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Saverio Russo Biagio Salvemini

Ragion pastorale, ragion di stato

Spazi dell’allevamento e spazi del poterenell’Italia di età moderna

viella

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Copyright © 2006 - Viella s.r.l.Tutti i diritti riservatiPrima edizione: dicembre 2006ISBN-10: 88-8334-xxx-xISBN-13: 978-88-8334-xxx-x

Il volume è stato pubblicato con il contributodell’Università degli Studi di Foggia(quota pubblicazioni 2005 e quota progetti 2005).

Le immagini alle pagine 45, 101 e 106 sono pubblicatesu concessione del Ministero per i Beni e Le Attività culturali –Archivio di Stato di Foggia, prot. 3745/X

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Indice

Premessa 7

1. Pratiche e saperi dell’allevamento 91.1. Un mondo residuale? 91.2. Alpeggi e pascoli invernali 121.3. Nei luoghi della mezzadria 171.4. Fra feudi e città contadine 191.5. “Razze nostrane” e pratiche locali 31

2. Gli spazi del mercato 372.1. Transumanze commerciali 372.2. “Grascia”, eserciti, agricoltura 432.3. Le fameliche capitali 462.4. La città di Napoli e il mercato degli ovini 552.5. Fiere e mercati 602.6. Il circuito della lana 652.7. Gli altri prodotti dell’allevamento 68

3. Direzioni e forme del mutamento: poteri, conflitti, spazi 773.1. Sull’Appennino nord-orientale: quidam divites, totus populus 773.2. La quadrettatura dei poteri 853.3. Spazi dell’allevamento, spazi dei poteri 91

4. Fra “vaghi scacchieri” e “armoniche proporzioni”: fare pasto-rizia sotto la Dogana di Foggia 994.1. La grande transumanza a istituzionalizzazione debole: il caso sardo 994.2. La grande transumanza istituzionalizzata 102

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4.3. La Dogana di Foggia: dalla misura degli uomini alla misura de-gli spazi 107

4.4. L’ordine del “vago scacchiero” e il disordine delle pratiche 1124.5. Spazi e tempi della pastorizia transumante 1164.6. «Maledetti compassatori… gente furba e di rapina» 124

5. Ingorgo istituzionale e strutturazione del territorio nella Mur-gia pugliese 1315.1. Le comunità locali e la minaccia cerealicolo-pastorale 1315.2. Le vicende dell’insediamento fra medioevo ed età moderna 1345.3. Nelle Murge meridionali: una platea baronale nello spazio con-

teso 1405.4. I “musciali” di Barletta 1455.5. Un’“isola di organizzazione sociale”: l’Alta Murgia 151

6. Il re allevatore, il re cacciatore 1596.1. Le cavallerizze 1596.2. Cacce nobiliari, cacce regie 1666.3. Allevare per la “pubblica felicità” 171

7. Epilogo. Negli spazi proprietari 1757.1. Uso, diritto, scienza 1757.2. Le ambiguità delle “riforme” pastorali 1777.3. Gli spazi “inutili”: l’Alta Murgia da sistema agro-pastorale a

parco rurale 1817.4. Gli spazi “utili”: il terribile diritto del marchese Sgariglia 186

Bibliografia 191

Indice dei nomi di luogo e di persona 209

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Premessa

Questo scritto1 non vuole essere una rassegna ordinata degli studisull’allevamento nell’Italia di età moderna. Esso non ha alcuna pretesa disistematicità e completezza, ha un andamento volutamente pointilliste erapido, e risente fortemente, come è già evidente dall’indice e dalla bi-bliografia, delle competenze e dei vuoti di conoscenza degli autori: moltopiù spazio dunque all’allevamento meridionale, in particolare a quello pu-gliese, assai meno agli altri casi.

Nel raccogliere, selezionare e presentare materiali bibliografici e, inmisura volutamente minore, archivistici, abbiamo tenuto presente un temache ci sembra assai rilevante e non molto presente negli studi: quellodell’allevamento come costruzione, occupazione, appropriazione di spazitutt’altro che marginali, densi in particolare di istituzioni e poteri di ogni ti-po e livello. Il titolo un po’ roboante allude a questo nodo. La produzioneanimale di antico regime vive in un universo normativo ed istituzionale distraordinaria densità e complessità, che non è utile liquidare frettolosamen-te, secondo una linea seguita spesso dagli storici riprendendo la polemicapolitica settecentesca, come impedimento a scelte razionali e costo aggiun-tivo per i bilanci aziendali. La stessa visione classica delle terre comuni edegli usi civici come dimensione giuridico-territoriale dell’arcaismo pa-scolatorio ignora aspetti importanti del mondo rurale di età moderna.2 Assairaramente stabulati, gli animali di allevamento vagano disegnando spazi

1. Saverio Russo è autore dei capitoli II e VI e dei paragrafi 1 e 2 del capitolo IV;Biagio Salvemini è autore delle altre parti. Alcuni materiali e temi del libro sono anticipatiin Salvemini, L’allevamento, pp. 255-320.

2. Un vigoroso rifiuto, riferito a spazi e tempi assai dilatati, del rapporto fra allevamentovagante e arretratezza è, ad esempio, in Horden, Purcell, The Corrupting Sea, pp. 197 ss.

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“irregolari” rispetto ad una quadrettatura gerarchizzata in maniera impreci-sa ma che si fa sempre più stretta e minuta. A volte essi strutturano propriagiurisdizioni dotate di apparati pesanti, che non sostituiscono, non distrug-gono le altre ma vi si sovrappongono; più spesso attraversano in manierapiù o meno regolare confini politici, simbolici, possessori sempre più atten-tamente sorvegliati e rivendicati, e, di conseguenza, attivano conflittualitàacute che mobilitano poteri centrali e locali, producono gruppi, identità, ge-rarchie sociali, contribuiscono in maniera decisiva a costruire forme invo-lontarie di spazializzazione. L’allevamento, tema minore di una storiografiache tende a confinare l’“economia” in un ghetto di specialisti, può così di-ventare un punto di osservazione interessante per comprendere le configu-razioni delle molte forme di statualità e territorialità che convivono, si so-vrappongono, configgono nella lunga età moderna italiana.

Inseguendo questi temi, abbiamo cercato, all’interno di uno spazio“italiano” assunto semplicemente come quadro dell’indagine, di «pensareper casi».3 La distribuzione squilibrata di questi casi, determinata in pri-mo luogo, lo ripetiamo, dagli squilibri delle nostre conoscenze, rispondeanche alla scelta di evitare, per una volta, di parlare di storia d’Italia con-centrando l’attenzione su dualismi e contrapposizioni. La giustificazionedi questa scelta, che azzardiamo sulla base di una storiografia ormai robu-sta, è che i processi di mutamento istituzionale, di qualità ed intensità ov-viamente assai diversa, non si fermano lungo meridiani o linee altimetri-che. Anche la montagna brulla o i desolati paesaggi a «campi ed erba»possono presentare una straordinaria ricchezza di dettaglio sul piano dellepratiche e dei saperi produttivi, degli attori sociali, della dialettica dei po-teri. Dalla sua particolare angolazione, il libro cerca di mettere in eviden-za questa ricchezza di storia che investe luoghi a lungo presentati, neglistudi e nella polemica civile, come poco familiari con la storia stessa.

3. Il riferimento è a Penser par cas.

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1. Pratiche e saperi dell’allevamento

1.1. Un mondo residuale?

Le sintesi di storia delle campagne europee di età moderna ripropon-gono con insistenza, con le eccezioni e deviazioni canoniche, l’immaginedell’allevamento come un mondo che viene progressivamente marginaliz-zato dalla tirannia della cerealicoltura e vede messa in discussione la suaautonomia economica ed antropologica.

Gli snodi essenziali di questo racconto a grandi campate ci paionopresentabili, grosso modo, come segue. Tornata demograficamente “pie-na” dopo la grande crisi trecentesca, l’Europa centro-occidentale triplicala sua popolazione nei secoli della cosiddetta piccola glaciazione, che frametà Cinquecento e metà Ottocento riduce di circa mezzo grado la tem-peratura media e peggiora le rese, senza realizzare mutamenti sconvol-genti delle tecniche della produzione primaria. Di conseguenza la doman-da di cibo si esprime con una urgenza spesso drammatica, e spinge irresi-stibilmente i campi a grano, capaci di una produttività in termini di calo-rie ben più alta di quella della produzione animale, ad invadere gli spazidelle colture “minori”, del saltus, dell’allevamento vagante. La dieta dellemasse rurali cambia drasticamente, la carne in particolare diventa rara e siconnette alle occasioni cerimoniali e festive. A sua volta la prepotenzadella cerealicoltura conduce all’impasse classica dei «sistemi agrari tradi-zionali europei». Divenuta una priorità assoluta essa, da un lato, determi-na una omogeneizzazione delle colture rendendole meno aderenti alle«nuances locales ou régionales de l’espace» e quindi incapaci di sfruttarele potenzialità del mosaico ecologico regionale;1 dall’altra scompensa il

1. Delort, Walter, Histoire de l’environnement, pp. 232 e 243.

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ciclo dell’azoto impedendo al tempo stesso che esso venga sostenuto nel-l’unico modo possibile date le tecniche a disposizione, ossia con l’appor-to dei fertilizzanti organici derivanti dalla produzione animale. Di conse-guenza la terra, sottoposta a colture defaticanti, ha bisogno di riposo, laproduttività media per unità di seme e di superficie si riduce, la spinta adinvadere nuovi spazi si autoalimenta con effetti distruttivi sull’ambiente.

La rottura del circolo vizioso innescato dalla tirannia del grano, se-condo una linea riproposta dalla agronomia italiana di prima età moder-na,2 prevede il recupero del contributo dell’allevamento all’agricoltura nelnuovo contesto in cui l’incolto ed il pascolo vago non assediano più icampi, come nell’Europa dell’uomo raro, ma sono ricacciati a quote alti-metriche sempre maggiori dalla “furia del dissodare”: ossia l’inserimentodella produzione di foraggio nelle rotazioni agrarie, e la conseguente con-duzione del mondo dell’allevamento alla stanzialità ed al ruolo di parteintegrante dell’azienda agricola. Ma tutto questo richiede per i produttoried i consumatori spazi di manovra spesso non disponibili, dal momentoche, nell’immediato, i prati artificiali sono in concorrenza diretta col gra-no, e cominciano a produrre effetti sistemici positivi in tempi spesso noncongruenti con la disponibilità di capitali, le scadenze dei contratti, i vin-coli delle annone; in generale con la complessità della decisione econo-mica in un ambiente istituzionale funestato dalla persistente incertezzadei diritti proprietari e da alti costi di transazione.3

È intorno a questo nodo che andrebbero strutturandosi le vie “nazio-nali” allo sviluppo; cioè intorno ai modi, ai tempi, all’intensità dell’ine-luttabile ridimensionamento degli spazi fisici ed economici e, al tempostesso, dell’autonomia sociale e culturale e della produzione animale. Ilcaso italiano si presenta, in qualche misura, deviante, sembra gravitareverso situazioni “mediterranee” piuttosto che “europee”. Se in pezzi dellapianura irrigua lombarda si realizzano precoci ed efficaci connubi fra a-gricoltura e produzione animale nel quadro di forme capitalistiche di or-

2. Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari.3. Faccio riferimento alla linea neoistituzionalista rappresentata in particolare da

Douglas North. Più in particolare per gli ostacoli alla introduzione delle foraggere cfr., adesempio, Berengo, Introduzione, p. XLV; Malanima, La fine del primato, p. 100; Ambro-soli, Scienziati, contadini e proprietari, in particolare p. 424. Secondo Ambrosoli (ibidem,cap. III) l’erba medica avrebbe migliorato la produzione di foraggio senza costringere ariduzioni nella coltivazione di cereali che gli agricoltori cinquecenteschi non potevanopermettersi.

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ganizzazione aziendale, le tre maggiori pianure peninsulari – la Marem-ma toscana, la Campagna romana ed il Tavoliere pugliese – non vedonoprevalere il modello “francese” del villaggio cerealicolo contadino in cuiciascun ménage alleva qualche capo di bestiame rude o domestico inseri-to nei cicli di chiusura ed apertura dei campi ed affidato al pastore comu-nitario: esse sono sequestrate per via istituzionale a favore della forma diallevamento più incompatibile con l’agricoltura, la transumanza ovina alunga distanza. A causa di questo “scandalo”, la fame di cereali deve es-sere soddisfatta investendo massicciamente i vastissimi spazi collinari edi montagna bassa della penisola, segnati da “vocazioni” diverse dalla ce-realicoltura e comunque da condizioni pedologiche e climatiche sfavore-voli all’allevamento stanziale: i ritmi pigri del podere colonico centro-set-tentrionale e del latifondo feudale meridionale poggiano anche su unafondamentale carenza di animali da lavoro, oltre che da ingrasso e da lat-te. D’altro canto l’allevamento vede ridursi il suo peso complessivo eco-nomico e sociale, ma mantiene una sua autonomia spaziale e sociale, con-trapponendosi frontalmente all’universo agricolo.4

Nel secondo Settecento, con il delinearsi del concetto di sviluppo ed ildiffondersi della pratica culturale della comparazione fra paesi sul pianodella “pubblica felicità”, gli intellettuali riformatori cominciano a presenta-re il caso italiano con i connotati dell’arretratezza, fondando una robustatradizione analitica che giunge agli storici odierni: la vicenda dell’alleva-mento può essere così un punto di osservazione non secondario per tornareoggi a raccontare la “fine del primato” dell’economia italiana.

Gli autori di queste pagine, d’accordo con settori importanti dellastessa storia economica,5 sono dubbiosi sulla pertinenza e sulla efficaciaconoscitiva di analisi che ricostruiscono retrospettivamente vie “naziona-li” allo sviluppo classificandole a seconda della distanza dai modelli ri-sultati vincenti. Essi comunque non vogliono riproporre o confutare que-sta storia, ma cercheranno in primo luogo di attirare l’attenzione, sulla ba-se di alcune ricerche puntuali, sulla straordinaria ricchezza di forme pro-duttive, sociali, istituzionali, territoriali in cui la produzione animale vive

4. Per una riproposizione di queste tesi cfr., fra i molti scritti di Sereni dedicati all’ar-gomento, Agricoltura e mondo rurale, pp. 135-252.

5. La centralità degli spazi “regionali” nei processi di trasformazione è proposta, nonda ora, anche in riferimento a paesi che, a differenza dell’Italia, riconoscono lo stesso so-vrano. Fra gli studi recenti cfr. Van Bavel, Land, lease and agricolture, pp. 3-43. Più ingenerale, Hopcroft, Regions, Institutions and Agrarian Change.

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nei secoli della tirannia del grano. Nella violenta fratturazione dello spa-zio italiano, nell’alternarsi rapido di pianure alluvionali, terrazze fluviali,pendii produttivi situati a quote altimetriche anche assai diverse, l’omo-geneizzazione cerealicola trova limiti diffusi e si esprime in una grandericchezza di dettaglio; e l’allevamento può insinuarvisi in modi che spes-so smentiscono la sua immagine di mondo chiuso e residuale: esso si pre-senta come un luogo di elaborazione di forme variegate ed ibride di uso eriproduzione di risorse preziose, è percorso da mutamenti adattivi o datrasformazioni incisive lungo sentieri ed in tempi non canonici.

1.2. Alpeggi e pascoli invernali

Fra l’integrazione piena di agricoltura ed allevamento nella cascinadella piana irrigua lombarda da un lato, e dall’altro l’opposizione aggres-siva delle pastorizie della transumanza sarda alla stutturazione agricoladelle campagne ed alla stessa trama dell’insediamento, si collocano unamiriade di contaminazioni e rapporti che sono alla base della costruzionedei paesaggi rurali. Ricordiamone per cenni alcuni percorrendo da Nord aSud il mosaico regionale italiano.

Al di sopra della “linea gotica”, che, in una immagine classica, divi-derebbe l’Italia continentale dei bovini e dei suini da quella mediterraneadella tradizione pastorale, la pecora è tutt’altro che assente. A partire dal-la catena alpina, la cui economia, poggiata sulla utilizzazione multipla dirisorse scarse, è riscattata nella storiografia recente dalle interpretazionimiserabilistiche e riproposta come un ambiente di insediamento salda-mente strutturato e regolato da bassi tassi demografici. «Il medesimo pae-sano – scrive a proposito dell’alto comasco Melchiorre Gioia, uno deimaggiori costruttori di immagini pessimistiche dell’economia montana –è talvolta nel tempo medesimo proprietario, mezzatico, affittuario, livella-rio a patti diversi con diversi padroni in terreni simili»,6 oltre che utiliz-zatore dei vasti demani comunali che si inerpicano verso le cime. Il pattomezzadrile montano non ha nulla a che fare con quello, ad esempio, dellaBrianza collinare esaltato dagli scrittori di cose rustiche del tempo: esso siinserisce nel fitto intrecciarsi di contratti con prestazioni in natura o in

6. Cit. in Galli, L’evoluzione mancata dell’agricoltura, p. 89. Per quanto affermatonel testo cfr., alle pp. 58 ss., il par. 7 di questo scritto (L’allevamento: un potenziale nonsfruttato).

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denaro e di diritti d’uso e di possesso delle risorse, e spinge ad una utiliz-zazione intensiva degli spazi.

Resi coltivabili dalla vanga, dalla zappa, dall’aratro leggero trainatonon di rado dalle donne, i fazzoletti di terra montana ospitano colture di-verse – i grani, il gelso, la vite, l’ulivo – che sembrano ostacolarsi vicen-devolmente. Inoltre essi ricevono scarso soccorso dal bestiame, che ingenerale disperde letame nei vasti spazi non coltivabili: le capre che sfi-dano le normative avverse soccorrendo, con le loro scarse pretese, so-prattutto i “poveri”; le pecore che contendono non di rado gli alpeggi aibovini nonostante il diverso regime alimentare ed il rischio di epizoozie;7

le vacche, stanziali o affidate d’estate ai fittavoli dei pascoli alti comunali(gli alpieri), preferite sulle quote più elevate ai buoi perché consentonoun ventaglio di usi più ampio – dal lavoro agricolo alla fabbricazione deiformaggi alla riproduzione, alla macellazione. Tutto questo produce uncalendario densissimo, assai diverso da quello della agricoltura e dell’al-levamento specializzato, nel quale gioca un ruolo centrale la manodoperafemminile, data la scarsità relativa di uomini, largamente impegnati inmigrazioni temporanee anche a lunga distanza.8 Al suo interno non c’èposto per pratiche dell’allevamento codificate nella letteratura agronomi-ca: i prati sono quasi del tutto assenti; il letame non viene regolarmenteraccolto; le bestie, ricoverate in inverno in povere stalle, devono essere a-limentate, oltre che con la foglia, con erbe strappate con le mani più checol falcetto da sponde scoscese sfidando il pericolo delle frane.

Ma si tratta di forme di produzione che non danno senso se astratte daquel calendario: il loro risultato economico, afferma Gauro Coppola a pro-posito in particolare della porzione centro-orientale dell’arco alpino,9 è cal-colabile solo componendo le quote di molte micro-attività che, nel loro in-sieme, rendono pensabile «un progetto di stabilità» di lungo periodo, dannovita ad equilibri produttivi confacenti con un rapporto aspro con la natura eche nel Settecento appaiono pienamente dispiegati. D’altro canto è possibi-le scorgere un ordine nel groviglio di queste pratiche. Sulle Alpi umide,scrive Coppola, il cardine del sistema è l’allevamento bovino, collocato alcentro di forme di utilizzo delle risorse che, nella loro varietà, gravitanoverso «modelli esemplari», ossia versi comportamenti ottimali che permet-tono alla componente maschile della forza lavoro di sostituire le migrazioni

7. Gasparini, Il territorio conteso, pp. 103-136.8. Cfr., per esempio, Merzario, Il capitalismo nelle montagne, in particolare pp. 62-63.9. Coppola, La montagna alpina, pp. 495-530.

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lunghe con una mobilità breve e ritmata, riducono le spese per l’acquisto dicibo e garantiscono in una qualche misura il successo economico. La resi-denza della famiglia, il maso, è al tempo stesso la stazione inferiore di unospazio distinto in tre livelli altimetrici che custodiscono le risorse da attiva-re. Attorno alla abitazione ed alle stalle, c’è un cortile per l’allevamento mi-nuto, un orto, un pezzo di terra seminabile, un prato segatizio, un pezzo dibosco privato o comunale. L’armento è stabulato in inverno, quando consu-ma il fieno del prato ed il foraggio fornito dagli alberi a foglie decidue delbosco e produce letame che concima i coltivi del maso. Allo scioglimentodelle nevi, esso è condotto al maggengo, una stazione di pascolo più alta, suterra boschiva pubblica o privata, dalla quale è possibile il rientro notturnonelle stalle. All’inizio dell’estate, e per due-tre mesi, mentre i componentimaschili e femminili della famiglia si affaccendano attorno al maso, il be-stiame grosso viene di solito affidato ad un allevatore a turno o ad un sala-riato stagionale, ed avviato alla monticazione su pascoli comunali a quote e-levate. Nelle strutture collettive di cui quei pascoli sono dotati – le malghe –si producono comunitariamente latticini da ridistribuire ai singoli allevatori.

Le mille possibili deviazioni dal «modello esemplare» configuranocasi di minore presa sull’ambiente locale e, di conseguenza, la necessitàdi ampliare lo dello spazio fisico di reperimento delle risorse da parte del-le famiglie. L’attività di allevamento può ad esempio ridursi all’alpeggiodi bestie acquistate in primavera e rivendute all’inizio dell’inverno neltentativo di lucrare sull’accrescimento del peso in termini di carne da ma-cello, e richiedere l’integrazione nella stagione fredda di mestieri intersti-ziali esercitati, spesso in contesti lontani e del tutto estranei alla monta-gna, dai maschi della famiglia. Ma fra il circuito breve maso-malga equelli delle migrazioni lunghe che rendono intermittente la pratica dellaproduzione animale, è possibile trovare circuiti spaziali intermedi di ogniforma e carattere. Vi si muovono allevatori a tempo pieno che realizzanorapporti con le pratiche agricole non più all’interno dell’azienda familia-re, ma con aziende altrui. Ad essi fa riferimento lo Scaltrito, l’esperto delsettore nei dialoghi di Agostino Gallo, che preferisce non comprare vitellida ingrassare d’estate sui prati alti, e si procura invece mucche a buon mer-cato della Valcamonica o dei Grigioni da far svernare in piano, nutrendoledel foraggio dei prati privati e fornendo in cambio ai proprietari letameprezioso.10 La strategia dello Scaltrito si fonda su un elemento strutturale e

10. Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari, pp. 137-138.

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di lungo periodo della grande agricoltura della piana padana, irrigua e no:la sovrabbondanza delle risorse foraggere in aziende che, sebbene dotate diampi prati, “a vicenda” o “stabili”, non collocano al centro della loro attivi-tà la produzione di burro e formaggio, e che limitano, oltre al numero dellevacche aziendali, anche quello dei buoi per i forti rischi di epizoozie.11

Così, oltre ad essere venduto ai macellai delle città e dei borghi comealimento dei buoi “da grassa”, il sovrappiù del foraggio di pianura può in-tegrare le ampie risorse pascolative degli alpeggi vicini. Il costo, relativa-mente basso, è quello di far muovere fra montagna e pianura le bestie,non a caso indicate a volte nei documenti come «semoventi». Forme ditransumanza bovina sono diffuse lungo l’arco alpino e realizzano rapportidi vario genere con le aziende agricole padane. Nel caso dei bergamini, laconnotazione montana dell’impresa rimane solida. Spesso originari e ra-dicati in ambienti alpini, i bergamini sono proprietari e conduttori, conl’ausilio di manodopera avventizia per i periodi cruciali dell’annata, digrosse mandrie, integrate da capi sparsi di altri montanari con i quali pat-tuiscono la ripartizione dei prodotti; e con queste mandrie salgono d’esta-te sugli alpeggi comunali e scendono in inverno ad acquistare il fieno oad usufruire dei pascoli di pianura. Nel basso Saluzzese, viceversa, i mar-gari sembrano stringere rapporti più intensi con l’azienda agricola, in par-ticolare dove questa produce grandi quantità di fieno destinato al mercatourbano: a Caramagna i proprietari che vogliono risparmiarsi almeno in par-te il trasporto in città del prodotto forniscono loro, oltre al fieno, casa, stal-la, legna e pascolo sui prati a trifoglio; ed i margari, oltre a lasciare letameper prati e coltivi, accudiscono al bestiame dell’azienda ed a volte pagano ilfitto dei prati col burro e col formaggio da essi stessi prodotto. Non a casonel 1777, dei 27 margari forestieri agenti nel centro, ben 17 vi rimangonoper tutto l’anno invece di tornare a primavera sui pascoli montani.12

L’allevamento ovino sembra più ubiquitario e, al tempo stesso, menoformalizzabile in «modelli esemplari». Ampiamente distribuite in minusco-li greggi familiari – da 2 a 10 capi a famiglia nel comasco fra Sette e Otto-cento13 – le pecore costituiscono di rado la base per mestieri e circuiti spe-cializzati. Spesso le troviamo insieme al bestiame grosso sugli alpeggi o inpianura perché il loro latte, mescolato a quello di vacca, rende più saporito,

11. Cfr. Zaninelli, Una grande azienda agricola. Cfr. anche Roveda, Una grandepossessione lodigiana, pp. 25-139.

12. Ambrosoli, Produzione casearia nel basso Saluzzese, in particolare pp. 597-599.13. Galli, L’evoluzione mancata dell’agricoltura, p. 61, nota.

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grasso e conservabile il formaggio.14 In particolare dove la montagna de-grada verso la costa, esse si muovono in piccole «transumanze di reciproci-tà»,15 dirette ed inverse, fra i pascoli alti ed i litorali. Sulla costa, dove cer-cano pascoli invernali proprio nel tempo della maturazione delle olive, i pa-stori dell’interno possono anche convertirsi in raccoglitori.16 Le transuman-ze più lunghe e quantitativamente più consistenti conservano un carattereinterstiziale sia sul lato alpino, dove il rapporto col maso è debole e produ-ce una quantità scarsa di letame utilizzabile per concime, sia in pianura. Quila loro presenza dà vita ad un secolare conflitto fra quanti vogliono difen-dere i coltivi e le risorse collettive ricacciando stabilmente le pecore in mon-tagna o richiedendone la stabulazione, ed i piccoli coltivatori, spesso essipure allevatori di qualche capo, che si fanno pagare in rapporto alle notti dipresenza delle greggi montane sui loro campi, e ne ricavano, oltre a redditiin moneta, letame altamente apprezzato: paragonabile addirittura alla co-lombina, secondo i contadini dei canapai e delle melonare del bolognese.17

L’incapacità di risolvere fin ben dentro l’Ottocento il problema deipensionatici, le terre venete vincolate al pascolo ovino invernale,18 è indi-zio, oltre che di una incisività scarsa del movimento riformatore della re-pubblica di San Marco, della rilevanza degli interessi che le pecore comunifeltrine o padovane, tanto disprezzate dalla nuova agronomia, sanno mobi-litare in un ambiente classico del predominio dei cereali. Scendono del re-sto verso la pianura dell’Adige le pecore del Monte Baldo, dei monti Lessi-ni e dell’Altipiano dei Sette Comuni,19 che nel loro insieme producono latransumanza, fra quelle non istituzionalizzate in dogane statali, più impor-tante e strutturata della penisola: a differenza dell’altra grande transumanzanon istituzionalizzata, quella sarda, essa stringe rapporti di reciprocità posi-tiva in pianura, e, soprattutto, favorisce il sorgere lungo le valli di collega-mento – quelle del Chiampo e la Valdagno – di manifatture di lana di mode-sta qualità che sanno mettersi in qualche misura al riparo dalle alterne vicen-de del lanificio urbano europeo e sono destinate ad un grande avvenire.20

14. Ambrosoli, Produzione casearia nel basso Saluzzese, pp. 590 e 599.15. Raggio, Norme e pratiche, pp. 164-167.16. Costamagna, Aspects et problèmes de la vie agro-pastorale, pp. 523-524.17. Giacomelli, Pastorizia, transumanza e industria della lana, p. 157.18. Cfr. su questi temi, fra l’altro, i classici lavori di Berengo, La società veneta e

L’agricoltura veneta.19. Cfr. i riferimenti e la letteratura citata in Cazzola, Ovini, transumanza e lana, pp.

11-46, e Turri, Il monte Baldo.20. Si vedano in proposito gli studi di Panciera, ad esempio La transumanza, pp.

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1.3. Nei luoghi della mezzadria

Nel podere mezzadrile, la forma di organizzazione della produzioneattraverso la quale si realizza la preminenza della cerealicoltura nell’am-biente della policoltura collinare dell’Italia centrale, la marginalizzazione ela subordinazione dell’allevamento all’agricoltura sembra un elemento fon-dante del sistema, ed è fissato in precise clausole contrattuali; in particolarela emarginazione della pecora e delle mandrie vaganti di suini costituisconol’altra faccia dell’emergere dell’organizzazione mezzadrile dello spazio.Gli stessi bovini devono cercare spazi in «una struttura economica rigorosache, a tecniche ferme …, non consente sostanziali modificazioni nelle terrebene appoderate. La misura dei predii, la misura delle famiglie coloniche,la forza del lavoro animale, la dimensione della casa e degli annessi deb-bono inserirsi precisamente nella dimensione aziendale».21 Ma la loro pre-senza è normalmente ben al di sotto dell’equazione della mezzadria “gras-sa” 1 ettaro, 1 uomo, 1 bovino; e, fra i bovini, le vacche da latte sono pocherispetto ai buoi ed alle vacche da frutto e da corpo, cosicché la produzionelattiero-casearia è assai modesta. Le lamentele sulla scarsezza di bestiamesono diffuse, ma riguardano solo quello che funge da “macchina da lavoroe da ingrassi”, “male necessario” per far andare gli aratri, ai quali non è ra-ro trovare aggiogate le vacche. Oltre che relativamente pochi, gli animaliaziendali sono fatti oggetto di cure scarse, ben distanti dai canonidell’allevamento “razionale”. Sulla collina toscana la stabulazione del be-stiame è continua per tutto l’anno. Nelle stalle del podere medio (12,5-13ettari) della più grande fattoria dello Scrittoio delle Possessioni granducali,situata al confine fra l’area della mezzadria classica e la maremma pisana,ai primi dell’Ottocento troviamo un paio di manzi, 4-5 vacche, 3-4 vitelli, 1cavalla. Tutti questi animali sono nutriti del “frescume” degli erbai azien-dali primaverili ed autunnali solo, rispettivamente, fra maggio e giugno efra agosto e settembre, e devono accontentarsi per tutto il resto dell’anno diun “seccume” in buona parte acquistato sul mercato insieme a tutta la let-tiera. A questa azienda avara di foraggio, il suo bestiame risulta avaro diconcime, provocando altre spese per «conci, pollina e pozzonero».22

341-358; Id., I pastori dell’altipiano, pp. 419-445. Vedi anche in proposito Gli alti pascolidei Lessini veronesi; Turri, Il monte Baldo.

21. Anselmi, Agricoltura e mondo contadino, pp. 51-52.22. Mineccia, Da fattoria granducale a comunità. Indicazioni interessanti ai nostri

fini in Pult Quaglia, Il patrimonio fondiario, pp. 143-207.

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Lungi dall’essere un punto di equilibrio fra gli interessi del conduttoree quelli del proprietario del podere, come nell’ideologia mezzadrile, questoregime della stalla colonica vive in una situazione di tensione instabile. InToscana le scorte vive sono parte del capitale poderale compreso nel con-tratto di mezzadria; altrove sono più spesso conferite dal mezzadro che, es-sendo raramente in grado di accedere alla proprietà di bestiame grosso, loprende in fitto a canone o a soccida dal padrone del podere o da altri pro-prietari dotati di più bestiame di quello che possono affidare ai propri colo-ni, con tutti i patti soliti volti a garantire lucri aggiuntivi al concedente:quando muore un animale occorre portarne la pelle al proprietario, se l’ani-male viene rubato il proprietario deve essere risarcito, non si possono usarele bestie se non nelle attività specificate («battere e carreggiare il grano evendembiare»).23 Dal momento che è possibile ricavarne risorse che sfug-gono al comparto, sia da autoconsumare (come il latte) che da vendere sulmercato, il mezzadro punta ad allargare la superficie ad erba a spese dellasuperficie a grano e di quella arborea ed arbustiva, non solo quando è luidirettamente a conferire il bestiame, ma a volte anche quando esso è partedell’azienda. E a ridosso o sui contorni delle pratiche dell’allevamento siconcentra la “furbizia” e l’“avidità” dei villani descritta da una pubblicisti-ca proprietaria di secondo Settecento ormai disingannata sulla loro capacitàdi conservare i valori sani della tradizione: essi «fanno carreggi fuor di co-lonìa con i buoi che s’hanno in fitto dal padrone»; rubano e vendono in piaz-za legna, paglia, fieno, strame, palombina sottratta alla colombaia; mangia-no gli animali del podere e fingono che sono morti di malattia; danneggia-no infine con le bestie i seminati, opera nella quale si distinguono i ragazzidei coloni, che bene sarebbe fossero «carcerati ed espiati nel secondo gior-no con dodici snervate a culo nudo sul cavalletto».24

Negli interstizi della rigorosa organizzazione mezzadrile è comunquepossibile al colono realizzare, in proprio ed alla luce del sole, pratiche diproduzione animale non finalizzate alla realizzazione e conservazione di“macchine da lavoro” dell’azienda. Quelle autoconsumatrici del cortile,spesso previste dal patto colonico con corrisposta simbolica o vantaggio-sa per il conduttore (le “regalìe”), riguardano a Collesalvetti, per ogni po-dere, piccioni, conigli, anatre, una trentina di polli, uno o due maiali; al-

23. Metelli, Il lavoreccio nelle bonifiche rurali, pp. 71-95. Su queste questioni il ri-ferimento d’obbligo resta Giorgetti, Contadini e proprietari, in particolare il cap. 3 su Icontratti di affidamento del bestiame.

24. Rossi, “Il villano smascherato”, in particolare pp. 106-112.

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trove sono presenti anche pecore e capre.25 Altre pratiche, più autonomedal patto colonico, puntano direttamente al reddito monetario. Si guardi almercato di Borgo a Buggiano,26 uno dei grandi centri di approvvigiona-mento dei macellai toscani in età medicea. Fa capo ad esso una attività diingrasso dei bovini considerata «la più bella rendita della pianura dellaValdinievole», che integra le risorse delle colline e delle pianure asciuttedella zona con quelle della parte più bassa ed umida, in particolare il Pa-dule, e colloca i mezzadri dentro un circuito mercantile imponente: grossitrafficanti di bestiame soprattutto del Pistoiese e del Valdarno inferiorevendono al mercato di Borgo “lattoni” o “vitelli da ristallo” di provenien-za spesso padana ai mezzadri delle colline, i quali, dopo lo svezzamento,li rivendono ai mezzadri con poderi umidi e quindi con maggiore dispo-nibilità di foraggio; questi ultimi, infine, tornano ancora una volta al mer-cato per consegnarli ingrassati ai mercanti ed ai macellai di Livorno, Pisa,Pistoia. La norma che i bovini della stalla colonica debbano essere pochied al servizio dell’agricoltura viene rispettata, dal momento che in questipoderi non c’è riproduzione; e tuttavia vi circola una grande quantità dibestiame estraneo alle logiche aziendali codificate.

L’insieme di queste forme di produzione animale ha probabilmentenon poco a che fare con la famosa plasticità dell’organizzazione mezza-drie determinata dallo stesso rigore delle sue regole di funzionamento,con la sua capacità di aderire ad ambienti diversi e congiunture difficilicon conversioni rapide, poco costose dal punto di vista proprietario e noncatastrofiche. E comunque rappresentano una produzione di ricchezzanon quantificabile ma tutt’altro che inconsistente.

1.4. Fra feudi e città contadine

Nell’ambiente della collina e delle pianure costiere centro-meridio-nali e siciliane non mancano ambienti rustici punteggiati da una miriadedi piccoli borghi, casali, villaggi e ville, nei quali l’utilizzazione del suolo

25. In altri contesti la capra non transumante, che d’estate, mentre gli altri animalisalgono sugli alpeggi, rimane nel podere e continua a dare latte accontentandosi di erbeinterstiziali, ha un ruolo fondamentale nella famiglia mezzadrile: in Corsica a fine Sette-cento questa possiede mediamente 1-2 porci, 7-8 ovini, 18-20 caprini. Cfr. Casanova,Identité corse, pp. 156-160, 177-182.

26. Pazzagli, Attività commerciali, in particolare pp. 125-127.

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è intensiva ed è affidata ad un’azienda colonica che coniuga policolturaed allevamento, autoconsumo e produzione per il mercato. L’esempio ca-nonico presso gli scrittori di cose rustiche è quello della Terra di Lavoro,a ridosso di Napoli; la parte meridionale di Terra d’Otranto, verso la pun-ta estrema della Puglia, presenta casi simili.27 Ma nelle ampie zone segna-te dal predominio del grano e del pascolo vago, ed in quelle ristrette del-l’agricoltura specializzata e mercantilizzata dell’albero, gli intrecci fra lepratiche della produzione agricola e quelle della produzione animale si al-lentano. Insieme al mondo delle dogane pascolatorie, sulle quali tornere-mo più avanti, è questo l’ambiente in cui trova elementi consistenti diprova la tesi di un mondo rurale italiano funestato sul lungo periodo dallaestraneità economica ed antropologica fra agricoltura e allevamento.

I grossi borghi dell’insediamento accentrato del Mezzogiorno conti-nentale ed insulare vedono spesso le vie trasformarsi in aie in cui starnaz-za il pollame, e non vi mancano, in ricoveri provvisori collocati fra lo spa-zio pubblico e quello privato, l’uno e l’altro drammaticamente scarso, i co-nigli e qualche suino comprato giovane all’inizio dell’anno per essere in-grassato fino al Natale seguente. Ma nei campi la promiscuità di uominibestie e piante non è la regola. L’olivicoltura è prigioniera del dilemma frai danni provocati dalle greggi da un lato, e dall’altro i vantaggi del loro le-tame e della fida pagata dal pastore all’agricoltore in cambio della scarsaerba che cresce fra un albero e l’altro. Dove il paesaggio olivicolo si sfi-laccia, ed i campi a grano e le terre salde si insinuano fra gli olivi, la pro-duzione animale locale può diventare un’opzione economica importante esuscitare conflitti di confine secolari: ad esempio sulla costa barese meri-dionale, soprattutto sul declinare del XVII secolo, possono prosperarvi finsulle rive le masserie di pecore e capre, e la tendenza delle greggi del pic-colo centro di Fasano ad insinuarsi fra gli olivi della “marina” di Monopo-li nonostante i divieti scritti e consuetudinari provoca secolari.28 Più a nordla coltura olearia satura il territorio con un mosaico serrato di appezza-menti spesso minuscoli, ed il bestiame tende ad essere espulso, oltre chedall’interno dell’azienda, dall’area nel suo complesso: non solo quello deitemuti “abruzzesi”, per allontanare il quale fra Quattro e Cinquecento leuniversità chiedono e ottengono privilegi collocati in bella vista nei LibriRossi, ma anche quello locale trova ostacoli normativi e contrattuali, e de-

27. Palumbo, Il massaro zio prete.28. Masella, Per una storia dei contratti agrari, pp. 134 ss.; Carrino, La città aristo-

cratica, pp. 41-44.

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ve far leva sulla avidità di qualche fittavolo che rischia l’ira del conceden-te vendendo il pascolo sotto gli ulivi per integrare redditi troppo scarsi.29

Come vedremo più avanti, anche l’approvvigionamento di carni dellecittà, in particolare quella di suino nel periodo di carnevale che costitui-sce una preoccupazione primaria delle università, deve fare i conti conuna normativa statutaria aggressiva, che regolamenta minutamente, nei«ristretti piccoli» immediatamente a ridosso delle mura, le vie d’accesso,gli spazi pascolatori, i tempi di permanenza, le specie animali ed il nume-ro di ciascuna specie. Le piccole greggi di pecore e capre che riescono asopravvivere in questo contesto pascolano fra gli interstizi delle colture,nella macchia costiera e sui bordi delle strade, disperdendo escrementipreziosi in un ambiente in cui il concime è strutturalmente scarso, cosic-ché i contadini devono inviare sulle pubbliche strade figli ancora in teneraetà con una sporta sotto il braccio, a raccogliere il letame dei soli animaliche abbondano: gli equini.30

Nei vasti paesaggi “a campi ed erba”, viceversa, gli animali diventanouna presenza costitutiva. Gli ovini dominano ovunque, limitando lo spaziodegli animali concorrenti, in particolare dei suini, con i quali la convivenza èparticolarmente difficile: ad esempio, nel Cinquecento la pattuizione di tem-pi di accesso differenziati nel bosco di Ruvo di Puglia fra i porci del feuda-tario e le pecore dei locati abruzzesi fallisce perché, dopo il passaggio nellemandrie suine, non c’è più erba da brucare;31 e quando, all’inizio del Sette-cento, si tenta di rispondere alle grandi invasioni di cavallette nel Tavoliereprecettando i porci del Subappennino dauno, del Gargano, delle Murge, del-la Basilicata, perché, lasciati al pascolo, mangino anche le uova dei “bru-chi”, i pastori reagiscono con la violenza perché trovano le erbe strappatedalle radici.32 Ma il maiale domestico popola le strade dei borghi, e diventauna presenza significativa, organizzata in grandi “morre” allevate al pascolovagante, ovunque le risorse di erba sono sufficienti ad evitare contiguitàstrette con le pecore: ad esempio nei boschi di querce siciliani.33 Come dice

29. Cfr., ad esempio, Palumbo, Una piccola azienda, in particolare p. 207.30. Assennato, Eroi della trasformazione agricola, p. 82. La raccolta di letame da

concime sulle strada e nei campi è una pratica diffusa: per il Bresciano cfr. Ambrosoli,Scienziati, contadini e proprietari, pp. 136-140.

31. Gaudiani, Notizie per il buon governo, pp. 57, 82-83, 149, 162.32. Mercurio, Uomini, cavallette, pecore e grano, in particolare pp. 786-787.33. «I porci – ha scritto Cortonesi per la Sicilia del Tre-Quattrocento – si muovono

talora su distanze assai lunghe in transumanze che avevano come approdo i boschi ghian-diferi dell’Etna o delle zone prossime a Palermo» (Cortonesi, L’allevamento, p. 112).

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Galanti, è la diffusione dei boschi ghiandiferi che rende l’“industria” dei sui-ni «facile e abbondante».34 All’interno di queste “morre” la selezione dellerazze è pressoché nulla data l’impossibilità di controllare il “commercio”,oltremodo frequente, fra maiali e cinghiali.35 Comunque, a parte l’autocon-sumo, questi animali variegati producono carne ampiamente assorbita dalladomanda urbana, soprattutto nella fase precedente la quaresima. Le formecontrattuali affidano mandrie di animali a “buccieri” urbani che li nutrono eli macellano man mano, e consegnano ai proprietari il ricavato della venditadella carne di ciascun animale trattenendo il proprio compenso.36

Ben più rimarcati e protetti sono gli spazi dei bovini: soprattutto anima-li da lavoro e, in subordine, da carne, dato che qui i formaggi sono in lar-ghissima parte pecorini e caprini. Il bue aratorio è percepito come bene as-solutamente scarso rispetto ai bisogni agricoli: un’immagine confermata daindizi e dati a disposizione degli storici. Ad esempio i dati che la Statisticamurattiana, tra il 1811 e il 1812, propone per nove delle dodici province delRegno meridionale, e le valutazioni prudenziali che è possibile elaborare perle altre tre, indicano per i bovini valori quantitativi di gran lunga inferiori aquelli stimati per la Toscana di fine Settecento37 (i numeri diventano compa-rabili, in relazione alla differente superficie, per gli equini, ma solo se vi sicomprendono asini e muli). Il costo dei buoi incide profondamente sulla in-certa convenienza del campo a grano, induce il conduttore ad eludere lenorme contrattuali riguardanti il numero delle arature, allarga lo spazio dellazappa grande al di là dei suoi ambienti di elezione – l’orto, la microaziendapolicolturale.38 Esso è perciò circondato di cure legislative, statutarie, con-suetudinarie: i percettori e tesorieri provinciali non possono exequire i buoidei cittadini delle università che non pagano le imposte; le “mezzane” per ipascolo dei buoi delle aziende cerealicole costituiscono uno dei pochi casi diliceità indiscutibile della chiusura e della recinzione della terra; le universitàdevono a volte costituire “monti di bovi” a favore dei coltivatori e calmiera-re le giornate di aratura;39 la loro cura prevede integrazioni di foraggio get-

34. Galanti, Della descrizione geografica, I, p. 146.35. Toggia, Intorno all’educazione, p. 14. In Sardegna nel 1771 venivano numerati

131 mila maiali non domestici, contro soli 33 mila domestici (Day, Bonin, Calia, Jelinski,Atlas de la Sardaigne rurale, p. 107).

36. Vedi, ad esempio, Archivio di Stato, Bari, notaio Caiasso, Monopoli, atto gen-naio 1610, giorno 4.

37. Barsanti, Allevamento e transumanza, pp. 113 e 125.38. Cfr. Palumbo, Cenni sull’estensione e distribuzione, in particolare p. 12.39. Casilli, Patrimonio zootecnico, II, in particolare pp. 506-507.

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tato all’aperto sui percorsi del pascolo e strutture di ricovero che altri ani-mali non hanno – dalle grandi stalle in muratura delle masserie in cui glianimali vengono condotti solo di notte o quando il tempo è cattivo,40 fino aquell’«embrione di stalla» che uno scrittore siciliano di primo Ottocento tro-va presso i piccoli coltivatori della piana di Catania come eredità saracenadiffusa sulle sponde africane del Mediterraneo: e cioè l’insieme di una bicadi paglia e di un piolo infisso in terra al quale, dopo il pascolo libero, si legauna zampa anteriore dei bovini di ritorno dal pascolo libero.41

D’altro canto sul possesso dei buoi aratori si fonda un’articolazionedella società del borgo numericamente limitata ma socialmente impor-tante. Una delle molte accezioni del termine “massaro”, diffusissima nelvocabolario rurale meridionale, fa riferimento al gruppo minoritario dilavoratori che posseggono o usano con formule contrattuali varie alcunigioghi, e vendono il loro lavoro e quello dei loro animali, o a loro voltacedono questi ultimi ad menandum e ad laboratura.42 In ristretti periodidedicati alle arature, i loro datori di lavoro diventano soprattutto i “brac-ciali”, proprietari o conduttori di aziende troppo piccole per comportare lagestione in proprio di un bue per tutto l’anno, e coltivate più spesso, lun-go il calendario agricolo, con la zappa o con aratri leggeri trainati da so-mari. Dovendo gestire gli animali nei lunghi periodi di inattività degliaratri43 ed essendo spesso privi di terra di loro possesso, i massari investo-no anche in animali non utilizzabili come “macchine da lavoro”, e fini-scono spesso per sovrapporre al profilo di agricoltori quello di allevatori:oltre a piccoli greggi di pecore, è possibile trovare nel loro patrimoniomandrie di porci di decine, in qualche caso di centinaia di capi.44

Si tratti di ovini, bovini o suini, inchieste e catasti - questi ultimi pe-dantemente impegnati ad elencare ogni bestia che non sia di bassa corte -

40. Cfr., per esempio, Cimaglia, Della natura e sorte, pp. 42-43; Lepre, Terra di La-voro, p. 162.

41. Palmeri, Cause e rimedi, pp. 167-168.42. Indicazioni sui contratti irpini cinquecenteschi riguardanti il bestiame in Pelliz-

zari, Per una storia dell’agricoltura, in particolare pp. 197-199. Sui mutamenti nel tempoe a seconda dei luoghi della semantica e dei profili sociali di questa figura cfr. Carrino,Gruppi sociali e mestiere, pp. 231-278.

43. Cfr., ad esempio, Squeo, Considerazioni, p. 456; Assante, Romagnano, p. 258.44. Si veda il caso del più ricco fra i “massari” di Camigliano, casale di Capua, a

metà Settecento, il quale non possiede terra ed ha 1140 ducati impegnati nell’allevamentodei maiali: Lepre, Terra di Lavoro, pp. 70-79. Numerosi esempi di “massari” collocati fraagricoltura ed allevamento in Poli, Territorio e contadini, pp. 123 ss.

