I materiali litocementizi nei palazzi romani di fine 800 primi 900

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  • Ringraziamenti

    Desidero ringraziare tutti i Docenti del Collegio di Dottorato in Storia, Disegno e Restauro

    dell’Architettura, che hanno fornito un contributo alla stesura del presente lavoro di ricerca, nutrendolo

    di suggerimenti, osservazioni critiche e soprattutto rigore scientifico. Un sentito grazie al Supervisore, il

    Prof. Giovanni Carbonara, maestro attento e costantemente presente nella fase di elaborazione della

    ricerca. A lui va la mia profonda stima e riconoscenza per l’impagabile insegnamento e dedizione verso la

    disciplina trasmessami in questi anni. Un grazie ‘solare’ all’Arch. Elisabetta Giorgi del Laboratorio di

    Analisi dei Materiali: a lei il merito di aver interpretato e tradotto analiticamente lo spirito della ricerca.

    Grazie infine a Mirò, Fabrizio e alla mia famiglia e in particolare a mio padre a cui dedico questo lavoro.

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    Introduzione alla ricerca

    Introduzione

    La ricerca condotta ha come oggetto lo studio dei materiali litocementizi e la loro diffusione nel

    panorama costruttivo romano tra la fine dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento. Ad oggi, le

    vicende edilizie che hanno riguardato la città di Roma negli anni della titolazione a Capitale d’Italia

    hanno prodotto una vasta letteratura dal taglio prevalentemente storiografico da cui è emersa la

    necessità di fornire un contributo per un’interpretazione in chiave tecnologica, tale cioè da considerare

    l’architettura (al di là delle poetiche) un evento costruttivo e, come tale, indagato attraverso le sue

    componenti materiali.

    Il mancato riconoscimento delle ragioni storiche e tecniche dei litocementi ha comportato, nella

    maggior parte dei casi studiati, il sovvertimento dell’originaria destinazione a vista delle superfici e la

    completa negazione della possibilità di apprezzamento di tutti gli aspetti peculiari che esprimono

    l’autonomo e specifico valore di tali ornati. Quello dei ‘cementi’ è un ambito nel quale gli operatori si

    sentono, talora, autorizzati ad integrazioni e sostituzioni, interpretando in termini anticonservativi

    l’originaria ripetibilità degli ornati, talora a catalogo, ma sovente limitata al singolo edificio per la

    durabilità dei modelli utilizzati nella articolata composizione dei diversi lessici.

    Il periodo indagato è testimone della massima sperimentazione, a livello industriale e nazionale, di un

    nuovo legante, altamente plastico ed idraulico, il cemento, in grado di rivoluzionare un processo ormai

    consolidato nella produzione di manufatti in ‘pietra artificiale’; appellativo con il quale verranno

    identificati tutti i materiali derivati dalla composizione e lavorazione di una miscela a base di legante

    idraulico (cemento, calce, calce/cemento) e aggregati, da impiegare in alternativa ai materiali lapidei

    naturali, dei quali si imitavano: grana, colore, lavorazioni superficiali, resistenza, durezza, etc.

    Procedimenti di mimesi dei materiali lapidei naturali erano infatti già noti fra le maestranze della società

    pre-industriale sebbene ottenuti con artefici ed impasti differenti: autenticità progettuale e finzione

    materica per un risultato formale e costruttivo legittimato da ragioni economiche e dalla facilità di

    esecuzione; un connubio, quest’ultimo che caratterizzerà anche lo sviluppo dei materiali litocementizi

    con ricadute evidenti sulle tempistiche e l’organizzazione del cantiere edile. Si tratta di una vera

    innovazione tecnologica, a volte anche radicale rispetto alla tradizione costruttiva precedente, un

    fenomeno socio-culturale volto al perseguimento di un linguaggio architettonico ‘unitario’, intriso di un

    forte desiderio di ‘modernismo’, sulla scia di quanto già avveniva in contesti internazionali.

    Non è un caso che la fase di sperimentazione dei litocementi coincida con l’affermarsi dello stile Liberty

    e Decò ove la plasticità degli impasti diviene congeniale all’esecuzione di elaborate decorazioni

    naturalistiche, identitarie delle ‘nuove maniere’ secondo criteri di produzione in serie icastica.

    In tale contesto, ai litocementi è delegato il ruolo di assolvere a compiti strutturali e formali insieme,

    affiancando parallelamente la tecnica del cemento armato con la quale condividono, oltre alle

    prestazioni tecnologiche, gli atteggiamenti spesso discordanti maturati nei salotti culturali e scientifici di

    quegli anni. La localizzazione geografica e dunque l’impiego dei litocementi a Roma, è in tal senso un

    fattore di discrimine rispetto a quanto accadeva in altre città italiane, molto lontane dalla complessità

    dei problemi che investivano la capitale.

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    Introduzione alla ricerca

    A cominciare dal ruolo istituzionale, da un’immagine architettonica e archeologica consolidata e

    ‘tutelata’ contro i possibili nuovi ‘imbarbarimenti’ lessicali, la crescita urbana poneva questioni che, dal

    pubblico al privato, richiamava la politica e il mondo dei professionisti, a mediare fra scelte linguistiche,

    tecniche innovative, produzione e risparmio.

    Gli strumenti adottati per la gestione del patrimonio immobiliare, esistente e da realizzare, erano quelli

    di carattere urbanistico-amministrativo con i quali si avviava contemporaneamente il processo di

    trasformazione dei suoli, destinati all’edificato, e l’attività speculativa dei grandi investitori, autorizzati

    tramite il meccanismo delle convenzioni.

    Alle Scuole d’Arte Applicate all’Industria e alle Accademie veniva chiesto di formare i tecnici che

    avrebbero partecipato alla concretizzazione architettonica e artistica delle previsioni di Piano: architetti

    e ingegneri affiancati da scultori, modellatori, ceramisti, pittori, cementisti, assunti ad operare (in base

    al grado di notorietà) nei cantieri della Roma ‘bene e popolare’.

    Parallelamente ad una crescita in verticale, si operava in orizzontale, sul piano infrastrutturale che

    avrebbe favorito l’edilizia nelle aree non collegate e la localizzazione strategica dei nascenti complessi

    industriali, oltre ad una velocizzazione del trasporto dei materiali da costruzione. Tra questi, il cemento,

    la pozzolana e la sabbia arrivavano a Roma da località vicine come Civitavecchia, Santa Marinella, Segni,

    e poco distanti come Foligno, Terni, Benevento, ritrovandosi poi, variamente dosati e lavorati nelle

    malte di allettamento o di ‘finimento’ che i capitolati allegati ai progetti prescrivevano, o nelle ‘ricette’,

    coperte da brevetto che, imprenditori locali facevano registrare presso il Ministero dell’Agricoltura del

    Commercio e dell’Artigianato.

    Ultimata la fase di applicazione plastico-decorativa, del primo ventennio del Novecento, i litocementi si

    reinventano come materiali da rivestimento nelle fabbriche razionaliste e dell’architettura littoria. Un

    processo, questo, favorito dalla politica autarchica imposta dal regime fascista a cui seguirà la ripresa

    delle attività estrattive con un incremento dell’uso delle pietre e dei marmi italiani, limitando, di contro,

    la produzione dei litocementi utilizzati solo, per questioni economiche, come surrogati del marmo e del

    travertino: uno dei migliori materiali richiesti dal regime. Relegati ad un ruolo marginale, subiscono, in

    questa fase, una battuta di arresto, soprattutto nei cantieri più prestigiosi, quelli dei grandi edifici

    pubblici dove l’artificio imitativo viene perseguito con l’uso di lastre lapidee da rivestimento, posate in

    opera con giunti continui ed elementi di ancoraggio dalla sezione ridotta, quasi invisibile, a simulare la

    grande massa muraria, sebbene all’interno si celi una struttura intelaiata in calcestruzzo armato.

    Nel completare l’inquadramento di carattere storico-culturale, la dissertazione prosegue con gli

    approfondimenti di tipo tecnico sulla composizione, produzione e applicazione dei materiali oggetto di

    indagine. I dati conoscitivi sono stati attinti da: riviste tecniche, pubblicistica, manuali, ricettari, brevetti,

    questi ultimi selezionati per ambito nazionale e locale, nell’arco temporale prescelto.

    L’avvicinamento al mondo imprenditoriale romano e all’applicazione dei materiali in cantiere, si è

    avvalso invece, della lettura della documentazione (capitolati, relazioni, elenco-prezzi) di progetto

    depositata presso l’Archivio Storico Capitolino (per tutti gli edifici realizzati entro il 1931), l’Archivio

    Centrale dello Stato, per l’analisi dei fondi della U.E.N. (Unione Edilizia Nazionale) e dell’Ufficio Italiano

    Brevetti e Marchi (1865-1965) e, in ultimo, l’Archivio privato dell’architetto Enrico Del Fa, per quanto

    concerne l’attività del professionista impegnato nella progettazione e direzione lavori di alcuni edifici del

    quartiere ‘Coppedè’, di Piazza Caprera (con il progetto di Gustavo Giovannoni) e del quartiere San

    Lorenzo. Definiti gli ambiti di applicazione locale, nei capitoli 3° e 4° la ricerca ha approfondito più da

    vicino la materia costituente i litocementi, attraverso i suoi componenti e le modalità operative in opera

    e fuori opera, quest’ultime, finalizzate al loro riconoscimento, nelle fabbriche individuate come casi

    studio: il villino e il cementificio ‘Cerrano’ a Santa Marinella (RM), i padiglioni industriali degli ex Mercati

    Generali sulla via Ostiense: Ittico e Ovipol e il palazzo detto degli ‘Ambasciatori’ su via Dora. I dati

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    Introduzione alla ricerca

    sensibili, emersi fra ricerca archivistica e bibliografica e riscontri in situ, hanno fornito spunti di

    riflessione per orientare un programma diagnostico finalizzato ad integrare di notazioni pratiche e

    informazioni di cantiere quel che non emergeva dai documenti o che poteva solo ipotizzarsi ma,

    soprattutto, a riconoscere qualità e caratteristiche del legante e degli aggregati di confezionamento

    delle malte utilizzate differentemente negli ornati. La lettura analitica dei dati è stata condotta sia sul

    piano macro che microscopico, avvalendosi di sezioni lucide preparate con il materiale di

    campionamento prelevato. Le osservazioni al Microscopio Ottico Polarizzatore e le interpretazioni sulle

    modalità compositive oltre che tecniche hanno corredato le schede della parte conclusiva di questo

    lavoro in cui si pone l’accento sull’importanza di una preliminare conoscenza storico-tecnica che funga

    da supporto per il progetto di diagnostica (attraverso una mirata selezione delle analisi da condurre):

    momento di verifica e approfondimento scientifico finalizzato alla ‘messa a punto’ di una metodologia

    d’intervento conservativo e di autentico restauro che possano restituire dignità ad una cultura materiale

    che ha caratterizzato buona parte dell’edilizia otto-novecentesca e sulla quale gli interventi finora

    effettuati sono, al più, correttamente ascrivibili alla categoria della ‘manutenzione straordinaria’.

