e la forza che hai ti basta a malapena per soprav-

vivere, perché la vita è agra, lassù. SECONDO PREMIOEric Gallo I.T.I.S. Q. Sella - Biella

Oggi è una giornata come tante, sono le 6.00 e suona la sveglia, metto la testa sotto il cu-scino ma so benissimo che tra poco mi dovrò alzare, così, in uno scatto, eccomi in piedi, mi lavo, mi vesto, mangio e di corsa alla fermata dell’autobus. Routine pura e semplice, comu-ne a tutte le persone, studenti per lo più, che dal mio paese si recano a Biella nel primo mattino, vestiti tutti allo stesso modo, sempre a discutere degli stessi argomenti, dandosi ragione se sono abituati a farlo, insultandosi se non lo sono, risultando quasi sincronizzati come monadi leibniziane, come se qualcosa li uniformasse ad uno standard fisso, funzione dell’età che li porta a vivere in modo regolare, prevedibile e conseguentemente noioso, non conforme alla mia personale definizione di vita che sostanzialmente necessita dell’attributo libertà, che si ripercuote nel pensiero,nelle azioni ed eventualmente nei giudizi. Proprio la ricerca in quest’ambito mi ha portato alla let-tura attiva delle opere di Luciano Bianciardi, uno scrittore autobiografico che è riuscito ad uscire dall’individualismo,cogliendolo come il pretesto dal quale prendere coscienza di un fatto a livello embrionale giungendo così ad allargare la visione della letteratura, restando nonostante lo scorrere del tempo estrema-mente attuale, legato alla vita e a quanti sul suo palco, a volte sterile, recitano; basandosi su questo fondamentale pensiero scrisse, in collaborazione con Cassola, I Minatori della

Maremma, dove analizzò le condizioni degli operai che lavoravano nelle miniere nei pressi di Grosseto, dove nacque il 14 dicembre del ‘22, con i quali andava a chiacchierare e bere il caffè dopo la fine della, cosiddetta,gita (os-sia il turno di lavoro). Molte testimonianze rac-colte tra di loro ci fanno comprendere la sua grande umanità, tra le quale cito quella rac-colta da sua figlia Luciana: “io ero bambino, però tuo padre me lo ricordo, anche perché mi chiamava amico. Lui era un giornalista, che già collaborava all’ “Unità”, e io non sapevo né leggere né scrivere. Perciò il fatto che una persona del genere mi chiamasse amico mi sembrava così bello, così grande. Aspettavo la fine del turno proprio per andare da lui a bere il caffè.” I minatori rac-contavano i loro problemi, per esempio che a Ribolla c’era una galleria in cui stavano sca-vando senza osservare alcuna norma di sicu-rezza, gli dissero che era pericoloso, perché altissimo era il rischio di esplosioni, ed infatti il 4 maggio del ‘54 la miniera scoppiò, morirono 43 minatori. Fu un episodio che lo colpì mol-tissimo, e manifestò il suo stato d’animo sul “Contemporaneo”, scrivendo in occasione del funerale: “Quando le bare furono sottoterra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati. lo mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio che aveva già chiuso e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare”. Erano morte 43 persone, amici suoi, e lui incredibilmente non poté più aiutarli. Scrisse articoli infuocati, cercando di costringere la ditta che gestiva la miniera a prendersi le sue responsabilità, ma, come un picchiere che da solo attacca un castello, non sortì alcun effetto e quando le vedove dei

minatori si accontentarono del ridicolo inden-nizzo e delle pensioni che la ditta concesse loro, subì un altro grande colpo e cercò, inutil-mente, di scriverne ancora ma gli dissero che la notizia era vecchia e non interessava più a nessuno. La morte di questi minatori Io lasciò con l’amaro in bocca, consapevole di non po-terne evitare il retrogusto; così dopo un’offerta giunta in quello stesso anno si recò a Milano per lavorare alla neonata Feltrinelli, lasciando a Grosseto la sua famiglia. Nella nuova casa editrice trovò vari amici ma il lavoro non gli piaceva a causa delle meto-dologie troppo burocratiche, necessarie per la gestione del lavoro al suo interno, così, cercò sempre nuovi escamotage per conciliare il suo modo di lavorare con quello “regolare” dell’uf-ficio, memorabile l’episodio riportato dalla fi-glia: “...Feltrinelli era notoriamente miliardario. Una sera che erano tutti intorno a un tavolo delle riunioni, verso le sei del pomeriggio arri-va fresco di doccia, appoggia il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello del Bianciardi, voltato e rivoltato tre-quattrocento volte, e comincia a parlare di giustizia sociale e lotta di classe, per due ore. Mio padre non ne può più, alla fine si alza - gelo, perché non ci si poteva alzare quando parlava il padrone - guarda quel suo cappotto liso, batte la mano sul tavolo, prende il cappot-to del Feltrinelli, se lo infila, si pavoneggia un attimo, si volta, poi alza il pugno e dice: viva la lotta di classe, ed esce. È andato avanti per un paio d’anni con questo cappotto bellissimo e gli amici, che sapevano le sue condizioni eco-nomiche, gli chiedevano: ma come hai fatto, Luciano, a comprarti un cappotto così bello? “No, non me lo sono comprato me l’ha rega-lato il Feltrinelli perché lui alla lotta di classe

36 37

ci crede veramente.” Venne licenziato (non per l’episodio) e spiegò il fatto scrivendo: “Mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispen-sabile. La verità, è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici, gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera e riesce, non si sa come, a dare l’impressione fallace di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervo-so”, ma il giaguaro,così chiamava il Feltrinelli, consapevole delle abilità di Bianciardi, costruì con lui un rapporto di collaborazione esterna, affidandogli svariati lavori di traduzione che diventarono la sua principale occupazione: traduceva ad una velocità impressionante in modo incredibile riuscendo a ricostruire le frasi dell’edizione originale in modo tale da non far scorgere il passaggio linguistico, contribuendo così ad introdurre in Italia mol-ti libri stranieri resi stilisticamente in modo perfetto, e nel suo romanzo più conosciuto: La Vita Agra, rappresentò proprio questi ritmi frenetici facendo emergere la rabbia contro l’industria in genere, contro l’alienazione mec-canica, individualista ed egoistica delle masse della metropoli (specialmente per gli automo-bilisti in colonna), l’analisi chiara fondata su un’ironia, triste del mondo aziendale dove le persone si muovono come robot, eseguendo senza riflettere, dove i “pensanti” sono fermi e osservano quasi increduli gli altri che van-no e vengono come ombre senza vita, con movimenti di natura e velocità diversa, dove il pensiero “omogeneo” percepisce movimenti a scatti, quasi fotografie che si susseguono lentamente dandogli il tempo di prevedere, come l’osservatore sulla sponda del fiume che

osserva il verso della corrente; Bianciardi cri-tica e contesta tutto il sistema e le sue ombre adattate a quel tipo di azioni, prendendo poi in giro anche se stesso, attraverso un linguaggio inventivo e concreto ,svuotandosi come gli altri, parabola di vita che dalla rivolta giunge alla consapevolezza. Il successo, parola che ironicamente affermava di conoscere solo nella sua accezione di participio passato del verbo succedere, del suo libro gli conferì un certo benessere economico. Rifiutò nello stesso periodo, per coerenza, un rapporto di collaborazione con il “Corriere della Sera”, mettendosi d’accordo con l’edito-re Rizzoli per scrivere un libro all’anno, tipolo-gicamente simile a La Vita Agra, che l’aveva reso noto al grande pubblico. Ma, ovviamente, ribaltò il ruolo affidatogli scrivendo libri sul Ri-sorgimento, probabilmente il periodo della sto-ria d’Italia che più amò nella sua vita, come, ad esempio, La Battaglia Soda in cui emergono le contraddizioni e gli scontri tra l’entusiasmo garibaldino-democratico e l’ottusità conser-vatrice dei “generaloni” piemontesi, che con-sentono di evidenziare due filosofie nazionali diametricalmente opposte. La storia, con riflessioni sull’ambiente, si svol-ge in un ambito militare ordinato e regolato nelle sue funzioni, dalle quali Bianciardi ana-lizza le tappe di una rivoluzione quasi riuscita in parallelo alla situazione italiana del secon-do dopoguerra: l’attualità in cui vive, facendo emergere la corrispondenza biunivoca tra tempo d’azione del romanzo e tempo “con-temporaneo”, e tra il protagonista del roman-zo, alla fine costretto ad abbandonare la car-riera militare, che incomincia a scrivere per raccontare la sua esperienza di vita colma di delusione per gli ideali spezzati, e l’autore che

attraverso la scrittura continua la sua batta-glia, consapevole che “ ... la rivoluzione deve iniziare da ben più lontano ...”. La Battaglia Soda è stata scritta in un toscano semplice frutto di un grande lavoro, che si è districato nell’abbinamento di giochi linguistici accompagnati dall’inventiva stilistica, manife-stando così l’attaccamento di Bianciardi alle proprie origini sociali e alla sua terra, l’autore rammenta il suo passato di politico praticante, con l’adesione al partito d’azione, e la delu-sione degli anni morfetici che lo hanno con-dotto all’età adulta, così come il protagonista sveglia dal sogno utopistico dopo il fallimento delle speranze sociali e politiche nate con la Resistenza. La stagione degli anni giovanili durò poco e, nel suo pamphlet più conosciuto, Lavoro Cultu-rale, li racconta con una prosa chiara, aspra e tagliente con riferimenti all’Italia di quei tempi, con i suoi lunghi pomeriggi provinciali, evasi dagli “eruditi” con sterili, ma contemporanea-mente febbrili, ricerche sulle origini della città, dai ragazzi, invece, con la scoperta del cine-ma e lo stare insieme, con il lavoro culturale portandolo ad ironizzare poi, sul linguaggio, troppo fumoso, degli intellettuali di sinistra, che prende il sopravvento sulla sostanza delle cose. Ma il Risorgimento incominciò, tuttavia, ad attrarre l’attenzione dei giovani e la Rizzoli accomodò le scelte dello scrittore grossetano che conseguentemente diede alla luce Aprire il Fuoco, dove si avverte tutta la sua tristezza, e Daghella Avanti un Passo che trovarono un discreto pubblico, non paragonabile a quello de La Vita Agra con le sue 50.000 copie ven-dute; mutando nuovamente oggetto scrivendo “Viaggio in Barberia” determinando il sorgere delle calvizie nei funzionari della casa editrice.

Forse è questa la vera forza, la vera libertà e la vera anarchia,come molti l’anno chiamata, di Luciano Bianciardi, barattare il ruolo “co-modo” e la situazione favorevole, economi-camente redditizia, duramente ottenuta, per rimettersi in gioco, andare contro corrente, disinteressandosi dei commenti degli altri, seguendo comunque sempre la strada scelta incurante delle difficoltà arrivando, simpatica-mente, a paragonare la vita ad una scalinata dove scegliere la cacca sulla quale mettersi a sedere.

38 39

TERZO PREMIOCarlo Panella Liceo Scientifico Statale “Avogadro” Biella

Premessa Individuare un percorso che in un qualche modo riesca a comprendere la molteplicità dei temi e l’ispirazione, i contenuti e le motiva-zioni, il pensiero ed il messaggio, di un autore come Bianciardi , per “collocarlo” o inserirlo in un qualche modo nel panorama culturale è compito arduo. Egli ha saputo trasformare in “narrativa” un’indagine storica sulla condi-zione sociale e soprattutto umana dei mina-tori maremmani dalla sua formazione , spesso drammatica, fino agli anni cinquanta, con il suo carico di date, documenti storici e gior-nalistici, di comunicati aziendali , sindacali e politici , riuscendo a farla vivere come un’epo-pea alla stregua della conquista del Far West , ha tratto dalle vicissitudini e dalle esperienze della propria breve ma intensa vita le occasio-ni per la sua produzione letteraria e viceversa la sua attività professionale ha segnato non poco il percorso della sua vita , al punto tale che è difficile stabilire il limite , il confme tra le due situazioni, forse perché era incapace di “produrre” senza mettere in gioco se stesso e la propria “umanità” , perché la sua narrativa, il suo “lavoro “, erano parte di se stesso, una manifestazione del suo modo di essere. Forse di qui nasce la sua “rabbia” , la sua ironia ir-ridente e timida allo stesso modo dalla consa-pevolezza, che è anche scelta di vita, di non

potere e di non volere essere “alienato”, ma di perdere, giorno dopo giorno, per effetto di questa alienazione “da produzione” il con-tatto con quella umanità , e di quella umanità di cui sentiva il bisogno per sé e per gli altri. Bisognerebbe insomma avere una macchina da presa e dirigerla ora avanti verso le sue aspirazioni, ora indietro sulla storia, sua e de-gli altri di cui si sentiva parte, ora “dentro” al personaggio - autore con un fermo immagine profondo e impietoso e al tempo stesso dol-ce e indulgente , certi che mille altri percorsi sono possibili , senza mai dimenticarci però, della sua umanità di toscanaccio sanguigno e “feroce”, ma al tempo stesso appassionata e vulnerabile , come ebbe a dire qualcuno dei suoi estimatori .

L’elemento autobiografico Chiunque si sia cimentato nella lettura della narrativa bianciardiana, non può fare a meno di individuare nell’elemento autobiografico uno degli assi portanti. Si tratta però di un au-tobiografismo non di facciata, né di comoda ispirazione. Coerentemente con il suo modo di vivere la sua “professione” culturale, ciò che permea e modella la sua prosa, ora ironica e beffarda, polemica fino ad attribuirsi, attraver-so uno dei suoi personaggi, missioni ribellisti-che, ora lasciva ed indulgente in quella che lui stesso definisce una elaborazione di un cristianesimo a sfondo disattivistico-copula-torio, o ancora malinconica e rassegnata, ma mai interamente condivisa , nella descrizione della morte di un barbone o degli ultimi gior-ni di vita di un amico, a tratti appassionata e realistica nella cronaca di una travolgente re-lazione sentimentale o di una lotta sindacale, deferente, rispettosa e accurata nel riferire i

particolari estetici e psicologici di una visita alla biblioteca, o ancora precisa e partecipe nel riportare le battute di una discussione po-litico — culturale, canzonatoria e angosciata nell’osservazione dei comportamenti dei cit-tadini rapiti dalla società dei consumi e della produzione, è proprio la sua “umanità”, intesa come capacità di immedesimarsi, anzi come modo di vivere in prima persona, narrante o protagonista o osservatore, le stesse situazio-ni, le stesse passioni , le stesse emozioni, e di renderle in modo soggettivo, quasi viscerale e perciò coinvolgente. E come se, preso da un irresistibile bisogno di comunicare, questo sì estremamente reale, li-berasse se stesso con tutte le sue aspirazioni e i suoi desideri, le sue paure e la sua ansia, le sue riflessioni e le sue emozioni trasferen-do tutta la sua umanità nei suoi personaggi , ripercorrendo come in un film surrealista le tappe della sua esistenza in una serie di rac-conti neanche troppo fantastici, in una sorta di molteplici allegorie. A tutto questo bisogna aggiungere che anche tecnicamente, il suo autobiografismo rivela una indubbia originali-tà. Ne L ‘integrazione , per esempio, riesce a “trasferirsi” in due personaggi, manco a dirlo, fratelli, - Marcello e me - co-protagonisti della sua avventura milanese in una grande casa editrice nascente, alle prese con un grande progetto editoriale e con la vita frenetica ed operosa, ma anche metodica ed alienante della metropoli in pieno sviluppo, che avran-no due destini diversi, ma comunicanti, per ognuno dei quali emergeranno “prospettive” positive e contraddittorie, come due corni di uno stesso dilemma. Ne La vita agra invece, questa sorta di sdoppiamento autobiografico viene superato. Il narratore però si pone ini-

zialmente in un atteggiamento colloquiale con un ipotetico interlocutore che già in parte è al corrente delle vicende cui si fa riferimento. Infatti sono mescolate situazioni storicamen-te antecedenti , l’attività alla biblioteca della Braida del Guercio , la tragedia della miniera di Montemassi, e successive, tutto il periodo milanese, rispetto al piano storico della narra-zione. Più avanti, l’autore - narratore - prota-gonista, mette ordine alle vicende ripartendo dal periodo milanese , dalla ipotetica missione vendicatrice contro l’azienda mineraria, al li-cenziamento dalla casa editrice, al subaffitto in casa Fisslinger e infine , passando per la travolgente convivenza con Anna, la “compa-gna di barella”, alla descrizione della giornata di un traduttore. Ma non finisce qui, perché in questa sorta di viaggio della memoria riesce ancora a sdop-piarsi tra il protagonista, che crede di poter raggiungere il proprio obiettivo di un rinno-vamento sociale, spinto dalla propria umani-tà contro quella che definisce con tinte forti “libidine neocapitalista” esplorando tutte le contraddizioni del “miracolo italiano”, pas-sando dalla furia distruttrice di un attentato alla Montecatini , alla “partecipazione” alla vita grigia e alienante della metropoli, per condividere, per capire e ribaltare, della parte centrale del racconto, e il narratore disincan-tato prima della fase iniziale e deluso poi nella parte terminale della vicenda narrata, in cui si abbandona stancamente alla descrizione della giornata di un traduttore che deve sopravvive-re ed è diventato anche lui come gli altri e non ha più tempo per i guai del prossimo. Malgra-do questa disillusione , il Nostro ha “scritto” lo stesso , indomito , feroce, beffardo, eppur timido e fragile, quasi a passare un testimone