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ripropongono con insistenza l’immagine di una concentrazione del pos-sesso elevatissima, senz’altro più forte di quella della terra, che la presen-za della figura “intermedia” del massaro non riesce a nascondere. A metàSettecento le risorse più importanti di Vico di Pantano, villaggio nellapianura campana fra Aversa e la foce del Volturno, sono costituite dal-l’allevamento di buoi e vacche, ma, fra i 99 fuochi di bracciali sui 122complessivi, due soltanto dichiarano un qualunque animale.45 A Minervino,situata fra i pascoli dei modesti rilievi calcarei pugliesi e quelli delle collineargillose lucane, a metà Settecento sono registrate 8238 pecore e capre,delle quali 7500 sono del Duca di Calabritto.46 A Ganci, centro delle Ma-donie siciliane di circa 4000 abitanti in cui, secondo un rivelo di metà Cin-quecento giuntoci completo, l’allevamento costituisce quasi il 30% dellaricchezza complessiva, 4 fuochi posseggono il 25% dei bovini ed il 39%delle pecore, e solo il 4% delle famiglie sono proprietarie di ovini.47 Gliesempi potrebbero moltiplicarsi e, per quanto si volesse fare il gioco delleeccezioni, l’immagine complessiva ne emergerebbe comunque chiara.

La figura del “bracciale”, il coltivatore in proprio o a salario di terra al-trui che domina il panorama sociale meridionale in maniera sempre piùnetta man mano che si procede nei secoli dell’età moderna, è caratterizzato,più che dal mancato possesso della terra, dal mancato possesso degli anima-li. Quando deve dichiararne qualcuno, si tratta quasi sempre di somari – «lavettura del basso popolo» – o, meno frequentemente, dei più costosi muli,che, ospitati, se non nella stessa casa del contadino, in minuscole stalle atti-gue alla sua abitazione,48 rendono possibili gli spostamenti quotidiani, spes-so lunghi, dal borgo ai diversi appezzamenti su cui eroga lavoro. All’altrocapo della scala sociale, troviamo le grandi mandrie signorili. In Calabrianel patrimonio dei principi di Bisignano al 1594 ci sono 14261 pecore e ca-pre, 657 buoi, vacche e bufali – animali questi ultimi con pretese maggiorisulle risorse ma più efficaci nei terreni pesanti49 – ed una mandria di suini;50

ed i duchi di Corigliano posseggono nel 1700 19.746 capi, nel 1740

45. Lepre, Terra di Lavoro, pp. 79-85.46. Dal Pane, Studi sui catasti onciari.47. Cancila, Fisco ricchezza e comunità, pp. 135 ss.48. Sul pregio degli asini pugliesi, al pari di quelli dell’Umbria e delle Marche, cfr.

Garzoni, La piazza universale, I, p. 806.49. Avagliano, Terre e feudi della Chiesa, pp. 59-60; Cimaglia, Della natura e sorte,

pp. 42-43.50. Galasso, Economia e società, pp. 191-192.

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21.867, di cui 15.952 ovini, nel 1744 29.375 capi di cui 24.406 ovini.51 Ilduca di Martina possedeva nel 1626 una masseria di 389 capi fra tori, vac-che, giovenche e giovenchi, “sterpe”, “annecchie” e “annecchi”, ai qualivanno aggiunti i vitellini.52 Il patrimonio zootecnico al 1671 dei Doria prin-cipi di Melfi, che fanno “industria campestre” a ridosso delle terre della Do-gana di Foggia, è distinto in 4 masserie: quella di pecore ha 7809 ovini e708 caprini, e funziona con il sostegno di 26 cavalli e 16 asini; quella di bu-fali, comprendente 253 capi, ha anche 2 cavalli, un mulo e 2 asini; quellabovina ha 506 capi, 3 cavalli ed un mulo; quella suina 1371 porci e due ca-valli.53 Ma anche i patrimoni di animali dei “galli di villaggio” appaiono im-pressionanti se collocati nello spazio modesto del borgo: ad esempio un vi-vente more nobilium di Tolve, “terra” collinare del potentino con 2550 ani-me nel 1736, possiede 200 vacche, 600 pecore, 200 capre ed una giumen-ta;54 ed un “magnifico” della già citata Ganci cinquecentesca possiede 150vacche figliate ed altre 150 sterili, 300 vitelloni maschi e 50 femmine, 80buoi da lavoro, 2000 pecore, 150 suini, 50 giumente, 4 cavalli, 16 muli e 30somari.55

Nelle forme prevalenti di gestione economica, questa concentrazionerisulta spesso ulteriormente accentuata. Guardiamo ad uno dei non molticasi documentati: una “associazione pastorale” agente fra il 1688 ed il 1691sulle Madonie siciliane.56 Si tratta di un grosso gregge che conta, a secondadegli anni, fra 3031 e 3856 capi, fra cui le capre costituiscono il 15-20%, emette sul mercato soprattutto formaggi e lane, i primi di valore superiorealle seconde. All’incirca un terzo sono di proprietà di un nobile residente aPalermo; le altre quote, raramente superiori ai 200 capi, appartengono adaltri soci, enti o anche pastori che prestano la loro opera nella stessa asso-

51. Bevilacqua, La transumanza in Calabria, pp. 857-869.52. Papagna, Sogni e bisogni, pp. 36-37.53. Zotta, Rapporti di produzione, in particolare pp. 277-279. Questo saggio assai

importante va letto assieme ad un altro scritto dello stesso autore: Momenti e problemi diuna crisi agraria, pp. 715-796. Sull’allevamento nella gestione patrimoniale delle grandicase nobiliari cfr. fra l’altro: Verga, Un esempio di colonizzazione, pp. 261-296; Caridi,Uno “stato” feudale, pp. 26-36, 81-86, 133-149; Astarita, The Continuity of Feudal Power,pp. 95-102; Del Vasto, Baroni nel tempo, pp. 82-88. Su un contesto simile cfr. Pescosoli-do, Terra e nobiltà, pp. 39-43, 64-67, 112-122.

54. Capano, L’allevamento a Tolve, pp. 369-377.55. Cancila, Fisco ricchezza e comunità.56. Cfr. il cap. IV (Il reddito della pastorizia: un’impresa nel Seicento) di Cancila,

Impresa redditi mercato, pp. 215-243.

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ciazione. L’impresa ruota attorno al gregge del nobile palermitano, che èanche proprietario di una parte degli erbaggi adoperati dall’impresa, forni-sce agli addetti olio e farina conteggiati nei costi e, soprattutto, crediti. Cio-nonostante i pastori mutano di anno in anno, ed impiegano il loro lavoro edi loro piccoli capitali laddove le occasioni sembrano più propizie. L’ecces-siva dimensione delle mandrie bovine e delle greggi dell’allevamento spe-cializzato – 3000-6000 pecore sarebbe la norma secondo Palmeri57 – è unodei difetti del settore lamentato dagli scrittori di cose rustiche, ed è l’altrafaccia del microallevamento stanziale ed interstiziale.

Il conferimento di greggi e mandrie anche di qualche centinaia di ca-pi, ben significative nelle gerarchie sociali del borgo ma spesso conside-rate economicamente non autonome, in società precarie costituite attornoa grosse greggi e mandrie nobiliari, è strettamente connesso al vagare de-gli animali fra gli erbaggi distanti e quindi alla difficoltà di una loro ge-stione integrata nell’universo economico del borgo. A volte, come in Ca-labria, la rapida alternanza fra montagne e pianure chiude la transumanzaa base collinare dentro bacini delimitati – da nord a sud i bacini Pollino-Sibari, Sila-Crotonese, Serre-marine, Aspromonte-Piana di Gioia;58 in al-tri casi essa si allunga fino a 70-80 miglia, come per i grossi branchi divacche siciliane.59 Il punto è, comunque, che questo vagare ha caratteridiversi sia dalla pastorizia alpina che dalla grande pastorizia della monta-gna appenninica, sulla quale dovremo soffermarci più avanti: spesso essonon rientra nella tipologia binaria transumanza diretta/transumanza inver-sa, che presuppone due stazioni altimetriche di pascolo, una delle quali ècollocata a ridosso del luogo di residenza e di organizzazione della vitasociale dei protagonisti del settore, e quindi permette loro di avere diretta-mente un ruolo di primo piano nel gioco dei poteri e delle reti locali. In Ba-silicata, in Calabria, in Sicilia le stazioni sono spesso tre – per le grandimandrie delle vacche siciliane “montagna”, “marina” e “mezzalina”.60 Ilborgo, collocato ad una quota intermedia fra gli altipiani disabitati del pa-scolo estivo e le piane litorali acquitrinose del pascolo invernale,61 è un luo-go di sosta breve su questi itinerari, anche perché è spesso dotato di risorse

57. Palmeri, Cause e rimedi, pp. 164-166.58. Bevilacqua, La transumanza in Calabria.59. Palmeri, Cause e rimedi, pp. 161-164.60. Ibidem.61. Presentano questa doppia transumanza 38 dei 77 comuni lucani contemplati nel-

la «statistica murattiana»: Morano, Storia di una società rurale, pp. 181-183.

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pascolative modeste o usurpate o degradate, e la presenza di grandi greggie mandrie crea tensioni acute con gli utilisti locali possessori di qualche ca-po. Così le assenze degli addetti si allungano,62 i loro nessi con la societàlocale si allentano, e noi li troviamo nei catasti con denominazioni varie –pastori, porcai, gualani, vaccari, crapari, giumentari… – ma quasi semprenullatenenti o dotati solo di qualche animale o di un frammento di terra.

Il problema del difficile dialogo fra questo mondo del vagare e la ce-realicoltura stanziale è ben presente agli attori sociali, in particolare nellaprospettiva di un sia pur parziale recupero dei “sughi” del letame dispersisugli itinerari delle transumanze corte e lunghe. In un ambiente sul qualedovremo ritornare partitamene, quello particolarmente ostico delle pietra-ie calcaree dell’alta Murgia pugliese, il distretto più importante di alleva-mento di pecore “mosce” meridionali – per secoli ben oltre 100000 peco-re vengono attribuite ai due centri contigui e rivali acerrimi di Altamura eGravina – vi provvede a suo modo la natura: i campi vi si rifugiano neglisprofondamenti carsici delle “lame”, dove si raccoglie la terra rossa dila-vata insieme agli escrementi ovini lasciati sui dossi, e la produttività intermini di seme può essere anche assai elevata.63 D’altronde, essendo iproprietari dei pascoli anche proprietari di grandi aziende cerealicole nel-le terre profonde quaternarie della contigua fossa premurgiana, i contrattipossono comprendere lo scambio di letame contro paglia.64 Alle aziendegranarie concesse dal fisco sulle terre profonde del Tavoliere non mancail soccorso del letame ovino: secondo le norme della Dogana, le pecoredella montagna abruzzese hanno diritto di entrare, per una parte del lorosoggiorno invernale, su quel 40% circa che resta annualmente incolto nel-la tradizionale rotazione quadriennale. Al letame lasciato legalmente dallepecore, qualche agricoltore, approfittando dell’assenza estiva dei pecorai,aggiunge quello che va a rubare nelle “poste”, sfidando le proibizioni dellaDogana.65 Ma è un soccorso insufficiente: le terre si “stancano”, dicono imassari, le alternanze lente non consentono un recupero pieno della fertilità

62. Nel caso della Calabria ottocentesca, il pascolo estivo sulla Sila permetteva agliaddetti di raggiungere i villaggi a turno ogni 15 giorni; la cosa diventava impossibilequando si stazionava alla marina d’inverno, dalla quale i borghi erano più difficilmenteraggiungibili sia per la maggiore lontananza che per la condizione delle strade, e le assen-ze potevano durare anche 6 mesi. Cfr. Petrusewicz, Latifondo.

63. Tanzarella, Produzione e rese, pp. 289-324.64. Cormio, Le classi subalterne, pp. 979-980.65. Cimaglia, Della natura e sorte, pp. 37-39.

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del suolo, e le prospettive di redditività dell’azienda sono affidate al ritornodell’agricoltura alla mobilità primigenia: cioè al dissodamento di semprenuove terre salde in attesa che la natura riabiliti quelle “stanche”.66

La pressione sul vastissimo incolto pastorale è dunque forte per ra-gioni, per così dire, strutturali, ma provoca conflitti acutissimi nella densaquadrettatura di vincoli, diritti, insediamenti, poteri che copre, lo vedre-mo, anche il territorio meridionale. Aggiungendo a tutto questo le incle-menze della meteorologia, le invasioni delle cavallette, la scarsezza di ca-pitale, i vincolismi annonari, le esigenze del fisco che pesano anche sullepossibilità di esportare, la struttura delle convenienze determinata dallaspinta demografica e dalla connessa fame di grano diventa tutt’altro chechiara: nei grandi possessi feudali i “massari di campo” occorre spessoinventarli dilazionando i fitti e prestando loro denaro, buoi e sementi; e,quando ci sono, essi sono costretti ad unirsi in “società di campo” soprat-tutto per procurarsi gli animali da lavoro. Nelle congiunture difficili tuttoquesto può non bastare, ed il far campo diventa faccenda di “principigrandi”, che, oltre a non pagare fitti perché fanno lavorare terra propria,possono evitare di prendere capitali ad interesse, hanno privilegi fiscali edi passo, possono manovrare a Napoli per farsi concedere le “tratte”, gliambiti permessi onerosi di esportazione. Ed anche costoro possono essereindotti a rinunciare a cogliere le occasioni offerte dai trionfi del grano.67

L’investimento alternativo a portata di mano è proprio quello zoo-tecnico: la difficile redditività del campo privo di un apporto animale ro-busto lo risospinge verso l’erba. Le aziende di età moderna – quelle di cuila documentazione e gli studi di caso ci permettono di seguire i processidecisionali ed i loro mutamenti su tempi medi e lunghi68 – non si colloca-no passivamente su uno dei due lati del discrimine fra il mondo dell’agri-coltura e quello dell’allevamento, né funzionano nei modi dell’oleatomeccanismo economico e paternalistico del latifondo ottocentesco cala-brese disegnato da Marta Petrusewicz. Esse sono strutture in bilico, che inmomenti diversi presentano una differente distribuzione dell’investimen-to fra produzione agricola e produzione animale giustapponendo le due

66. Bonazzoli, L’economia agraria, in particolare pp. 135-146.67. Si vedano su queste questioni in particolare i saggi già citati di Zotta.68. Cfr., in particolare, oltre ai saggi di Zotta, Lepre, Feudi e masserie; Visceglia, Le

vicende dei Muscettola, pp. 214, 236-238, 240, 244; Tanzarella, Produzione e rese; Boen-zi, Giura Longo, La Basilicata, in particolare p. 136 sul principe di Stigliano e le conver-sioni delle sue aziende a metà Seicento.

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attività senza integrarle. Quando Galanti scrive nel tardo Settecento concompiacimento che in Terra d’Otranto vi è una «gran copia di animali»,in particolare di pecore che «non viaggiano», ed un agronomo, qualcheanno dopo, che nella provincia «non vi è masseria la quale non abbia lesue doti di animali pecorini, di caprini, di buoi, di vacche»,69 essi nonfanno riferimento a modelli padani, ma alle mille possibili posizioni cheil capitale aziendale assume fra gli estremi, rischiosi per la redditivitàcomplessiva, della piena specializzazione nell’una o nell’altra direzione.

La relativa scarsezza degli investimenti fissi necessari – gli edifici,una volta costruiti, sono in parte fungibili sia per ricovero di animali chedi mietitori, cisterne, magazzini e recinzioni presentano solo tempi minoridi utilizzazione quando adibiti all’allevamento –, la preponderanza delcapitale circolante nei bilanci di impresa ed il fatto che quest’ultimo siacostituito, anche nella masseria di campo, in larghissima parte di anima-li,70 rendono rapide le conversioni e le mettono al passo dell’andamentodei prezzi dei formaggi, della lana e del grano o del mutare dei vincolismipubblici. Ne emergono linee di mutamento assai più complicate di quelleche assegnano all’allevamento una funzione anticiclica: nel secondo Cin-quecento e nel secondo Settecento grano e pecore crescono assieme, e nelprimo Seicento difficoltà gravissime coinvolgono entrambi i settori. I de-cisori, in particolare coloro che controllano risorse e capitali in grande,agiscono su orizzonti temporali brevi ed assumono profili ambigui allosguardo classificatorio, a volte anche a ridosso degli ambienti della con-trapposizione istituzionalizzata fra seguaci di Caino e seguaci di Abele. Idue soggetti del ceto dei massari chiamati dal governo napoletano nel 1591a concorrere alla decisione se consentire ulteriori dissodamenti di terre pa-scolatorie pugliesi di demanio regio sono assai diversi da quelli, omonimi,che nei borghi offrono arature ai bracciali, ma, come questi ultimi, si occu-pano sia di campi che di erba: Mario del Tufo, figlio del marchese di La-vello, «quale tene grossa masseria di pecore et così anco de campo», e«Ferrante Lombardo de la Puglia, et uno delli principali massari di campo,

69. Galanti, Relazioni sulla Puglia, p. 52; Giovene “Pastorizia”, risposte manoscritte adun questionario di primo Ottocento (Biblioteca Nazionale, Bari, fondo D’Addosio, 41/20).

70. Ovviamente di buoi aratori, nel caso del campo. Secondo un suo piano del 1646 diconversione alla gestione diretta cerealicola del feudatario di una parte del territorio dello “Sta-to di Melfi”, il governatore valuta che su un investimento di 10000 ducati, 8000 ducati vannoimpiegati nell’acquisto dei 500 buoi necessari: Zotta, Rapporti di produzione, pp. 262-265.

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et pecore di essa»71 Ed all’altro capo della vicenda della Dogana di Puglia,alla fine del Settecento, uno dei quattro «marchesi dei caciocavalli» nobi-litati da Ferdinando IV nel suo soggiorno in Capitanata, Lorenzo Filiasi, didiscendenza veneta, risulta ben inserito nel mercato intriso di poteri del Ta-voliere come grande produttore sia di grano che di lana.72

I due circuiti della produzione vegetale e di quella animale mantengo-no margini consistenti di autonomia ma non si volgono le spalle: strutture,capitali e soggetti sociali importanti si collocano a cavallo delle frontiereche li separano.

Se l’azienda latifondistica meridionale, di fronte alla spinta del gra-no, si situa in una sorta di strutturale ambiguità settoriale, quella dell’A-gro e della Maremma laziale sembra scarsamente toccata dalla lusinga ce-realicola, nonostante la vicinanza del mercato romano. Ma ci sono ragionisolide che fondano queste scelte di lungo periodo, ben iscritte nell’orga-nizzazione del paesaggio rurale attorno alla città. Mentre i grandi enti ti-tolari di diritti feudali possono preferire il popolamento su base agricola,in grado di offrire il ventaglio dei redditi signorili tipico del feudo abitato(rendite da concessione fondiaria, banno, giurisdizione), i quali possonocompensarsi vicendevolmente e ridurre l’incertezza, la convenienza dei“mercanti di campagna” per l’allevamento è misurata dai calcoli degliagronomi del tempo e confermata dagli storici odierni.73 D’altronde non èsempre vera l’immagine dei riformatori secondo la quale la pecora scac-cia il grano; a volte è la pecora che permette al grano di essere coltivato.Corneto, l’odierna Tarquinia, può fungere da secolare granaio di Romaanche perché il “ceto degli agricoltori”, protagonista della difesa strenuadelle servitù di pascolo dagli attacchi delle riforme, ha ampi interessi nelsettore dell’allevamento ovino e bovino, e costruisce margini di redditi-vità anche per i suoi investimenti cerealicoli tramite un controllo mono-polistico sulle risorse pascolatorie della comunità.74 Per Monteromano,villaggio inventato dall’Ospedale di Santo Spirito nel Settecento, è possi-bile osservare da vicino, al livello dell’azienda contadina, questi meccani-

71. De Negri, Pane e… companatico, p. 1407, nota.72. Russo, Una famiglia di “negozianti”, pp. 109-132.73. Il riferimento classico è al confronto fra il fruttato di un’azienda di campo e

quello di una masseria di pecore di Nicolaj, Memorie, leggi, osservazioni, III, pp. 164-167. Fra gli storici cfr. Revel, Le grain de Rome, pp. 201-281.

74. Caffiero, L’erba dei poveri.

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smi di accesso alla cerealicoltura tramite il sostegno dell’allevamento.75

Obbiettivo dell’ospedale è quello di ottenere la stabilizzazione dei conta-dini trasformandoli in “lavoratori”, cioè in coltivatori di campi a grano; maper far questo, deve loro concedere bestiame a riscatto e l’accesso privile-giato al pascolo, rischiando di indurli ad impegnarsi nell’allevamento ascapito del campo, che anche dal punto di vista del piccolo produttore sipresenta più rigido e rischioso. Di qui una serie di misure e contromisure,di negoziazioni che vedono l’“astuzia contadina”, sostenuta dai diritti diuso riconosciuti e dalla scarsità di uomini che rendano abitati i feudi, ri-spondere efficacemente alle risorse di potere e di influenza messe in campodagli amministratori dell’ente: i coloni rendono flessibile la dimensione e ladistribuzione settoriale del proprio impegno economico commisurandolonon all’eterno ritorno del ciclo di vita della famiglia, ma all’andamento deiraccolti, ai segnali dei mercati, alle mosse del feudatario. L’azienda coloni-ca si presenta così variamente strutturata, mutabile nel tempo; e comunquela sua vitalità è affidata al carattere composito del suo reddito.

1.5. “Razze nostrane” e pratiche locali

All’interno di questi quadri ambientali e degli altri a cui si dedicheràqualche cenno in seguito, si situano forme di utilizzazione delle nuanceslocales de l’espace che rimangono innumerevoli nei secoli del grano. Sulpiano dell’allevamento, l’espressione più diretta di questa molteplicitàdell’economia campestre sono le mille razze “nostrane” o “rustiche”,76

denominate secondo un vocabolario variegato e colorito (le pecore meri-dionali possono essere mosce, carapellesi, sciare, carfagne, canine, grez-ze, pezzate…) e dotate ciascuna di caratteristiche diverse, derivanti dalsuccedersi di incroci spesso innovativi rispetto agli usi e dall’utilizzo se-colare di risorse locali capaci di influenza re l’organizzazione genetica –ad esempio la canna e l’erba di palude abbondantemente presente nellestalle fra le foci del Po e dell’Isonzo. In comune esse hanno quell’atteg-giamento di resistenza nei confronti della specializzazione produttiva edell’allungamento dei circuiti mercantili da realizzare sulla base della se-

75. Cfr. Ago, Un feudo esemplare.76. Cfr., per tutti, il cap. III di Piccioni, La transumanza.

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lezione delle razze, che la scienza zootecnica sette-ottocentesca sistemerànelle categorie della ignoranza e della resistenza al nuovo.

È un atteggiamento al quale non mancano motivazioni solide. La per-cezione diffusa è che le razze selezionate abbiano bisogno di cure più in-tense e siano più esposte agli accidenti meteorologici ed alle epizoozie, eche i vantaggi che esse permettono di ottenere sulla qualità ed il prezzo diuno dei prodotti – ad esempio la lana delle pecore “gentili” – vengano piùche compensati da perdite sugli altri prodotti, nel caso degli ovini sui lattici-ni e la carne, e dall’aumento del rischio di impresa. Le razze “gentili” paio-no cioè utilizzare con maggiore difficoltà il ventaglio delle risorse, integrarsimeno con le altre forme di utilizzo del suolo, aver bisogno di edifici rusticidiversi da quelli accumulatisi sul territorio, volgere le spalle a consumatoricon un gusto educato a formaggi di particolare durezza e sapidità, a cuoi,carni e lane destinate a circuiti fieristici e mercantili, a luoghi di mani-polazione e utilizzatori finali sperimentati. Insomma la selezione delle razzeridurrebbe l’aderenza delle pratiche agli ambienti ed affiderebbe la rea-lizzazione del reddito ad un mercato scarsamente conosciuto e controllato.

Si tratta però di argomentazioni adoperate in situazioni decisionalicomplesse, spesso conflittuali, che si traducono in risposte adattive piùche in rifiuti. Le razze locali difese dagli allevatori non sono il risultato diantagonismi assoluti nei confronti delle razze “forestiere”. La nascita e losviluppo medievale della grande industria europea dei drappi di lana fatutt’uno con il diffondersi, fra le pratiche primitive dell’allevamento voltead ottenere fibre di vario tipo e di vari animali da mescolare nella filaturae tessitura, di pratiche nuove indirizzate a fibre di qualità costante. Le in-novazioni non rimangono confinate nei circuiti del consumo di lusso, e siinsinuano in ambienti lontani dalle città.77 La distanza dei caratteri fisici eproduttivi delle pecore nostrane rispetto alle “gentili” non deriva da unpiù elevato tasso di natura che gli allevatori non modernizzati vi hannolasciato: in ciascuna delle razze nostrane di età moderna sono incorporatiprocessi e livelli vari di selezione prodottisi anche in rapporto ad una do-manda di dimensioni spaziali e caratteristiche diverse ed in evoluzione; e,in particolare, ad un intrico di vincoli istituzionali su cui occorrerà tornarepiù avanti. Basti per ora ricordare che quelli prodotti dalla Dogana diFoggia, che istituzionalizza il più imponente fenomeno di transumanzaitaliano – un esempio canonico di allevamento “arretrato” – costruiscono

77. Cfr. ora l’importante lavoro di Cardon, La draperie au Moyen Age.

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pratiche secolari, insediamenti, spazi, ricchezza proprio attorno alla peco-ra “gentile”, e comunque contribuiscono a formare, per le scelte zootec-niche, un orizzonte di opportunità che intreccia la massimizzazione dei ri-sultati economici ad obbiettivi di tutt’altra natura. Nella difficile sceltache il principe di Melfi deve fare nel 1646 sulla direzione dei suoi investi-menti, la proposta di un esperto di allevare pecore “mosce”, che gli evite-rebbero i fastidi della giurisdizione doganale e comunque produrrebbero«ayni, casi, ricotte e lane» vendibili dentro e fuori del suo “stato”, è avver-sata da un altro depositario di saperi locali che ritiene le pecore “gentili”«più confacenti al decoro di un principe».78 Ed il fatto che Gravina, a diffe-renza della vicina Altamura, nel Settecento si converta massicciamente allepecore “gentili” deve avere qualcosa a che fare con la volontà di alcuniesponenti della élite locale di sottrarsi alla giurisdizione del feudatario sot-toponendosi a quella della Dogana.79 È una scelta che provoca processiimitativi rapidi. Lo stesso feudatario della città e gli enti ecclesiastici fini-scono per seguire nella riconversione i loro avversari pur rimanendo nellacondizione giuridica di non locati: nel 1739 le pecore “gentili” possedutedai 29 enti ed individui non soggetti alla Dogana sono ben 32800.80

Più in generale, la produzione animale premoderna non si chiude innicchie ecologiche praticate in punta di piedi, rispettando equilibri primi-genii: come emerge già dai cenni generici delle pagine precedenti, essaraccoglie sfide, ivi compresa quella demografico-cerealicola, incorporan-dole in forme di utilizzo delle risorse dotate di logiche, capaci di costruireil paesaggio e far vivere le economie campestri. Il problema, per chi ritie-ne che è di quelle economie campestri che è fatta la storia del mondo ru-rale preindustriale, è provare a riconoscerle mobilitando le competenzeutili, al di qua o al di là dei confini disciplinari in cui è situato. Laddove,in particolare per alcuni luoghi della fascia collinare e montana ligure,allargando la nozione di documento tradizionale nella pratica storiografi-ca, l’osservazione è stata portata al livello della composizione floristicadella cotica erbosa, delle caratteristiche zootecniche degli animali, dellecostruzioni rustiche minute e delle vie campestri, ed è stata fatta dialogare

78. Zotta, Rapporti di produzione, pp. 262-265.79. Squeo, La gestione della terra. Su questi tentativi di sfuggire al controllo feudale

collocandosi sotto la giurisdizione della Dogana cfr. Ajello, Il problema della riforma, pp.169-185.

80. Archivio di Stato, Foggia (d’ora in poi ASFg), fondo Dogana, s. V, b. 20, fasc. 3969.

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con l’analisi delle forme del possesso, dei rapporti contrattuali, della cir-colazione dei prodotti, dei conflitti interni ed esterni alle comunità,81 èvenuto alla luce un mondo complesso ma a suo modo strutturato, che siriproduce secondo regolarità riconoscibili anche se ribelli alle classifica-zioni delle scienze agronomiche; ed è emerso un corpo robusto di saperilegati all’esperienza quotidiana e trasmessi con la voce ed i gesti. So-prattutto ne è scaturita la dimostrazione puntuale di ciò che lo sguardostoriografico ancorato al manoscritto d’archivio aveva cominciato a nota-re, come si è visto sopra, anche in altri ambienti dell’Italia di età moder-na: lo scarso valore operativo delle opposizioni classiche colto-incolto,spazio agricolo-spazio pastorale, agricoltura-allevamento.

Pratiche rurali e figure sociali che, disarticolate e riclassificate secon-do gli schemi a noi più familiari, sono sembrate impossibili o distruttive,acquistano senso se osservate negli intrecci agro-silvo-pastorali ai qualidanno vita e che ruotano spesso attorno agli animali domestici da frutto elavoro. Per quanto riguarda ad esempio il castagneto, una fra le colturenon cerealicole in grande espansione nell’Europa di questi secoli,82 il ci-clo di cure al quale esso è sottoposto non è comprensibile se lo si consi-dera finalizzato alla sola produzione di frutto; esso consiste viceversa in“pratiche di attivazione” con effetti multipli, che hanno come risultato, alcontempo, il frutto da farina ed uno strato erbaceo di valore pastorale ac-cresciuto: lo sradicamento della cotica erbacea associata alla coltura av-ventizia dei terrazzi e alla raccolta di foglia per foraggio tramite rastrel-latura ha effetti, dimostrati sperimentalmente, depressivi nei confronti deimuschi e positivi nei confronti dei popolamenti erbacei. Fa parte inte-grante di queste pratiche il debbio, severamente valutato da Emilio Sere-ni: ad ogni ciclo di applicazione del fuoco controllato, si sopprime vege-tazione arbustiva sotto i castagni, si stimola la crescita degli alberi giova-ni, si crea ostacolo all’incendio incontrollato.83 Di qui un elemento essen-ziale di differenziazione dei paesaggi odierni rispetto a quelli governatisecondo queste logiche: negli ambienti rurali premoderni il mosaico pae-saggistico è reso più complesso a causa dell’alto numero delle classi diutilizzazione del suolo, della modesta gerarchizzazione delle colture, del-la ridotta superficie media di ciascuna tessera; viceversa, all’interno delle

81. Cfr. soprattutto le proposte e gli studi raccolti in Moreno, Dal documento al terreno.82. Delort, Walter, Histoire de l’environnement, pp. 228 e 244.83. Vedi, fra l’altro, Cevasco, Moreno, Poggi, Rackam, Archeologia e storia della

copertura vegetale, in particolare pp. 253 e 255.

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Pratiche e saperi dell’allevamento 35

singole tessere la diversità floristica e strutturale, che tende oggi ad accre-scersi in assenza di utilizzazione, viene contenuta e governata.84

Studiati anch’essi con questa strumentazione analitica, gli altri am-bienti italiani su menzionati risulterebbero fondati su pratiche, saperi edattori del tutto diversi, ma non credo fornirebbero prove convincenti allerappresentazioni dell’allevamento di età moderna come aspetto di una vi-cenda di degrado risolta con l’intervento salvifico della scienza o, se si pre-ferisce, ulteriormente aggravata dalle arroganze della scienza stessa. Le so-cietà locali hanno manipolato per secoli ambienti e risorse in forme che,almeno in parte, ne hanno consentito la riproduzione ed hanno permessoalle stesse società locali di riprodursi.85 In una qualche misura, questo pas-sato sembra custodire esempi di quelle economie a razionalità “sostenibile”che costituiscono oggi la scommessa di un futuro possibile.86

84. Cfr. Agnoletti, Paci, Landscape Evolution, pp. 117-127.85. Cfr. Risorse collettive.86. Bevilacqua, Demetra e Clio.

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2. Gli spazi del mercato

2.1. Transumanze commerciali

Se dalle pratiche e dai saperi dell’allevamento ci si sposta sul versan-te del mercato delle sue produzioni, si conferma, da un lato, la scarsa ope-ratività per l’età moderna di schemi semplificati, come quello che opponeil luogo della “produzione” a quello del consumo, dall’altro la sua straor-dinaria adattività ambientale, in dimensioni economiche, sociali ed orga-nizzative tutt’altro che marginali.

Gli animali, anche al di fuori delle ordinarie e più note pratiche delletransumanze tra differenti piani altimetrici – ci torneremo più avanti – simuovono incessantemente, attraversando confini e interessando differentigiurisdizioni. Tra questi spostamenti assumono un certo rilievo le cosid-dette “transumanze commerciali”, quei movimenti tra le varie sedi di al-levamento e quelle di vendita, che non coincidono sempre, per gli animalida carne, con i luoghi della macellazione e del consumo. L’allevamento,infatti, è spesso operato da soggetti diversi, distanti nello spazio, che siincontrano tra di loro nelle fiere o nei mercati, acquistando, vendendo oscambiandosi animali. Parimenti, a parte le carni e le pelli, la cui produ-zione è un fatto “puntuale”, gli altri prodotti sono itineranti, come il “ca-cio di passo”, fabbricato con il latte munto la sera durante le soste lungo iltratturo e venduto dai pastori in cambio di pane.1

Persino i suini, che nelle pratiche odierne sono emblematicamentelegati allo spazio ristretto della porcilaia, si muovono spesso a lunga di-stanza durante le fasi del loro allevamento. Quelli che, ad esempio, anco-

1. Cfr. Maury, Relazione sulle condizioni dell’industria pastorizia nomade, in AUTO-RE?? Sul regime dei tratturi del Tavoliere di Puglia, Roma 1906, p. 8. Non è in bibliografia

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ra nel primo Ottocento si allevano in Abruzzo citra «non tutti nascononella Provincia, ma dalla Puglia per lo più vengono le cosiddette morre,le quali si ingrassano in questa provincia, ed ingrassate si vendono neimercati e nelle fiere per lo più ai negozianti di Capua».2

Talvolta, per i bovini, al di là delle differenti modalità di allevamento –transumante o no – la mobilità pare preliminare all’ingrasso e alla venditasui mercati di consumo. Tutte le vaccine incettate nelle fiere di animalimurgiane e lucane, da Gravina a Potenza, tenute al pascolo nella parte me-ridionale di Terra di Lavoro, vi restano all’ingrasso da aprile ad agosto, perpoi rifornire il mercato napoletano. Il raggio di incetta dei mercanti di ani-mali di Sora e dei “ferretti” capuani o napoletani è, in effetti, straordina-riamente ampio, comprendendo una vasta area che va dall’Abruzzo tera-mano alla Terra di Bari, alla Calabria citeriore. Sono, in particolare, orien-tati verso Terra di Lavoro i bovini delle province abruzzesi e del Contadodi Molise. Vi è ingrassata con la foglia dell’olmo la mercanzia “magra esparuta” acquistata nelle province settentrionali adriatiche del Regno diNapoli: «quasi tutti gli animali vaccini da macello che nascono ne’ treAbruzzi, ed in una parte del Molise sono comperati dai Sorani, ingrassati equindi venduti ne’ principali mercati della provincia [Maddaloni e Tevero-laccio] o spediti direttamente nella Capitale».3 Più diretto e “normale” pareil rapporto con il grande mercato napoletano dei bovini sorrentini: la peni-sola (Sorrento e Vico Equense, in particolare) è luogo di ingrasso delle vi-telle per il mercato napoletano, cui offrono un “cibo dilicato”.4

Generalmente gli animali raggiungono con le loro zampe i mercati ola loro destinazione finale, popolando per molti giorni le strade e i trattu-ri, di stagione in stagione diversi, a seconda dei tempi della riproduzionedelle differenti specie, delle prescrizioni sanitarie, dei riti alimentari o,semplicemente, della specializzazione delle fiere.5

2. La “statistica” del Regno di Napoli, I, p. 248.3. Ibidem, IV, p. 346.4. Galanti, Della descrizione geografica, I, p. 139.5. Come è noto, gli ovini – gli agnelli in modo particolare – in età moderna si macel-

lano prevalentemente in primavera, i suini in inverno, per i vitelli e gli altri bovini la ma-cellazione si fa praticamente tutto l’anno, al pari di quella dei conigli e del pollame (cfr.Corrado, Il moltiplico e governo degli animali, passim). Il Garzoni, parlando delle compe-tenze del beccaro, indica un calendario dei periodi in cui «le bestie sono migliori da am-mazzare»: «il verno per il freddo i porci, i buoi grassi da Natale, a Pasca i capretti, et i vi-telli di latte, e gli agnelli, l’estate i manzi gioveni, l’autunno i castrati» (La piazza univer-sale, I, pp. 273-274).

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Molti chilometri lungo i tratturi e le strade consolari fanno anche gliovini incettati a Foggia per raggiungere i mercati di sbocco (solo gliagnelli più piccoli vengono trasportati con i carri).6 E l’ultima transuman-za non è talvolta meno lunga delle altre ordinarie.

Sorani, ma anche folignati, arpinati – come si vedrà – sono i nego-zianti di agnelli e castrati che operano tra Regno di Napoli e lo Stato Pon-tificio. A costoro non infrequentemente il viaggio con gli animali incettatisi complica: il sorano Francesco Fortuna, che ha comprato, nella prima-vera del 1765, 4 mila agnelli e 2 mila castrati dai locati della Dogana diFoggia, è già in viaggio da una settimana con il suo gregge acquistatoquando, in prossimità del confine, viene fermato dal capitano della Gras-sa di Terra di Lavoro che gli comunica che il permesso di estrazione è li-mitato a 1500 agnelli, «e questi condurli non in altra parte dello Stato, chein Castecantolfo, Albano e Rocca Priora per servigio della beatitudine delSommo pontefice».7

Gli animali incettati raggiungono i luoghi di consumo, per infra e perextra Regnum, utilizzando i “passi” attraverso i quali si entra e si esce dalterritorio della Dogana, riunendosi al gregge d’origine quando rimangonoinvenduti in fiera. Il “passo” più praticato è quello di Civitate, in prossi-mità del ponte sul Fortore, lungo il tratto costiero del tratturo L’Aquila-Foggia. Seguono per importanza i due passi di San Vito e di Motta, versole province campane. Ai passi talvolta gli animali sostano a lungo per di-sposizione del Governatore della Dogana, soprattutto quando non è statapagata la fida, provocando le proteste dei caprettari napoletani e dellaGrassa della capitale.8

Lungo le strade e i tratturi del Regno si muovono anche cavalli, mulied asini, comprati nelle fiere o introdotti dall’estero: gli asini dei contadi-ni molisani – nel Mezzogiorno murattiano – provengono dall’Abruzzo o«dalla contrada detta la Marca, oggi dipartimento del Rubicone». I cavallisi introducono dalla Dalmazia e dalla Schiavonia, ma nel Decennio fran-cese, interrotti i traffici interadriatici, vengono acquistati in Puglia o in A-bruzzo. Anche in Terra di Bari i cavalli migliori sono reputati quelli di o-rigine dalmata, mentre per gli asini e i muli «la maggior parte se ne com-

6. Il diritto dovuto all’arrendatore dei capretti varia a seconda che gli animali sianogiunti a Napoli «accavallo sopra bestie» (la gabella è più alta) o «appiedi» (cfr. in Cicala,Alimentazione e tassazione, p. 12).

7. ASFg, Dogana, s. I, b. 105, fasc. 1681.8. Cfr., ivi, s. I, b. 1054, fasc. 22641, quanto succede nel 1790.

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pra verso il primo anno di vita da’ martinesi, li quali gregariamente gli al-levano ne’ boschi, e ne’ pascoli per venderli a due o tre anni».9

Viaggiano, ma per mare, dalla Calabria e dalla Berberia, i bovini che a-limentano le mense della città della Sicilia, un tempo esportatrice di animalida carne,10 oltre che di buoni cavalli per l’esercito aragonese di Alfonso.

Di raggio minore rispetto a questi traffici siciliani o a quelli che rifor-niscono Napoli, sembrano gli spostamenti dei bovini destinati alla macella-zione per il grande mercato di Roma. Dei poco più di 20 mila capi, tra buoi,vacche, manzi e vitelli, che si macellano annualmente nella città dei Papiattorno alla metà del Settecento, circa il 60% proviene dalle campagne vi-cine alla città, mentre un 20-25% arriva dall’Umbria.11 Un ruolo importanteha la piana attorno a Roma anche nel rifornimento di ovini (dai 70 ai 95mila capi per anno tra castrati, agnelli e arieti), anche se a fine Settecentocrescono le importazioni dalla Puglia. Un ruolo non dissimile hanno le lo-calità vicine alla Capitale anche nella provvista di suini – 15 mila capi ma-cellati ogni anno – tant’è che una buona parte della abbondante produzionemarchigiana può essere esportata in direzione di Venezia.12

È tra Marche e Romagna che si costituisce un’area specializzata nell’al-levamento di suini, dal momento che anche il grande mercato di Bologna,che tra fine Cinquecento e metà Seicento consuma tra i 12 e i 16 mila capil’anno, in buona misura è rifornito dalla Romagna pontificia.13 Animali di va-rio tipo – soprattutto suini, ma anche bovini – convergono verso i porti diCesenatico e Rimini, dove vengono imbarcati per i porti della Serenissima.

Dalla Marca e dall’Umbria i maiali arrivano anche nel Granducato me-diceo e lorenese, ma da questo Stato, in particolare dal Senese e dalla Ro-magna toscana, vengono esportati molti più “temporili” o lattoni per il mer-cato romano, Lucca e la Romagna pontificia.14

Oltre a quella degli animali che si spostano tra i pascoli invernali equelli estivi, sembrano, infatti, molto importanti anche nelle regioni cen-tro-settentrionali le “transumanze commerciali”, cui già si è fatto riferi-mento. Nelle aree dove l’alimentazione degli animali, soprattutto dei bo-vini, prevede – per ragioni climatiche – il passaggio dall’alimentazione

9. La “statistica” del Regno di Napoli, II, p. 71.10. Aymard, Bresc, Nourritures et consommation, p. 594.11. D’Amelia, La crisi, p. 525.12. Ibidem, p. 511. Si trattava di circa 15 mila capi l’anno.13. Dal Pane, Economia e società, pp. 39 e 40, nota.14. Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 116.

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verde a quella secca, «più costosa e impegnativa», si alleggeriscono lestalle in prossimità della stagione invernale, portando sui mercati gli ani-mali da reddito giunti alla fine del ciclo di produzione.15

Dal Sammarinese e dall’Alto Montefeltro molti suini e bovini vengo-no condotti nel Ferrarese o nelle aree costiere del Pesarese per essere ven-duti;16 parimenti una rilevante transumanza commerciale è quella che por-ta – come si è detto – i vitelli lattanti dal Modenese al mercato di Borgo aBuggiano, nella Valdinievole granducale, dove sono acquistati da conta-dini per venire ingrassati – è il “ristallo” – e rivenduti qualche mese piùtardi nello stesso mercato toscano.17 I bovini da macello di cui il Grandu-cato, quasi costantemente, necessita, acquistati nella Romagna pontificiae portati a Firenze, vengono poi smistati ai contadini dei poderi circostan-ti, affinché riprendano il peso perso durante il viaggio e siano ulterior-mente ingrassati, per essere, infine, venduti, come si vedrà anche più a-vanti, ai macellai della città.18 Ma la Toscana, anche per i bovini, non è unmercato solamente importatore: non pochi, infatti, sono gli animali da la-voro esportati verso le regioni settentrionali e quelle orientali.

Al di là degli Appennini, nella Emilia e nella Romagna, i movimenticommerciali sembrano di breve raggio: i ricchi mercati urbani dei Ducatie delle Legazioni costruiscono tante polarità, tra le quali emerge senz’al-tro il ricco mercato felsineo che consuma bovini importati solo per un ter-zo dal territorio bolognese e per due terzi dalla Romagna, dal Reggiano,dal Parmense, dal Ferrarese e, come si vedrà, dal Modenese.19

Dimensioni quantitative rilevanti ha il commercio a lunga distanza – eil relativo movimento – dei bovini nell’Italia a nord del Po. Il versanteorientale, fino a Verona e al Garda, è rifornito dal bestiame che provienedalla Carinzia, dalla Stiria e, per quel che riguarda Venezia, anche dall’Un-gheria e dalle province illiriche, per via di terra o attraverso i porti dalmati (le mandrie di buoi che arrivano nel porto della Serenissima riposano poiper alcuni giorni in quella che ora è l’isola del Lido20). Il grande mercato

15. Guardigli, “Transumanze commerciali”, p. 69.16. Ibidem, pp. 67-68.17. Pazzagli, Famiglie e paesi, pp. 61-62.18. Pult Quaglia, «Per provvedere ai popoli», p. 187.19. Guenzi, La carne bovina, p. 547.20. Cfr. Braudel – che cita le ricerche di U. Tucci – in Civiltà materiale, economia e

capitalismo, p. 170. Sulla continuità dei flussi di buoi da macello importati dall’Ungheriaanche nel Settecento, cfr. Glaman, La trasformazione del settore commerciale, p. 275.

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lombardo, da Mantova a Cremona, da Milano a Lodi a Novara, invece, ac-quista bovini che provengono dalla Svizzera centrale, dai Grigioni e dalVallese. Si tratta, in tutto, di 15-20 mila capi cui si aggiungono rivoli ditraffico che provengono dalle valli bergamasche e dal Tirolo.

Un flusso imponente in uscita dalla Svizzera – circa 3 mila ogni an-no, «ferrati», secondo l’informatore di Goethe21 – in alcuni mesi portanumerosi capi a valicare il San Gottardo, ma anche il passo del Sempio-ne, lo Spluga e il San Bernardino, e raggiunge dimensioni ragguardevoli– ha rilevato Dubois – anche se non paragonabile a quello delle esporta-zioni di buoi danesi, polacchi e ungheresi verso i mercati tedeschi.22

Un certo rilievo aveva avuto, nel XV secolo – e probabilmente nei se-coli successivi – anche l’importazione dei cavalli di provenienza svizzera,venduti nelle fiere di Chiasso e Bellinzona a «uomini d’arme»,23 mentre i«cavalli todeschi», assai resistenti alla fatica, sono tra i prodotti più ricer-cati nella fiera di Bolzano nel XV secolo, accanto ai bovini e ai suini.24

Ma è certamente il bestiame bovino quello più interessante per com-prendere il “mobile” funzionamento della zootecnia di un pezzo significa-tivo dell’Italia padana: la Lombardia. Si è detto delle relazioni commercialicon i cantoni elvetici e dei flussi che li connettono ai mercati padani, attra-verso i passi delle Alpi Centrali. Non si tratta di «un legame commercialequalunque»,25 semplicemente orientato a soddisfare la domanda di mercatifinali, per quanto rilevanti essi siano (Milano, Pavia, Como, Lodi e Cremo-na nel 1783 richiedono ogni anno la macellazione di 62 mila capi bovini,per tre quarti vitelli).

Con la sua offerta di bestiame cornuto di diversa qualità e reputazione –ha scritto, infatti, Gianpiero Fumi – l’allevamento dei cantoni elvetici entravanella parte alta della trama di relazioni interne al mondo rurale, che congiun-gevano valle a valle, montagna e pianura, l’alta e bassa pianura e viceversa.26

Dai cantoni svizzeri – e in minor misura dagli allevamenti “nostrali”o dai “bergamini” – le grandi aziende della Bassa acquistano, direttamen-

21. Goethe, Reise in die Schweiz, p. 384.22. Dubois, L’exportations de bétail, p. 30. Sulle importazioni dal Vallese e dalle

valli della zona del Gottardo in Lombardia, cfr. Mira, Le fiere lombarde.23. Mira, Le fiere lomabarde, p. 99.24. Demo, Le fiere di Bolzano, p. 713.25. Fumi, L’esportazione di bestiame, p. 155.26. Ibidem.

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te o nei mercati regionali, le vacche da latte, ma non ne mantengono gli“allievi”, venduti sui mercati milanese e pavese, o ceduti «agli agricoltoridelle province superiori o del Cremonese, per riservare i foraggi alle vac-che e il latte di queste al caseificio».27 Il “ristallo”, l’acquisto – come si èdetto – di vitelli da allevare come manzi da macello o come buoi da lavoroè, infatti, l’attività prevalente della piccola coltura della regione asciutta edelle province orientali.

Sono spesso le attitudini delle razze locali a spingere gli allevatori a ri-volgersi a mercati lontani: nella Bassa bergamasca, ai buoi da lavoro locali,ritenuti di “poca forza”, si preferiscono gli animali acquistati, oltre che inSvizzera, in Piemonte, nel Piacentino, nel Parmense e nel Modenese.28

Se assolutamente deficitario sembra l’allevamento veneto, sia per ibovini da macello che per quelli da lavoro, questi ultimi importati dalla Ca-rinzia o dalla Romagna,29 in maggiore equilibrio tra immissioni ed estra-zioni pare funzionare il mercato piemontese che importa bestiame dallaSavoia e dalle Alpi occidentali, ma esporta un buon numero di capi – tre-mila-tremilacinquecento l’anno – verso Genova, dove gli animali arrivanodopo un viaggio mediamente di otto giorni.30 Il mercato genovese è ap-provvigionato anche con animali dell’entroterra ligure, della Lombardia econ altri apporti minori (Parma, Firenze, Lucca, Romagna), mentre in casieccezionali si ricorre anche ai “bovetti” di Sardegna e Corsica.31

2.2. “Grascia”, eserciti, agricoltura

Per quanto sottoposto – a parte le questioni sanitarie – a controlli me-no rigidi rispetto a quello del grano, il commercio dei prodotti dell’alleva-mento – animali, carni, formaggi – non manca di un suo “governo”, diuna sua regolamentazione, che risponde a finalità diverse.