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    1 I materiali litocementizi:

    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    1. I materiali litocementizi:

    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    Sul piano squisitamente linguistico, i materiali litocementizi sono una ‘miscela’ variamente ‘formata’ di

    cemento e aggregati di natura lapidea e pertanto, si attesta l’utilizzo nel mondo delle costruzioni solo

    dopo la scoperta della componente cementizia. Rientrano nella normata1 classificazione dei materiali

    lapidei artificiali ovvero, dei prodotti che derivano dalla lavorazione e trasformazione di materie prime di

    origine naturale (stucchi, malte, intonaci, prodotti ceramici), ma rispetto a questi si caricano di

    intenzionalità mimetiche, formali e strutturali, che mutano arbitrariamente secondo il periodo di

    adozione e la localizzazione geografica. Motivazioni culturali e regionalismi determinano la diversificata

    applicazione degli stessi in ambito nazionale.

    Appartengono ai ‘litocementi’, le ‘pietre artificiali o artefatte o ricostruite’ e i ‘cementi decorativi’, i due

    volti della stessa medaglia: composizione analoga per un utilizzo semanticamente diverso: imitativo-

    materico per la pietra artificiale, imitativo-formale per i cementi decorativi. Denominatore comune:

    l’artificio mimetico, fattore di dibattito fra i fautori della ostentata sincerità costruttiva.

    (…) La tecnica moderna forniva possibilità di soluzioni statiche ignote ai secoli passati, così gli scheletri

    divennero più snelli, più forti e più economici, mentre lo scalpello pneumatico, le seghe, i calchi,

    inondarono coi loro prodotti l’esterno visibile degli edifici. L’industriale accortosi di questa panacea, offrì

    subito quello che quell’eclettismo amante della decorazione domandava. E questo materiale decorativo,

    preparato in serie, fu avidamente divorato da tutti i cantieri, specie nell’esecuzione dell’architettura

    minore che si accontentò di surrogati (…); gran parte difatti dei materiali moderni sono nati sotto questa

    luce: sostituire a minor prezzo materiali più nobili.(…)2.

    I manufatti in litocemento costituiscono gli apparati decorativi della maggior parte degli edifici realizzati

    fra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, un periodo che registra lo sviluppo parallelo delle

    prime applicazione del calcestruzzo armato. Non è casuale che fra le due tecniche si riscontrino

    numerose affinità, investendo sia i materiali costitutivi che i dosaggi degli impasti ma anche la stessa

    modalità di produzione ed esecuzione dei prodotti finiti. Una peculiarità che riguarda soprattutto gli

    elementi ‘gettati in stampi o casseforme’ dove maggiore è l’analogia con il conglomerato cementizio del

    nucleo interno. Altra affinità tecnica è l’inserimento di elementi metallici all’interno del getto che, per

    modellati con funzione prettamente decorativa non contempla un preliminare calcolo delle

    sollecitazioni e delle resistenze dei materiali, ragion per cui si provvede a dimensionarli e distribuirli

    secondo l’esperienza maturata in cantiere, avvalendosi delle tecniche da stuccatore (figg. 02-05).

    Ma l’innovazione tecnologica non riguarda solo la componente materica quanto piuttosto la

    riproducibilità seriale dei componenti, tematica questa che sarà una delle principali cause di

    destabilizzazione del concetto di autentico, dell’assenza di un originale. Ma in fondo, per le

    1 Norma UNI 11182 / aprile 2006. Beni culturali, Materiali lapidei naturali ed artificiali. Descrizione della forma di alterazione -

    Termini e definizioni. 2 MELOGRANI C., Giuseppe Pagano, Il Balcone, Milano 1955, p.50.

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    1 I materiali litocementizi:

    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    caratteristiche intrinseche del processo costruttivo industriale oltre che edilizio in sè, l’originale

    dovrebbe coincidere con il singolo modello utilizzato per la formazione di un numero comunque limitato

    di pezzi (non più di dieci) che partecipano singolarmente alla storia costruttiva della fabbrica nell’atto

    della loro immissione. Il loro moltiplicarsi non implica una perdita di valore, l’offuscamento dell’aura,

    secondo il pensiero di Benjamin3, in quanto l’architettura è un’arte che fa del ritmo e quindi della

    ripetizione dell’elemento una base costitutiva. Il valore aggiunto è da ricercarsi nella simultanea

    partecipazione dei singoli pezzi al vissuto dell’intero organismo che in quanto tale ha una propria

    autenticità.

    Nel processo ‘industriale’, la riproposizione sequenziale di pezzi non sempre genera la

    commercializzazione degli stessi ma investe singolarmente il cantiere di destinazione: unità potenziale di

    arte e tecnica attraverso l’assemblaggio dei singoli elementi.

    Fig.01 Pubblicità di alcuni dei più comuni prodotti in cemento disponibili in commercio.

    La pubblicistica (fig.01) al riguardo suggerisce la tipologia dei prodotti già confezionati che possono

    essere direttamente acquistati e posati dalle imprese: mattonelle, condotte, graniglie, quadrelli esagoni,

    gradi e sottogradi, tegole universali, canali e tubi di gronda, ardesie artificiali, blocchi cavi, canne

    fumarie, rivestimenti, materiali da finitura, e quanto non strettamente legato alla produzione in opera

    che, al di là della maestria dell’esecutore e della professionalità del progettista, conferisce alla fabbrica

    una valenza ancora ‘artigianale’. Basti pensare al trattamento finale delle superfici (piane e a rilievo)

    che, dalla selezione dei fondi agli aggetti plastici, necessita dell’abilità delle maestranze (scalpellini e

    cementisti), per il raggiungimento ottimale dell’effetto mimetico con il materiale lapideo da imitare.

    E allora diventa straordinariamente affascinante ‘l’arte moderna del fabbricare’ in un continuo rimando

    ai modi della tradizione: fra certezze tecniche consolidate e sperimentalismi contemporanei.

    La tecnica di produzione della ‘pietra artificiale’ che aveva trovato le sue prime applicazioni in Inghilterra

    nel XVIII secolo, in piena Rivoluzione Industriale, si affermò poi in Francia, (migliorata nella

    composizione, con l’aggiunta di polvere di marmo e calce), per essere utilizzata nella modellazione degli

    apparati scenografici richiesti dalla nobiltà imperiale e, come tale, destinata ad un uso temporaneo. In

    tal senso, i requisiti dell’impasto comprendevano anche la economicità e la rapidità di lavorazione. Nei

    decenni successivi, la domanda di elementi decorativi ‘in serie’ fu tale da incentivare gli ‘ideatori’ al

    deposito dei primi brevetti.

    È del 1838 il brevetto Lenseur4 per una pierre cérame , ovvero un materiale simile alla pietra calcarea

    naturale e come tale soggetta alle medesime lavorazioni. Cinque anni dopo, nel 1843, Jean-Auguste

    Lebrun depositava la richiesta per una pietra artificiale dall’elevate qualità estetiche e di durezza, pierre

    hydroplastique. Una sperimentazione che gli valse l’apprezzamento dei professionisti (architetti e

    3 BENJAMIN W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000.

    4 NEGRE V., L’ornement en série. Architecture, terre cuite et carton-pierre, Mardaga, Parigi, 2006.

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    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    ingegneri) all’Esposizione Universale di Parigi del 1855: non è soggetta a ritiro (…) ed è stata sottoposta

    a diverse prove come: schiacciamento e usura per attrito e gelività5. Le qualità della pietra di Lebrun

    furono apprezzate al punto da essere citate nei Manuali dei primi del Novecento e tra questi, ‘Il

    Manuale dell’Architetto’ di Daniele Donghi che ne riporta la composizione: si riducono insieme e in

    polvere molto fina 5 parti di pietra da calce o da cemento e 1 di carbon coke. Di tale polvere se ne fanno

    delle mattonelle che si cuociono in forni ordinari e che quindi si polverizzano dando luogo alla polvere

    detta hydro. Si mescola questa polvere con sabbia nel rapporto 1:3 e si comprime il miscuglio ridotto in

    pasta entro le apposite forme6. Oltre alla ‘Lebrun’, Donghi elenca altri tipi di pietra artificiale derivati da

    brevetti inglesi e francesi, quali la pietra Randsome, la Victoria Stone, la Barteau, e la Wilson.

    Rispetto alla Francia o all’Inghilterra e alla Germania, in Italia la diffusione di questi materiali fu in

    percentuale minore, in parte dovuto alla presenza di grandi quantità di pietre e marmi naturali e in parte

    ad un retaggio culturale che negava ogni valenza estetica a quelli che inizialmente venivano considerati

    dei surrogati della pietra naturale suscettibili di ‘frodi’ citando un pensiero di Ruskin nella ‘Lampada

    della Verità (1849)’. può darsi che non siamo capaci di far nascere a comando un’architettura buona, o

    bella, o inventiva; ma possiamo imporre un’architettura onesta: si può perdonare la secchezza di ciò che

    è povero, si può rispettare l’austerità di ciò che è utile, ma cosa vi può essere se non disprezzo per la

    meschinità di ciò che è falso? (…) Tra le frodi in architettura, vi è l’uso di ogni genere di decorazioni

    eseguite a stampo o a macchina (…) falsificazioni superficiali (…) artifici che creano l’effetto di qualche

    forma o materiale che in realtà non esiste. Ma dobbiamo stare molto attenti che il male di queste cose

    consiste sempre nel deliberato proposito di ingannare, e che fissare il punto in cui l’inganno comincia o

    finisce è una questione che richiede una certa sottigliezza7.

    Riportando il monito di Ruskin sul dualismo fra pietra artificiale e cemento decorativo, dei due , il primo

    rischia di essere maggiormente accusato di falsità per la presunzione di voler simulare la pietra naturale

    nelle sue peculiarità: massa, grana, resistenza e nobiltà, imitare materiali ‘vivi’ quali il legno, la cui

    naturale deperibilità viene risolta con l’impiego di ‘legni artificiali’ frutto di miscele di cemento

    magnesiaco e farina di legno o segatura (Cfr., Cap.3) quando non si ricorra direttamente a ‘cemento

    armato’ come nel caso della finestra gotica8 della chiesa di S. Augustin a Kingston upon Hull (fig. 04).