40 41

, per farci sapere, forse per fare in modo che altri protagonisti più o meno milanesi anonimi , non si arrendessero, continuando ad osser-vare con occhio spietato il mondo intorno a lui. Se si fosse arreso , forse è proprio vero , non avrebbe scritto , non ci avrebbe comuni-cato questa sua grande umanità. Temi e contesto storico - culturale. Il rapporto tra cultura e società.Testimone e protagonista del suo tempo, in un periodo fra i più turbolenti della storia del nostro paese, acuto osservatore della realtà circostante, ha avuto l’opportunità di spazia-re, qualitativamente , su un ampio ventaglio di tematiche, di contenuti , di problematiche , giungendo sempre al cuore delle questioni, anche “fisicamente” perché affrontate dal punto di vista della vita vissuta, individuando via via l’attualità del dibattito culturale e non solo culturale. Fin dagli inizi, con l’adozione del bibliobus, una sorta di bus, che anziché trasportare alunni o persone, distribuiva libri della biblio-teca, con la scelta di esplorare quello che è stato definito uno dei capitoli segreti della storia d’Italia, in un’indagine sulla condizio-ne umana e sociale dei minatori maremmani, dalla sua formazione fino agli anni 50, in una sorta di epopea in cui si ripercorrono le tappe della colonizzazione della Maremma, rivela una “scelta di campo” del suo agire culturale e letterario , non solo dal punto di vista degli interessi personali ma anche come motiva-zione della sua attività ; offrire cioè un con-tributo al rinnovamento sociale e culturale del Paese, superando la divaricazione tra il mondo intellettuale e la realtà produttiva e del mondo del lavoro. Che si tratti di una ap-

passionata e partecipe cronaca di una lotta di minatori, della illustrazione di una grande iniziativa editoriale, del resoconto di un dibat-tito politico - culturale sulla sociologia , di un feroce commento sull’etica produttivistica , o ancora del ricordo di una travolgente pas-sione amorosa, affiora sempre, tra le righe, o esplicitata nei dialoghi e nelle divagazioni questa sua ragione di operare. Facendo riferimento a L ‘integrazione , per esempio , questo è particolarmente evidente nell’ampio spazio dedicato alla descrizione del progetto editoriale , nel frequente ricor-rere del tema della sociologia per bocca di Marcello, fratello e alter ego dell’autore - protagonista - narratore, oppure nel com-mento, sempre attraverso un dialogo con Marcello al sorgere dei “bisogni”, cultura-li e non delle operose formiche milanesi. Diceva Marcello che una vera storia d’Italia bisognava ancora scriverla. Avremmo dovu-to, nel quadro della grande iniziativa, provo-care una vastissima serie di inchieste ap-profondite, ciascuna su un aspetto della re-altà italiana. “Cosa sappiamo noi della Fiat, per esempio? Cosa ne sappiamo di quel che succede nelle campagne dell’Appennino?... E le donne, quanto son cambiate negli ultimi cento anni, ... In che misura sono le donne ad assorbire l’ideologia che fa comodo al padrone? Quella spicciola voglio dire,la te-matica del paio di calze, della permanente del rossetto,del profumo, tutto ciò che si ac-quista per piacere a lui. Perché dietro a queste che paiono cianfru-saglie, c’è un’ideologia, e voi sapete quale. Un ‘ideologia diventa operante proprio così; serve a poco finchè rimane libro, articolo, parola scritta”.

Anche ne La vita agra si può avvertire quest’ansia sotto forma di denuncia, del de-cadimento morale ed etico , conseguenza diretta della non cultura , della condizione di eterodirezione culturale delle genti prese dalla smania produttiva inquadrate nei fre-netici ritmi quotidiani, o in modo ancora più evidente e violento di una sorta di manipola-zione dell’informazione all’interno dei rappor-ti di produzione che imbavaglia le coscienze in una specie di ricatto per la sopravvivenza , o di proposizione di un altro tipo di cultura, di filosofia da lui stesso definita “a sfondo disattivistico - copulatorio” in modo chiara-mente provocatorio ed estremizzato quasi temesse di passare inosservato, chiudendo la parentesi in modo ancora più polemico affermandoNell’attesa che ciò avvenga... io debbo di-fendermi e sopravvivere.

La condizione umana La materia prima, il pane quotidiano dell’at-tività di Luciano Bianciardi, nella sua opera di osservatore attento e spietato è senz’altro la condizione umana nelle sue manifestazioni sia materiali sia, a maggior ragione, etiche, morali e culturali. Nell’epopea della coloniz-zazione della Maremma, c’è posto non solo per la documentazione storica e cronologica, per la cronaca nelle sue interpretazioni sen-za far mistero del suo modo di considerare le vicende, ma anche per le sofferenze e le gioie della vita dei minatori, dei contadini, per l’impatto del nuovo ordine economico - so-ciale in formazione, con il modo di vivere e di pensare dei protagonisti, per le aspirazioni, le speranze, le delusioni, i successi e i fallimen-ti di coloro che hanno partecipato in prima

persona. C’è posto anche per la solidarietà e la competizione sociale, per il qualunquismo e la passione civile, politica e sindacale per la vendetta e per il perdono, per la rabbia e la rassegnazione;anzi sono questi valori a “scandire” la storia e la cronaca. Anche quando subentra l’elemento auto-biografico, nelle altre opere, c’è tutto un susseguirsi a volte ordinato e lucido, altre volte caotico e frenetico ma non per questo meno pungente, di osservazioni, di commen-ti, di riflessioni sui comportamenti e sui valori emergenti o malcelati o addirittura estrapo-lati come da una miniera nel modo di vivere del dopoguerra, nella realtà socio - econo-mica della metropoli in formazione, a volte in contrapposizione con la provincia toscana o ligure. Valga a questo proposito, riandando a L‘integrazione, ricordare per esempio un dialogo tra l’autore ed il fratello Marcello - al-ter ego - all’uscita di una casa di tolleranza in cui viene descritta la realtà della grande città, quando l’autore manifesta il desiderio di andarsene e mollare tutto... ...Prima di tutto mi disse che ero un provin-ciale. Cosa mi credevo? che la grande città fosse quel luogo di meraviglie e di godurie, che credono certi? Quelli che amano viag-giare, la grande città era proprio così, invece: un posto duro, cattivo, teso assillato : tanta gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare. “Arrivare dove?“ chiesi “Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, for-se, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch‘es-so, di vivere nella grande città. Guardali in faccia...., dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che ser-

42 43

vono soltanto quanto basta per stare in pie-di, per lavorare, trottare ancora e fare altri soldi. Un giro vizioso, e la tragedia sta nel fatto che di questo loro non si avvedono, che si ritengono dei privilegiati..., neanche i loro bisogni son genuini : ci pensa la pubblicità a fabbricarglieli, ... E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Oppure si può far riferimento alle vacan-ze trascorse su una spiaggetta del Tirreno, dove, oltre al ritrovato all’entusiasmo della vita, incontra anche l’amore, il massimo della contrapposizione con la grigia metropoli...

...Per me fu un mese bellissimo, su una spiag-getta del Tirreno, dove si giocava a pallone dalla mattina alla sera... Giocammo per tutto il mese d’agosto, sulla sabbia, a rischio di farsi venire la silicosi. E poi quell’agosto, quando fu vicino il giorno di tornare lassù, conobbi Anna... Quando fu il giorno della partenza Marcello era un poco ingrassato, ma con il colorito smorto di chi non ha riposato a dovere. Io invece ero abbronzato e asciutto e stavo be-nissimo... E c’è posto pure per la questione femminile in questo colloquio con Bauducco, un tecni-co amministrativo, come amava definirsi lui stesso...

“Eh, purtroppo bisognerà pensare a ridurre le spese generali. Sai che a Marta pren-de centocinquantamilalire al mese? L’ha voluta assumere Altoviti, e io glielo avevo detto. Con centomilalire possiamo prende-

re due ragazze sai?.... Io poi non prenderei nemmeno quelle. Le donne non è mai bene assumerle” “Perché ?”“Vedi, può sembrar duro, specie detto da me, con le mie idee, ma quando si tratta del bene dell’azienda il mondo è eguale dappertutto. Il mondo occidentale voglio dire” “Ma perché non vuoi assumere donne?”Sorrise: “Perché le donne poi lo sai che cosa fanno? Appena assunte si sposano e riman-gono incinte, e allora l’azienda le ha sulla groppa per cinque mesi filati e deve pagarle senza che producano”...

Senza voler analizzare tematiche più impe-gnative ne “La vita agra” può essere utile riflettere sulla contrapposizione di due imma-gini suggerite dall’osservazione del modo di spostarsi nella grande città.

Ogni giorno io trascorrevo in tram almeno un ‘ora e mezzo .Bene, chi non sa può forse credere che, viaggiando su quel mezzo qua-rantacinque ore ogni mese, in capo all’anno uno debba aver fatto centinaia di conoscen-ze, decine di amicizie......Per esempio, quelli che per ragioni di la-voro prendono ogni giorno l’accelerato fra Follonica e il paese mio, li vedrete salutare dal finestrino casellanti e capistazione...Molti si sono sistemati così, incontrando sull’accelerato la futura sposa… ...Qui no. Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di estranei che non si parlano, anzi, di nemici che si odiano. C’è anche un cartello che vieta le discussio-ni col personale......si somigliano tutti, i passeggeri del tram.

Ci sono tre tipi fondamentali di faccia...Un po’ più divertente ed (auto)ironico è il commento ai modo di camminare dell’autore, provinciale e rozzo rispetto all’incedere deci-so e finalizzato degli abitanti della città......Io non cammino, non marcio : strascico i piedi, io, mi fermo per strada, addirittura tor-no indietro, guardo di qua e guardo di là, an-che quando non c’è da traversare...Sorpreso in atteggiamento sospetto, diceva appunto al telefono quel maresciallo del buoncostu-me... “Come atteggiamento sospetto ?“ chiesi io un po’ risentito“Allora lei vuoI fare il furbo, né?“ disse “Lei camminava lentamente, e si è fermato due volte. Dove andava?““A passeggio” “Ah si, a passeggio? Lei va a passeggio sen-za cravatta? Da solo? E non tira dritto per la sua strada? Va così lentamente? E si ferma?”Mi tennero chiuso a chiave una nottata in-tera e intanto presero informazioni, ma non risultò nulla e mi rimandarono a casa con tante scuse... E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto, che strascico i piedi, che mi muovo piano... Il dibattito politico - culturale. In questo contesto, gran parte dei temi, degli spunti, delle riflessioni e delle osservazioni sonò permeate da quello, anzi su quello che era il dibattito politico culturale dell’epoca che non dimentichiamolo, era di per se stes-sa già predisposta a tale dibattito, pervasa da dialettiche e ideologie in ogni sua manifesta-zione. Non c’è quindi da stupirsi che vi trovi

spazio la polemica tutta sindacale sul ruolo delle Commissioni Interne nel bel mezzo del-la rievocazione dell’epopea della industria mineraria nella Maremma, oppure che vi siano citate le prese di posizione dei giornali dell’epoca o ancora che sia possibile rivivere il dibattito politico in modo pressoché ininter-rotto dall’unità d’Italia praticamente fino al dopoguerra. Ciò che semmai arricchisce questo tipo di trattazione è il frequente ricorso ad osserva-zioni su aspetti del costume e di tipo sociolo-gico per comprendere meglio queste vicen-de come per esempio la citazione apparen-temente ( per noi ) marginale del possesso della “lambretta” da parte dei minatori, o l’ ipotesi sociologica circa il formarsi o meno della coscienza sindacale e politica. Anzi, se vogliamo queste digressioni sono più “naturali” in pubblicazioni di tipo storicistico come “I minatori della Maremma”. Nella produzione per così dire autobiogra-fica l’autore fornisce invece un contributo originale e personale a tale dibattito .Mette per esempio in evidenza la necessità di una cultura italiana che non sia solo carta scrit-ta, che sia anche coscienza civile e critica, che dia il proprio contributo al rinnovamento sociale e culturale, autonoma dai “rapporti di forza”, che sia per ogni cittadino uno stru-mento, in continua evoluzione, per la propria emancipazione.

...Con trenta omicidi ben pianificati io ti pro-metto che farei il vuoto, in Italia. Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbe-ro automaticamente altri specialisti della di-rigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere, e si sono specializzati sugli

44 45

stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora e perciò farebbero le stesse cose...E la gente continuerebbe a scarpinare, a tafa-narsi, più di prima, a dannarsi l’anima. No, Tacconi, ora so che non basterebbe sga-nasciare la dirigenza politico - economico - social - divertentistica italiana, la rivolu-zione deve cominciare da ben più lontano, in interiore homine.

Un altro contributo è evidente nel momento in cui, ferocemente, mette in rilievo le contrad-dizioni interne ed i paradossi in ogni situazio-ne: il benessere tecnologico - industriale che fa a pugni con la natura umana attraverso i vari aspetti dell’alienazione, l’ipotetica “fe-licità” negata dall’incomunicabilità e dalla mancanza di solidarietà, la libertà...di essere tutti nello stesso modo, l’assurdità o meglio l’inutilità delle vie d’uscita (o di fuga) indivi-dualistiche, l’impraticabilità o il fallimento di soluzioni “a priori”, a prescindere cioè dalla vita vera, vissuta dai protagonisti, avulse dal-la realtà concreta.

PREMI SPECIALISimona Antoniotti V A LTASM - ITIS “Q.Sella”

Ottavio Campigli III A - Liceo Scientifico

Stefania CridaII A IGEA - ITC “E.Bona”

Beatrice FantonIII A - Liceo Scientifico

Eugenio LicataI A - Liceo Classico

Irene MasseranoII A IGEA - ITC “E.Bona” Dejan RadovanovicIII A - Liceo Scientifico

47

1. Fra le iniziative collegate al “Premio Biella Letteratura e Industria”, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Biella e Città Studi S.p.A. bandiscono un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori della Provincia di Biella per un percorso di ricerca sul tema “La realtà industriale nel Memoriale di Paolo Volponi”.

2. Ogni concorrente dovrà inviare il suo ela-borato alla Segreteria del “Premio Biella Letteratura e Industria” - Città Studi S.p.A., Corso Pella 2, 13900 Biella, entro il 27 aprile 2004.

3. Ogni elaborato dovrà indicare le generalità del concorrente, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequen-tata.

4. La giuria del concorso è composta da do-centi in rappresentanza di tutte le scuole su-periori del Biellese ed è presieduta da Pier Francesco Gasparetto.

5. Ai tre elaborati classificati primi saranno as-segnati tre premi da 400 € ciascuno.

6. I nomi dei vincitori verranno resi noti in oc-casione della cerimonia di consegna dell’edi-zione 2004 del “Premio Biella Letteratura e Industria” che avrà luogo il 14 maggio 2004 presso la Città Studi di Biella.

Presidente: Pier Francesco Gasparetto, Premio Biella Letteratura e Industria

Franca Di Palma, Istituto Tecnico “E. Bona”

Ada Landini Zanni, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella

Ivano Maffeo, ITIS “Q. Sella”

Ivana Masciavè, Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Corrado Ranucci, Istituto Tecnico Statale per Geometri “V. Rubens”

Giuseppe Trimboli, Liceo Scientifico “A. Avogadro”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2004

48 49

PRIMO PREMIOEugenio Licata Liceo Classico “G. e Q. Sella” - Biella

Per arrivare ad una vera comprensio-ne della realtà industriale descritta nel Memoriale di Paolo Volponi è necessario mettersi in viaggio, superare la Serra, diriger-si verso la cittadina di Ivrea. Solo allora, attra-versando i paesi del Canavese, visitandone i laghi e le colline, si potrà realizzare quale sia stato l’impatto dell’industria su questa terra e sui suoi abitanti. Le macchine hanno fatto la loro comparsa im-provvisa in paesi da sempre basati sull’agri-coltura, hanno stravolto vite regolate dai ritmi della terra: antichi borghi sono stati soffocati da compatte file di capannoni prefabbricati, vetusti campanili si ergono timidamente tra il cemento armato, sentieri sterrati sembrano correre via dal fiume d’asfalto che solca la pianura. Albino Saluggia, con i suoi turbamenti, le sue incertezze, la sua follia, incarna per-fettamente il disagio di chi non è più attore della propria esistenza, ma ingranaggio di una macchina complessa, imprevedibile e ingovernabile: il mondo esterno, con la sua razionale freddezza, i suoi ritmi artificiali, lo sottopone a un inesorabile processo di dena-turazione, parallelamente a un territorio che, con ingenua rassegnazione, ha visto scom-parire la sua identità. L’enorme stabilimento industriale, che ronza immobile circondato dal silenzio, non lascia trasparire alcun se-gno dell’umanità che vi lavora.

