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1 XXX Convegno SISP Università degli Studi di Milano 15-17 Settembre 2016 Panel 7.1 “Corruzione, amministrazione e politiche pubbliche (I)I mass media e la denuncia della corruzione: verso una tipologia del ruolo del giornalista nei casi di corruzione Roberto Mincigrucci (Università degli Studi di Perugia) Introduzione Questo paper nasce in seno al Wp 6 Media and Corruption del progetto di ricerca Anticorrp Anticorruption Policies Revised. Global Trends and European Responses to the Challenge of Corruption”, finanziato nell’ambito del VII Programma Quadro dell’Unione Europea, che si propone di analizzare il coverage giornalistico della corruzione. Come per molti studi che analizzano il rapporto tra media e corruzione, anche la presente ricerca parte dall’assunto, ampiamente dibattuto in letteratura, secondo cui un sistema dei media libero ed indipendente rappresenti un valido deterrente per il protrarsi di fenomeni corruttivi. Diverse ricerche condotte in ambito economico e politologico (Brunetti e Weder 2003; Camaj 2013; Staning 2015; Chowdhury 2004; Ahrend 2002) mettono in evidenza una correlazione positiva tra libertà di stampa e bassi livelli di corruzione. I giornalisti nell’esercizio del loro lavoro svolgono una funzione di guardiani sociali, indagano su episodi di malaffare, stimolano la presa di coscienza dell’opinione pubblica sul fenomeno facendo crescere la soglia di accountability che si richiede ai rappresentanti politici e/o a pubblici ufficiali. Questo assunto però rischia di risultare troppo generico, considerando la libertà di stampa come una variabile dicotomica, come un fattore che c’è o non c’è in un determinato contesto sociale. Invece, come diversi studi dimostrano (Hallin e Mancini 2004; Hanitzsch 2007), la stima della libertà di stampa è soggetta a differenti valutazioni, può essere influenzata da diversi parametri che caratterizzano la cultura giornalistica di un determinato contesto. È abbastanza pacifico infatti affermare che la libertà di stampa sia un ostacolo al protrarsi della corruzione, ma questo concetto come può essere declinato in un sistema giornalistico come quello italiano, considerato “parzialmente libero” secondo le stime di Freedom House 1 ? In realtà, il rapporto tra media e corruzione è molto più complesso e problematico: in alcune situazioni il giornalista svolge effettivamente un ruolo positivo di contrasto alla corruzione, raccontando o a volte scoprendo uno scandalo, talvolta può capitare però che i giornalisti siano coinvolti direttamente in casi di corruzione, risultino parte integrante del network corruttivo, rivestendo quindi un ruolo negativo, e cioè svolgendo un lavoro che non ostacola il protrarsi di fenomeni corruttivi e, talvolta, contribuisce ad alimentarli. 1 Freedom House “Freedom of the press 2015” https://freedomhouse.org/report/freedom-press/2015/italy

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XXX Convegno SISP

Università degli Studi di Milano 15-17 Settembre 2016

Panel 7.1 “Corruzione, amministrazione e politiche pubbliche (I)”

I mass media e la denuncia della corruzione: verso una tipologia del

ruolo del giornalista nei casi di corruzione

Roberto Mincigrucci (Università degli Studi di Perugia)

Introduzione

Questo paper nasce in seno al Wp 6 Media and Corruption del progetto di ricerca Anticorrp –

“Anticorruption Policies Revised. Global Trends and European Responses to the Challenge of

Corruption”, finanziato nell’ambito del VII Programma Quadro dell’Unione Europea, che si

propone di analizzare il coverage giornalistico della corruzione. Come per molti studi che

analizzano il rapporto tra media e corruzione, anche la presente ricerca parte dall’assunto,

ampiamente dibattuto in letteratura, secondo cui un sistema dei media libero ed indipendente

rappresenti un valido deterrente per il protrarsi di fenomeni corruttivi. Diverse ricerche condotte in

ambito economico e politologico (Brunetti e Weder 2003; Camaj 2013; Staning 2015; Chowdhury

2004; Ahrend 2002) mettono in evidenza una correlazione positiva tra libertà di stampa e bassi

livelli di corruzione. I giornalisti nell’esercizio del loro lavoro svolgono una funzione di guardiani

sociali, indagano su episodi di malaffare, stimolano la presa di coscienza dell’opinione pubblica sul

fenomeno facendo crescere la soglia di accountability che si richiede ai rappresentanti politici e/o a

pubblici ufficiali.

Questo assunto però rischia di risultare troppo generico, considerando la libertà di stampa come una

variabile dicotomica, come un fattore che c’è o non c’è in un determinato contesto sociale. Invece,

come diversi studi dimostrano (Hallin e Mancini 2004; Hanitzsch 2007), la stima della libertà di

stampa è soggetta a differenti valutazioni, può essere influenzata da diversi parametri che

caratterizzano la cultura giornalistica di un determinato contesto. È abbastanza pacifico infatti

affermare che la libertà di stampa sia un ostacolo al protrarsi della corruzione, ma questo concetto

come può essere declinato in un sistema giornalistico come quello italiano, considerato

“parzialmente libero” secondo le stime di Freedom House1? In realtà, il rapporto tra media e

corruzione è molto più complesso e problematico: in alcune situazioni il giornalista svolge

effettivamente un ruolo positivo di contrasto alla corruzione, raccontando o a volte scoprendo uno

scandalo, talvolta può capitare però che i giornalisti siano coinvolti direttamente in casi di

corruzione, risultino parte integrante del network corruttivo, rivestendo quindi un ruolo negativo, e

cioè svolgendo un lavoro che non ostacola il protrarsi di fenomeni corruttivi e, talvolta, contribuisce

ad alimentarli.

1 Freedom House “Freedom of the press 2015” https://freedomhouse.org/report/freedom-press/2015/italy

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L’ipotesi che si intende indagare in questo paper è che l’azione del giornalista nei casi di corruzione

è strettamente collegata alle caratteristiche salienti del nostro sistema dell’informazione, in

particolare l’alto tasso di parallelismo politico che da sempre caratterizza la cultura dei media

italiani (Donsbach e Patterson 2004; Hallin e Mancini 2004) e che spesso si traduce in un racconto

partigiano delle notizie se non in una vera e propria strumentalizzazione dei fatti. La propensione

del giornalista a condurre un’inchiesta e scoprire uno scandalo o la sua vulnerabilità ad un

comportamento corruttivo sono riconducibili alle particolarità del sistema dei media italiani.

L’obiettivo del paper pertanto è quello di proporre quattro tipologie in grado di illustrare il ruolo dei

giornalisti di fronte a casi di corruzione. Le prime due tipologie riguardano i ruoli positivi: 1)

Enforcer/Initiator, giornalisti che scoprono il caso o ne parlano per primi sui mezzi di

informazione; 2) Reporter/Facilitator, i giornalisti che pur non essendo coloro che hanno scoperto il

caso decidono di seguirlo e approfondirlo, fornendo dettagli ulteriori e interpretazioni. Dall’altra

parte i ruoli negativi: 3) Actively corrupt/ Collaborator, i giornalisti sono parte del network

corruttivo, concedendo favori nell’esercizio del proprio mestiere, in cambio di benefici personali; 4)

Inactive/Lazy giornalisti che pur non ottenendo vantaggi personali sottostimano l’importanza del

caso e decidono di non trattarlo nei propri articoli. Questa ricerca è stata condotta tramite l’analisi di

quattro case studies: 1_ Fini e la Villa di Montecarlo; 2_ Calciopoli; 3_ il caso Bisignani; 4_ Il caso

“Betulla” (Renato Farina). Attraverso i quattro casi studio si cercherà di comprendere come i

giornalisti svolgono le quattro tipologie di ruolo, quali fattori incidono nel modo di trattare un caso

di corruzione e se le quattro tipologie possono esaustivamente spiegare il modo in cui i giornalisti

italiani si approcciano con il fenomeno della corruzione, ed eventualmente appurare le distanze tra i

ruoli ricostruiti in maniera teorica e la loro applicazione a dei casi concreti.