    Il conglomerato utilizzato per le membrature architettoniche della finestra era costituito di 2,5 parti di

    granito e sabbia macinati insieme e di 1 parte di cemento Portland. Il cemento e la parte inerte vennero

    profondamente mescolati a secco, con mezzi meccanici mentre l’impasto umido venne formato a mano9.

    In questo caso sarebbe più corretto riprendere il sostantivo ‘cemento decorativo’ per la dominanza della

    componente imitativo - formale alla finalità dell’impasto. Caratteristica che connoterà tutta la

    produzione architettonica Liberty in una commistione di materiali tradizionali, quali la ceramica, il ferro,

    il vetro, i laterizi e, artificiali come ‘i cementi’. Architetti, plastificatori, cementisti e scalpellini,

    riproducendo forme naturali con l’uso di un materiale artificiale, conferiscono animazione vitale a una

    materia che ne è intrinsecamente priva, costituiscono forme da miscele che, prima del getto, hanno

    consistenza pulverulenta e che, quindi, lasciano completa libertà all’atto creativo, una creatività che è il

    principio stesso che governa l’uso di materiali presupposti inespressivi, quali il cemento10.

    Nel Liberty, architettura e decorazione vanno di pari passo e il progetto si articola nella composizione

    alle varie scale di elementi strutturali e figurativi assieme. Questo conferisce alle miscele cementizie la

    duplice funzione che, per le ragioni sopra esposte, è propria dei litocementi e non esclusiva dei cementi

    5 L’Ami des sciences, Anno I, n. 50, dicembre 1855, p.416.

    6 DONGHI D., Manuale dell’Architetto, Torino, 1925, Vol. I, Parte Prima, pagg. 300-357.

    7 RUSKIN J., Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, Milano, 1982, pp.70-79.

    8 La finestra ha un’altezza di m 6,10 con una larghezza di m 3,96, realizzata in cemento armato dalla Hull Concrete Stone & Co.

    su progetto di H. Andrew. Cfr., Il Cemento, XIX, 1922, 11. 9 Ibidem.

    10 GIOLA V., Cementi Decorativi Liberty. Storia, tecnica, conservazione, Edizioni Quasar, Roma, 2009, p.48.

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    1 I materiali litocementizi:

    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    decorativi. La decorazione di facciata entra in sinergia con il supporto murario nella percezione fittizia di

    un unicum architettonico intaccando quella sincerità costruttiva tanto difesa da John Ruskin e ancor più

    da Adolf Loos per il quale come ogni materiale possiede un linguaggio formale che gli appartiene e

    nessun materiale può avocare a sé le forme che corrispondono ad un altro materiale. Perché le forme si

    sono sviluppate a partire dalla possibilità di applicazione e dal processo costruttivo propri di ogni singolo

    materiale. Nessun materiale consente una intromissione nel proprio repertorio di forme. Chi osa,

    ciononostante, una tale intromissione, viene bollato dal mondo come falsario.11 Il giudizio di Loos nei

    riguardi dell’ornamento come principale artefice della degenerazione architettonica è in linea con le

    posizioni che emergono tra i partecipanti al IX Congresso Internazionale degli Architetti del 1911 che sul

    tema ‘dell’architettura moderna’ esprimono la preoccupazione per una dichiarata ‘anarchia di gusto’

    che ‘sotto la bandiera della libertà di fantasia’ conduce l’architettura verso un processo di

    ‘imbarbarimento’ che non può essere condiviso e permesso (…).L’architettura non deve avere niente di

    bugiardo, niente di artificiale. Ogni decorazione dev’essere logica, organica ed uniforme alla natura

    dell’edificio12.

    A Roma, gli eccessi mistificatori del Liberty acquistano toni più pacati, si affievoliscono ove si adagino su

    organismi architettonici inseriti entro la città storica e lo dimostra il lascito che gli architetti dei primi del

    XX secolo hanno realizzato. Il clima culturale entro cui si operava, aveva condizionato fortemente

    l’adozione di materiali moderni nei cantieri di neo formazione al punto che se ne denunciava

    liberamente l’utilizzo qualora destinato a funzioni strutturali, ingegneristiche, per le quali si chiamavano

    in campo le migliori ditte esperte in strutture in c.a., coma la Porcheddu, la Ferrobeton, la Provera, per

    citarne alcune. Meno esplicita era la volontà di piegare i materiali cementizi alla riproduzione di

    elementi prima realizzati in pietra o marmo. Ma il cemento era il materiale che alla ricchezza della

    espressività formale avrebbe affiancato l’economicità della realizzazione garantendo anche alle classi

    meno agiate il godimento della bellezza architettonica e ponendo l’Arte alla ‘portata di tutti’,

    motivazione che permise, ai costruttori e agli architetti romani di regalare alla città esempi di edilizia

    civile di raffinata eleganza.

    Terminato l’utilizzo prevalentemente plastico e decorativo, i litocementi si reinventano come materiali

    da rivestimento nelle fabbriche razionaliste e dell’architettura littoria. Un processo, questo, favorito

    dalla politica autarchica imposta dal regime fascista già dai primi anni Venti del XX secolo.

    Il periodo seguente segnerà la ripresa delle attività estrattive con un incremento dell’uso delle pietre e

    dei marmi italiani, limitando, di contro, la produzione del litocemento utilizzato solo per questioni

    economiche, come surrogato del travertino, uno dei migliori materiali richiesti dal regime, la cui

    tessitura, ricca di cavità allineate poteva facilmente essere imitata con l’uso di un impasto cementizio

    chiaro additivato a cristalli di sale opportunamente inseriti.

    Relegati ad un ruolo marginale, i litocementi, subiscono in questa fase una battuta di arresto soprattutto

    nei cantieri più prestigiosi, quelli dei grandi edifici pubblici dove l’artificio imitativo viene perseguito con

    l’uso di lastre lapidee da rivestimento posate in opera con giunti continui ed elementi di ancoraggio

    dalla sezione ridotta, quasi invisibile, a simulare la grande massa muraria, sebbene all’interno si celi una

    struttura intelaiata in calcestruzzo armato. La ricerca esasperata di ‘modernità’, nel tentativo di

    conferire un senso di monolitica purezza, porterà verso un processo di astrazione formale della parete

    con conseguenze anche strutturali dovute ai fattori appena descritti. Si genera, a dir poco, un

    sovvertimento delle funzioni proprie dei materiali: da un lato, i litocementi, in qualità di impasti,

    simulano i materiali lapidei non solo nella cromia, grana e finitura superficiale, ma anche nelle

    dimensioni e negli spessori, permettendo la realizzazione di ornati e decorazioni plastiche di alto valore 11

    LOOS A., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972, pp.79-86. 12

    Atti IX Congresso degli Architetti, Roma 2-10 Ottobre 1911, Tipografia Coop. Diocleziana, Roma, 1914, pp. 323-327.

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    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica e riproducibilità formale

    artistico e di ‘democratica’ utilizzazione. Un modo per rendere l’arte un bene comune nelle più svariate

    destinazioni d’uso: dai complessi residenziali dell’alta borghesia, ai palazzi ministeriali, ai teatri, agli

    edifici scolastici fino all’edilizia economica popolare, le case per gli operai, gli spazi per il commercio, lo

    sport, i cinema e per finire le architetture cimiteriali. Un insieme di ‘oggetti’ architettonici cui la plasticità

    del cemento ha permesso di conseguire una dignità pari a quella conferita dalla pietra, in tempi

    relativamente brevi e soprattutto a costi ridotti. Dall’altro, i materiali lapidei, nella loro ‘sincerità

    materica’, sono utilizzati dalla corrente modernista e razionalista in modo del tutto nuovo, al di là della

    triade peso, volume e massa fino a quel momento esplicitata. Essi tendono a dilatarsi fino a simulare un

    rivestimento continuo13, a volte suggerendo la compattezza dei blocchi monolitici, a volte la leggerezza

    degli intonaci. Un’operazione edilizia a dir poco costosa, per niente criticata, per committenze

    selezionate, sebbene la costante imitativa permanga.

    13

    L’innovazione che favorì la produzione e conseguente affermazione del rivestimento sottile fu l’introduzione del telaio multilama, che divenne, a partire dagli anni Trenta, uno strumento diffuso per il taglio dei blocchi. Esso consentiva di ottenere una maggiore ottimizzazione del materiale e di accelerare i processi di lavorazione. A partire dal 1926 fino il sistema di taglio aveva incrementato la produzione di marmo al punto da determinare nel 1927 un vero e proprio crollo dei prezzi di mercato per un eccesso di produzione rispetto alla reale necessità.

  • Fig.02 Padova. Inaugurazione e detta

    Figg.03, 04, 05 (a sx) Portone in legn

    ad Hull; pilastro in litocemento a Casa

    14

    Per il cavalcavia della stazione ferroviafornì gli esecutivi strutturali e ne condus1903. Cfr., ‘Il Cemento’, III, 1906, 8.

    9

    sperimentalismo tecnico fra imitazione materica

    ettagli esecutivi del cavalcavia14

    della stazione ferroviaria

    legno artificiale, Casalemonferrato; (al centro) finestra d

    Casalemonferrato (a dx).

    oviaria di Padova il progetto venne redatto dall’Ing. Daniele Dodusse la realizzazione. Il cantiere iniziò il 9 giugno del 1903 e s

    1 I materiali litocementizi:

    rica e riproducibilità formale

    iaria, 1906.

    ra della chiesa di S. Augustin

    e Donghi e l’impresa Porcheddu 1903 e si ultimò il 27 settembre del

  • 10

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    2. Tradizione e innovazione a Roma, 1870-1930: la Capitale si trasforma

    Il XIX secolo costituisce per le più importanti capitali europee occasione temporale per poter avviare un

    processo di trasformazione ed innovazione su scala urbana, motivata e legittimata da esigenze di

    carattere igienico-sanitarie. “Le tendenze prevalentemente romantiche dell’architettura ottocentesca

    stanno alla base dei tipi prevalenti di ogni realtà urbana, e testimoniano la continuità evolutiva della loro

    cultura figurativa, sempre particolare e mai genericamente internazionale. In ogni caso, la ricerca sulla

    ‘forma’ della città impone che tanto il suo disegno, che il linguaggio, vengano analizzati

    contemporaneamente riassumendo ogni qualità dell’organismo urbano e dei suoi spazi pubblici”1.

    Le nascenti opere architettoniche, qualificate come ‘emergenze’ monumentali, pubbliche e distinte dalla

    comune edilizia, divengono piano di sperimentazione dei nuovi ‘stili’ e tecnologie applicate al costruito:

    in Francia, a Parigi, il ferro2 sarà il materiale maggiormente impiegato e pubblicizzato soprattutto dopo

    le grandi Esposizioni Internazionali3, mentre Vienna non esiterà ad ostentare le ‘variazioni di stile’

    wagneriane rese possibili dalla plasticità del cemento. Ultima, in ordine di tempo, Roma, ‘cuore

    dell’intera nazione, deve esprimere un’immagine che sia rappresentativa dell’unità del paese,

    contribuendo a rafforzare l’orgoglio nazionale attraverso l’esaltazione retorica di un passato glorioso’4.