«Nella fabbrica non nasce / erba o spiga / e neppure una capra si pasce / ma soltanto la fatica». Il mestiere della fabbrica è sterile: Saluggia lavora alla fresatrice, costruendo oggetti senza identità, pezzi di un ignoto si-stema più complesso. Il protagonista si fer-ma, talvolta, a osservare quello che esce dal lavoro delle sue mani: il pezzo è un oggetto freddo, senz’anima, privo di significato, an-che per chi lo ha generato con la propria fati-ca. Presto gli sarà sottratto, come un agnello alla madre, e finirà nell’ignota oscurità delle lavorazioni successive. È possibile tracciare un agghiacciante parallelo tra questo lavo-ro e quello dei campi di concentramento: la fatica è fine a se stessa, il lavoro, come un supplizio infernale, è destinato a non avere fine, a non giungere mai a perfezione. Come dei dannati, i personaggi che ruotano attorno al mondo della fabbrica perdono tutta la loro umanità, regredendo fisicamente e moral-mente veluti pecora: l’umiliazione dell’intel-letto trasforma gli uomini in bestie da soma, forza fisica incontrollata. Tale condizione è accentuata nelle donne, le quali, private del-la loro femminilità, si trasformano in presenze amorfe, inquietanti nel loro grigiore. Anche i componenti delle gerarchie societarie pre-sentano gli stessi caratteri dei sottoposti, ma, proprio come i custodi dei gironi, sono perva-si e dominati dall’arrivismo e dall’affannata e sanguigna competizione reciproca. Albino Saluggia, già minato nell’animo dalle tragiche esperienze del servizio militare e della prigionia, non riesce a distinguere i ti-midi segnali di umanità da parte di chi ha in mano il suo destino, si lascia trascinare: la sua semplice logica di uomo della terra è in-capace di far fronte al veleno della malignità,

dell’ipocrisia, dell’arrivismo. Ma il punto più tragico dello scontro tra la coscienza del pro-tagonista e la realtà si raggiunge con il peg-gioramento delle condizioni di salute e il con-seguente allontanamento dal posto di lavoro. Saluggia, che ancora vede il lavoro come elemento nobilitante, capace di ripagare con la dignità le fatiche e le sofferenze, si sente privato della stessa ragione di esistere. La permanenza al sanatorio, tra uomini e donne ridotti ad ombre, segna il definitivo indirizzo verso la catastrofe finale. La fabbri-ca è ormai per lui una realtà completamente ostile. Privato degli ideali e della speranza, è incapace di far fronte alla crisi, che sfocerà nella distruzione totale di una vita umana. La sofferenza di Saluggia non è il delirio di un disadattato: è il destino di chi non ha voluto, o non ha saputo, piegarsi a una logica nuo-va, aliena e totalizzante. Insieme a lui, ogni aspetto della vita tradizionale viene travolto dalla forza del confronto: le istituzioni, la fa-miglia, diventano così emarginate e impotenti da sembrare ridicole. Quelle forze su cui si poteva contare, sulle quali si poteva aver fiducia, nulla possono più fare nei confronti della fabbrica: essa è un intermundium, trascendente lo spazio e il tempo: le luci al neon hanno violato la sacra-lità della notte. Nulla di quello che è fuori può influenzare ciò che è dentro. La natura è stata vinta e umiliata. Si è riusciti a sfuggire a qualsiasi forza. Non è nemmeno più l’uomo a regnare: la Fab-brica ha preso il potere. Fermarla o ribellarsi ad essa sarebbe impossibile. Nel secondo dopoguerra si è consumato nel nostro Paese uno dei più forti scontri di cultura di ogni tempo. Sono stati in molti a

rendersene conto. Luciano Bianciardi, con la sua visione arrabbiata e isterica, ha compre-so i cambiamenti della società, ha teorizzato il “non luogo” del supermercato, ha previsto l’azione della pubblicità sulle coscienze. In-sieme a Lucio Mastronardi ha sofferto la de-riva della provincia. Anche Giovanni Guareschi, con l’amara con-clusione del suo Mondo piccolo , ha salutato con triste ironia il tramonto di una civiltà. Il mondo di “Memoriale” è quello stravolto dal cambiamento, il medioevo dell’era in-dustriale. Proprio come nei secoli più bui della nostra storia è stato possibile scorge-re in nuce gli elementi chiave dell’era che si stava aprendo, così anche nel mondo di Volponi è possibile individuare gli sforzi per sviluppare un sistema di stato sociale e una moderna attenzione alla sfera privata del lavoratore. Si tratta di novità, che ancora non hanno subito il rodaggio dell’abitudine. È il momento dell’impianto di strutture moder-ne su un tessuto sociale tradizionale. È il momento del confronto, della diffidenza, degli entusiasmi e della frustrazione. A mezzo secolo di distanza, alla luce dell’at-tuale realtà industriale, Memoriale si mostra in tutta la sua preziosità. Volponi ha saputo raccogliere le sensazioni, i sentimenti di quell’epoca con eccezionale lucidità: l’intri-cata struttura semantica del romanzo svela aspetti sempre nuovi, anche discordanti, in relazione alle diverse chiavi di lettura, alle diverse sensibilità. Dalle pagine del romanzo emerge un’immagine panoramica di un mon-do in disordine. Gli occhi del “piccolo” Saluggia sono quel-li del bambino, confuso e disorientato, che viene a contatto con la complessità della

I VINCITORI

50 51

società, senza alcun punto di riferimento. Il mondo è cresciuto. Molte ferite si sono ri-marginate, altre hanno mostrato tutta la loro gravità. La mentalità industriale ha pervaso ogni individuo, ha penetrato i luoghi più re-conditi, è scesa a un compromesso con le coscienze. “Memoriale”, con la sua carica emotiva e la sua tragicità, è un severo invito alla ricerca della stabilità fra industria e terri-torio, fra modernità e tradizione. È in gioco il futuro della nostra civiltà.

SECONDO PREMIOErik Gallo ITIS “Q. Sella” Liceo scientifico Tecnologico - Biella

Stavo guidando la macchina sulla strada che da Biella porta a Mottalciata, passando da Candelo, per tornare a casa, dopo la mattinata trascorsa in istituto. Attraversare la Baraggia in qualunque stagione colpisce ad ogni ap-puntamento, sembra quasi che la natura gio-chi un ruolo sul palco della vita e non si com-porti da scenario: il verde delle piante e il mar-rone dei sentieri alzano il velo di Maya e con-sentono all’osservatore di cogliere il carattere genuino dell’essere uomo, riscoprirsi come entità che non vale solo in quanto produce, dimensione che porta inevitabilmente all’anni-chilazione sociale causando una variazione del comportamento relazionale con gli altri, insieme ai quali si determina il divenire del si-stema, che trova affermazione e valore non negli scambi interpersonali, ma attraverso modifiche dettate dall’estero ed estrinsecate attraverso un nuovo ruolo delle persone al di fuori della società. Proprio questo aspetto è analizzata da Paolo Volponi nel suo romanzo più conosciuto: Memoriale, nel quale la vicen-da del protagonista, sottratto alla civiltà con-tadina e divenuto operaio in una grande fab-brica del Nord si ritrova oppresso e inserito nel meccanismo totalizzante dell’industria che lo porta alla paranoia, diventa il simbolo dell’alienazione di tutta la società. L’autore marchigiano lavorò per venti anni nell’indu-stria e da questa esperienza maturò i temi do-

minanti della sua narrazione. Volponi esordì come poeta con alcune raccolte (Il ramarro; L’antica moneta; Le porte dell’Appennino), nel-le quali emergono riferimenti tendenti alla de-finizione di una condizione mitica di vita totale, intatta proprio in quanto preindustriale. Nel panorama letterario si propose però soprattut-to come narratore con Memoriale scritto nel 1962 in cui centra quella tematica che sarà fondamentale nella sua produzione: il rapporto fra l’uomo e la realtà industriale, i tormenti de-rivanti dal rapporto uomo/fabbrica, il ruolo dell’industria nella società. Il romanzo succes-sivo fu scritto nel 1965 e intitolato La macchina mondiale, consente di giungere in un punto particolare nell’universo narrativo di Volponi attraverso l’estrinsecazione di una tipologia umana destinata a porsi in antagonismo alla civiltà contemporanea, ed in Corporale edito nel 1974, in cui questa caratterizzazione trova una propria conformazione nella figura del protagonista, il professore Girolamo Aspri: sconclusionato e, allo stesso tempo, nitido nell’analisi e nel ripudio del sistema, perenne-mente dilaniato fra utopistica prospettiva di rigenerazione e critica corrosiva, il protagoni-sta rappresenta l’incarnazione del disagio di esistere in una società non improntata sulla dimensione umana, ed allo stesso tempo per-sonifica l’espressione della volontà di rigene-razione dell’uomo: la sua lucida nevrosi si con-figura in modo bivalente con una profonda e caparbia aspirazione alla realizzazione di un uomo nuovo. Memoriale è un “romanzo-con-fessione”, raccontato in rima persona dal pro-tagonista: Albino Saluggia, operaio in una fab-brica piemontese, che sulle proprie spalle porta un passato doloroso, in cui si compli-mentano : emigrazione, prigionia, malattia. Pur

con questo triste retaggio di dolori fisici e mo-rali, Albino aspira ingenuamente a una vita nuova e sana, che, innocentemente, spera di trovare nel lavoro in fabbrica. L’illusione cede presto la strada alla realtà della vita nell’am-biente industriale in cui la superficialità dei rapporti e la disumanità del lavoro lo riaccom-pagnano in una malattia spirituale e conse-guentemente fisica che la fredda assistenza medica di fabbrica non può curare. Saluggia diffida dei medici aziendali, ed interpreta la loro condotta come una persecuzione ai suoi danni, una cospirazione finalizzata ad emargi-narlo e a schiacciarlo, azione alla quale reagi-sce isolandosi sempre di più, spingendosi ad assumere atteggiamenti negativi nel rendi-mento lavorativo. In seguito al calo la direzio-ne gli assegna lavori sempre più declassati e tuttavia, nonostante la sua inefficienza ed il suo comportamento sempre più preoccupante, la fabbrica continua ad aiutarlo finché la sua protesta assume connotati di pe-ricolosità politica (Saluggia incita i cuochi del-la fabbrica a scioperare). Memoriale è un ro-manzo non schematicamente definibile poiché l’autore infrange in esso qualsiasi stereotipo e convenzione letteraria, contaminando tipolo-gie concettuali e registri stilistici, sorprenden-do il lettore a partire dalla scelta anomala di un malato e psicolabile come protagonista che sovente si pone come portavoce dell’autore configurando il libro in primo luogo come un romanzo-inchiesta a carattere sociologico:lo stesso Volponi dichiarò di essere stato stimo-lato nella realizzazione del testo in seguito all’insoddisfazione del suo lavoro all’interno di una grande fabbrica (l’Olivetti di Ivrea), moti-vato dal desiderio di indagare criticamente la realtà a lui nota, mettendo in luce la spersona-

52 53

lizzazione del lavoro e la povertà dei rapporti umani nella dimensione produttiva industriale, la difficoltà di integrazione tra l’efficientismo impersonale tecnologico e una visione del mondo arcaica e contadina a cui Saluggia è legato in modo tale da permettere che il punto di vista resti costantemente quello “straniato” del nevrotico. Il libro può anche essere letto come romanzo-diagnosi, in cui si estrinseca il rapporto ambivalente e fortemente dipenden-te di Saluggia con la madre, l’orrore-attrazione per il sesso, la malattia come fuga dalle re-sponsabilità della vita adulta e involuzione ad una rassicurante e più comoda dimensione infantile, I due filoni tematici del testo ,il mon-do della fabbrica e la nevrosi, sono nel roman-zo correlati al fine di salvaguardare la “diver-sità” dell’individuo non integrato consenten-dogli piena libertà di giudizio sul mondo della fabbrica. La delega al “folle” Saluggia nel giu-dizio sulla fabbrica implica la rivelazione da parte dell’autore di una particolare visione del rapporto follia-ragione: “La follia”, afferma Volponi, “è usare la ragione in modo alternati-vo”. Nel romanzo è possibile identificare una terza chiave di lettura:quella allegorica, in cui la storia di Albino nella fabbrica è considerabi-le come una metafora dell’alienazione dell’uo-mo moderno perseguitato da un’autorità sof-focante e raccapricciante in un mondo con-venzionale e freddo. Nella creazione del sog-getto narrativo Volponi si è avvalso della natu-ra memorialistica del romanzo che comporta una divaricazione temporale tra “io narrante” e “io narrato”. Il primo, oltre a raccontare con i tempi narrativi classici della narrazione, im-perfetto e passato remoto, le vicende del pro-tagonista in un certo arco di tempo, fa sentire la propria voce di commento attraverso l’uso

dei tempi del presente e del passato prossimo. Rispetto all’io narrato, Saluggia si attribuisce maggiore coscienza critica e capacità di giu-dizio portando, a volte, alla sovrapposizione all’ideologia dell’autore, significativamente però, consapevolezza e capacità di giudizio non sono frutto di una guarigione dalla nevrosi ma si collegano ad un approfondimento del suo carattere destabilizzante. La scelta della follia di Saluggia come prospettiva fondamen-tale della narrazione comporta importanti con-seguenze sulle strutture narrative, poiché vie-ne totalmente annichilito lo schema naturali-stico- realistico, sia per quanto riguarda l’in-treccio, le strutture temporali e la rappresen-tazione stessa dei personaggi e degli ambienti. Le date precise che spesso ricorrono nel ro-manzo non hanno la funzione di scandire il trascorrere di un tempo oggettivo, ma acquisi-scono senso solo nella visione squilibrata di Saluggia, ritmando le sue oscure ossessioni che si riflettono anche sui personaggi a lui col-laterali costantemente ridefiniti dalla sua sog-gettività disturbata, in cui il filtro della nevrosi deforma l’aspetto, proiettandoli in una dimen-sione che ne focalizza il significato simbolico profondo come ad esempio le figure dei medi-ci della fabbrica, che a un primo livello esem-plificano i confini dell’assistenza medica in fabbrica, fredda e distaccata, ma che, nella visione di Saluggia, diventano oscuri persecu-tori, simbolo di un sistema che cerca di neu-tralizzare e schiacciare i puri, i ribelli, gli inno-centi. La fabbrica stessa, ambiente principale del romanzo, è sottratta ad ogni realistica defi-nizione, e la sua rappresentazione risente dei fluttuanti stati d’animo del protagonista: da luogo protettivo, a innaturale, a ostile. L’incon-tro con l’opera di Volponi mi ha portato a riflet-

tere su alcuni aspetti del “miracolo economi-co” italiano che altrimenti non avrei mai preso in considerazione: il guadagno portato dal mi-glioramento delle condizioni economiche degli operai ha provocato una perdita di umanità, paralizzando l’uomo nella dimensione sociale. L’immagine data dall’autore marchigiano fa emergere il senso ateleologico del lavoro di fabbrica, in cui la freddezza tecnologica del-le macchine causa una rottura dell’equilibrio all’interno delle persone, la scoperta ditale si-tuazione è però possibile solo posizionandosi all’esterno del sistema stesso, riflettendo in modo diverso,evitando l’omologazione.

Carlo Panella Liceo Scientifico “A. Avogadro” - Biella

Il contesto e il dibattito politico culturaleNella seconda metà del Novecento, dopo le tragiche parentesi belliche, il mondo della cultura, gli intellettuali e la letteratura in par-ticolare , si trova a fare i conti con la nuova condizione dell’uomo connessa allo sviluppo economico - industriale che in Italia andrà sotto la definizione di boom economico , in una sorta di nuova rivoluzione. La realtà che si presenta però , è ben diversa da quella del secolo scorso , dove dominavano la bru-talizzazione dell’essere umano , in tutti i suoi protagonisti , uomini , donne , bambini , nel ciclo produttivo e il loro abbandono nella re-altà circostante, fatta di emarginazione, di sottocultura, di eccessi , di drammi e di trage-die. Ora, lo sviluppo economico ha portato a “coprire” gran parte della vita degli individui

anche fuori dal luogo di produzione , nelle istituzioni , nei consumi , nel tempo libero . Nella fabbrica ci sono le mense, il servizio sa-nitario, l’assistenza sociale, la stessa attività delle infrastrutture gravita intorno alla fabbri-ca , non c’è aspetto della vita quotidiana che in un qualche modo ad essa non sia legato. Naturale quindi , che anche il mondo della cul-tura ne sia contagiato , non solo come temati-ca, ma anche e soprattutto come cambiamen-to degli stili di vita , dei gusti, dei “consumi”, della sensibilità , delle percezioni , in partico-lare di quella comunicativa ed espressiva. Fio-riscono in questo periodo riviste e circoli lette-rari che si occupano delle questioni connesse a tali realtà . Basterebbe ricordare come uno scrittore allora in auge come Elio Vittorini , nel 1961 attraverso le colonne del Menabò si occupasse del terna “letteratura e industria”, prendendo in considerazione l’adozione di un nuovo tema , la fabbrica e l’alienazione, dal punto di vista naturalistico-descrittivo, dal punto di vista percettivo, come un nuovo “gra-do della realtà umana” ma anche dal punto di vista espressivo, come necessità di sperimen-tare o trovare nuovi moduli narrativi in grado di rendere quell’insieme di deformazioni e di at-teggiamenti che la nuova realtà aveva prodot-to nell’uomo, non solo come lavoratore o im-prenditore , ma anche nel suo generale modo di essere , nella sua psicologia , nel suo com-portamento dentro e fuori del luogo di lavoro. Non va neanche dimenticato che il dibattito sulla questione aveva molteplici voci , diverse interpretazioni, ed ha coinvolto, non solo dia-letticamente, anche altri scrittori, come Mora-via, Roversi, Sereni, Bianciardi, Pasolini, San-guineti, tanto per citare coloro che gli furono più vicini e anche amici. Infine mi sembra utile