Sul piano normativo è senz’altro il mercato dei bovini a richiedereuna maggiore attenzione dalle pubbliche autorità, in virtù delle molteplici

27. Ibidem, p. 173.28. Sul Bergamasco cfr. Cattini, Romani, Bergamo e la sua economia, pp. 5-48.29. Berengo, L’agricoltura veneta, p. 326. Apprezzati sono anche i bovi da lavoro

pugliesi.30. Puppo, Le carni piemontesi, pp. 77-78.31. Grendi, I macellai e la città, p. 219.

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funzioni cui quegli animali possono assolvere. Ad esempio, nel Regno diNapoli, nel 1559, in una fase di messa a coltura di ampie superfici di ter-reno per far fronte alla domanda crescente di pane da parte di una popola-zione in aumento, «acciocché con più facilità si possano aiutare li semi-nati» si proibisce la macellazione di «vacche, vitelli, buoi, genchi, annec-chie e qualsivoglia altra sorte di detti vaccini», eccetto – si aggiungerà piùtardi, nel 1571 – buoi “marroni”, vacche sterili e vacche “lunari”.32 Ana-logo provvedimento viene preso nello Stato pontificio, con la Costituzio-ne di Clemente VIII che impedisce di macellare giovenchi, buoi aratori evacche, se non rejiciendas (cioè sterili, altrimenti dette “cacciatore”), ovecchie, «e che siano inutili pro massaria», e proibisce l’estrazione dibuoi dal distretto di Roma.33 L’uccidere un bue nello Stato della Chiesa –scriverà Stefano di Stefano qualche tempo dopo – «fu riputato egual de-litto che ammazzare un uomo».34

Il divieto di macellazione dei bovini, replicato nel Regno di Napolinel marzo e nell’aprile 1587, nel 1600 e nel 1624, nel tempo pasquale si-no al 30 maggio, ha lo scopo di conservare la più importante forza di tra-zione delle campagne ed è sicuramente motivata anche dalle imponentiesigenze cerealicole dell’annona napoletana.

In Sicilia già nel 1476 la città di Palermo aveva chiesto il blocco del-le esportazioni di bovini, la cui continua extractioni danneggia l’agricol-tura, e qualche decennio dopo, nel 1522, si stabilisce che nessuno «potes-se macellare più del 5% del suo patrimonio di vacche, il cui numero – perevitare frodi – doveva denunciare alle autorità municipali».35

Talvolta, come nella Repubblica di Venezia, i bisogni alimentari dellaDominante non tengono conto delle esigenze agricole della Terraferma:tensioni provoca già nel 1529 l’ordine del Senato di fornire 14 mila bovi damacello alla città di Venezia, ridotto l’anno successivo ad 8 mila capi. Duesecoli dopo, nel 1721, un analogo ordine provocherà un vero e proprio «af-fare», per la cui soluzione sarà necessaria «grande prudenza».36 E quando

32. Prammatica 1, titolo XXV, De bestiis vaccinis, seu bobus, non mactandis, inGiustiniani, Nuova collezione, III. Cfr. anche Fenicia, Politica economica e realtà mer-cantile, pp. 51-54. “Lunare” è sinonimo di sterile, “marrone” è il bue vecchio che si in-grassa per la macellazione.

33. Nicolaj, Memorie, II, p. 52. Cfr. anche nel 1611 una Costituzione di Paolo V cheproibisce la macellazione dei «pernecessarii boves aratorii». Ibidem, p. 60.

34. Di Stefano, La ragion pastorale, II, p. 317.35. Cancila, Baroni e popolo, p. 29.36. Lecce, L’agricoltura veneta, pp. 8-12.

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nel 1560, dopo i guasti della guerra contro Siena e l’epizoozia del 1557,nella Toscana medicea si proibisce per cinque anni la macellazione di vitel-li e vitelle, la si permette solo alla città di Firenze tra la Pentecoste e il Car-nevale. Pochi mesi dopo si dà facoltà ai rettori delle città comprese nel Do-minio di concedere licenze di macellazione, ma si torna all’esclusivo privi-legio fiorentino nel 1596, ribadendo, tra l’altro, anche il divieto assoluto diesportazione.37 Sovente, per tutti gli allevatori, si sancisce il divieto di avvi-cinarsi con il bestiame a meno di tre miglia dai confini dello Stato grandu-cale e si proibisce di vendere animali nei mercati periferici, come quello diBarberino di Mugello, per evitare esportazioni clandestine, consentendosolo l’«estrazione di bovi fuori di stato col peso di ricondurli ingrassati».38

Prevalenti finalità di carattere militare hanno le misure relative alcommercio e alla movimentazione degli equini. Tale è lo scopo, nel Re-gno di Napoli, del divieto di «menare, [né] accostare ad una giornata ap-presso i confini del Regno» cavalli, puledri e giumente di razza, giacchéspostandoli «da una Terra all’altra, infra Regnum, si vanno accostando apoco a poco a’ confini, e poi in una notte li passano fuora del Regno». Perevitare che nel Regno si trovino pochissimi cavalli, circostanza cui nonriescono a porre rimedio – come si è detto – le inefficienti Regie Razze, siproibisce di «far condurre cavalli di persona, puledri, o giumente di razza… al di là del fiume di Pescara, ed incominciando dalla terra di Popoli,infino alla marina di detta Terra di Pescara».39

Anche il commercio dei suini è rigorosamente sorvegliato negli statiitaliani di età moderna, ma questa volta per finalità esclusivamente anno-narie: nel Granducato mediceo la loro esportazione è di norma impedita,salvo che per la Romagna toscana,40 vicina ai grandi mercati di smerciodell’Emilia e della Romagna pontificia. E a Napoli si vigila affinché nonsi venda «bestiame porcino a’ forestieri esterni e non abitanti del regno»,utilizzando in modo particolare l’enclave pontificia di Benevento e la suaaffollata fiera di san Bartolomeo.41

37. Pult Quaglia, «Per provvedere ai popoli», pp. 185-186.38. Andreucci, Tramontani, La moltiplicazione del bestiame, p. 107, nota.39. Prammatica VIII, tit. LXXIX, De extractione, seu exportatione animalium, auri,

argenti, et aliorum prohibita, in Giustiniani, Nuova collezione, IV. A chi abita al di là delfiume Pescara si impone l’obbligo di chiedere una licenza per lo spostamento di questianimali. Una prammatica analoga, la XII, del 1579, impedisce di portare cavalli, puledri egiumente di razza al di là del Garigliano.

40. Pult Quaglia, «Per provvedere ai popoli», pp. 208-209.41. Cfr. prammatica VI, del 1560, De extractione, seu exportatione animalium.

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Controllato può essere anche il commercio del lardo di maiale: a Fi-renze nel 1713 la Grascia emana un bando che «mirava a proteggere ifabbricanti di sapone che lavoravano per l’industria della seta assicurandoloro la provvista di lardo di maiale». Viene perciò vietata l’esportazionedei lardi, «tanto buoni che vieti», dall’area fiorentina compresa entro le 7miglia intorno alla città.42

Nel Regno di Napoli, infine, la tutela delle pecore di razza gentile,obbligate alla transumanza nel Tavoliere e produttrici di lane pregiate, faintimare la pena di sei anni di relegazione per i nobili e altrettanti di galeaper gli ignobili a quanti macellino o vendano fuori Regno «le pecore gen-tili di vita, lattare, fellate, branchi di figliate, ed altre atte a frutti».43 E nel1697 si vieta agli “agenti” delle poste armentizie della Dogana di Foggiadi offrire «così lana, come agnelli et altri frutti di pecore» ai guardianidella masserie di Puglia, in quanto tale pratica sarebbe pregiudizievole alcommercio, oltre che al «mantenimento di questo Real Patrimonio».44

Ma, al di là del divieto di estrazione delle “gentili” adulte per garan-tire la maggiore redditività della Dogana delle Pecore, come si vedrà an-che il commercio degli ovini, ed in particolare quello di agnelli e castrati,è fortemente regolamentato.

2.3. Le fameliche capitali

Buona parte dei traffici interni a lunga distanza di questi ed altri animalida macello – lo si è in parte già visto – è orientata dal consumo delle capitalied è a questo fine che si muovono specifiche magistrature annonarie, deno-minate “grascie”, “grasse”, “Tribunali di provvisione” o in altro modo.

Esenzioni e privilegi per gli incettatori di animali, acquisti diretti, ap-palti di approvvigionamento, regolazione del commercio estero, da un lato,mete e calmieri per fissare il prezzo al consumo dall’altro, sono gli stru-menti del loro intervento, variamente utilizzati a seconda dei contesti. Èl’«economia della provvigione»45 di cui parla Grendi, citando Heckscher(economy of provision), con un complesso normativo fatto di politica eco-nomica e regolamentazione interna.

42. Zagli, Da beccai a macellai, p. 58.43. Di Stefano, La ragion pastorale, II, p. 317.44. ASFg, Dogana, s. I, vol. IV.45. Grendi, I macellai e la città, p. 209.

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Connotati frequenti di tale «economia di provvigione» sono la seg-mentazione dello spazio e la sua attenta delimitazione normativa: ancoranella Repubblica di Genova, nell’area che va da Savona a Recco e nell’in-terno arriva fino a Busalla, sono «combattute le forme di intermediazione edi accaparramento» di animali, mentre i “produttori” possono avere rappor-ti diretti con i macelli. Parimenti regolamentati sono i rapporti tra l’esternoe l’interno della città: a Genova «ogni macellaio sembra avere fuori cittàuna sua area di riferimento».46 Insomma, queste politiche annonarie pre-sentano anche aspetti topografici di un certo rilievo, che disegnano sul ter-ritorio ulteriori confini e giurisdizioni.

Il milanese Tribunale di provvisione, per controllare gli spazi di ven-dita del bestiame al fine di garantire il rifornimento della città e il paga-mento dei diritti dovuti, dispone che

nissun Beccaro ardischi andare, ne mandar fuori dalle porte di questa cittàcontra ad alcuno conducente vitelli così di montagna, come da altri luoghifuori del Ducato, ne ardischi comprare ne accennare di voler comprare fuorid’essa città vitelli alcuni, che siano in strata, ne in barca, ouero nell’atto diintrodurli nella Città senza licenza del Sig. Giudice delle Vettovaglie, ouerod’uno delli SS. Dodici di provisione, in absenza del sig. Giudice, ma lascinocondurre detti vitelli alli soliti luoghi pubblichi, et altri luoghi, che sarannodeputati dalli SS. Giudici delle Vettovaglie protempore, ne in essi possanoentrare per veder detti vitelli, ne cignare, ne far altro motto, ò segno di vo-lerli compare senza la presenza, et assistenza del detto Sig. Giudice …47

Uno degli strumenti di cui si avvalgono le “grascie” per favorire il ri-fornimento dei mercati urbani è la concessione di esenzioni. Così nel Vi-ceregno napoletano, i “caprettari” sono esenti da diritto di passo, “corritu-ra” ed altri gravami di natura feudale o fiscale, non solo perché «primicompratori di animali» degli altrettanto privilegiati locati della Dogana diFoggia,48 ma anche perché fornitori della “Grascia napoletana”. Non man-cano, tuttavia, conflitti con i titolari dell’Arrendamento delle uova e deicapretti che esige diritti anche sulla vendita della cacciagione.49

Ma le modalità di rifornimento dei mercati urbani – come si è detto –sono varie, dalla precettazione, agli appalti di fornitura, agli acquisti di-retti, alle esenzioni.

46. Ibidem, p. 222.47. Sommario delli ordini, p. 50.48. Cit. in Cicala, Alimentazione e tassazione, p. 19.49. Si tratta spesso di folaghe, “mallardi”, “palombi” e storni (ibidem, passim).

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Nel Viceregno meridionale sono soprattutto Napoli e il suo hinterlanda consumare una quantità di animali che, per buona parte dell’età moderna,deve esser stata ragguardevole: attorno al 1563 nella Capitale vengono ma-cellati 20 mila vacche, 10 mila vitelli, 12 mila castrati ed un quantitativonon precisato di capretti e suini.50 Qualche decennio dopo, nei primi anniTrenta del Seicento, con una popolazione aumentata significativamente, ilCapaccio propone una stima di consumo in crescita, nonostante il forteaumento dei prezzi della meta: «per la carne fresca – scrive – si ammazza-no cento mila bestie grosse e picciole. E chi potrebbe numerare ova, ca-pretti, polli et altri simili, che superano le miriadi di miriadi de gli Atenie-si?».51 Ed inoltre, per restare sugli altri prodotti dell’allevamento, nella Ca-pitale si consumerebbero ogni anno quindici mila cantaia di carne salata esei mila di formaggio.52

Nella Napoli del secondo Settecento, che è ulteriormente cresciuta dipopolazione e che pure mangia sempre più pasta, poco prima del 1770 simacellerebbero annualmente ben 21800 bovini, ma soprattutto 55 mila sui-ni.53 Il traffico di questi ultimi animali con l’estero, a detta del Galanti, sa-rebbe frenato proprio dalle esigenze annonarie di Napoli: «si fa poco com-mercio con gli stranieri e se ne potrebbe fare uno maggiore, se non fossevietata l’estrazione per mantenere l’abbondanza nella Capitale».54 Addirittu-ra, forse con una certa esagerazione nel computo, si dice che, sempre attorno

50. Bianchini, Della storia delle finanze, p. 220. Occorre considerare – ma la rifles-sione è di carattere generale e non si riferisce solo al Napoletano – la sostanziale diversitàcostituzionale di questi animali – più piccoli e meno pesanti – rispetto a quelli macellatiagli inizi del XXI secolo.

51. Capaccio, Il forastiero, p. 847. Sull’aumento dei valori di meta cfr. i dati citati inSereni, Note di storia dell’alimentazione, p. 360.

52. Un cantaio equivale a circa 89 kg.53. De La Lande cit. in Sereni, Note di storia dell’alimentazione, p. 370. Si ricordi

per ora che nel 1771-1773 sarebbero stati macellati in media annua 73-75 mila capretti (eagnelli?), cifra che viene ritenuta insufficiente a ripagare il costo dell’affitto dell’arrenda-mento, lasciando intendere che i valori normali siano superiori, ma forse non di moltissi-mo (cfr. Cicala, Alimentazione e tassazione, p. 15). Alcuni altri dati sugli animali incettatie macellati nel 1716-1717 sono in Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli, pp. 480-482. Cfr. anche Ricuperati, Napoli e i viceré austriaci, VII, p. 430.

54. Galanti, Della descrizione geografica, p. 146. In realtà sarebbe scoraggiata dalmeccanismo delle “tratte” soprattutto l’esportazione delle carni salate, mentre dagli Abruzzi,spesso clandestinamente, in «molta quantità» si estrarrebbero gli animali porcini che, lavora-ti «ponendoli in sale», dai marchigiani sarebbero venduti con «sommo utile» in Lombardia,nello Stato veneto e nel litorale austriaco (Jannucci, Economia del commercio, pp. 50-51).

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al 1770, si consumerebbero 242 mila ovini l’anno. Come vedremo megliopiù avanti, le cifre reali sono forse sensibilmente inferiori, tuttavia con untrend in ascesa, confermato per queste carni povere anche in altre realtà.

È la Grascia di Napoli, d’accordo con l’Eletto del popolo, a governareil funzionamento del mercato interno e il flusso delle esportazioni versol’altro importante mercato per le bestie da macello meridionali: lo Statopontificio. Ma non provvede direttamente, con acquisti, all’approvvigiona-mento della Città, limitandosi a favorire il rifornimento privilegiato del mer-cato urbano e controllandone i prezzi.55 Sembra limitato agli anni di crisi –come nel 1737, anno di epizoozia bovina – l’obbligo di fornitura di agnellistipulato con mercanti, prevalentemente napoletani, fino alla concorrenza di80 mila capi, cui c’è da aggiungere – per stimare il fabbisogno – un certonumero di animali consumato dai gruppi sociali che possono approvvigio-narsi direttamente presso le loro aziende. «Mancando» all’obbligo di forni-tura – si legge nel bando – si incorre «nella pena di galera arbitraria».56

Precocemente affrancato, in buona sostanza, dal vincolismo annona-rio è invece il mercato dell’allevamento in Sardegna, dove una prammati-ca del 1623 «col proibire – scrive Ortu – ogni impedimento e restrizionealla libertà di contrattazione del bestiame e dei suoi prodotti, chiude unasecolare vicenda di contrasti e contestazioni tra feudatari e città». Infatti,le città sarde, il cui peso demografico è peraltro limitato, «riescono sol-tanto a garantirsi, e spesso in concorrenza l’una con l’altra, zone privile-giate di rifornimento».57 E tuttavia nella Sardegna sabauda, nel 1771, siimporrà una misura amministrativa, l’obbligo di “consegna” del bestiame– quindi una dichiarazione della consistenza annuale – non solo per con-trastare le «clandestine imbarcazioni» dalla Gallura e dal «capo di Sassa-ri», ma anche per evitare il «troppo eccessivo prezzo» per «chi voglia as-sumere l’impresa di provvedere carni al pubblico».58

A Roma, che per tutta l’età moderna registra una popolazione netta-mente inferiore a quella di Napoli – dai 106 mila abitanti del 1632 ai 164mila circa del 1783 – il consumo di carni è elevatissimo: «Roma – si scrivenel 1641 – consuma il doppio più carne e vino che consuma Napoli, benchéquella città sia il doppio più grande».59 La macellazione di agnelli è tale in

55. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli, p. 478.56. ASFg, Dogana, s. V, b. 34, fasc. 4303.57. Ortu, L’economia pastorale, pp. 38-39.58. Editti, pregoni ed altri provvedimenti, 10 maggio 1771.59. Cit. in Revel, Les privilèges d’une capitale, p. 573.

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alcuni anni da richiedere, in aggiunta ai capi “precettati” nello Stato – unamedia di 80-90 mila ogni anno, con punte superiori ai 150 mila tra il 1629 eil 178960 – un certo quantitativo di animali incettati nel Regno meridionale.

Anche a Roma, accanto agli agnelli e ai castrati, la cui macellazione èin crescita nel Settecento, si consumano – come si è visto – grandi quanti-tativi di porci, vaccine e vitelli. Se nel 1567 la Capitale della cristianitàconsumava 23446 bovini, molti di più di due secoli prima, 71411 ovini e17036 suini,61 nel 1598 macellava 20 mila porci, 14 mila vaccine e 13 milavitelli,62 mentre poco meno di due secoli dopo, nel 1787, consuma circa 19mila capi bovini, oltre 133 mila ovini e circa 14 mila suini. Tra fine Cin-quecento e fine Settecento la razione di carne a Roma – come altrove – si èridotta significativamente e in essa è cresciuta – come altrove – la quotadella carne ovina, a scapito della bovina e di quella suina.63

Lo strumento operativo che deve garantire ai Romani un consumopotenziale pro capite di una libbra di carne al giorno è la Dogana dellaGrascia, che – ha scritto Marina D’Amelia – «regolava l’offerta e la di-stribuzione della carne per tutto l’anno attraverso la precettazione del be-stiame ovino e suino, la creazione di un unico mercato settimanale, l’im-posizione di un unico prezzo anche ai centri urbani della regione per evi-tare concorrenze, e il divieto di libera macellazione».64 La Dogana noncontrolla tuttavia l’offerta di bestiame bovino, non “precettato” per nondanneggiare la cerealicoltura; in questo caso si preferisce assicurarsi i ri-fornimenti di animali da macello – dall’Umbria, oltre che dalla campagnaromana – con agevolazioni fiscali. Dotata di completa autorità civile epenale, la Grascia riesce a controllare oltre il 70% del mercato ovino esuino e il 20% di quello bovino.

Un flusso di qualche migliaio di capi di castrati ed agnelli arriva ognianno alla Grascia di Firenze dapprima soprattutto dalla Puglia, più tardidallo Stato Pontificio, ad integrare la produzione interna della Toscanamedicea. La Grascia, in questo caso, è molto meno esigente delle altre

60. De Sanctis Mangelli, La pastorizia e l’alimentazione, pp. 206-208. La precetta-zione riguarda le masserie di pecore bianche. Cfr. anche l’editto del 1602 che stabilisce ilfabbisogno di Roma in 156 mila agnelli tra “vernarecci” e “messarecci”.

61. Dini, La circolazione dei prodotti, p. 414.62. De Sanctis Mangelli, La pastorizia e l’alimentazione, p. 79 e appendice, pp. 205-206.63. Cfr., sull’approvvigionamento di carni a Roma, Gross, Roma nel Settecento, pp.

213-220.64. D’Amelia, La crisi, p. 496.

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due di Roma e Napoli, limitandosi ad acquistare un quantitativo che, tra1644 e 1680, raramente supera i 10 mila capi, e affidandosi per il resto –nel Seicento a Firenze si macellano dai 40 agli oltre 100 mila capi tra ca-strati ed agnelli ogni anno – alla libera contrattazione dei beccai, in molticasi allevatori privilegiati dislocati nei pascoli limitrofi alla città sui qualiingrassano gli animali prima della macellazione.65 La Grascia della capi-tale granducale acquista all’estero, nella Romagna pontificia, almeno apartire dalla seconda metà del Cinquecento, anche un certo numero di vi-telle – un migliaio l’anno, su un totale di circa 4 mila capi macellati, aparte i buoi e le vacche, considerati animali di “mala carne” – per i con-sumi della fascia medio-alta della popolazione.66 Anche in questo caso,particolarmente importante è il “rigiro” delle vitelle, affidate per l’ingras-so, nel mercato fiorentino di Porta alla Croce, ai mezzadri dei poderi dellafascia pianeggiante lungo il bacino dell’Arno. Regolate, dopo l’ingrassa-mento invernale, le spettanze dei mezzadri, le vitelle vengono consegnateai macellai, ancora una volta al mercato del venerdì di Porta alla Croce.67

Un po’ dovunque si macellano anche animali da lavoro: per “ingentili-re” le carni dei buoi – nel Regno di Napoli, ma anche altrove – «per quattroin sei mesi prima di mandarli al macello si tengono lontani dalle fatiche, edin un’ottima continuata pastura di prato, di radiche, di foglie e di biade».68

Ovunque diffuso, in Italia, è l’allevamento dei suini «le cui carniformano la più gran parte del vitto delle classi più bisognose»,69 ma la li-nea gotica separa differenti modelli di consumo urbano, con un netto ca-lo, al Nord, del consumo di carni ovine: a Ferrara, nel primo Cinquecen-to, per i suoi 20-22 mila abitanti si macellano, in media, 15 bovini algiorno ed un numero equivalente di agnelli e castroni con un peso mediodi molto inferiore a quello dei primi. La pratica dell’uccisione domesticadel porco – allevato anche nelle sontuose dimore dei nobili – invece non

65. Pult Quaglia, «Per provvedere ai popoli», pp. 198-199. Cfr. notizie sull’acqui-sto, nel 1709, di 1400 castrati «da levarsi nel Regno di Napoli o da altri luoghi che più pa-reranno propri», da parte di due mercati di animali per conto dell’Università dei macellari(Zagli, Da beccai a macellai, p. 86).

66. Pult Quaglia, «Per provvedere ai popoli», pp. 187-193 e 202-203.67. Zagli, Da beccai a macellai, pp. 80-84.68. Corrado, Il moltiplico e governo degli animali, pp. 24-25. In Piemonte «il bue da

lavoro viene stabulato ed ingrassato dopo l’ultima erpicatura, per essere macellato primadi Natale» (Puppo, Le carni piemontesi, p. 67).

69. Toggia, Intorno all’educazione, p. 2.

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lascia che scarse informazioni statistiche sul consumo delle sue carni, si-curamente importantissimo, tanto da giustificare cospicue importazionidal Modenese, dal Bolognese e dalla Romagna.70

Nella pontificia Bologna, tra fine Cinquecento e fine Settecento,netta – sia pure in calo nel XVIII secolo – è la prevalenza della carne bo-vina, mentre un buon numero di suini macellati è utilizzato soprattuttoper la produzione di insaccati. Limitato sul mercato felsineo, sia pure innetta crescita nel Settecento e nel primo Ottocento, è il numero di agnelli,capretti, castrati e pecore macellati.71

A Bologna la carne di manzo e vacca, insieme al frumento, al vino eall’olio d’oliva, fa parte dei “vittuali di prima necessità”, con una certacomplementarietà tra carne bovina e pane, le cui mete il Senato vigila at-tentamente che non aumentino entrambe nello stesso periodo.72 Control-lato è anche il prezzo delle carni suine, fresche o salate, meno pregiate,come la “longia”, le pancette e i prosciutti.73

La piazza bolognese è rifornita prevalentemente dagli stati vicini e, sidirebbe, esprime costantemente una domanda sostenuta. Invece, in una si-tuazione come quella modenese che gode di un’ampia produzione internasoprattutto di suini e bovini, le autorità ducali – il Giudice delle Vettova-glie e il Giudice della Piazza – hanno minori preoccupazioni di non riu-scire a governare il mercato e ricorrono raramente al divieto di esportazio-ne degli animali: quando lo fanno, ad esempio nel 1604, non riescono co-munque ad impedire che gli animali «prendano egualmente la via di Ve-nezia e di Bologna», tradizionali mercati di sbocco. Il giudice delle Vet-tovaglie, tuttavia, interviene quattro volte l’anno per fissare il prezzo dicalmiere delle carni, macellate per la vendita diretta o per la salagione.74

A Genova «l’approvvigionamento – ha scritto Grendi – è … sotto laresponsabilità dei censori che si assumono la cura di provvedere che la cittàsia rifornita di carni di bue, vitello, manzo, vacca, agnelli e capretti»,75 cuisi aggiungono i porci, le pecore e le capre. Non edibile è considerata, inve-

70. Cazzola, La città, il principe, i contadini, pp. 249-252.71. Dal Pane, Economia e società, pp. 39-40, e Guenzi, Consumi alimentari, pp.

333-343. Uno “specchio” relativo a un trentennio di macellazioni di suini da parte dei “sa-laroli” bolognesi è in Spechj, II.

72. Guenzi, La carne bovina, p. 540.73. Id., La carne suina, p. 691.74. Basini, Sul mercato di Modena, pp. 41 e 86.75. Grendi, I macellai e la città, p. 207.

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ce, la carne di cavallo. Nella città della Lanterna la regolamentazione degliapprovvigionamenti – attraverso gli appalti – e della macellazione pare ri-guardare a lungo soprattutto i bovini, essendo, almeno fino agli inizi delSettecento, il commercio di porci e bestiame minuto commercialmente li-bero oppure oggetto di macellazione privata.76 Ma anche qui il Settecentoinoltrato porta, insieme alla cerealizzazione delle diete, una riduzione deiconsumi di carne “pregiata”, con l’aumento del ruolo degli ovini.

Agli inizi del Settecento nella ricca e florida Torino, che ha circa 35mila abitanti, sono ancora le “bestie grosse” a dominare il consumo: se nemacellano oltre 20 mila capi l’anno, acquistate nelle zone prossime allacittà e nel Canavese, garantendo ad ogni torinese in media più di 30 kg. dicarne bovina l’anno, cui occorre aggiungere un piccolo quantitativo di car-ne ovina – 6/10 di capo di agnello e capretto per abitante – e suina. Neglianni Ottanta, quando la città supera i 70 mila abitanti, si macelleranno 34mila capi bovini, reperiti in mercati più distanti dalla Capitale. All’ap-provvigionamento di questa sovrintende il Vicario di politica e polizia, cheautorizza un certo numero di “postieri” ad acquistare bestie per il mercatocittadino. Gli animali vengono condotti soprattutto a Moncalieri, dove ilvenerdì si svolge il mercato all’ingrosso della Capitale. I macellai torinesivi godono, almeno dagli anni Trenta del Settecento, «della privativa sugliacquisti rispetto sia ai privati … sia agli esercenti di altre comunità». Nelleprime ore dall’inizio del mercato, quando è esposta la “banderuola” con leinsegne della città, infatti, possono accedere alla piazza esclusivamente imacellai torinesi. Più tardi il privilegio è esteso anche ai macellai di Mon-calieri. Macellai o “taglianti”, organizzati in Università, provvedono allavendita al dettaglio, rispettando la “tassa”, cioè il calmiere, stabilito dal vi-cario sulla base dei prezzi sui mercati degli animali, cui si aggiunge unaquota prefissata di guadagno per il rivenditore.77

L’obiettivo della Grasce è, come si è detto, soprattutto il rifornimentodei mercati urbani, regolati al momento finale della vendita al consumoda un regime di prezzi amministrati, mete o calmieri. Se l’imposizionedei calmieri e – come denunciano a Bologna nel 1749 – l’“ansia” dei fun-zionari che vi sono preposti «della … gloria e dell’acclamazione del po-

76. Ibidem, p. 213.77. Sul mercato della carne a Torino e sulle funzioni del Vicario ricchissimo di dati

è il volume di Balani, Il vicario tra città e stato, pp. 230-251. Cfr. anche Stumpo, Econo-mia urbana, p. 257.

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polo», inducono talvolta i macellai a sottrarsi all’obbligo di vendita e a ri-fugiarsi «in luogo immune»,78 il commercio al minuto delle carni è puresegnato da numerose frodi, giacché – scrive il Garzoni – numerose sono«le malizie de’ beccari congionte alle virtù», e numerose sono le occasio-ni di arricchimento che offre un sistema di vendita regolamentato, affi-dato ad organismi corporativi.79

I macellai, tuttavia, non sono sempre e solo condizionati o schiacciati– come talvolta denunciano – dalle norme di un mercato amministrato,con un tasso di profitto misurato dalle autorità e parametrato dal prezzomassimo di vendita: «I beccai – ha scritto, ad esempio, Politi per Cremo-na, ma lo stesso si potrebbe dire per altre città – … erano … veri e propriimprenditori che acquistavano ed ingrassavano le bestie nel contado installe sovente prese a fitto procurandosi i mezzi finanziari sul mercato ur-bano del credito».80 Devono però vigilare che nello spazio urbano nonoperino venditori abusivi di carne, come gli “strascini”, ambulanti che aFirenze, al pari delle macellerie fuori porta, fanno concorrenza sleale aimacellai iscritti all’Arte, evadendo frequentemente le “gabelle”.81

Ad ogni modo, anche il commercio amministrato, i privilegi concessialle Arti e la regolamentazione della vendita di carne cominciano ad en-trare in crisi nella seconda metà del Settecento, al pari della segmentazio-ne e delle complesse topografie dello spazio urbano ed extraurbano cuiabbiamo fatto riferimento.

A Firenze, nel 1768, Pietro Leopoldo, ad esempio, abolisce il commer-cio delle vitelle e dei castrati gestito dalla Grascia e cancella numerosi bal-zelli sulla macellazione e la vendita delle carni.82 Nella Bologna del car-dinal legato Boncompagni nel 1778 si abilita ad «esercitare macellerie ognicittadino ancorché sprovvisto dei requisiti richiesti dall’Arte [dei beccai]»,e si «aboli[sce] ogni prerogativa ed esclusività che fino ad allora l’Arteaveva conservato circa l’esercizio del mestiere». Solo qualche decennio

78. Guenzi, La carne bovina, p. 548.79. Garzoni, La piazza universale, p. 275. Sulle complesse operazioni che portano il

macellaio bolognese Francesco Azzolini al rango senatorio cfr. Fanti, I macellai bolognesi,pp. 173-179. Un altro caso di notevole mobilità ascendente è nel secondo Settecento quellodei Cini di Levane, vicino Montevarchi (cfr. Zagli, Da beccai a macellai, pp. 53-54).

80. Politi, La società cremonese, pp. XXXIII-XXXIV.81. Zagli, Da beccai a macellai, p. 80.82. Ibidem, p. 76. Su questi temi e nello stesso volume, cfr. anche Mineccia, La mo-

dernizzazione difficile, pp. 103-195.

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dopo, con le Repubbliche napoleoniche, l’Arte sarà sciolta e, più tardi, leattività di macellazione e commercio della carne cominceranno a decen-trarsi rispetto ai luoghi centrali tradizionali in precedenza regolamentati.83

2.4. La città di Napoli e il mercato degli ovini

Un mercato di vaste dimensioni – come si è detto – è costituto da Na-poli e dal suo popoloso hinterland, che consumano un numero altissimodi agnelli e capretti. Esaminiamo più in dettaglio il funzionamento di que-sto commercio nel Regno borbonico nel secondo Settecento, quando, pe-raltro, con più forza il sistema vincolistico comincia ad essere attaccato.

Dalla seconda metà del XVIII secolo – a Napoli e altrove – si molti-plicano, infatti, le denunce dei pesanti condizionamenti che i vincoli an-nonari impongono agli allevatori. A subirne le conseguenze non è solo iltraffico di vitelli ed altre vaccine, incettati ed ingrassati dai sorani, che –scrive il redattore statistico di Terra di Lavoro nella difficile congiunturadel Decennio francese – potrebbe crescere notevolmente se si togliesserogli ostacoli alle esportazioni, ma soprattutto quello che movimenta cifreragguardevoli di capretti ed agnelli allevati nelle terre della Dogana. Sonole carte dell’istituzione foggiana a svelarcene i protagonisti e i meccani-smi di funzionamento.

«Nei tempi più antichi – scrive il De Dominicis – il costante concorsode’ negozianti della parte superiore della Italia nella fiera celebrata in Foggiafacea la maggior ricchezza de’ locati». Il Doganiere già in marzo inviava“ufficiali” ai confini del Regno per ricevere i negozianti che «dall’Umbria,dalla Romagna e dalla Toscana concorrevano nella fiera per comprare icastrati». Alla notizia dell’arrivo dei mercanti di animali, i castrati veni-vano inviati a Foggia dove avveniva, alla presenza del Doganiere e deglialtri ufficiali della Dogana, la cosiddetta “mostra”. Stipulati i contratti, inegozianti, con gli animali acquistati, venivano accompagnati ai confinidel Regno, «affinché nel lungo camino godessero delle stabilite franchi-gie, e fossero difesi da qualunque molestia ed aggravio».84 Peraltro la pre-senza di mercanti di animali non regnicoli non era limitata alla fiera pri-maverile di Foggia e non si rivolgeva solo agli ovini: la fiera di Lanciano,

83. Fanti, I macellai bolognesi, pp. 207-224.84. De Dominicis, Lo stato politico, III, pp. 111-112.

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in età aragonese, era frequentata abitualmente da mercanti umbri o roma-gnoli, interessati, oltre che ai castrati, a vacche, vitelli e porci.85

Già alla fine del Cinquecento le “diligenze” dell’accompagnamentodei negozianti cadono in desuetudine: il commercio con l’estero cominciaad essere subordinato alle crescenti esigenze annonarie della Capitale.Anche per la carne, infatti, oltre che per il pane, la città va spesso in ten-sione: «Questo popolaccio – scrive l’Eletto del popolo Lembo nel 1782,un anno di scarsa produzione di agnelli per l’inverno rigido – non facen-dosi nessun carico della stagion contraria tutto attribuisce a mal governo enon c’è ragione che lo persuada».86

Per la Grascia di Napoli, attorno al 1790, si ritiene indispensabile unnumero di 80 mila agnelli e capretti, 50 mila dei quali venduti dai locatidella Dogana. Ma quasi ogni anno, mentre la Generalità dei locati, organodi rappresentanza degli interessi armentizi, chiede la libera esportazionedi agnelli e capretti, in cui sono attivi i mercanti di animali di Roma, dialtre località dello Stato della Chiesa, nonché di Sora, Arpino e di altrecittadine di Terra di Lavoro, la Grascia di Napoli, al contrario, chiede ilblocco delle “estrazioni” e la preferenza per i membri dell’Arte dei ca-prettari della Capitale negli acquisti primaverili degli animali. Sono ap-punto i caprettari87 e l’Eletto del popolo, incaricato delle politiche anno-narie della Città, gli altri protagonisti della vicenda, in cui un ruolo im-portante è detenuto dal potente Governatore doganale, che tutela anche leragioni del Fisco, interessato all’incasso della “fida”, cioè della renditadei pascoli pugliesi che i locati pagano dopo aver venduto nella fiera diFoggia la lana e gli agnelli.

Il fabbisogno napoletano di agnelli può crescere in alcuni anni, comenel 1737, quando «il morbo epidemico … corre fra gli animali vaccini»,88

e nel 1738, allorché, per le «universali feste per lo tanto sospirato sposali-zio della nostra sovrana», Napoli, che già normalmente è «una gran lu-

85. Cfr. gli elenchi dei mercanti forestieri che comprano più di 500 capi di bestiamenelle fiere lancianesi del decennio 1447-1456 in Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli,p. 106 e appendice II. Sulla fiera di Lanciano nei secoli successivi, Bulgarelli Lukacs,«Alla fiera di Lanciano», pp. 116-147.

86. ASFg, Dogana, s. I, b. 1053, lettera dell’11 maggio 1782. Cfr. anche De Domi-nicis, Lo stato politico, p. 119.

87. A fine Settecento, all’Arte, che si dota di un nuovo statuto, risultavano iscritti 68caprettari (Mascilli Migliorini, Il sistema delle Arti, p. 66).

88. Cfr. in ASFg, Dogana, s. V, b. 34, fasc. 4303, elenchi di compratori di agnelliche si impegnano a rifornire la Grassa di Napoli.

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pa», è piena di «forestieri che aspirano trovarsi qui anticipatamente e da10 mila sono già venuti» in primavera.89 In quest’ultimo caso, svolgendo-si l’evento durante l’estate, si precettano per la Grassa di Napoli, che habisogno, in quel periodo, di 33-34 mila agnelli, gli animali dei locati piùvicini alla Capitale, che «con minore incomodo si possono trasportare inquei mesi tanto calorosi».90

Il controllo del mercato degli animali pare, comunque, di difficile ge-stione soprattutto nelle aree di confine dell’Aquilano, dove gli appalti del-le «pubbliche chianche» vanno deserti e il «castrato per i poveri infermi siha in luogo di reliquia», a causa delle estrazioni di animali, spesso clande-stine e fraudolente, verso lo Stato romano.91 L’Abruzzo aquilano, al pari dialtre aree confinarie del Regno, sembra in effetti soggetto ad una regola-mentazione più blanda rispetto alla grande transumanza soggetta alla Do-gana. Il commercio di castrati ed agnelli che non scendevano nel Tavoliereo, al massimo, svernavano nei Regi Stucchi abruzzesi, è sostanzialmentelibero, senza le restrizioni temporali in vigore – come si vedrà – per gli a-nimali di Dogana: «de’ poveri contadini chi ne fa allievo di due, chi diquattro, chi di otto, quindi gli chianchieri per provvista di macello l’incet-tano e ne fanno unione e diverse partitelle ancora se n’estraggono».92

Di fronte agli interessi contrapposti, la mediazione delle autorità di go-verno napoletane passa attraverso la regolamentazione dei tempi di “estra-zione”: così nel marzo del 1788, di fronte alla richiesta, da parte della Ge-neralità dei locati, del permesso di esportazione di castrati ed agnelli permetterli in condizione di pagare la fida, il Re lo concede, dando disposizio-

89. Si tratta di Maria Amalia di Sassonia, giovanissima sposa di Carlo III (ASFg,Dogana, s. V , b. 34, fasc. 4304). Si tenga conto che nel 1729-1730 a Napoli si sarebberomacellati circa 90 mila agnelli per anno (Ragioni per gli affittatori). Ma vedi, supra, an-che la nota 47.

90. ASFg, Dogana, s. V, b. 34, fasc. 4304. Cfr. anche nel 1768, quando si chiede direstringere le esportazioni per un fabbisogno della capitale «maggiore del solito», per «lavenuta della Regina», Maria Carolina d’Asburgo, sposa di Ferdinando IV (ivi, s. I, b. 105,fasc. 1681).

91. Ivi, s. I, b. 1053. È la lettera di un certo Mattia Ricci di Montereale che denuncia ilsuo compaesano Giovanni Demofonti: «da semplice contadino e segatore qual era è addive-nuto ricco e con tali tragitti vuol diventare straricco». Le “estrazioni” sarebbero ottenute «permezzo di premure e di impegni del Capitano della grascia della Provincia e della Cittàdell’Aquila … Se l’ottiene per cento, se ne avvale in frode per più centinaia e migliaia».

92. Ivi, s. I, b. 105, fasc. 1681.

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ne all’Eletto del popolo di Napoli di concordare con il Governatore dellaDogana per i soli agnelli il quantitativo autorizzato e il tempo dell’estrazio-ne. L’anno successivo, dapprima nel febbraio, «per evitare strettezze» nelrifornimento della città, proibisce «l’estrazione per fuori regno di ogni spe-cie di animali tanto lanuti, quanto bovini»; più tardi, di fronte alle supplichedella Generalità dei locati, dispone la possibilità di esportazione dei castrati,mentre per gli agnelli lascia libera l’incetta per i caprettari napoletani finoalla fine di aprile, quando possono tornare ad operare i forestieri.93 È, quindi,il governo delle “estrazioni” la chiave di volta del funzionamento del siste-ma annonario, dal momento che i caprettari – come faranno rilevare piùvolte – non hanno «verun obligo»94 di fornitura del mercato napoletano.

Verso la fine del secolo, i caprettari in alcuni mesi riforniscono ilmercato napoletano, in continua crescita, di seimila agnelli la settimana,avviati verso la Capitale in “partite” di cinquecento animali. Il loro ruoloè fondamentale e forte è il condizionamento del mercato che sono in gra-do di esercitare, ma – come si è detto – non si tratta di una partita a due. Ècerto che i caprettari, quando le estrazioni sono chiuse, «fanno il prezzo aloro piacere»,95 ma, con il mancato pagamento della fida da parte dei lo-cati, finiscono per provocare danni alle entrate della Regia Corte:

i chianchieri, caprettari e macellari di Napoli – scrive il governatore doga-nale Stefano di Stefano nel febbraio 1737 – hanno procurato con tale inibi-zione impedire le vendite a forestieri …, ma poi [gli animali] sono in parterimasti invenduti, o mancando i compratori forestieri, l’hanno egli rifiutatie comprati a vilissimo prezzo, ed in tal forma non si è fatta l’esazione perla Regia corte.96

Non è, perciò, infrequente che, sollecitato dai deputati dei Locati, in-tervenga il Governatore della Dogana a chiedere di temperare i divieti. Maanche nelle situazioni di blocco delle esportazioni, in qualche caso – comeè ovvio in una società basata sul privilegio – si concedono permessi ad per-sonam, come si è visto in precedenza e come succede nel caso della Du-chessa di Calabritto, cui si autorizza l’estrazione di 1100 agnelli venduti aun negoziante di Sora e destinati al mercato di Roma, «per non svantaggia-

93. Ivi, s. I, b. 1054, fasc. 22641. Sui conflitti legati al commercio di agnelli e ca-pretti, cfr. Montaudo, Economia pastorale, pp. 331-344.

94. ASFg, Dogana, s. I, b. 1054, fasc. 22641.95. Ivi, s. I, b. 105, fasc. 1681.96. Ivi, s. V, b. 34, fasc. 4302.

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re gli interessi del suo pupillo, il duchino di Calabritto», che sarebbero statipenalizzati dal basso prezzo di incetta dei mercanti napoletani.97

Se, generalmente, il fabbisogno del mercato napoletano è noto, man-cano stime sulle dimensioni degli altri mercati cittadini del Regno.

Non ci sono, infatti, solo il mercato napoletano e quello estero, so-prattutto quello del vicino Stato Pontificio, che ormai assorbe completa-mente i flussi di traffico in precedenza intercettati dalla Toscana,98 ma an-che quelli minori del Regno: nel 1782 vengono estratti dalla Dogana diFoggia, per infra e per extra, oltre 135 mila capi, 68 mila dei quali all’e-stero e i restanti 67 mila destinati ai mercati regnicoli, tra i quali, certo,domina Napoli, ma non esclude, quando la produzione è rassicurante, ilresto del Regno. C’è, poi, il caso, meno documentato, degli altri sistemitransumanti minori e delle altre pastorizie stanziali, che producono agnel-li e castrati per i mercati locali, per i quali non sembrano esistere approv-vigionamenti privilegiati, ma solo il controllo dei prezzi di vendita al con-sumo attraverso calmieri e assise. Di norma si stima che un milione di pe-core della Dogana producano 300 mila agnelli da macello, mentre la pro-duzione media annua complessiva del Regno si può stimare possa aggi-rarsi nel secondo Settecento attorno ai 700-750 mila agnelli.

La regolazione generale del mercato degli animali passa, quindi, soprat-tutto attraverso il controllo del commercio estero. Per il peso dei meccanismiannonari, infatti, quando cala la produzione di animali si riduce in primo luo-go il quantitativo esportato.99 In questo caso, tuttavia, gli interessi patrimo-niali dello Stato per i proventi della fida della Dogana evitano che i giochisiano condotti solo dai caprettari all’ombra dei bisogni annonari di Napoli.

Se sufficientemente studiati sono i meccanismi ed i protagonisti delmercato granario del Regno,100 non del tutto noto è, invece, il profilo degliincettatori di animali. A parte i caprettari napoletani e gli altri negozianticampani, in particolare di Terra di Lavoro, che non sono i soli interessati aitraffici verso la Capitale e verso il mercato pontificio, non sono pochi i mer-canti stranieri, soprattutto i folignati, impegnati anche nei traffici interni.

97. Ivi, s. I, b. 105, fasc. 1681, 19 aprile 1766.98. Cfr. dati su acquisti di castrati da parte di mercanti fiorentini in Marino, L’eco-

nomia pastorale, p. 407.99. Cfr. nel 1783, quando le licenze per infra riguardano 66 mila capi e quelle per

extra 44 mila animali (ASFg, Dogana, serie?, b. 1054, fasc. 22661).100. Si rinvia a Macry, Mercato e società nel Regno di Napoli, e Civile, Granisti e

annona, pp. 47-99.

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2.5. Fiere e mercati

In una situazione in cui la regolazione pubblica è molto importante,non deve stupire che i luoghi in cui si svolge il commercio degli animalisiano più o meno normativamente e istituzionalmente governati, dalle fie-re periodiche ai mercati settimanali.

«L’anima delle fiere – ha scritto Giuliana Biagioli per l’Italia centro-settentrionale del secondo Ottocento – era costituita dalla contrattazionedel bestiame».101

Le contrattazioni che vi si svolgono riguardano diverse tipologie dimerci: non solo animali adulti da lavoro – bovini o equini – o animali de-stinati – subito o dopo poche settimane – al macello, ma anche animali «dacambio o di rimonta delle stalle», soprattutto vitelli. Il “giro” degli animalicostituisce in effetti, come si è visto, una pratica piuttosto frequente che,nell’Italia mezzadrile e altrove, rende affollate le fiere di acquirenti o ven-ditori di modeste possibilità economiche. Ad esempio, come nella pianuraasciutta lombarda, nei poderi collinari toscani si acquista nella fiera autun-nale un vitello che si rivenderà ingrassato alla fiera di giugno, alla vigiliadella scarsità estiva dei foraggi per i poderi della pianura e delle basse col-line toscane.102 Ma, come si è visto in precedenza, il destino dell’animalenon è definito alla nascita. La polivalenza degli animali, i loro usi moltepli-ci infatti, spesso rendono indispensabili mutazioni successive, periodi direcyclage, che rendono complesso il ciclo commerciale che li riguarda.103

Complicata, non solo per questi motivi, è anche la ricostruzione dellatrama e delle funzioni di fiere e mercati di animali in età moderna. Loslittamento in questo paragrafo dall’uno all’altro termine non vuole, inol-tre, trascurare il significato “istituzionale” annesso all’una all’altra formadello scambio.104 La stagionalità del ciclo riproduttivo degli animali edella loro alimentazione, le norme igienico-veterinarie, le consuetudinialimentari e le pratiche di conservazione delle carni governano il calenda-rio e la specializzazione di fiere e mercati.

101. Biagioli, Il podere e la piazza, p. 49. Ma vedi anche analoghe osservazioni perla Francia preindustriale in Margairaz, Foires et marchés.

102. Biagioli, Il podere e la piazza, pp. 33 e 49.103. Margairaz, Foires et marchés, p. 145.104. Cfr. Salvemini, Visceglia, Fiere e mercati, pp. 65-70. Sul dibattito settecente-

sco – da Turgot a Galanti – sulle fiere e i mercati, simbolo di un’economia del privilegio edella concessione, cfr. Grohmann, Il tramonto di un’istituzione, pp. 88-89.