    La difficoltà di ‘modernizzarsi’ è evidente anche tra chi, all’indomani della breccia di Porta Pia (20

    settembre 1870), verrà nominato, dal generale Raffaele Cadorna a far parte della commissione5 di

    architetti e ingegneri (presieduta da Pietro Camporese) a cui spetterà l’arduo compito di studiare

    ‘l’ampliamento e l’abbellimento’ della città e la pianificazione dei nuovi quartieri, con la redazione di un

    Piano Regolatore per lo sviluppo edilizio della città. La questione abitativa, infatti, necessita di un

    imminente piano di accoglienza, mentre sul fronte ‘direzionale’ si dovrà provvedere alla localizzazione

    degli apparati politico-amministrativi. La riorganizzazione del lavoro degli uffici continuerà a ricalcare

    quella di stampo preunitario. Il settore che subirà il maggior afflusso di personale, oltre ad un cospicuo

    numero di responsabilità per il controllo delle attività edilizie e di trasformazione del territorio, sarà

    quello tecnico. Infatti, sia sulla Commissione che sull’Ispettorato graveranno i forti interessi dei

    1 SPAGNESI G., Roma Capitale: il disegno urbano e il linguaggio architettonico, in: MANFREDI C. V., L’opera di Gaetano Koch

    Architetto di Roma Capitale, Edizioni Quasar, Roma, 2015, IX. 2 Sull’esempio parigino, sebbene timidamente denunciato, a Roma, nel 1872, l’architetto Raffaele Canevari, progetterà la

    facciata su via Santa Susanna del Museo Agrario Geologico proponendo l’uso di travi metalliche nella ripartizione dei piani; Giulio de Angelis realizzerà l’edificio dei magazzini ‘Bocconi’, oggi ZARA, ex Rinascente (1887). Qui, tutta la struttura interna poggia su un sistema di otto coppie di colonne in ghisa, come in ghisa sono il resto dei pilastri con capitelli floreali. Altro esempio coevo è rappresentato dall’Acquario Romano, su progetto di Ettore Bernich, terminato nel 1885 che mostra all’interno una raffinata sala ellittica coperta da un lucernario centrale in vetro e ghisa la cui luce evidenzia il susseguirsi dei delicati decori floreali tra cui quelli delle eleganti colonne corinzie, anch’esse in ghisa. 3 Londra 1851; Parigi 1855; Londra 1862; Parigi 1867; Vienna 1873; Philadelphia 1876; Parigi 1878; Parigi 1889; Chicago 1893;

    Parigi 1900. Cfr., SCHOEDER GUDEHUS B., Les fastes du progrès : le guide des Expositions universelles, 1851-1992, Parigi, 1992. 4 CIUCCI G., Gli architetti e il fascismo, Einaudi, 2014, p.77.

    5 ASC, GPG, b.1, Vol.1, Decreti 23 settembre -10 ottobre 1870 e 30 settembre 1870, Decreto .4. ‘E’ istituita una Commissione di

    Architetti-Ingegneri la quale si occupi di ampli azione e abbellimenti della città per poi sottoporli all’approvazione della Giunta Municipale (…), La Commissione è composta dei signori Camporesi, Vespignani, Fontana, Bianchi, Jannetti, Carnevali, Viviani, Partini, Trevellini, Cipolla, Mercandetti’. Sulla relazione presentata dal gruppo di lavoro il 10 novembre, che indicava nei colli ad Est, Viminale e Quirinale, la direttrice di sviluppo della Capitale e l’elaborazione su questa base delle tavole del piano regolatore, lungamente elaborato e infine presentato dall’ufficio tecnico comunale diretto da Alessandro Viviani nel 1873. Cfr., INSOLERA I, Roma Moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Einaudi, Torino, 2010.

  • Tr

    proprietari delle aree e dei cos

    normativi ad hoc, in attesa dell’en

    merito alla disciplina della sicurez

    2.1 Gli strumenti amministrativi

    L’apparato normativo a cui si face

    Pisanelli (L.2359/1865). Il provve

    edilizia, nonché la normativa sulle

    prevedeva in modo differenziato

    piano regolatore edilizio dell’esist

    e ricostruzioni; per i Comuni ch

    adottare un piano regolatore di a

    diritto di espropriare da parte deg

    conservati dai proprietari. La legge

    separazione tra piano regolatore

    chiarisce come la Commissione in

    legge 2359/18657 ebbe una mode

    contenuto, l’impreparazione degl

    per far fronte agli oneri, anche co

    nuove infrastrutture8. Nonostant

    comunale, la crescita urbana

    speculativa.

    Fig.01 Roma, 1870-1930. Immagini tr

    6 FLORIO G.B., Raccolta completa di regola

    Roma, 1931. 7 Nel periodo preunitario vede la luce la

    per quelle nuove da costruire, con l’introItaliano nel 1813. L’influenza della legislsporadiche norme, come ad esempio le dell’inclinazione al 30%, da non superaredi legislazione urbanistica, si ebbe nel 1851,un anno prima della legge francese del 1852 del prefetto Haussmann, e in anticipo risgiuridico di Urbanistica Ambiente e Territo8 CARACCIOLO A., Roma capitale dal Risor

    9 INSOLERA I., Roma Moderna. Un secolo d

    11

    Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la C

    costruttori a cui si imposero dei ‘freni’ parziali

    ell’entrata in vigore del nuovo regolamento edilizio

    rezza sul lavoro nei cantieri e al regime concessorio

    tivi

    ceva riferimento per la gestione delle nuove opere

    ovvedimento conteneva una prima sistematica dis

    sulle espropriazioni per pubblica utilità. Sotto l’aspet

    iato la facoltà: per i Comuni superiori a 10.000 ab

    esistente nucleo urbano, indicante le regole da osse

    i che avessero la dimostrata esigenza di dover e

    di ampliamento contenente le norme da osservar

    degli enti pubblici, anche gli edifici monumentali, b

    legge pertanto contemplava la ‘facoltà’ e non l’obblig

    tore edilizio e piano di ampliamento di fatto era q

    e insediata nel 1870 nascesse già con un mandato p

    odesta applicazione per una pluralità di motivi qua

    degli Enti Locali, ma soprattutto la difficoltà dei Com

    e consistenti, per gli interventi di bonifica urbana

    tante gli sforzi della Commissione e della ‘neonat

    a fu direttamente legata alla leggi di mercato

    ini tratte da: INSOLERA9 I., Roma moderna.

    egolamenti edilizi e di norme di edilità riguardanti la città di Rom

    e la legislazione relativa ai piani generali di allineamento per lntroduzione, nel 1807, della disciplina degli espropri per pubblicegislazione francese si risentirà in tutti gli Stati italiani preunio le prescrizioni a Napoli per la difesa del panorama di Posilliprare per le costruzioni a valle delle strade. La prima legge nell’l 1851, nel regno del Piemonte (L. 1221 relativa ai piani di allineel 1852 con cui si disciplinava la futura grandiosa trasformaziono rispetto ad analoghe legislazioni nei paesi europei. Cfr., MOerritorio, Edizione Simone, Giugliano (NA), 2013, pp. 69 – 71. Risorgimento alla crisi dello stato liberale, Roma, Rinascita, 1956colo di storia urbanistica 1870-1970, Einaudi, Torino, 2010.

    2 : la Capitale si trasforma

    iali con l’adozione di atti

    lizio6 che dettava norme in

    orio dell’abitabilità.

    pere pubbliche era la legge

    disciplina urbanistica ed

    spetto urbanistico la legge

    0 abitanti, di dotarsi di un

    osservare nelle costruzioni

    er estendere l’abitato, di

    rvare nelle costruzioni e il

    li, benché efficientemente

    bbligo di dotarsi di piani, la

    ra quasi inesistente, e ciò

    ato prudente e limitato. La

    quali l’urbanesimo ancora

    Comuni di reperire i fondi

    na e per la costruzione di

    onata’ politica urbanistica

    to e all’iniziativa privata

    i Roma dal 1864 ad oggi, Saige,

    er le strade e piazze esistenti e bblica utilità, recepita dal Regno unitari dove pur preesistevano sillipo a mezzo dell’imposizione

    nell’Italia preunitaria, in materia llineamento e di ampliamento), zione urbana di Parigi, ad opera MONACO A., Manuale tecnico-

    1956

  • 12

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    Lo sviluppo edilizio assunse una dimensione disordinata e incontrollata: la previsione delle opere

    pubbliche da realizzare assieme ad un ingente numero di abitazioni, generò un afflusso nella Capitale di

    operatori economici, italiani e stranieri, i quali trasferirono10 o crearono ex novo sedi e filiali di società, di

    banche e di nuovi organismi finanziari. Lo strumento adottato per regolamentare amministrativamente

    gli interventi sulla città con potere autorizzatorio pari al piano regolatore, era la convenzione.

    La prima fu quella stipulata nel marzo del 1871 con Monsignor De Merode con la quale il Consiglio

    Comunale approvò il progetto di lottizzazione di via Nazionale e del nuovo quartiere verso Termini. Nella

    convenzione il comune si impegnava a compiere i lavori di urbanizzazione: strade, fogne, luce e gas,

    mentre i privati cedevano le aree per le sedi stradali obbligandosi all’osservanza del Regolamento

    Edilizio11 per l’edificazione, quello pontificio del 1864 poi variamente confermato e precisato fino alla

    nuova stesura del 1911. La convenzione determinava anche le destinazioni dei costruendi edifici (ad uso

    di ‘civile abitazione’), escludendo quella industriale, salvo specifica concessione12, e inibendo gli

    ‘stabilimenti insalubri, rumorosi e altrimenti incomodi’. Altre prescrizioni riguardavano il numero di piani

    concessi per gli edifici: oltre al piano terra, altri due soprastanti. Caratteri architettonici e stilistici erano

    invece a discrezione della commissione che avrebbe giudicato i progetti.

    A questa convenzione13 seguirono quelle riguardanti le aree dei quartieri Esquilino, Castro Pretorio,

    Celio, Prati, Testaccio, Orti Sallustiani, Ludovisi, etc. e, di particolare interesse quella del 1885 inerente il

    piano di risanamento e bonifica del Ghetto14. Si comprende bene come la trasformazione della città

    generava un’ingente movimentazione di capitali che fu causa da un lato di una forte immigrazione di

    lavoratori operanti nei settori edile e infrastrutturale con un grosso indotto per l’industria edilizia,

    dall’altro dell’arricchimento di grandi famiglie patrizie che ‘oltre a possedere le ville che venivano via via

    distrutte, erano compartecipi nelle combinazioni finanziarie che, con larga partecipazione di capitali

    esteri, promuovevano le convenzioni’15. Si pensi anche alla speculazione indotta sull’acquisto dei

    materiali da costruzione16 spesso attinti da cave di tufo e pozzolana poste nei terreni della campagna

    intorno a Roma, così come i laterizi e la calce , il tutto di proprietà delle sopracitate famiglie.