54 55

sottolineare anche il fatto che, come autore, Volponi avverte molto, come poi vedremo, an-che l’influenza del mondo letterario in gene-rale, trovando spunti , cercando e soprattutto “sentendo”confronti, analogie e differenze, in tutta la produzione letteraria dell’epoca ed anche in quella precedente, come il verismo, l’ermetismo, il decadentismo. Storie e nascita del Memoriale.L’autore Nato a Urbino nel 1924, dove è vissuto fino al conseguimento della Laurea in Legge,Volponi inizia la sua attività come poeta e dopo aver pubblicato Il ramarro e L’antica moneta, rice-ve nel 1960 il premio Viareggio per la poesia con Le porte dell’Appennino. Assunto nel 1950 alla Olivetti conduce una serie di inchieste in Abruzzo, in Calabria, in Sicilia e, dopo, lavora alle relazioni aziendali fino al 1971. Partecipa al dibattito politico culturale degli anni settan-ta e continua la sua produzione in prosa con La macchina mondiale, Corporale, Il sipario ducale. Volponi inizia a scrivere Memoriale nel 1959, in un momento in cui la complessa problematicità del mondo industriale comin-ciava a proporglisi drammaticamente. Il lavoro sul romanzo terminò nel 1961....Ho cominciato a scrivere un romanzo il pri-mo - Memoriale -,...quando mi sono sentito in possesso di uno strumento linguistico attivo, capace di un ordine di valori originale e in grado di mantenere la vicenda autonoma, al di là della compiacenza lirica e del mecca-nismo narrativo. Sono stato aiutato, o forse è meglio dire mosso, dalla pena del mio lavoro quotidiano in una grande fabbrica, tocca-to dai problemi di un mondo in convulsione come è quello industriale, traboccante e in-

candescente, che cerca di correre dietro al progresso scientifico portandosi appresso un grosso bagaglio medioevale...L’ingresso in Olivetti segna la svolta della sua vita. La fab-brica lo pone a confronto con una realtà dura e, spesso, indecifrabile, mentre i rapporti sem-pre più stretti con gli ambienti culturali (è il pe-riodo di Menabò e dell’amicizia con Pasolini) fanno scaturire quasi naturalmente...il primo romanzo il mio primo romanzo è un romanzo in qualche modo necessario, direi, come erano state necessarie le poesie, per capire un certo ambiente, una certa situazio-ne, per poter intervenire...La sua esperienza nell’industria, la frequenta-zione di lavoratori, la lettura dei loro documen-ti, scatena, la sempre crescente percezione delle contraddizioni del mondo della fabbrica. Lo scrittore avverte forse la necessità di ripen-sare il proprio rapporto con il mondo dell’indu-stria, la concezione stessa che si era fatta di questa realtà....La mia vera università è stata la fabbrica; fin allora (1956) la mia scrittura, la mia poesia, fu novecentesca, postermetica, intimistica [...] La fabbrica mi ha messo nella condizione di capire altre cose, il significato dell’econo-mia, ad esempio, dei rapporti di potere e di produzione; [...] La mia posizione, il mio lin-guaggio, i miei proponimenti di scrittore sono condizionati dalla mia formazione, dalle mie personali insufficienze, dalla mia ridotta cul-tura, dai miei dubbi ideologici...Memoriale sembra nascere da una forte vo-cazione letteraria che però si manifesta solo dopo l’esperienza della fabbrica. Mentre la “letteratura” obbliga a dire la realtà, il mondo del lavoro “fa capire di più”, consente di ac-quisire temi e contenuti e di esserne consape-

voli. Volponì, a quanto pare “sente” il bisogno di scrivere della fabbrica, a ragion veduta, alla luce della sua esperienza, sui casi di vita vis-suta che lo hanno posto di fronte alla realtà umana al di là dei numeri e delle cifre ufficiali e per questa ragione riesce a farlo in modo originale. ...Ecco perché il mio romanzo è un po’ nuovo, non ripete le formule degli altri; perché non era un progetto letterario, non andava dietro a una scuola, veniva da me stesso, dalle mie esperienze. Avevo trovato un sistema nuovo che è quello della lente d’ingrandimento del nevrotico, sofferente in fabbrica, con una lin-gua memorialistica un po’ lirica, che gli vie-ne praticamente dalla lettura di poco, dalle canzoni della chiesa, dal dialetto, dai bandi dello stato, dalle poche norme che ha letto, dai comandamenti;... La struttura L’elemento che meglio caratterizza la struttura del testo ce lo suggerisce il titolo, aiutandoci a rispondere alla domanda : questo libro è un romanzo ? La risposta è ovvia: no . Memoriale è un memoriale. Il memoriale è un testo che si scrive dopo che gli avvenimenti sono acca-duti - giorno per giorno, subito alla fine d’una vicenda oppure dopo anni - ma sempre lo sguardo di chi scrive è rivolto all’indietro alla ricerca dei fatti salienti, di indizi allora non visti e oggi rivelatori. Gli avvenimenti che sono già stati, propongono all’occhio di chi scrive, e an-che di chi legge, una diversità: sono differenti da quelli che erano prima. Ogni episodio, ogni ricordo, è un punto di partenza per un nuovo ritorno al passato, per una nuova scoperta. L’occhio del memorialista diventa uno sguar-do che trasforma ciò che racconta, scoprendo

significati diversi, ubbidendo a leggi diverse da quelle della realtà della vicenda, seguendo invece il “messaggio” dell’io narratore.

La tramaNel romanzo l’autore immagina che Albino Saluggia, il protagonista, un contadino del Canavese, presso Candia, sulle rive dell’omo-nimo lago, assunto come operaio in una fab-brica del Piemonte, racconti la triste storia della sua nevrosi, che si manifesta a contatto con la vita della fabbrica. Si serve del protagonista quindi, per “comu-nicare” il suo messaggio, calandosi in una re-altà, la fabbrica appunto, che ha avuto modo di conoscere bene come addetto alle relazioni aziendali, dal punto di vista dell’intellettuale, dell’uomo di cultura, del letterato insomma, che affiora con il suo linguaggio da lui stesso definito, memorialistico e un po’ lirico, ricco di reminiscenze letterarie. Nato ad Avignone, di cui conserva il ricordo - rifugio dell’infanzia felice, nella cugina che deve sempre arrivare e che non arriva mai, se-gue il padre che, attirato dai clamori dell’Italia fascista, cerca un ‘occasione per migliorare la propria esistenza e per allontanare la moglie dalle lusinghe di un giovane muratore, e si tra-sferisce a Candia. Rimane così coinvolto nella seconda guerra mondiale, catturato ed inter-nato in un campo di prigionia nazista. Seguendo una corsia privilegiata tracciata per i reduci, viene assunto nella grande fabbrica. Di fatto il romanzo inizia qui, sintatticamente, ma non la storia, poiché ognuno degli avve-nimenti che hanno segnato la vita del prota-gonista riaffiorano più volte nel corso della narrazione. Le vicissitudini di Albino dentro e fuori del luo-

56 57

go di lavoro, nel paese, la sua nevrosi che lo porta a individuare un nemico in ogni aspetto della società, il cui epicentro resta comunque la fabbrica, la sua incapacità, individualedi comunicare, l’inevitabilità contingente della sconfitta, a causa della sua estraneità a ciò che lo circonda, della sua alienazione, sono in realtà il vero scopo della narrazione. L’autore, lui sì, vuole comunicare e pensa di poterlo, anzi di doverlo fare, un messaggio non certo rassegnato ...Perché ho scelto un nevrotico a protago-nista del mio romanzo? Un nevrotico ha una capacità di interpretazione della realtà più dolente, ma più acuta [...] anche perché un nevrotico è un ribelle. In un uomo sano avrei trovato uno che ha già ceduto qualcosa alla fabbrica... Albino Saluggia, insomma, è un diverso, un deviante, ma le sue lacerazioni, il suo modo di agire, il suo approccio quasi visionario con la realtà, nel suo cercare in altri aspetti, idea-lizzati e deformati dalla nevrosi,ma altrettanto reali, ancore di salvezza, forse vogliono farci sorgere un salutare dubbio: se l’anormalità e la malattia non stiano invece nell’accettazione e nella docile integrazione. La nevrosi insomma, è la manifestazione del suo rifiuto, dell’incapacità di adattarsi. Solo dopo la ribellione finale però, con la sua partecipazione deliberatamente lucida allo sciopero, giunge la sua “condanna”, l’an-nuncio della sua impossibilità di salvezza, anche di fronte a quel lago che era stato il luogo di una sua prima immaginaria quanto sconosciuta salvezza.La fabbrica alienante Fin dall’inizio c’è il tentativo,da parte del pro-tagonista, di paragonare, mettere in qualche

modo in relazione il mondo della fabbrica con il suo vissuto precedente, con la realtà cir-costante, la casa, il lago, e con il suo passa-to carico di esperienze negative e frustranti . Allo stesso modo appare chiaro come la grande industria abbia, intorno a sé una sorta di “ragnatela” che la proietta al di fuori delle proprie mura: le corsie privilegiate per le as-sunzioni dei reduci, i sistemi di “monitorag-gio” della storia, clinica e non, dei dipendenti ; le strutture sanitarie con il relativo personale medico e paramedico che diventerà agli oc-chi del protagonista, responsabile addirittura di aver inventato la tubercolosi da cui è affet-to; le convenzioni con centri di cura e termali per le “ferie” assistite ed il loro tempo libero; l’organizzazione dell’assistenza di ogni gene-re, ivi compresa quella finanziaria e sociale, i commissariati, le caserme e le istituzioni in ge-nere; i trasporti e i collegamenti organizzati in modo da favorire il raggiungimento del luogo di produzione. Infine, anche “persone” fisiche, estranee o meglio esterne alla grande azienda come il parroco, finiscono per esservi in un qualche modo legate. Emblematico secondo me è il fatto che la nevrosi del protagonista non risparmi, in questa sorta di complotto esisten-ziale, neppure la madre attribuendole anche una temuta possibile relazione extraconiugale da cui, forse, sarebbero iniziati gli eventi nega-tivi alla radice dei suoi “mali”, colpevole di non saper comunicare, ma anche di “credere” alla fabbrica e non a lui, in una sorta di debolezza ancestrale nei confronti dell’azienda, per ga-rantire una qualche sussistenza al figlio. ...Gli altri restavano di più e alla fine c’era sempre un giovane, con la giacca sulle spal-le, che continuava a parlare con te. Tu mi di-cevi d’andare a letto e io sentivo dentro di me

che tu volevi rimanere con lui, che ti faceva parlare e ridere Anche adesso questo ricordo mi turba e mi fa male. Il giovane muratore era molto simpatico e io avevo paura di questo sentimento perchè pensavo che doveva aver preso anche te. Ero tentato di spiarvi; ma ave-vo paura che ciò che pensavo potesse esser-mi rivelato dalla realtà. Ancora oggi ho paura e sono pentito di non aver guardato perchè se vi avessi visto soltanto parlare oggi sarei tranquillo...A proposito del ruolo allegorico della madre, c’è chi la assimila alla letteratura, alla cultu-ra. Egli bambino, non ha mai voluto cercare, per paura forse, la verità sulla relazione della madre, lasciandola nella possibile colpa, ma restando nel dubbio, dissipato il quale, forse avrebbe affrontato più tranquillamente, con più forza, la realtà Allo stesso modo è incerto e riluttante l’autore sulle possibilità della lette-ratura in questo tipo di comunicazione, ma tro-va infine la sua strada, il suo mezzo espressivo in questo e negli altri romanzi grazie anche all’esperienza della fabbrica. Cercherà sicu-rezza, conforto e liberazione nelle fantasiose immagini dell’indiano e dello scarpone, feticci della fantasia infantile innocente e pura, im-maginati sulle macchie di un muro domestico, simili in questo forse ai tanti feticci e idoli più o meno culturali di cui è cosparsa la storia dell’umanità nella ricerca di certezze e punti di riferimento. Si rifugerà nel rapporto con la na-tura, con la campagna, con il lago, una sorta di fuga e di simbiosi anche viscerale, oltre che analogica ed espressiva, verso quegli elemen-ti che più avverte vicini alla propria natura, e forse qui ci può essere un richiamo alla ricer-ca dell’umanizzazione dell’esistenza umana, al recupero di quanto c’è di simile alla natura

e soprattutto alla natura dell’uomo stesso e che la realtà industriale sembra voler negare, alienandolo. Vi si possono trovare momenti di “celebrazione” dei lavoratori, protagonisti della fabbrica con il loro carico di disagi che sembrano far compagnia ad Albino, durante una delle tante visite legate alla sua malattia, dei poveri cristi che fanno dire ad una dotto-ressa...In Dio, no, non ci credo»; mi guardò e come per consolare sia me che se stessa, prose-guì: «ma credo nei santi. La terra è piena di santi, specie qui dentro, ed io posso mettere più che il dito addirittura le mani nelle loro piaghe. Credo nei santi, anche in quelli vec-chi dei mezzi mantelli, delle pagnotte, della lebbra. Ma soprattutto in quelli che vedo, che ci sono dappertutto. Quanti ce n’erano anche nella fabbrica?...Trovano spazio descrizioni veristico - psica-nalitiche della stessa nevrosi in piena attività, quando il protagonista deve immaginare di es-sere un pilota di auto da corsa, la fresatrice - pialla è il bolide da manovrare con perizia; il sogno, l’immaginazione sono il tempo del suo lavoro. Non mancano rapidi e fuggevoli richiami oggettivi alla vita, al tempo della pro-duzione...Quando io sono entrato nella fabbrica, l’oro-logio della nostra officina segnava l’ora 1227. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi...Ci sono anche indubbiamente reminiscenze letterarie con l’analogia tipica dell’ermetismo, con il richiamo all’indole dei fanciulli come ri-fugio di pascoliana memoria, con la fuga dalla realtà e l’inettitudine dell’individuo propri del decadentismo, con il richiamo e la necessità

58 59

del vero nella descrizione di alcuni particola-ri del ciclo produttivo e dei personaggi ì, con l’analisi psicologica dei personaggi. Infine ì, per chiudere questa parentesi più “letteraria”, va anche segnalata l’originalità espressiva. Infatti, queste reminiscenze “viaggiano” di pari passo con le sconfitte del protagonista, quasi a sottolinearne in un qualche modo il supera-mento. Non dimentichiamo a questo proposito il fatto che Volponi fosse molto impegnato nel dibattito in corso sul rinnovamento espressivo in rapporto alle nuove tematiche sul mondo del lavoro. Sembrano coesistere nella narrazione, due lingue, quella semplice, piana, eppure efficace del contadino Albino Saluggia che racconta la sua storia a posteriori, e quella più “lirica”, piena di riferimenti culturali e lin-guistici dell’autore - memorialista - interprete anche questi a posteriori, che si intersecano o meglio si intrecciano nella nevrosi del prota-gonista. In ogni modo, con ogni mezzo, Albino Saluggia cerca anche dentro la fabbrica di far-si ascoltare, ricorre perfino all’intercessione di Leone, il cuoco galoppino, per comunicare al Presidente fiducioso ancora nell’autorità co-stituita, i termini dell’ipotetico complotto ordito contro di lui . Il risultato che ottiene è quello di farsi rispedire un’altra volta in sanatorio, poi-ché gli viene riscontrata nuovamente la tuber-colosi. Il responso della narrazione però, non lascia speranze...“quella” malattia è spesso legata all’equilibrio psicologico del soggetto; è un’autopunizione, cioè la volontà di distrug-gere se stesso o anche un’autodifesa,...dice il medico riferendosi non alla paranoia, ma alla tubercolosi. I “suoi mali” erano in un qualche modo stati diagnosticati e “associati” in modo definitivo, non gli sarà possibile altra via di co-municazione - liberazione. Ancora una volta

cerca nel suo lago la fuga e, inconsciamente, una via d’uscita, la salvezza. ...Cominciai a trovare molti canaletti dove le acque si purificavano tra le barbe delle radici e filtravano tra le terre granulose. [...] Ero così preso dalla magia che potevo pensare di es-sere travolto da una cascata di gocce e di fili d’erba o di cadere in una spelonca di ghiac-cio. L’aria chiara, le acque pulite e i ghiacci mi davano anche una voglia spasmodica di bere, di assorbire quegli elementi. A un tratto, vidi un guizzo rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo ve-devo quasi emergere dalla prima superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’oc-chio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo ri-masero appena le scosse nell’acqua. Per un altro attimo il luccio rimase fermo, con il suo occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica. ... La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo palli-do e lontano, sul quale non si poteva leggere nÈ scrivere niente, mi dichiararono ancora più solo e spaventato. Non c’era nulla da fare, anche per me; anch’io muovevo soltanto l’ac-qua, destinato alla fine. Anche l’elemento naturale, questa volta, as-sume una connotazione negativa, il predato-re - fabbrica lo ha sopraffatto, ma, in questa premonizione, c’è anche la “scoperta”; è sta-to sorpreso nell’atto di predare, ora appare chiara anche la verità, sulla reale natura della fabbrica. ...Intanto tutto procedeva come un sogno e la mia passeggiata era perduta. Davanti avevo