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Della forte istituzionalizzazione delle fiere, dei privilegi che vi sonoannessi, dei riti dell’allestimento, testimoniano i regolamenti, molto detta-gliati, e, ancora una volta, le consuetudini locali. Nella fiera di San Bernar-dino a Carpi, ad esempio, i bovini stanno in piazza «al passo del castello …in perfetta linea e volti tutti con la testa a ponente», mentre in quella di sanBartolomeo le bestie staranno fuori porta Mantova «tenute in file regolaricon la testa volta a levante».105 I bilanci delle popolazioni interessate fannoaffidamento sulla fiera come una risorsa indispensabile nelle strategie eco-nomiche familiari: i carpigiani che nel 1598 «non hanno potuto godere ilbenefitio della fiera di san Bernardino per il mal tempo», chiedono di potercondurre «bestiami a san Quirino [nella vicina Correggio] e vendere senzapagar gabella a Carpi».106 Se la fiera di bestiame è istituzione presente neglistatuti e nei “libri rossi” come patrimonio collettivo, talvolta essa non èconcessa ad una comunità, ma ad un grande proprietario terriero, come adesempio, ai Rossi di Pontecchio, nel Bolognese.107

Diamo un’occhiata veloce ad alcune fiere e a mercati d’animali pre-senti negli Stati italiani in età moderna.

Se forse la fiera di Foggia è stata più spesso studiata per il ruolo chevi ha la lana – quella delle pecore dei locati vi deve essere obbligatoria-mente “infondacata” e venduta – non meno importante, nell’economia delRegno di Napoli, è – come in parte si è visto – per il mercato degli ani-mali. È anche per il commercio di una «quantità innumerabile di animalivaccini, di giumente, di generosi polledri, muletti, castrati, et agnelli» chevi affluiscono, nei primi decenni del Settecento, in media 20 mila fore-stieri, in una città che non arriva ancora a 10 mila abitanti.108

L’incetta di agnelli e castrati non si effettua solo nella grande fiera pri-maverile di Foggia, ma anche nelle altre fiere del Regno, a partire da quellepugliesi di Castellaneta, Altamura e Gravina, le ultime due per molti anniconcorrenti di quella foggiana, tanto da mettere a rischio la fida dovuta allaDogana e da spingere il viceré conte di Oñatte a disporre, nel 1651, che«nessun padronale d’animali pecorini gentili ardisse di portar più a venderenella detta Fiera di Altamura e Gravina sorte alcuna di detti animali».109 Ledue fiere murgiane per funzionare avranno bisogno, da allora in avanti,

105. Ori, Le fiere tradizionali di Carpi, p. 95.106. Ibidem, p. 86.107. Fasoli, Il mercato nella vita contadina, p. 89.108. Calvanese, Memorie per la città di Foggia, p. 86.109. ASFg, Dogana, s. V., b. 20, fasc. 3960.

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della licenza concessa dal Doganiere che vi destina alcuni commissari, perimpedire che vi si rechino i locati della Dogana e che le transazioni degliarmentari non soggetti alla istituzione foggiana riducano le vendite di lanae animali nella grande fiera di Capitanata, «perché non si togliesse al fiscola sicurezza dell’esazione della Fida e la maggiore facilità dei pagamenti,sempre sostenuta dal maggior concorso nella Fiera celebrata in Foggia».110

Le fiere zootecniche pugliesi, cui sono da aggiungere le altre, più anti-che, di Lucera, tuttavia già decadute nel Seicento, non sono esclusivamenteovine: la fiera di san Giorgio di Gravina, ad esempio, è importante soprat-tutto per il commercio dei bovini. Animali si vendono anche nelle altre im-portanti fiere del Regno, da quella di Salerno,111 a quelle abruzzesi e moli-sane, insieme a quella ben nota di Lanciano,112 all’altra di san Nicola, a Ba-ri. Non mancano interessanti specializzazioni, come quella della fiera diSanto Stefano di Capua, dove si vendono porcellini da ingrasso.113 Le altrepiù importanti fiere di animali si trovano comunque nel vasto hinterlandnapoletano: da quella bovina di Maddaloni, all’altra di Teverolaccio – unmercato importantissimo per gli animali vivi, i salumi e i formaggi, collo-cato in un casale di 40 anime nell’Aversano – alla fiera settembrina di San-ta Maria Capua Vetere, all’altra equina di Aversa di fine aprile.

A venti miglia da Napoli, ad Atripalda, nei pressi di Avellino, si svol-ge durante il Carnevale un mercato bisettimanale, molto noto per il «ne-goziato di porci». Maialini da ingrasso si vendono anche nelle piccole enumerose fiere cilentane.114 Le più importanti fiere abruzzesi, quella di finegiugno di sant’Eumidio a L’Aquila e quella di luglio di Castel di Sangro,per quanto concerne gli animali sono, invece, prevalentemente ovine.

Risalendo la penisola, non si può non segnalare nello Stato pontificiola fiera di Ascoli Piceno (fine maggio-20 giugno), durante la quale si ven-dono cavalli e bestiame vaccino e suino; importanti sono anche le fiere di

110. De Dominicis, Lo stato politico, III, p. 120.111. Nel secondo Settecento, così ne scrive Carlo Ulisse de Salis Marschlins: «È de-

dicata quasi tutta, questa fiera, al commercio dei cavalli e del grosso bestiame in genere, ela riva del mare diviene in quei giorni animatissima pel numero straordinario di cavalli,asini, muli, bovi e bufali che vi si riuniscono» (Nel Regno di Napoli, p. 167). Cfr., nellaStatistica murattiana, altre notizie sulla vendita di bufali, durante la fiera di Salerno (La“statistica” del regno di Napoli, IV, p. 616). Su questa fiera, soprattutto nel basso Me-dioevo, cfr. Mercanti in Fiera.

112. Sulle fiere abruzzesi e molisane cfr. Ivone, La transumanza.113. La “statistica” del regno di Napoli, IV, pp. 367-368.114. Cfr. Grohmann, Le fiere de regno di Napoli, p. 108.

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Fermo (seconda metà di agosto), quella “franca” di Senigallia (dal 20 lu-glio, per 20 giorni), quella di Ravenna di ottobre, importante per i bovini e icavalli. Ben più importante – la prima dello Stato dopo la fiera di Senigallia– è la fiera settembrina di Lugo, in Romagna, durante la quale, il mercoledìe la domenica, si svolge il «celebre mercato di bestiame vaccino», che regi-stra molte vendite e numerosi «concambi dei piccioli coi grossi». Migliaiadi capi «sono posti in tante lunghissime file legati a due con il giogo sulcollo» nel foro boario e nelle strade adiacenti.115 Altrettanto pittoresche so-no le due fiere (di Pentecoste e di settembre) che si celebrano a Viterbo, nelcampo Graziano, molto frequentate dai Toscani che vi comprano – e pre-sumibilmente vi vendono – cavalli e bestiame vaccino:

Questo campo così ricoperto da ogni sorta di bestiame di masseria, in mezzo acompratori, e venditori di diversi colori vestito, da varie capanne apposita-mente fatte da vivandieri, fuori delle quali chi beve, chi mangia in piedi, o se-duto in crocchio di uomini e donne, presenta un colpo di vista sorprendente.116

Ma non ci sono solo fiere. Anche nello Stato pontificio, come si ve-drà più avanti per i Ducati padani e per le Legazioni, il mercato settima-nale assume un’importanza crescente, come quello che si fa a Roma ilgiovedì «fuori la Porta del Popolo».

Mentre sembrano essere di scarso rilievo le fiere maremmane,117 «d’as-sai maggiore importanza» delle altre fiere toscane, quali sono quelle diPratovecchio e Pontedera, è la fiera pratese di settembre, che si svolge sullapiazza del Mercatale, dove si possono trovare migliaia di capi di bovini dalavoro, più «altri animali di ogni genere».118 In Toscana, a parte i grandimercati urbani, come quello del venerdì di Firenze a Porta della Croce, dicui si è già parlato, ricca si presenta la trama di fiere e mercati di animalinelle aree appenniniche, attraversate dai percorsi della transumanza com-merciale e da quella vera e propria.119 Allo sbocco delle valli appenninichesi trovano i mercati degli animali di Borgo a Buggiano, in Valdinievole, perle provenienze dal Modenese, Barberino di Mugello per le bestie introdottedal Bolognese, San Godenzo e Dicomano dal Forlivese, e infine Borgo SanSepolcro per il Ravennate e la “Marca” pontificia.120

115. Monti, Notizie istoriche, passim.116. Ibidem, p. 90.117. Cfr. Bueti, La produzione e il commercio, pp. 861-863.118. Cit. in Nuti, Prato nel periodo mediceo, p. 260.119. Cfr., a questo riguardo, tra gli altri, il volume Allevamento, mercato, transumanza.120. Zagli, Da beccai a macellai, p. 81.

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Anche la fiera di Prato della Valle a Padova viene reputata un impor-tante mercato di animali,121 ma un ruolo rilevante a nord degli Appenniniè detenuto dalle fiere emiliane, da alcune lombarde, come si vedrà me-glio, da quelle di Trento,122 dalle già citate fiere di Bolzano, mentre nelsettore occidentale anche nelle fiere piemontesi c’è sempre un importantetraffico di bestiame.123

In tutta l’Italia settentrionale, tuttavia, più della grande fiera, insiemeai mercati delle città di consumo, contano le numerose piccole fiere e imercati settimanali collocati nelle aree pedemontane, che raccolgono glianimali allevati nelle aree di montagne – e magari scambiati contro grano– o introdotti dagli stati vicini attraverso i valichi alpini ed appenninici.

È il caso – per quel che concerne quest’ultima categoria – dei mercatidi Bettola e Fornovo nell’appennino parmense e piacentino,124 della fiera dibuoi, cavalli e muli di Berceto, frequentata nel primo Ottocento da più ditremila persone, di quelle di Borgotaro, delle fiere di Corniglio, frequentateanch’essa da tremila persone, «venendone anche dalla vicina Lunigiana edal Genovese»,125 di quella delle vacche di Pavullo nel Frignano, ma anchedelle fiere delle Prealpi lombarde, che fanno corona alle grande fiera di otto-bre di Lugano, una delle più importanti delle Alpi centrali per dimensioni efrequentazione internazionale, e la fiera delle “corna” di Tirano, in Valtellina.

A ottobre si svolge anche la «bellissima fiera» di Varese, «molto cele-brata per la gran quantità de cavalli, che vengono da Francoforte e d’altriluoghi d’Alemagna».126 Dimensioni inferiori ha quella di fine giugno aMonza, dove i brianzoli comprano cavalli e bovini,127 mentre a Bergamo eLovere ci si approvvigiona di bestie da latte, vendute dagli alpigiani.128 Maanche in quest’area, accanto alle fiere, occorre guardare ai mercati settima-nali, come quello del sabato di Gallarate, a cui il bestiame affluisce «es-sente dal dazio della dogana». Nella cittadina lombarda il commercio delbestiame, delle carni e delle pelli segna fortemente il tessuto sociale: nella

121. Su questa fiera, anche di animali, qualche notizia in Ronchi, Per la storia dellafiera del Santo, pp. 88-89.

122. Pinna Berchet, Fiere italiane, pp. 49-54.123. Stumpo, Economia urbana, p. 262.124. Sull’Appennino parmense, p. 187.125. Minardi, «Sano, sincero e da galantuomo», p. 204.126. P. Morigi, cit. in Beonio-Brocchieri, «Piazza universale», p. 98.127. Fumi, L’esportazione di bestiame, pp. 165-168.128. Sull’importanza della fiera di Bergamo di fine agosto, cfr. Lanaro, Periferie

senza centro, pp. 21-52.

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seconda metà del Cinquecento vi sono censiti una trentina di mercanti dibestiame, altrettanti macellai e dodici “pellizzari”.129

Le piazze di Piacenza, Modena, Reggio, Parma, Vignola130 raccorda-no le aree appenniniche con i mercati di consumo “esteri”: bolognesi eveneziani popolano il mercato modenese, su quello reggiano calano lom-bardi, veneti e toscani,131 e ancora più ampio sembra il raggio d’attrazionedel mercato parmense della “Ge’ra”. Una grande piazza di consumo è in-vece Bologna: in città, dove pure le tre fiere di maggio, quelle dell’As-sunta e di San Petronio, in ottobre, si sono precocemente trasformate ingrossi mercati di bestiame,132 c’è commercio di suini dal 1 ottobre al 15marzo quattro volte la settimana. Particolarmente importante è il mercatosettimanale che, sin dal XIII secolo, si svolge nel campo del Mercato, do-ve si commerciano «bestie grosse ogni sabbato il dopo pranzo pure chenon sia giorno festivo, e al più delle volte vi sono da due milla paia di be-stie, come vacche, buoi e infiniti porci ed asini».133

A Ravenna e nelle sue “ville” ci sono numerosi mercati in cui si ven-dono bovini (e in qualche caso cavalli e somari) da giugno fino ai Santi, esuini in autunno e in inverno.134 Ma è l’intera Italia padana – come si èdetto – a pullulare di piccole fiere e, soprattutto, di mercati di bestiame.135

2.6. Il circuito della lana

Nell’allevamento ovino, nei diversi contesti e per le differenti razze,varia il rapporto tra la quota del valore della produzione attribuibile allacarne, alla lana o ai derivati del latte. Ad esempio, nell’economia della Do-gana di Foggia, dove si alleva una buona pecora da lana come la “gentile”,la lana è da sempre – o, meglio, lo è stata fino a pochi decenni fa – il piùricco prodotto della pastorizia ovina.136 Ma anche negli altri stati italiani la

129. Beonio-Brocchieri, «Piazza universale», p. 99.130. Su quest’ultima si veda il ricordo di Muratori, in Scritti autobiografici, pp. 80-81.131. Cristoferi, Fiere e mercati, p. 174.132. Ibidem, p. 161.133. Cit. in Fanti, I macellai bolognesi, p. 195.134. Prospetto generale delle fiere e mercati.135. Cfr. per una parte del Veneto, cfr. Clerici, Le rôle des foires, pp. 1005-1034.136. Nel mondo della Dogana di Foggia a fine Settecento, dalla lana si ricavava il

40% del reddito del gregge, contro il 35 proveniente dalla vendita di animali e il 25 daquella dei formaggi (Silla, La pastorizia difesa, pp. 209-212). Marino, a sua volta, sempre

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Ragion pastorale, ragion di stato66

lana costituisce una produzione di primaria importanza, legata alla mani-fattura tessile che rimane a lungo la più importante in termini di reddito e dioccupati, nonostante la crisi delle tradizionali roccaforti cittadine.

È certo, comunque, che la circolazione delle lane migliori e in parti-colare di quelle importate è orientata generalmente dal privilegio dellemanifatture cittadine.

Tra le lane degli armenti che pascolano negli stati italiani, «assaibuone» sono considerate – in una dissertazione di fine Settecento – lelane romane e quelle pugliesi; anche le padovane, «se le pecore fosseroben trattate, potrebbero stare al paragone di quelle di Spagna».137 Ma, aparte il caso delle buone, ma non pregevoli, lane di pecore di razza genti-le, delle vissane e, appunto, delle padovane, non si tratta generalmente divelli pregiati per la tessitura, tanto da rendere necessario il ricorso alle la-ne straniere per le produzioni di qualità.138

Firenze, infatti, si affida nel Medioevo normalmente alle lane inglesi,ma, per lo sviluppo della manifattura nell’isola britannica, è costretta asostituirle nel Cinquecento con quelle spagnole, integrate dapprima con lepugliesi, ma soprattutto con quelle dello Stato della Chiesa, che costitui-ranno spesso in seguito la fibra più utilizzata, e talvolta con le barbare-sche. Nel secondo Cinquecento, dai porti mediterranei della Spagna par-tono ogni anno in media dai 15 ai 20 mila sacchi di lana per i porti deglistati italiani,139 in discreta percentuale destinati proprio a Firenze.

I produttori cittadini non ammettono, in alcun modo, che l’industrialaniera rurale possa utilizzare lane di pregio, prescrivendo che «nel conta-do di Firenze non si può far arte di lana di altra lana, che nostrale».140 Ma,al di là della qualità, le lane casentinesi e maremmane, utilizzate per i

per il Settecento, su 600 mila ducati del valore della produzione media in ambito dogana-le, attribuisce alla lana ben 375 mila ducati, cioè il 55% (L’economia pastorale, p. 413).Nel Lazio, in ragione delle diverse attitudini delle razze allevate e della vicinanza di ungrande mercato di consumo alimentare come Roma, la quota delle carni sale al 40% (Ni-colaj cit. in Cianferoni, Produzioni, costi e redditi, p. 196).

137. Dissertazione sulle lane, pp. 7-8.138. Un giudizio non positivo sulle lane pugliesi è in una relazione di un mercante e

imprenditore laniero francese, in Gayot, De la qualité des laines, p. 254; cfr. nello stessovolume, Renieri, Antonini, Origine ed evoluzione delle razze ovine, in particolare pp. 39-45.

139. Lapeyre, Les exportations des laines, pp. 231-239. Un sacco equivale a pocopiù di un quintale.

140. Sull’approvvigionamento della materia prima nell’industria fiorentina, cfr. Ma-lanima, La decadenza di un’economia cittadina, pp. 89-100.

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panni più rustici nel Granducato, non sono sufficienti ai consumi locali,tanto che se ne deve vietare spesso l’esportazione, ma non si riesce a im-pedire il contrabbando che, ad esempio, verso la metà del Settecento, lemanda «in fiera di Sinigaglia et infinita quantità per la via di Livorno aMarsilia e Piemonte».141

Anche nella Repubblica di Venezia l’utilizzazione delle lane spagno-le è riservata al lanificio della Dominante. Solo a partire dalla fine delSeicento se ne consente l’uso anche nella Terraferma, ma solo per le qua-lità meno pregiate. Anche in questo caso, l’offerta locale non è qualitati-vamente e quantitativamente adeguata a far fronte ai consumi: le mani-fatture del Trevigiano e del Bergamasco consumano, insieme alle lane lo-cali, un ingente quantitativo di lane importate che, nel primo Settecento,sono soprattutto albanesi, pugliesi – in crescente calo – “turche” (proven-gono dal Peloponneso, da Salonicco e da Costantinopoli), laziali e spa-gnole. Anche nella Terraferma veneta vasti settori produttivi, soprattuttodel Vicentino, puntano sulle lane locali meno costose per produrre pannidi qualità media, rinunciando a competere ai livelli alti. Importante è, inquesta chiave, il controllo della materia prima: l’Università della lana diPadova rivendica, perciò, il monopolio dei velli delle pecore stanziali delsuo territorio, mentre a Bergamo i rettori, nel 1745, emanano un proclamache vieta l’estrazione della lana sulle “pecore vestite”, giacché i pastoridella Val Seriana, che svernano nel Milanese, nel Cremonese e soprattut-to in Piemonte, vendono in quelle regioni il prodotto della tosa.142

Insufficiente è in Piemonte – che pure è importante area di pascolo –la produzione interna di lana di qualità per la tessitura, tanto che se ne de-ve importare, legalmente o di contrabbando, dal Bergamasco, dalla Pro-venza, dalla Spagna e dal Nordafrica. Frequenti sono in territorio sabau-do, anche a riguardo dell’approvvigionamento delle lane, i conflitti tra lecomunità, che vietano il transito delle greggi che scendono dalle monta-gne, e i fabbricanti di tessuti che chiedono per i pastori «la libertà di an-dare a pascolare in tutte le terre».143

Cattiva è ritenuta, invece, la qualità della lana delle pecore sarde, im-piegata normalmente nella produzione domestica dell’orbace,144 ma non

141. Ibidem, p. 97.142. Panciera, L’arte matrice, pp. 153-174.143. Chicco, La politica economica statale, p. 171.144. La Marmora, Voyage en Sardaigne, e G. Cossu cit. in Day, Bonin, Calia, Jelinski,

Atlas de la Sardaigne, p. 107.

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manca una certa esportazione canalizzata per ragioni fiscali attraverso iporti di Cagliari, Oristano e Alghero.145

Esportatore netto di lane è, invece, il Regno di Napoli, in cui la pa-storizia della Dogana di Foggia assicura dai 72 mila rubbi medi di fineSeicento agli oltre 90 mila della seconda metà del Settecento (e talvoltaanche 100 mila) e sono impensabili misure di limitazione delle “estrazio-ni” per la debolezza della domanda interna e l’interesse dello Stato allariscossione della “fida” dei pascoli del Tavoliere.

L’enfasi sul commercio internazionale – nel Settecento si esportanella Repubblica di Venezia e, più tardi, a Marsiglia – ha fatto trascurareche, comunque, il 50% delle lane pugliesi sono trasformate all’interno delRegno, nei lanifici di Principato Citra, Terra di Lavoro e degli Abruzzi.146

2.7. Gli altri prodotti dell’allevamento

Con la vistosa eccezione di alcune razze ovine da lana e di alcunerazze bovine da latte, il valore delle carni tiene, di norma, il primo postonel reddito ricavabile dall’allevamento. Non è facile, tuttavia, dare unastima monetaria precisa – più che alle altre importanti produzioni, come illatte – alla quota attribuibile al lavoro erogato dagli animali da tiro, al le-tame o agli altri redditi ricavati dalla macellazione, a partire dalle pelli.

Nell’allevamento ovino la vendita di animali vivi per la macellazione– non solo castrati ed agnelli – si accompagna a quella di «animali morti,o poco atti a vivere o a dare frutto» che non si svolge necessariamente infiere e mercati. Nel Regno di Napoli della commercializzazione delle lorocarni e, soprattutto, delle loro pelli, che negli agnelli morti al parto sichiamano “bassette”, si occupano, per l’appunto, i bassettieri che operanoprevalentemente attorno nel vasto territorio della Dogana. Ad essi sonoestesi – non senza conflitti e contestazioni da parte di Università e gabel-loti 147 – i privilegi di cui godono gli altri “sudditi di Dogana”.

Mentre le pelli di animali adulti vengono vendute a conciatori regni-coli, quelle morbidissime delle bassette sono molto richieste sui mercati

145. Manca, La lana di Sardegna, p. 174.146. Marino, L’economia pastorale, pp. 350-354, 393-410. Un rubbio equivale a

circa 9 kg. Dati sulla manifattura tessile napoletana sono in Cirillo, La trama sottile, p. 95.147. Cfr. l’arresto di cinque bassettieri a Barletta nel 1735 per non aver pagato la ga-

bella (ASFg, Dogana, s. I, b. 136, fasc. 2199). I bassettieri sono esenti da dazi, gabelle, di-ritti di “scannaggio” o “piazza”, se vendono carni di greggi di locati a quarti e non a peso.

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ottomani e delle isole ionie.148 Il traffico di quelle pelli e delle altre di a-gnello si fa – ovviamente – cospicuo negli anni di straordinaria mortalitàovina, per il freddo e le epizoozie.149

Non si tratta – come è ovvio – di specificità meridionale, per quanto lamanifattura dei guanti a Napoli sia celebratissima: dai porti dalmati, prove-nendo dall’interno, dalla Croazia e dall’Ungheria, migliaia di pelli di varianimali (duecento mila l’anno in media, soprattutto nel XVI secolo) afflui-scono nelle fiere marchigiane ad alimentare le manifatture, non solo loca-li.150 Non meno importante è il commercio delle pelli di animali locali, so-prattutto a ridosso del consumo di carni delle grandi città.151 Rilevanti sonoanche i traffici di pelli verso la Toscana,152 e in altre aree dell’Italia padana,segnatamente nel Vigevanasco e nell’area del Lago Maggiore, a Cannobio,che importa cuoi e pelli dalla Svizzera o dal Varesotto, non già da Milano,come spesso si dichiara per evitare i pagamenti daziari.153 Ma non è sempli-ce delineare una geografia del commercio di pelli, giacché la conceria e laloro lavorazione sono attività molto diffuse territorialmente, «talora addi-rittura polverizzate in una serie di piccoli impianti locali».154

C’è poi da considerare la produzione di carni lavorate, di salumi e“salate”, ovviamente particolarmente importante per i suini. Nel Mezzo-giorno il solo Cilento produrrebbe a fine Settecento 50 mila cantaia dicarne salata di maiale, ma importante è la produzione di salumi anche inAbruzzo, in Terra di Lavoro, ad esempio a San Germano, dove si produ-cono «gustosi e dilicati salami»,155 in Calabria citra, da dove in tempi dicommercio normale ci sarebbero significative estrazioni in Sicilia e a Li-vorno, oltre che in direzione della vorace Napoli.156

148. De Dominicis, Lo Stato politico, III, pp. 138-139.149. Un solo bassettiere, Pasquale di Giulio, di Bisegna in Abruzzo ulteriore, in un in-

verno freddissimo, «dopo delle cadute nevi», incetta nelle poste vicine a Cerignola 14362pelli (ASFg, Dogana, s. I, b. 937).

150. Moroni, Mercanti e fiere, p. 77. Sull’importazione di cuoi dall’Impero ottoma-no nei porti italiani, cfr. Di Vittorio, Il commercio, pp. 113-114.

151. Sui “vaccinari” romani, intermediari anche nel commercio e trattamento dellepelli e protagonisti spesso di importanti performances sociali, cfr. Ago, Economia baroc-ca, pp. 18-19.

152. Sulle pelli, cfr. La conceria in Italia, e Il cuoio e le pelli in Toscana.153. Beonio-Brocchieri, «Piazza universale», p. 100.154. Torti, La concia nella Toscana moderna, p. 143. Sul Mezzogiorno cfr. Ventura,

Per una storia dell’attività conciaria, pp. 299-340.155. Corrado, Notiziario delle produzioni, p. 42.156. Sulla produzione di carni di maiale salt or pickled dell’Abruzzo e della Cala-

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Ma la salagione della carne di maiale è decisamente più importantenei ducati emiliani e nella Bologna pontificia, dove, nella seconda metàdel Seicento, operano 120 “salaroli” e si ricavano 270 mila libbre di carnesalata, 120 mila di lardo, 140 mila di strutto, 70 mila di sego e 200 mila dimortadelle e salami, «oltre quelle si fanno ne’ monasteri, collegi e casede’ particolari. Di dette mortadelle, come cosa pregiatissima, se ne mandaper tutto il mondo».157

Anche la Sardegna, dove i maiali sono prevalentemente selvatici, fa un«gran commercio», oltre che di «carne porcina», anche di lardo, esportato«nella Corsica, nella Spagna ed in altri paesi».158

Se importante è il mercato delle carni e, per gli ovini, quello della la-na, di tutto rilievo è anche il valore del formaggio. Tuttavia, il commerciodi caci, formaggi e ricotte e i suoi protagonisti sono poco noti. Ricostruia-mone qualche tratto, attingendo dapprima alla documentazione archivisti-ca sedimentata dalla Dogana di Foggia, nel cui ambito si produce unaparte significativa dei formaggi ovini del Regno di Napoli. Anche in que-sto caso la abbondante documentazione è figlia della regolamentazioneche governa il commercio e la distribuzione della merce ai fondaci.159

In ambito doganale, la chiusura –con il saldo del prezzo della merce –delle operazioni creditizie a favore dei locati legate all’incetta dei formaggi,è preceduta dalla fissazione della “voce”, un valore di riferimento, frutto diuna contrattazione cui presiede il Governatore della Dogana e a cui parte-cipano i rappresentanti dei negozianti di cacio e i deputati dei proprietari dipecore. Il livello della “voce”, fissata in maggio, tiene conto del quantitati-vo di formaggio invenduto dall’anno precedente, dei caci “infondacati” fi-no a quel momento a Foggia – quindi non di tutta la produzione primave-rile della Dogana – e dei prezzi registrati sui mercati campani di Atripalda,Nola e Teverolaccio, tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio.

bria e sulle esportazioni verso la Sicilia, qualche notizia in Pagano De Divitiis, Il Regnodelle Due Sicilie, p. 131.

157. Cit. in Fanti, I macellai bolognesi, p. 196.158. Toggia, Intorno all’educazione, p. 20.159. Si veda la prammatica XXVIII, De extractione, seu exportatione animalium,

del 1630, che dispone che non si debba «scaricare formaggio, ovvero salume, che verràper mare d’Estra Regno, in luogo alcuno delle Provincie di Terra di Lavoro e di Principa-to, eccetto nei fondaci ordinari: cioè di Napoli, Castello a Mare, Gaeta, Pozzuoli, Salerno,e Vietri, i quali scaricati, ne debbono dar notizia a’ Regi officiali di detti fondaci». In Giu-stiniani, Nuova collezione, IV.

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Tale commercio è legato ad una figura particolare, il “coratino”, in-cettatore di formaggio, normalmente originario di una cittadina di Terradi Bari, Corato, per l’appunto, che incetta la produzione di cacio, distribu-endo in autunno anticipazioni creditizie agli allevatori di pecore e «racco-gliendo settimana per settimana il cacio fresco che si fa in tutto il Tavo-liero delle Puglie, salandolo, staggionandolo e governandolo ne’ loro ma-gazeni a loro spese, per pagarlo al prezzo che nel mese di maggio si stabi-lisce da questo tribunale [della Dogana]».160 Il valore del cacio fresco riti-rato è, in effetti, definito dalla “voce”. Una volta “stagionato” e “governa-to”, il formaggio viene venduto nelle fiere e nei mercati o consegnato diret-tamente ai “casadogli” napoletani, avvalendosi dell’esenzione da gabelle ealtri diritti di cui i “coratini” godono in quanto “sudditi” di Dogana. Sonospesso, costoro, protagonisti di mirabolanti percorsi di mobilità sociale,come mostra il caso degli Zezza, giunti, in una sola generazione, nel 1772,al titolo di baroni di Zapponeta, un piccolo feudo in Capitanata.161

Per stimare le dimensioni dei “caseificio” del Regno di Napoli, aiformaggi ovini e al piccolo quantitativo di formaggi caprini, occorre ag-giungere, anche, la cospicua produzione di formaggi vaccini, a partire daiben noti caciocavalli, di varie forme e qualità,162 e delle “provature”, altri-menti definite provole, ricavate con il latte di bufala, di un animale alle-vato quasi solo in Terra di Lavoro, nel Vallo di Diano e in Capitanata ma,in realtà, adoperato soprattutto per il tiro dell’aratro e dei carri.

Benché la produzione complessiva sia ragguardevole, ma non age-volmente quantificabile – se si ritengono valide alcune stime del cacioprodotto per un gregge medio di 500 pecore, si può ritenere plausibile,per 2,5 milioni di capi ovini stimati nel secondo Settecento in tutto il Re-gno, una produzione complessiva di 50-60 mila cantaia, cioè 250-300 mi-la pese di solo cacio ovino stagionato, a parte le produzioni più deperibilicome le ricotte163 – il Regno di Napoli importa molto formaggio dalla Si-

160. ASFg, Dogana. Processi civili, s. II, b. 214, fasc. 4921.161. Russo, Percorsi di mobilità sociale, pp. 95-120. Sul mercato del formaggio nel

Regno di Napoli cfr. anche Montaudo, Economia pastorale, pp. 319-331.162. Nella Calabria ulteriore si producevano i cosìddetti “raschi”, caciocavalli di

forma cilindrica (La “statistica” del Regno di Napoli, II, p. 573).163. Si possono forse utilizzare le stime di produzione di latticini proposte per gli

allevamenti di Capitanata agli inizi dell’Ottocento: 12 cantaia di cacio e 4 di ricotta perogni 500 pecore. Inoltre si produrrebbero 10 cantaia di caciocavalli ed una di ricotta per60 vacche (La “statistica” del Regno di Napoli, I, p. 431). Valori inferiori sono propostida Marino (L’economia pastorale, p. 106).

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cilia, dalla Sardegna e, soprattutto, dalla Morea, forse quel formaggio“turchesco” di cui danno notizia le assise: «i nostri regnicoli – scrive Ga-lanti – consumano molto formaggio, perché mangiano molta pasta, e ilbasso popolo si contenta di formaggio e pane».164 Nel 1771 ne sarebberostati importati ben 160 mila cantaia, mentre la produzione nazionale pare“spacciata” prevalentemente nel Regno, tanto che non c’è una normativasicura in materia di esportazione delle produzioni casearie della Dogana,mentre sono esenti o debolmente tassate le “estrazioni” di pelli o lane.165

Sicuramente, però, il formaggio è uno dei prodotti che – a Napoli e altro-ve, negli stati italiani – entra sistematicamente in tutte le assise locali. Si-curamente disciplinato, ai fini della fissazione del calmiere e della riscos-sione delle varie imposte di consumo appaltate agli “arrendatori”, è – co-me si è detto – l’immagazzinamento del formaggio importato.

William Hamilton, negli anni Settanta del Settecento, afferma connettezza che la produzione del Regno di Napoli è orientata al consumo lo-cale, e che anche la rilevante produzione siciliana di formaggi di capra edi «casci cavalli» vaccini serve gli esigenti mercati di Napoli e di Terra diLavoro.166 Piccoli rivoli di esportazione dal Napoletano sono tuttaviasempre attivi – verso Roma, ad esempio – fino a casi clamorosi, ma tuttosommato eccezionali, come è nel Decennio la spedizione in Francia, «aschiena di muli», di ben 72 mila libbre dei formaggi dell’armentario a-bruzzese Stanislao Mascitelli.167

Non si tratta, tuttavia, come si è detto, del prodotto più importantedell’allevamento ovino del Regno, peraltro non paragonabile, in alcunmodo, con le dimensioni che hanno la produzione e la commercializza-zione del formaggio sardo, esportato agli inizi del Seicento in circa qua-ranta mila cantara,168 e spesso clandestinamente imbarcato per evitare i

164. Galanti, Della descrizione geografica, I, p. 146.165. ASFg, Dogana, s. I, b. 323, fasc. 11556. Nel 1781 i negozianti di cacio di Foggia

«trovandosi incagliati i formaggi di Puglia» a causa – a loro dire – dell’introduzione di formag-gi forestieri, chiedono di impedire le importazioni o di concedere l’estrazione con le fran-chigie concesse agli altri prodotti. Otterranno di pagare lo stesso dazio che si paga sulle lanee la possibilità di esportazione solo «per via dell’Adriatico, non già per quella di Napoli».

166. Pagano De Divitiis, Il Regno delle Due Sicile, p. 131.167. La “statistica” del Regno di Napoli, I, p. 131.168. Cfr. Ortu, L’economia pastorale, p. 102. Già nel tardo Medioevo il formaggio

“sardisco”, salato e stagionato, ha una discreta penetrazione nei mercati del Continente,soprattutto a Genova, diffuso tra i ceti subalterni (Nada Patrone, Caseus est sanus, p. 114).

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dazi doganali.169 Anche la Sicilia del grano, come si è detto, pare in gradodi esportare quantitativi non irrisori di formaggi e caciocavalli, oltre che aNapoli, soprattutto a Livorno e a Civitavecchia.170

169. Cfr. il “pregone” del 1762 in cui i pastori che hanno ovili vicini alle marine nell’I-glesiente e a Sant’Antioco sono obbligati a dichiarare il numero degli animali posseduti perstimare il quantitativo di formaggio prodotto (Editti, pregoni ed altri provvedimenti, I, p. 394).

170. Cfr. Cancila, Impresa, redditi, mercato, p. 277. Per la fine del QuattrocentoEpstein stima una quota di esportazioni rispetto ala produzione totale non inferiore al 20%annuo (Potere e mercati in Sicilia, p. 295).

Fig. 1. Assisa dei generi di pizzicheria stabilita dagli eletti di Napoli (ASFg, Do-gana, I s., b. 351, fasc. 12520)

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Prevalentemente importatore di formaggi pare essere anche lo Statodella Chiesa, da Napoli, dalla Sardegna, dal Piemonte, dalla Toscana, ol-tre che dall’Olanda, dalla Francia e dall’Inghilterra. Ma circa un migliaiodi quintali di caciotta, un formaggio cotto e salato di pecora, vengonocomunque esportati. In questo caso, tuttavia, importanti sono i flussi in-terni allo Stato: al consumo di Roma, cui – a fine Seicento – occorronoogni anno 100 mila libbre di formaggio bovino ed un milione e 300 miladi formaggio ovino, fa fronte non solo la produzione della Campagna ro-mana, ma anche quella delle regioni lontane, come l’Urbinate.171 Nellefiere marchigiane, tuttavia, insieme alle pelli, non marginali sono le im-portazioni di formaggi d’oltre Adriatico: nella fiera della Maddalena diSenigallia si vende formaggio istriano, dalmata e delle isole ionie, oltre aicuoi, ai cavalli e ai castrati della regione di Spalato.172

Altrettanto deficitario sembra essere il mercato toscano dei formaggi: nel1762, a fronte di 290 mila libbre di pecorino esportato dalla Valdelsa senese edal Pisano, entrano circa 1140 mila libbre tra burro e parmigiano lombardi oemiliani, formaggio romano, cacio dolce e salato di varia provenienza.173

Nettamente – e sempre più – esportatrice è invece l’economia lom-barda: aumentano rapidamente nel ’700 le mucche da latte – dalle 20 milanel 1753 alle 50 mila degli anni Ottanta, alle 80 mila stimate dal Cattaneoa metà Ottocento – e cresce vistosamente l’esportazione del formaggioparmigiano “lodigiano”, già prodotto in oltre 100 mila forme annue nel1753. Le importazioni di formaggio dalla Svizzera non superano un quar-to del valore delle esportazioni lombarde, che vanno in primo luogo versoi mercati di Modena e Parma, poi verso la Repubblica di Venezia e, interzo luogo, verso i mercati piemontesi.174

L’industria casearia lombarda, tra «formaggi e butirri», realizza nel1769 – secondo Gian Rinaldo Carli – 2 milioni di lire di esportazioni,contribuendo, inoltre, in buona misura, con la produzione lodigiana, alsuccesso del polo commerciale di Parma, ma anche di quello di Piacenza,che ridenominano il formaggio vaccino stagionato delle altre zone e lo di-stribuiscono sui mercati degli Stati italiani e non.175 Ma più tardi, già nel

171. D’Amelia, La crisi, pp. 526-527. Cfr. anche Delumeau, Vita economica, p. 151.172. Moroni, Mercanti e fiere, p. 77.173. Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 118.174. Visconti, La produzione casearia, p. 41.175. Levati, «Cibo sano», pp. 70-82. Sulle esportazioni di “butirri”, in inverno persino

in Romagna e nel Genovesato, cfr. una citazione in Coppola, Il commercio estero, p. 144.

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primo Ottocento, «l’area lodigiana si distaccherà da quella emiliana, ed ilcentro della rete distributiva si sposterà da Parma e Piacenza verso lanuova fiorente zona di produzione»176 lombarda. I dati ufficiali sulleesportazioni non tengono conto, come altrove, dei rivoli del contrabban-do, favorito dalla macchinosità del sistema delle licenze e dai calmieri –spesso inferiori ai prezzi delle contrattazioni ordinarie – che scoraggianola vendita nelle città e nei borghi.177

Anche nel caso del formaggio, l’enfasi sul commercio interstatale fapassare sotto silenzio il mercato interno di prodotti, spesso di non grandepregio, ma di grande consumo, come quello del «cascio salato» prodottonel contado veronese, ricercato «da tutte le mense frugali» di «villici oartigiani» della città scaligera e del contado vicentino.178 Il mercato ve-neto resta comunque sostanzialmente tributario della vicina Lombardia,non essendo sufficienti per il consumo interno, il già citato «cascio sala-to» veronese, i formaggi carnici o cadorini o le modeste ricotte di pecorache i pastori «vendono di inverno durante i mesi del pensionatico», cioèl’antica servitù che garantiva alle pecore delle regioni montuose il pa-scolo in pianura nei terreni aperti non seminati.179

Nella Torino sabauda, il formaggio, non soggetto a “tassa”, arriva dallevalli di Lanzo, di Susa e dal Canavese, ma rilevanti sono i quantitativi di for-maggi piacentini, parmigiani. lodigiani, savoiardi e svizzeri. Esclusivamentedalle valli proviene, invece, il burro, normalmente soggetto al calmiere.180

176. Cristoferi, Fiere e mercati, p. 176.177. Coppola, Il commercio estero, p. 144.178. Bottagisio, Del cascio pecorino, p. 26.179. Berengo, L’agricoltura veneta, p. 329.180. Balani, Il vicario tra città e stato, pp. 251-253.

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3. Direzioni e forme del mutamento:poteri, conflitti, spazi

1. Sull’Appennino nord-orientale: quidam divites, totus populus

Dal rifiuto delle opposte ideologie scientiste ed ecologiste come stru-mento per ordinare in forme lineari il racconto del passato, alla adozione diideologie del savoir-faire local, che vanno sostituendo l’ambientalismoclassico nella critica ai disastri provocati dalla esportazione nel mondo del-le pratiche dell’agricoltura moderna occidentale,1 il passo può essere breve.Vorremmo evitare di farlo in questo caso, evitando di proporre una visioneomeostatica delle mille Italie agro-silvo-pastorali, le quali sarebbero statepreservate, fino all’irruzione della modernità, da gruppi di utilizzatori di ri-sorse locali strutturati in comunità coese e chiuse al “forestiero”. Ben primadell’avvento della modernità, pratiche e saperi rustici vivono in realtà incontesti di potere e relazionali a spazialità complessa, sono percorsi da con-flitti spesso acuti, mutano in forme non necessariamente molecolari.

È, quest’ultimo, un atteggiamento che molti fra gli studi su riferiti sug-geriscono, ma che ha ricevuto, a nostra conoscenza, una traduzione ana-litica solo in riferimento a qualcuna delle Italie rurali di età moderna. Inparticolare un gruppo di lavori sull’Appennino nord-orientale propone pi-ste, ci sembra, non banali per dar conto del mutamento nell’ambito dellaproduzione animale di età moderna. Esso non vi viene raffigurato come ar-retramento o espansione, reciprocamente speculari, delle superfici dedicateall’allevamento e di quelle dedicate alle colture – la famosa “competizione

1. Ne è ad esempio espressione la Association Tunisienne pour la Promotion du Savoir-Faire Local dans la Gestion des Ressources Naturelles en Zones Arides “GDL”, il cui primoseminario internazionale, intitolato Le sovoir-faire local et la gestion des ressources na-turelles dans les pays méditerranéens, si è tenuto a Gabès, Tunisia, il 13 e 14 dicembre 2002.

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per la terra”. Dentro i grandi quadri temporali canonici dell’avanzata cin-quecentesca della cerealicoltura e della ruralizzazione proprietaria, dell’al-lentamento seicentesco della pressione sulle risorse, dell’acutizzarsi sette-centesco delle tensioni e del farsi largo dall’alto e dal basso dell’individua-lismo agrario, viene documentata una trasformazione radicale delle logicheeconomiche, dei profili sociali, dei processi e delle istanze decisionali, deicircuiti mercantili, degli insediamenti spaziali del settore.

Su queste montagne l’allevamento bovino ed ovino tardo-quattrocen-tesco e di primo Cinquecento è una presenza massiccia e diffusa, organiz-zata in iniziative di dimensione media che fanno affidamento sulle ampierisorse pascolative comunitarie e su quelle invernali delle valli e delle co-ste vicine. Il settore sembra presentare e mantenere un livello significati-vo di autonomia rispetto alle pratiche agricole e realizzare un’integrazio-ne stretta con le manifatture locali che adoperano materia prima animale,quelle dei tessuti di lana, delle pelli, dei cuoi; prodotti scambiati con der-rate alimentari tramite il sistema delle fiere e dei mercati localizzati neipunti in cui montagna e pianura entrano in comunicazione. Questo nessopastorale-manifatturiero si sviluppa, si allenta o viene del tutto meno intempi e modi diversi, che si intrecciano in vario modo con le congiunturepolitiche, mercantili e demografiche, e con l’espansione dell’appodera-mento in pianura e sui pendii bassi.

In una parte dell’alto bolognese il fenomeno diventa importante nellaprima età moderna, e coincide con l’espandersi parallelo del popolamen-to, dei coltivi e dell’allevamento. In spazi in cui le variazioni altimetrichesono intense e rapide, quando l’agricoltura colonica comincia a risaliredalle quote più basse ostacolando gli spostamenti delle greggi e riducen-do le risorse pascolative, i conflitti fra comunità ed all’interno delle co-munità possono diventare acuti: la parrocchia-comunità di Capugnanogiunge nel 1585, sull’orlo della divisione giuridica lungo un confine alti-metrico.2 Al tempo stesso vi si prospetta una saldatura fra le famiglie piùcospicue che vanno insediandosi nel contesto agricolo delle altimetrie mi-nori o inurbandosi a Porretta, e le pratiche dell’allevamento montano. Lapastorizia non solo non arretra di fronte all’avanzare dei coltivi dalle terrebasse, ma colonizza le cime attraendo investimenti importanti. Le sue lo-

2. Giacomelli, Pastorizia, transumanza e industria, p. 145. Sulle vicende dell’alleva-mento di Capugnano cfr., oltre a questo saggio, un altro scritto rilevante di Giacomelli:Popolazione e società, pp. 155-262. Su questo ambiente cfr. anche Toniolo, Pastorizia eagricoltura, pp. 123-138.

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giche ne risultano però profondamente modificate: essa si specializza,erode la piccola conduzione pastorale diretta sostituendola con greggi nu-merose affidate a soccida a nullatenenti o a possidenti di pochi animali.Non più gestibili nell’ambiente montano o tramite spostamenti modesti,esse ingrossano ed allungano i flussi della transumanza invernale. La pen-dolarità verso la vicina piana bolognese, a cui pecore e capre montane of-frono letame per le colture intensive e pelli e lane per la manifattura urba-na, viene disincentivata dalle misure di salvaguardia dei boschi residui as-sunte dal Senato bolognese a fine Cinquecento, dal ridursi degli spazi pa-scolativi di pianura, e, soprattutto, dalla grave crisi degli anni Ottanta dellanificio a Bologna, che colpisce l’intero allevamento ovino della regione.

Viceversa, sugli itinerari verso i vasti pascoli della repubblica senese,le pratiche propriamente pastorali trovano nessi trasversali e complicaticon altre occasioni di reddito, favorite anche dalla presenza di nobili bo-lognesi al servizio di quello stato e dal controllo esercitato dalla famigliaallargata degli Appiani sul minerale di ferro e su alcuni dei valichi checonducono alle zone minerarie. I pastori transumanti in Maremma fannocommercio di sete bolognesi o di tele e cordami di canapa della monta-gna, destinati anche a sbocchi lontani, e tornano, oltre che con le solitederrate alimentari, con i metalli ferrosi dell’Elba, delle colline metallifere,di Massa Marittima. Già semilavorati in Toscana anche con manodoperaromagnola, quei metalli sono destinati alla lavorazione finale nel bolo-gnese, che ha l’energia idraulica ed il legname necessario ed attira perso-nale specializzato nella manifattura in ferro di alta e bassa qualità, ivicomprese le forbici, i campanacci, i chiodi richiesti dall’allevamento.Porretta in particolare diventa così, per il tramite della sua pastorizia, uncentro importante per la commercializzazione di lingotti e tondini. In que-sto caso, l’universo agricolo delle pendici basse e della piana non si con-trappone alla pastorizia vagante, né prospetta forme di integrazione fra idue “mondi” rurali; viceversa contribuisce attivamente a costruirla e so-stenerla collocandola dentro un «sistema economico interregionale forte-mente integrato»3 dal quale questo territorio locale ricava una particolareconfigurazione: sulle sue porzioni ad altimetria minore l’economia pode-rale si giustappone ad una vivace attività manifatturiera alimentata dallapastorizia transumante insediata sulle porzioni ad altimetria maggiore, fi-nanziata a sua volta dall’economia poderale e manifatturiera.