    Sono gli anni denominati della ‘febbre edilizia’ e ‘ingrandire la capitale era diventato uno dei più facili e

    redditizi affari del Regno d’Italia’17. Il fenomeno, oltre a coinvolgere i più importanti nomi della

    10

    ‘In assenza di una radicata generazione di imprenditori sul territorio, la gran parte degli investitori si riversò a Roma da fuori regione, vedendo nel settore delle costruzioni il primo terreno da esplorare per far fruttare i propri capitali’. Cfr., TRAVAGLINI C. M., (a cura di), Imprese e imprenditori, XII, 2004, 3. 11

    Il nuovo Regolamento speciale Edilizio di Roma, approvato con r.d. 24 dicembre 1911, n.1532 (in attuazione alla legge Giolittiana 11 luglio 1907, n. 502), integra la legge urbanistica nazionale e regolamenta le attività di manutenzione, utilizzo e costruzione delle aree soggette a Piano Regolatore, proponendo quella suddivisione tipologica che sarà la novità di fondo del piano Sanjust. 12

    Nel quartiere Testaccio, la convenzione, del 29.10.1883, ha previsto la realizzazione di magazzini, abitazioni operaie e edifici industriali. Tra questi, quelli prospicienti via Marmorata dovranno avere ‘l’aspetto di case civili’. Gli stabilimenti e le case popolari verrano date in appalto alle Società Marotti, Frontini e Güber. 13

    L’atto amministrativo prevedeva come iter procedurale che venisse apposta una dichiarazione secondo cui la convenzione soddisfava un pubblico interesse: di solito la richiesta di costruire abitazioni per rispondere alla domanda di mercato immobiliare o risolvere le questioni igienico-sanitarie. A questo punto, l’amministrazione comunale trasferiva all’altro contraente l’autorizzazione all’esproprio in forza della ottenuta dichiarazione di pubblica utilità ai sensi della legge 2359/1865. 14

    L’intervento appare da subito complesso per la difficoltà di operare in una zona centrale della città, e di necessitare di una cospicua somma di denaro. La questione economica viene risolta con la firma di una convenzione con la Banca Tiberina a cui, saranno affidati i lavori di demolizione e ricostruzione delle strade, come da contratto. La convenzione si interrompe con il fallimento della Banca, determinato a sua volta dalla nascente ‘crisi edilizia’. L’operazione riprenderà e terminerà con la Banca d’Italia e con l’Università israelitica. 15

    INSOLERA 2010, p.55. 16

    ‘I materiali da costruzione erano naturalmente soggetti al dazio: ma la cinta daziaria coincideva con i confini del piano, con le Mura Aureliane, per cui bastava costruire fuori piano per utilizzare i materiali da costruzione a prezzi più vantaggiosi. Inoltre alla cinta daziaria cominciava l’Agro Romano ed entravano quindi automaticamente in funzione le leggi (1878 -1883) sulla bonifica: tra cui fondamentale l’esenzione decennale delle tasse per i nuovi fabbricati’ Cfr., Ibidem. Ed è quello che accadde a Santa Marinella con la nascita della colonia balneare e la lottizzazione dell’area su progetto di R. Ojetti e la realizzazione della ditta Lepoldo Borruso. 17

    Ibidem

  • 13

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    borghesia finanziaria italiana, innescò all’interno dell’economia capitolina un movimento produttivo

    senza precedenti che coinvolse impresari, artigiani, operai, giunti da ogni parte d’Italia. Questo ‘mondo

    minore dell’edilizia romana, organizzato da ditte di costruzione più o meno grandi e a carattere più o

    meno professionale, ha lasciato tracce importanti nella documentazione ad oggi studiata18 .

    Era una prassi comune quella delle banche di vendere a credito i terreni edificabili a semplici capomastri

    o a costruttori improvvisati erogando loro prestiti urgenti per soddisfare la richiesta del capitale

    circolante, certi del fatto che, impossibilitati a saldare il credito, i debitori avrebbero restituito l’area ai

    loro stessi finanziatori. Dato il rischio, furono davvero pochi gli investitori che, con tali condizioni,

    lavorarono in proprio a Roma nel settore edile. Onde evitare i facili fallimenti, si adottò la formula del

    consorzio all’interno del quale potevano operare quei costruttori italiani e stranieri che volevano

    partecipare alla ‘trasformazione della capitale’ senza rischiare di essere sopraffatti dalla forza

    speculativa degli istituti bancari. Superata la fase di grande fermento e disordine, emersero figure

    destinate a rappresentare degnamente la prima generazione di imprenditori al cui nome è associata,

    negli anni, l’espansione urbanistica della capitale: Romolo Vaselli e Domenico Adriani: entrambi

    operarono attivamente fino alla seconda guerra mondiale. Tra i due, Vaselli, figlio di un gestore di cave

    di pozzolana e per anni trasportatore di materiale, si occupò della gestione delle fornaci, della

    produzione e vendita di laterizi e calce, e della realizzazione di infrastrutture, costruendo strade e ponti

    che gli garantirono l’affidamento, in epoca fascista, di tutti i lavori stradali della capitale. Il nome di

    Adriani, invece, è legato alla costruzione di case popolari, all’espansione del quartiere Tiburtino, oltre a

    una serie di interventi infrastrutturali. Sono i nomi di coloro che nonostante la crisi del 1887 e la

    chiusura dell’80% dei 470 cantieri edili in attività subirono solo in minima parte una battuta d’arresto del

    proprio operato rispetto a chi dichiarò il fallimento della propria impresa, anche importante, come la

    Maffei, la Moroni e la Lamperini19.

    E mentre la capitale si ‘costruiva ‘seguendo i mutevoli programmi governativi che, dislocavano

    arbitrariamente ministeri ed edifici pubblici, sede del parlamento e monumenti, mentre il comune

    predisponeva piani spesso contraddetti dalle decisioni prese a livello centrale, esisteva un programma

    ideale in cui sembrava risolversi ogni contrasto20’: Roma era la città, il cui patrimonio archeologico e

    storico rappresentavano il simbolo di un’Italia che si andava costruendo e affermando. Così, fin dal

    momento in cui diviene capitale, la città è sognata come naturalmente armonica, integrata, equilibrata e

    centro di una cultura nazionale. Alcune fra le grandi opere pubbliche, figlie della crisi, ne sono

    testimonianza, come l’Acquario Romano, in piazza Manfredo Fanti, inaugurato il 29 maggio del 1887 su

    progetto del trentasettenne Ettore Bernich. “Tra i costruttori di Roma capitale, è una figura che non

    sempre ha trovato ampi consensi di pubblico e di critica, ma che ha lavorato su solide basi conoscitive

    delle fonti classiche, con l’inventiva capacità di utilizzare liberamente stili diversi, erudite rievocazioni

    18

    Gli studi ad oggi condotti sulla costruzione di Roma Capitale hanno ampliato la produzione saggistica grazie alla vasta documentazione depositata presso l’Archivio Storico Capitolino e distinta tra atti parlamentari, comunali e le raccolte dei verbali e dei progetti. A questi, la storiografia affianca un vasto repertorio di pubblicazioni tra le quali sono certamente da segnalare quelle di Alberto Caracciolo, Italo Insolera, Valter Vannelli e Giorgio Ciucci. Il testo di Caracciolo risulta fondamentale per delineare le problematiche della neo capitale in termini di estensione e specificità anche se la comprensione dei ruoli assunti dai diversi attori protagonisti della trasformazione urbanistica della città lo si può comprendere dagli scritti di Vannelli, soprattutto nel delicato compito svolto dalla Banca d’Italia subito dopo la crisi edilizia degli anni Novanta, periodo in cui l’immenso patrimonio immobiliare della Banca Romana, caduta nel totale fallimento, viene trasferito alla Banca d’Italia; ad esso vengono aggiunti i beni della Banca Tiberina e molte altre proprietà provenienti da altri istituti di credito. Cfr.; CARACCIOLO A., Roma Capitale dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, Rinascita, Roma, 1956. VANNELLI V., Economia dell’architettura in Roma Liberale. Il centro urbano, Kappa, Roma, 1979. CIUCCI G., FRATICELLI V., (a cura di), Roma capitale: 1870-1911. Architettura e urbanistica. Uso e trasformazione della città storica, Venezia, Marsilio, 1984. 19

    La ditta Moroni parteciperà come proprietaria ed impresa nella realizzazione dell’emiciclo sud di piazza Esedra, sotto la direzione tecnica di Gaetano koch , Cfr., ASC, Titolo 54, edilizia e ornato, 1871-1922, prot. 34942, anno 1884. 20

    Vedi nota 4.

  • 14

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    decorative e fantasiose trasfigurazioni del dettaglio architettonico: ragione e immaginazione sono le

    parole chiave per definirne l’opera, chiaramente sostanziata da un erudito classicismo evocativo”21.

    Non molto distante dall’Acquario, il progetto di massima di Gaetano Koch per la sistemazione di piazza

    Esedra, anticiperà la stipula della convenzione tra i privati e il Comune, per essere poi oggetto di

    concorso nell’ottobre del 1885 insieme a quello del collega Domenico Jannetti incaricato dalla Banca

    Tiberina proprietaria dei terreni prospicienti la piazza. Il progetto di Koch avrà il consenso della

    commissione edilizia e la convenzione entrerà nel merito delle scelte architettoniche prevedendo due

    edifici simmetrici con portici in travertino22. A vocazione universitaria, il Policlinico23 Umberto I su

    progetto di Giulio Podesti, sarà uno dei cantieri più impegnativi negli anni in corso. Gli edifici delle

    cliniche trattati come monumentali ville classicheggianti, con timpani e fregi, riuniti poi uno all’altro con

    un sistema di passerelle issate su esili colonne in ghisa verranno in parte realizzati dall’impresa Ceribelli

    e ultimati dall’impresa Vitali. La posa della prima pietra avverrà il 19 gennaio del 1888, nonostante i

    lavori vennero avviati a pieno regime solo un anno dopo per concludersi (per le cliniche) nel 1902.