un canale più grande che non potevo supe-rare. Piegai verso la collina ma incontrai molte difficoltà per una vegetazione bassa, color viola, rigogliosa e pungente. Mi distri-cai a fatica ma trovai di nuovo l’acqua, addi-rittura il lago. Capii che mi ero spinto in una specie di penisoletta e riuscii a figurarmela come poteva essere, vista dalla mia finestra. Il paesaggio era nuovo e il lago fermo, bian-co; così rimasi un momento a guardare, so-prapensiero... Dal lago venne un altro rumore ed era quello di una chiatta che un uomo in piedi guidava lungo la riva. Procedeva piano guardando fis-so davanti a sè; non aveva attrezzi, nÈ pesca. Dietro la sua barca avanzava la sottile nebbia del freddo. Emisi un grido di richiamo, improv-viso e netto come un altro elemento naturale; era la paura dì essere solo e di restarci per sempre. Solo come da ragazzo, come in un sogno, e mi sembrò nel momento in cui gridai che tutta la mia vita sbagliata avesse sempre mirato a tale sorte. L’uomo della barca si avvi-cinò alla mia sponda e nascose la faccia per piegarsi a remare con maggior forza; approdò quindi come uno sconosciuto e, anche quando vidi il suo volto, tale rimase, contrariamente alla speranza insensata che proprio il suo mi-stero, insieme all’aiuto che stava porgendo-mi, aveva fatto nascere dentro di me. Non era nessuno di quelli che nella vita mi avevano aiutato o potevano farlo. Salii sulla sua barca in silenzio mentre l’uomo diceva soltanto le parole necessarie per aiutarmi nell’imbarco fra le cannucce e i vuoti del terreno sotto i ponti d’erba. In piedi dietro di lui guardavo le sue spalle e sentivo l’odore della sua giacca di lana, un odore paterno. Come aveva fatto a capire che volevo il suo aiuto soltanto dal

mio grido? Appariva tanto chiaro, anche a chi non guardava, che io ero solo e perduto! Egli era un uomo giusto e tagliò dritto il lago ver-so Candia; al suo posto un malvagio, Tortora, m’avrebbe lasciato nella palude... Verrà poi accolto nuovamente nella fabbrica, questa volta non più alla produzione, ma come piantone. Piano piano, tutti quegli elementi che inizialmente apparivano ad Albino “sle-gati” dal mondo della fabbrica, che potevano costituire un rifugio, una speranza di salvez-za, o fanno il suo gioco contro di lui, oppure si rivelano inutili ed egli si ritrova nell’impos-sibilità di comunicare a qualcuno il proprio disagio, la congiura; egli si ritroverà ad essi estraneo, alienato appunto, ma succube ed impotente. Finchè l’atteggiamento del prota-gonista resta tale, la fabbrica lo tiene ancora in un qualche modo legato, nonostante la sua evidente eccentricità, anche se, dal punto di vista “industriale è apparentemente, più un costo, un impiccio che un vantaggio. Dopo il gesto finale, la partecipazione allo sciopero, in un qualche modo strategica, viene la comuni-cazione, da parte dell’azienda che prelude al licenziamento, dopo un breve interrogatorio. A questo punto, anche il lago, ultima ancora di salvataggio, non a caso un elemento della natura a lui caro, familiare, compreso e da lui comprensibile,“comunica” al protagonista l’ultimo messaggio....Al bivio sono sceso, dopo un viaggio velo-ce, e a piedi mi sono diretto verso casa mia. Guardavo, come sempre, il lago crescere sot-to i miei occhi, nella salita verso casa mia. A un certo punto era completamente sotto di me, che respirava piano tra le sue sponde. E così sotto di me tutti i tetti del paese come se non albergassero la cattiveria umana.

60 61

Nel nitore del pomeriggio il lago era senza sfumature, senza bracci verso la campagna e li alberi; chiuso dentro le sue sponde. E il suo colore non brillava e non spandeva all’intorno. A quel punto io ero già all’altezza dell’orto dietro casa mia, quando finisce la salita e restano venti metri in piano per ar-rivare alla porta. A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto.

Questo è l’epilogo del racconto, del romanzo, già preannunciato però prima, quando nessu-no, nella fabbrica, nella città, sul lago, com-prende Albino. Anche l’uomo del lago tace, quando lo porta in salvo. Fu il primo segno che non ero perdonato, il pri-mo di tanti segni che la fabbrica non perdona; non perdona chi è solo, chi non si arrende al suo potere, chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza; la fabbrica non per-dona gli ultimi. Indubbiamente, l’alienazione di Albino Saluggia è nata prima e fuori della fab-brica; è tutta compresa però in modo indisso-lubile, nel mondo, nella realtà circostante che su di essa e per essa è modellata e si è svilup-pata, e ha trovato dentro di essa il più fertile dei terreni su cui crescere e prosperare, non-ché il più adatto, il più debole, dei personaggi e dei protagonisti su cui manifestarsi.

TERZO PREMIOElisa Pezzin ITCS “E. Bona”

È un romanzo coraggioso e senza indulgenze; la vicenda è ambientata nel canavese dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.Il pro-tagonista è Albino Saluggia, nato e cresciuto in Francia da genitori italiani e poi ritornato in patria, a Candia. Dopo la dura esperienza del-la guerra e della prigionia in Germania, dove si ammala gravemente di tubercolosi, viene assunto come operaio nella grande fabbrica di Ivrea, di cui l’autore tace il nome. Fin dal primo giorno si tuffa a capofitto nel lavoro in-vestendo tutte le sue speranze in quella fab-brica sconosciuta, facendola diventare l’unico scopo della sua vita. Il protagonista con i suoi occhi di malato vede l’industria forte e bella, perfetta nel suo insieme; gli ispira da subi-to un senso di sicurezza e di organizzazione. Questa, descritta dall’autore, è proprio l’indu-stria moderna, la quale si preoccupa del be-nessere degli operai ed è, nel suo complesso, un apparato perfettamente organizzato ed ef-ficiente. Così la vede da subito il protagonista ma, dopo averci lavorato, si rende conto che essa nega qualsiasi soddisfazione, come se il tempo all’interno non passasse; non permet-te distrazioni perché non esiste nulla che non sia un pezzo” della fabbrica. Ciò che maggior-mente infastidisce Albino, però, sono i suoi mali fisici, che riemergono facendosi sentire e temere; alle visite mediche egli teme di cadere negli inganni dei dottori che lo dichiarano ma-lato, e reputano che sia da curare. Egli pensa

che vogliano solo annientarlo e sconvolgere la sua vita, li denuncia ripetutamente e li accu-sa anche in seguito di aver falsificato le sue lastre. I medici gli impongono di ricoverarsi in sanatorio e uscito, dopo alcuni mesi, decide di contattare uno specialista. Nel frattempo la fabbrica lo sottopone a continui controlli e visite dalla psicologa. Albino, dal suo punto di vista, immagina la congiura dei medici come lo schieramento stesso della fabbrica contro di lui e questo provoca la sua reazione vio-lenta, prima contro i compagni di lavoro e poi anche contro la madre, che avverte il distacco del figlio. Albino, disperato perché non trova nessuno in grado di aiutarlo, cade in un grosso inganno da parte di una finta guaritrice-veg-gente e di uno pseudo-dottore, i quali, deru-bandolo dei suoi risparmi, lo illudono di essere completamente sano. I medici della fabbrica pensano che il suo problema sia individuale e decidono di mandarlo due anni in un sanatorio Lombardo; al suo ritorno ‘viene messo a fare il piantonese perché ritenuto inadeguato per gli sforzi eccessivi ai quali sarebbe stato sot-toposto nel suo solito ruolo di operaio. L’autore utilizza la mente malata del personaggio per far cogliere al lettore l’essenza della realtà: l’industria moderna appare perfettamente or-ganizzata ma, al suo interno, nasconde la vera realtà ipocrita, che imprigiona gli operai, tra-sformandoli in oggetti privi di libertà. Questo ragionamento porta a pensare e ad immagi-nare un mondo di uomini fatti non più a somi-glianza di Dio, ma più somiglianti e legati alle macchine. All’interno della fabbrica ci si scor-da del destino degli uomini, ma si acquista un orgoglio sempre più forte per l’organizzazione nella quale ci si trova. Lo stesso protagonista è orgoglioso della sua condizione di operaio,

si ritiene degno e bravo per quel tipo di lavoro e non riesce ad accettare il modo in cui la fab-brica gestisce la sua malattia. A poco ci poco il suo iniziale amore per l’impianto si trasforma in un implacabile odio contro l’immaginaria congiura dei medici e contro i propri mali, che lui stesso ritiene frutto della sua vita difficile. Il tempo procede inesorabilmente e Albino, per sfogare la sua ira, decide di aderire ad uno sciopero che gli costa il licenziamento e il completo isolamento. Volponi ci fa capire che la ribellione di Albino, sia in ambito lavorativo, sia familiare, gli atteggiamenti strani e deviati della sua personalità sono la chiave interpre-tativa della realtà vera della fabbrica: un’orga-nizzazione che con i suoi ingranaggi perfetti stritolo chiunque ci lavori. Albino è il punto di rottura eversivo dell’ingranaggio; solo lui è in grado, grazie alla sua saggia-follia, di portare alla luce questo inganno. La denuncia della povera gente che, non avendo mezzi e op-portunità soffre nel silenzio, in prima persona, anche fisicamente, le incongruenze disumane della vita e rischia di essere considerata anor-male agli occhi di un’analisi superficiale e ap-prossimativa. Il mondo d’oggi ha fretta, non ha più tempo per pensare all’uomo. La fabbrica è il microcosmo che meglio rispecchia questa frenesia contemporanea, dominata dall’appa-renza e dalla logica economica. Albino invece aveva capito che non può esserci scienza sen-za religione e fede, altrimenti dice nel libro si curano cani o si fanno le bombe atomiche.” La medicina e la religione sarebbero state la sua salvezza; purtroppo nella fabbrica non c’era nulla di tutto questo, ma solo gli attacchi dei medici, le false malattie, il sanatorio. Albino non rispondeva più in maniera consona alla logica produttiva, non si sentiva pienamente

62 63

di proprietà della fabbrica. Dopo tanti anni di lavoro dovette rendersi conto che nessuno sarebbe corso in suo aiuto, era completamen-te solo. Giusto premio per un uomo che aveva fatto del lavoro lo scopo della sua vita. Di fron-te a queste sconfitte, da sempre ci si chiede se esiste un Dio che scriva dritto sulle righe storte, che dia valore alla vita, anche di quegli uomini meno fortunati, più semplici, che non si accorgono subito degli imbrogli dei potenti.

Enrica VecchierITCS “E. Bona”

Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, terminato il periodo della ricostru-zione postbellica, l’Italia conosce una seconda rivoluzione industriale e si affaccia alla realtà nuova di un paese moderno e avanzato. Le conseguenze che ne derivano sono di enor-me portata, non solo per le condizioni materiali della vita degli italiani, ma anche per i rappor-ti sociali, per i comportamenti e per le nuove mentalità che si affermano. Tutto ciò si riflette, naturalmente, sulla vita culturale, sulla letteratura: è inevitabile che essa non rimanga estranea alle varie trasfor-mazioni del contesto in cui nasce. Nell’Italia attraversata dal “boom economico” si ha una mutazione nel ruolo sociale dell’ intellettuale che diviene sempre più salariato dell’industria culturale (editoria, giornali, radio, cinema), perdendo di regola, salvo alcune eccezioni, quell’autonomia di movimenti, quella libertà di pensiero che erano state sue prerogative in altre fasi della storia. A cogliere per primo

la necessità di tener presente il rapporto tra letteratura e realtà industriale è Elio Vittorini, sensibile nel percepire le sollecitazioni del momento storico-culturale.Il numero 4 della rivista “Il Menabò” fondato e diretto da Vittorini, è dedicato proprio al nesso letteratura-industria. Secondo Vittorini la letteratura è in ritardo rispetto alla nuova situazione proposta dallo sviluppo industriale del paese. Un ritardo che deve essere colmato per evitare che la lettera-tura si collochi ai margini della vita nazionale. Le tesi di Vittorini suscitarono un vivo dibattito in cui intervennero Italo Calvino, Franco Forti-ni, Umberto Eco, Lucio Mastronardi. Nel corso degli anni Settanta, si attiva di conseguenza una produzione romanzesca che fa i conti con il mondo industriale. Apre la serie Ottiero Ottieri, il quale fa la parte di osservatore scientifico che studia la fabbri-ca dall’esterno. L’ impostazione del tutto diver-sa è quella offerta dal Memoriale di Volponi, che risponde alle esigenze proposte da Vitto-rini, Calvino, Eco. Secondo Volponi la realtà industriale non è solo la pura materia del racconto, vista dall’esterno, ma sostanzia l’ottica stessa da cui la narrazione è condotta: il punto di vista adottato è infatti quello dell’operaio, è l’ottica stravolta e folle di cui patisce l’alienazione della fabbrica. L’alienazione indotta dal mondo industriale non è semplicemente rappresenta-ta, non è solo un contenuto, ma fa corpo con la costruzione stessa del romanzo e con il punto di vista del folle che, proprio stravolgendo la realtà, coglie le incongruenze intrinseche di quel mondo apparentemente razionalizzato.Paolo Volponi nasce ad Urbino nel 1924, vi trascorre la giovinezza e nel 1947 si laurea in

legge presso l’Università urbinate. Nel 1950 instaura un legame d’amicizia con Adriano Olivetti, l’industriale piemontese, im-pegnato prima nella sua fabbrica di Ivrea poi nelle altre fabbriche dislocate in varie città. Olivetti da’ vita a un’industria dal volto umano, capace di mediare le opposte istanze del so-cialismo e del capitalismo. Nel 1953 Volponi si impegna presso la Olivetti, vi conduce inchieste sociali in Abruzzo, Cala-bria e Sicilia.Nel 1956 passa come dirigente alla fabbrica di Ivrea, lasciata la quale lavora per alcuni anni come dirigente alla Fiat. Nel 1962 si colloca il suo esordio di narratore (preceduto da alcune raccolte di versi): il romanzo Memoriale è le-gato alla tematica allora molto viva, della fab-brica e delle condizioni dei lavoratori. Paolo Volponi negli anni Ottanta inizia la sua esperienza politica: infatti diventa senatore prima del PCI (Partito Comunista Italiano) e poi di Rifondazione Comunista, fino alla morte avvenuta nel 1994.Memoriale è un originalissimo esempio di let-teratura industriale. Infatti l’angolatura con cui l’autore guarda l’argomento non è come di solito avviene, di natura ideologica e sociale: Volponi rappresenta il particolare rapporto che si instaura fra la fabbrica e l’operaio pro-tagonista. Pier Paolo Pasolini celebrò nel 1962 l’uscita del Memoriale con parole inequivoca-bili: “Io penso che nessuna voce di romanziere abbia trovato la propria fisionomia con tanta precisione, con tanta purezza, con tanto pote-re di rivelazione”: individuò in Volponi l’autore capace di risolvere l’antinomia tra intelligenza del tempo e della fedeltà all’origine.Il romanzo, per le tematiche presenti, può con-siderarsi un capitolo della nostra storia socia-

le. La vicenda del Memoriale è ambientata tra una città industriale del Piemonte, di cui l’au-tore tace il nome anche se, è identificabile con Ivrea (sede della Società Olivetti) e la campa-gna circostante. Si svolge in un arco di tem-po che va dal 1945 al 1956. Ne è protagonista narrante, in prima persona, Albino Saluggia, nato ad Avignone da genitori italiani rientrati in patria e stabiliti a Candia nel Canavese.Durante la narrazione il protagonista rievoca spesso il periodo della guerra e della prigio-nia in Germania, il senso di angoscia provato in quei momenti: tutto ciò è la causa dei suoi “mali”. Grazie all’interessamento dell’ Asso-ciazione Reduci egli ottiene un posto in fabbri-ca. L’occasione che gli si presenta potrebbe porre fine a tutti i suoi mali fisici (tubercolosi, contratta durante la prigionia) e psichici (soli-tudine, dolore, umiliazioni, ossessioni) di cui è consapevole. Fin dai primi giorni, il giovane si tuffa con tutte le sue forze nello svolgimento del suo lavoro, e cerca in quel mondo nuove amicizie. Tutto ciò risulta vano, anzi Saluggia è costretto a curarsi, finisce nelle mani dei me-dici della fabbrica. Inizia una lotta spietata che lo distrugge moralmente e fisicamente. Nonostante le sue denunce (alla Direzione, ai Carabinieri, al Vescovo), viene ricoverato in un sanatorio. Durante i mesi di degenza, la fabbri-ca gli paga gli stipendi, elargisce sussidi per la vecchia madre, e lo segue anche nell’evolver-si della sua malattia. A guarigione avvenuta viene riammesso al lavoro. Riprendendo la vita da pendolare, il protagonista studia le tattiche per non ricadere nelle mani dei suoi “aguzzi-ni” (i medici della fabbrica). Decide anche di rivolgersi ad uno specialista di fiducia e per reazione provoca incidenti nel reparto. Inter-viene nuovamente la fabbrica, che lo paga per