I giornalisti e la corruzione

Come detto nel precedente paragrafo, molti studiosi hanno utilizzato come variabile dei propri studi

sulla corruzione proprio il sistema dei media. Questi studi cercano di dimostrare attraverso dei

modelli statistici che in presenza di un sistema mediale “libero” i tassi di corruzione tendono a

diminuire. Una delle ricerche più rappresentative in questo ambito è quella già citata di Brunetti e

Weder (2003) “A free press is a bad news for corruption”. Utilizzando come variabile indipendente

gli indici di libertà di stampa forniti da Freedom House e come variabile dipendente alcuni indici di

misurazione della corruzione, i due studiosi dimostrano come ci sia una correlazione negativa

statisticamente rilevante tra le due variabili, e che quindi la libertà di stampa rappresenta un efficace

deterrente nei confronti di pratiche corruttive. Diverse ricerche hanno trattato lo stesso concetto

elaborato da Brunetti e Weder (Ahrend 2002; Stanig 2015), dimostrando come il livello della

corruzione possa essere influenzato anche da altre variabili oltre alla libertà di stampa, come ad

esempio il tasso di circolazione dei quotidiani (Lindstedt e Naurin 2010), il livello di democraticità

di un determinato paese (Chowdhury 2004), o la trasparenza amministrativa e la libertà di accesso

agli atti pubblici (Freedom of Information, FOI) (Worthy e McClean 2015). Stapenhurst propone un

livello di approfondimento maggiore. Non si limita a dimostrare l’assunto secondo cui la stampa

può aiutare a combattere la corruzione, ma si interroga anche sul come ciò può avvenire. In

particolare individua due tipi di effetti che i media possono avere sulla corruzione: tangibili e

intangibili. Gli effetti tangibili sono quelli che producono effetti diretti e visibili, ad esempio un’

inchiesta giornalistica può far avviare un’inchiesta giudiziaria, può indurre le forze politiche ad

emanare provvedimenti legislativi, può far scattare procedimenti di impeachment e costringere alle

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dimissioni un esponente politico o un pubblico ufficiale. Ma allo stesso tempo può rafforzare anche

le autorità-anticorruzione o gli altri istituti volti ad indagare e a combattere questo tipo di fenomeni.

Molto spesso però gli effetti prodotti dai media sono intangibili. Questi chiamano in causa in

particolare l’opinione pubblica. I media infatti possono indirizzare il dibattito pubblico verso certe

tematiche, rendendo di conseguenza l’opinione pubblica più sensibile nei confronti di determinate

questioni, aumentando la richiesta di partecipazione politica o facendo crescere la soglia di

accountability che si richiede ai rappresentanti politici e/o a pubblici ufficiali. (Stapenhurst 2000).

Queste ricerche quindi prendono in considerazione il giornalista soltanto in funzione positiva,

esaltando la concezione di giornalismo whatchdog di matrice anglosassone, il cane da guardia della

democrazia pronto a rivelare le storture del sistema politico ed economico. Ma anche il concetto

stesso di giornalismo whatchdog presenta diverse sfaccettature, diverse metodologie di lavoro che

possono influire e condizionare la trattazione del fenomeno della corruzione. Il termine muckraking

viene spesso utilizzato come sinonimo di whatchdog, e si riferisce al giornalista che fa il lavoro

sporco, rovistando nell’occulto alla ricerca della notizia. In altre parole si riferisce al giornalista

investigativo, che nella presente ricerca viene definito Enforcer/Initiator, un professionista che

conduce autonomamente un’indagine al fine di pubblicare una vera e propria inchiesta. Stetka e

Örnebring sostengono che il giornalismo investigativo consiste nel fornire una copertura mediatica

duratura nel tempo di trasgressioni legali o morali commesse da persone che detengono un qualche

tipo di potere, e che richiede più tempo e più risorse dei servizi giornalistici ordinari (Stetka e

Örnebring 2013). Un giornalista investigativo, secondo una definizione fornita da de Burgh (2008)

è colui che, attraverso il proprio lavoro, si impegna a scoprire la verità o ad identificare la

menzogna con qualunque mezzo disponibile. Il giornalista investigativo non si limita a narrare gli

eventi, ma si adopera per scoprire e rivelare i fatti nascosti (Aucoin 2003), reperendo informazioni

ignote e trasformandole in storie (Richards e Josephi 2013). Sempre de Burgh precisa che il

giornalismo investigativo si caratterizza per il suo andare oltre quello che qualcuno vuole

nascondere. Questa formulazione pone l’accento su uno degli aspetti principali del giornalismo

investigativo, una delle caratteristiche che lo contraddistinguono da tutti gli altri generi, ovvero il

reperimento delle fonti. “Andare oltre” ovvero non accontentarsi delle fonti ordinarie, dei

comunicati forniti dagli uffici stampa, delle dichiarazioni ufficiali o dei documenti pubblici. La

differenza con tutti gli altri generi di giornalismo sta proprio nel tipo di lavoro condotto dal reporter:

captare dei rumors, degli indizi o suggestioni presenti nella società, verificarli attraverso una vera e

propria indagine, analizzando documenti, intervistando personaggi, valutando le informazioni che le

proprie fonti sono in grado di fornire, fino all’eventuale reperimento delle prove e alla conseguente

pubblicazione della notizia. In altre parole il giornalismo investigativo consiste nella rivelazione di

questioni di pubblica rilevanza tramite l’impegno di un giornalista, che si assume l’iniziativa

dell’indagine e la conduce in prima persona (Waisbord 2000). Un lavoro lungo e complesso, che

per molti aspetti ricalca quello di un detective o di un magistrato, e che talvolta, pur giocando un

ruolo positivo di contrasto alla corruzione, implica esso stesso la violazione di norme o regolamenti

nel reperimento delle fonti, come ad esempio rapporti collusivi con magistrati o pubblici ufficiali

(Marchetti 2009), i quali forniscono informazioni ai giornalisti in maniera poco trasparente se non

illegale.

Per esercitare il ruolo di watchdog non necessariamente occorre che il giornalista scopra in prima

persona un misfatto. Ad esempio diverse ricerche dimostrano come fenomeni corruttivi siano

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scoperti prevalentemente tramite l’indagine della magistratura e delle forze dell’ordine, e soltanto in

un secondo momento ottengano la copertura nei media tramite articoli di cronaca giudiziaria

(Mancini et al. in corso di pubblicazione; Marchetti 2009; Sidoti 2003). Pur non assumendosi

l’onere dell’indagine però non si può negare che, anche attraverso la semplice copertura di atti

illeciti scoperti da altri, il giornalista sia in grado di esercitare la sua funzione di watchdog. Quello

che in questa ricerca viene definito Reporter/Facilitator, ovvero il giornalista che segue un caso

scoperto da altri, magari aggiungendovi un contributo di interpretazione o nel reperimento di nuovi

dettagli, esercita le già citate “funzioni intangibili” di contrasto alla corruzione teorizzate da

Stapenhurst (2000), che stimolano la diffusione di un condiviso senso dell’interesse generale e del

bene comune che costituisca un argine a comportamenti che ledano l’interesse generale. Anche i

Reporter/Facilitator, come gli Enforcer/Initiator, vanno considerati come attori positivi di contrasto

alla corruzione, in quanto sono in grado di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su episodi

di malaffare, diffondendo una cultura condivisa della legalità (Vannucci 2012) e creando un terreno

sfavorevole al protrarsi di fenomeni corruttivi. Ettema e Glasser (1998) considerano questo tipo di

giornalisti come “custodi della coscienza pubblica” perché contribuiscono a costruire un sistema di

valori generalmente riconosciuto e a suscitare un sentimento di indignazione verso quei

comportamenti che minano tali valori.

Parlare di giornalismo watchdog, e quindi dei ruoli positivi che i giornalisti possono ricoprire nel

contrastare la corruzione, presuppone una stampa indipendente ed obiettiva, libera di decidere cosa

è notiziabile e cosa non lo è, di condurre delle indagini e di offrire delle interpretazioni (Rosenbaum

e Duncan 2001). Tuttavia l’importanza dei media in una società democratica fa sì che diversi attori

sociali (esponenti politici, imprenditori) o altri gruppi di interesse si adoperino per influenzare il

lavoro dei giornalisti e quindi il dibattito pubblico (Entman 2004). Queste influenze possono

avvenire tramite “regali o favori” (Onyebadi e Alajmi 2016) o attraverso delle vere e proprie

tangenti (Ristow 2010; Yang 2012; Tsetsura 2005) in cambio di un coverage favorevole. Quelli che

in questo paper vengono definiti Actively corrupt/ Collaborator sono quei giornalisti, editori o

dirigenti che disattendono i dettami etici imposti dai vari ordini professionali accentando benefit di

vario genere, dalla classica tangente monetaria ad altri tipi di benefici quali viaggi, biglietti per

eventi ecc. in cambio di una copertura giornalistica favorevole o di una non trattazione di certi

eventi o fatti non graditi al corruttore. Ci sono diversi modi attraverso cui può verificarsi il rapporto

corruttivo: ad esempio un giornalista che riceve una tangente in cambio del suo silenzio in una

storia di corruzione, un capo redattore che accetta un pagamento nascosto per concedere

un’intervista ad un politico poco prima di una tornata elettorale o un editore che vieta ai propri

giornalisti di pubblicare una storia sfavorevole ad un’impresa che investe in pubblicità nel proprio

giornale.