    Cantieri come quello del Policlinico furono campo di applicazione dei più moderni sistemi tecnologici nel

    settore delle costruzioni: ad involucri di carattere neocinquecentista, caro agli architetti ottocenteschi di

    formazione umbertina, veniva addossato uno scheletro misto in strutture portanti in cemento armato

    secondo il sistema Hennebique24che, nel caso del Policlinico, riguardava i solai degli ambienti comuni e le

    passerelle di collegamento tra i padiglioni, completate nel 1897, lunghe dai 18 ai 30 metri, con pareti

    realizzate in muratura e copertura con tegole alla marsigliese, il tutto poggiante su travi continue, a tre

    campate in c.a., che ‘scaricavano’ sulle sottostanti colonne in ghisa. Dalla descrizione delle modalità

    costruttive e dai disegni esecutivi allegati, si evince come le modanature laterali delle travi fossero

    realizzate con lo stesso getto cementizio, essendo state utilizzate delle casseforme modellate su

    disegno. Il getto era molto povero25 d’acqua e veniva pilonato accuratamente con piccole ‘mazzaranghe’

    con notevole fatica e dispendio di tempo oltre che di costi per le maestranze26 (fig. 02).

    21

    NERI M.L., La partecipazione alla costruzione di Roma capitale, in: BERRINO A., BUCCARO A., MANGONE F., (a cura di), Ettore Bernich architetto 1850-1914 la storia, il progetto, il restauro, 2006, p.43. 22

    I prospetti sulla piazza, sono caratterizzati dalla sovrapposizione di tre ordini architettonici su paraste (il primo dorico, il secondo ionico, il terzo tuscanico contratto, posto ‘a riquadrare il piano attico, sovrastato da una balaustra

    22’ che ha

    evidenziato, a seguito di un sopralluogo, una compresenza di elementi (balaustrini) in terracotta (probabilmente appartenenti ad una prima fase di costruzione) e in litocemento, quest’ultimi più tardi e ottenuti dal getto in calchi parziali su modello di quelli in terracotta. Gli elementi decorativi di coronamento delle testate sono tutti in litocemento, sebbene nelle relazioni allegate ai progetti non si faccia menzione dell’uso di materiali ‘artificiali’, poco ‘idonei’ all’austerità classica dell’edificio. 23

    La necessità di riunire le Cliniche della Facoltà di Medicina di Roma in una sede unica era stata presa in considerazione già nei primissimi anni di Roma capitale; Guido Baccelli (1832-1916), medico, scienziato e dal 1881 al 1900 Ministro della Pubblica Istruzione, proponeva nel 1874 un ospedale con ‘locali vasti, decorosi e moderni con larghe attrezzature per la ricerca sperimentale’. Nel quadro dei provvedimenti legislativi per dotare Roma di un Piano Regolatore, il Policlinico venne incluso nelle opere finanziate dalla legge 209 del 14 maggio 1881 ‘Concorso dello Stato nelle opere edilizie nella città di Roma’, nella quale si erogavano 50 milioni al comune di Roma per eseguire in 10 anni il palazzo di Giustizia, il palazzo delle Esposizioni, il palazzo dell’Accademia delle Scienze, il Policlinico, i quartieri per i militari, l’Ospedale Militare, la piazza d’Armi e due ponti sul Tevere. Con il piano regolatore del 1883 presentato dal Viviani, l’area destinata al Policlinico era ubicata nella zona di Porta Maggiore, giudicata dal presidente del Consiglio dei Ministri, Agostino Depretis, poco adatta, nonostante l’avvio delle procedure d’esproprio. La nuova ubicazione proposta, a ridosso delle mura del Castro Pretorio, aveva un’estensione notevolmente maggiore rispetto alla prima e non presentava all’interno strade già tracciate. 24

    BIGLIERI A., Travi in cemento armato (sistema Hennebique) del Policlinico Umberto I in Roma, in: ‘Giornale del Genio Civile’, n.28, 1899, pp. 581-589. 25

    Solitamente, per i ‘lavori di gettata’ di piccole dimensioni, si utilizzava un impasto molto fluido per favorire un’omogenea distribuzione della malta entro lo stampo. Cfr. cap.4. Tuttavia, considerando la sperimentazione in atto e la funzione statica degli elementi da ‘formare’, si è optato per un impasto povero di legante a favore della percentuale di aggregato, nella convinzione di poter avere una risposta, in termini di resistenza del materiale, maggiore rispetto ad una malta grassa. Inoltre, un contenuto eccessivo d’acqua avrebbe innescato, nel tempo, fenomeni di bleeding . Cfr. cap.5. 26

    BIGLIERI A., ivi.

  • 15

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    Fig.02 Roma, Policlinico ‘Umberto I’. Dettagli esecutivi del progetto strutturale dell’ing. Biglieri (sopra); passerelle

    pensili e dettaglio del capitello in ghisa. (2010)

    Negli stessi anni e poco lontano dal cantiere diretto dall’ing. A. Biglieri, in un’area del nascente quartiere

    San Lorenzo e a ridosso del nuovo cimitero del Verano (1859-1878), lo scultore Giuseppe Maria Sartorio

    (1854-1922) presentava l’istanza al comune di Roma per costruire, in economia, una casa-studio su via

    Tiburtina, impegnandosi al rispetto degli allineamenti con i preesistenti edifici e all’altezza max

    consentita di 24 m, in base a quanto previsto dal Regolamento Edilizio. Il progetto reca la firma

    dell’ingegnere sardo Efisio Garau27. Il villino, si eleva su due piani, di cui il piano terra destinato a

    27

    Il nome di Garau compare solo episodicamente tra i tecnici che operavano a Roma sul finire dell’Ottocento. Il progetto per Sartorio riporta nella firma la dicitura ‘Ozieri’, il che fa pensare ad una collaborazione amichevole a distanza, frutto di un’amicizia o un rapporto professionale le cui radici sono da ricercare in Sardegna dove lo scultore, di origine piemontese,

  • 16

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    bottega, laboratorio di scultura e studio personale, e il piano superiore ad abitazione. La ripartizione dei

    fronti e la caratterizzazione delle bucature e della fascia di coronamento con decorazioni a rilievo

    ricorda, nella colorazione e nella selezione degli ornati le realizzazioni di un ventennio più ‘giovani’ della

    Galleria Vittorio Emanuele di Milano (1864-1878) e del Palazzo Provinciale di Bergamo (1865-1870),

    entrambi, come il villino Sartorio (Cfr., Schede E_GA_22,-26), opere ‘manifesto’ dell’applicazione di

    litocementi ed entrambi appartenenti ad una tradizione tecnica del nord industrializzato dove la pratica

    di usare il cemento come materiale plastico per gli ornati architettonici aveva avuto un encomiabile

    apprezzamento all’Esposizione Universale di Parigi del 1864, premiando la Società bergamasca con la

    medaglia d’argento per la produzione di pietra artificiale e con quella di bronzo per la lavorazione del

    grezzo. Della Società sono tutte le decorazioni in cemento ad imitazione della pietra naturale di Sarnico

    del Palazzo Provinciale di Bergamo su progetto dell’architetto Antonio Prada.

    Fig.03 Roma, via Tiburtina, ‘Villino Sartorio’. ASC, Titolo 54, I.E., Prot. 53187, anno 1896.

    soggiornava per lunghi periodi, avendo un suo studio personale, a Cagliari. Sartorio era noto come lo scultore d’arte funeraria: noto il monumentale cimiterio di Bonaria (CA) e le oltre 65 statue in quello di Iglesias. A Roma, la sua attività è legata al cimitero del Verano e non a caso sceglierà di realizzare il suo studio a soli 300 mt di distanza dall’ingresso principale. Presso l’Archivio Storico Capitolino sono conservate tutte le istanze per l’esecuzione di statue (la maggior parte in marmo) commissionate da nobili famiglie romane. Tra si suoi committenti, compare il nome di Quintino Sella, Umberto I, e la Regina Margherita di Savoia.

  • 17

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    Sartorio si era formato inizialmente all’Accademia Albertina di Torino per poi proseguire gli studi

    all’Accademia nazionale di San Luca a Roma. Il legame con il Piemonte e la città di Torino non fu mai

    interrotto tant’è che continuò ad avere uno studio in città dividendosi tra l’Italia e la Sardegna. Di origine

    piemontese (Vercelli) è anche il collega Francesco Mora incaricato del progetto di Villa Blanc28, (1896-

    1897) coeva alla costruzione dello studio su via Tiburtina. Tra le due fabbriche esiste un’assonanza

    stilistica, più studiata e ricercata in Villa Blanc, che funge da fonte primaria, rivisitata con contaminazioni

    di gusto sardo nello studio Sartorio. Assonanza che probabilmente si ritrova solo nella figuratività degli

    ornati, per negarsi del tutto (salvo analisi di laboratorio) nella selezione dei materiali costitutivi, data la

    presenza in cantiere dell’architetto Giacomo Boni29 che notoriamente non apprezzava l’uso del cemento

    ‘un marciume di color fragola guasta’al posto della tradizionale malta di calce e cocciopesto, lasciando

    emergere un dissenso verso l’uso di ‘leganti non compatibili’ che aveva radici nella sua indole di

    architetto-archeologo (difensore dell’autenticità del testo architettonico), influenzata dal pensiero

    romantico inglese dell’amici John Ruskin (1819-1900) e Philip Webb (1831-1915).

    L’adozione di sistemi tecnologici innovativi non ha riguardato solo la progettazione di nicchia, opere

    pubbliche e private medio-borghesi, ma anche un vasto settore dedicato all’edilizia economica popolare

    dei quartieri di nuova espansione e delle aree di ampliamento della città.

    La motivazione che è stata più volte riportata nelle relazioni di progetto e soprattutto nelle descrizioni

    dei brevetti30, in particolare quelli post piano Sanjust, muove da ragioni di carattere economico per il

    risparmio nell’acquisto del materiale da costruzione e di finitura ma soprattutto per la riduzione dei

    tempi di durata del cantiere resa possibile dal sistema di assemblaggio delle varie parti dell’edificio,

    secondo un processo affine alla prefabbricazione.

    La crisi di fine secolo XIX aveva innescato un meccanismo ‘perverso’ destinato a colpire le classi operaie

    più deboli: il costo dei materiali (tradizionali) aveva subito un rialzo e molti cantieri chiudevano per

    insufficienza di fondi destinati a coprire i mutui erogati. Quanto acquistato diventava pertanto un

    profitto per gli istituti di credito che ne acquisivano di diritto i beni continuando su quel percorso

    speculativo che, in veste, diversa, avrebbe caratterizzato l’andamento del mercato edilizio.