64 65

curarsi a casa, ma egli è sempre controllato a vista. La sua disperazione è tale da cadere an-che nella trappola di un trio di imbroglioni (una guaritrice veggente, il marito alcolizzato di lei e un medico inventore di un siero miracoloso), che gli truffano tutti i risparmi. Si rivolge anche al sindacato, ma il suo problema è individuale e il sindacato non può risolverlo dato che si interessa solo dei problemi collettivi. In un estremo tentativo di ottenere giustizia, Saluggia fa giungere tutte le sue richieste al Presidente della fabbrica, di conseguenza ot-tiene il ricovero in un altro sanatorio situato in Lombardia, dove rimane per due anni. Al suo ritorno in fabbrica gli viene assegnato il posto di guardiano. Passa così il tempo “fuo-ri” dalla fabbrica. Con questo nuovo incarico si sente tradito ed estromesso: sfoga così la sua ira e la sua disperazione, partecipando proprio lui, che nel suo qualunquismo non si è mai occupato di rivendicazioni sindacali, ad uno sciopero che assume una piega politica. Tutto ciò comporta il suo licenziamento, l’ ab-bandono e l’addio alla fabbrica. Le ultime pagine del romanzo sono le migliori...secondo me. Descrivono Albino mentre ritorna a Candia, lasciandosi dietro le spalle la fabbrica, le sue speranze perdute, i sogni mai raggiunti, i rim-pianti: sono un elegiaco compianto, della sua ormai immedicabile solitudine e del cupo de-stino che lo ha accompagnato fin dalla nasci-ta. Egli riflette e capisce che nessuno verrà in suo aiuto, mai. Questo a mio avviso è il passo più pessimista di tutto il romanzo. Tutti gli sforzi del protagonista per migliorare la sua condizione, sono rimasti vani, ormai Al-bino Saluggia si arrende, e rinuncia al suo la-voro; ha perso tutte le battaglie, non gli rimane

che guardare la vita così come viene, senza preoccuparsi più di niente.Il fatto di narrare dall’ottica inattendibile del personaggio assume una straordinaria for-za di penetrazione conoscitiva e critica: si colgono meglio gli aspetti della vita operaia. La realtà industriale, grazie naturalmente alle lotte dei lavoratori in alcuni aspetti è miglio-rata, ma è sostanzialmente sempre la stessa. Realtà industriali simili a quella di Volponi sono presenti e credo ci siano ancora oggi anche nelle nostre zone: basti pensare agli Zegna. ai Rivetti, ai Botto e ai Gallo e tanti altri che hanno cambiato molto la vita dei nostri non-ni e dei nostri genitori. La figura dell’operaio con la sua tuta e le mani ricoperte dal grasso dei macchinari allora era ancora distinguibile, mentre ora, nei giorni nostri, la fabbrica è sem-pre più automatizzata e c’è meno presenza umana. Questo forse è un effetto negativo, ma ormai bisogna far fronte alle tecnologie, per produrre e vendere, anche se attualmente è in corso una forte crisi economica che ha colpito numerosi settori e nel biellese si fa sentire in particolar modo nella “nostra industria” per eccellenza: quella tessile. Le fabbriche chiudono una dopo l’altra o si tra-sferiscono nell’est europeo, dove il costo della manodopera è più basso. Forse in quelle zone si può ritrovare la realtà cosi come la descrive Paolo Volponi nel suo romanzo. Credo pienamente, che, nonostante siano passati quaranta anni, la realtà descritta in Il Memoriale sia molto attuale, perché fa riflet-tere sui problemi che sorgono in una fabbrica, ma che possono avvenire in qualsiasi settore del mondo del lavoro. Fa riflettere soprattut-to i giovani, i pilastri dell’economia futura. La maggior parte dei giovani d’oggi, però, non

si rende conto di ciò che li attende domani, vivono così “carpe diem”: colgono l’attimo e basta. Un aspetto negativo che le nuove ge-nerazione rischiano di assimilare da una certa mentalità della nostra epoca (‘vivere è diver-tirsi, trascorrere lunghe vacanze immersi nel divertimento e nel riposo), è una propensione alla “passività”, ad essere semplici spettatori, incapaci quindi di prendere iniziative. Il Concilio Vaticano II afferma: “l’attività uma-na è ordinata all’uomo”. L’uomo infatti, quando lavora, non soltanto modi-fica le cose e la società, ma perfeziona se stesso.” Quanti ragazzi iniziano, anche con entusiasmo un’attività, ma dopo poco tempo, quando c’è da faticare un po’, la tralasciano per passare magari ad altri impegni che di lì a poco nuo-vamente abbandonano...Proporsi un obiettivo e cercare di raggiungerlo senza ripensa-menti, con caparbietà, anche quando costa fatica è la strada per prepararsi al futuro. Chi è sempre disposto a scegliere la strada meno faticosa, a sfuggire alle responsabili-tà di tutti i giorni, costruisce sulla sabbia, la propria crescita personale. la propria vita. La perseveranza, la capacità di andare avanti anche nelle difficoltà non è certamente faci-le ma sicuramente importante per formare gli uomini di domani.

67

1. Fra le iniziative collegate al “Premio Biella Letteratura e Industria”, Città Studi S.p.A. bandisce un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori della Provincia di Biella per un per-corso di ricerca su Ottiero Ottieri “Donnarumma all’assalto”.

2. Ogni concorrente dovrà inviare il suo elaborato alla Segreteria del “Premio Biella Letteratura e Industria” - Città Studi S.p.A., Corso Pella 2, 13900 Biella, entro il 27 aprile 2005.

3. Ogni elaborato dovrà indicare le generalità del concorrente, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequentata.

4. La giuria del concorso è composta da docen-ti in rappresentanza di tutte le scuole superiori del Biellese ed è presieduta da Pier Francesco Gasparetto.

5.Ai tre elaborati classificati primi saranno asse-gnati tre premi da 400 € ciascuno. Qualora l’elabo-rato sia frutto di un lavoro di gruppo, il premio verrà equamente suddiviso tra i componenti.

6. I nomi dei vincitori verranno resi noti in occasio-ne della cerimonia di consegna dell’edizione 2005 del “Premio Biella Letteratura e Industria” che avrà luogo il 20 maggio 2005 presso la Città Studi di Biella.

7. I premi dovranno essere ritirati personalmente dai vincitori designati, durante la cerimonia. In caso contrario il Premio non verrà consegnato.8. La partecipazione al concorso è gratuita

9. L’operato della giuria è insindacabile

10. La partecipazione al concorso implica di fatto l’accettazione di tutte le norme indicate nel bando.

Presidente: Pier Francesco Gasparetto, Premio Biella Letteratura Industria

Franca Di Palma, Istituto Tecnico “E. Bona”

Ada Landini Zanni, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella

Ivano Maffeo, ITIS “Q. Sella”

Ivana Masciavè, Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Corrado Ranucci, Istituto Tecnico Statale per Geometri “V. Rubens”

Giuseppe Trimboli, Liceo Scientifico “A. Avogadro”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2005

68 69

PRIMO PREMIONicola Caputo ITIS “Q. Sella” Liceo Scientifico Tecnologico - Biella L’attenta lettura del romanzo Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri offre varie rifles-sioni. La vicenda è ambientata a S.Maria, un ipotetico paese del meridione (vicino a Pozzuoli) abitato da un popolo ( figlio di ge-nerazioni di contadini e pescatori ) che “ar-rangia” la vita in vari modi. Il protagonista nonché narratore si è trasferito dal Nord per contribuire al decollo della nuova fabbrica Olivetti, costruita proprio a S.Maria. Il suo compito è di valutare, tra i 40000 e più disoccupati della zona, quali siano i più adatti al ruolo di operaio meccanico.

Quindi lo “psicologo”, con la sua psicotecni-ca, tenta di scoprire le attitudini di ognuno, però mentre si addentra nelle indagini legate al suo ruolo, queste gli svelano un’altra real-tà: il disperato bisogno di “faticare”, una del-le piaghe sociali del Mezzogiorno: la fredda e schematica organizzazione razionale dei dirigenti subisce un contraccolpo proprio nella riflessione sofferta del protagonista che, in una posizione intermedia, col passare del tempo vede il suo entusiasmo per lo sta-bilimento spegnersi mentre diventa sempre più partecipe del dramma di alcuni abitanti di S.Maria ed il suo diario diventa un documen-to di testimonianza.

L’ALIENAZIONE DEL LAVORODapprima, il narratore si proponeva di prati-care e perfezionare la psicotecnica (costitu-ita essenzialmente da appositi test e colloqui personali), e di occuparsi dei problemi della fabbrica concernenti soprattutto le conse-guenze del lavoro sulla psiche degli operai. Anche se non è la prima esperienza lavora-tiva, il periodo storico e l’ ambiente socia-le rendono la situazione tutta particolare. Infatti, la vicenda è ambientata in pieno boom economico. Inoltre, il Sud d’Italia era ancora estraneo al processo di industrializzazione di proporzioni rivoluzionarie già attuato al Nord, quindi era un ottimo terreno di studio. Già nella premessa si percepisce l’entusia-smo di scoprire la ‘miniera umana”, le “più profonde ricchezze d’uomini nel mondo”. Questa ricerca coinvolgerà il protagonista in prima persona, che sperimenterà fin dai primi giorni la realtà dello stabilimento provando a ricoprire le mansioni di un operaio mescolan-dosi agli stessi interessati. Mentre si applica per capire il funzionamento di un macchinario, nota che la sua attenzio-ne è rapita al punto da non accorgersi più di ciò che vede o sente intorno (pag. 46).La stessa percezione si ricava dalle parole di un operaio esperto quale Di Meo quando spie-ga una fase ad un altro operaio proveniente dalle fasi più semplici (”come un cieco devi lavorare”): c’è come un parallelismo tra la ripetitività ossessiva dei mezzi meccanici e quella dei gesti umani. In effetti, la struttura del montaggio del prodotto è caratterizza-ta proprio da ‘frammenti di lavoro” reiterati numerose volte, obnubilando l’orizzonte del senso nell’agire degli operai. A pagina 171 tutto ciò viene identificato nel termine auto-

matismo, che equivale appunto alla suddi-visione del montaggio in unità semplici. Nel testo ci sono vari confronti con le antiche attività dell’agricoltura e dell’artigianato che, dovendo essere curate fase per fase, rende-vano il contadino (come l’arrotino, o il pesca-tore, ecc.) consapevole del suo ruolo e delle sue azioni. Tuttavia, anche se il processo produttivo delle fabbriche non è certo stimolante per la mente, ciò non significa che la facoltà di pen-sare rimanga addirittura annichilita: l’operaio ha bisogno di concentrazione, il suo essere è tutto coinvolto nel rapporto con la macchina: ciò significa che si instaura una specie di le-game per cui il lavoro dell’operaio x è diverso da quello dell’ operaio Y: è unico. Lo psicologo nota una certa serialità, il perso-nale si uniforma all’organizzazione industria-le che domina schemi e tempi imponendo i modelli studiati dagli ingegneri (e quindi mo-delli oggettivi) che però si contrappongono a schemi e tempi soggettivi vissuti individual-mente da ogni membro dello stabilimento: il lavoro, in qualche modo, viene interiorizzato, l’esperienza gioca un ruolo importante: è come se un “istinto latente” del lavoro emer-gesse a poco a poco: mentre il narratore (pag. 46) racconta i suoi progressi, si rende conto anche di non saper descrivere il passaggio dall’ incapacità all’efficienza, perché è una cosa che SENTE (“..so quello che debbo fare nella mia testa.”). Anche la velocità nello svolgere le operazio-ni varia da soggetto a soggetto : in un collo-quio scherzoso tra Di Meo ed un ingegnere, quest’ultimo spiega che la durata delle fasi di montaggio è un valore medio perché ci sono in genere tante persone che avanzano

tempo quante persone che ne necessita-no di più. Un altro episodio da segnalare, a pag. 46, è l’operaio che col cacciavite fa un rumore che ricorda il verso del gallo, e tutti nello stabilimento ridono. Del resto, anche l’edificio-fabbrica ha una connotazione ca-ratteristica, i colori sono diversi dal classico grigio per essere in armonia col paesaggio naturale, le porte a vetri fanno sì che un ope-raio si trovi dentro una fabbrica, e non sotto il cielo splendente, per un passo. Quindi, la dimensione soggettiva dell’uomo è presente, nell’industria, non meno che in altri aspetti della vita: probabilmente però viene consi-derata di meno. Ciò fa si che sia più faticoso comprenderla.

IL TRANELLO DELLA PSICOTECNICAÈ questo ciò che si può interpretare come il tranello della psicotecnica: la pretesa di sondare il cervello umano cercandovi ma-nualità, abilità verbale, memoria, (insomma tutta l’intelligenza tecnica necessaria ad un operaio meccanico) e invece trovarvi gioia o dolore, rabbia o rassegnazione, fierezza o vergogna: le più profonde ricchezze degli uomini nel mondo mostrano il loro valore nel momento in cui si rivelano diverse da quelle che ci si aspettava. Il primo giorno nella fab-brica è già un quadro abbastanza variegato da riprodurre parte di quel che emergerà alla fine dell’esperienza a S.Maria: nella sala dei colloqui, qualcuno mostra di aver terminato il test ben prima del termine fissato (segno d’ intelligenza e velocità maggiori), intanto c’è chi allunga l’occhio per trovare una ri-sposta dal compagno e poi alla fine altri si sforzano fino all’ultimo secondo, consuman-do con foga gli ultimi istanti che già sforano

I VINCITORI

70 71

al di là del tempo concesso a disposizione. Esattamente il contrario di chi si dà per vinto dapprincipio. E con tutto questo, spunta una mosca bianca incapace di indovinare la ma-niera giusta di impugnare un lapis. Il narrato-re registra l’episodio come fosse un fatto di cronaca, ma da quando cominciano i colloqui deve riconoscere di fronte a se stesso che le cose non procedono come previsto. La differenza tra le domande d’assunzione e i posti disponibili è decisamente abissale, di conseguenza i candidati si preparano a subire una scrematura altrettanto vasta: ma ciascuno di essi si attanaglia alla sua pic-cola percentuale di conquista con tenacia, o come meglio può, rendendo la situazione ancora più delicata perché lo psicologo ha indicazioni molto scarse e generiche che lo mettono faccia a faccia con un’orda di uomi-ni che si accontenta di pulire i gabinetti. Ma è facile capire che la fabbrica non è “una grande latrina”. Però non è altrettanto sem-plice convincere i disoccupati a non organiz-zare assedi nei pressi del cancello stimolan-do la gente a protestare, se non ricorrere ad-dirittura a gesti estremi come buttarsi sotto la macchina del direttore. Ebbene, la quotidianità della realtà descritta è questa: la stessa traspare dalle analisi sul personale all’opera o sugli aspiranti. La fiducia nella psicotecnica che anima i primi momenti di attività è subito messa se-riamente in discussione, perché le condizioni dell’ambiente sociale sono molto influenti. La selezione dà comunque i suoi frutti, però la scelta è troppo ampia: questo significa che molti tra coloro che sono stati scartati, in una situazione media anziché estrema (come po-trebbe essere nel caso dell’apertura di una

fabbrica al nord), avrebbero ottenuto il posto. Inoltre, capita spesso che il protagonista si trovi a parlare con persone che pretendono il lavoro quando è assurdo che glielo si con-ceda (Accettura, Donnarumma, Papaleo...). Perché il lavoro, purtroppo, non è una grazia che scende su chi la richiede ardentemen-te. Ciononostante, i personaggi sopra citati tradiscono questo tipo di mentalità. In effetti, essi provengono da una tradizione millenaria di pesca e agricoltura, nonché di sfruttamen-to da parte dei proprietari latifondisti. E dopo aver piegato la schiena sotto il sole cocente per generazioni e generazioni, si ergono in una ribellione titanica che non ac-cetta la disoccupazione. Ma questo sforzo è troppo grande rispetto alla corsa dietro mezzi e cultura, una corsa che vede il sud ancora in svantaggio. Lo stabilimento di S.Maria è cer-to all’avanguardia per il suo tempo, ma forse troppo: infatti i meridionali, rispetto ad esso, sono dei trogloditi, dei primitivi. All’inizio sem-brava una “missione d’incivilimento” quella a cui lo psicologo si sentiva chiamato, poi però si rende conto che è un’idea irragionevole perché se c’è veramente bisogno di incivili-mento, adesso è troppo tardi. La fabbrica è stata costruita, ma per qualcuno forse sarebbe stato meglio che non fosse mai esistita. E la psicotecnica, l’edificio costruito in armonia con l’ambiente naturale, l’ambien-te lavorativo che ispira un senso di famiglia sono tutte belle idee e sfortunatamente, nello stesso momento, anche lussi inutili. Non bastano a consolare i ‘cafoni” fuori dal cancello dell’ingiustizia subita. Il narratore non è neppure il colpevole della situazione, perché riceve l’eredità di una classe dirigen-te poco sensibile a certi problemi, ciò non

toglie che ne debba rispondere in qualche modo. Ed ecco il tranello della psicotecnica che, dopo varie vicissitudini, chiama ad es-sere interrogato chi era seduto al posto del professore: sulla sua cattedra, numerose esperienze sempre più coinvolgenti e sempre meglio descritte in cartelle accuratamente conservate, cartelle insondabili da pagine di trattati sociologici che oscillano da un’in-terpretazione a quella opposta: la condizione operaia diventa una specie di enigma oscuro. Nessuna luce porta chiarezza, nessuna paro-la riempie quei fogli vuotati di senso tranne una sentenza perentoria di Donnarumma che rompe gli indugi leggendo, quasi ruggendo violentemente: “Ci sta scritto che devo fati-care!”