Ma i meccanismi di influenza sono molteplici e non necessariamente implicano uno scambio di beni

materiali. È soprattutto Örnebring (2012) a porre l’accento sui rapporti clientelari che talvolta vanno

ad instaurarsi tra esponenti politici e il sistema dei media. I media giocano un ruolo fondamentale

nell’orientare l’opinione pubblica, soprattutto in periodi elettorali, quindi un politico che aspira ad

una carica elettiva avrà un forte interesse nel costruire un network clientelare all’interno dei media.

Il clientelismo è una pratica attraverso cui personaggi influenti o individui inseriti in

amministrazioni pubbliche instaurano un sistema di favoritismi e scambi fondato sull'assegnazione

arbitraria di risorse, benefici o posti di lavoro in cambio di supporto o più comunemente di voti.

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Collocando persone fedeli in alcune posizioni strategiche nelle redazioni o nei consigli di

amministrazione di giornali o reti televisive, i politici sono in grado di assicurarsi non tanto

pacchetti di voti quanto un coverage favorevole e quindi di influenzare l’opinione pubblica.

Örnebring nella sua ricerca si riferisce in particolar modo al contesto dell’Europa orientale, ma non

mancano ricerche che mettono in luce rapporti clientelari, o meglio di lottizzazione, anche nel

panorama italiano (Mancini 2009). Quando questo rapporto clientelare diventa sistemico finisce per

avere ripercussioni anche su quei giornalisti che decidono di rimanervi fuori. In alcuni casi infatti il

network è talmente radicato e potente che è in grado di attivare dei meccanismi punitivi, come ad

esempio la rimozione da un incarico o il licenziamento di quei giornalisti che rifiutano di sottostare

ai meccanismi di influenza appena discussi.

Quello che Tsetsura (2005) definisce “cash for coverage” mina i principi del giornalismo watchdog,

non soltanto inibendo le sue funzioni di contrasto alla corruzione, ma alimentando esso stesso il

network corruttivo rendendolo sistemico. È possibile però che i media possano disattendere quelle

funzioni tangibili ed intangibili di contrasto alla corruzione, e quindi giocare un ruolo negativo,

anche in maniera involontaria, senza mettere in pratica nessun comportamento collusivo o illegale.

Ad esempio un giornale può decidere di non coprire un determinato caso di corruzione per mera

scelta editoriale, senza ricevere delle tangenti o dei favori particolari. È ovvio che una simile scelta

non attiverà quei meccanismi di controllo sociale demandati al sistema dei media, ma ciascun media

outlet segue dei propri criteri di notiziabilità che non comprendono quello di dover denunciare

qualsiasi atto illecito verificatosi. Un giornalista può decidere di seguire o meno una determinata

storia avendo come unico metro di giudizio la notiziabilità, deve valutare se ogni singolo caso può

interessare i propri lettori perché, come sostiene de Burgh (2008), non tutto quello che è nascosto è

meritevole di essere pubblicato. Sono quei casi che in questa ricerca vengono definiti Inactive/Lazy.

Il giornalismo di inchiesta è un lavoro lungo e dispendioso, necessita di team di giornalisti

altamente qualificati impegnati a tempo pieno in un laborioso lavoro di ricerca e di indagine che

può condurre a risultati soltanto nel medio-lungo periodo, sottraendo risorse al lavoro quotidiano di

una redazione. L’inchiesta è un genere di giornalismo che poco si concilia con i tempi ristretti di un

quotidiano, impegnato a produrre giornalmente un gran numero di notizie, soprattutto in un periodo

in cui i profitti della carta stampata presentano dei cali consistenti e gli editori sono impegnati in

una riformulazione di strategie commerciali volte alla riduzione dei costi di produzione, talvolta a

scapito della qualità delle notizie fornite (Allern 2014; Franklin 2005). In un contesto di

commercializzazione del mercato editoriale, il giornalismo investigativo sembra essere la prima

vittima dei tagli dei costi dell’industria editoriale (Stetka e Örnebring 2013), sia per i suoi alti costi

di produzione ma soprattutto perché sembra non ricevere il giusto apprezzamento neanche da parte

dell’audience, che predilige altri generi di giornalismo (Nord 2007).

Inoltre come spiega Waisbord (2000) la diffusione del giornalismo investigativo dipende, tra i vari

fattori, anche dalla ricettività dell’audience, dalla sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti di

determinate tematiche come ad esempio la corruzione. Waisbord si riferisce in particolare al

contesto sudamericano, dove episodi di disonestà in politica sono all’ordine del giorno, dove

aleggia un alto tasso di scetticismo circa l’integrità dei politici, e un caso di corruzione rischia di

avere un impatto minore rispetto ad altri paesi dove la corruzione non è sistemica. Ma questo

fenomeno può essere declinato anche al caso italiano: l’Italia infatti è tra i paesi europei in cui la

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percezione del livello di corruzione è più alta secondo le stime di Transparency International2,

quindi è plausibile ipotizzare che, come in Sudamerica, l’assuefazione nei confronti di pratiche di

malaffare sia piuttosto marcata. Con questo non si intende dire che l’opinione pubblica italiana sia

più tollerante nei confronti della corruzione, quanto piuttosto che c’è una “saturazione” (Waisbord

2000) di notizie riguardanti il malaffare che rende meno notiziabile la trattazione del fenomeno.

Talvolta quindi, per attirare l’attenzione, uno scandalo di corruzione deve presentare particolari

ingredienti che lo rendono notiziabile, come ad esempio il coinvolgimento di un personaggio noto o

elementi bizzarri che il giornalista può spettacolarizzare. Personalizzazione e spettacolarizzazione

degli scandali di corruzione da una parte aumentano la loro notiziabilità e quindi il loro impatto

sull’opinione pubblica, ma dall’altra parte sottostimano alcuni elementi utili ad una completa

comprensione del fenomeno o portano ad ignorare alcuni casi poco spettacolarizzabili, minando le

funzioni tangibili ed intangibili di contrasto alla corruzione citate precedentemente.

Le influenze del sistema dei media nell’esercizio del ruolo

Dopo aver ricostruito tramite la letteratura in materia l’archetipo dei ruoli che un giornalista può

ricoprire nel trattare (o non trattare) casi di corruzione, appare utile indagare le cause che

determinano l’esercizio di un ruolo piuttosto che di un altro. Come mai in determinate situazioni un

giornalista esercita la sua funzione di watchdog indagando sul malaffare o dando copertura a casi

scoperti da altri mentre in altre situazioni decide di ignorarli? Quali sono le condizioni che portano

un giornalista ad aderire ad un vero e proprio network corruttivo, alimentando con il suo lavoro un

clima favorevole alla corruzione? Nella sua classificazione dei contesti professionali di giornalismo

Hanitzsch (2011) individua tre variabili che influenzano profondamente la cultura giornalistica di

un determinato contesto: l’autonomia professionale, le influenze di carattere economico e politico e

le proprietà che controllano i media outlets. Come vedremo dall’analisi dei case studies selezionati,

queste variabili influenzano anche il ruolo che i giornalisti italiani ricoprono nei confronti di casi di

corruzione. Il sistema italiano dei media è collocato in quello che Hallin e Mancini (2004)

definiscono il modello “pluralista polarizzato” di giornalismo, in cui influenze derivanti dal mondo

della politica e degli affari producono una scarsa autonomia professionale dei giornalisti. Il sistema

dei media italiano è caratterizzato dalla presenza di un’editoria impura (Mancini 2002; Seghetti

2010), vale a dire di una classe imprenditoriale che investe sui media non tanto per ricavarne dei

guadagni quanto per condizionare il discorso pubblico, e questo produce delle pesanti influenze sul

lavoro dei giornalisti nel coprire uno scandalo legato a reati di corruzione. Diverse ricerche mettono

in evidenza come l’autonomia professionale dei giornalisti italiani sia limitata dalle pressioni

esercitate dagli editori sul loro lavoro (Pellegatta e Splendore 2014). Questo non significa che ci sia

sempre una censura preventiva sulla stampa italiana. Ma anche se la proprietà non interferisce

direttamente sul lavoro dei propri giornalisti, il semplice fatto che un media outlet sia controllato da

influenti imprenditori con interessi economici o politici di vario genere inibisce il giornalista

dall’occuparsi di questioni che potrebbero danneggiare questi interessi, instaurando meccanismi di

“auto-censura” (Stetka 2012). Proprio in luce di queste ragioni, Giampaolo Pansa (1977) ha definito

il giornalista italiano un “giornalista dimezzato”, riferendosi ad una figura professionale che

risponde solo per metà a se stesso, mentre per l’altra metà è appannaggio di un sistema di poteri

esterno al giornalismo, in particolare di carattere economico e politico.