    In un articolo pubblicato su ‘Il Monitore Tecnico’ del 1897, l’ing. Arch. P. Via, descrive l’annosa questione

    della città di Roma dopo la celebre crisi: una cospicua quantità di “fabbriche in costruzione ferme al loro

    posto con le impalcature e i ponti di servizio”. Ad attenuare i danni, di natura economica, intervenne

    un’ordinanza municipale che prescrisse il termine per la rimozione di tutti i legnami. Fu necessario

    tamponare gli accessi al cantiere con “muri per quelle fabbriche rimaste addirittura abbandonate e per

    quelle che dai proprietari furono dichiarate inabitabili onde sottrarsi al pagamento delle relative tasse”.

    Un ostacolo alla ripresa veniva anche dall’eccessivo costo di quelle poche aree inedificate prossime al

    centro abitato, in cui i privati facoltosi avrebbero potuto investire, scartando l’ipotesi di costruire oltre le

    aree non completate, poiché troppo lontane, nonostante il prezzo al mq fosse di L. 1,50. D'altronde, la

    28

    I dati anagrafici della villa risalgono al 1848, quando si mostrava come vigna con casino di proprietà di Massimiliano Lezzani che nel 1884 la vende alla contessa Violante Filippi. Nel 1893 viene acquistata dal barone Alberto Blanc (1835-1904), ministro degli Esteri durante il governo Crispi, per trasformarla in una residenza prestigiosa. Si avvale della collaborazione tecnica dell’ing. Francesco Mora di Torino, dell’ing. Giovanni Quadroni e dell’amico archeologo Giacomo Boni. Cfr.; ALESSANDRINI D., CESARETTI C., Roma Liberty. Itinerari tra Eclettismo e Modernismo (1870-1925), Palombi, Roma, 2013, p.308. 29

    BONI G., Venezia imbellettata, Stabilimento Tipografia Italiano, Roma, 1887. 30

    ‘Dato che l’industria edilizia subisce attualmente una grave crisi per l’aumento di costo dei materiali e di quello sempre crescente della mo d’opera, si da paralizzare qualsiasi iniziativa di costruzione. Dato che nella costruzione delle case oggi manca

    un sistema il quale, pur riunendo tutte le proprietà statiche ed igieniche delle costruzioni a sistema normale, sia basato sui

    principi di massima economia e massima rapidità di costruzione. Dato che, a buona ragione, la popolazione, sia dei grandi che

    dei piccoli centri, tende alla attuazione della piccola proprietà edilizia, la qual cosa nella ragione economica, se avesse quello

    sviluppo considerevole consigliato dai tecnici e dagli studiosi in materia, arrecherebbe di per sé stessa un calmiere vero e proprio

    al carofitto. Dato che, per la ragione igienica, si ha la tendenza al decentramento delle abitazioni ed alla disagglomerazione

    degli inquilini e delle persone. (…)’ Cfr., cap.4, brevetto n. 175636, anno 1920.

  • 18

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    morfologia della capitale, posta su sette colli, innescava “quel continuo salire e scendere che stanca

    assai e, generalmente anche all’infuori degli affari non si desidera allontanarsi dal centro della città (…)

    che resta in tal modo chiusa in una cerchia molto prossima entro la quale e al di là è inutile parlare di

    villini e palazzine”. Alcune aree libere e ben collocate nei quartieri Ludovisi e Prati di Castello offrivano la

    possibilità di costruire ad un prezzo relativamente buono ma “sono così infelicemente situate su terreni

    di riporto che obbligano a forti spese di fondazioni”31. Il sottosuolo di Prati di Castello, tra Monte Mario

    e il Tevere, era attraversato dalle “acque del versante che una volta andavano naturalmente a scaricarsi

    nel fiume, e che oggi, dopo la costruzione dei muraglioni nel lungo Tevere, hanno deviato dal loro corso

    naturale, parte hanno preso altre vie sotterranee e parte si sono diffuse, formando degli acquitrinii,

    scalzando le fondamenta dei fabbricati. Tanto che in quel quartiere si può dire che non vi sia costruzione

    senza essere lesionata. Si è dovuto sottofondare senza raggiungere lo scopo desiderato”. La

    conseguenza logica è stato il completo disinteresse a cercare aree libere nel quartiere Prati. Rispetto a

    questo, nel quartiere Ludovisi, non vi erano problemi di cedimenti fondali ma ‘la profondità a cui

    bisogna arrivare con i fondamenti è molto forte e quindi altrettanto forte la spesa’. Le problematiche su

    esposte giustificano l’inerzia dell’edilizia in quelle specifiche aree, e il tentativo di ripresa del settore con

    l’istituzione di società di credito intenzionate a sollevare le sorti del mercato.

    Nel 1893, per volontà della Banca Romana, nacque l’Istituto Romano dei Beni Stabili con il compito di

    amministrare il patrimonio immobiliare pervenuto a seguito della crisi edilizia. Nel 1910, in una relazione

    del direttore generale dell’Istituto si legge: “quei fabbricati sorti all’infuori di ogni meditato indirizzo

    costruttivo ed igienico, rappresentavano insieme gli errori della speculazione, come i danni che dalla

    casa non opportunamente organizzata risentono l’igiene e la morale delle popolazioni che vi dimorano.

    La speculazione non aveva tenuto conto delle varie classi degli inquilini e dei vari bisogni ai quali essi

    debbono soddisfare, così che aveva costruito in quartieri, più o meno eccentrici, edifici a tipo uniforme,

    essenzialmente destinati alla classe media. Ma poichè questa non era così numerosa da rispondere

    all’offerta esuberante di quei fabbricati, sorti molte volte in località per essa inadatte, ne venne che

    appartamenti destinati a famiglie relativamente agiate dovettero essere fittati a famiglie operaie,

    creandosi divisioni arbitrarie e accettandone un compenso molte volte irrisorio. (…) dopo quanto siamo

    venuti esponendo è chiaro che ragioni di interesse, di convenienza e di opportunità, dovevano portare

    l’Istituto a trasformare gran parte delle case che possedeva per ricondurle in relazione all’ambiente in

    cui erano collocate alla loro naturale destinazione. (…) un fabbricato posto nel quartiere Ludovisi non

    può accogliere né la piccola borghesia, né le famiglie operaie, vi si oppone la loro potenzialità

    economica; così un fabbricato situato al quartiere di San Lorenzo o del Testaccio, mentre deve rimanere

    destinato alle classi meno fortunate, richiede di venire così ridotto da non costringere queste a comuni

    adattamenti, a continue delusioni, che diminuiscono in loro l’affetto alla propria dimora e rallentano

    ogni vincolo all’intimità famigliare”.32 All’interno del volume monografico si illustrano tre tipologie di

    ‘case’: quella per la classe agiata, media e popolare (figg. 04, 05, 06) e per ciascuna di esse vengono

    proposte soluzioni di ristrutturazione di preesistenti fabbricati da ‘riclassare’ mediante interventi di

    adeguamento e casi di nuove costruzioni. Quanto denunciato dall’attività dei ‘Beni Stabili’ era tuttavia

    circostanziato a parti di città che il piano regolatore non includeva entro la fascia di rispetto ‘storico-

    archeologica’. I programmi di ristrutturazione urbanistica, attuati nelle regioni d’oltralpe e spinti fino alla

    demolizione di interi quartieri, a Roma avevano il sapore di un chirurgico maquillage volto ad operazioni

    di ‘risanamento’ del tessuto edilizio esistente. Si operava per lo più con interventi di ‘facciata’ dal

    semplice rifacimento alla totale ricostruzione dei fronti su strada, determinando degli ibridi

    31

    Il Monitore Tecnico, 1897. 32

    ‘La Casa Moderna’ nell’opera dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, Danesi, Roma, 1910.

  • 19

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    architettonici, costretti ad insistere su impianti pre-moderni rispetto alla tipologia di edifici in linea,

    adottata nelle aree di espansione.

    Fig.04 Roma, Prati di Castello, fabbricato di nuova costruzione per classe agiata. Tav. XV.

    Fig.05 Roma, via Famagosta, fabbricato di nuova costruzione per classe media. Tav. XXV.

    Fig.06 Roma, barriera Trionfale, fabbricato di nuova costruzione per classe popolare. Tav. XLIII

    “Si può affermare che l’immagine delle facciate nelle aree centrali di Roma è soprattutto ottocentesca

    nella formazione e cinquecentesca nel riferimento stilistico”33.

    La città stava vivendo una fase nodale di transizione della quale i protagonisti erano perfettamente

    coscienti e concordi sul principio generale che la ‘forma’ della nuova capitale doveva essere frutto sia

    della continuità nei riguardi di un patrimonio storico di straordinario valore che di compatibilità col

    nuovo ruolo istituzionale assunto.

    La questione andava risolta in termini di lessico architettonico. C’era chi come Boito, alla fine

    dell’Ottocento, proponeva uno stile architettonico unitario che fungesse da mediatore tra il carattere

    prettamente archeologico e quello moderno, un eclettismo del ‘buon senso’ con cui risolvere problemi

    33

    STRAPPA G., La continuità con la tradizione nell’edilizia romana del ‘900, in: STRAPPA G., (a cura di) Tradizione e Innovazione nell’architettura di Roma Capitale 1870-1930, Edizioni Kappa, 1989, p.36.

  • 20

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    di carattere costruttivo e distributivo. Un’idea alquanto difficile da realizzare per le implicazioni teoriche

    che ne derivavano e per l’opposizione dei professionisti che rivendicavano la libertà di poter seguire le

    correnti del momento. Si preferì la ‘prudenza’, all’interno di un repertorio rigidamente locale, adottando

    le nuove tecnologie laddove potevano maggiormente assolvere a problemi strutturali.

    Un atteggiamento che si manifestava dalle prime grandi opere pubbliche a cavallo dei due secoli XIX e

    XX34 e che lascerà i termini del dibattito sostanzialmente immutati. Boito sarà costretto ad affermare

    che ‘uno stile nuovo non si inventa né da uno né da cento artisti, se il tempo non lo matura e la società

    tutta intera non coopera a crearlo. Dunque non ci rimane che studiare gli stili ornamentali più notevoli

    del passato, cercando di scoprire nettamente la ragione e l’indole loro; applicarli poi alle opere d’oggi in

    modo che non disturbino in nulla, anzi esprimano al di fuori gentilmente ed efficacemente l’uso pratico

    ed ideale a cui tali opere vengono destinate35. Un suggerimento in merito, fu quello avanzato da Ugo

    Ojetti (1871-1946), scrittore, giornalista e figlio dell’architetto Raffaele Ojetti, che propose lo stile

    seicentesco come stile ufficiale delle costruzioni pubbliche, come stile ‘nazionale’ in quanto

    ‘nativamente romano’, ‘classico in architettura e scultura, adatto a tutte le costruzioni rappresentative

    dello stato unitario’36.