L’ALIENAZIONE DELLA DISOCCUPAZIONE L’ imperativo categorico di un robusto mano-vale si scontra, purtroppo, contro gli schemi logici del mondo industriale che imbrigliano le sue forze vanificandole fatalmente. Però il gesto estremo di Donnarumma, fallendo inesorabilmente, nella caduta si trascina la domanda scritta e qualsiasi altra pastoia burocratica che i semplici muratori non ca-piscono. E quelli che aspettano fuori dal cancello lo sanno che la situazione non viene messa a fuoco dalla loro inquadratura mentale, lo sa anche Papaleo che, pur avendo lasciato il sangue nella costruzione dello stabilimento durante un infortunio sul lavoro, per colpa della psicotecnica (che riconosce di non ca-pire) non può essere assunto. Ma se la disoc-cupazione (come ha scritto Ottieri) deforma l’uomo meridionale e lo aliena, certo non gli toglie fierezza. La dignità umana che l’illu-

minato Adriano Olivetti voleva dare alla luce nella fabbrica- comunità scintilla anche fuori di essa, ed è un bagliore accecante: Papaleo (reputato pazzo infondatamente) veniva con-tinuamente messo da parte dalle guardie del cancello, perciò non ha neanche avuto la possibilità di interloquire. Questa forse è l’ingiustizia più dolente in tutto il romanzo, perché quest’uomo non è aiuta-to da nessuno:prepotentemente, scansa il guardiano Bellomo e si avvicina alla macchi-na dello psicologo e denuncia il torto subito: siccome un pezzo del suo cervello è rimasto tra le mura, fanno credere che il resto che gli è rimasto non serva a nessuno. È una frase metaforica che rivela la protesta di un “ma-novalaccio “prima usato e poi abbandonato. Comunque, non perde il coraggio di chiedere che si smetta di calpestare il suo sangue. Da questo episodio può scaturire una rifles-sione sul tema dell’alienazione, problema che sembra essere circoscritto alla dimensione della fabbrica. In effetti, il sangue ed il cer-vello sono parti fisiche che però rimandano all’intelligenza ed all’intimità dell’essere: c’è un legame tra gli operai che hanno lavorato alla costruzione della fabbrica e la fabbrica stessa, un legame oscuro che si esaurisce perché l’ambiente sociale ed in particola-re il mercato del lavoro non hanno strutture adatte per riassorbire questi disoccupati, che acutamente Ottieri riconosce come i veri alienati. L’uomo viene deformato da questa piaga, i giovani buttati per le vie spendono le loro energie, o meglio disperdono le loro capacità tra partite a carte nei bar e lavoret-ti brevi, di tanto in tanto: e giorno per giorno c’è qualcosa di loro stessi che si dissolve, come nell’aria, senza che il tornaconto sia

72 73

sufficiente perché vivano dignitosamente. Spossati di giorno in giorno si reggono per lottare contro l’abbandono. Però, resta loro sempre qualche residuo grazie a cui si bar-camenano: è il pezzo di cervello di Papaleo rimasto nella fabbrica, la latrina che chiun-que sarebbe disposto a pulire, è la doman-da scritta di Donnarumma, è la metà sana di Accettura, la dolce metà di Dattilo che freme con lui al di là della parete di una camera nell’estate caldissima, la voce di paese se-condo cui si entra per raccomandazione:quel poco che rimane è la speranza.

SPERANZA E DIGNITA’La speranza è forse l’unico sentimento che fa da ponte tra dirigenti e operai, tra lo psi-cologo e i disoccupati. Tutto il romanzo in un certo senso è basato su aspettative di volta in volta disattese o ricompensate. L’unica categoria di persone che spera sem-pre e comunque con la stessa intensità però sono proprio i disoccupati, in qualsiasi mo-mento. Per esempio, è interessante notare la vicenda di Venezia Raffaele: appena supera-ta la visita, aspetta che gli venga assegnato il suo posto ma la S. lo respinge in malo modo. Egli, caparbio, continua a restare lì perché ha bisogno di lavorare. E se non ci fosse sta-ta un’improvvisa chiamata del direttore che ordina di assumere subito un altro operaio, il povero tapino si sarebbe piantato lì per un anno: ciò che colpisce di questo episodio è che gli occhi bui di Venezia Raffaele non facevano pietà: la sua pretesa era irragione-vole, inesaudibile, però non gli si poteva ne-gare di restare lì ad attendere il prodigio che, almeno una volta, è arrivato. Questo “miracolato” è un vero fratello di tutti

quelli che assaltano quotidianamente il can-cello perché comunque, a dispetto dei bei di-scorsi sulla fabbrica e sull’ industrializzazione del sud, nessun ingegnere, nessun dirigente né tanto meno la psicotecnica hanno potuto aiutare quest’uomo. E il direttore non ha chiamato proprio lui, Venezia Raffaele, piuttosto aveva bisogno di qualcuno idoneo per il montaggio. E la rapi-dità di quella chiamata, quasi fosse proprio piovuta dal cielo, ha pure bloccato la felici-tà del momento in una smorfia tra il riso e il pianto, come voler sbarrare la strada al so-praggiungere di un’emozione. È stato un caso, non merito della solida or-ganizzazione razionale. A quella non ci crede nessuno, meglio lasciar circolare pettegolez-zi su assunzioni a mezzo di raccomandazione o addirittura a pagamento: è questa l’opinio-ne di Straniero, un sindacalista che, parlando con lo psicologo, si rifiuta di rivelare un nome perché la situazione peggiorerebbe. È l’unico modo per conservare la speranza di moltissime persone che in realtà sono dispe-rate. Disperate, ma pur sempre dignitose: per questo si presentano quotidianamente da-vanti ai cancelli, e quando un uomo si suicida buttandosi sotto la macchina del direttore il solito gruppo, allontanato a forza dalle guar-die, resta nelle vicinanze per segnalare con la sua presenza il loro diritto secolare che ancora rivendicano: il diritto di faticare. Purtroppo, per quanto la fabbrica si possa espandere non potrà diventare grande quan-to il paese: alla fine della sua esperienza lavorativa, lo psicologo si sente schiacciato dal peso del suo fallimento perché gli studi ai quali si era affidato con entusiasmo e buo-na volontà non sono bastati a migliorare la

situazione di S.Maria. Ma la sconfitta deriva da problemi trascinati dal tempo che solo adesso cominciano ad essere affrontati, bi-sognerà aspettare per attendere i frutti: nel frattempo, si può andare incontro agli eventi, ma è una fatica che spetta al popolo meridio-nale perché i tempi e i luoghi dell’industrializ-zazione non sono uniformi: resta la lezione di Eduardo De Filippo che, visitando la fabbri-ca, anziché allestire uno spettacolo comico (come tutti si aspettavano) si documenta ap-passionatamente su tutto ciò che riguarda la fabbrica, interroga i capisquadra sulle fasi di montaggio e cerca di capire come si arriva al prodotto finale. E nessuno, nello stabilimento, sembra com-prendere che forse l’unico modo per avere un’industrializzazione socialmente armonio-sa potrebbe partire dal conoscere questa re-altà interamente, sia da parte di un operaio, sia da parte di un dirigente, sia da parte di una persona qualunque.

SECONDO PREMIOElisa MorelloITIC “E. Bona”

Ottieri è uno scrittore italiano, nato a Roma nel 1924 e morto a Milano nel 2002. Era un socio-logo. Dopo aver scritto nel 1954 la sua prima opera “Le memorie dell’Incoscienza, un libro d’impianto neorealistico, individuò il genere che si addiceva più a lui, cioè il romanzo in-dustriale. In “Tempi stretti”, scritto nel 1957, Ottieri descrive la situazione della fabbrica dell’automazione al lavoro parcellare; scrisse poi “Donnarumma all’assalto”, esattamente nel 1959, nel quale parla di un uomo nato a Roma ma che ha conosciuto l’industria del Nord. Quest’uomo viene catapultato in un mondo completamente diverso sotto il pun-to di vista industriale:il Mezzogiorno. Viene mandato in una fabbrica del meridione, dove ha il compito di sottoporre ai candidati all’as-sunzione alcuni test, sia scritti, sia orali, e in base a questi test deve selezionare il perso-nale. Ogni giorno molti uomini si rivolgono a lui e si rende conto di essere come un Dio nei loro confronti perché è lui che deciderà del loro destino, così egli si corazza contro le loro lamentele e le loro pretese. La tecnica con la quale viene scelto il personale si chiama psi-cotecnica, e consiste nel valutare l’individuo, nel conoscerlo lietamente per assegnarli un eventuale ruolo adatto a lui all’interno della fabbrica. Il protagonista (chiamato pizzico logo dai candidati all’assunzione) è consa-pevole di quanto sia spietato il suo lavoro, infatti a un certo punto del romanzo si mette

74 75

nei panni degli operai, i quali devono costru-ire circa trecento pezzi al giorno tutti uguali. Egli si cimenta, si mette alla prova e nel farlo comprende che non è neanche semplice fare quel tipo di montaggio e di conseguenza ca-pisce ancora meglio che serve del personale abbastanza qualificato. Molte volte succede che alcuni dei disoccu-pati di fermino fuori dalla fabbrica e parlino delle loro disgrazie. Una volta un uomo si get-tò persino sotto l’automobile del direttore. Il protagonista in un primo tempo dimostra di essere insensibile a queste miserie. Molti dei disoccupati, pur di essere assunti sono disposti a pulire i gabinetti. Un giorno si presentò un giovane di vent’anni, che viveva con i suoi nove fratelli, con lo zio, la mamma e la nonna. Suo zio aveva il sangue ai bronchi e quindi lavorava soltanto quando stava bene e di conseguenza i soldi non era-no sufficienti per sfamare tredici persone. Lo zio se la prendeva con lui picchiandolo e rincorrendolo. Arrivò al punto di dire che non sarebbe uscito di lì senza un lavoro e così fece sino a quando il protagonista non gli diede dei soldi e gli disse di andare a casa ad aspettare la loro telefonata. Si presentò anche Accettura Vincenzo, l’uo-mo che si era buttato sotto la macchina del direttore; quest’uomo era invalido e quindi non andava bene per la fabbrica. Ci fu anche un certo Venezia Raffaele destinato ad esse-re assunto perché anche se non era molto esperto e furbo era sicuramente migliore di molti altri. A un certo punto arrivò in ufficio un certo Antonio Donnarumma; quest’uomo voleva lavorare a qualsiasi costo, non aveva neanche fatto la domanda ma lui sapeva di dover lavorare ma come per gli altri l’attesa

fu lunga. Il protagonista andò anche a visita-re il Cementificio polveroso dove era in corso uno sciopero e pensò che anche nella sua fabbrica sarebbe successo qualcosa di simi-le perché le acque si stavano agitando. Da quando era arrivato, solo dopo molto tem-po riuscì a fare un abbinamento positivo tra la realtà meridionale e la sua fabbrica perché capì che in fondo la gente al sud era diver-sa e anche se non era molto “evoluta” era comunque generosa e gentile. Un po’ prima della fine della sua esperienza in fabbrica si organizzò una festa alla quale partecipava anche la grande Associazione centro-meri-dionale. A questa festa era presente molta gente borghese e si svolse tutto in modo molto regolare e piacevole. Un giorno di fine no-vembre egli era pronto per affrontare la sua ultima conversazione con il direttore. La mattina seguente preparò le sue valige e si recò alla stazione dove vide due pattuglie di poliziotti, così pensò subito ad un ritorno di Donnarumma, cercò un telefono per accer-tarsi che non fosse così. Il primo telefono utilizzabile era al di là del piazzale e raggiun-gendolo avrebbe perso il treno ma lo fece co-munque. Chiamò ma Bellomo non rispondeva e il telefono continuava a squillare e il nostro dottore si preoccupava sempre più sino a che Bellomo rispose e rassicurò il protagoni-sta che dovette aspettare il treno successivo per tornare a Milano.Questo romanzo secondo me è un’opera molto interessante perché l’autore parla di una realtà vera e ancora attuale; espone con dovizia di particolari il divario che esiste nel processo di industrializzazione tra Nord e Sud. Molto si deve ancora fare, soprattutto

al Sud per combattere povertà ed emargina-zione. L’autore nel suo libro parla di uomini disperati disposti a tutto pur di uscire dalla miseria e dall’isolamento sociale. All’inizio, chiunque nei loro confronti si sarebbe sen-tito superiore. Anche ovviamente l’incaricato a selezionare il personale si sentiva come un Dio al loro co-spetto perché decideva del loro destino, ma, con il passare del tempo capì che doveva cambiare e che non poteva essere insensibi-le e distante da quelle persone. Di fronte alla sofferenza vera l’umanità, che è presente in ogni uomo, si sente comparteci-pe e questo è successo anche all’uomo che sembrava esercitare il suo ruolo al di sopra di ogni coinvolgimento personale. Trovo particolarmente belle le pagine del li-bro in cui l’autore scrive che il protagonista si mescola tra gli operai per capire cosa si prova a stare dall’altra parte e scopre che il lavoro è pesante; si avvicina inevitabilmente a persone che preferiscano lavorare otto ore al giorno come dei forsennati per portare a casa qualche certezza economica, capisce che con un suo semplice “mi spiace ma non è adatto per questo mestiere” rovinava l’esi-stenza di molte famiglie senza neanche ren-dersene conto. Un altro passo del libro che mi ha veramente fatto riflettere è quello in cui si parla del ra-gazzo ventenne molto magro e asciutto, che si sente obbligato a lavorare per non essere picchiato dallo zio, ma soprattutto per mante-nere la sua numerosa famiglia.Onestamente, dopo aver letto questa parte del capitolo V, mi sono ritenuta particolar-mente fortunata perché io, probabilmente, all’età di vent’anni sarò all’università, men-

tre questo ragazzo ha dovuto faticare e non poco per mantenere la sua famiglia. Prima ancora di pensare a sé ha dovuto provvedere agli altri.Ho apprezzato di questo libro anche la sciol-tezza dell’esposizione. Un argomento grigio come l’industria si è permeato di pensieri, di sentimenti e ci ha portato vicino ad una umanità sofferente, schiacciata dalla sorte, dalle condizioni socio-economiche. Eppure è proprio questa umanità che cambiò l’animo convenzionale e apparentemente insensibile del protagonista. Nulla è mai scontato. Anche una vita come quella di Donnarumma ha trovato un senso e una giustificazione di esistere. Proprio attraverso di lui il seleziona-tore del personale ha risvegliato il suo senso di umanità e di solidarietà. Stilisticamente il libro è costituito come un diario, vi è un’au-toanalisi precisa, attenta alle situazioni con-nesse alla vita aziendale. Il modello di vita dell’industria con i suoi para-dossi e le sue contraddizioni si contrappone al problema dell’occupazione nel Meridione. La richiesta di lavoro è superiore all’offerta della fabbrica. La gente del sud è sottoposta alla disoccupa-zione, al pregiudizio, all’ignoranza e all’anal-fabetismo, all’indifferenza.Purtroppo il sud si sa che rimase alla retro-guardia e fu escluso dal moto ascendente dell’industria, che fin dal periodo giolittia-no si concentrò nel triangolo industriale di Genova, Torino e Milano. Questo processo fu favorito da una serie di fattori quali: il maggiore sviluppo civile, le migliori comunicazioni interne e internazio-nali, la formazione più rapida e intensiva di capitali, la presenza di maestranze meglio

76 77

preparate e di un ceto imprenditoriale di più solide tradizioni.Dal Mezzogiorno, causa la disoccupazione, partirono 2.817.170 persone. Nel solo 1913 gli emigrati italiani furono 872.598. eppure questi disperati, fuggiti dalla miseria del loro paese contribuirono con le loro rimesse, ad arric-chire le finanze dello Stato. Ancora oggi, nonostante una già avviata le-gislazione sociale a favore del sud esistono gravi problemi legati alla disoccupazione.Uomini come Ottieri sono fondamentali non solo nella storia della letteratura, ma soprat-tutto per la storia particolare di una parte del nostro Paese. Opere come “Donnarumma all’assalto” ci in-vitano non solo a non ignorare una parte di umanità sofferente, ma ci insegnano a porta-re il nostro umile contributo per il progresso vero, quello che non dimentica nessuno.