2 Transparency International Corruption Perception Index 2015: http://www.transparency.org/cpi2015 (Ultima

consultazione 18/8/2016)

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Oltre alla presenza di un’editoria impura, il sistema dei media italiano rispecchia le peculiarità del

modello pluralista polarizzato anche per quanto riguarda la politicizzazione e gli alti tassi di

parallelismo politico (Mancini 2013), che si riflettono in un modo altamente partigiano nel

raccontare (e commentare) le notizie. Tale partigianeria risponde anche a delle logiche di mercato:

la segmentazione delle readership nel mercato editoriale italiano avviene principalmente in base alla

collocazione politica, e i media outlets cercano di rispecchiare ed alimentare le posizioni dei

rispettivi lettori per invogliarli a leggere. È una partigianeria “polarizzata”. Infatti le formazioni che

agiscono sulla scena politica italiana hanno posizioni molto distanti tra di loro e si caratterizzano

per una tendenza centrifuga, tendono cioè ad allontanarsi dal centro e quindi ad aumentare la

reciproca distanza (Sartori 1976). I mass media riflettono questa polarizzazione del sistema politico,

sostengono le posizioni delle fazioni presenti nell’arena e contribuiscono alla polarizzazione con la

loro trattazione partigiana.

La presenza di un’editoria impura e il parallelismo politico tra media e fazioni politiche causa una

strumentalizzazione della trattazione della corruzione: casi di corruzione ottengono copertura per

perseguire fini privati, in alcuni casi perché danneggiano gli avversari del proprio editore o della

fazione politica di riferimento, in altri casi per difenderli. Un giornalista può ricoprire il ruolo di

Enforcer/Initiator per attaccare un esponente politico poco gradito alla propria testata, o può essere

Inactive/Lazy qualora il caso di corruzione potrebbe ledere gli interessi del proprio editore.

Lo studio

L’obiettivo del presente lavoro è quello di comprendere il ruolo che ricoprono i giornalisti o alcuni

media outlet nei confronti di casi di corruzione in Italia, e quali sono i fattori che li spingono a

ricoprire un determinato ruolo piuttosto che un altro. In particolare le domande di ricerca che hanno

animato questo lavoro sono:

Quali sono le tipologie di ruolo che un giornalista può ricoprire nei confronti di uno

scandalo di corruzione in Italia?

Le quattro tipologie di ruolo subiscono delle influenze del sistema dei media italiano?

Quali peculiarità del sistema dei media italiano condizionano l’esercizio di un determinato

ruolo?

Attraverso lo studio dei casi è possibile trovare delle differenze tra i ruoli costruiti a livello

teorico e la loro applicazione concreta in scandali di corruzione?

Le quattro tipologie di ruolo, precedentemente illustrate e riassunte nella tabella 1, sono state

formulate a priori sulla base della letteratura in materia e sono state successivamente testate sulla

base di quattro case studies.

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Tabella 1_ Tipologie dei ruoli dei giornalisti in casi di corruzione

Ruolo Tipologia Attività del giornalista

Ruolo

positivo

Enforcer/Initiator

(Ruolo 1)

- Giornalismo investigativo;

- Fact-checking: verificare che le fughe di notizie siano affidabili

Reporter/facilitator

(Ruolo 2)

- Giornalista che pur non essendo colui che scopre il caso decide di

seguirlo e approfondirlo, fornendo dettagli ulteriori e interpretazioni

Ruolo

negativo

Actively

corrupt/collaborator

(Ruolo 3)

- Il giornalista riceve una tangente in cambio di un coverage

favorevole o per la non copertura di un caso di

- Il giornalista è parte del network corruttivo

Inactive/Lazy

(Ruolo 4)

- Giornalista che per varie ragioni decide di non trattare un caso di

corruzione

Come sostengono George e Bennett (2005), l’utilizzo dei casi studio è particolarmente utile per la

formulazione di tipologie teoriche in grado di consentire generalizzazioni su come e perchè delle

variabili indipendenti possono produrre determinati risultati. A differenza degli approcci

quantitativi, l’utilizzo dei case studies non permette di comprendere quante volte un determinato

fenomeno si ripete, ma più semplicemente quali condizioni ne determinano il verificarsi. In altre

parole questo lavoro non ha la pretesa di dire che i casi analizzati dimostrano che il giornalismo

italiano lavora in una determinata maniera. Al massimo si può sostenere che, a parità di condizioni,

i fattori causali delle situazioni analizzate possono produrre le medesime conseguenze, senza dare

indicazioni su quante volte questo può accadere. I casi studio sono stati selezionati sulla base dei

seguenti criteri:

Rilevanza: il caso selezionato quanto è importante ed esplicativo delle routines

giornalistiche e delle pratiche quotidiane di lavoro dei giornalisti?

Alto profilo: i personaggi coinvolti sono rappresentanti delle istituzioni, decisori, leader di

opinione o figure di primo piano di un determinato settore?

Diversità: il caso mostra una varietà di interazioni tra media e corruzione?

Complessità: il giornalista o il media outlet coinvolto ricopre vari ruoli, positivi o negativi?

Originalità: nessuno dei casi doveva essere stato analizzato da ricerche precedenti

nell’ambito della corruzione.

La tabella 2 indica i casi studio selezionati.

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Tabella 2_ Case Studies

L’analisi

Enforcer/Initiator

Diverse ricerche dimostrano che il giornalismo investigativo non è una pratica molto diffusa in

Italia (Della Porta 1992; Sidoti 2003; Mancini et al. in corso di pubblicazione). Le origini letterarie

del giornalismo italiano, ma soprattutto la forte impronta politica di cui si è discusso nei precedenti

paragrafi, hanno forgiato degli stili narrativi marcatamente orientati al commento schierato più che

alla ricerca neutrale dei fatti (Mancini 2002). Attraverso i case studies selezionati è stato possibile

identificare uno dei pochi esempi di giornalismo investigativo in Italia, ovvero il lavoro condotto da

Gian Marco Chiocci, giornalista de Il Giornale, in occasione dello scandalo denominato nei media

“Villa di Montecarlo”. Il caso in questione tratta della vicenda che ha visto coinvolti l’ex presidente

della Camera Gianfranco Fini, la sua compagna Elisabetta Tulliani e il cognato Giancarlo Tulliani

Case study Elementi che ne hanno determinato la selezione

Case study 1

Calciopoli. Il più importante

scandalo del mondo del

calcio in Italia

Il caso presenta diverse sfaccettature del

fenomeno della corruzione nei media

(strumentalizzazione);

Il caso presenta l’influenza diverse peculiarità del

sistema dei media in Italia (partigianeria dei

media);

Calciopoli è un caso complesso (sono presenti

tutte le tipologie teorizzate);

Il caso mostra come il coverage della corruzione

può essere influenzato dalla proprietà dei media

(editoria impura).

Case study 2

Il Caso Bisignani Il caso Bisignani è un caso unico e differente dagli

altri;

Il caso dimostra che la il sistema dei media e

alcune pratiche giornalistiche in Italia

contribuiscono alla creazione di figure capaci di

influenzare il processo decisionale.

Case study 3

Fini e la Villa di Montecarlo Un caso di uso strumentale di giornalismo

Il caso dimostra come l’esistenza di un’editoria

impura abbia delle ripercussioni nel coverage

della corruzione;

Il caso mostra una delle peculiarità del sistema dei

media: la partigianeria.