3. Giacomelli, Pastorizia, transumanza e industria, p. 153.

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È una configurazione sociale e territoriale che non regge sul lungoperiodo, e che non sembra aver lasciato un’eredità importante nel Sette-cento, quando le tensioni fra pezzi di comunità distinti dalla posizione al-timetrica si ripresentano acute, e l’insediamento basso, appoggiandosi al-la politica conservazionista del senato di Bologna, cerca di sottrarre risor-se ai “comunisti” attraverso nuove bandite.4

Sul vicino imponente massiccio dei monti Sibillini, che si distendedall’ascolano a Sud al camerinese a Nord, il nesso stretto fra allevamento emanifattura aveva fondato nel Quattrocento la prosperità di centri di note-vole rilievo, ma esso sembra sciogliersi anticipatamente. Le vicende deidue versanti della montagna marchigiana sono diverse ma interconnesse.5

Sul versante adriatico il territorio di Amandola, che scende attraverso unaorografia tormentata dalla cresta della catena, a 1895 metri, fino ai 300metri dell’alta valle del Tenna, costituisce un ambiente idoneo quantoquello di Capugnano a sorvegliare gli effetti ed i contesti della risalita dellacolonia parziaria lungo le pendici. Ben avviata nel Quattrocento, quandomanifatture vivaci di berretti, calze, cuoi e ferramenta si connettono ad unapastorizia montana robusta, con risorse pascolatorie sufficienti a limitarnela mobilità a circuiti locali, la “ruralizzazione” mezzadrile avanza impetuo-samente dopo la gravissima crisi annonaria del primo ventennio del Cin-quecento e la terribile peste del 1522-23: la comunità, impoverita ed inde-bitata, concede a coltura vaste estensioni di terra comunitaria, nel mentre ilcomplesso pastorale-manifatturiero entra in una crisi irreversibile che portacon sé una importante redistribuzione della popolazione dalle quote mag-giori a quelle minori. Fino all’incirca al secondo Seicento la montagna con-serva, nello spazio economico della comunità ruralizzata, un ruolo ormaisubalterno ma importante, garantito e sorvegliato dai poteri locali. Le suerisorse, a differenza di quelle di collina, vengono privatizzate in misura piùlimitata: una parte significativa dei pascoli alti, non più fruiti dalle greggi dimedia dimensione dei pastori di montagna, serve ad un possesso animalefrantumato in greggi di non più di 20 capi che, sfuggendo al contratto mez-zadrile,6 sostengono i redditi delle aziende coloniche di valle e sono com-

4. Farolfi, L’uso e il mercimonio, passim.5. Paci, La transumanza nei Sibillini, pp. 117-124; Gobbi, Un comune dei Sibillini,

pp. 125-131; Marini, Locazione di greggi, pp. 132-139; Di Stefano, Camerino, pp. 161-169; Gobbi, Il versante adriatico, pp. 84-92; Paci, Ruralizzazione e degrado, pp. 43-58.Vedi anche il saggio riassuntivo di Mazzoni, Economia e territorio, pp. 7-28.

6. Fava, Bestiame e mezzadria, pp. 37-44.

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misurate alla disponibilità di foraggi invernali dei poderi, integrati da quellidelle quote alte raggiungibili con spostamenti brevi giornalieri o stagionali.

Il complesso pastorale-manifatturiero è così sostituito da un nessoagro-pastorale in cui, a differenza che nel caso ligure, le pratiche agricolesi svolgono nel contesto del podere e quindi nel quadro di robusti fonda-menti proprietari, ed hanno una preminenza evidente sulle altre pratiche.Ma anche questo nesso degradato è destinato a sciogliersi: nel Settecentole aziende di valle tendono a produrre al loro interno tutto il foraggio ne-cessario e di conseguenza non hanno più bisogno dei pascoli montani. Leintegrazioni verticali e le connesse pratiche multiple non scompaiono deltutto: esse si ripresentano nell’imbastardirsi e deformarsi del podere colo-nico che dà vita al “latifondo mezzadrile”, una forma aziendale promossadalla grande proprietà urbana per accrescere la rendita intensificandol’utilizzazione di risorse considerate marginali, costituita di poderi estesifino a 100 ettari che comprendono al proprio interno, a diverse altimetrie,bosco ceduo, pascolo e magri coltivi cerealicoli. Con queste forme dellaproduzione ci si affaccia al mondo ottocentesco dei “casanolanti” e dellemigrazioni stagionali che si allungano fino a diventare definitive.

La montagna sul versante adriatico perde autonomia e popolazionenei confronti delle valli e della costa, ma non resta inutile: essa viene at-tratta nel robusto circuito pastorale del versante occidentale del massic-cio. Dotati di territori che, a differenza di quelli del versante opposto,conservano ovunque una altimetria montana, e quindi di risorse pascola-torie non erodibili dalla colonìa cerealicola, e collocati al tempo stessoagli snodi di un sistema di comunicazione non parallelo alla costa, comequello odierno, ma perpendicolare alla costa stessa, Visso e Camerino sierano sviluppate nel Quattrocento su una manifattura connessa alla pasto-rizia capace di diffondere i propri prodotti, tramite il sistema delle fiere,in spazi amplissimi. Nel secondo Cinquecento la ricchezza di nessi localiche stringevano assieme i due settori si va consumando: la manifattura,come altrove, entra in crisi, ma la pastorizia tocca – secondo una crono-logia dell’allevamento ovino ampiamente diffusa nello spazio italiano – ilpunto culminante di una parabola plurisecolare: 65 mila pecore a Came-rino, quasi 50 mila a Visso. Dopo la crisi del 1590-1592 gli ovini locali siattestano su livelli assai consistenti anche se più bassi, ma intanto le logi-che del settore sono profondamente cambiate, lungo un processo avviato-si già dal primo Cinquecento. L’elemento più vistoso, forse più ancorache nell’Appennino emiliano-romagnolo, è il ribaltamento e l’allungamen-

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to della transumanza: le pecore di montagna, nel giro di alcuni decenni,lasciano la Marca costiera, sempre più colonizzata e sempre più ostile allepecore “forestiere” – a Recanati, ad esempio, il pascolo dei forestieri vie-ne semplicemente abolito nel 15657 – e transumano in inverno nei pascolicontrollati dalle dogane romane, indotti da incentivi, facilitazioni e privi-legi dei pontefici e da norme che diventano tanto più efficaci quanto piùsi va definendo e strutturando il territorio dello Stato pontificio.

Il mutamento degli spazi si intreccia inestricabilmente al mutamentodei protagonisti e delle forme di conduzione. I vecchi allevatori piccoli emedi capaci di praticare l’ambiente regionale della transumanza corta, dicontrollarne gli itinerari, di ottenere buoni pascoli di pianura, si rivelanoinadeguati alla transumanza lunga laziale ed all’intrico di poteri pubblicie privati che la dominano: evitare le ostilità delle comunità di transito e leaggressioni dei grassatori, districarsi nella macchina burocratica della do-gana, procurarsi i pascoli giusti a prezzi giusti sono obbiettivi alla portatadi soggetti più robusti, che trovano d’altronde ampi pascoli estivi sullemontagne marchigiane dei due versanti, che si vanno rapidamente svuo-tando di pecore locali. Così a Visso i profili sociali mutano in senso in-verso rispetto a quelli di Amandola: invece che frantumarsi, le greggi di-ventano decisamente più numerose sia dal punto di vista del possesso chedella conduzione. Personaggi come Ottavio Angeli e suo figlio Armenio,possessori di un gregge di 133 capi, preferiscono perdere la loro indipen-denza nella transumanza lunga, e affidano nel 1614 a soccida i loro ani-mali per 5 inverni ad un allevatore capace di condurli con successo nelLazio, il quale li assume come salariati della sua masseria di pecore retri-buiti con 10 scudi e le scarpe solite; tornati nell’ambiente familiare mon-tano, i due pastori riacquistano la loro indipendenza.8 A loro volta coloroche organizzano la transumanza lunga sommando le pecore di decine di“assorti” con “patto stucco”, e devono spesso indebitarsi ed accontentarsidi pascoli romani in subaffitto – i cosiddetti “moscetti” – si vanno distin-guendo nettamente dai “mercanti di campagna”. Proprietari di grandigreggi insediati a cavallo fra la montagna marchigiana e la pianura lazia-le, questi ultimi sono in grado di affittare grandi pascoli invernali e, alcontempo, di partecipare ai processi di privatizzazione delle risorse pa-scolatorie estive non solo sul versante tirrenico, ma anche su quello adriati-

7. Cazzola, Ovini, transumanza e lana, p. 20.8. Marini, Locazione di greggi, p. ??

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co dei Sibillini. Il futuro è dalla loro parte. I 692 proprietari di greggi diVisso del 1582 si riducono, nel 1800, a 113 per un numero di pecore nondi molto inferiore rispetto a quello di prima età moderna.9 L’allevamentoovino è sempre l’attività dominante di questi montanari, ma la loro fun-zione è ormai, quasi esclusivamente, quella di pastori salariati.

C’è un altro aspetto che, sulla base di alcuni fra questi studi, è possi-bile mettere in luce. Queste pratiche collocate in un tempo non immobile,l’attivarsi e lo sconnettersi dei nessi fra settori, il mutare degli spazi e deisoggetti, non sono il prodotto ineluttabile del macchinismo delle macro-variabili; non rispondono, in forme questa volta complesse ma pur sem-pre risultanti da una concatenazione causale semplice, all’andamento de-mografico e alle vicende della domanda di derrate: l’innovazione socialepassa attraverso una miriade di decisioni elaborate nel confronto di vo-lontà, apparati, interessi, visioni molteplici in un clima spesso acutamenteconflittuale. Se non si guarda a tutto questo, descrizione e spiegazione delmutamento rischiano di diventare irrealistiche. Basti qui un solo esempio,a nostro avviso assai eloquente, che permette di aprire la scatola nera del-la cosiddetta “ruralizzazione” e dare un’occhiata ai processi reali che mo-dificano ruoli, spazi e soggetti dell’allevamento.10

Il querceto comunitario di Folcaria, collocato nel territorio di Ripa-transone, sulla collina picena che scende verso il mare, costituisce nelprimo Cinquecento una risorsa tipica e preziosa per l’allevamento ed ilmondo che ruota attorno ad esso. Nei suoi 400 ettari a bassa densità arbo-rea (25 piante per ettaro) e con ampie radure erbose, pascolano nel 1537quasi 9000 animali, 1900 suini e per il resto ovini e caprini. In parte il be-stiame proviene dalla collina e dalla montagna vicina nell’ambito delletransumanze brevi; per il resto esso è di pertinenza di 250 famiglie locali– un quarto di quelle della comunità di Ripatransone – le quali vi portanoal pascolo animali allevati sia per l’autoconsumo che per il mercato, ingreggi a volte superiori agli 80 capi. Il querceto è sorvegliato da normesevere volte alla sua preservazione come fustaia da frutto e da pascolo:sono proibite tutte le pratiche di ceduazione, deramificazione e defolia-zione per foraggio tranne che per i bovini che lavorano le poche “prese” aridosso della “selva”, è vietata finanche la raccolta di legna morta cadutaa terra tranne per i mesi di gennaio e febbraio, quando il rischio di dan-

9. Paci, La transumanza nei Sibillini, p. 124.10. Utilizziamo qui il bel saggio di Gobbi, Dissipazione delle risorse, pp. 45-68.

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neggiare i processi vegetativi è minimo. Sono gli stessi animali a ripulireil bosco della sterpaglia e dei ricacci ai piedi degli alberi ed a permetterglidi riprodursi offrendo loro erba e ghiande.

Sembra, questo, un caso tipico di local common che la comunità pre-serva dalle “tragedie” che, secondo una tesi diventata famosa, vi incom-berebbero a causa della mancata definizione dei property rights.11 Ma leminacce nei confronti della risorsa provengono dall’interno della comuni-tà stessa. Settori consistenti della élite di Ripatransone pensano alla selvaper tutt’altri fini: ossia come cespite, da un lato, per risolvere la pesantesituazione debitoria della comunità, dall’altro per sostenere la mensa diuna agognata cattedra vescovile, che permetterebbe di conquistare per ilpiccolo centro montano la dignità di città. Si tratta di quidam divites cheprevaricano totus populus, secondo il vescovo della vicina Fermo, ordina-rio diocesano anche di Ripatransone, il quale si oppone alla scissione del-la diocesi: gruppi di nobili e di personaggi che esercitano professioni eduffici e premono perché l’innalzamento della dignità del centro innalzi laloro stessa dignità al di là di quella delle élite dei centri vicini e li proiettiin una dimensione più ampia del borgo, li inserisca in apparati e giochisovralocali. Lo scontro si trascina per decenni, e la soluzione fa tutt’unocol mutamento in senso verticistico dei soggetti e degli istituti legittimatia decidere: man mano che il centro del processo decisionale si sposta dal-la “pubblica”, cioè dall’assemblea di tutti i capifamiglia, al Consiglio Ge-nerale, che pure vede un quarto dei suoi 200 membri schierati a difesadella “selva”, all’Anzianato ed al Consiglio di Cernita, le prospettive peril querceto di Folcaria peggiorano. Nel marzo 1560, in circostanze che ladocumentazione non consente purtroppo di precisare, prevalgono infine isuoi nemici: se ne decide la distruzione e la vendita di tutto il legname.Dopo una trattativa con Venezia bloccata dal legato apostolico, il tesorie-re della Marca lo acquista in blocco e procede al taglio. Diciotto anni do-po la copertura arborea è scesa da 25 a 2 piante per ettaro, governate acapitozza e poi man mano sradicate, e la stessa la cotica erbosa non rima-ne immune: essa viene aggredita dai legnaioli che seminano per autocon-sumo e lo strascico del legname a valle vi forma canali di erosione e dila-vamento. Ovunque le pendenze lo consentano, sui 400 ettari disboscati siinsediano poderi a grano. Di conseguenza le logiche ed il circuiti dell’al-

11. Il riferimento è alla polemica attorno agli effetti delle terre comuni sulla riproduzionedelle risorse, scatenata dall’articolo famoso di Hardin, The Tragedy of Commons, in particolarepp. 1244-1245. Sulla questione cfr. la rassegna di Corona, Diritto e natura, pp. 127-161.

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levamento devono modificarsi: gli spazi degli animali della comunitàtendono a ridursi alle dimensioni dell’azienda colonica, e quelli degli ani-mali delle transumanze di ambito regionale devono allargarsi per raggiun-gere risorse pascolatorie che sostituiscano quella distrutta.

Il crescere contemporaneo dei fenomeni, all’apparenza contradditto-ri, della stabulazione da un lato e dall’altro della mobilità del bestiame,che è possibile intravedere anche nella pianura contigua,12 si fonda su de-cisioni di questa natura.

3.2. La quadrettatura dei poteri

Inutile insistere sulla varietà dei tempi e dei contesti, oltre che delleItalie agricole, di quelle pastorali. D’altro canto il caso di Ripatransone –quello cioè di un consiglio comunitativo che elabora, in una situazione diconflitto interno, decisioni capaci di incidere non solo sul ventaglio dellerisorse nella disponibilità legittima dei propri “associati”, ma su territoriagro-pastorali ben al di là della propria giurisdizione, creando le condi-zioni per conflitti fra comunità e fra diversi livelli di potere – lo troviamoriproposto, in forme diverse e di solito meno esplicite, in mille altre situa-zioni descritte dalla storiografia. Le quali ci suggeriscono di interrompereper un momento questa rassegna di casi di studio, per proporre qualche ri-flessione generalizzante e riferita all’intero spazio italiano, nel tentativodi ordinare e dar senso a questo scritto.

In larga parte delle campagne dell’Europa occidentale dei secoli delgrano, le pratiche produttive devono misurarsi anche con l’infittirsi e l’ir-robustirsi di vincoli istituzionali di forma ed efficacia assai variegata, mache si costruiscono in un processo nella sostanza simile. Il rafforzarsi in-dubbio della dimensione statale del territorio, tipico di questa fase dellavicenda europea, non si realizza disconoscendo la legittimità dei diritti di-spositivi sul suolo di altri soggetti – signorie feudali, enti ecclesiastici chela Controriforma dota a loro volta di più incisive pretese territoriali, cittàe comunità locali che si ristrutturano in senso oligarchico, privati – macercando di collocarli in una posizione gerarchicamente inferiore rispettoal potere regio: la competizione si gioca essenzialmente sull’istituto più omeno formalizzato della tutela del principe nei confronti degli altri sog-

12. Cfr. Finzi, Monsignore al suo fattore; Cattini, I contadini di San Felice.

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getti portatori di diritti legittimi. Ne derivano configurazioni complesse,plurali, a volte confuse, che emergono con evidenza ogni qual volta lastoriografia avvicina lo sguardo ai luoghi.13 Il sovrapporsi e l’intrecciarsidei diritti di disposizione sulle risorse territoriali e la folla di attori che viavanzano pretese rende lo spazio rustico oggetto di pratiche conflittuali epattizie minute, che finiscono comunque per infittire la quadrettatura isti-tuzionale del territorio. Il controllo sul suolo da parte di soggetti individu-ali e collettivi passa sempre più attraverso la conquista di un posiziona-mento idoneo nella trama dei poteri legittimi.

Le campagne italiane partecipano nel loro insieme a questi processi.La contrapposizione canonica fra contadi centro-settentrionali e campagnefeudali meridionali, riproposta di recente in un bel saggio di Elena Bram-billa, ha ovviamente fondamenta solide, ma può apparire, in questa pro-spettiva, troppo rigida.14 Dalla Liguria al Veneto alla Sardegna segnata an-cora da fenomeni di instabilità dell’insediamento, la prima età modernacomprende «il secolo d’oro delle capitolazioni rurali».15 Statuti e normepattizie accompagnano la costruzione e ricostruzione, per fissioni e, più ra-ramente, per accorpamenti, degli insediamenti, descrivono e regolamentanole risorse territoriali alla scala di villaggi anche minimi, attribuendo ai resi-denti diritti importanti sulle risorse stesse. Al di sotto di un tessuto insedia-tivo che presenta un livello di stabilizzazione e dispersione estremamentevariegato, è stato spesso possibile intravedere l’intreccio delle parentele eforme dell’azione collettiva improntate agli istituti ed ai rituali della faida.16

D’altronde i processi di istituzionalizzazione, presenti anche al livello deivillaggi e delle ville, aggiungono dimensioni ulteriori alle dialettiche socialipossibili, e le appartenenze poggiate sui gruppi primari incrociano quelleprodotte dalle appartenenze locali, vivaci in particolare dove matrimonineolocali e successioni per via femminile indeboliscono i fronti parentali edi centri si presentano compatti e radi.17 L’emergere di forme di cittadinanza

13. Rimandiamo in particolare agli studi di G. Chittolini e dei suoi allievi e di A.Torre. Straordinariamente ricco da questo punto di vista il libro di Della Misericordia, Di-venire comunità.

14. Brambilla, Terra, terreno agrario, in particolare pp. 90-91.15. Il riferimento è al titolo del par. 1, cap. VII, di Ortu, Villaggio e poteri signorili.

Fra la storiografia in merito cfr., in particolare, Raggio, Norme e pratiche, pp. 155-194.16. È questo un punto centrale in Raggio, Faide e parentele. In tutt’altro contesto e

problematica, Delille dimostra l’esistenza di «quartieri di lignaggio»: Famiglia e proprie-tà, pp. 93-98.

17. Elementi di grande interesse da questo punto di vista sono raccolti, ad esempio,

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rustica produce norme erga omnes che condizionano l’accesso alle risorselocali di famiglie ed individui alla verifica della loro residenza nel luogo,secondo regole minutamente fissate; le istanze decisionali si emancipanodall’assemblea dei capifamiglia e creano spazi per la formazione di élitelocali capaci di perpetuarsi di generazione in generazione; la legittimazionedei livelli spazialmente minimi del potere viene cercata nel loro riconosci-mento da parte di poteri a dimensione territoriale più ampia, nel loro inse-rimento “costituzionalizzato” in dialettiche politiche ed apparati che tendo-no a controllarli, ma consentono anche forme dell’agire collettivo regola-mentate e permettono l’elaborazione di rivendicazioni sostenibili in giudi-zio. La difesa delle prerogative comunitarie mobilita tradizioni robuste dicultura “alta”, che oppongono alle concezioni della universale demanialitàdel territorio del principe, soggetto come tale solo a concessioni, tempora-nee e condizionate, a favore di soggetti che dichiarino fedeltà al principestesso, una concezione del territorio come articolato fra corpi localizzatidotati di diritti all’uso delle risorse contigue non abitative. Nella logica diquesta concezione, i diritti delle comunità sono segnati da una sorta di ca-rattere originario, costituzionale, non dipendente dalla concessione sovrana,sia essa riferibile alla vicina città dominante o ad un re lontano; sono con-naturati all’esistere ed all’essere situati dei corpi che li detengono; ed anchese sono stati spesso ridimensionati e calpestati dagli accidenti della storia,riemergono negli intrichi della costituzione della terra (ad esempio nellepromiscuità), e nella continua spinta rivendicativa sugli spazi circostanti lemura. Nucleo edilizio e frangia rurale fanno tutt’uno, sono inscindibili, al-meno per coloro che sono pienamente cooptati dalla comunità perché soddi-sfano a tutte le condizioni della cittadinanza di villaggio: sono battezzati,sono membri di una famiglia ma ne sono emancipati in quanto maschi adul-ti, abitano, posseggono e lavorano nelle pertinenze del luogo. Al tempo stes-so, questi diritti sono esposti all’attacco delle volontà interne alle comunitàstesse, le quali emergono nelle loro istanze decisionali man mano più “ari-stocratizzate” e connesse spesso a gruppi, istituti, interessi “forestieri”.

Nell’Italia feudale centro-meridionale questi processi sono tardivi,contrastati, come vedremo non generalizzabili; e, purtuttavia, a loro modoevidenti. Nel Regno di Napoli tardo-medievale l’emergere, accanto allademanialità regia e feudale, di un livello di demanialità specificamente

in Pezzolo, Il forestiero nell’economia, pp. 853-859. Uno sguardo generale ricco di indi-cazioni puntuali è offerto da Tocci, La comunità in età moderna.

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“universale”, relativo cioè alle comunità di abitanti sopravvissute alleWuestungen successive alla grande crisi di metà Trecento, la conquista daparte delle università della giurisdizione baiulare, che regolamenta l’ac-cesso alle risorse della terra, ed il definirsi di una fiscalità poggiata sulleuniversità stesse, configurano una sfera di diritti reali e giurisdizionalidelle comunità riferiti ad uno spazio: quello in cui i suoi membri esercita-no diritti d’uso legittimi e che può pertanto essere rappresentato, con le li-mitazioni su cui torneremo, in numerazioni, apprezzi e catasti. Il territoriopolitico assume la forma di un mosaico di università a volte congruente, avolte del tutto difforme rispetto al mosaico delle diocesi e dei feudi,18 lequali si collocano in una gerarchia di poteri imprecisa e conflittuale. Que-sta configurazione deve misurarsi con la famosa rifeudalizzazione di pri-ma età moderna: un processo del quale non ci sembra lecito sminuire laportata, ma che ben poco ha a che fare con quello, coevo ed omonimo nellinguaggio storiografico, che investe l’Europa centro-orientale; e che co-munque non è riassumibile solo nell’accrescimento del peso della feuda-lità .19 Nel mentre i baroni, con l’aumento delle giurisdizioni godute a tito-lo feudale, assumono in un certo senso la veste di regii officiales a dannodelle universitates, i vasti “stati feudali” quattrocenteschi vengono smem-brati non solo in minuti ritagli territoriali, ma anche in singoli corpi digiurisdizione, che convivono e si intrecciano su uno stesso spazio, so-vrapponendosi alle prerogative di enti ed apparati ecclesiastici e laicisempre più robusti e penetranti, e finiscono per evocare la figura, destina-ta a trionfare nell’Ottocento, di uno spazio distinto dalla giurisdizione. Aloro volta le articolazioni periferiche dei poteri sovralocali non si presen-tano come ingranaggi di macchine piramidali governate dal vertice, ma aloro modo si immergono nell’orizzonte politico locale. Anche se conqui-stato e messo al riparo dei libri rossi e magni, l’istituto dell’universitas vaa collocarsi in una posizione ambigua nell’ordinamento del Regno, è or-mai svuotato di funzioni propriamente giurisdizionali, consente l’accessoalle risorse localizzate dei suoi cives attraverso mediazioni lunghe e com-plicate, proceduralmente indefinite; ma le opportunità per chi vi si posi-ziona non diventano inconsistenti. Il moltiplicarsi delle arene locali di di-versa dimensione spaziale dotate di risorse reali e simboliche provocadialettiche non previste dagli ordinamenti – quelle ad esempio fra capitoli

18. Visceglia, Dislocazione territoriale, pp. 31-75.19. Indicazioni importanti, da ultimo, nei saggi raccolti in Città e contado.

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ed ordinari diocesani, fra giudici e castellani, fra doganieri e percettori, fraerari e feudatari; e comunque non disarma del tutto le università nei con-fronti del feudo. Le consuetudini, la giurisprudenza e la dottrina di una lun-ga tradizione di feudismo meridionale offrono risorse che permettono amolte di esse di attestarsi con successo in particolare sui due principi dellavigenza di diritti d’uso comunitari anche sulla parte del feudo su cui il si-gnore eminente è anche utile signore, ossia sul demanio feudale, e sulla e-quiparazione dei diritti del signore eminente sul demanio universale a quel-li del comune cives, fino al punto di revocare in dubbio la legittimità dell’e-sercizio di quei diritti in caso di mancata residenza del signore stesso.20

Sulla difesa e la gestione dei demani comunitari si costruiscono e siformalizzano ceti di potere capaci di sfidare il feudatario e misurarsi conlui in giudizio. Alla “prepotenza” del signore è opponibile altra “prepo-tenza”, sostenuta da argomentazioni giuridiche portate davanti agli orga-nismi superiori napoletani, ampiamente sostenute dai margini di incertez-za delle norme. Lo stesso fondamentale concetto di uso civico, il cui eser-cizio reale dovrebbe legittimare il diritto alla risorsa, può essere vistosa-mente esteso fino a diventare difficilmente riconoscibile. Nella controver-sia che oppone nel ’600 il duca di Schiavi alla comunità di Brezza, inTerra di Lavoro, gli abitanti del centro rivendicano lo jus pasculandi sulloro territorio nonostante confessino di non avere più pecore e capre dapascere perché “poveri”: il possesso del diritto da parte loro sarebbe di-mostrato dal fatto che vi fanno pascolare animali presi a soccida, che lodanno in dote alle figlie, che lo cedono in fitto annualmente a forestieri.21

E nello Stato Pontificio le linee di fondo di questi processi non sono dissi-mili. Quei «vassalli troppo grossi» che controllano il consiglio comunita-tivo del villaggio di Manziana, nei territori dell’Ospedale romano di San-to Spirito, vanificano gli strumenti di controllo del feudatario intentando-gli, in nome della comunità, una serie interminabile di processi. Forte diquesta esperienza, l’ospedale decide di impedire che nel villaggio diMonteromano, che va sorgendo sui suoi possedimenti nel Settecento, siformi un consiglio comunitativo, ma questo non gli evita che si formino lìpure «vassalli troppo grossi» o comunque capaci di aprire fronti conflittu-

20. Cfr. la discussione su questo punto in Rendella, Tractatus de pascuis, in parti-colare pp. 165 ss. Su queste questioni cfr., fra l’altro, Cassandro, Le terre comuni; Rao, IlRegno di Napoli. Ricco di indicazioni interessanti su queste questioni il libro di BenaiteauVassalli e cittadini: vedi in particolare le pp. 114-119, 141-142, 166-169, 194 ss.

21. Lepre, Terra di Lavoro, pp. 100-101.

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ali contendendogli efficacemente il controllo delle risorse.22 D’altro can-to, una volta strutturatesi, queste élite di villaggio possono giocare a tuttocampo, trovare alleanze col feudatario o con élite di altri centri o attacca-re i diritti comunitari a nome delle comunità stesse che rappresentano.

Tutto questo configura partite aperte, di esito incerto. Non si tratta, co-me tende a suggerire una storiografia oggi assai rilevante che si richiama apezzi della grande tradizione storico-giuridica tedesca, di universi norma-tivi compatti, prodotti da culture politiche premoderne in cui tutti gli attorisociali sono immersi. La demanialità comunitaria, piuttosto che ambito del-la compensazione delle disuguaglianze del possesso, della pacificazione,della definizione di identità locali, diventa spesso il terreno di elezione diconflitti che non riescono a trovare soluzione consensuale, si svolgano essiall’interno delle comunità, fra comunità, fra poteri di diversa collocazionegerarchica. Legittimità difficilmente conciliabili, pratiche legittimate da op-poste consuetudini che rivendicano vigenza ab immemorabili, differenzestatutarie e consuetudinarie fra luoghi anche contigui alimentano quellaclassificazione incerta dei suoli su cui avrebbero ironizzato a fine Settecen-to i sostenitori della proprietà perfetta: «nel generale modo di parlare – scri-ve nel 1791 Gregorio Lamanna – le voci fondo, territorio, difesa, terreno,possessione si usurpano promiscuamente»; e Giuseppe Maria Galanti: «noiabbiamo tante proprietà, tanti diritti diversi, tanti vocaboli equivoci ches’impiegano a denotarli, che avremmo bisogno di un dizionario che ce li fa-cesse conoscere distintamente».23 L’assenza di questo dizionario ed il reci-proco “usurparsi” delle parole sono in intima relazione con il reciprocousurparsi di diritti reali da parte di coloro che, sulla base di norme in com-petizione, possono vantarne la titolarità. L’ingorgo normativo contribuiscea rendere difficile o comunque provvisoria la risoluzione dei conflitti sulpiano giuridico-istituzionale; l’eccesso di formalizzazione rende incomben-te il pericolo della deformalizzazione della dialettica sociale. Di conseguen-za la violenza torna a presentarsi come uno strumento normale di regola-zione del conflitto, il suo uso controllato realizza situazioni di fatto – usi ri-petuti del suolo, occupazioni, recinzioni, costruzioni rustiche – che la dot-trina, la giurisprudenza, spesso le norme stesse, trattano come una fonte deldiritto: l’«essere in possessione» rende effettiva la norma che legittima unapretesa, o entra efficacemente in concorrenza con la norma che la esclude.

22. Ago, Un feudo esemplare, p. ??23. Entrambi citati in Corona, Demani, rispettivamente alle pp. 42-43 e 45.

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3.3. Spazi dell’allevamento, spazi dei poteri

Le diverse pratiche della produzione rustica attivano il vocabolario deisuoli e ne provocano la “promiscua usurpazione” in misura assai differen-ziata. La famosa “armonia sociale” delle situazioni in cui l’allevamento sisedentarizza e si integra nell’azienda mezzadrile va riferita anche alla rela-tiva emarginazione di quanti lo praticano dal circuito delle risorse su cui siconcentrano pretese multiple. La stessa vagatio pastorale trova a volte for-me e sistemazioni che riducono le aree del contendere: nel villaggio rusticodiventato canonico nell’immaginario europeo, quello che trova riscontrifattuali soprattutto nella pianura francese nord-orientale, le greggi, compo-ste dagli animali di ciascun ménage affidati di prima mattina al pastore co-munitario, si muovono in buona parte all’interno del territorio di pertinenzadella comunità stessa, secondo ritmi coordinati con le aperture e le chiusuredei campi; a volte sono condotte, dentro accordi di reciprocità, fino al fina-ge del troisième clocher, per poi rientrare nelle proprie aie a sera.24

In particolare sulla collina e sulla bassa montagna italiana non manca-no, come si è visto, territori facenti capo a comunità singole che, distribuitisu altimetrie fortemente differenziate, offrono al loro interno l’intero arcodelle risorse necessarie al pascolo brado: ad esempio la comunaglia dellavilla ligure di Reppia, collocata nell’entroterra di Chiavari in posizione in-termedia fra la fascia costiera olivetata e la montagna, consente di realizza-re al suo interno il pascolo estivo, la raccolta del letame, la stabulazione in-vernale alimentata con fieno e frasche secche.25 Ma quella di Reppia è unaposizione in bilico. Essa deve difendere strenuamente questi equilibri deli-cati dalle forme di vagatio che premono sui confini della sua giurisdizionee che, avendo, come nella gran parte della penisola, dimensioni territorialiincongrue rispetto al territorio politico ed alla trama dei poteri, impongonoun continuo attraversamento di spazi economici e giurisdizionali. Accordidi reciprocità fra centri dotati di risorse pascolatorie in qualche misuracomplementari tendono a compensare queste sconnessioni sovrapponendo,alla trama comunitaria, un’altra geometria territoriale a maglie più larghe,dimensionata sugli spazi dell’allevamento. A volte questa geometria finisceper collocarsi a cavallo dei confini statali: per restare ai casi documentati daRaggio per la Liguria, la villa di Boissano si lega alla comunità sabauda di

24. Cfr. ora l’efficace volume riassuntivo delle ricerche più recenti di Moriceau,L’élevage, in particolare le pp. 137 ss.

25. Raggio, Norme e pratiche, pp. 163-164.

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Murialdo per realizzare percorsi di transumanza controllati; i pecorai ed icaprai di Santa Margherita, che pascolano d’inverno fra gli oliveti e fannonegozio di letame con gli orticoltori e gli agrumicoltori forestieri, si accor-dano per le erbe estive anche “fuori dominio”; le pecore di Rapallo salgonod’estate verso i feudi imperiali, in Val d’Alto e in Val di Trebbia, che d’in-verno mandano a loro volta animali verso la costa.26 Ma quella degli accor-di di reciprocità, quando riesce a realizzarsi, è una territorialità debole, dilegittimità incerta e comunque minore rispetto a quella delle giurisdizionicomunitarie, che continuano ovviamente a costituire il quadro normativoed istituzionale delle pretese di altri produttori rustici portatori di interessiopposti. Così la titolarità delle decisioni sulle risorse pascolatorie si fram-menta, ed impone agli allevatori, al fine di rendere praticabili gli spazi dellaloro vagatio, di costruire mediazioni, compromessi, alleanze settoriali conmolti decisori spesso fra loro concorrenti. E di impegnarsi in conflitti chediventano connaturati a queste pratiche, si banalizzano inserendosi nellaquotidianità del mestiere dell’allevamento.

Oltre ad avere ben poco a che vedere con le immagini che connetto-no nomadismo pastorale e natura non mediata, vagatio e violenza istin-tuale, ed a fuoriuscire assai spesso dai modelli della faida, molti di questiconflitti rispondono in maniera imprecisa al modello blochiano che con-trappone, dentro le singole comunità, “comunisti” ed “usurpatori”, e chetraccia un secolare ed ineluttabile percorso verso l’individualismo agrariodispiegato. Anche quando il fronte principale corre all’interno delle co-munità, lo scontro fuoriesce assai spesso dal mondo claustrofobico delvillaggio, coinvolge e riguarda altri soggetti ed altri poteri che fanno rife-rimento a spazi di diversa collocazione e dimensione. Nei comuni ruralidella Contea di Valmareno, un feudo dell’alta collina ai margini nord-o-rientali della provincia di Treviso, i conflitti interni sulla stesura e sull’ap-plicazione degli ordini – ossia le norme annuali che interpretano e preci-sano i contenuti degli statuti – riguardano in larga parte il dilemma fra lacessione in fitto al maggiore offerente o la gestione diretta dei boschi eprati comunali, che si intreccia all’altro dilemma, quello riguardante l’e-sclusione o l’ammissione delle bestie forestiere;27 a Granaglione, sullamontagna bolognese, agnelli e pecore forestiere evitano il pagamento del-la fida alla comunità con l’appoggio degli abitanti delle bandite;28 a Ga-

26. Ibidem, passim.27. Gasparini, Il territorio conteso, p. ??28. Farolfi, L’uso e il mercimonio, pp. 15 ss.

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vardo, capoluogo di una delle federazioni di comuni del contado di Bre-scia (le quadre), una “longissima disputazione” oppone, a metà Cinquecen-to, il Consiglio dei Quaranta, controllato dai notabili che vogliono impedirealle pecore montane svernanti in pianura di restare nel territorio comunaleper più di 24 ore, e la Vicinia Grande, che comprende massari e piccoliproprietari interessati alle occasioni di reddito integrativo ricavabili dallepecore forestiere;29 a Ventimiglia, nel 1575, per far spazio ai forestieri ac-quirenti di erbaggi, occorre limitare drasticamente i diritti locali, imponen-do ad ogni capo-casa della città e delle sue ville di tenere al massimo duepecore ed impedendo loro di conferirle, insieme a quelle degli altri abitanti,in un gregge comunitario.30 È un elenco che può essere allungato a piacere,a testimonianza della spazialità complessa disegnata dai conflitti, che èconnessa alla spazialità “irregolare” dell’allevamento ed è viceversa incon-gruente con la quadrettatura istituzionale dei luoghi elementari.

Tanto più in quanto molte di queste vicende diventano incomprensi-bili se non si tiene conto della presenza di un altro attore: il potere statale,con le sue impellenti esigenze fiscali, le sue pretese di mettere sotto tutelale comunità e, al tempo stesso, l’incertezza e complessiva debolezza deisuoi tentativi di dettare norme a salvaguardia di risorse di interesse strate-gico. Nel mentre cresce la domanda solvibile di erbaggi da parte di alle-vatori vaganti a causa dell’espansione dei campi a grano e dell’allunga-mento delle transumanze, in pratica l’intero universo delle comunità loca-li vede ingigantirsi il suo indebitamento verso il fisco. In assenza di misu-re centralistiche incisive come, ad esempio, quelle forestali francesi,31 chesequestrano parti cospicue delle risorse pascolatorie delle comunità so-pravvissute alla espansione dei coltivi, la soluzione che troviamo replica-ta ovunque è quella di monetarizzare i diritti territoriali, di soddisfare cioèla domanda pastorale vendendo gli erbaggi comunitari. Poggiando sullasolidità e, al tempo stesso sulla ambiguità delle relazioni fra comunità esuolo, i “galli di villaggio” trasformano ampie risorse possedute dallecomunità stesse a titolo demaniale, ossia come un fascio di diritti d’uso

29. Berengo, Introduzione, in particolare pp. XXII-XXIII.30. Raggio, Norme e pratiche, p. 169.31. Il riferimento è alla grande riforma forestale dell’editto di Saint-Germaine en Laye

dell’agosto 1669 che mette sotto controllo i boschi regi, ecclesiastici e comunitari a favoredella marina e del combustibile industriale e domestico, sottraendoli al pascolo comunitario.Non più prolungamento del finage, non più inserito nello spazio rurale, il bosco francese di-venta un universo specifico. Cfr. Corvol, L’homme et l’arbre, in particolare p. 41.

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intrinseci a ciascuna delle famiglie residenti, in risorse possedute a titolopatrimoniale, ossia liberamente disponibili da chi rappresenta legittima-mente i cives rustici. Gli erbaggi vengono ceduti in fitto ad allevatori chepretendono di usarli in forma esclusiva e a fini di mercimonio; a volte sigiunge a vendere la disponibilità di un pilastro basilare del comunitari-smo rurale, le stoppie e le erbe delle terre a riposo.32 In questo modo daun lato è possibile far fronte ai pesi fiscali evitando imposte sui possiden-ti, dall’altro si concentra il controllo delle risorse comunitarie nelle manidi chi controlla le istituzioni locali.33 Il prezzo è un incremento di tensionisu fronti conflittuali complicati ed instabili: non solo occorre risponderealle proteste dei “comunisti” che si vedono impediti nei propri diritti d’u-so dagli affittatori degli erbaggi agenti sotto la protezione della comunitàufficiale, ma si deve impedire che gli “usurpatori” riducano eccessiva-mente le risorse comuni da mettere sul mercato; e, dato che gli “usurpato-ri” siedono spesso negli organismi decisionali ma possono anche essere“poveri”, ed i “comunisti” sono a volte grossi allevatori che scelgono ladifesa degli usi civici come strategia alternativa a quella dell’“appadrona-mento” per controllare di fatto le risorse, le posizioni e le alleanze si in-trecciano, si rovesciano, si rinnovano secondo schemi non previsti dalledispute storiografiche classiche sull’emergere del capitalismo agrario.34

L’immensa casistica dei conflitti in cui il fronte principale si collocaal di fuori della comunità non fa riferimento a fenomeni di tipo qualitati-vamente diverso, alle antropologie elementari delle rivalità strapaesane,ma al situarsi di queste stesse tensioni in contesti in cui le risorse pascola-torie di centri vicini non consentono reciprocità o sono soggette a promi-scuità, e la questione del controllo su di esse si intreccia a quella della po-sizione gerarchica di un centro rispetto ad un altro, di un potere nei con-fronti di un altro potere concorrente. Di conseguenza qui pure la simme-tria fra i contendenti è disturbata da altri attori, e le geometrie del conflit-to di complicano. Il conflitto, acutizzatosi nel 1625, che coinvolge il bor-go di San Fele, pienamente inserito nello “stato” dei principi di Melfi, edAtella, centro su cui vantano diritti sia il Doria che il duca di Atella, non

32. Ad esempio nella parte orientale della contea di Nizza (Costamagna, Aspects etproblèmes, pp. 533-534), o in Sardegna (Ortu, La transumanza, pp. 821-838).

33. Cfr., ad esempio, Palmero, Comunità, creditori, pp. 739-757.34. Casi di grande interesse abbondano nei già citati lavori di Galasso, Economia e

società (in particolare la disputa sul territorio di Strongoli nel secondo Cinquecento, pp.195-196), Caffiero, L’erba dei poveri e Corona, Demani.

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vede di fronte le due comunità: gruppi di contadini di San Fele, ben di-sposti a pagare il terraggio al loro principe per poter coltivare, devono af-frontare il Duca di Atella, che ha diritto di disporre delle terre rimaste in-colte e di venderne le erbe ai forestieri, e cerca di impedire in ogni modola messa a coltura, in particolare “imprigionando” i buoi aratori dei sanfe-lesi. In attesa che la disputa abbia una qualche soluzione presso i tribuna-li, questi ultimi mettono in atto il “possesso” del territorio conteso «perforza d’arme», e sollecitano la discesa in campo a loro fianco del propriofeudatario che, sostengono, in caso di scioglimento della promiscuità ver-rebbe a perdere non solo «la comodità del pascolo», ma anche «la iurisdi-zione … terraggi et esazzione de ponti de due fiere».35 In altri casi, adesempio quello delle secolari contese sulle promiscuità di uso che oppon-gono fra loro vari centri del sud-est barese, è possibile documentare, fral’agitarsi di bracciali e massari, boscaioli e carbonari, cacciatori e pastori,l’agire di ufficiali napoletani che non si limitano a registrare e solennizza-re passivamente il punto di mediazione raggiunto dai contendenti locali,ma mettono pesantemente in campo strategie connesse ai loro ruoli istitu-zionali o derivanti dai loro nessi con i notabili ed i baroni locali: intrecci egeometrie irregolari che occorre individuare caso per caso.36

Da questi conflitti che quasi sempre trovano soluzioni solo provviso-rie, emergono spesso nuovi minuti ritagli giurisdizionali forieri di ulterio-re conflittualità; e comunque essi producono un massiccio sforzo di cono-scenza, definizione e raffigurazione dei luoghi su domanda dei conten-denti, dei mediatori, dei tribunali, delle comunità. Ma questi saperi e rap-presentazioni dello spazio umano si stratificano e si organizzano in formediverse a seconda della posizione che si assume nell’universo dei poteri.Visto dal centro, il territorio va configurandosi come un insieme di co-munità che i poteri intermedi non separano più completamente dal sovra-no, dotate di dimensione demografica, rango onorifico, libertà e privilegi,collocazione geografica conosciute; d’altro canto le risorse territoriali dicui esse godono hanno collocazione geografica incerta, non sono diretta-mente conosciute e registrate dalle magistrature centrali nonostante que-ste abbiano spesso un ruolo importante nel determinarne i confini. Glistessi catasti, che fissano l’ammontare delle risorse, ne definiscono la po-sizione nello spazio in termini grossolani, dal momento che l’età della re-

35. Zotta, Rapporti di produzione, p. 259 e nota.36. Spagnoletti, Ufficiali, feudatari e notabili, pp. 231-261. Vedi anche, dello stesso

autore, Il governo del feudo, pp. 61-80.

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gistrazione geometrico-particellare, tranne le eccezioni sabauda e teresia-na, rimarrà fino alla fine dell’età moderna di là da venire.

In periferia il territorio tende viceversa ad essere conosciuto e rappre-sentato su un piano topografico. Esso è fatto oggetto di saperi che non ri-guardano solo gli utilizzatori delle risorse ed i luoghi in cui sono colloca-te, ma sono diffusi nelle comunità e si riferiscono all’intero spazio su cuiqueste hanno o pretendono di avere diritti legittimi. Si tratta di saperi chesi costruiscono a partire dai confini. Quanto più questi ultimi sono ogget-to di conflitto, tanto più sono conosciuti, pensati, producono identità, me-morie, documentazione, manufatti: i luoghi si infittiscono di limiti, sianoessi ostacoli naturali tradotti in ostacoli politici, costruzioni o simboli –«le pietre poste in maniera che significhino distinzione», i «segni di crocenegli alberi o nelle pietre», gli «albori selvaggi ed infruttuosi lasciati cre-scere».37 Collocati assai spesso in occasione dell’arrivo «sopra la facciadel luogo» degli ufficiali del principe inviati quando i conflitti si acutiz-zano, essi sono il risultato di minute e prolungate negoziazioni fra le partiaventi causa, e generano conoscenze espresse in unità di misura e con unvocabolario agronomico-botanico, sociale, normativo-consuetudinario es-senzialmente locali, registrate in una documentazione prodotta e custoditalocalmente; in particolare, e sempre più di frequente, in una cartografiache dovrebbe riscontrare e legittimare i limiti infissi sul suolo per evitarnela manipolazione, redatta nella forma del documento opponibile in giudi-zio ma, al tempo stesso, leggibile da una parte ampia degli attori.38

Sia l’intrico dei segni sul suolo sia la loro riproduzione sulla carta ten-tano di immettere elementi di certezza, di interpretabilità immediata, equindi di durata, nelle soluzioni compromissorie raggiunte, traducendo nellinguaggio semplice della planimetria il linguaggio complesso degli usi,delle reciprocità, delle promiscuità, delle giurisdizioni. L’operazione, in-timamente contraddittoria, induce a compromessi comunicativi che hannoa che fare non solo con le culture di tavolari, compassatori, esperti di cam-pagna e dei loro committenti, ma anche con la difficoltà dei compiti e degliobbiettivi a loro assegnati. Nelle carte la scrittura accompagna e si introdu-ce nelle geometrie a due dimensioni, le proporzioni non vengono rispettate,la rappresentazione dello spazio fisico è sovrastata dalla rappresentazione

37. Pecori, Del privato governo, pp. 300-301.38. Su queste figure e sulla loro cartografia cfr. Il disegno del Territorio. Si veda,

sulla produzione cartografica locale, il saggio classico di Grendi, La pratica dei confini,pp. 811-845.

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dello spazio giuridico: nell’ambiente dell’oliveto di Terra d’Otranto, il«passaturo di bestiame dal quale passa Tagliavente per andare a pascolarenelle chiuse del castello» può assumere una enorme evidenza cartografi-ca,39 al fine di rendere “pacifico” il “possesso” di un uso controverso. Leprocedure di natura negoziale che conducono alla marcatura dei confini, ladebole costrittività delle norme che li legittimano, l’incertezza delle attesta-zioni fondano una topografia densa ma a definizione relativamente incerta,in cui molti giochi rimangono possibili, molti itinerari dell’allevamento va-gante possono essere provati. Ma a costo di un continuo misurarsi con leragioni di una folla di attori sociali ed istituzionali sparsi sul territorio,spesso in reciproca competizione.

La produzione animale vive in contesti in cui una scelta d’impresa è, altempo stesso, scelta di un ambito spaziale di reperimento delle risorse, diun insieme di sfere giurisdizionali di riferimento e di un insieme di fronticonflittuali. Nella quotidianità di queste pratiche, i saperi botanici, agrono-mici, zootecnici devono essere soccorsi da robusti saperi territoriali e giuri-dici: la «sapiente disinvoltura» con cui questi rustici si muovono fra arbitrie tribunali40 è condizione indispensabile per continuare ad estrarre redditodall’allevamento nei tempi del trionfo del grano e della territorialità minu-tamente istituzionalizzata.

39. Faccio riferimento alla «Pianta delle chiuse d’olive» di Francavilla del 1734 ri-portata in Studi sulla formazione del paesaggio, p. 28.

40. Gasparini, Il territorio conteso, p. ?

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4. Fra “vaghi scacchieri” e “armoniche proporzioni”:fare pastorizia sotto la Dogana di Foggia

4.1. La grande transumanza a istituzionalizzazione debole: il caso sardo

In alcuni casi le pratiche dell’allevamento danno vita a dialetticheterritoriali nettamente diverse da quelle passate in rassegna in precedenza.La produzione animale non si presenta solo come elemento di complica-zione, attivazione, mutamento della quadrettatura minuta dei poteri, mapuò disegnare prepotentemente spazi propri, forme nettamente connotatedi territorializzazione. Dotati di livelli diversi di istituzionalizzazione,questi territori pastorali emergono in zone in cui la trama dei poteri co-munitari è debole, ed il loro strutturarsi provoca un indebolimento ulterio-re delle comunità rurali a vantaggio di comunità di allevatori collocateall’esterno degli spazi pastorali istituzionalizzati. Il fenomeno mediterra-neo delle transumanze inverse, che permettono a robusti borghi di mediamontagna di produrre in particolare lana fine utilizzando stagionalmente,con la mediazione del principe, grandi pianure malariche e debolmentepopolate, è ben presente in Italia. Risalenti a tempi spesso remoti e condi-zionate dall’ambiente fisico in maniera più o meno stringente, le transu-manze italiane giungono tutte al loro culmine nella prima età moderna,cioè in coincidenza con la fase più incisiva della costruzione del territorioagricolo e politico; ed ovunque drammatizzano tensioni e conflitti.