TERZO PREMIOEugenio Licata Liceo Classico “G. e Q. Sella” - Biella “Donnarumma all’assalto” occupa, tra i ro-manzi di letteratura industriale, un posto a sé. Fra le sue pagine non scorre la vita grigia e monotona delle fabbriche del dopoguerra, non si respira l’odore grasso dei fumi densi di veleni, non si sente il crepitio delle frese e delle saldatrici:in esse arde il sole dell’estate meridionale, traspare il profumo della brezza del golfo, le strade non sembrano fiumi di catrame nelle pianure, ma sentieri che si ar-rampicano ripidi fra i paesi, e che con la loro ricchezza di scorci possono ancora destare sorpresa e piacere nel viaggiatore. Le parole non sembrano scritte in una casa di periferia, o in un sotterraneo cittadino, sono quelle ri-lassate di un diario, scritto nella tranquillità della sera; il protagonista non è un umile ope-raio, vessato dal sistema, ma un addetto alla selezione del personale, un “dottore”, una persona dignitosa e rispettata. Ciò non deve trarre in inganno: accanto a parti a volte più rilassate, il romanzo nasconde una dimensio-ne drammatica, una tragedia che si insinua fin dalle prime pagine, che attende il lettore che, insieme col protagonista, è condotto, grazie agli strumenti della psicotecnica, in un viaggio verso l’intimo dell’animo umano, arrivando a conoscere,con occhio talmente indiscreto da essere cinico, realtà di povertà, di emarginazione, di disagio. È la tragedia di un territorio e di una popolazione che viene a contatto con una realtà totalmente aliena,

quella industriale, che, come una ferita in-fetta, intacca le difese naturali, scioglie ogni dignità di uomini prima semplici, ma che dal legame con la terra traevano una forma di dignità, ottenendo un ruolo produttivo. Gli uomini che si rivolgono al protagonista per ottenere un posto di lavoro, invece, umiliano la loro stessa condizione: l’attesa spasmodi-ca di una convocazione e la foga con cui, per lo più inutilmente, implorano, supplicano l’as-sunzione, li porta a confessioni impudiche, a ostentare le proprie disgrazie, per ottenere pietà. Viene a mancare ogni dignità. Lo psicotecnico annota, dalla sua prospet-tiva dapprima più distaccata, poi più coin-volta, storie di drammi familiari, di malattie, di umiliazioni sociali. Sulle pagine del diario finiscono le parole, piene di rancore, di mariti umiliati dalle mogli,di giovani malvoluti dalle fidanzate, mortificati nella loro virilità. La vita della fabbrica viene segnata dalla presenza dei disperati che attendono ai cancelli, che tentano di gettarsi sotto le vetture dei diri-genti, arrivando alla fine ad abituarsi all’atte-sa, a familiarizzare con i portieri, ad adagiarsi nella loro condizione. È stridente il contrasto tra questi individui, ossessionati dalla fabbrica, eppure così inerti, e l’efficienza degli operai assunti: alla modernità dei lavoratori si contrappone l’at-teggiamento di clientelismo nei confronti dei dirigenti, la corruzione, condotta con metodi goffi e maldestri. All’immagine dei lavoratori restii persino a scioperare si contrappone la figura di chi arriva a seguire il protagonista fino a casa, di chi chiede la “parola d’onore” su una promessa di assunzione. Gli antichi usi della gente delle campagne meridionali

si scontrano con le politiche di una società, l’Olivetti, celebre per la sua attenzione ai di-pendenti. Dentro il capannone si comunica con chiare e formali lettere battute a mac-china dalla segretaria, fuori. ammiccamenti e mezze parole sono la regola. Stride il con-trasto fra lo stabilimento, costruito secondo canoni razionali, pulito, dalle pareti curate, dai pavimenti lisci e regolari, e il paesaggio circostante. Ottieri si profonde in lunghe ed appassionate descrizioni,così cariche di colori, di dettagli delicati, da sembrare inappropriate per un romanzo di letteratura industriale: il mare, la costiera, i villaggi, le radure in cui le coppie si appartano in automobile, la grande ferita, come un’ulcera, dell’acciaieria, che dal-la terra devastata si allunga con i suoi moli fino al mare, accogliendo navi cariche di carbone, che vengono scaricate nella notte, fra disumane grida di sirene, confuse con i gemiti dell’operaio rimasto ucciso durante il trasbordo del combustibile. Le radici del disagio della popolazione vanno cercate qui, in una terra diventata da hurnus (parola collegata etimologicamente a homo) mero e sterile solum, da sfruttare senza sen-timenti. Il valore materno della terra è scom-parso. Non genera più niente, è solo uno spa-zio da occupare, così come il mare, che non sostenta più gli abitanti, ed è rimasto solo una distesa d’acqua. Anche le tradizioni e la religione, snaturate una volta venuto meno il legame con la terra, hanno perso la loro gra-vitas. I frati predicatori, con la loro presenza quasi a sorpresa, nel loro spostarsi a drap-pello solo lontanamente ricordano i loro pre-decessori; addirittura il megafono fissato sul tetto della loro macchina è ridicolo.

78 79

Nelle lettere di raccomandazione, firmate da esponenti dei poteri tradizionali, vescovi in primis, e regolarmente cestinate, vi è la sin-tesi di uno scontro che non lascia scampo a tali istituzioni, che ne escono sminuite, ridot-te alla loro parte deteriore, quella del cliente-lismo, del nepotismo. Anche la politica non è immune: le proteste sociali perdono ogni carattere eroico, ro-mantico, si dissolvono in una realtà che non può assimilare la cultura della rivolta, dell’au-todeterminazione, schiacciata da una quoti-dianità opprimente. Nulla può arginare questo declino, nemme-no un’ azienda, l’Olivetti, che, caso unico nell’Italia del boom economico, ha messo in atto tutte le misure possibili per rendere meno pesante il lavoro agli operai. Ritroviamo, quasi come note marginali, tutte le politiche tipiche dell’industria eporediese: dalla biblioteca al dopolavoro, fino ai sog-giorni montani, ossessione del Saluggia di Volponi. In Ottieri troviamo un’ analisi accu-rata e ponderata del disagio del meridione, condotta attraverso l’osservazione delle vere cause, del rapporto impossibile fra la fabbri-ca e la campagna, della perdita dell’identi-tà di un popolo. Seppure a un primo esame siano possibili dei paragoni con la narrativa di Giovanni Verga, sia per l’ambiente socia-le analizzato, sia per il metodo, l’analisi di Volponi non sfugge ad un latente pessimismo nelle capacità dell’analisi scientifica dei pro-blemi sociali: serpeggia una vena di sfiducia nei confronti della psicotecnica, quando vie-ne applicata alle problematiche reali. Il professionista sembra a volte nascondere come un moto di repulsione verso una meto-dologia, quella dei test oggettivi. costretta ad

una analisi precisa, ma superficiale, di indivi-dui complessi. La descrizione delle prove di abilità mecca-nica trasmette l’impressione di una profes-sione, quella del protagonista, lontana dalla vita della fabbrica: nel laboratorio si montano e smontano macchinari inutili, dal nome dal sapore vagamente grottesco (Moede), men-tre è solo nell’officina che la vita scorre re-almente, è solo qui che nascono le macchine vere. Forse anche il fatto che non si conosca nÈ il nome del protagonista, nè della sua as-sistente accomuna le posizioni di Ottieri alla disillusione di Svevo per l’analisi della psiche. La lettura del romanzo non spinge nè ad una pietosa compassione nei confronti dei dispe-rati in cerca di lavoro, né stimola alcun moto di repulsione verso individui improduttivi, così lontani dalle regole di una civiltà evoluta. “Donnarumma all’assalto” dimostra l’impos-sibilità di esportare un modello economico, una scala di valori, un modo di essere in un territorio che non li può sopportare. Nonostante le migliori intenzioni, tutti gli atto-ri della vicenda ne escono indeboliti, consu-mati dal confronto. È questo il grande pregio di Ottieri: aver par-lato di industria senza limitarsi ai, seppur gra-vi, problemi che la riguardano direttamente, ma consegnando ai lettori un messaggio di valore generale, mai tanto attuale come in questi tempi.

81

1. Fra le iniziative collegate al “Premio Biella Letteratura e Industria”, allo scopo di diffondere il gusto e l’abitudine alla lettura di testi non soltanto finalizzati ai programmi scolastici, Città Studi, in collaborazione con l’Associazione l’Uomo e l’Arte, bandisce un concorso aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori della Provincia di Biella.

2. Il concorso prevede l’istituzione presso ogni istituto superiore di un Laboratorio di Lettura coor-dinato da un docente in funzione di esperto. Ogni Laboratorio riceverà in lettura l’opera vincitrice del Premio Biella Letteratura e Industria, edizione 2005 (Raffaele Nigro, Malvarosa, Rizzoli) e i suoi componenti si impegneranno in una prova di scrit-tura elaborando ciascuno un proprio saggio sul volume prescelto.

3. Gli elaborati ritenuti migliori potranno venire pubblicati sui giornali della provincia di Biella.

4. Il vincitore riceverà un premio di 1.000 euro (nel caso che l’elaborato sia frutto di un lavoro di grup-po l’importo verrà suddiviso tra i suoi componen-ti).

5. Gli elaborati dovranno essere inviati alla Segreteria del “Premio Biella Letteratura e Industria” - Città Studi S.p.A., Corso Pella 10, 13900 Biella, entro il 10 ottobre 2007.

6. Ogni elaborato dovrà indicare le generalità del concorrente, nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, scuola e classe frequentata.

7. La giuria del concorso è composta da docenti in rappresentanza delle scuole superiori del Biellese e da tre membri dell’Associazione L’Uomo e l’Arte.

8. I risultati del concorso verranno resi noti in oc-casione della cerimonia di consegna dell’edizione 2007 del “Premio Biella Letteratura e Industria” che avrà luogo il 26 ottobre 2007.

Presidente: Pier Francesco Gasparetto, Premio Biella Letteratura Industria

Elena Cornara ass. l’Uomo e l’Arte

Franca Di Palma, Istituto Tecnico “E. Bona”

Lina Guido Rey, ass. l’Uomo e l’Arte

Ada Landini Zanni, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella

Ivana Masciavè, Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Anna Petrini ass. l’Uomo e l’Arte

Enrica Rauso, ITIS “Q. Sella”

Giuseppe Trimboli, Liceo Scientifico “A. Avogadro”

IL BANDO LA GIURIA

IL CONCORSO DELLE SCUOLE 2007

82 83

chi ti ama. Scegli di non lasciarti più attraver-sare da eventi e persone di cui cogliere solo un tornaconto personale effimero e deluden-te. Scegli di superare la debolezza di chi si lascia vivere e di diventare protagonista della tua vita.La tua storia inizia con te che metti da parte il tuo distacco, rivivi gli affanni per l’azienda della tua famiglia, nel cuore di quel progetto c’è la possibilità di riscatto sociale che cer-chi, forse l’ occasione di dimenticare la ver-gogna che provi. Proprio della tua famiglia mi colpisce la convi-venza di due posizioni politiche opposte come quella del padre e del nonno. Anche l’ interesse alla politica è una specie di riscatto, serve loro per non diventare bestie da lavoro o ruderi da assistere, per definire sé stessi, per non dimenticare chi sono in mezzo allo sfacelo del Sud. La posizione che assu-mono è giustificata da idee concrete matura-te con il tempo, o da esperienze vissute che ora riaffiorano, senza ormai avere più senso perché superate. Così il padre trova la propria dignità nella presa di coscienza dei diritti degli operai, e il nonno nei ricordi della sua parte-cipazione alla guerra civile spagnola. Una scossa li riporta alla realtà quando questa di-venta quasi insostenibile e per fortuna trovano rifugio nella famiglia, nelle cure delle persone che più o meno dalla nascita, più o meno per amore o necessità, prestano soccorso e con-solazione aspettandosi a loro volta la stessa accoglienza. E alla fine c’è anche chi, stanco della realtà, provato, gioca con la memoria, incollando un pezzo qui e un pezzo là, dimen-ticando, mescolando, molto aiutato dal morbo di Alzheimer: la mamma. Forse le famiglie oggi non sono più spaccate come la tua, non dalla

politica almeno, ma certo c’ è una solita triste frattura tra figli e genitori, tra voglia di evasio-ne e atteggiamenti protettivi, (soffocanti?), che vorrebbero tutelare la stabilità della famiglia. Al Sud persiste il tentativo di riscatto che si traduce con trasferimenti al Nord in cerca di lavoro, con città che si sviluppano in vertica-le ma nelle quali la gente continua ad avere pochi metri quadri di appartamento e scarse possibilità.Poi tu, Eustacchio rivivi i momenti con Sou-keyna, con il tuo amico Che Guevara, rivivi la religiosità maniacale di tua madre, la follia di tua zia. Qui non c’è futuro, ti ripeti, non impor-ta dove “qui” sia; cerchi posti nuovi ma che siano un po’ simili a casa. Poi quando ci sei, cerchi un colore, un odore, o altro che ti fac-cia sentire qualcosa del posto che hai lascia-to: una malvarosa per esempio. Non provi a spiegare agli altri questa tua esigenza, perché sarebbero tutti troppo disponibili a farti notare com’è bella la malvarosa, come sono stupendi i frutteti e gli uliveti delle campagne lucane.

Eustachio, tu hai viaggiato…grazie al tuo fiuto meraviglioso e agli scrupoli che non ti sei fatto. Porti alla luce tombe e disturbi i morti e poche volte avverti timore per aver fatto irruzione nei loro letti di terra e argilla. L’America, il Nord Africa, questi sono i tuoi viaggi; ma adesso sai che l’unico valido, che merita di essere fatto cento altre volte è quello che ti porta verso Adithiane, tua figlia. Due sono le cose che ti possono guarire dalla malattia del viaggio, Eustà: un grande amore ed una (un po’ rischiosa) mescolanza di cultu-ra. No! Non è da temere…ma quando la gente capirà? È così sempre affannata a proteggere sotto una campana di vetro le tradizioni, i co-

PRIMO PREMIOMarta Barberis ITIS “Q. Sella” Liceo Scientifico Tecnologico - Biella

Batticuore: questo è quello che ho provato aprendo il libro di Nigro. Cosa si potrà scrive-re riguardo il fiore di malvarosa in così tante pagine? Malvarosa è un simbolo. Nessuna delle bel-lezze della natura, come quel fiore rosa, vale la tua prigionia, pensi così, vero Eustachio? Chi ha la malattia del viaggio, come me e te, non vede più niente, guarda solo lontano, ol-tre i posti in cui è nato e si sente i piedi di piombo. E un’ inquietudine continua, il desi-derio di partire con il quale cresci o con cui resti adolescente. Eustachio, ripercorri la tua vita e quando il tuo lungo racconto comincia ho un po’ di esi-tazione.. possiedi un olfatto incredibile e per descrivere gli spazi e gli eventi lo sfrutti. Ma le persone sono abituate a ritrarre usando solo i loro occhi, tu invece dai a noi le chiavi di una sensibilità che affascina, quella agli odori. I quadri che offri sono così pietosi per me! Un Sud devastato dagli abusi, dalla mafia e dalla disoccupazione; e tu! guardati ora! non vedi che per primo calpesti questi luoghi? É così difficile pensare che una loro valorizzazione sia una spinta d’ inizio per tutti? Non salverà tua sorella Cristina dalla malattia, non cancel-lerà molte piaghe che inesorabili tolgono la vita, non allevierà il dolore che provoca l’ im-potenza di non poter aiutare chi ami, ma non per questo ti farai travolgere da questo scem-

pio, promettimelo! Non scenderà dal cielo un angelo che ricomporrà ogni disarmonia, nien-te può sostituirsi all’ impegno dell’ uomo.Scusa se non parlo di questi argomenti con sufficiente adesione alla realtà, quelle che ho detto sono parole, c’è un abisso da qui a rea-lizzarle, posso capire quanto sia difficile…El Houssi invece ti ascolta senza pretese, senza giudizi, senza egoismo. Non puoi esse-re né migliore né peggiore di quello che sei, non puoi mentirgli. È disposto ad ascoltare ogni particolare che ritieni importante, anche scabroso; accetterà di sentirti raccontare gli errori più gravi e le più intime paure. Non ha intenzione di strapparti un pentimento o co-stringerti a dire quello che lui vuole sentire. Né di valutare le tue azioni alla luce di morali retoriche e banali. Ti ascolta come nessuno ha fatto prima. E vedendo lui ti ascolta con tanta partecipazione hai proprio voglia di dir-glielo: quando l’hai visto per la prima volta non avresti mai pensato ad un’amicizia con lui, hai pensato che la differenza di cultura potesse essere un ostacolo che non avresti mai avuto voglia di provare a superare.È una pigrizia imperdonabile, quella che ti im-pedisce di andare oltre le apparenze e i luoghi comuni, che ti spinge a isolarti in quella che definisci su stesso un’eterna adolescenza.Quando te ne accorgi, dopo aver ricevuto il dono di vedere tanti luoghi prema inesplorati, e di fare tanti incontri con persone che soffro-no, al termine di questa sfilata di dolore, capi-sci che il tuo lungo raccontarti è rivolto solo a te stesso, durante un immaginario rapimento - una sorta di auto sequestro - che ti esclude dalle abituali distrazioni e ti riconduce alla tua autentica essenza. Cresci, impari a scegliere, e senti già la felicità che porterai nel cuore di

IL VINCITORE

84 85

stumi; a trattare con un occhio di sospettoso riguardo (inquisitore) che è “diverso”. Le tra-dizioni devono essere fatte vivere, mostrate con orgoglio, e confrontate. Molto sovente invece la gente chiude la pro-pria cultura tutta in un vasetto, come le ceneri di un antenato, senza spolverarla mai, senza mai rivalutarla! Si conservano le tradizioni più sanguinose e bestiali, ma perché? Tolleranza, uriosità, apertura a nuovi spazi ed orizzonti.., solo così il tuo paese non ti starà più stretto!

Soukeyna è stata la tua salvezza, di lei ti sei innamorato davvero. Non ho perdonato la tua propensione, nei momenti di rabbia, a consi-derarla come una persona “inferiore”. E non ti ho perdonato per quello che le hai fatto, l’ hai lasciata sola, respingendo lei e tua figlia e la responsabilità di padre che nessuno dovrebbe mai considerare un peso. Comunque, ora stai tornando da loro, è il tuo riscatto; se i tuoi pensieri dipendessero dalla mia penna, ti farei pensare che Adithiane è la migliore cosa che tu abbia fatto nella vita, come sono tutti i figli del mondo. L’ amerai per sempre.

Nigro non ci regala la dolcezza di conoscere il loro rapporto, ma conclude con i pensieri di quello che Eustachio le dirà. Non ci fa vivere con loro la meravigliosa ed esclusiva amicizia che possono avere un padre ed una figlia (a scapito di chi crede che solo le madri possano averlo pienamente), ed è un bene! Ognuno per giorni dopo aver finito la lettura, continuerà a chiedersi come Eustachio ab-bia cucito tutto con Adithiane, cosa faranno quando saranno insieme, così la storia verrà continuata proiettandovi qualcosa del vissuto

del lettore. Allora..Eustachio le insegnerà a di-fendersi, a vivere con rispetto e onore, scher-zeranno tra loro, e staranno svegli fino a tarda notte a parlare delle miserie del mondo.

PREMI SPECIALIAndrea CarbèIII A - Liceo Classico “G. e Q. Sella”

Giada e Mattia Cantono V C - Liceo Scientifico “A. Avogadro”

Anna Daniela Barretta II B - Liceo Classico“G. e Q. Sella”

Simone CecchettoII B - Liceo Classico“G. e Q. Sella”

Stefano FurlanII B - Liceo Classico“G. e Q. Sella”

Taishi Nakamura ITIS “Q.Sella”Liceo Scientifico Tecnologico Luca PregnolatoITC “E.Bona”

Progetto grafico e impaginazione: E20Progetti - Biella

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2008