Case study 4

Il caso Betulla – Renato

Farina.

Un caso di segreta collaborazione tra un

giornalista e i servizi segreti

Strumentalizzazione della corruzione

10

in merito ad una proprietà immobiliare a Montecarlo. Attraverso un’inchiesta giornalistica, Gian

Marco Chiocci ha denunciato un presunto reato di peculato e di appropriazione indebita della

suddetta proprietà da parte della famiglia di Fini ai danni del partito Alleanza Nazionale. Il

quotidiano Il Giornale ha pubblicato per primo la notizia in prima pagina, giocando il ruolo di

Enforcer/Initiator secondo le nostre tipologie. Ma pur trattandosi di un classico esempio di

giornalismo investigativo, con un giornalista che ha raccolto autonomamente informazioni e ha

svolto una ricerca sul campo, si tratta di un tipo di inchiesta “all’italiana”, in cui emerge l’uso

strumentale che alcuni giornali possono fare degli scandali di corruzione. Il lavoro condotto dall’

Enforcer/Initiator appare condizionato sostanzialmente da due elementi: l’influenza esercitata da

un’editoria impura e l’alto tasso di partigianeria nel racconto delle notizie. Nel caso in questione

siamo in presenza di una strumentalizzazione politica di uno scandalo, un evento trattato in maniera

spettacolarizzata con lo scopo di danneggiare un avversario politico. La tesi della

strumentalizzazione è avvalorata dalla tempistica con cui lo scandalo esce sui giornali: nei giorni in

cui emerge lo scandalo sui giornali, Fini stava abbandonando il partito guidato da Silvio Berlusconi,

proprietario de Il Giornale (l’ Enforcer/Initiator), e pianificava di togliere il sostegno al suo

Governo. Più precisamente, la prima notizia sulla vicenda compare sui giornali esattamente due

giorni prima che il Pdl ufficializzasse l’espulsione di Fini dal partito. Il Giornale quindi aveva la

necessità di delegittimare la figura di Fini agli occhi dell’elettorato del Pdl, di offrire elementi

ulteriori per la sua espulsione e più in generale di danneggiare la sua carriera politica, svolgendo più

che il lavoro di giornalismo investigativo quello di “pseudo-giornalismo investigativo” (Stetka e

Örnebring 2013), ovvero di giornalisti che dietro un apparente lavoro di investigazione agiscono per

conto dei propri editori perseguendo fini privati. Questa pratica si inserisce nella logica di quello

che Thompson (2000) definisce “politics of trust”: con la scomparsa dei partiti di massa la figura

del leader assume sempre maggiore importanza per la conquista del consenso e senza la bussola

delle ideologie politiche, senza una chiara distinzione tra destra e sinistra, gli elettori indirizzano il

proprio voto in base all’idea di affidabilità, ma soprattutto di onestà, che un candidato riesce a

trasmettere. I presunti reati di corruzione politica diventano uno dei temi principali dello scontro

politico a scapito dei programmi e un Enforcer/Initiator partigiano come Il Giornale, attraverso un

processo di strumentalizzazione, ha posto un tema al centro del dibattito per diverse settimane e ha

danneggiato la reputazione dell’allora presidente della Camera Fini.

Un altro esempio di Enforcer/Initiator è rappresentato da alcune testate che si sono interessate dello

scandalo denominato “Calciopoli”. Il caso ha messo in luce una fitta rete di relazioni intessuta dal

Direttore Generale dello Juventus Football Club Luciano Moggi che si dipanava dal mondo delle

società calcistiche a quello arbitrale, fino a raggiungere il mondo dell’informazione al fine di

condizionare i risultati sportivi del Campionato di Serie A italiano. Moggi sfruttava i contatti del

suo network corruttivo con lo scopo di favorire l’andamento della società di cui era direttore

generale, la Juventus appunto, influenzando i designatori del mondo arbitrale in modo da gestire le

designazioni a suo piacimento, scegliendo arbitri che agevolassero il percorso del suo team verso la

vittoria e condizionando il lavoro dei giornalisti per avere un coverage favorevole nei confronti suoi

e della sua società. Le testate La Repubblica e La Gazzetta dello Sport hanno, in un primo

momento, denunciato e approfondito il caso, pubblicizzando i comportamenti corrotti e fungendo da

vero e proprio stimolo per il lavoro degli inquirenti. La Repubblica è stata l’unico giornale ad aver

sostenuto fino all’ultimo l’esigenza di un cambiamento nel sistema e non a caso è l’unica testata il

cui editore non aveva interessi diretti nel mondo del calcio. Per quanto riguarda la Gazzetta dello

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Sport invece, seppur possa essere considerata l’Enforcer/Initiator, ha avuto comunque dei

comportamenti ambigui nella trattazione della vicenda: la primissima notizia su calciopoli è

rappresentata da tre righe alla fine di un articolo pubblicato proprio nella Gazzetta che diceva:

“Avviso ai naviganti: sta per arrivare una pioggia di intercettazioni, la prossima volta usate i

pizzini”3. Questo significava che La Gazzetta dello Sport era in possesso delle intercettazioni

telefoniche, aveva le prove per pubblicare uno scoop che avrebbe cambiato la storia dello sport

italiano, eppure decise di pubblicare solo tre righe, una sorta di commento in codice che soltanto gli

addetti ai lavori potevano capire. Queste tre righe dimostrano una sorta di reticenza nel rivelare uno

scandalo di corruzione che avrebbe messo a repentaglio gli interessi degli editori. Uno scandalo

come “Calciopoli” non poteva essere ignorato dalla principale testata sportiva italiana. Ma, come

vedremo nel dettaglio quando presenteremo casi di giornalisti Inactive/Lazy, Calciopoli toccava

anche una serie di soggetti che avevano sia interessi diretti nel mondo del calcio ma che allo stesso

tempo erano in grado di esercitare una certa influenza sui media. Proprio per questo già dalle prime

righe pubblicate sulla vicenda emerge la volontà di controllare il tipo di notizie che sarebbero state

pubblicate, al fine di limitare gli effetti che un caso simile avrebbe prodotto sugli interessi dei

proprietari dei media, di metterli in guardia e di preparare un’eventuale difesa.

Reporter/Facilitator

Nella prima parte del paper sono state illustrate le differenze che a livello teorico intercorrono tra il

ruolo di Enforcer/Initiator e Reporter/Facilitator. Quest’ultimo infatti non scopre direttamente il

caso attraverso un’inchiesta giornalistica, ma si limita a dargli risalto riprendendo il lavoro condotto

da altri. Nonostante le diverse modalità di lavoro però, l’analisi dei case studies dimostra che le due

tipologie di ruolo vengono condotte con modalità molto simili, seguono le stesse logiche nel lavoro

di gatekeeping. I casi di corruzione vengono trattati se possono danneggiare un avversario politico

del proprio editore, o se comunque non ledono i suoi interessi. È il caso ad esempio di “Calciopoli”:

come per la Gazzetta dello Sport che ha rivestito il ruolo di Enforcer/Initiator, alcune testate come

il Corriere della Sera hanno trattato il caso nella sua fase iniziale, salvo poi affievolirne i toni

quando il caso rischiava di intaccare gli interessi della proprietà.

Anche il caso della “Villa di Montecarlo” ha visto delle testate ricoprire il ruolo di

Reporter/Facilitator, ma le modalità con cui questo ruolo è stato ricoperto presentavano delle

marcate differenze, accentuando ancora una volta l’importanza che riveste il parallelismo politico

nel modo di coprire uno scandalo di corruzione. I quotidiani che hanno rivestito il ruolo di

Reporter/Facilitator da noi analizzati sono Libero, un quotidiano di centrodestra molto vicino alle

posizioni del Governo Berlusconi, La Repubblica, il principale quotidiano di centro sinistra il cui

editore, De Benedetti, aveva dei contrasti di natura imprenditoriale con Berlusconi, il Corriere della

Sera e La Stampa, due quotidiani senza una precisa affiliazione politica. In questo caso la

partigianeria si è manifestata a doppio senso: se da una parte il quotidiano di centro destra ha

attaccato Fini per indebolire la sua azione politica invisa a Berlusconi, per le stesse ragioni La

Repubblica ha ritenuto necessario prendere le sue difese, vedendo nelle attività di Fini la possibilità

di far cadere il governo di centro destra. In questo caso la partigianeria ha assunto dei connotati

3 “Palazzo di Vetro” da “La Gazzetta dello Sport” del 22 aprile 2006.