Transumanze italiane di dimensioni consistenti e caratterizzate da li-velli vari di istituzionalizzazione sono sparse per la penisola – dall’arcoalpino fino alla Calabria della Sila e del Crotonese, dove, ai primi del Sei-cento, si giunse quasi a formalizzare una «solennissima Dohana».1 Anche

1. Cit. in Galasso, Economia e società, pp. 166-167. Come scrive Bevilacqua, lo statod’incertezza giuridica che caratterizzava quelle terre «dominate da usurpazioni, specie baro-

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a ridosso delle tre dogane “solennissime” sulle quali dovremo tornare, enonostante le pretese di monopolio sull’allevamento delle pecore da lanafine che esse spesso ed in vario modo avanzano, prosperano sistemi spe-ciali di allevamento mobile. Tenendo conto anche degli animali stanziali,ovviamente in netta minoranza, nei pascoli dello Stato Pontificio nel1830, quando da qualche anno era stato abolito il regime della Dogana, sistimavano circa 2 milioni di capi ovini originari dello Stato o condotti intransumanza dagli Stati vicini,2 di cui, a dar fede al De Cupis, solo un ter-zo, o poco meno, svernavano nell’Agro romano. Nella Toscana napoleo-nica, gli ovini allevati nei tre Dipartimenti di Arno, Ombrone e Mediter-raneo sarebbero stati all’incirca un milione e 300 mila, compresi gli a-gnelli, cioè almeno quattro volte il numero degli ovini numerati in Doga-na un quarantennio prima.3 Nel Regno di Napoli alla fine del Settecento,secondo Galanti, circa un milione di capi pascolano al di fuori della gran-de Dogana di Foggia, a fronte del milione e cinquecentomila iscritti inmedia a quest’ultima. Una parte di questi animali sono in realtà inquadra-ti nelle “doganelle”, che hanno giurisdizione su transumanze di distanzabreve, quelle “verticali” tra fondo valle e monte, e sono in vario modoconnesse alla grande istituzione foggiana. Oltre alle Doganelle d’Abruz-zo, che utilizzano i pascoli costieri del Teramano e dell’Abruzzo citeriore,4

va ricordata almeno la Doganella delle quattro province, o delle “pecorerimaste”, che restano cioè anche d’inverno nei pascoli di Terra di Lavoro,Contado di Molise, Principato Ultra e nelle aree collinari e montane dellaCapitanata.5 I “locati” soggetti a questa “doganella” si sottraggono all’ob-bligo di far transumare le loro pecore – ben 350 mila in piena età moderna– nelle terre soggette alla Dogana di Foggia, fissato dalla prammatica difondazione dell’istituzione foggiana (1447) per tutti i proprietari di almeno

nali, e che rendeva ardua l’istituzione di un regime di servitù pubbliche» come quelle della Do-gana di Foggia, fece vanificare l’iniziativa (La transumanza in Calabria, p. 860). Tra la Sila e ilCrotonese ancora a metà Ottocento si muovevano circa 15.000 bovini e 150.000 ovini.

2. De Cupis, Le vicende dell’agricoltura, p. 364.3. Pazzagli, L’agricoltura toscana, pp. 269-271.4. Si utilizzavano pascoli demaniali, senza «l’assegnazione ai singoli locati di un ter-

ritorio … ben individuato», e terre di privati (pascoli a “stucco” o “Regi Stucchi”) suiquali la Doganella aveva acquistato lo ius pascendi che girava ai locati in ambiti ben de-limitati (cfr. Pierucci, Le Doganelle d’Abruzzo, pp. 893-908). Sono anch’esse «pecore ri-maste», ma più propriamente si chiamano «pagliarole, giacchè quantunque non calino inPuglia si muovono dalle loro patrie» (Di Stefano, La ragion pastorale, II, cap. XXIX).

5. Sulla Doganella delle quattro province cfr. Cirillo, Nascita e gestione, pp. 1-27.

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20 animali di razza “gentile”, pagando la metà della “fida” ordinaria, e ri-cevono in compenso una parte di ciò che spetta ai “locati” a pieno titolo:non pascoli invernali ma solo «la rata del sale, franchigie, essentioni e tuttele altre prerogative che godono i locati di essa Dogana».6

Particolarmente rilevante e, al tempo stesso, particolarmente ambi-guo, è il caso della transumanza sarda, che connette soprattutto le comu-nità a corona del massiccio del Gennargentu alle piane ed ai litorali meri-dionali. Qui la contraddizione fra circuiti ampi della vagatio e quadretta-tura stretta delle istituzioni viene superata dalla pastorizia tramite una ra-dicale costruzione e ricostruzione dei propri spazi politici ed economici.7

Ancora oggi – nel 1987 i capi allevati nell’isola, erano circa 3 milioni,contro i 900 mila stimati nel 1771 – essa è un agente fondamentale, dellaconfigurazione territoriale dell’isola, tanto da diventare uno dei terreniclassici dell’etnografia italiana. Inutile dire che la tendenza ad eternizzarele configurazioni osservate, propria di un certo sguardo etnografico, è deltutto fuorviante. La transumanza sarda si sviluppa senza «un corpus legi-slativo organico che la regolamenti e controlli … ma questo non significache essa sia del tutto priva di riferimenti istituzionali e normativi».8 Unquadro di riferimenti normativi è costituito dallo stesso principe chestruttura la Dogana della Mena delle Pecore di Foggia – Alfonso V il Ma-gnanimo – nello stesso anno in cui viene istituita l’istituzione doganalepugliese, il 1447; e poi dalla successiva “prammatica” del viceré DeMendoça nel 1488.9 A differenza che per la Puglia, il sovrano non disci-plina in istituti pubblici i movimenti delle greggi, non acquisisce al patri-monio pubblico i percorsi della transumanza né monopolizza i diritti dipascolo; egli si limita a tutelare il libero movimento delle greggi e dei pa-stori ordinando semplicemente ai titolari di diritti sul suolo di consentireil libero movimento dei vassalli. L’approvvigionamento delle erbe dove-va così avvenire attraverso rapporti contrattuali dei proprietari di armenticon i possessori di erbaggi. Ma, data la configurazione delle forze in cam-po, questi riferimenti istituzionali incentivano una dissimmetria di poterie di capacità di controllo sul suolo già ben presente in questi ambienti.

La transumanza sarda realizza compromessi e forme di convivenza

6. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 355.7. Il rimando ovvio sulla transumanza sarda è ai lavori di Ortu: cfr., fra gli altri, La

transumanza, pp. 653-685; Il paese sul crinale.8. Ortu, La transumanza, p. 824.9. Ibidem, p. 825.

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relativamente stabili con la trama dei poteri feudali: incapaci di contener-ne i movimenti dentro la dimensione delle proprie giurisdizioni, i feudata-ri accettano man mano di stringere con i pastori mobili rapporti di naturacontrattuale, più lucrosi di quelli intrisi di norme, vincoli e reciprocitàrealizzabili con gli stanziali, cedendo loro diritti sul demanio in cambio dimoneta e prodotti. Viceversa questa transumanza si presenta aggressivanei confronti di una trama dell’insediamento rurale già di per sé debole epoco stabilizzata. Lungo gli itinerari e nelle aree del pascolo invernale, lepecore forestiere minacciano il bidazzone, ossia il demanio universale chefonda e giustifica l’esistenza istituzionale della comunità stessa, ed espon-gono i villaggi alla catastrofe della scomparsa. Una volta desertificate, am-pie aree costiere vengono lentamente ripopolate man mano che i pastoribarbaricini regolarizzano ed allungano il soggiorno invernale, affiancanoalla pastorizia mobile usi delle risorse di tipo agro-pastorale e stanziale, erealizzano quel continuo travaso demografico dal centro dell’isola verso isuoi margini che ne caratterizza la vicenda di lungo periodo.

4.2. La grande transumanza istituzionalizzata

Lungi dal riassumere in sé i molti mondi dell’allevamento transu-mante, le tre grandi transumanze istituzionalizzate italiane10 – quelle chefanno capo ai pascoli invernali senesi, romani e pugliesi – hanno comun-que finito per calamitare, in misura quasi esclusiva, l’attenzione dei con-temporanei e degli studiosi dei secoli successivi. La potenza della struttu-ra amministrativa con la sua strabocchevole produzione di carte, moltedelle quali ancora diligentemente conservate, l’interesse fiscale dello Sta-to, il primato della lana quale materia prima tessile per eccellenza, spie-gano il dato. E gli effetti che tutto questo produce sulla trama dei poteri ciinduce a riprendere l’argomento.

Come le altre transumanze, anche quelle romana, toscana e pugliese,

10. Un efficace articolo riassuntivo, con ampi riferimenti bibliografici, è quello di Del-l’Omodarme, Le Dogane, pp. 259-303. Uno sguardo comparativo mediterraneo è propostoda Russo in Dogane e pastorizie, pp. 101-124. Fra gli studi recenti sui singoli sistemi doga-nali si veda in particolare Maire Viguer, Les pâturages; Barsanti, Allevamento e transuman-za; Marcaccini, Calzolai, I percorsi della transumanza; Marino, L’economia pastorale. Divari pregevoli lavori sulla transumanza abruzzese in Puglia è autore Piccioni: cfr. di questoautore lo sguardo d’insieme proposto in La grande pastorizia transumante, pp. 195-229.

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da un lato, devono misurarsi con la trama dell’insediamento e dei poteri lo-cali e feudali soprattutto negli ambienti collinari attraversati nelle discese enelle risalite; dall’altro presuppongono ed alimentano la debolezza dell’in-sediamento e dei poteri localizzati nelle piane. Ma esse, al contrario diquella sarda, si situano in quadri insediativi generali che, dopo la grandecrisi di metà Trecento, si presentano relativamente stabilizzati. Anche perquesto le tensioni potenzialmente esplosive fra gli imponenti flussi di uo-mini ed animali avidi di risorse, ed i soggetti sociali ed istituzionali stan-ziati sul territorio, titolari di diritti legittimi sugli spazi attraversati e sfrut-tati per il pascolo invernale, vengono sorvegliate e controllate da grandimacchine amministrative facenti capo direttamente ai poteri centrali. Ledogane si strutturano nel corso del Quattrocento come apparati di una fi-scalità primitiva ma efficace: invece di prelevare risorse dalle comunità in-ducendole a vendere i loro erbaggi demaniali, come avviene nei territori“normali” di età moderna, gli stati si procurano tramite le dogane gettitomonetario vendendo risorse pascolatorie di diretta pertinenza del principe omediate dal principe stesso. Intere comunità di pastori transumanti diventa-no acquirenti più o meno coatte di quegli erbaggi, a prezzi che vanno com-misurati non solo alla quantità e qualità del pascolo ricevuto, ma anche aiprivilegi e protezioni pubbliche che dovrebbero rendere gli erbaggi effetti-vamente e pacificamente fruibili, mettendoli al riparo dalle pretese concor-renti dei soggetti singoli e collettivi insediati sui loro percorsi.

Man mano che i flussi pastorali si irrobustiscono e confliggono conspinte sempre più forti ad un uso agricolo delle risorse ed a forme più“normali” di territorializzazione, aumenta una domanda di conoscenza,definizione e rappresentazione del territorio che, a differenza di quellaprodotta dai conflitti della piccola vagatio pastorale fra le maglie strettedelle giurisdizioni, non è soddisfatta con strumenti espressivi locali e nonproduce una documentazione destinata ad essere custodita ed usata lo-calmente. I territori doganali sono classificati, rappresentati, misurati tra-mite un vocabolario agronomico, sociale, normativo del tutto particolare,omogeneo per l’intero spazio doganale ma inapplicabile altrove, che ri-sulta dall’incontro fra quello dei molti e diversi luoghi investiti dalle tran-sumanze e quello degli apparati centrali. Ne deriva una colossale docu-mentazione custodita ed adoperata da organismi statali nel tentativo didare forma ed organizzazione a territori vasti, preziosi sotto il profilo fi-scale e soggetti a pretese cetuali multiple, capaci di influire sui processidecisionali. I pastori delle grandi transumanze devono muoversi dentro

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questi spazi speciali, nei quali le opportunità e le scelte imprenditoriali ele relazioni sociali subiscono un pesantissimo e particolarissimo condi-zionamento istituzionale. E quindi danno vita a pratiche che incorporanoanche in questo caso, accanto ai saperi zootecnici, un ampio e minuto sa-per fare in apparati, giurisdizioni, territori.

Avventurarsi a proporre una tipologia o cercare di decifrare le logichedi queste pratiche significa entrare, insieme ai pastori, nel mondo straordi-nariamente complesso e mutevole nel tempo dei singoli istituti doganali:un’operazione qui fuori luogo e che, del resto, lo stato degli studi non sem-pre consente. Basterà in questa sede qualche cenno, in particolar modo allaDogana foggiana, quella di gran lunga maggiore sotto il profilo della quan-tità dei flussi di animali organizzati e dei beni messi in circolazione, dellasuperficie interessata dal monopolio pubblico dei diritti di pascolo, dellaconcentrazione dei percorsi, della produzione di immagini diffuse e rifles-sioni dotte, della quantità di risorse incanalate nel fisco regio, del livello diistituzionalizzazione; e, al tempo stesso, quella più studiata.

Qualche cifra per suggerire i rispettivi ordini di grandezza. A metàSettecento, nelle Maremma senese e grossetana organizzata nella Doganadei Paschi del Granducato di Toscana, si calcolano 110 mila ettari di er-baggi demaniali, mentre nella Dogana di Foggia – tra Capitanata, alta Ba-silicata e il nord della provincia di Terra di Bari – ai 221 mila ettari di pa-scoli di pertinenza esclusiva della Regia Corte si aggiungono i pascoli pri-vati ma amministrati dalla istituzione, oltre alle terre a semina nell’anno diriposo e, fino a metà gennaio, quelle a maggese, soggette esse pure a dirittipascolatori concessi tramite la Dogana: si superano così abbondantemente i300 mila ettari.11 Mancano invece stime per la Dogana laziale, se non per ilnumero di animali al pascolo: almeno 300 mila capi nella sola Dogana delPatrimonio nel Cinquecento, ed una cifra probabilmente superiore – manon di molto – nell’altra di Roma.12 I capi ovini “fidati” nella dogana to-scana nel secondo Cinquecento oscillano tra le 280 mila e le 400 mila uni-tà, per calare nettamente a metà Settecento a poco più di 200 mila capi,mentre nella Dogana di Foggia, nonostante le ampie oscillazioni da un an-no all’altro, con punte che superano i 2 milioni di capi, non si scende gene-ralmente al di sotto del milione fino alla fine del Settecento.

Questi numeri, che possono alimentare l’immagine molto diffusa di un

11. Marino, L’economia pastorale, p. 101.12. Maire Vigueur, Les pâturages, p. ??

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mondo semi-nomade dominato, in misura pressocché esclusiva, dalle peco-re, vanno corretti tenendo conto degli altri animali “da armento” che ac-compagnano ed affiancano gli ovini lungo i tratturi e le altre vie pastoralidal monte al piano: dalle migliaia di equini che trasportano attrezzi e derra-te indispensabili all’insediamento invernale in pianura, alle decine di mi-gliaia di “animali grossi”, soprattutto bovini di servizio nelle masserie ce-realicole che, in particolare, dalle montagne abruzzesi e molisane calano inautunno verso le pianure pugliesi. Nella stessa Dogana pugliese sono regi-strati a parte dagli ovini, in apposite liste – quelle dell’“allistamento” o “fi-done” – gli «animali grossi vaccini e giumentini che si tengono a far proleed armenti», cioè non destinati a trasporti o al servizio colonico e numeratinelle province di Capitanata, Basilicata, Contado di Molise, Principato Ul-tra, Terra d’Otranto e Terra di Bari, nelle aree a pascolo di Trigno, Puglia,Saccione, Montagna dell’Angelo, Monteserico e Montemilone.13 Ai primidel Seicento, quando il sistema della numerazione pare funzionare abbastan-za bene, tenendo conto del diverso importo del “fidone” a seconda dei “di-partimenti” di pascolo, vengono censiti oltre 71 mila capi non da lavoro.14

Nella Toscana medicea, nella Dogana della Maremma senese e grosse-tana svernano a fine Cinquecento 18 mila vacche, alle quali vanno aggiunte,oltre agli equini transumanti, i suini, rigorosamente banditi invece dai pascolipugliesi: dei 13 mila porci censiti in Maremma a fine Cinquecento, almenoun quarto sono “forestieri”.15 Nel Settecento anche nel Granducato di Tosca-na la transumanza sarà più marcatamente ovina, essendo divenuta pressocchénulla la presenza dei suini e ridottissima quella dei bovini e degli equini.

Si tratta – almeno per la Dogana di Foggia – di cifre largamente ap-prossimative, ricavate dagli animali “allistati” e quindi condizionate dai“modi di vivere” differenti in ambito doganale, cioè dai diversi sistemi diconcessione del pascolo ai richiedenti e di fissazione della fida.

Sul piano della forma e del peso degli apparati, le differenze fra le tregrandi dogane sono, ai nostri fini, più significative delle differenze sul pia-no delle dimensioni, e meritano una riflessione più distesa. Non c’è nullanella Maremma senese-grossetana che ricordi la rigorosa e minuta articola-zione territoriale foggiana, periodicamente riproposta – come si dirà – in a-

13. Di Stefano, La ragion pastorale, quale vol.?, pp. 74-75. Sull’“allistamento” cfr.anche Galanti, Della descrizione geografica, I, pp. 529-530.

14. De Dominicis, Lo stato politico, II, p. 85.15. Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 39. Sulle modalità di allevamento dei

maiali ibidem, pp. 51-52.

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tlanti generali e piante particolari da uno stuolo di “compassatori”. NellaDogana di Foggia il pagamento della fida dà diritto ad un erbaggio ben deli-mitato nel tempo (da novembre al 25 marzo) e nello spazio: un’intera “po-sta”, o, più spesso, una sua parte, all’interno di una “locazione”, in ragionedel numero degli animali posseduti, numerati o “professati”, e della qualitàdel pascolo.16 Anno dopo anno su queste poste si creano di fatto, a vantaggiodi singoli possessori di pecore ed intere “nazioni” di allevatori, continuità diuso che vengono istituzionalizzate per una decina di grandi “locati” – poten-ti abbazie, altri cospicui enti ecclesiastici e membri dell’aristocrazia feudale– possessori di “poste fisse” o “a parte”. Nella Dogana dei Paschi toscana,invece, il pastore transumante accede a zone diverse di pascolo man manoche esaurisce la capacità nutritiva di un’area, seguendo un calendario distin-to in quattro tempi o “rendite”: dal primo settembre al primo novembre, dalprimo novembre a dicembre, da dicembre a metà gennaio e da questa datafino al 30 aprile.17 I nuovi statuti del 1572 avrebbero ulteriormente ammor-bidito questa disciplina, immettendo i “fidati” nel godimento del pascolo inmaniera indifferenziata.18 D’altronde, contrariamente a quanto avviene nelRegno di Napoli, non c’è nella Toscana medicea il monopolio doganale del-le risorse pascolative private o comunitative: nelle “bandite” della Doganadei Paschi, sin dalla sua fondazione quattrocentesca, i privati possono ven-dere liberamente i pascoli in loro possesso, e l’istituzione si riserva solo laprelazione;19 e gli statuti del 1572, come scrive Dell’Omodarme, «si limita-[no] a vietare la concessione in affitto delle “bandite comunali” per riservar-la alla dotazione fondiaria delle comunità, in forma collettiva».20 La doganalaziale presenta un regime in una certa misura intermedio fra quello toscano“liberista” e quello “dirigista” pugliese: all’interno di una prevalente con-notazione privatistica dell’approvvigionamento dei pascoli (ogni “fidato”contratta direttamente l’acquisto dell’erba dal proprietario), c’è un rapporto“individualizzato” e regolamentato tra l’armentario e lo spazio pascolabile.

I tre sistemi, assai diversi sotto il profilo normativo, dipendenti da so-

16. I locati “padroni individuali” sono mediamente 800, ma ad essi vanno aggiuntiquelli a capo di una “collettiva” (circa 400). In totale i locati proprietari di pecore oscilla-no tra due e tre mila. Il numero delle poste varia nel corso del tempo da 350 a 500 (Mari-no, L’economia pastorale, passim).

17. Cfr. Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 19.18. Cfr. Dell’Omodarme, Le Dogane, p. 294.19. Cfr. Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 24.20. Dell’Omodarme, Le Dogane, p. 290.

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vrani diversi e spesso in conflitto fra loro, non sono, come si potrebbe pen-sare, del tutto separati. I prodotti finali dell’allevamento delle tre Doganecircolano ampiamente tra le regioni dell’Italia peninsulare: dalla Puglia –ad esempio – migliaia di agnelli e castrati prendono la via del Lazio e dellaToscana, mentre nelle province meridionali dello Stato pontificio migliaiadi capi ogni anno sono acquistati dalla Grascia di Firenze. D’altro canto,come si è accennato, non sono insignificanti le greggi che ogni anno – e illoro numero crescerà nettamente nel primo Ottocento – valicano i confinitra gli Stati interessati: animali del Granducato cercano pascoli nelle “ban-dite” dello Stato dei Presidi;21 molti capi svernanti nei pascoli toscani ven-gono dal Modenese e dagli Appennini marchigiani; i marchigiani transu-mano numerosi anche nei pascoli costieri della Doganella d’Abruzzo;22 ipastori aquilani, sudditi del Regno di Napoli e potenziali “sudditi” dellaDogana di Foggia, grazie a privilegi locali, possono portare le loro pecorenelle più vicine aree di pascolo laziali. E non è raro vedere “cavalieri” dellalaziale Dogana del Patrimonio girare per la Maremma senese per convince-re gli allevatori a trasferirsi in territorio pontificio.23

Una flessibilità sorvegliata, normativa e di gestione, cerca di adegua-re le macchine istituzionali alle pratiche ed ai flussi della grande produ-zione animale. D’altro canto sarebbe errato pensare questi flussi come fe-nomeni di un ordine economico-ecologico originario, distinto, ed i poteried i giochi conflittuali e negoziali che intorno ad essi si realizzano per se-coli come appartenenti ad un ordine di realtà esterno, che cerca, con variosuccesso, di controllare il primo. I piani si intrecciano inestricabilmente,in modi che il caso della Dogana foggiana può suggerire efficacemente.

4.3. La Dogana di Foggia: dalla misura degli uomini alla misura degli spazi

L’adeguamento della macchina della dogana pugliese ai contesti delmodo “pieno” sotto il profilo demografico e giurisdizionale di età modernaavviene, a metà Cinquecento, tramite due riforme convergenti: la “grandereintegra” dei pascoli illecitamente dissodati nel corso del secolo preceden-te e la sostituzione della numerazione delle pecore transumanti con la “pro-

21. Barsanti, Allevamento e transumanza, passim.22. Pierucci, La transumanza dei marchigiani, pp. 140-144.23. Maire Vigueur, Les pâturages, p. 123.

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fessazione volontaria” da parte dei pastori. Nel loro insieme, queste misurepromuovono una territorializzazione minuta dei vasti spazi a vario titologovernati dalla Dogana, che non vede protagonisti i poteri diffusi, comealtrove, ma si configura come un grande esperimento di conoscenza e nor-mazione dall’alto dello spazio.24

Fino ad allora, il controllo doganale riguardava non tanto il territorioquanto i flussi ed i ceti. Realizzatasi in un contesto di competizione relati-vamente debole per le risorse territoriali, la “fondazione” della dogana daparte del re aragonese Alfonso I il primo agosto 1447 e la nomina nel set-tembre dello stesso anno a commissario dell’istituzione del catalano Fran-cesco Montluber – un ufficiale estraneo alla dialettica sociale degli spazipascolatori – si presentano come atti d’imperio, anche se rispondono al rie-mergere di pratiche e flussi dei quali è possibile rintracciare tracce consi-stenti nel mondo antico e richiamano in vari modi la produzione normativache si era andata accumulando sull’allevamento mobile a partire dal perio-do normanno.25 Le norme di fondazione impongono, a quanti convertono lepecore locali in gentili tramite incroci con le pecore merinos importate dal-la Spagna, il pagamento di una fida calcolata in proporzione al numero de-gli animali transumanti, permettendo loro in cambio l’accesso a risorse ditre ordini: percorsi ed erbaggi invernali, protetti ed immuni da prelievi e an-gherie dei possessori dei suoli, nel Tavoliere desertificato dalla crisi di me-tà Trecento; un inquadramento giurisdizionale civile e penale da “minori” o“clerici” presso il tribunale della Dogana; l’ufficializzazione della loro na-tura di corpo privilegiato in rapporto diretto col sovrano, tramite l’istituzio-ne e la regolamentazione del corpo dei locati – la “generalità”.

L’esperimento ha nell’immediato un grande successo, non solo fi-scale, e stimola lo sviluppo in particolare della dozzina di centri pastoralidella montagna abruzzese già legati al Tavoliere da una transumanza se-colare, senza interferire pesantemente, ed in una qualche misura coope-rando, con le parallele misure di promozione dall’alto della cerealicolturae dell’insediamento tramite l’istituzione di masserie regie di bovini e di

24. Per le vicende della territorializzazione della dogana foggiana, oltre al lavoro diMarino, abbiamo utilizzato Coda, Breve discorso del principio; Gaudiani, Notizie per ilbuon governo; Di Stefano, La ragion pastorale; Grana, Istituzioni delle leggi; De Domini-cis, Lo stato politico; Cimaglia, Ragionamento sull’economia.

25. Rimandiamo per queste questioni alla tesi di F. Violante sulle campagne pugliesifra Quattrocento e Cinquecento, in corso di redazione presso il Dottorato in Storia dell’Eu-ropa Moderna e Contemporanea dell’Università di Bari.

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grani.26 In questa prima fase l’attività della dogana si esercita soprattuttonel sorvegliare i privilegi ed amministrare la giustizia a favore del corpodei pastori “indoganati” e nel numerare i loro animali per riscuotere la fi-da stabilita. In particolare la numerazione dà luogo ad operazioni ammi-nistrative imponenti. Gli animali sono contati tre volte l’anno: entro il 30agosto, prima dell’inizio della discesa, nelle comunità montane dei pasto-ri; a novembre, prima dell’ingresso degli animali negli erbaggi invernaliloro assegnati in pianura; a gennaio negli erbaggi stessi. In particolarequest’ultima numerazione mobilita una macchina imponente, costituita da192 persone di fiducia solennemente elette dal tribunale della Doganache, divise in 48 squadre assistite dai “cavallari”, escono da Foggia allaluna di gennaio alla ricerca delle greggi, e le numerano secondo formule eprocedure precise, prestando giuramento sui risultati del computo.

Nel primo Cinquecento il fuoriuscire dai propri spazi di una cereali-coltura che stanca ben presto la terra ed ha bisogno di mobilità, cioè diesercitarsi su terra salda sempre nuova capace di una produttività, subitodopo il dissodamento, altissima, mette in discussione l’assetto alfonsino:il gettito della fida non aumenta, il corpo dei locati fa sentire efficace-mente il suo malcontento lungo i canali istituzionali che lo connettono alsovrano, e gli apparati pubblici avviano, secondo le complesse proceduresolite, processi decisionali che dovrebbero risultare nella “reintegra” a fa-vore dei locati delle risorse loro sottratte dai cerealicoltori. Come di re-gola nei contesti istituzionali di antico regime, si tratta di decisioni appli-cate affidando ad ufficiali che si recano “sulla faccia dei luoghi” lo scio-glimento delle situazioni conflittuali in forma negoziale e caso per caso.

Quella che prende avvio nel 1548, per ragioni che pertengono, oltreal drammatizzarsi dei conflitti fra pastori e cerealicoltori ed alle esigenzefiscali dell’impero spagnolo, ai profili degli attori coinvolti, dà viceversarisultati di straordinaria incisività: non sul piano della restituzione di pa-scoli ai pastori, in definitiva assai modesta, ma della costruzione di unnuovo quadro di vincoli ed opportunità per le pratiche dell’allevamentotransumante e della cerealicoltura. Nel marzo di quell’anno, inviato dalviceré a visitare la dogana, D. Alonso Guerriero, presidente della Somma-ria, suprema magistratura fiscale napoletana, «conferitosi in Puglia, ca-minò, vidde, et osservò»,27 per poi redigere una relazione che induce ad

26. Sottolinea con forza questo punto Del Treppo, Agricoltura e transumanza, pp.455-460.

27. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 75.

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una nuova reintegra, affidata al luogotenente della stessa magistraturaFrancesco Revertera. Nel novembre Revertera va a Foggia per dare inizioalle operazioni; ma questa volta, sostenuto da Guerriero e dal potente do-ganiere Fabrizio de Sangro, si dà l’obbiettivo non tanto di risolvere i con-flitti in atto, ma di costruire le condizioni che ne impediscano il nascerein futuro. La prospettiva di un pacifico “possesso” delle prerogative diciascuna delle parti interessate viene cercata in una minuta ed incontro-vertibile territorializzazione delle pratiche pastorali ed agricole. Reverte-ra, Guerriero e de Sangro, «portando ogni uno d’essi la sua paranza dicompassatori»28 ed in presenza degli interessati, misurano, limitano, tito-lano pascoli, campi, manufatti; verificano che più della metà delle loca-zioni ordinarie è occupata da «defense, vigne, orti, chiusure, parchi, mati-ne, pantani, mezzane, seminati, e terre rotte»;29 riportano il tutto su carta,in un manoscritto – La generale reintegrazione – che diventa, fino allasoppressione della dogana, il testo di riferimento dell’operare quotidianodi amministratori, pastori e massari. Ciascuna tessera di questo mosaico èvalutata per il suo potenziale produttivo, secondo pratiche di utilizzazioneattestate davanti agli officiali da esperti locali, al quale si fa corrispondereun gettito differenziato della fida per unità di superficie.

Sulla base di questa gigantesca operazione conoscitiva, la reintegrapuò assumere forme e significati nuovi: invece di sciogliere conflitti casoper caso, può esprimersi in forma quantitativa, ripristinando la destinazionepascolatoria di pezzi di territorio o vincolando al pascolo nuovi spazi benindividuati sulla carta e sul suolo, calcolati sulla base delle superfici e dellacapacità produttiva unitaria attribuita a ciascuno di essi, in modo da soddi-sfare la domanda di pascolo espressa dal numero degli animali fidati; e puòdettare norme d’uso valide per tutti, che lascino immutate le condizionidella calcolabilità del territorio doganale. Al tempo stesso, la reintegra puònon essere più essenzialmente l’opera di ufficiali svolta “sulla faccia deiluoghi”, ma esprimersi nella produzione di norme da parte del potere cen-trale che ne definiscano obbiettivi ed ambiti di discrezionalità. Ovviamentenelle forme percepite come legittime. Una volta discussi i materiali cono-scitivi prodotti dagli incaricati e dagli aventi causa da parte delle magistra-ture centrali del Collaterale e della Sommaria, si convocano i rappresen-tanti di pastori e massari in contraddittorio col regio fisco e si dà vita ad un

28. Ibidem, p. 175.29. Ibidem, p. 78.

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“processo” che dimostra subito, di fronte alla forza degli interessi cereali-coli, il carattere velleitario delle pretese di reintegra integrale: la domandapresente e potenziale di pascolo è soddisfatta essenzialmente integrandociascuno dei tradizionali erbaggi doganali in buona parte dissodati (le “lo-cazioni”), con erbaggi collinari meno appetiti dai cerealicoltori (i “ristori”)e demani universali da fruire in comune con le comunità locali (gli “erbag-gi senz’affitti”). D’altro canto, ne esce confermata la linea di trasformare legeometrie dei compassatori in norme e forme del territorio. Su questa basesi formulano 75 decreti la cui esecuzione luogo per luogo prevede un ulte-riore confronto e mediazione con le parti interessate. Affidato il compito adun altro ufficiale della Sommaria, questi trova subito i decreti ineseguibiliperché, sulla base delle dimensioni fissate per l’incolto intorno a ciascunadelle “poste” da assegnare ai pastori, occorrerebbe diroccare intere masse-rie cerealicole. Il Collaterale, dopo le consultazioni di rito con 12 eletti daipossessori di terre cerealicole e 12 eletti dai possessori di greggi, allarga glispazi per il grano ridimensionando i “quadroni di posta” e riducendo da unterzo ad un quarto delle superfici concesse il maggese delle masserie “diportata” – le aziende cerealicole doganali integrate con il pascolo transu-mante secondo una normativa minuziosa. L’esecuzione dell’assetto spa-ziale e normativo così corretto è affidata ad un ulteriore ufficiale, che, me-diando ed appianando controversie, in particolare con i grandi feudatari ti-tolari diritti sulla terra rivendicata dall’amministrazione doganale – in par-ticolare i Carafa per il bosco di Ruvo, i Doria per le terre del Melfese – rie-sce a portare a termine il suo compito.

Dall’inizio delle operazioni sono passati all’incirca cinque anni di di-scussioni, consultazioni, ripensamenti, tipiche dei rituali della pubblica de-cisione legittima agli occhi dei destinatari. Ma, alla fine, il mutamento ap-pare incisivo e ne produce altri. Una volta reso calcolabile il territorio, ilcalcolo macchinoso e costoso delle pecore diventa inutile, e viene sostituitodalla dichiarazione libera dei pastori – la «professazione volontaria» – se-condo un formulario che prevede un giuramento – di fatto non eseguito.30

La salvaguardia degli interessi del fisco può essere ora affidata alla acqui-sita conoscenza topografica ufficializzata ed alla quadrettatura del territoriodoganale: professando meno pecore di quelle che conducono effettiva-mente in Puglia (denominate queste ultime come “pecore viventi”), i pro-

30. Sui differenti “modi di vivere” della Dogana cfr. Marino, L’economia pastorale,e soprattutto “Professazione voluntaria”, pp. 5-43.

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prietari di greggi pagano meno fida ma ricevono dal fisco erbaggi propor-zionali ai soli animali dichiarati; di conseguenza devono cercarne altricomprandoli, dietro “dispensazione” concessa a titolo oneroso, dalla Doga-na stessa quando siano ad essa rimaste superfici pascolatorie non assegnate,o da privati dopo l’esaurimento delle erbe doganali. Inoltre la prevedibilitàdel gettito fiscale è incrementata da un irrigidimento dei rapporti fra pastoridichiaranti, numero delle pecore dichiarate e territori loro assegnati.L’universo dei regnicoli soggetti coattivamente alla dogana viene definitotramite il concetto di “solito”, attribuito dal tribunale doganale, in contrad-dittorio con l’interessato, a chi abbia in passato usufruito dei suoi territori;il numero delle pecore professate non può mutare se non per accidenti gra-vissimi e dopo l’emissione di una sentenza formale; i tratturi da percorrerenelle discese e nelle risalite, i passi a cui presentarsi, i riposi in cui attende-re l’assegnazione degli erbaggi, le locazioni assegnate ed i loro ristori sonosempre più gli stessi per ciascun pastore e per le comunità di appartenenza.A differenza degli erbaggi della dogana maremmana, usufruiti, con l’ecce-zione delle “bandite”, in forma indivisa e collettiva, quelli foggiani sonosuddivisi in porzioni dotate di una fortissima connotazione “nazionale”: lelocazioni si presentano come un prolungamento degli erbaggi comunitari,una aggiunta invernale in pianura al demanio universale montano che cia-scuna comunità pastorale usa d’estate; e quindi chi ne è assegnatario do-vrebbe avere interesse a limitare i comportamenti aggressivi nei confrontidella risorsa o comunque verrebbe controllato dai suoi connazionali.

4.4. L’ordine del “vago scacchiero” e il disordine delle pratiche

Dentro la cornice spaziale e normativa costruita dalle riforme di metàCinquecento, i flussi della transumanza fra le montagne abruzzesi e lepianure pugliesi, stimolati dalla domanda di lana soprattutto veneziana,tornano a crescere impetuosamente, fino ad interessare, prima della terri-bile epizoozia dell’inverno 1611-1612 che uccide un milione trecentomilapecore, due milioni quattrocentomila capi all’incirca: una cifra senza pre-cedenti e non più raggiunta in seguito. Ma anche in questo caso, la pacifi-cazione e la conciliazione per via di una territorializzazione geometrica ecartografica delle spinte di ceti ed apparati, pur sostenuta dall’agire diret-to e non solo mediatorio dei poteri centrali, è ben lontana dal realizzarsi;e d’altronde si rivela subito estranea alle culture ed alle logiche dell’azio-

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ne individuale e collettiva che prevalgono fra gli attori, compresi coloroche si situano negli apparati centrali depositari della documentazione chedovrebbe proiettare sul suolo i diritti di ciascuno.

D’altro canto, le cose non rimangono neanche su questo piano immo-bili: le forme dell’azione e del conflitto risentono pesantemente della cre-scita drammatica di densità istituzionale del territorio che, in modi e tempicosì diversi da quelli della vasta collina italiana, si è realizzata anche neglispazi “vuoti” di pertinenza della Dogana. Già un paio di anni dopo la chiu-sura della grande reintegra si riapre il dilemma pascolo-cerealicoltura sulleterre doganali. Data la delimitazione, la conoscenza e la registrazione dellospazio doganale realizzata, i dissodamenti dei pascoli non possono avveni-re, come in precedenza, per soli atti di possesso, ma devono seguire le se-quele della decisione solenne. «Magnati, baroni e servitori di Sua Mae-stà»31 fanno presente nelle forme e nei luoghi debiti che, a causa dei cattiviraccolti di grano, «una gran parte de li subditi et presertim li poveri» (che digrano non si nutrono di fatto mai) sono costretti a nutrirsi di erbe, che i ter-reni cerealicoli per «la continua et diuturna cultura se ne trovano infiacchi-ti»; di conseguenza occorre attingere alle grandi riserve di terra salda dellepianure pugliesi soggette alla Dogana, da poco classificate e destinate in-controvertibilmente alla pastorizia. Locati e cerealicoltori sono convocatipresso il Collaterale insieme alle autorità fiscali ed al governatore dellaDogana, l’annona napoletana ed i suoi partitari premono nelle forme do-vute, Madrid chiede spiegazioni. Alla fine la forza degli interessi cereali-coli, la prospettiva di proventi fiscali dalle concessioni di esportazione deicereali (le “tratte”) a compenso della fida perduta, la possibilità che, espor-tando grano sostitutivo di quello turco, in difficoltà sulle rotte marittime peril peggioramento dei rapporti fra impero ottomano e Venezia, il sovrano«se ne causerà maggior autorità … con li potentati de Italia», indurranno aritagliare dal mosaico doganale, a varie riprese, terre da seminare distinteda quelle delle masserie di portata, strettamente inquadrate nei tempi e ne-gli spazi doganali: terre concesse a breve scadenza ed a prezzi assai varia-bili ma spesso relativamente bassi, ed accaparrate in larga parte da perso-naggi importanti della feudalità meridionale. Queste terre ricevono un no-

31. Questa citazione e le altre tre immediatamente successive sono tratte dalle pp.1403-1410 del già citato saggio di De Negri Pane e… companatico, relativo alla decisionedi assegnare a coltura 500 carra di terre salde assunta nel 1559-1560. Sulla gestione doga-nale della cerealicoltura si veda, di Nardella, Produzione mercantile, pp. 279-280; Ead.,La Capitanata, pp. 648-657. Cfr., ora, anche Ciuffreda, Il granaio di Napoli, pp. 131-165.

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me («restoppie de’ primi affitti» o «terre salde di regia corte a coltura») chearricchisce lo specialissimo vocabolario doganale, danno vita a nuovi rita-gli spaziali, sono sottomesse ad ulteriore normativa.

È una sequenza che si replica, in modi e a livelli vari, innumerevolivolte, investendo man mano ogni più minuto aspetto delle nuove geome-trie spaziali. Mai smentite ufficialmente, esse si caricano così di una mas-sa crescente di norme spesso contraddittorie, di regole interpretative, dieccezioni e di privilegi concessi ad individui, a comunità ed a provinceintere, di figure di reato e di pene relative che si aggiungono a quelle penalie civili dell’ordinamento normale e che altre istituzioni e tribunali pubblicie feudali vorrebbero “riconoscere” sottraendone la competenza alla Do-gana. Tutto questo stimola la formalizzazione ulteriore di ceti e corpi edelle loro rappresentanze chiamate a presentarne le ragioni e ad elaboraresoluzioni normative, ed il coinvolgimento di personale amministrativospesso costituito da sostituti di titolari di uffici vendibili anche di livelloinfimo, i quali agiscono, secondo modelli diffusi ed in una qualche misu-ra legittimati, mescolando dimensione pubblica e fini privati, e certificanoed attestano senza mai giurare sulla veridicità di certificazioni ed attesta-zioni. A sua volta il tribunale doganale, istituito per sottrarre i pastori allepanie della giustizia normale, diventa ostaggio dei professionisti di un di-ritto speciale complicatissimo.32 La conseguenza è l’emergere, anche inun ambito così sorvegliato dai poteri centrali napoletani e madrileni, disituazioni di ingorgo normativo ed inefficacia istituzionale che rendono difatto negoziabile una parte larga dell’assetto territoriale ufficiale, e che ri-aprono spazi per le espressioni più dirette dei rapporti di forza dentro efuori dei gruppo dei locati, per atti possessori destinati ad essere legaliz-zati dallo scorrere del tempo, per i conflitti striscianti o acuti che le geo-metrie della grande reintegra avevano preteso di eliminare. Così, a di-stanza di un secolo e mezzo dalla reintegra, l’edificio doganale può sem-brare un cumulo di macerie “confuse e sconcertate” ad un prete dottoreconoscitore fino nelle minuzie del suo funzionamento, a lungo avvocatopresso il tribunale doganale e difensore dei locati presso le magistraturenapoletane. Può esserne metafora fedele il grande libro prodotto dai rein-tegratori di metà Cinquecento, il manoscritto di 436 carte in folio checontinua ad essere «il testo doganale in materia di territorii», ma che ora

32. Cfr. le critiche al Tribunale privilegiato in Galanti, Della descrizione geografica,I, p. 154. Secondo Palmieri si trattava del «più strano e bizzarro stabilimento che immagi-nar si possa in una nazione culta» (Pensieri economici, p. 57).

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è talmente sfatto e distrutto, che fra poco tempo non si potrà più leggerlo,passando per le mani continuamente di gente indiscreta e sopra di tutto vie-ne strapazzato nel portarsi ogn’anno et in occasioni d’accessi e del compas-so generale in campagna consegnato o a un servitore, o a qualche soldato,che infastiditi per l’incomodo lo buttano per terra senza verun riguardo, per-ché non comprendono che cosa sia.33

La lettura proposta da Andrea Gaudiani della grande reintegra di metàCinquecento in quello straordinario documento costituito dalle Notizie peril buon governo della Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia –un manoscritto cresciuto per 16 anni e rimasto incompleto ed inedito – ri-sente probabilmente di una familiarità con i teorici della sovranità comepotere di imperio assoluto che si arresta alle soglie della incomprimibileautonomia della vita economica. A fondamento del “vago scacchiero” for-mato da «tutti gl’erbaggi della Dogana tra di loro distinti, particolarmentelimitati e terminati», e della “armonica proporzione” con cui si erano decisele rotazioni granarie delle masserie di portata in modo da integrarsi con ladomanda pastorale, in particolare quella di erba tenera per gli agnelli,34 nonci sono per Gaudiani atti di volontà regia né l’intensa negoziazione fra so-vrano e ceti dalla quale, come si è visto, emerge in realtà la decisione. La“soavità”35 dell’ordine doganale, il suo carattere di “buon governo”, poggiaviceversa sul riconoscimento da parte del sovrano cinquecentesco che«l’industria non è forzosa ma volontaria, e niuno spende per perdere, maper guadagnare», che il «prezzo naturale» è «molto più forte … del prezzolegale», e «la libertà nel contraere … è di legge naturale, sopra la quale nonvi è autorità humana che vi possa giungere, per assoluta che sia».36 In que-sta visione la riorganizzazione in senso spaziale di metà Cinquecento, diconseguenza, non imponeva pratiche pastorali dall’alto, ma incorporava,tramite la mediazione degli esperti, «le buone regole stabilite da una lungaisperienza» e fondate «nell’antico solito della Puglia»,37 limitandosi a darloro un «sistema fisso», a «rendere invariabile et imperturbabile la condizio-ne de’ territori» in modo da preservarli dall’ingiuria del tempo e dalla «insi-dia della umana malizia»,38 cioè dell’interesse cattivo e sregolato. Ora che la

33. Gaudiani, Notizie per il buon governo, pp. 175 e 77. forse 177?34. Ibidem, pp. 48 e 266.35. Ibidem, p. 365.36. Ibidem, pp. 365 e 262-263.37. Ibidem, pp. 234 e 266.38. Ibidem, p. 69.

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malizia ed il cattivo interesse hanno prevalso, le leggi doganali sono “sfigu-rate”: «sarebbe adunque stato assai meglio se giammai fussero state fatte talileggi, poiché rotte son caggione di corruttela e di pubblico scandalo».39 Qua-drettatura territoriale e norme connesse sono ormai entrate nella quotidianitàdelle pratiche pastorali non come limiti e correttivi che rendano l’agire eco-nomico “interessato” compatibile con l’interesse del sovrano e del corpo so-ciale in generale, ma come risorse manipolabili alla stregua di quelle appar-tenenti alla sfera dell’economia, solo nel cui ambito ben rimarcato è giustoche regni l’arbitrio e la volontà individuale di prevalere sugli altri.

4.5. Spazi e tempi della pastorizia transumante

Al di là della visione che lo sorregge, il libro di Gaudiani è preziosoai nostri fini perché, oltre ad illustrare minuziosamente questo esempio diistituzionalizzazione dall’alto delle risorse pascolatorie, presenta una ca-sistica ampia e vivace, ricavata dalla sua frequentazione intensa delle auledella giustizia pastorale, del quotidiano misurarsi degli allevatori transu-manti con questo territorio e dei conflitti connessi. Proviamo a riordinarlaper cenni lungo l’anno pastorale.

Sorvegliati da un apparato doganale relativamente debole, con un“ufficiale di residenza” dislocato in ciascun centro a filtrare le cause fri-vole e riportare quelle importanti al tribunale di Foggia,40 i locati si di-sperdono nei mesi estivi nei vasti pascoli montani, dove «i ricchi cittadini… i nobili ed i baroni» sorti dal «semenzaio» costituito dalla «povera in-dustriosa plebe» pastorale41 lasciano ai possessori dei piccoli greggi risor-se sufficienti ad evitare tensioni acute. La normativa doganale assegna ailocati il diritto di prelazione sui pascoli e vieta a chiunque di «comprarmontagne per rivenderle»;42 ma non sembra che venga attivamente adope-rata per reprimere comportamenti minacciosi per l’esercizio pacifico del-la pastorizia istituzionalizzata. Con la discesa verso la Puglia la situazionemuta: la normativa doganale si infittisce, il disegno del territorio diventa

39. Ibidem, p. 25.40. Sul tribunale cfr. Muscio, Del Tavoliere di Puglia, e Russo, Tra Abruzzo e Pu-

glia, pp. 32-36.41. Cimaglia, Ragionamento sull’economia, p. 75.42. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 321.

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minuto e presuppone lo stringersi ed il formalizzarsi della comunità pa-storale, dato che una serie di adempimenti, i percorsi della transumanza ela locazione di destinazione vedono come soggetto contraente non il sin-golo locato ma la sua “nazione”. E contestualmente si aggrovigliano vin-coli ed opportunità sulle quali elaborare scelte d’impresa e si moltiplicanole occasioni di tensione e conflitto dentro e fuori della “nazione”.

Il primo settembre comincia la custodia dei 6 passi che conducono aglierbaggi invernali da parte dei cavallari e, contestualmente, si apre nella se-de della dogana il libro della professazione. I locati di ciascuna “nazione”professano singolarmente o uniscono le loro pecore in “collettive” profes-sate da un locato più importante o da un suo uomo, che fa un primo viaggioa Foggia e torna nella sua comunità di montagna con le bollette da presen-tare al passo a cui è destinata la “nazione”. Chi non professa viene iscrittonel libro d’ufficio, o può professare al passo a titolo oneroso. L’irrigidi-mento del rapporto fra pecore e fisco promosso dalla reintegra non impedi-sce che già questo primo adempimento costituisca occasione per scelte im-portanti da parte degli attori sociali e delle istituzioni. Intanto, i meccanismidel “solito” lasciano spazi significativi di manovra. I possessori di piccolegreggi dichiarano all’incirca tante pecore “fisse reali” – quelle ufficial-mente iscritte a Dogana – quante sono quelle “viventi”, cioè quelle che“calano” effettivamente in Puglia senza essere numerate, e si affidano insostanza alla Dogana per procurarsi erbaggi proporzionali ai loro bisogni;viceversa i “poderosi” ne dichiarano un numero di gran lunga inferiore: pa-gano una fida minore e ricevono erbaggi insufficienti rispetto ai bisogni,ma, come vedremo, sanno manovrare in maniera da procurarsi quelli man-canti senza passare necessariamente dalla Dogana stessa e senza pagare ladispensazione. A loro volta i baroni possessori di terre di bassa qualitàcollocate ai margini dei pascoli doganali – quelle che rientrano nella cate-goria degli erbaggi “straordinari insoliti”, comprati dal regio fisco al biso-gno – spingono gli ufficiali a gonfiare le professazioni, e quindi la doman-da nominale di erbaggi, affinché la Dogana le prenda in fitto. Il gioco sicomplica a causa dei correttivi ufficiali alla rigidità dei meccanismi del“solito”. Il locato può aggiungere al foglio di professazione, già presentatosotto gli occhi della “nazione”, un altro foglio col quale dichiara ulterioripecore – quello della professazione in alia – che gli costano una fida mag-giore ma gli permettono di ricevere più erbaggi doganali e di partecipare daposizioni non marginali alla ripartizione della locazione assegnata alla“nazione” ed all’acquisto all’incanto degli erbaggi doganali rimasti non as-

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segnati: un’operazione che si fa «con somma segretezza».43 L’istituzionemedia fra queste spinte opposte e l’imperativo fiscale raddoppiando le pe-core dichiarate da ogni “nazione” per il calcolo dei proventi della dispensa-zione, e distribuendo d’imperio gli oneri di questa dispensazione gonfiatafra locati, in proporzione delle loro pecore ufficiali.