    L’occasione nel 1911 dell’Esposizione Universale di Roma divenne lo spazio per poter sperimentare

    l’adozione dello stile seicentesco dove l’artificiosità scenografica dei fronti cari al ‘barocco’ si prestava

    alla sistemazione del grande contenitore espositivo. La scelta del linguaggio tuttavia non ricadde solo

    sulle grandi realizzazioni ma, come dimostrato dal rilievo dato alla parte etnografica, anche su quanto

    apparteneva all’edilizia minore, tema già affrontato con sensibilità e attenzione dall’Associazione

    Artistica tra i Cultori di Architettura, attiva dal 1890 e oggetto di sperimentazione tecnica da parte dei

    professionisti romani fino agli anni Trenta. Si passò dal risolvere i problemi legati all’edificazione di aree

    destinate alle classi borghesi, (dunque la scelta tipologica ad esse confacente), a quelle periferiche dei

    grandi vuoti urbani ad alta densità abitativa. I temi architettonici erano quelli dei ‘tipi’ edilizi suggeriti dal

    piano del 190937: villini e palazzine. Sui primi, una variante del 1920 al previgente regolamento edilizio

    (1911) concesse l’ampliamento degli indici di cubatura e delle altezze, facilitandone l’acquisto alle classi

    medio-alte, in base agli standards di vita degli anni in corso, mentre le palazzine si apprestavano a

    fornire il modello tipologico-funzionale con il quale andare a gestire le questioni abitative e

    imprenditoriali di coloro che stavano investendo i propri capitali nelle aree ad esse destinate.

    Le palazzine, definiranno a partire dal primo dopoguerra, il tessuto residenziale dei nuovi quartieri alto-

    borghesi: Pinciano, Salario (Coppedè), Parioli, Aventino e diverranno negli anni Trenta occasione di

    lavoro per la ‘moderna’ generazione di architetti.

    Parallelamente all’ideazione tipologica della ‘palazzina’, e sotto la diretta partecipazione di Gustavo

    Giovannoni, si avviava lo studio di due nuovi modelli di insediamento: una città e un sobborgo giardino a

    34

    Il Policlinico ‘Umberto I’ (1889-1903) su progetto di Giulio Podesti, la progettazione e realizzazione dei due edifici simmetrici prospicienti l’Esedra ad opera di Gaetano Koch nel 1885; il Ministero delle Finanze dell’ing. Raffaele Canevari realizzato fra il 1872 e il 1876; il Palazzo di Giustizia (1889-1911), dell’arch. Guglielmo Calderini; il monumento a Vittorio Emanuele (1885-1911) su progetto dell’arch. Giuseppe Sacconi. 35

    BOITO C., I principi del disegno e gli stili dell’ornamento, Hoepli, Milano, 1882, p.19. 36

    OJETTI U., Per un’architettura italiana, Corriere della Sera, 8 agosto 1911. 37

    ‘La palazzina nasce con il R.D. n.1937 del 16/12/1920 con una disposizione di carattere temporaneo che consente l’ampliamento degli indici edilizi nelle aree già previste a villino nel Piano Regolatore del 1909, andandolo così a sostituire laddove il proprietario ne faccia richiesta. La definitiva istituzionalizzazione della palazzina avviene nel 1931, quando il nuovo Paino Regolatore ne conferma le caratteristiche già proposte nella variante del 1926. Le zone destinate a villino del P.R. del 1909 erano soprattutto concentrate nella espansione a nord della città tra la Salaria e la Flaminia e nel quadrante sud/sud-ovest. Altre zone consistenti erano collocate nell’asse della Nomentana. Il P.R. del 1931 conferma in gran parte queste previsioni, ma, nell’utilizzare le zone a palazzina come nervatura delle aree a villini o come mediazione tra gli intensivi e le zone a verde e di rispetto, finisce per distribuirle omogeneamente intorno a tutta la città storica, anche se alcune zone, come quelle a nord, mantengono un carattere di lusso’. Cfr., MUNTONI A., PAZZAGLINI M., Roma 1920-40: dal ‘villino alla ‘palazzina’, in: ‘Metamorfosi’, Quaderni di Architettura, n.8, 1987.

  • 21

    2 Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la Capitale si trasforma

    Monte Sacro e alla Garbatella.38 Tralasciando, in questa sede, la trattazione sulle vicende di carattere

    architettonico e tipologico per le quali esiste già un’ampia letteratura in merito, si vuole accennare al

    ruolo svolto dall’Unione Edilizia Nazionale (U.E.N.) che nel 1921, nella ‘Città Giardino Aniene’ e nel

    quartiere Nomentano operò alla realizzazione di edifici secondo i due ordini tipologici (intensivo e villini)

    sopra citati.

    Fig.07 Roma, Planimetria Generale dei 10 villini da affidare alla Federazione Nazionale delle Cooperative di Produzione e Lavoro. ACS, fondo U.E.N., 1921.

    L’intervento nella Città Giardino fu un progetto di vaste dimensioni che vide la realizzazione sia delle

    case/villini che delle infrastrutture. Gran parte delle opere di questo complesso furono affidate alla

    Federazione Nazionale delle Cooperative di Produzione e Lavoro, fondata all’inizio del 1919 e associatasi

    con l’UEN per l’esecuzione dei lavori edilizi di competenza dell’Ente. Altri appalti invece furono affidati

    alla Cooperativa ‘Il Genio’, o all’Impresa ‘Rocco Ciafardoni’.

    Istituito nel 1910 con la denominazione di ‘Unione messinese dei proprietari danneggiati dal terremoto’

    del 1908, l’ente lavorava con la finalità di sopperire alle difficoltà dei privati, riuniti in consorzio (art. 8,

    Legge 466 del 13.07.1910)39, nei progetti di ricostruzione. Trasformato in U.E.M. (Unione Edilizia

    Messinese), nel 1917 estese le proprie competenze anche sul resto del territorio nazionale mutando la

    denominazione in U.E.N. (Unione Edilizia Nazionale). Con la Legge 2318 del 30.11.1919 (Testo Unico per

    le case popolari e l’industria edilizia), l’Unione fu autorizzata a costruire case popolari ed economiche

    nei centri urbani ove non operavano direttamente gli IACP (Istituti Autonomi Case Popolari, attivi dal

    1913), o per mancate risorse finanziarie da parte delle amministrazioni comunali.

    38

    ‘Monte Sacro, chiamata città giardino, è in realtà una via di mezzo fra un quartiere giardino e un borgo rappresentato dal centro di servizi formato da una grande piazza al termine del tratto rettilineo di via Nomentana prima di Porta Pia. La Garbatella, sorta non lontana dalla chiesa di San Paolo fuori le Mura, è pensata come ‘borgata’ giardino, in cui gli edifici pubblici caratterizzino le piazze e le abitazioni, le strade: una sistemazione ‘armonica’ con il verde, che riconnette e unifica le parti’. Cfr.; CIUCCI G., 2014, p. 85. 39

    Legge 466/1910 ‘Provvedimenti a favore dei comuni colpiti dal terremoto del 28 dicembre 1908’.

  • Tr

    Ottenuta l’autorizzazione ad inter

    Prestiti affinchè agevolasse l’ero

    avviato i nuovi cantieri edili e

    coordinamento delle varie attivi

    privata40, invitando direttamente

    La vasta documentazione contrat

    l’Archivio Centrale dello Stato41

    dichiarati in merito all’utilizzo di m

    Il contratto d’appalto si corredava

    dattiloscritto o prestampato, utiliz

    margine di ogni foglio ed eventua

    Fig.08 Città Giardino Aniene, Società

    Per la costruzione di due villini

    impegnava ad eseguire, a ‘perfett

    indicate (tipo AM e QA) nel contra

    era materiale costituente il congl

    cemento ‘lavorato’ erano anche g

    soglie delle porte, i davanzali d

    pavimentazioni interne dei locali

    procedeva con un battuto compre

    Sui prospetti interni ed esterni,

    finitura a colla (in questo caso no

    base di latte di calce, colla e colori

    Tra gli articoli del Capitolato Gene

    diversi’, art. 26 ‘Marmi, pietre lav

    prescritte per davanzali, soglie e s

    Portland, usando graniglie di ma

    delle medesime avrà luogo dopo

    di malta cementizia, giusta le disp

    Proseguendo, all’art. 30 ‘Incrostaz

    raschiandone le connessure e,

    40

    Art. 123, Dlgs 163/2006 come modifica41

    ACS, fondo UEN, anno, 1921, voll., 6, 13,42

    Contratto d’appalto firmato in data 10

    22

    Tradizione e innovazione a Roma (1870-1930): la C

    intervenire nella città di Roma, l’UEN strinse patti c

    ’erogazione di mutui a favore delle cooperative r

    ili e, all’interno dell’operazione, ebbe un ruolo

    ttività. Gli appalti venivano affidati sia in econom

    nte cooperative e imprese note.

    trattuale (capitolati, elenchi prezzi ed elaborati gra41, ha fornito alla ricerca in essere i dati spesso

    di materiali ‘moderni’ quali il cemento e suoi derivat

    dava di un unico capitolato valido per tutti i proget

    utilizzato con le stesse voci, salvo l’apposizione delle

    tuali note o specifiche di lavorazioni aggiunte a penn

    ietà Anonima Edile Italiana, Progetto di ‘casetta per una f

    llini nella Città Giardino Aniene, località Ponte No

    rfetta regola d’arte’, per un importo, a corpo, di L.

    ntratto. Nell’elencazione dei lavori per tipologia e de

    onglomerato delle travi, solai, stipiti e architravi di p

    he gli elementi di completamento, come i ‘gradi e so

    li delle finestre, le mattonelle esagone o quadre

    ocali non di servizio; mentre per gli altri ambienti

    presso e cilindrato di cemento e sabbia di 2 cm42’.

    rni, gli intonaci erano realizzati con una malta di

    non si ricorre a malte cementizie). Si completava c

    olori.

    Generale d’Appalto, in versione a stampa, nella sezi

    e lavorate, pietre artificiali’ si riporta: “(…) le pietre

    e e scalini in masselli, saranno eseguite con conglom

    marmi grigi, bianchi o gialli, secondo verrà conven

    po la loro completa levigatura, valendosi di malta id

    disposizioni particolari dell’Ufficio dirigente”.

    stazioni’, “(…) la superficie da intonacare sarà prima

    e, dopo che sia stata bagnata, vi si applicherà

    ificato dalla L.106/2011.

    6, 13, 14, 18. a 10 gennaio 1921. ACS, fondo UEN, anno 1921, repertorio 121.

    2 : la Capitale si trasforma

    tti con la Cassa Depositi e

    ve romane che avrebbero

    uolo di supervisore e di

    nomia che per licitazione

    i grafici) conservata presso

    esso non deliberatamente

    rivati, nei cantieri romani.

    ogetti visionati: un format,

    elle firme dei contratti