12

particolari: per attaccare il nemico storico (nonché un rivale del proprio editore), La Repubblica ha

assunto le difese di uno dei maggiori esponenti della destra italiana. Per quanto riguarda il Corriere

della Sera e La Stampa, hanno mantenuto un basso profilo, limitandosi a fornire una cronaca

asettica della vicenda senza assegnargli una posizione di preminenza. I toni utilizzati erano diversi

da quelli dei quotidiani schierati, orientandosi più alla cronaca che al commento della vicenda,

senza prendere le parti di nessuna delle due fazioni. In altre parole, un caso di corruzione viene

coperto se ci sono degli interessi in ballo da difendere. Un comportamento illecito viene

pubblicizzato e denunciato nei giornali se a commetterlo è una personalità scomoda al proprio

editore o se appartiene ad una fazione politica differente da quella a cui la testata fa riferimento.

Qualora il caso coinvolga una personalità gradita al giornale, il caso va sì trattato, ma con un taglio

completamente differente, con lo scopo di difendere il personaggio in questione dagli attacchi degli

altri quotidiani. Il caso della “Villa di Montecarlo” assume dei connotati particolari, si trasforma in

una vera e propria diatriba tra giornali con accuse reciproche di partigianeria. Quello che ne emerge

da una lettura complessiva è un racconto di parte, una politicizzazione dell’attività anticorruzione

(Sberna e Vannucci 2013) in cui viene messa in dubbio sia la terzietà dell’organo giudiziario,

sostenuto o accusato di non essere imparziale a seconda della fazione del politico indagato, ma

soprattutto del sistema dei media, che invece di essere uno watchdog che controlla la società con la

forza imparziale dei fatti, strumentalizza gli episodi di corruzione in base al proprio colore politico e

alle esigenze del proprio editore.

Actively corrupt/ Collaborator

I primi due casi illustrati mettevano in evidenza i ruoli “positivi” di giornalismo, e cioè di quei

giornalisti o quelle testate che, nonostante delle influenze o delle distorsioni causate da alcune

peculiarità del sistema italiano dei media, denunciano e pubblicizzano casi di corruzione, fungendo

in qualche modo da deterrente al fenomeno. I ruoli “negativi” che verranno presentati nelle

prossime pagine invece non offrono nessun contrasto al fenomeno della corruzione, non lo trattano

e, se lo trattano, lo fanno in maniera distorta, al fine di alterarne la percezione e avvantaggiare degli

interessi di parte.

Nel contesto italiano si sono verificati diversi casi in cui i giornalisti si sono rivelati parte di un

network corruttivo, offrendone una trattazione falsata in cambio di benefici privati. Il caso più

cristallino è il già citato caso “Calciopoli”. Il caso vede infatti coinvolti non solo rappresentanti del

calcio nostrano come giocatori, arbitri, designatori e alti dirigenti di alcune delle squadre più

importanti nel panorama calcistico italiano, ma anche numerosi giornalisti. Alcuni numeri mostrano

la centralità dei media, e dei giornalisti in particolare, nel più grande scandalo che ha coinvolto il

calcio italiano: nelle oltre 170 mila intercettazioni da cui prende piede Calciopoli, sono ben 150 i

giornalisti intercettati. Alcuni sono giornalisti della carta stampata, altri delle testate televisive;

alcuni sono giornalisti che lavorano nella televisione pubblica e altri in quelle commerciali; alcuni

sono giornalisti sportivi, altri si occupano di cronaca politica. Insomma, con Calciopoli abbiamo

parti importanti del sistema dell’informazione italiano ad essere coinvolte in uno scandalo di

corruzione. Per condizionare l’andamento di un campionato sportivo non basta avere dalla propria

parte arbitri corrotti: se l’arbitro fischiava un rigore che non c’era o annullava un goal laddove non

andava annullato, è facile che l’occhio di qualche buon osservatore potesse accorgersi che forse

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qualcosa non andava, che forse dietro a tanti rigori c’era la mano di qualcuno che tentava di

manovrare il gioco. Ecco perché occorreva agire per cercare di “stroncare” il discorso, per cercare

di condizionare l’opinione pubblica. Occorreva trovare una porta d’ingresso nel mondo

dell’informazione così come in quello arbitrale e costruirsi un network di giornalisti che

indirizzasse il discorso pubblico nella direzione gradita a Luciano Moggi, il “grande burattinaio”

della vicenda. Moggi era riuscito ad insinuarsi in uno dei programmi televisivi più importanti del

mondo del calcio, “Il processo di Biscardi”. In esso si parlava di calcio discutendo nel dettaglio di

tutte le partite di Serie A, dibattendo sulle scelte degli allenatori, sugli arbitri, e sulla legittimità o

meno di rigori, punizioni o gol grazie all’utilizzo di uno strumento divenuto ormai parte integrante

del programma, il ricorso alla moviola. Dalle intercettazioni si capirà come Moggi era il vero

regista del “Processo di Biscardi” scegliendo gli argomenti di cui trattare e addirittura inviando del

materiale contenente episodi delle partite in questione sfavorevoli alla sua squadra in modo da

mandarla in onda depistando le insinuazioni. E’ così che, in Calciopoli, il network del sistema

dell’informazione incontra e si intreccia con le fitte trame del network della corruzione, grazie a

giornalisti che si prestano al gioco del corruttore, che non difendono la propria autonomia

professionale, ma che alla ricerca e all’esposizione della verità prediligono la certezza di un

appoggio sicuro e potente come quello rappresentato da Moggi. C’è chi lo fa recitando con estrema

precisione il copione scritto ad hoc per lui o chi semplicemente si tappa la bocca evitando di parlare

di ciò che agli occhi del “burattinaio” risulterebbe scomodo. È il caso di alcuni giornalisti Rai,

riconducibili ancora una volta alla tipologia di Actively corrupt/ Collaborator. Sono state

intercettate numerose telefonate a testimonianza dello stretto rapporto di complicità e fiducia, come

quella in cui un giornalista Rai chiamò Moggi per complimentarsi della vittoria della Juventus

accennandogli chi sarebbe stato l’ospite della successiva puntata del programma sportivo da lui

condotto.

Il sistema era talmente consolidato che chi si rifiutava di farne parte rischiava pesanti ripercussioni

nella propria carriera lavorativa. È il caso di Francesca Sanipoli, messa in disparte dai vertici Rai

perché non gradita a Luciano Moggi: la sua figura non poteva essere collocata in nessuna delle

categorie formulate nella nostra matrice teorica, né tra i ruoli positivi, in quanto non ha fornito

nessun contributo per la rilevazione o la trattazione del caso, ne tra quelli negativi, perché non era

parte del sistema corrotto e il suo silenzio non era dovuto ad una scelta volontaria. Tuttavia

rappresentava un caso singolare per spiegare i ruoli che può assumere un giornalista nei confronti

della corruzione, per questo si potrebbe ipotizzare una categoria ad hoc, system victim, per

comprendere i casi come questo in cui un sistema corruttivo si ritorce contro un giornalista intento a

svolgere il suo lavoro di inchiesta.