Superata questa fase gravida di conflitti che minacciano di esploderepiù tardi nella piana, le greggi, condotte dai piccoli locati o da una gerar-chia di addetti se si tratta di animali dei “poderosi”, seguite dalle masserizienecessarie a montare ripari e recinti nelle poste e da prestatori di servizi va-ri indispensabili all’industria pastorale, cominciano il 15 settembre, in for-ma scenografica e altamente ritualizzata, il viaggio di 6-8 settimane verso ilTavoliere, seguendo i tre tratturi ed i relativi “bracci”. Secondo le normeribadite dagli annuali bandi del “calo”, uomini ed animali sono collocatisotto la giurisdizione speciale doganale e godono di privilegi: hanno dirittoalla permanenza di 24 ore sui 9 “riposi” collocati sui lati dei tratturi, ad at-tingere acqua e raccogliere frasca «purché non eccessiva», sono immuni dagabelle e diritti di passo, sono tenuti al solo risarcimento del danno dato manon alle multe. Ma la maglia della giurisdizione comunitaria e feudale lun-go questi percorsi è stretta, le risorse sono contese dagli utilizzatori locali odai soliti acquirenti forestieri di erbaggi delle università onerate di debitinei confronti del fisco regio, e la presenza di ufficiali doganali che accom-pagnino e proteggano il calo e di scrivani che raccolgano nella forma debitale denunzie è concessa solo a titolo oneroso. Così i pastori devono compra-re lungo il percorso erbe che hanno già pagato con la fida, e subiscono«estorsioni intollerabili» e «continui travagli … dalla insaziabile avidità debaglivi»:44 non sempre passivamente e pacificamente, tanto più che i pasto-ri hanno il diritto di portare con sé le loro armi. Giunti ai passi, i cavallaricontrollano le bollette e vi annotano il tempo concesso alle greggi per co-prire la distanza fra il passo ed il riposo loro assegnato – uno fra i 3“principali” ed i 4 “particolari” – dove devono attendere che l’atto della“locazione generale” renda disponibili gli erbaggi.

I riposi hanno una capacità pascolatoria insufficiente a causa dell’af-follamento degli animali e delle usurpazioni e dissodamenti di fatto o lega-lizzati; e d’altronde i pastori non possono che istallarvisi in forme provviso-rie, sperando che le condizioni atmosferiche non siano cattive e che si con-

43. Ibidem, p. 233.44. Ibidem, p. 315.

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cludano rapidamente gli adempimenti precedenti la locazione generale: inprimo luogo, la rideterminazione della capacità pascolatoria delle singolelocazioni una volta sottratte a ciascuna di esse le «terre salde di regia cortea coltura», cioè le terre cedute per uso cerealicolo a tempo breve; in secon-do luogo l’assegnazione a ciascuna locazione, con l’addebito delle relativedispensazioni, dei “cacciti”, ossia di erbaggi collocati nelle locazioni nonutilizzate interamente dalle “nazioni” solite, calcolati in base al raddoppiodelle pecore “fisse reali” professate.

Fig. 2. Il Tavoliere fiscale

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Spesso questi adempimenti vanno per le lunghe, e mentre i locati chenon conducono direttamente le greggi «passeggiano inutilmente per Fog-gia»,45 i loro sottoposti e le loro pecore, imprigionate negli spazi stretti deiriposi, soffrono fame e freddo. Così, per evitare conseguenze drammatiche,essi sono spesso costretti a comprare a caro prezzo le erbe dagli stessiusurpatori dei riposi, ed a volte ad invadere le locazioni contigue corrom-pendo i cavallari che dovrebbero impedire a chiunque di entrarvi primadella locazione generale.

La locazione generale consiste in una cerimonia solenne e tumultuosanella quale, “in piena Rota”, si consegnano le liste dei locati e dei rispettivierbaggi collocati: (a) nella propria locazione; (b) nella locazione che ospitai cacciti; (c) nei ristori e nei demani universali aggregati dalla grande rein-tegra a ciascuna locazione. Tutti questi erbaggi, che d’estate sono rimastideserti o, se in collina, sono stati pascolati da pastori pugliesi dietro corre-sponsione della “statonica” alla Dogana, dovrebbero essere consegnati ailocati in buono stato. Secondo legge, ogni animale deve uscirne entro il 29settembre per non incorrere nel reato di “scommissione”, ivi compresi i“comunisti” dai demani delle loro università: un’operazione, come è ovvio,assai problematica. In realtà le erbe di ottobre e novembre delle stesse lo-cazioni vengono ampiamente “scommesse”; in particolare, oltre che daglistessi locati che sconfinano dai riposi incapaci di nutrire gli animali, da al-cuni altri che, vantando pascoli propri o l’acquisto di pascoli demaniali inpianura, sono scesi in Puglia prima dei tempi stabiliti dal bando di calo, odai massari delle terre di portata che, pagando “propine” ai cavallari, conti-nuano a condurvi i loro buoi. La fruibilità delle erbe dei ristori e dei demaniuniversali è viceversa minacciata dalla loro mancata geometrizzazione. I ri-stori, pascoli collinari di qualità mediocre, sono attribuiti promiscuamente apiù locazioni; di conseguenza, ottenuta al momento della locazione gene-rale la lettera di assegnazione di un ristoro, gruppi di “nazionali” di diverselocazioni corrono fino a far scoppiare i cavalli per consegnarla prima deglialtri al cavallaro che lo custodisce ed occuparne gli spazi migliori. La frui-zione promiscua con i pastori locali degli “erbaggi senz’affitti” riproponeinvece, in forme anche più drammatiche che nel corso delle discese e dellerisalite, tutto il ventaglio dei conflitti con baglivi ed università, che, «sottoquesto colore della communità»,46 contendono ai locati le risorse soprattut-

45. Ibidem, p. 240.46. Ibidem, p. 161.

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to per monetizzarle vendendole ai forestieri: ad esempio ai proprietari deiporci, devastatori famigerati di erbaggi.

La capacità dei locati di misurarsi con questi problemi è assai varia, enon sempre il gruppo istituzionalizzato nel quale sono inseriti offre allean-ze e solidarietà utili. Spesso, quando esistono, queste si disfano con la ri-partizione degli erbaggi e la assegnazione delle poste ai singoli locati: un’o-perazione complessa affidata ai locati stessi ed ufficializzata con l’interven-to di un commissario nominato dal governatore della Dogana immediata-mente dopo la locazione generale, che fa emergere le disparità di potere frai protagonisti della transumanza e situa le tensioni all’interno delle “nazio-ni”. A fondamento della ripartizione c’è l’“imposizione” di ciascuna posta,ossia la valutazione differenziata dei vari erbaggi che compongono la loca-zione. Ciascun locato deve ricevere superficie a pascolo in una proporzionealle pecore da lui professate, sulla base della produttività per unità di super-ficie attribuita all’intera locazione dalla grande reintegra; ma la produttivitàdelle singole poste di una locazione può essere assai diversificata, maggio-re o minore della stima ufficiale complessiva, e la superficie assegnata ec-cessiva o inadeguata agli animali “fissi reali”. L’“imposizione”, concordatafra i locati, misura questa sovrabbondanza o inadeguatezza, cosicché l’as-segnatario delle poste migliori può o tenerle per sé compensando congrua-mente gli assegnatari delle poste peggiori, o vendere all’incanto le superficieccedenti il suo bisogno e distribuire il ricavato fra i locati. Assunte, tranneche nella sanzione cerimoniale finale, fuori della sede doganale, nelle “pa-trie” di montagna, queste decisioni esprimono l’esito di conflitti in cui irapporti di forza vengono messi in campo senza mediazioni: i “poderosi”,che hanno dichiarato un numero di animali di molto inferiore a quelli con-dotti in Puglia, puntano a farsi assegnare le poste più produttive per utiliz-zarle interamente, e, al tempo stesso, ad assegnare ad esse una valutazionebassa per non compensare gli altri locati.

Per i locati più potenti e più reticenti nella professazione, d’altronde,non mancano altre occasioni per procurarsi erbaggi aggiuntivi senza pagarela dispensazione e per utilizzare in pieno il “vago scacchiere” doganale se-condo le sue “armoniche proporzioni”. Collocate le greggi nelle poste buo-ne, essi realizzano, sulle terre lasciate a rotazione incolte nelle masserie diportata, “difese” per gli agnelli che utilizzano l’erba tenera e rada delle “ri-stoppie” (l’incolto dopo due anni consecutivi di semina); inviano castrati,vacche e giumente nei ristori acquistando dai piccoli locati i frammenti dipascolo a loro assegnati ma di fatto inutilizzabili sia perché non hanno ani-

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mali grossi adatti a quegli ambienti, sia perché non sono in grado di orga-nizzarvi un’altra posta spesso lontana da quella della locazione; acquisisco-no dagli stessi loro connazionali quote di caccito accorpandole alle proprie;comprano dai massari di campo terre di portata destinate alla semina ma“infiacchite”, che la Dogana concede di vendere a pascolo perché riacqui-stino vigore. Ed inoltre sono ben attenti a cogliere le occasioni che si pre-sentano sul vasto mercato illegale costituito dagli erbaggi messi in com-mercio dai locati fittizi, o da quelli assegnati ai che professano pecore chenon hanno e li rivendono, o da quelli delle “mezzane”, la sesta parte dellemasserie di portata per legge utilizzabile esclusivamente per pascolo deibuoi aratori, ma vendute da quei massari che riescono a trovare per i loroanimali spazi pascolatori gratuiti negli interstizi della geometria doganale. Ed’altronde “i poderosi”, in contatto con sindaci e deputati della generalitàdei locati, sono in posizione di manovrare accortamente in occasione delleindagini che commissari e compassatori devono svolgere a febbraio per co-gliere in «controventione» chi non ha pagato la dispensazione ed in «dissor-dine» quanti non hanno rispettato i limiti fissati fra colto ed incolto, e nellecomplesse procedure giudiziarie previste per l’accertamento e la sanzione.

Il 25 marzo, secondo il calendario ufficiale, «si scommette la Puglia»e le pecore possono uscire dalle poste per pascolare promiscuamente nel-le locazioni. Queste rimangono comunque di esclusiva pertinenza deglianimali soggetti a Dogana, cosicché l’inserimento di animali estranei, fa-cilitato dal venir meno dell’organizzazione interna dello spazio, è diffusoma illegale, e sottrae ai locati risorse indispensabili alla buona conclusio-ne dell’anno pastorale. Si è ormai nel clima teso in cui si fa il bilanciodell’annata pastorale: ci si appresta a collocare sul mercato i prodotti e sifa il calcolo dei costi sostenuti che vanno sommati alla fida ancora da pa-gare. Anche su questo piano l’interventismo doganale è penetrante. L’ob-biettivo è quello di garantire un’agevole riscossione della fida vigilandosui “monopoli” a danno dei pastori, di permettere loro di contenere i costimoderando il prezzo dei beni di prima necessità, e di realizzare profittivendendo i loro prodotti a prezzo “giusto”. Tutto questo non solo non pa-cifica la circolazione dei prodotti pastorali, ma offre occasioni ulterioriper una microconflittualità diffusa, per l’esercizio della “malizia” dei mer-canti e la tessitura di connivenze con gli ufficiali, per reati contro le leggidoganali e quelle del regno, che il tribunale foggiano fa grande fatica a te-nere sotto la sua amplissima giurisdizione contro i tentativi di inserimentodegli altri poteri e tribunali, siano essi centrali o locali.

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Dei due beni indispensabili ai locati, il sale ed il pane, il primo è statoconsegnato gratuitamente l’anno precedente all’uscita dalla Puglia in pro-porzione alle pecore professate, e dà luogo a un contrabbando alimentatodai pastori che sono riusciti a risparmiarne sulle loro necessità e soprattuttodai locati senza pecore che si sono presentati al passo in regola col paga-mento della fida.47 Il commercio del pane, originariamente prodotto in pri-vativa in forni doganali, è liberalizzato in cambio della corresponsione allaDogana di un diritto proporzionale alle pecore professate ma di valore uni-tario diverso da “nazione” a “nazione”, calcolato sulla quantità di pane chequeste erano state “solite” comprare dai forni doganali. Il prezzo di acqui-sto è inoltre condizionato, con un livello di costrittività indeterminato cheorigina dispute e contrasti, alla “voce” fissata nel maggio precedente dalgovernatore sulla base delle informazioni raccolte dai deputati della gene-ralità sui prezzi correnti del grano, distinta panetteria per panetteria a se-conda della qualità del prodotto e della distanza. In ogni caso, il pane deilocati non è soggetto a gabella: un privilegio che le università, in particola-re quella di Foggia, non si rassegnano ad accettare dal momento che sottraeloro introiti significativi. Fra i prodotti venduti dai locati, le pelli e le carnisono soggette ad una istituzionalizzazione relativamente debole. I “basset-tieri” girano tutto l’anno fra le locazioni ad acquistare animali morti, e, inquaresima, mercanti napoletani e romani acquistano grandi quantità di a-gnelli. Il cacio e, soprattutto, la lana hanno “voci”, fissate esse pure dal go-vernatore a maggio con l’intervento della generalità e dei mercanti, e si de-vono vendere, franchi di ogni peso, nella fiera foggiana dei primi di mag-gio. Questo momento decisivo per la redditività della transumanza istitu-zionalizzata è minacciato dalle fiere immediatamente precedenti di Alta-mura e Gravina, frequentate dai pastori lucani che, pur allevando pecoregentili, riescono a sottrarsi alla Dogana attraverso negoziazioni e transazio-ni, e, facendo anche per questa ragione allevamento ovino a costi inferioririspetto ai pastori sottoposti a Dogana, vendono a prezzi più bassi a mer-canti che ”vengono poi a Foggia svogliati a pigliar per la gola i locati”.48

A questa secolare contesa fra gruppi, “nazioni” pastorali, individui eregia corte, che non riesce a trovare soluzioni stabili, se ne intrecciano al-tre che si sviluppano per linee più interne e contorte. Ad esempio quelleoriginate dalla “voce” della lana, incapace di regolare il prezzo di vendita,

47. Vedi, a proposito, D’Atri, Il sale di Puglia.48. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 198.

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regolarmente più basso, ma in grado di configurare un reato: il locato chevende a meno della “voce”, oltre a ricevere il danno del prezzo inferiore,si vede minacciato da una multa da parte degli ufficiali per non aver ri-spettato il prezzo fissato dal governatore. C’è d’altronde chi riesce a ven-dere alla “voce”: alla Dogana stessa, che compra annualmente dai locatilana da distribuire gratuitamente agli ordini religiosi mendicanti, e che avolte si accontenta della lana vecchia e di bassa qualità offerta da coloroche sanno meglio manovrare nella macchina amministrativa.

L’8 maggio è la data fissata per il pagamento della fida e per l’uscitadalla Puglia doganale: due scadenze sulle quali, così come sull’intera costru-zione doganale, si sono accumulati negli anni correttivi e concessioni che nefanno oggetto di negoziazioni e contese. I locati, dopo aver partecipato coat-tivamente all’elezione, presso la sede della Dogana, delle cariche della lorogeneralità, cominciano a ripercorrere in salita l’itinerario della transumanza,che il sovrano dovrebbe proteggere ma le giurisdizioni locali minacciano, perriguadagnare i territori montani più densi di comunità ma soggetti ad una ter-ritorialità meno fitta e complessa di quella della piana pugliese, nonostantesia quest’ultima caratterizzata da un insediamento a maglie larghissime.

Osservato lungo il ricco calendario pastorale fissato dalla Dogana, ilconflitto fra i due “mondi” e le due “culture” opposte del grano e delle pe-core vaganti, proposto a volte dai contemporanei e diventato uno stereotipostoriografico, si scompone in una molteplicità di arene, di forme, di fronti,di occasioni che sorgono dallo “scommettersi” e dal “disordinarsi” delgrande disegno doganale di fronte alla pluralità dei ceti, degli interessi,delle giurisdizioni di una formazione politico-sociale di antico regime.49

4.6. «Maledetti compassatori… gente furba e di rapina»

Preposta alla applicazione di questa mole impressionante di normeconnesse strettamente ad una geografia minuta ed intricata, ed allo sciogli-mento delle controversie che ne derivano, la grande macchina della Dogana– una macchina regia ma dotata di livelli importanti di autonomia – propo-ne un problema classico già nelle concezioni tipicamente medievali dellasovranità come esercizio della giustizia: quello della “terzietà” dei suoi uf-fici e dei suoi ufficiali rispetto agli attori in conflitto. È un ideale che nella

49. Alcuni aspetti di questo conflitto sono analizzati in Russo, Tra Abruzzo e Puglia,pp. 17-40.

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prima età moderna si ripropone con forza insieme alla crescita degli appa-rati pubblici, e che diventa tanto più irrealistico in quanto la dimensionestessa degli apparati li rende soggetti alla contaminazione con i corpi so-ciali sui quali hanno giurisdizione: gli ufficiali descritti dalla storiografiarecente sono attivissimi nelle arene in cui sono legittimati a fungere solo dagiudici, e ben pronti ad utilizzarvi le risorse derivanti dai loro uffici per ac-quisire vantaggi rispetto ai concorrenti. Nelle visitas promosse dai sovranispagnoli nei loro domini,50 si tratta di una questione che si ripropone siste-maticamente in tutti i livelli e gli aspetti degli apparati pubblici, ivi com-presa la Dogana foggiana. Ad esempio, in seguito alla visita del 1607-1610di don Juan Beltran de Guevara, lo stesso doganiere è condannato ad unamulta di 12000 ducati per aver consentito la vendita di erbaggi di regiacorte ai suoi subalterni, e numerose altre condanne vengono comminate adaltri ufficiali che, sotto falso nome, facevano masserie di bestiame o granosottoposte al loro stesso controllo e giudizio.51

Il grande mutamento prodotto dalla reintegra di metà Cinquecento, cheterritorializza il governo della transumanza abruzzese in Puglia, proietta inprimo piano una figura che abbiamo già trovato in piena attività nello scio-glimento dei conflitti prodotti dalla dialettica fra le pratiche dell’al-levamento e l’intrico delle giurisdizioni del vasto mondo al di fuori delle“solennissime” dogane: quella dell’agrimensore. Il “regio compassatore”,formalmente esterno alla burocrazia doganale e da questa impegnata casoper caso, è la figura “terza” più attiva nella vita quotidiana degli spazi do-ganali. «I Regi Compassatori nella Regia Dogana», scrive Di Stefano,

sono necessariissimi imperocché, trovandosi tutta questa industria appoggiataal vasto territorio del Regal Tavoliere, che fra tanti massari e locati si ri-partisce, o sia per sapersi che quantità agli uni ed agli altri si assegna, o si trat-ti di differenze fra loro, o col fisco ed o si contenda di affitti di terre salde o didipartimenti di locazione, di poste, di aniti, o di occupazione di territorj, di pa-schi, e di tratturi, o di amozioni di termini, differenze di confini, o disordini,contravvenzioni, o di qualunque altro negozio, sempre i compassatori debbongirar per la campagna a disporre, riconoscere, e situar tutte dette faccende.52

Nel linguaggio doganale, questo insieme di interventi viene classifica-

50. Cfr. Peytavin, Visite et gouvernment.51. Leonardi, Cartografia e società, pp. 148-150. Rimandiamo a questo lavoro per

la bibliografia e per i riferimenti documentari.52. Di Stefano, La ragion pastorale, II, p. 211

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to nelle due categorie del “compasso straordinario”, che si realizza ad istan-za della parti interessate – fisco, corpi o privati – in qualsiasi momento del-l’anno ed in qualsiasi luogo indoganato, con l’intervento di un compassato-re designato dalla Dogana; e del “compasso ordinario”, che, con l’interven-to di 6, e poi di 12 compassatori che si ripartiscono gli spazi indoganati, ve-rifica in ogni primavera, in prossimità della chiusura del calendario doga-nale, la rispondenza fra gli usi del suolo fissati ufficialmente in autunno equelli reali – in particolare verifica che i massari di campo non abbiano ara-to e seminato più di quanto prescritto nella generale reintegra, e che abbia-no lasciato intatto il sistema di tratturi, tratturelli, bracci e riposi che costi-tuiscono le vie armentizie. L’attrezzatura dei compassatori è rudimentale: ilcompasso, la catena di ferro (non soggetta o a ritirarsi per l’acqua e per l’u-mido, o ad allungarsi per altri accidenti o artifizi), la bussola, lo squadroagrimensorio sono adoperati per “ridurre in quadro”, cioè per suddivideregli appezzamenti in figure geometriche misurabili; ma se il territorio è«montuoso, spinoso, boscoso, deturpato, ed in altra guisa difficile e mala-gevole a misurarsi … allora la misura dee farsi per aria, o né men riuscen-do, cogli occhi e ad arbitrio».53 Il risultato di ciascuna misura è una relazio-ne accompagnata da mappe, prima solo areali, con contorno e superficie,poi, a partire dalla prima metà del Seicento, arricchite con elementi topo-grafici. Il “compasso ordinario” raccoglie l’insieme delle misure effettuatenel “libro del compasso”, “discusso” dalle autorità doganali in sede giurisdi-cente con le parti in causa a giugno, e poi, nel Settecento, ad agosto. Ilcompenso dei compassatori, fissato dalla Dogana con un tariffario rigorosoche esclude ulteriori pretese nei confronti di chicchessia, è corrisposto dailocati o dai massari di campo che ne hanno richiesto l’intervento in caso dicompasso straordinario, e, quando si va a giudizio, dalla sola parte soccom-bente; in caso di compasso ordinario, il compenso unitario è minore ed ètratto dai proventi delle multe pagate da chi è trovato in “disordine”, ossiaha coltivato in eccesso rispetto alla superficie concessa.

In tutte queste operazioni il compassatore, sotto il profilo formale,non solo non produce decisioni, ma non monopolizza l’operazione dellamisurazione e non costruisce prove di colpevolezza. Il compasso è sem-pre fatto «in comitiva», costituita, oltre che dall’aiutante del compassato-re che gli «tiene la catena», dagli aventi causa e dai loro periti di parte,custodi degli usi locali, spesso dai rappresentanti dei corpi (l’università

53. Ibidem, p. 213.

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interessata o la generalità dei locati), da soldati; tutti agenti sotto la dire-zione di un ufficiale doganale – originariamente il doganiere in persona,sostituito man mano da suoi subalterni per non accrescere il costo dell’o-perazione con compensi commisurati, come al solito, alla posizione ge-rarchica dei magistrati intervenuti. Ciononostante, tutte le testimonianze anostra disposizione insistono sulla centralità dei compassatori nelle prati-che agro-pastorali e nei conflitti che ne derivano.

Per capire il ruolo di questa particolare figura di “esperto” di anticoregime, può essere utile qualche cenno al profilo dei soggetti concreti chela assumono. L’arte del compasso è esercitata in ambito doganale da ungran numero di soggetti privi di ogni qualificazione tranne quella del lun-go esercizio della misura campestre: ciò che li abilita alla misura è l’ac-cettazione delle parti in causa e dell’amministrazione doganale. A partiredalle istruzioni inviate nel 1574 dal viceré cardinale di Granvela al doga-niere Fabrizio de Sangro, la Dogana comincia a selezionare fra costoro unnumero ristretto – originariamente 6, poi secondo le necessità accertatedal doganiere – di compassatori “approvati” tramite un esame. A volte inpresenza del governatore e dell’avvocato fiscale, due compassatori «ordi-nari approbati», deputati di volta in volta dal presidente della dogana –spesso le coppie di esaminatori sono le stesse per molti anni – accertanole competenze di geometria e computo pratico, oltre che l’esperienza ed ibuoni costumi degli aspiranti. In caso di esito favorevole, il governatorerilascia una patente di “regio compassatore” che ammette il patentatonell’area delle immunità e franchigie godute dai locati e dagli ufficiali do-ganali e lo iscrive in una lista di abilitati ufficialmente alla misura deisuoli di Dogana, dalla quale il doganiere avrebbe dovuto scegliere. Suquesta base prende a formarsi un ulteriore corpo agente in Dogana – il«corpo degli agrimensori di Puglia e di Abruzzo» – del quale GiuseppeRosati, autore di un trattato di agrimensura volto ad emancipare il com-passo dall’approssimazione e dall’incompetenza scientifica dei suoi prati-canti,54 chiede con successo nel 1787 di essere nominato “direttore”, as-

54. Rosati, Gli elementi dell’agrimensura. Nella sua supplica al re, Rosati giustifica lasua richiesta così: «siccome gli agrimensori di Puglia, e di Abruzzo formano un corpo, i dicui individui mercé previa approvazione della Regia Dogana di Foggia, esercitano il di loroimpiego; così questo corpo non ha alcun capo diretto, che nelle dispute possa esaminare o di-riggere le questioni, i dubbi, e molte volte gli errori che si commettono, per cui il Fisco, o leparti si trovano inviluppati in litigi» (cfr. Leonardi, Cartografia e società, p. 134). Sui muta-menti di cui l’emergere della figura di Rosati è parte cfr. Foscari, Dall’arte alla professione.

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sumendo di fatto il compito di “regio esaminatore” per chi aspira alla pa-tente e di revisore di tutte le perizie prodotte dai compassatori.

La svalutazione delle competenze dei compassatori stessi da parte diRosati – e poi da parte degli architetti-agrimensori ottocenteschi –, oltre adessere un elemento di giustificazione indispensabile della sua richiesta, ècerto un piccolo indizio del mutamento nel rapporto fra scienza e saperi edella domanda pubblica di competenze che segna quei decenni in Europa;ma, come la storiografia odierna documenta, la capacità delle competenzedi onorare chi le porta, di costituire “capitale sociale” spendibile non solonell’arena a regolazione incerta dello status sociale, ma anche in quellastrutturata della giurisdizione, è possibile ritrovarla in contesti sociali benpiù risalenti. Nel mondo della Dogana foggiana la pratica della misura deisuoli presuppone l’acquisizione, da parte di chiunque la eserciti in am-biente doganale, di norme, linguaggi, forme di classificazione dei suoli,unità di misura del tutto speciali; insomma saperi che non mediano fra au-torità superiori e mondi locali, ma che si proiettano dall’alto sui luoghi de-legittimando sistematicamente quelli locali. La capacità dei luoghi e deisoggetti di partecipare, in forma negoziale o conflittuale, al processo deci-sionale dipende dalla capacità di collocarsi su questo terreno; in particolare,di servirsi di periti che parlano il linguaggio di quelli patentati e incaricatidalla Dogana. Si tratta in realtà di un linguaggio capace, di per sé, di de-bordare dall’ambito, stabilito dalle norme, del supporto alla decisione degliufficiali. La «maggior stima e decoro» prodotta dalla patente, l’appellativodi “magnifico” spesso conferita al patentato, gli permette di ricollocarsi nelsistema degli status e, al tempo stesso, di non essere “ostacolato” dalle partiin causa nell’esercizio del compasso; cioè di produrre documenti fedede-gni, certificati, di peso simile a quelli prodotti dal notaio – non a caso molticompassatori esercitano al tempo stesso la professione notarile – ed oppo-nibili in giudizio. Il suo ruolo diventa così fondamentale nella definizionedell’oggetto del contendere, nella costruzione della prova e financo nellarisoluzione del conflitto. L’ufficiale giurisdicente – scrive Di Stefano –«non dee … seguitar alla cieca» il «parere dell’agrimensore»; e comunquene deve «far conto … come di perito di quell’arte». Di fatto «si prova … ingiudicio, la stima, e la misura colla fede, colla relazione, o colla deposizio-ne di esso agrimensore, e non già con altri testimoni»: «in dette materie sicrede più ad un perito dell’arte sua, che a mille testimonj, anche se niunaragione desse del suo parere, e si trattasse di vita di uomo, e di negoziogravissimo». La conseguenza è che nelle loro mani si concentra un potere

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di fatto enorme: «gli agrimensori vengon anche sotto nome di censitori,quali, a guisa di rapidi, ed orgogliosi fiumi, ad altri tolgono i territorj, e adaltri li concedono».55

La fondazione dell’esercizio del potere su un capitale sociale “autono-mo” trasmesso di padre in figlio lungo generazioni secolari – il capitale del-la competenza in un ambito cruciale del funzionamento della Dogana – ri-duce l’aderenza dei compassatori agli ambiti sociali di provenienza. La granparte dei 302 patentati fra il 1628 ed il 1806 di cui abbiamo documentazioneappartengono a famiglie originarie dei grandi centri armentari abruzzesi emolisani, ed operano nelle locazioni “solite” delle loro “nazioni”; insom-ma, appaiono diretta espressione della generalità dei locati. E, ciononostan-te, i loro comportamenti suscitano irritazione e disgusto in particolare neilocati e negli scrittori che li sostengono. Essi «fondano … la loro malizianel doverseli dare forzosamente fede alle loro relazioni», scrive Gaudiani, ela esercitano a danno delle terre salde e dei loro utilizzatori ed a favore deimassari; ovviamente dei grandi massari. Anzi, essi sono «salariati nellemasserie grandi e de poderosi». Per gli altri, «se nell’atto del compasso noncorre il sottomano sempre il seminato si trova più della quantità affittata»:«chi li porge, ogni misura è giusta, e chi è renitente la misura è avanzante».Tutto ciò «riduce all’ultimo estremo della disperazione i poveri massari».«È cosa degna di riflessione lo spavento che tengono i massari di questimaledetti compassatori», «gente furba e di rapina».56 E De Dominicis, al-cuni decenni più tardi, torna ad insistere sull’«avidità di quella gente mer-cenaria», sulla «parzialità usata co’ più potenti» e «l’aggravio de’ poveri»,sul fatto che «l’esazione della pena spesso era regolata dal solo irragione-vole arbitrio degli agrimensori»; addirittura sull’abitudine di accettare inca-richi di Dogana e intascarne i compensi «senza soffrire la noiosa faticadella misura».57 Di qui «le continue strepitose liti» in particolare con i loca-ti, che vedono i potenti dissodare le terre pascolatorie delle locazioni ad es-si assegnate con la connivenza di chi dovrebbe opporvisi in nome dellaneutralità del sapere della misura in Dogana e della parzialità di quei nessiparentali e “nazionali” che dovrebbero incardinarli nella “ragion pastorale”.Le lamentele riferite dall’avvocato fiscale al re nel 1781 riecheggiano quel-le esposte ai visitatori del viceregno spagnolo:

55. Di Stefano, La ragion pastorale, II, p. 213.56. Gaudiani, Notizie per il buon governo, pp. 221-222.57. De Dominicis, Lo Stato politico, II, pp. 259-261.

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le frodi delle quali si sono doluti i locati … dipendono unicamente dagliagrimensori, che nella misura dei territori possono favorire i più potenti agri-coltori coll’occultare gli eccessi della semina … I soli particolari locati posso-no tenere in sugezione gli agrimensori e conoscere le frodi commesse; solen-dosi gli atti del General Compasso pubblicare ed esaminare nel mese di ago-sto, hanno gli agrimensori e subalterni usata la malizia di prolungare e differi-re quel disimpegno fino al tempo in cui i locati o sono vicini a partire per lemontagne o si sono allontanati da quei luoghi per accedere agli altri di loropiù importanti affari, perciò le frodi sono commesse con più facilità .58

«La necessaria unione degli Agricoltori e de’ Pastori, stabilita nellaDogana – scrive ancora De Dominicis – dava motivo a continue partico-lari differenziazioni; giacché ognuno era impegnato di profittare a dannodel compagno».59 Ma in ambienti di questo genere, c’è una folla di attoriin campo ciascuno dei quali gioca partite per conto proprio. La semplice esimmetrica contrapposizione fra “ragion pastorale” e “ragione agreste” èdel tutto inadeguata a descrivere le forme e le poste in gioco dei conflitti.

58. Cit. in Leonardi, Cartografia e società, p. ??59. De Dominicis, Lo Stato politico, I, p. 253.

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5. Ingorgo istituzionale e strutturazione del territorionella Murgia pugliese

5.1. Le comunità locali e la minaccia cerealicolo-pastorale

I territori sotto la giurisdizione della Dogana foggiana fuoriesconoampiamente dalla pianura malarica del Tavoliere, e si protendono tenta-colarmente verso sud-est, risalendo la vasta collina calcarea della Pugliacentrale interna. Qui le greggi transumanti inquadrate nella Dogana devo-no insinuarsi in spazi utilizzati da grandi greggi locali che riescono in varimodi a sottrarsi al controllo doganale, e la vicenda dell’allevamento si si-tua in un ambiente istituzionale reso ancora più denso di quello già intri-cato della piana pugliese settentrionale, a causa della presenza vivace diun attore che nella dialettica serrata di corpi, ceti, istituzioni, individuipropria del Tavoliere doganale svolge un ruolo di secondo piano: la co-munità locale istituzionalizzata.

La relativa debolezza della comunità locale è un carattere importantedi una declinazione del paesaggio rustico tutt’altro che infrequente sulcontorno mediterraneo e oggetto di attenzione di storici ed antropologi:quello delle zone più fortemente segnate dalla specializzazione e dallacommercializzazione cerealicolo-pastorale. Qui, al di là dei conflitti e-semplificati nel capitolo precedente, grano e pecora trovano forme di con-vivenza di lunghissimo periodo che possono produrre effetti convergentidi omogeneizzazione e desertificazione dello spazio rustico. La cereali-coltura specializzata delle grandi masserie, che abbiamo visto confliggeree coabitare con l’allevamento ovino nel quadro istituzionale delle dogane,dati i picchi ed i vuoti della domanda di lavoro nel ciclo annuale, producespinte al nomadismo che, sommandosi a quelle della vagatio pastorale,possono contribuire ad impedire o a destabilizzare l’insediamento. La po-

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polazione residente idealmente compatibile con questo modo di fare agri-coltura deve situarsi in una posizione intermedia fra due livelli estremi:quello bassissimo adeguato alle fasi morte dell’annata cerealicola, e quel-lo altissimo adeguato alla domanda di lavoro delle fasi acute. Se la popo-lazione insediata è sufficiente a soddisfare il bisogno di braccia della se-mina e della mietitura, essa precipita in una situazione di disoccupazionepressocché totale nelle altre fasi del ciclo; se è così scarsa da trovare oc-cupazione piena anche nelle fasi di stanca dell’annata, deve essere inte-grata nelle fasi acute con periodiche massicce invasioni di mano d’operaesterna. Emersi in contesti di debole vertebrazione delle comunità locali, ipaesaggi a “campi ed erba” le indeboliscono ulteriormente, in un circolovizioso che finisce per lasciare sul suolo manufatti inconsistenti, spessomiserabili. Ad esempio nell’Agro Romano di età moderna decine di mi-gliaia di contadini e pastori scendono periodicamente da monti e da vil-laggi vicini e lontani e si ammucchiano in borghi dotati di strutture abita-tive minuscole ed autonomia politica inconsistente, che vengono riconse-gnati alla desolazione nei periodi morti del calendario rustico.

Lungo l’età moderna la struttura insediativa della Puglia piana cerea-licolo-pastorale, che pure resta ben più forte di quella dell’Agro Romano,produce immagini di debolezza, riprese con forza fra Sette e Ottocentodagli avversari della “Tartaria” pastorale inquadrata nella grande Dogana.Agli occhi di un osservatore cinquecentesco, la Capitanata è «assai giove-vole alle altre del regno»: «produce … grano, orzo, et altre biade in tantaquantità che veramente si può chiamare il granaio non solo di Napoli edel Regno, ma di molte città d’Italia»; al tempo stesso, «nutrisce la mag-gior parte del bestiame … che da’ luoghi montuosi e freddi discende alpiano». D’altro canto, «in quanto a sé», è la provincia «la più inutile chevi sia», dato che è «di non buona aria, priva di alberi e di legna, poverissi-ma di acqua», «infettata» d’estate «da grandissimi caldi et innumerabilimosche e gran copia di serpi»; e, soprattutto, «è malissimo abitata», siaper il numero che per la qualità dei suoi «uomini, inetti alle armi et allefatiche».1 Ed uno sguardo alla carta geografica sembra a prima vista con-fermare queste rappresentazioni. La Puglia piana settentrionale corrispon-de ad una delle poche lacerazioni vistose della trama storica, per il restorelativamente continua, dell’insediamento meridionale. I centri abitati so-no assai radi e collocati ai margini dello spazio “a campi ed erba”, e, in

1. Porzio, Relazione del Regno di Napoli, p. 326.

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larga parte, sono investiti dalla «cultura della mobilità»2 di antico regime:la percentuale di matrimoni fra coniugi nati fuori le mura è assai consi-stente, il numero dei “fuochi” composti di un solo individuo o di indivi-dui non imparentati è alto, le fluttuazioni demografiche notevoli, il ruolodella donna nella trasmissione della ricchezza è preminente.

Le forme di umanizzazione della collina calcarea pugliese, essa puregrande produttrice di grano e lana per il commercio a lunga distanza, so-no di qualità diversa, e suggeriscono livelli più alti di complessità e sofi-sticazione delle relazioni fra società locale e risorse. La Puglia collinaredi età moderna è una di quelle aree di gigantesche agrotowns i cui quadriinsediativi si presentano nel loro insieme straordinariamente stabili, leidentità locali sono forti, il numero dei cognomi in ciascun centro rimanerelativamente limitato e caratterizzato, i dialetti sono ben marcati e rita-gliati su ciascun borgo. La “pesantezza” dell’insediamento è simbolizzatadalla “pesantezza” del costruito: invece del legno, del fango, del mattonedi tanta edilizia abitativa e produttiva contadina europea, domina la pie-tra, che accomuna molta edilizia rustica alle case, alle mura che le circon-dano, alle grandi cattedrali intorno a cui si stringono. E sul circuito dellemura, che separa lo spazio abitato, agglomerato in forme parossistiche,dalla campagna deserta, gravita ogni ordine di classificazione: le univer-sitates, oltre a coincidere con i centri soggetti a numerazione fiscale, sonospesso riferite allo stesso spazio fisico e sociale della diocesi e del feudo.Tutto questo produce, a partire dal Quattrocento, una continuità fortissi-ma dell’insediamento: qui lo scivolamento dalle università ai comuni ot-tocenteschi è pressoché perfetto. Insomma gli effetti distruttivi che hannospesso la specializzazione produttiva e l’esposizione al mercato sulle so-cietà rurali premoderne non sembrano dispiegarsi qui pienamente.

2. Riprendo l’espressione dal titolo del capitolo conclusivo di Reher, Town andCountry. Su una linea simile Vassberg, The Village. Fra gli scritti da tener presente sullamobilità pugliese segnaliamo: La Cava, La demografia, pp. 25-66; Fedele, Strutture e mo-vimento, pp. 447-484; Lepre, Feudi e masserie; Farinelli, Per lo studio delle migrazioni,pp. ??; Delille, Agricoltura e demografia; Davis, Antropologia delle società, in particola-re le pp. 40-51; Da Molin, La mobilità dei contadini, pp. 435-475; Zotta, Rapporti di pro-duzione; Delille, Famiglia e proprietà; Salvemini, Prima della Puglia, pp. 3-218; Poli,Manodopera bracciantile, pp. 291-306; Marino, L’economia pastorale; De Matteis, «Ter-ra di mandre e di emigranti»; Russo, Immigrazioni di contadini, pp. 249-269; Id., Immi-grazioni nel Tavoliere, pp. 207-223; Id., Montagne e pianura, pp. 133-140. Una buonarassegna degli studi in Sinisi, Migrazioni interne, pp. 41-69.

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5.2. Le vicende dell’insediamento fra medioevo ed età moderna

Per comprendere questa particolare configurazione del territorio oc-corre interrogare, con la rapidità consentita dall’occasione, la sua storia.

Una parte consistente del paesaggio pugliese di età moderna ha lesue premesse nei tempi della “mutazione feudale”. La ripresa, a partiredall’XI secolo, dello slancio demografico e della valorizzazione agricoladella terra consegnata nell’alto medio evo alla silva ed al saltus coincide,in parti consistenti dell’Europa, con il collasso dei poteri che hanno vigo-re su aree vaste, con l’emergere di poteri signorili diffusi e la sistemazio-ne della rete diocesana e parrocchiale. La nuova geografia insediativa siva definendo in un rapporto più stretto con questa geografia istituzionaleche con la geografia delle risorse primarie. È attorno ai nodi di questaquadrettatura istituzionale minuta e regolare, intorno alle chiese parroc-chiali ed ai castelli signorili, che prendono forma, si “incellulano”,3 i vil-laggi – la forma insediativa più importante dell’Europa pre-industriale.Una variante di questo processo che prevale nell’Italia non comunale èl’“incastellamento” dei gruppi umani sui cucuzzoli collinari.

In Puglia4 il processo ha una qualità diversa non solo a causa dellascarsità dei luoghi su cui incastellare, ma anche per il prevalere di forme in-sediative certo non paragonabili a quelle dei comuni centro-settentrionali,ma dotate di autonomia politica e dimensione ben maggiori di quelle dei“castelli”. In una parte larga di quest’area il collasso dei poteri di rilevanzaterritoriale vasta si verifica in misura limitata. Il potere bizantino, prima colTema di Langobardia poi con il Catapanato d’Italia, non consegna indi-scriminatamente i luoghi a milites e vescovi, ma seleziona alcuni centri incui situare le articolazioni della sua macchina amministrativa. Le «spe-rimentazioni del potere»5 di questa fase rianimano vecchie civitates e neinventano di nuove, e le più importanti tendono ad esercitare in proprio unaparte del comando politico.6 Al tempo stesso, esse diventano centri propul-

3. È un concetto sul quale è tornato numerose volte Fossier: cfr., ad esempio, il suoPaysans d’occident. Il riferimento ovvio per l’Italia è agli studi di P. Toubert.

4. Sulla Puglia fra alto medioevo e prima età moderna cfr., fra l’altro, Licinio, Uo-mini e terre; Poso, Economia e società; Puglia e Basilicata; Visceglia, Territorio feudo epotere locale; Porsia, Terra di Bari, pp. 469-516; Vallone, Feudi e città; Martin, LaPouille. Particolarmente utili per avviare ragionamenti comparativi sull’insediamento me-ridionale coevo Vitolo, Le città campane; Berardi, I monti d’oro.

5. Il riferimento è a Tabacco, Sperimentazioni del potere.6. Cfr. Von Falkenhausen, Bari bizantina, pp. 195-227; Martin, Città e campagna,

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sori della riconquista dello spazio a fini agro-pastorali, e diffondono il po-polamento propagginando, a partire dai primi gradoni collinari, insedia-menti di livello gerarchico inferiore e ad essi sottoposti: i “casali”. Soste-nuto da questa armatura politica, il paesaggio comincia a riprendere formaseguendo in parte le tracce lasciate dal periodo tardo-antico.7 Riemerge unaeconomia rustica piccolo-contadina capace di alimentare circuiti ben piùvasti di quelli locali: gli olivi tornano a diffondersi sulla costa, il grano nonè più un elemento di un paniere di beni da autoconsumare ma ridiventacoltura monetizzata e destinata in buona parte a consumatori lontani;8 con-tadini e massari si spargono anche nelle terre profonde e malariche dellefosse di riempimento quaternario, dove fanno loro concorrenza, oltre aglianimali locali, le pecore delle montagne abruzzesi, tornate dopo secoli atransumare massicciamente verso i pascoli invernali delle pianure vicine.

La feudalità, quando arriva, non è il prodotto del collasso dei potericentrali, ma, al contrario, uno degli elementi di una nuova strutturazionesovralocale del comando politico. Lo stato normanno dà forma al territorioinquadrandolo, oltre che in distretti feudali e militari, in circoscrizioni giu-diziarie, ed i suoi ufficiali, insediandosi in centri strategicamente disposti,contribuiscono a farvi crescere funzioni direzionali, a complicarne l’artico-lazione sociale e, indirettamente, ad alimentare le loro pretese di autono-mia. Così, a differenza che nei borghi incastellati, il castello signorile di-venta un carattere certo imponente del panorama dei centri pugliesi, manon lo riassume e non lo domina senza residui: esso è un elemento di unadialettica plurale, simbolicamente e materialmente minaccioso perché cu-stodisce un potere legittimamente armato, ma oggetto di contestazioni, ri-volte e conflitti acuti. Quando, con gli Angioini, il potere centrale si inde-bolisce e la feudalità comincia a dar vita a grandi “stati” semiautonomi, isignori non avranno di fronte una campagna su cui esercitare giustizia e dacui estrarre redditi, ma un territorio irto di poteri con cui confrontarsi anchequando i luoghi in cui sono situati sono formalmente ad essi infeudati.L’indebolirsi del centro tende a favorire tutti i poteri diffusi, non solo quelli

pp. 257-382; Storia di Bari. Per un quadro comparativo vedi Wickham, Land and Power;Cammarosano, Nobili e re. Ci sembrano particolarmente utili le annotazioni sulla dialetti-ca dei poteri di Skinner, When was southern Italy “feudal”?, pp. 316-323.

7. Di grande utilità anche per storia recente del territorio pugliese Volpe, Contadini,pastori e mercanti.

8. Un fenomeno, del resto, già ben attestato: cfr. Martin, Economia naturale, pp.184-224.

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signorili ma anche, dove hanno assunto consistenza, quelli, per così dire,urbani. Il carattere di universitates dei centri abitati, cioè la loro qualità disoggetto collettivo capace di esprimere autogoverno ed essere titolare di ri-sorse, viene largamente riconosciuto ed ufficializzato. Le universitatesavanzano pretese su spazi che cercano di definire e confinare, e su di essifanno valere il proprio potere, sul piano della efficacia e della legittimità, difronte ai poteri dei signori e del re. Nell’ambito dello spazio di pertinenzadei centri, i diritti di possesso individuale sulla terra, il demanio regio, ildemanio signorile, i possessi ecclesiastici coesistono con gli spazi patrimo-niali nella disponibilità dell’università e col demanio universale indisponi-bile perché di pertinenza di tutti coloro che possono dimostrare piena ap-partenenza al corpo locale. E del resto, la diffusione e molteplicità dei di-ritti legittimi opponibili nei tribunali è alimentata dal precoce dissolversidella condizione contadina servile in un contesto di monetizzazione e mer-cantilizzazione della produzione. Così i diritti di disposizione sulle risorseterritoriali si sovrappongono e si intrecciano. Ne deriva un seminario diconflitti: violenze e prepotenze con mobilitazione di clienti e protettori, in-sieme al ricorso ad ogni livello giurisdizionale, sono caratteri di una quoti-diana dialettica sociale che vede i cives partecipare come attori di primopiano, e non sempre nel ruolo delle vittime predestinate.

La grande crisi trecentesca rappresenta una minaccia grave al plurali-smo territoriale pugliese. Essa non è semplicemente un episodio della vi-cenda ciclica di avanzamento ed arretramento della popolazione e dellavalorizzazione dell’ambiente, dal momento che modifica, una volta pertutte, un elemento di fondo della precedente crescita insediativa: l’artico-lazione e la connessione fra centri dominanti e casali. Il crollo della popo-lazione non è proporzionale nei singoli luoghi: centinaia di casali scom-paiono, la gerarchizzazione fra quelli che sopravvivono è violenta, e qual-cuno di essi finisce per collocarsi su un livello elevato della scala onorifi-ca e politica dell’insediamento. La rete insediativa assume una fisionomiaancor oggi riconoscibile. Gli abitanti dei casali in disfacimento si rifugia-no dentro le mura dei centri più vicini, e con essi vi si trasferiscono depo-siti, mulini, trappeti, a volte palmenti e rifugi di animali. Due grossi edifi-ci ad utilizzazione discontinua, la masseria cerealicola e lo jazzo pastora-le, rimangono extra moenia a surrogare in qualche misura la presa direttae continua che il casale e la sua edilizia minuta e diffusa realizzavano sulsuolo. E comunque, jazzi e masserie riescono solo in piccola parte asdrammatizzare l’opposizione, ormai nettissima, fra spazio abitato e spa-

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zio disabitato, fra i luoghi dell’abitare affollati di uomini ed i luoghi de-serti del lavorare.