La categoria Actively corrupt/ Collaborator non comprende soltanto quei giornalisti inseriti

all’interno di un network corruttivo, succubi o al soldo di un personaggio che utilizza il sistema dei

media per propri interessi personali. Può avvenire che un giornalista si ponga all’apice del network

corruttivo, tramite le relazioni intessute nell’esercizio del suo lavoro di cronista riesca ad instaurare

un sistema clientelare e di influenze che gli permetta di intervenire e condizionare diversi ambiti, sia

pubblici che privati. È il caso di Luigi Bisignani, più volte definito l’ “eminenza grigia” della

politica italiana, un personaggio diventato “uno degli uomini più potenti d’Italia” proprio perché,

nella sua carriera giornalistica, è stato in grado di intessere relazioni con esponenti politici di primo

piano, esponenti apicali delle forze dell’ordine o della pubblica amministrazione, alte cariche

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ecclesiastiche e manager dei più importanti gruppi industriali italiani. Bisignani è figlio di

quell’intreccio tra giornalismo, economia e politica, così forte in Italia al punto da condizionare in

particolare il sistema dell’informazione del paese, che ha determinato una gestione del potere

incentrata sulle relazioni e sull’oscurità. Come è stato raccontato in alcuni libri e in articoli di

giornali, diverse nomine sono state effettuate tramite la sua influenza, dalle nomine dei ministri a

quelle in Rai, la televisione pubblica, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza è

arrivata persino in Vaticano. Di Bisignani si è sentito parlare prevalentemente per gli scandali

relativi alle logge massoniche P2 e P4, nonché per quello legato alla madre di tutte le tangenti, lo

scandalo Enimont4 durante il periodo di Tangentopoli in cui un pool di magistrati scopre un enorme

giro di tangenti che vede coinvolti i principali partiti politici della Prima repubblica. Ma Bisignani è

innanzitutto un giornalista. Bisignani dal giornalismo ha guadagnato relazioni il cui calibro e la cui

importanza sono stati estremamente elevati e rilevanti e che gli hanno permesso di toccare e, in un

certo senso, controllare, quanti più ambiti possibili. Agli albori della sua carriera è stato prima un

giornalista della principale agenzia stampa italiana, l’Ansa, ha poi successivamente collaborato con

“Panorama”, settimanale di attualità e politica del Gruppo Mondadori, e con “l’Espresso”,

settimanale di attualità e politica del Gruppo editoriale l’Espresso. Grazie alla professione di

giornalista, Bisignani ha affiancato, tra gli anni settanta e ottanta (periodo della Prima Repubblica),

politici di notevole peso ricoprendo l’incarico di capo ufficio stampa e, ancora dopo, è diventato un

uomo di fiducia di alcuni gruppi imprenditoriali come quello dei Ferruzzi, azienda italiana leader

del settore agroalimentare. Nonostante quelli appena citati sembrino essere degli ambiti molto

lontani tra di loro, Bisignani ha saputo tenerli insieme grazie a tutte quelle relazioni che egli seppe

coltivare con il fine ultimo di ampliarle quanto più possibile, creando in questo modo un network

trasversale che gli ha permesso di esercitare un notevole potere d’influenza in grado, come già

detto, di incidere su decisioni politiche che hanno riguardato importanti incarichi del nostro paese.

Uno dei punti focali che anima la riflessione dietro questo paper è che le caratteristiche e i principi

che regolano il mondo del giornalismo in Italia hanno permesso la costruzione e l’emergere di una

figura come quella di Bisignani. È questa la principale ragione che ha spinto alla selezione del “caso

Bisignani”. Va ricordato infatti che nelle dinamiche di formazione dell’opinione pubblica, come

mostrato da numerosi studi (Mancini 2002), il giornalismo italiano non ha quasi mai svolto un ruolo

di congiunzione fra sistema politico e società civile, quanto piuttosto è stato uno strumento a

disposizione della politica per favorire il dialogo tra l’élite dirigenziale alla guida del paese, uno

strumento di “elite-to-elite communication” (Örnebring 2012). Il forte parallelismo politico che ha

da sempre caratterizzato il giornalismo italiano non è altro che la prova del fatto che giornalisti,

politici, massimi dirigenti in Italia vivono a stretto contatto fino al punto che a volte i ruoli

diventano intercambiabili (è del tutto comune per i giornalisti diventare uomini politici o viceversa).

Ed è questo anche il caso di Bisignani, che da giornalista è diventato addetto stampa di alcuni

esponenti del governo, e successivamente lobbista o intermediario per alcune industrie italiane,

portando sempre con sé quel bagaglio di esperienze, ma soprattutto di relazioni, costruito

nell’esercizio di attività differenti tra loro ma con diversi punti di intersezione.

4 Per processo Enimont s’intende il principale processo giudiziario della stagione di Mani pulite, svoltosi a Milano tra il

1993 e il 2000, che vide coinvolti i maggiori esponenti politici della Prima Repubblica accusati, insieme ad alcuni imprenditori (tra cui molti del gruppo Ferruzzi), di aver versato e aver intascato una maxi-tangente di circa 150 miliardi di lire: soldi utilizzati per finanziare i partiti in maniera illegale (il cosiddetto finanziamento illecito).

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Infine, appare singolare il caso che ha coinvolto Renato Farina, un ex giornalista che ha lavorato in

varie testate o programmi televisivi tra cui i già citati Libero ed Il Giornale. Farina (o agente Betulla

secondo il suo nome in codice) è stato sospeso dall’Ordine dei Giornalisti dopo che fossero stati

appurati i suoi stretti rapporti con i servizi segreti italiani. Nel dettaglio Farina è stato condannato

per aver pubblicato delle notizie false in occasione dell’arresto di un rifugiato politico italiano

sospettato di collaborare con il terrorismo islamico, Abu Omar, per conto del Sismi, il servizio di

sicurezza e informazione militare italiano, interessato a mascherare alcuni aspetti della vicenda. Ma

soprattutto alcuni magistrati hanno appurato che Farina intratteneva rapporti di lungo corso con i

servizi segreti, passando loro informazioni raccolte tramite il suo lavoro di reporter o pubblicando

articoli a loro graditi dietro un compenso monetario, in quello che può essere definito a tutti gli

effetti un vero e proprio network corruttivo, che spinge il giornalista a coprire se non addirittura

alimentare il fenomeno della corruzione e che lo colloca nella tipologia degli Actively corrupt/

Collaborator. Questo caso mette in evidenza un interesse diretto dei servizi segreti nel mondo

dell’informazione, tanto da attivare dei contatti molto prossimi con dei giornalisti, trattandoli alla

stregua di agenti sotto copertura (come l’agente Betulla per l’appunto) con lo scopo di raccogliere

informazioni utili all’attività di spionaggio tramite il lavoro giornalistico; o di alterare notizie per

dei fini ignoti e tenuti nascosti (talvolta anche attraverso il segreto di stato), contravvenendo a ogni

principio basilare di etica giornalistica.

Inactive/Lazy

Un giornalista che ricopre il ruolo di Actively corrupt/Collaborator sicuramente disattende a quelle

funzioni tangibili ed intangibili di contrasto alla corruzione precedentemente illustrate. Ma tali

funzioni possono essere disattese anche senza che il giornalista faccia parte di un vero e proprio

network corruttivo. Per esempio un direttore di giornale può ritenere una notizia di corruzione poco

interessante per il proprio pubblico, decidendo quindi di non coprirla, con il risultato però che

questo caso rimane ignoto all’opinione pubblica. Ma come detto in precedenza, nel sistema dei

media italiani gli interessi economici della proprietà dei giornali e la politicizzazione politica di

alcuni media outlets esercitano una forte influenza nel lavoro di gatekeeping, e anche in occasione

dei casi di corruzione la selezione delle notizie avviene in base a dei meccanismi di influenza

esterna.

Questo è avvenuto ad esempio con il caso della “Villa di Montecarlo”. Abbiamo già illustrato come

La Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa avessero ricoperto il ruolo di Reporter/Facilitator,

fornendo un ampio coverage alla vicenda. Tuttavia questo coverage è iniziato soltanto in un

secondo momento, diversi giorni dopo lo scoppio dello scandalo nelle testate Il Giornale e Libero.

Un’analisi dell’andamento del coverage delle varie testate mette in evidenza due fasi di esposizione

mediatica della vicenda. La prima fase riguarda il momento della pubblicazione dello scandalo: Il

Giornale e Libero hanno giocato il ruolo di protagonisti, lanciando la notizia prima degli altri,

fornendo retroscena, sviluppi ed approfondimenti. Tutte le altre tre testate hanno mantenuto un

profilo basso, limitandosi ad una piccola cronaca dell’inchiesta de Il Giornale, come a non voler

rimanere coinvolti nelle questioni interne della destra italiana, fungendo quindi da Inactive/Lazy. Il

meccanismo sembra chiaro: lo scandalo non presentava occasioni per attaccare un esponente

politico inviso al proprio gruppo editoriale, quindi non rappresentava una notizia rilevante su cui

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concentrare tempo e risorse. In un secondo momento invece, quando ormai era chiaro che la

vicenda della Villa di Montecarlo non si sarebbe spenta nel giro di poche settimane, ma avrebbe

avuto degli sviluppi, le tre testate si sono adeguate al coverage dei quotidiani di centro destra,

passando dal ruolo di Inactive/Lazy a quello di Reporter/Facilitator. In particolare è soprattutto

quando Fini ha fondato un partito alternativo al Popolo delle Libertà, concretizzando la possibilità

di far cadere il Governo Berlusconi, che le tre testate, ma in particolare La Repubblica, si sono rese

conto che la figura politica del presidente della Camera andava difesa e sostenuta, e hanno

implementato il numero di articoli sulla vicenda.

Un altro esempio di Inactive/Lazy è presente nel caso Calciopoli, con meccanismi simili a quelli

della Villa di Montecarlo anche se invertiti temporalmente. Calciopoli infatti ha messo in evidenza

l’incontro/scontro tra le logiche dei media e l’editoria impura. Uno scandalo che coinvolge il mondo

del calcio è un evento altamente notiziabile, soprattutto in Italia, e dei media outlets orientati al

mercato e che devono vendere spazi pubblicitari non possono esimersi dal trattarlo. Il sistema dei

media in Italia però è caratterizzato da degli editori impuri, che usano i media non tanto come fonte

di profitto ma come strumento per influenzare il dibattito pubblico. In un secondo momento quindi,

quando lo scandalo ha iniziato ad allargarsi e a toccare altri interessi oltre a quelli di Moggi e della

Juventus, degli interessi che toccavano anche alcuni proprietari di media outlet, diversi quotidiani

da Reporter/Facilitator sono diventati Inactive/Lazy e lo scandalo ha iniziato a rientrare nei ranghi.

Nella seconda fase quindi si assiste ad un processo di “normalizzazione” dello scandalo, i toni si

sono affievoliti e le richieste di condanne esemplari, che rischiavano di penalizzare gli editori di

alcuni dei quotidiani analizzati, sono andate via via esaurendosi, con gli editoriali che invece che

inneggiare ad un cambiamento radicale cercavano di convincere il lettore che un eccessivo

giustizialismo avrebbe interessato un’ampia gamma di squadre e soggetti penalizzando un po’ tutti.

Questo conferma la teoria di Entman (2012), secondo cui uno scandalo che tocca interessi

bipartisan ha minori possibilità di essere trattato in maniera massiccia sui media. Entman si riferiva

in particolare agli scandali che coinvolgevano esponenti del partito Democratico e Repubblicano

negli Stati Uniti, ma questa regola può essere applicata anche in Italia e anche al mondo del calcio.

Quando tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole e subentra un processo di “normalizzazione” dello

scandalo.

Le uniche testate che non si prodigano in questo cambio di ruolo sono La Repubblica e La Stampa.

Come abbiamo già detto, La Repubblica è l’unica testata tra quelle analizzate ad avere un editore

che non presenta interessi diretti nel mondo del calcio, e infatti mantiene dall’inizio alla fine il ruolo

di Reporter/Facilitator. La Stampa invece non solo è il principale quotidiano di Torino (la città

dove ha sede la Juventus), ma è anche controllato dal gruppo Fiat, di proprietà della famiglia

Agnelli, dello stesso gruppo industriale che controlla la società calcistica maggiormente implicata

nella vicenda, la Juventus. La Stampa infatti mantiene fin dall’inizio il ruolo di Inactive/Lazy, da

una parte offrendo il minor numero di articoli sulla vicenda rispetto alle altre testate, ma soprattutto

distinguendosi sin dall’inizio per un approccio difensivo dei “protagonisti torinesi” (Moggi e la

Juventus) andando da un lato a minimizzare il ruolo di questi nella vicenda dall’altro ad attaccare ed

a porre in rilievo gli antagonisti della Juventus.

Conclusioni

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L’analisi ha dimostrato che tutte e quattro le tipologie di ruoli formulate a livello teorico sono

presenti nei case studies selezionati e consentono di spiegare i vari approcci che i giornalisti

possono adottare nel trattare casi di corruzione. I giornalisti possono infatti ricoprire il ruolo di

Enforcer/Initiator qualora, attraverso il proprio lavoro o una propria indagine, siano in grado di

rivelare e denunciare un caso di corruzione rimasto sconosciuto fino a quel momento. È quanto

avvenuto, ad esempio, con la testata Il Giornale in occasione della Villa di Montecarlo, o con La

Repubblica e la Gazzetta dello Sport nel caso Calciopoli. Gli stessi due casi inoltre offrono esempi

di giornalisti Reporter/Facilitator, che pur non scoprendo direttamente il reato di corruzione, sono

disposti a riprendere il lavoro condotto da altri e a pubblicizzare e denunciare episodi di malaffare.

Ma i quattro casi studio presi in esame ci ricordano anche che non sempre i giornalisti

rappresentano un argine a fenomeni corruttivi, non sempre svolgono un ruolo positivo di contrasto

alla corruzione. Il caso Calciopoli, il caso Bisignani e il caso Farina offrono esempi di giornalisti

Active corrupted/Collaborator, parte integrante di un vero e proprio network corruttivo, al soldo di

un dirigente sportivo o dei servizi segreti, che alterano la trattazione di alcuni eventi al fine di

tutelare degli interessi di parte. In altre situazioni invece i giornalisti sono da considerarsi

Inactive/Lazy, ignorano alcuni casi o alcuni dettagli di un episodio di corruzione per mera scelta

editoriale pur non essendo corrotti.

Ma i quattro case studies dimostrano anche che l’esercizio del ruolo di watchdog nei casi di

corruzione in Italia risulta alquanto ambiguo e ricco di sfaccettature. Non sempre è facile collocare

un giornalista o una testata in una determinata tipologia di ruolo in maniera univoca. Come è stato

mostrato attraverso i casi studio, spesso un ruolo positivo presenta anche delle peculiarità tipiche di

altri ruoli. È il caso ad esempio della Gazzetta dello Sport nella vicenda Calciopoli: la Gazzetta

infatti è l’ Enforcer/Initiator dello scandalo, il primo a parlarne e a fornire dettagli nascosti. Ma

svolge questo ruolo in maniera ambigua, presentando il caso la prima volta con un messaggio in

codice per addetti ai lavori, senza dedicargli il numero di pagine e l’approfondimento che

meriterebbe un caso simile, comportandosi quindi da Inactive/Lazy. I ruoli cambiano a seconda

delle esigenze: finché il caso riguardava il solo Moggi, diversi media outlets si comportano da

Reporter/Facilitator, pubblicizzando e dando visibilità al caso, ma quando lo scandalo si allarga e

tocca gli interessi diretti di alcuni editori, le stesse testate cambiano strategia, avviando una

“normalizzazione del caso” al fine di non coinvolgere i propri editori. I ruoli positivi di giornalismo

presentati nei precedenti paragrafi non rispecchiano il “detached watchdog” teorizzato da Hanitzsch

(2011) o i “custodi della coscienza pubblica” di Ettema e Glasser (1998) che stimolando l’esercizio

di un controllo sociale da parte dell’opinione pubblica attraverso un racconto distaccato dei fatti, ma

sono dei giornalisti di parte, che indagano su episodi di corruzione solo se c’è la possibilità di

danneggiare un avversario del proprio editore o un esponente politico non gradito, come è avvenuto

nel caso della Villa di Montecarlo.

Alla loro applicazione concreta quindi, le quattro tipologie di ruolo elaborate in maniera teorica

appaiono contaminate da alcune caratteristiche del sistema dei media italiano, in particolare la

presenza di un’ editoria impura e il parallelismo politico tra i media outlet e i vari partiti o gruppi

politici. Queste due peculiarità esercitano una forte influenza nei meccanismi di gatekeeping e di

conseguenza condizionano l’esercizio di un ruolo piuttosto che di un altro. Un giornalista esercita

un ruolo positivo, denunciando un reato di corruzione, soltanto se quest’ultimo è commesso da un

esponente politico inviso alla propria testata, o quantomeno se non lede gli interessi del proprio

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editore, altrimenti tende ad ignorarlo o a sottostimarlo, rivestendo un ruolo negativo. Il parallelismo

politico è così forte, c’è una vicinanza così stretta tra la sfera politica e la sfera dei media che spesso

alcuni individui riescono a muoversi con disinvoltura tra i due, come il caso Bisignani ha

dimostrato, permettendo ad un giornalista di controllare un network in grado di condizionare

nomine pubbliche o posizioni di potere di vario tipo.

Questi tipi di influenza producono una trattazione della corruzione fortemente partigiana, in altre

parole una strumentalizzazione del fenomeno, che antepone l’interesse particolare a quello generale,

inibendo le funzioni tangibili ed intangibili di contrasto ai fenomeni corruttivi.

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