Non dovunque la scomparsa dei casali si traduce in una selezione e ge-rarchizzazione della trama insediativa. Nelle vasta pianura del Tavoliere leWuestungen trecentesche attaccano alla radice il popolamento per “casali”senza ricomporlo in alcun modo.9 La lacerazione della rete insediativa incorrispondenza della grande pianura di riempimento quaternario diventavistosa, e rende possibile per i poteri centrali la concezione e la sperimenta-zione, tramite la Dogana, di forme di costruzione dall’alto del territorio diinaudita incisività, volte alla valorizzazione ulteriore di una pastorizia giàavvantaggiata dalla crescita dei salari agricoli e dalla ridotta presenza neicircuiti europei della lana inglese a causa delle vicende belliche secolaridell’ultimo medio evo. Ma le terre fiscali dedicate alla pastorizia “forestie-ra” si incuneano, come si è detto, anche sulle colline calcaree, nelle terre la-sciate vuote di abitanti per l’arretramento dei “casali” ma dense di lavoro edi poteri anche per la presenza di un reticolo insediativo robusto. Le “loca-zioni” di Andria e Canosa, i “ristori” delle Murge di Terlizzi, Grumo, To-ritto, Spinazzola, del Parco di Minervino e del Bosco di Ruvo, il grande“riposo generale” della parte nord-occidentale dell’Alta Murgia, e le altreterre appropriate e regolamentate dal re che, in forme più sfrangiate, giun-gono fin dentro la Terra d’Otranto, contribuiscono a rendere l’altopianomurgiano in qualche misura estraneo ai suoi abitanti. Man mano che la co-sta tirrenica settentrionale diventa il centro di gravitazione, sul piano demo-grafico e politico, del Regno di Napoli; man mano che cresce il ruolo dellacapitale e si definisce, in particolare in Terra di Lavoro, una economia agri-cola intensiva, policolturale, con una presenza significativa di manifatturatessile, si profila viceversa per il fronte adriatico proiettato verso oriente ilduplice ruolo di frontiera armata verso gli infedeli e di fornitore di grano elana alla capitale ed all’area ad essa circostante. Nelle terre indoganate co-mincia ad essere giocata una partita “politica” con poste in palio ben defini-te: sul periodo medio-lungo i permessi di dissodamento delle terre vincola-te alla pastorizia, sul periodo breve i permessi di esportazione del grano (le“tratte”). Al di fuori della Dogana i segnali del mercato interno ed interna-zionale giungono meno mediati dalle complicate macchine decisionali spa-gnole e napoletane, e vengono accolti in particolare da baroni e gestori del-

9. Il riferimento d’obbligo resta ancora Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati, pp.310-364.

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le grandi proprietà ecclesiastiche impegnati nella crescita delle voci nongiurisdizionali dei propri bilanci. Comunque, nel secondo ’500, la specia-lizzazione produttiva e la mercantilizzazione si presentano ben più intensedi quelle del periodo precedente la grande crisi di metà Trecento, sia dal la-to pastorale che da quello cerealicolo.

Ma tutto questo non provoca dinamiche incontrollate, non scomponeil paesaggio, come avverrà nell’Ottocento. Pezzi del territorio produttivopugliese assumono – lo vedremo più avanti – forme particolari, struttura-te, che non possono essere comprese senza tenere ben presenti le dinami-che e le caratteristiche assunte dai poteri locali ed extralocali nel passag-gio cruciale alla prima età moderna.

La costruzione dell’insediamento murgiano dei secoli centrali del Me-dioevo non si è consumata invano.10 La quadrettatura dei poteri locali escedalla crisi trecentesca sostanzialmente diradata, i suoi nodi si presentanoormai sparsi e isolati; ma essa riemerge in forme diverse. Un gruppo con-sistente di universitates, dopo la stagione favorevole aragonese, non soc-combe alla “rifeudalizzazione” del periodo spagnolo. Esse si irrobustisconocon la crescita demografica cinquecentesca, conquistano e difendono statuticittadini man mano aggiornati, trascrivono privilegi, pretese ed esenzioni inLibri Rossi che le solennizzano e le salvaguardano, e vengono adoperatecome risorsa contro l’incombere dei poteri “esterni” – ecclesiastici, feudali,statali – che segna la prima età moderna. L’irrobustirsi ed infittirsi dellediocesi e degli apparati ecclesiasici in generale, offre alle università occa-sioni di ascesa nei ranghi onorifici: molte terre e città conquistano lo statusprestigioso di sede vescovile, fino al punto che la rete delle circoscrizionidiocesane si sovrappone per ampi tratti su quella delle circoscrizioni delleuniversità. D’altronde queste ultime innalzano barriere robuste contro ilpotere dell’ordinario diocesano, inserendolo in una dialettica che vede co-me protagonisti altri centri di potere ecclesiastico in mano alle élites locali– in primo luogo il capitolo cattedrale e spesso le istituzioni regolari. Anche

10. Le pagine che seguono sono fondate sugli studi di L. Palumbo, G. Galasso, S. Zot-ta, A. Massafra, G. Delille, L. Donvito, G. Muto, A. Spagnoletti, M. Spedicato, G. Poli, J.Marino, S. Russo, A. Squeo, A. Carrino. Segnalo in particolare, di Spagnoletti, «L’inco-stanza delle umane cose»; di Galasso, Puglia, pp. 373-386; di Marino, L’economia pastora-le; di Muto, Istituzioni dell’universitas, pp. 19-67; di Delille, Le maire et le prieur, centratoin buona parte su Altamura. Molti spunti di grande interesse nei saggi di Vitolo, Muto, Val-lone e Musi in Città e contado. La linea seguita in queste pagine non può essere attribuita anessuno di questi studiosi.

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le ondate di concessione in feudo di terre in demanio da parte dello statospagnolo, ed il generale processo di “aristocratizzazione”, che comporta ilrestringimento formale della partecipazione dei cittadini al governo locale,trovano argini nella vivacità persistente delle autonomie. Nessuno fra igrandi centri murgiani riuscirà a sfuggire all’infeudamento e tutti ridurran-no i diritti di accesso alle magistrature cittadine. Ma il risultato, come glistudi recenti sottolineano, non è tanto rinsecchirsi della dialettica politica,quanto la sua verticalizzazione: nuovi gruppi fazionari e clientelari coin-volgono parti consistenti degli abitanti che le norme escludono sul pianoformale, e realizzano con il signore dialettiche complicate, spesso vivaci eviolente. A sua volta, il protagonismo dei poteri centrali nella costruzionedel territorio, date le caratteristiche di fondo del cosiddetto “stato moderno”che va realizzandosi anche nel sud d’Italia, non si esprime tramite catene ditrasmissione del comando organizzate in forma burocratica, ma con istitu-zioni e corpi dotati di una sfera significativa di autonomia, le cui propaggi-ni locali vengono spesso risucchiate nella dialettica politica interna alleuniversità. Agendo in nome del re, essi aggiungono complessità ai poteriurbani, invece di semplificarli e gerarchizzarli, alimentano il gioco faziona-rio e lo dotano, oltre che di vincoli, di nuove risorse.

Questa folla di attori che si incrociano anche nello spazio politicodell’università e che di frequente trovano nell’istituzione dell’universitàuna forma di aggregazione e di espressione, rende lo spazio umanizzato og-getto di pratiche pattizie minute, di una sequela di scelte di rilevanza pub-blicistica raggiunte seguendo le forme tipiche dei processi decisionali diantico regime: le procedure del giudizio privato. Convocati in luoghi istitu-zionali informali o formalizzati, gruppi di potenti negoziano e configgonofra loro e con gli apparati, producendo decisioni di incerta validità e legitti-mità destinate spesso ad essere smentite da decisioni successive. Il suolo edil controllo delle sue forme di utilizzazione vengono spesso formalmentesottratte alle comunità insediate e consegnate a poteri lontani, ma non senzaresidui e contraddizioni. Su ogni roccia, ogni macchia, ogni lama e spec-chia di luoghi a prima vista fuggiti dall’uomo si deposita una immensa econfusa normativa. Anche lo spazio cerealicolo-pastorale fuori Dogana vie-ne denominato, compassato, rappresentato da una cartografia che mescolala geometria elementare con forme loquaci di scritto e di ornato, raffiguratoin apprezzi, platee, cabrei, catasti, rivendicazioni possessorie presentate aigiudici, atti di pacificazione sanciti dai notai. I tentativi di mettere ordinenel coacervo delle pretese e dei diritti ne escono irrimediabilmente sconfit-

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ti. Le distanze fra la realtà e le norme diventano incolmabili, e individui egruppi locali vi trovano spazi consistenti di iniziativa anche adoperando, co-me risorsa e sfera dell’azione, la robusta comunità locale istituzionalizzata.

In questo quadro di grande densità normativa, istituzionale e sociale,l’azione sul suolo assume una inflessione particolare. L’“uso di Puglia” –un coacervo di consuetudini riguardanti metodi e rapporti di produzione inparte diverse da luogo a luogo emerse nella fase di passaggio fra tardo me-dio evo e prima età moderna – è presentato fuori e dentro i tribunali, oradell’uno ora dell’altro dei contendenti e per obbiettivi spesso contraddittori,come vigente ovunque e ab immemorabili e sostenuto dal prestigio di untempo immaginario su di essi depositatosi; ma la forma assunta dall’arenapolitica e sociale rende in qualche modo efficace la finzione giuridica. Lamasseria e lo jazzo, spesso descritti come edifici produttivi adattati ad unambiente ed alle sue risorse, diventano la pietrificazione di un delicato si-stema di compatibilità fra una folla di soggetti e pretese. Massari e pastoriassumono profili ambigui, spesso radicalmente equivocati da osservatori edinterpreti: gestori di risorse dotati di vaghe assonanze con figure imprendito-riali del mondo moderno che anticipano capitali e assumono lavoro salaria-to, essi sono privati di una parte consistente della capacità di decidere e diallocare i fattori della produzione a seconda delle opportunità e delle conve-nienze calcolate in termini di profitto; imprenditori senza innovazione, col-locati a cavallo fra la sfera dell’economia e quella della politica intesa comeorganizzazione della coesistenza conflittuale di una molteplicità di interessie soggetti insistenti sulle risorse limitate di un quadro territoriale dato.

L’esito ultimo è che le minacce più gravi agli equilibri instabili voltaa volta raggiunti vengono depotenziate, le forme di costruzione del terri-torio che spingono allo sradicamento degli insediamenti dal proprio suoloed alla esasperazione della specializzazione produttiva sotto lo stimolodelle convenienze del mercato e delle esigenze dei poteri, vengono frena-te, mediate, sottoposte a vincoli robusti. Ne emergono elementi imprevistidi autoorganizzazione, di controllo, in un certo senso di governo dellospazio e dei suoi usi, dentro i quali possono prendere forma, e riescono avolte a durare a lungo, logiche territoriali strutturate.

5.3. Nelle Murge meridionali: una platea baronale nello spazio conteso

Le forme assunte dall’ingorgo istituzionale murgiano sono le più varie.Le esemplifichiamo in due casi collocati ai due capi estremi dell’altipiano.

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Negli anni Venti del Settecento i Caracciolo di Martina, una dellegrandi casate feudali meridionali e allevatori importanti di bovini, giungo-no ad un momento importante della loro vicenda secolare. La decisione,presa nel corso del Seicento, di dislocare il centro di gravità del feudo nellaMurgia meridionale, simbolizzata dalla costruzione del grandioso palazzodi Martina, sembra dare i suoi frutti, e si esprime in una produzione docu-mentaria importante voluta direttamente dal duca.

L’organizzazione giuridica ed economica di questo territorio sembracollocare quest’area ai margini del generale processo di quadrettatura del-lo spazio di età moderna: da un lato esso conserva ampie riserve di incol-to macchioso e boscoso, dall’altro vi sono largamente presenti suoli nonattribuiti a singoli centri abitati ed usati in comune fra i cives di varie ter-re, città e casali. Pensare le terre comuni e gli usi civici semplicementecome dimensione giuridico-territoriale dell’arcaismo pascolatorio, comeuna “cultura” ed un “linguaggio” connesso all’allevamento brado e, più ingenerale, alla società rurale premoderna, impedisce di dar conto delle vi-cende complicate che si svolgono nell’area. Questa configurazione delpaesaggio fisico e giuridico è un lascito della disposizione e della dialetti-ca dei poteri tardo-medievali, in particolare dell’attività di popolamentodi uno dei più grandi “stati feudali” del tardo medioevo meridionale, ilprincipato di Taranto, che, nel quadro di una gestione unitaria del suospazio, aveva promosso o permesso fondazioni di centri senza territorioproprio, ma con attribuzione tramite privilegio di risorse da ricavare suterritori altrui. Nella prima età moderna il diritto di questa terra si compli-ca, dato che deve anche qui far fronte alle spinte alla misura ed alla defi-nizione dello spazio a cui abbiamo più volte fatto allusione: ad esempioalla redazione di catasti, con, ad esempio, la conseguenza foriera di con-flitti acuti che gli abitanti di Noci, centro ben più popoloso di Mottola maprivo di un suo territorio, devono figurare fra i fuochi della stessa Motto-la, con cui hanno un contenzioso secolare. Il quadro che ne deriva è pro-fondamente instabile. Gruppi di individui, comunità locali dotate di livellivari di istituzionalizzate, casate feudali di primo piano, ufficiali provin-ciali e centrali del viceregno napoletano, concorrono e confliggono perl’accesso alle risorse agro-silvo-pastorali, con la solita sequela di “appa-dronamenti” di demanio per la semina che prolungano l’esclusione delbestiame al pascolo sul suolo “appadronato” anche dopo la raccolta, co-struzione di “parchi” e “difese” invase dagli animali di chi non ne ricono-sce la legittimità, costituzione di “parate” dei frutti pendenti che tentano

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invano di escludere l’accesso dei suini al bosco, appropriazione di acque,aggressione al bosco, sequestri di animali: una dialettica serrata, spessocruenta, che dà vita ad un gioco mutevole di alleanze e contrapposizionisottolineato con forza dalla storiografia recente.11 L’episodio più famoso– un tipico duello barocco svoltosi sul sagrato della chiesa dei Cappuccinidi Ostuni nel 1665 fra Petraccone Caracciolo, primogenito del duca diMartina, e Cosimo Acquaviva duca di Noci, nel quale quest’ultimo rima-ne ucciso – va da un lato inquadrato in rivalità collocate nel vasto spaziodominato dagli Asburgo di Spagna, dall’altra nelle contese di questa Mur-gia di territori non attribuiti, in cui gli abitanti di Noci, soggetti personal-mente all’Acquaviva di Conversano, usano per privilegio luoghi soggettial Duca di Martina, che vanta diritti sullo stesso Acquaviva per i beniburgensatici da quest’ultimo posseduti nel territorio di Mottola.12

La sistemazione raggiunta faticosamente nel 1726 come esito immedia-to di uno scontro armato fra il Caracciolo ed i cives di Mottola da un lato, edall’altro l’Acquaviva ed i Nocesi, con la mediazione dell’ennesimo inviatodel Sacro Regio Consiglio, sembra risolvere alla radice il problema non solosciogliendo le promiscuità fra i due centri e attribuendo finalmente un territo-rio a Noci, ma realizzando una sorta di pulizia possessoria dello spazio. Datoche qualunque relazione possessoria delle persone con le cose non può im-pedire che sulle cose stesse abbiano efficacia i diritti signorili eminenti, sivieta di possedere o fittare immobili al di fuori del territorio assegnato allapropria comunità locale, cosicché si venga gravati di diritti personali e realiin capo ad un solo signore. Le condizioni per una proiezione sul suolo dipossessi e diritti sembrano, a questo punto, tutte presenti, ed il duca procedealla redazione delle “platee” dei suoi domini. Quella di Mottola è ben piùfitta di possessi burgensatici, ma quella di Martina ha un valore simbolicomaggiore, ed una solennità particolare. Guardiamola rapidamente.13

Commissionata ad un anonimo compilatore ben addentro alla storiacomplicata ed ai grovigli dei diritti accumulatisi sul suolo, la platea, che portala data 1728, non si presenta tanto, come spesso in questi casi, come un atto

11. Sirago, Il feudo acquaviviano, pp. 73-122; Visceglia, Comunità, signori feudali eofficiales, pp. ???; Spagnoletti, Il governo del feudo; Id., Ufficiali, feudatari e notabili;Papagna, Stato, baroni e università, pp. 369-425; Ead., Sogni e bisogni.

12. Cfr., per tutti, le pp. 405-406 di Papagna, Stato, baroni e università, con la bi-bliografia e la documentazione citata.

13. La platea è stata pubblicata a cura di D. Blasi, G. Liuzzi, G. Aquaro, O. Carbotticol titolo La platea del 1728.

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“pubblico” di natura rivendicativa, quanto come un lungo e minuzioso re-pertorio, ad uso “privato”, di opportunità, possibilità, spiragli di azione edappropriazione, di ragioni da opporre a pretese altrui sempre incombenti, inun gioco che si è fatto meno teso ma che resta affollato di attori e di vincolirobusti. I possessi non controversi sono ovviamente quelli burgensatici, ma laplatea non nasconde il tortuoso processo che li ha portati nella disponibilitàdel duca. L’acquisizione del bene di gran lunga più cospicuo, la Masseria deiMonti situata a sud-est di Martina, è in buona parte risultato di una strategiadi inserimento nel lungo processo di erosione del demanio universale dellacittà di Taranto, capoluogo del grande stato feudale scomparso nel Quattro-cento, che vede ormai il «bestiame de la montagna … mangiare l’herbe finoavanti le porte di detta Città non senza danno grandissimo di quello poco be-stiame quale teneno li huomini di detta Città».14 Realizzatasi nel 1609, con ilconsenso del papa, una “concordia” fra la mensa arcivescovile di Taranto,titolare dei diritti sulla Selva Tarantina, e gli utilizzatori di Martina, i Carac-ciolo riescono a farsi concedere nel 1639 dall’università di Martina riunita inpubblico parlamento, e l’anno seguente dalla Mensa arcivescovile e dal papa,il permesso di “chiudere” una cospicua porzione della selva che, unita ad al-tre terre contigue da lui possedute, può organizzare nella grande masseria.15

Il bene feudale più cospicuo è invece «il corpo della bagliva con la fa-coltà di creare il giudice, che tiene il suo tribunale a parte, et esercita la giu-stizia nella cognizione de’ danni dati, competendoli de jure il misto impero,e la cognizione delle cause regie».16 Si tratta di un bene di enorme impor-tanza, dato che metterebbe nelle mani del titolare il potere di regolamentarel’uso del suolo, ma di possesso radicalmente incerto. In primo luogo, comela platea ricorda, ci sono su di esso antiche pretese dell’università di Marti-na, nonché la richiesta recente del regio fisco di esibire il titolo del posses-so: «pretenzioni» delle quali, «per avere … piena cognizione, egli è neces-sario raccogliere quelle notizie, che si han potuto ricavare da processi, escritture autentiche».17 In secondo luogo, dopo secoli di conflitti, “concor-die”, mediazioni, rinegoziazioni, lo spazio di esercizio della giurisdizionebaiulare rimane altamente contenzioso: un punto che la platea illustra riper-correndo minutamente la storia del territorio non certo per soddisfare le cu-

14. Da un documento del primo Cinquecento cit. in Visceglia, Territorio feudo epotere locale, p. 213.

15. La platea del 1728, pp. 203-207.16. Ibidem, p. 115.17. Ibidem.

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riosità erudite del duca, ma perché il passato qui non sembra mai passaredel tutto, e rappresenta un vasto repertorio di risorse giuridiche per possibiliatti di rivendicazione. La rassegna delle “disgrazie” di Martina può aprirealtri spazi per l’azione. Priva originariamente di un territorio proprio, Mar-tina aveva conquistato e perduto risorse su territori altrui. Aveva dirittid’uso su quello di Ostuni, tant’è che «molti particolari di Martina … pos-sedevano terreni aperti e chiusi, acquari ed altri membri in detto territo-rio»;18 ma ai primi del Cinquecento Isabella d’Aragona, duchessa di Milanoe feudataria di Ostuni, costruisce una difesa a due miglia dalla città, impe-dendo il pascolo ai martinesi ed aprendo un contenzioso non giunto a con-clusione. L’altra “disgrazia” era stata la reintegra a favore della Dogana diFoggia, nel 1542, di pascoli usati in comune con Castellana, Fasano, Loco-rotondo e Cisternino, su cui la città regia di Monopoli esercitava la giuri-sdizione baiulare. Tutti questi centri “capitolano” fra loro e con Monopoliper ricomprare dalla Regia Corte, per 16000 ducati, l’uso del territorio se-questrato a favore delle pecore transumanti, e, con la mediazione dell’in-viato del viceré, giungono nel 1566 ad elaborare un monumentale insiemedi norme per l’accesso alla risorsa. Usato in comune secondo regole spessoassunte dal “consueto” in vigore nei territori indoganati, e vietato alla be-stie di chi non ha la «communità», siano esse prese «a moneta o a sorte», ilterritorio è suddiviso fra le università “capitolanti” solo per l’esercizio dellabagliva in proporzione ai fuochi, e delimitato accuratamente. Lasciandoovviamente margini abbondanti di incertezza, conflitto, rivendicazione: adesempio sull’uso del “distretto”, che, conquistato da Martina per privilegio,offriva statutariamente ai cittadini entro un circuito di due miglia dalle mu-ra, suoli da “serrare” per orti e vigneti, ma che viene ora esso pure compu-tato nelle terre di uso comune per le parti aperte e quindi escluso da futurechiusure. Infine, non sono «certi i deritti, e le ragioni, che competono allabagliva».19 Se non c’è contestazione alcuna sul fatto che essa abbia «la giu-risdizione di conoscere le cause de’ danni dati, e le cause civili minime, efurti leggeri … l’altre facoltà le ha per consuetudine de’ luoghi, o per ca-pitolazione».20 Ma le «capitolazioni della bagliva» fra il signore e l’universi-tà che la platea può esibire21 sono mute su alcuni dei nodi fondamentali del-l’uso del suolo: ad esempio nulla dicono sul fatto che il possesso della bagli-

18. Ibidem, p. 79.19. Ibidem, p. 122.20. Ibidem.21. Alle pp. 123-125.

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va metta o no nelle mani del suo titolare il «proibire e concedere, che i citta-dini di Martina non possano, o possano chiudere i loro territori». Su questopunto le ragioni dell’università infeudata di Martina, che vogliono che i pos-sessori di terre nel territorio della città possano chiuderle a piacimento, sonoaffidate a due norme scritte – un privilegio regio del 1495 ed una sentenzadella Sommaria del 1571, confermata da una «sentenza arbitraria» del1584 –, a fronte delle quali l’estensore della platea deve far ricorso a fonti didiritto diverse ed a suo avviso più efficaci delle scritture specifiche: al fattoche l’università di Martina «di tal privilegio non ne sta … in possesso»; alle«leggi del regno»; all’«utilità pubblica»; alla «comune opinione di tutti idottori» sul concetto di “padronanza”, la quale «non importa altro, se nonche possa il padrone seminarli, e mentre stanno seminati difenderli da chi-chesia, ma secate le messi, debbano restar communi per uso de’ pascoli».22

Le “molte differenze” non solo fra l’università di Martina e quellecontermini, ma anche fra l’università ed il duca rimangono ben evidentinella sistemazione degli anni Venti del Settecento, ed emergono con forzanel documento che la dovrebbe sancire. Non è certo sorprendente che ne-gli anni Quaranta, quando questo centro di circa 9000 abitanti fa registra-re nel catasto conciario, oltre ai soliti asini e muli, circa 20.000 ovini,5.000 suini, grosse mandrie di bovini ed una cospicua produzione di cuoie lane, la contesa sugli spazi pastorali fra Martina ed il suo duca riesplodafragorosamente, e che quest’ultimo debba farsi proteggere da una guardiaarmata composta da cinquanta artigiani ripagati a spese altrui, conl’esenzione dalla “tassa inter cives” imposta dall’università stessa.23

5.4. I “musciali” di Barletta

All’altro capo dell’altopiano, dove la valle del fiume Ofanto separala collina calcarea dalle terre quaternarie profonde del Tavoliere, la cittàregia di Barletta vanta un territorio che, a differenza di Martina o di Noci,può considerare di sua pertinenza sin da quando, intorno al X secolo, isuoi «primi abitatori» si sottraggono al controllo della declinante Canosae «si f[anno] sui iuris».24 Ma, anche qui, accedere alle risorse significafarsi largo in un ingorgo istituzionale e normativo impressionante.

22. Ibidem, pp. 127-128.23. Spagnoletti, Il governo del feudo, p. 78.24. F.P. De Leon, Istoria di quanto a Barletta particolarmente appartiene così in ordi-

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Fig. 3. Il Territorio di Barletta (1470-1806)

Si prenda il caso dei “musciali”,25 all’incirca 1500 ettari, ubicati alconfine col comprensorio di Trani, che devono la propria denominazionealla forma di uso del suolo che prevale in età tardo-medievale: il pascolodelle pecore della locale razza “moscia” in alternanza con i campi a gra-no. L’istituzione della Dogana, che riguarda i soli possessori di pecore“gentili”, non coinvolge direttamente i “musciali”, ma li chiude fra terrefiscali, fra la locazione di Canne a sud e ad ovest, e, a nord, il tratturo che«esce dal Ponte di Barletta e si perde nel tenimento di Grumo»,26 al di là

ne all’ecclesiastico che al civile dal principio di sua fondazione sino al corrente anno 1769composte per uso proprio da F.P.D.L. medico primario di essa città con l’aggiunta in finede’ documenti principali fedelmente e autenticamente trasundati per maggior pruova e vali-dità della storia medesima, Barletta 1769: copia manoscritta di S. Loffredo, conservata (ine-dita) in Biblioteca Comunale di Barletta, ai segni Ap. M 29, c. 30.

25. Per i materiali documentari sui “musciali” si veda la bella tesi di dottorato di Po-lignano, Il territorio e i poteri.

26. Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASNa), Ministero delle Finanze, se-rie «Tratturi», vol. 94, p. 3.

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del quale comincia il “ristretto” della città. La sorveglianza dei locatiabruzzesi sulle terre indoganate – sospetta un erudito locale settecentesco– è una ragione importante dell’incapacità dei pastori barlettani di appli-care il privilegio «bello e lampante» ottenuto nel 1514 da Ferdinando ilCattolico di ampliare significativamente i pascoli a loro disposizione perallevarvi altre 4000 pecore.27 Forse anche per l’impossibilità di trovarespazi aggiuntivi, nel 1551, i pastori di pecore “mosce” chiedono di «cam-biarle in pecore gentili»,28 le quali possono pascolare soltanto negli er-baggi amministrati dalla magistratura foggiana, e quindi impongono latrasformazione dei “musciali” in terre indoganate. Si tratta comunque diuna situazione particolare, dato che le pecore “gentili” barlettane non so-no destinate alla transumanza, ma occuperebbero i loro pascoli per tuttol’anno, e devono convivere con gli utilizzatori dei campi a grano che vo-gliono sottrarsi alla giurisdizione ed agli usi doganali.

Ne emerge, attraverso negoziazioni su cui la documentazione tace, unaparticolare configurazione giuridica, poggiata su una convenzione fra la Do-gana stessa, l’università di Barletta e gli utilizzatori degli erbaggi dei “mu-sciali”, identificati ora come “locati” e, di fatto, come corpo chiuso in gradodi sottoscrivere contratti e adire la giustizia. Diviso il territorio in due por-zioni, quella utilizzata a semina che rimane nelle pertinenze dell’università(circa 700 ettari) e 800 ettari pascolatori, suddivisi a loro volta in cinque po-ste collocate nella «rubrica di poste a parte»29 della Dogana, gli armentari siimpegnano a versare in solido, annualmente, 360 ducati alla Dogana («im-porto di fida di 12000 pecore», salito successivamente a 430 ducati «per nuo-va imposizione»),30 più altrettanti alla universitas; essi «non hanno nessunacomunità con gl’altri locati della Dogana», «non possono uscire dalli loroproprii erbaggi sotto la pena della controvenzione, né vi possono introdurrepecore, che non siano de cittadini oriundi [di Barletta], e tenendo più numerodi pecore [rispetto alle 12000 pattuite] son tenuti a pagarne la fida».31

La materia del contendere sembra in questo modo ridotta, ma riemergecon forza, ad esempio sulla liceità del pascolo sui maggesi della porzioneseminatoria, ampiamente utilizzati dai locati nell’ambito del regime dellemasserie di campo delle terre doganali “normali”. Ma è lo statuto giuridico

27. De Leon, Istoria, c. 35.28. Ibidem.29. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 168.30. De Leon, Istoria, c. 35.31. Gaudiani, Notizie per il buon governo, p. 168.

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dei “musciali” nel loro complesso che rimane fondamentalmente incerto.La questione si presenta in tutta la sua gravità sullo scorcio del XVII seco-lo, quando la situazione fiscale della città, come quella di innumerevoli al-tre nel Regno e nello spazio italiano, si è fatta drammatica e la ha condottasotto il controllo diretto della Sommaria.32 Un gruppo di creditori “fiscala-ri” di Barletta, d’accordo con il reggimento cittadino, per garantirsi interes-si e rimborsi regolari tentano di mettere mano sui “musciali”. Il presuppo-sto è che essi non solo restino nelle pertinenze dell’università nonostantel’inclusione fra le terre indoganate, ma vi si collochino a titolo patrimonialee non a titolo di demanio universale, cosicché il loro uso è alienabile dallastessa università e non riservato ai propri cives: una questione, come si èvisto, assai frequente per le terre pascolatorie italiane.

«Con il pretesto che detti herbaggi siano dell’Università»,33 gli erbaggivengono ceduti in esclusiva ad un solo individuo con un contratto annuale,estremamente proficuo per la universitas, che sconvolge radicalmente l’ac-cordo del 1551: il prezzo dell’affitto è fissato in base all’estensione della su-perficie assegnata (30 ducati e 25 grana per carro)34 e non più in base al nu-mero di capi ovini introdotti nelle poste (ogni 100 pecore 3 ducati a Barlettae 3,58 alla Dogana), e agli erbaggi si aggiunge l’uso della «metà della por-tata vacua per le massarie che sono ad esse cinque poste adiacenti» (19 car-ra),35 riservata fino allora all’uso dei cives non inclusi nel corpo dei locatidei “musciali”. La reazione dei locati barlettani – cinque individui dietro iquali si intravedono robusti nessi parentali (quattro sono ecclesiastici dellafamiglia Marulli) – non si fa attendere. Nel dicembre del 1696 essi indiriz-zano al tribunale della Dogana una supplica, lamentando di essere «pertur-bati da alcuni particolari della città di Barletta, che hanno ardito vendere lasuddetta loro locazione, senza autorità veruna, ma de facto …, mentre, es-sendono dicte cinque poste assegnate per pasculo delle pecore de’ cittadini,non poteano alienarsi».36 Il doganiere Andrea Guerrero, ovviamente sensi-bile alle ragioni degli armentari (i quali hanno «pagato in ogni anno la fidacon puntualità»37), pur rinviando le parti alla Sommaria per il giudizio dimerito, ordina che l’aggiudicatario dell’affitto, il barlettano Troiano de Sta-

32. Loffredo, Storia della Città di Barletta, II, p. 142.33. Ibidem, fascicolo 1321, c. 4v.34. Ibidem, c. 5.35. Ibidem, c. 3v.36. ASFg, Dogana, s. I, b. 87, fasc. 1321, c. 1.37. Ivi, c. 3.

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sio, «interim … non immettesse animali in detti herbaggi». Pressati dal lo-catario, che ora sostiene «con giusto motivo … di non essere tenuto stare aldetto affitto»,38 i creditori e i loro alleati all’interno della universitas si af-frettano a produrre appello alla Sommaria. La magistratura napoletana dap-prima prende tempo; poi, il 24 ottobre del 1697, autorizza l’affittuario ad«immictere animalia in … territoriis ei affictatis» e, per solennizzare la ri-forma de facto dei pascoli “musciali”, dà mandato di eseguire un compasso«con intervento delli esperti eligendi … in nome de’ creditori fiscalari et in-tesa detta Università».39 La presa di posizione della Sommaria suscita l’im-mediata reazione della Dogana. Il 7 novembre, prima che il rilevamento to-pografico abbia luogo e che il de Stasio prenda possesso degli erbaggi, il go-vernatore della Dogana avoca a sé la causa e ribadisce la peculiare configu-razione giuridica dei “musciali” emersa nel 1551. Il corpo territoriale – chia-risce Andrea Guerrero – non rientra fra i beni della universitas, come vor-rebbero i creditori “fiscalari”, né è oggetto di diritti universali, ma «incor-poratum in Patrimonio huius Regiae Dohanae usque ab anno 1559». Per taleragione, le «oves … solitas» dei locati di Barletta, «professatas fissas et rea-les» nello “squarciafoglio” del 1696-1697, non possono essere sfrattate. Launiversitas, dal canto suo, «interesse habet … pro terratico et iummella»,sicché le sole terre da cui essa può legittimamente trarre profitto sono quelledelle «massarie quali non si coltivano ex causis o per negligenza, trascurag-gine o altro fine». Nella porzione di seminatorio che resta inutilizzata – av-verte, concludendo, il Guerrero – i «locati [di Barletta] non abbiano ragionealcuna di pascere con le loro pecore».40

Il decreto doganale rappresenta per i creditori un netto passo indietro.Ma ora sono i locati a mostrare insoddisfazione. Incuranti di arrecare undanno alle finanze della universitas, essi spingono affinché la locazionedi Barletta venga equiparata in toto alle altre unità territoriali che com-pongono il demanio del Tavoliere, nelle quali «le portate che non si colti-vano da Padroni si pascolano senza pagamento veruno dall’animali de’locati».41 Ma una così profonda alterazione dello spazio giuridico non può

38. Ivi, c. 5.39. Ivi, cc. 5v-6.40. Ivi, c. 11. Gli “squarciafogli” sono elenchi completi dei soggetti tassati dalla Do-

gana: “padroni indipendenti” di pecore; “padroni” che si dichiarano a capo di greggi “collet-tive”; “padroncelli”, ossia locati in possesso di almeno venti armenti. Gli “squarciafoglietti”riportano solo i nomi dei padroni indipendenti (Ivone, La transumanza, pp. 66-67).

41. ASFg, Dogana, s. I, b. 87, fasc. 1321, c. 13.

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essere consentita neppure dal doganiere che, difatti, ignora la richiesta de-gli armentari e dispone la notificazione del proprio decreto al regio fiscoe alle parti. Il silenzio dei creditori “fiscalari” e della universitas, per altroverso, sembra alludere ad un mutamento nei rapporti di forza all’internodel reggimento, e al raggiungimento di un’intesa per l’inclusione di nuovisoggetti nel ristretto novero corpo dei locati e per la riorganizzazione del-l’area pascolativa. Non deve essere un caso se, in un documento doganaledel 1702, la toponomastica del territorio risulta in gran parte modificata, ilnumero delle poste accresciuto (da cinque a sei), e se la lista dei locati com-prende, oltre a tre Marulli (il duca d’Ascoli, «che tiene la posta della Polve-re»; don Antonio, assegnatario della «posta che sta sopramano la Polvere»;don Giacomo, nella «posta di Grotta in Angelis») e ad un esponente dellafamiglia popolare de Dino (Lorenzo, «tiene la posta di Grotta Stompa-gnata»), don Ettore Pappalettera (nella «posta della Francesca») e don Fer-rante della Marra, il sindaco del 1697, già alleato dei creditori “fiscalari”. Alui, cinque anni dopo, è riservata «la posticchia di Sant’Antonio».42

Le condizioni che permettono alla decisione di Guerriero di avere ef-ficacia, ad ogni modo, vengono meno nel giro di qualche anno. Sin dal1701, quando emerge a Barletta una fazione che contesta abusi e indebiteappropriazioni di terre in tutte le pertinenze cittadine, i “musciali” torna-no ad essere oggetto di conflitti: vi si denunciano soprattutto affitti di er-baggi a forestieri (ma non mancano casi in cui l’affittuario è un barletta-no); più di rado, sono segnalati dissodamenti illeciti. E, soprattutto, vienemesso in discussione il carattere di corpo dotato di privilegi esclusivi delgruppo dei locati: «gli utili possessori» degli erbaggi – scrive il già citatode Leon – pretendono oggidì che sia ius privativo loro tenervi le pecore, eche non altri cittadini le ponno tenere: lo che è falsissimo, mentre nel1551 la città aderì al solo cambio da moscie in gentili (se pure aderì), macolla condizione, che tutt’i cittadini possano tenervi pecore gentili, e farvipascere il territorio a proporzione della quantità delle medesime …: ondevolendovi qualcuno menar mille pecore, gli attuali che ne tengono, devo-no restringere le loro pecore proporzionevolmente a dar luogo all’altro».43

È una situazione che non si risolve neanche quando, nel 1805, laSommaria decreta la fine di una promiscuità giurisdizionale durata per cir-ca due secoli e mezzo. La magistratura napoletana restituisce il territorio al

42. Ivi, fasc. 1322, c. 69.43. De Leon, Istoria, cc. 35-36.

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pieno dominio di Barletta, ma nell’atto di cessione utilizza la formula oscu-ra dell’utatur iure suo.44 Ancora nel secondo Ottocento “gravissima que-stione” è se se quella terra sia da considerare bene demaniale o patrimonia-le della città, cioè se lo ius al quale aveva alluso la defunta Sommaria ap-partenga alla città di Barletta oppure ai suoi cittadini.45

5.5. Un’“isola di organizzazione sociale”: l’Alta Murgia

È una esemplificazione che può essere estesa a volontà. Il punto sulquale vorremmo chiudere questo capitolo è, viceversa, l’effetto strutturantedel groviglio istituzionale e conflittuale. Cercheremo di illustrarlo a pro-posito della zona apparentemente più marginale dell’altopiano calcareo:l’Alta Murgia. Poverissima di risorse primarie come la terra coltivabile el’acqua superficiale, e di risorse integrative dei redditi agro-pastorali comequelle del bosco, delle zone umide, del monte, i circa 100000 ettari di pie-traia oggi così denominata sono del tutto deserti. Solo sul bordo dell’areac’è una corona di 12 grossi centri che sembrano volgerle le spalle. Essiemergono dentro una vicenda di costruzione e diffusione di strutture inse-diative e produttive che si svolge in larghissima parte sui suoi bordi, astretto contatto con le risorse degli ambienti che la circondano da ogni lato:la fossa bradanica cerealicola a Sud-Ovest; le prime balze collinari subco-stiere di Nord-Est, dove l’agricoltura del grano e del pascolo si contaminacon l’agricoltura dell’arbusto e dell’albero; il Tavoliere a Nord-Ovest (fig.n. ???).46 Ma questa stessa pietraia, in età moderna, sa essere “utile”, offrerisorse indispensabili a queste comunità, e contribuisce al loro profilo eco-nomico classicamente duplice, cerealicolo e pastorale al tempo stesso.

44. Ibidem, c. 36n.45. Sansonetti, I terreni musciali, p. 23.46. I dati sull’insediamento presentati nella carta sono stati elaborati su Giustiniani,

Dizionario geografico.

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Fig. 4. Centri nel 1595 con dimensione demografica superiore a 1.000 fuochi.

Ovviamente non si tratta di un mondo omeostatico, protetto dalle conse-guenze della sua proiezione mercantile e della sua specializzazione precoce.Le pratiche agricole presentano una intrinseca propensione ad espandersisull’incolto pastorale, sia esso indoganato o no; in particolare ad aggredire ilbosco, custode di risorse integrative fondamentali (ad esempio il legname dacostruzione e riscaldamento), ma anche riserva di produttività altissima peruna coltura defaticante per il suolo come il grano. Nella prima età moderna,in particolare sui gradoni bassi a nord-est dell’altipiano murgiano, i boschiappaiono consistenti: quello di Andria era talmente fitto da risultare «impe-netrabile» fino ad impedire le operazioni di misura e compasso al tempodella «reintegra generale» delle terre di Dogana a metà Cinquecento,47 ed il

47. Gaudiani, Notizie per il buon governo, pp. 160-161. Il Gaudiani riporta questoparere ma non lo condivide: egli ritiene che la mancata misurazione del bosco di Andrianon vada attribuito alla sua impenetrabilità (altri boschi ugualmente fitti erano stati com-passati), ma al suo carattere giuridico di «demanio, o defense d’università», in quanto taleutilizzabile dai pastori di Dogana in forma mista con i “cittadini” di Andria.

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bosco di Ruvo era «folto ed impenetrabile» fino all’inizio degli anni Trentadel Settecento. Ma alle soglie dell’Ottocento il loro degrado è evidente: iCarafa di Andria, signori di Ruvo, sottopongono il bosco locale ad «un ta-glio così barbaro» che «al cadere del secolo XVIII era rimasto denudato», e«se si trovavano i poveri a legnare o tagliar spine, erano crudelmente ba-stonati dagli armigeri baronali a cavallo».48 Man mano che si struttura sottol’azione dell’uomo, il paesaggio tende ad irrigidirsi, a presentare inerzie pe-ricolose di fronte al mutare della congiuntura. Quando l’andamento delladomanda è positiva, la cerealicoltura fuoriesce dai suoi luoghi, specializza-zione, polarizzazione e rapporti sociali si esasperano, gli equilibri ambien-tali diventano precari. Quando la domanda cala, le campagne non ripiega-no, come altrove, sui moduli dell’agricoltura autoconsumatrice della micro-azienda contadina. Le masserie cerealicole tendono a convertirsi all’alleva-mento, ma spesso gli sbocchi mercantili ed i prezzi dei prodotti animalihanno un andamento simile a quelli del grano, e le opportunità sono scarseanche in questa direzione. Così, nelle fasi stanche del mercato, il paesaggiosi disordina, i conflitti si acutizzano, il malessere sociale diventa diffuso edendemico. Né esso viene sdrammatizzato da pratiche di tipo comunitario. Irapporti solidaristici appaiono relativamente deboli in questa società che siregge sul contratto, e non hanno il sostegno della famiglia patriarcale e del-la parentela di lignaggio, qui del tutto sconosciute. La microproprietà fon-diaria, quando la si conquista, è povera degli elementi simbolici che indu-cono il contadino “normale” a difenderla ad ogni costo ed a trasmetterla aidiscendenti; la si compera e la si vende a seconda delle occasioni, passa perle linee femminili e quindi perde il nesso col cognome. Del resto anche quiil nesso fra abitare, possedere e lavorare, fondativo dell’insediamento rusti-co di antico regime, è debole. Vasti spazi agricoli specializzati inseriti nelcommercio internazionale vengono appropriati, a titolo feudale o allodiale,da soggetti che spesso nulla hanno a che fare col luogo; parti significativedel territorio sono di fatto e giuridicamente escluse dagli usi locali ed attri-buite a villaggi di pastori transumanti della lontana montagna abruzzese,che a volte istituiscono nei pascoli invernali una propria toponomasticaconcorrente con quella locale. Per una parte preponderante degli abitanti, diconseguenza, la produzione delle risorse deve proiettarsi su spazi ben piùampi di quelli circostanti le mura del borgo; spazi che occorre praticare tra-mite migrazioni di pianura ritmiche e massicce quanto quelle montane. In-

48. Jatta, Cenno storico, pp. 219-220.

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somma, l’esatto contrario dell’idillio campestre a cui fanno riferimentotroppe guide turistiche ed anche qualche discorso dotto. Basterebbe a smen-tirli un dato riassuntivo impressionante: la mortalità, più alta di dieci punticirca di quella di società contadine anche vicine (oltre il 40 per mille ri-spetto al trenta per mille), che insegue da vicino una natalità essa pure altis-sima, alimentata dalla bassa età al matrimonio.

D’altro canto, la pratica di questi spazi dilatati da parte dei cives deiborghi murgiani presenta regolarità di lungo periodo impressionanti. Livellivari di istituzionalizzazione dei gesti, degli itinerari, delle destinazioni, del-le procedure controllano, certo non sempre con successo, il rischio che cre-sce man mano che ci si avventura in ambienti geograficamente e giurisdi-zionalmente estranei. In generale le fasi di tensione acuta delle aree cereali-cole premoderne, quelle della semina e della mietitura, non hanno qui il ti-pico carattere tumultuario, di “festa selvaggia” che tende a far scolorire illimite fra lecito ed illecito. In primo luogo i movimenti di uomini risultanocontenuti dalla quota relativamente elevata di “bracciali” locali fra quantivengono mobilitati per le fasi acute, resa possibile da una domanda di lavo-ro significativa espressa dall’economia dei centri murgiani anche nelle fasistanche dell’annata cerealicola. Il paesaggio a campi ed erba che si distendea perdita d’occhio si complica, nei pressi delle mura urbane, sia sotto il pro-filo agronomico che giuridico. L’orto, data l’alta densità edilizia del borgo,non può essere quasi mai annesso alla casa, ma lo ritroviamo appena fuorile mura, nel cosiddetto “ristretto”, dove la presa dell’università sul suolo èsolida, le chiusure dei campi coltivati sono consentite, le servitù nei con-fronti di pretese di altri poteri limitate. Ed anche contigui alle mura sonospesso i microfondi posseduti da una parte dei “bracciali” che lavorano nel-le grandi masserie cerealicole: nei loro campi minuscoli, essi coltivano, ol-tre ai cereali, il vino, che presenta un calendario agricolo in parte inverso aquello del grano (richiede lavoro quando l’altro non ne ha bisogno) e con-sente di occupare una parte dei tempi morti dell’annata cerealicola. La stes-sa masseria, come si è accennato, non è in alcun modo la base logistica del-la travolgente avanzata del grano che connoterebbe le campagne europee dietà moderna; essa è un organismo complesso, strutturato attorno a regole diinserimento in un contesto conflittuale e teso. Una parte della terra a ridos-so dei suoi edifici viene coltivata a legumi che massaro e lavoratori fissi au-toconsumano, un’altra parte – fra il quinto ed il sesto – è tenuta salda echiusa in maniera da fungere da “mezzana” per il pascolo degli animali dalavoro in proporzioni precisamente definite; e pratiche e tempi di rotazione,

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di utilizzo delle aree a riposo e di quelle lasciate aperte dopo la mietitura, diaratura e concimazione, vincolano contrattualmente la gestione del massaro.

Oltre che relativamente contenuti nelle dimensioni, i flussi di uominisono in buona parte di raggio corto e – come nel caso degli animali transu-manti – istituzionalizzati. In questo modo essi possono costituire l’elemen-to portante di meccanismi di reciprocità fra zone complementari contigue.Nessi di reciprocità particolarmente intensi ed organici legano l’Alta Mur-gia all’affollata costa olivicola pugliese. Qui i reclutatori di braccia for-mano per tempo, negli studi notarili, “compagnie” che si recano a piedi sul-le Murge del grano sotto la guida di figure di prestigio riconosciuto dallecomunità, gli “antenieri”, in grado, per autorevolezza e solvibilità, di man-tenere gli impegni contrattuali assunti con i massari e di garantire un com-portamento probo da parte dei propri uomini. Con queste procedure la co-sta fornisce, alla semina ed alla mietitura, masse di lavoratori compensatesolo in parte dai cerealicoltori murgiani che si recano sulla costa stessa perraccogliere olive a ottobre-novembre. Di conseguenza la Murgia paga piùsalari destinati ad essere spesi nella zona olivicola, di quelli che in que-st’ultima guadagnano i suoi cerealicoltori: un deficit compensato dalle fileinterminabili di carri che scendono lungo le vie perpendicolari alla costaper approvvigionarla, sotto l’attenta sorveglianza dei governi cittadini, delgrano che la diffusione dell’olivo rende sempre più insufficiente, incro-ciandovi, in senso opposto, il poco olio che risale quelle strade destinato aigrandi borghi dell’interno. I cerealicoltori acquistano dagli olivicoltorimolto lavoro per la semina e la mietitura e poco olio; gli olivicoltori acqui-stano dai cerealicoltori poco lavoro per la raccolta delle olive e molto gra-no. Così le voci dello scambio fra le due zone grosso modo si compensano,ed il sistema può funzionare senza accumulare tensioni.

Dentro questo sistema di flussi compensati, la pietraia dell’altipianomurgiano trova una sua collocazione. Le terre nere del Tavoliere o dellafossa bradanica, adoperabili sia per il pascolo invernale che per i cereali,sono, come si è visto, avvolte in un intreccio di vincoli che mettono sottocontrollo la conflittualità potenzialmente esplosiva tra “ragione pastorale” e“ragione agricola”, e consentono la convivenza di diritti e pretese molte-plici. Quando la congiuntura è favorevole ed i prezzi salgono, i limiti e leregole poste all’utilizzo delle terre in piano diventano oggetto di conflittiacuti, e la ricerca di risorse da valorizzare si fa spasmodica. In particolarein queste fasi le risorse dell’Alta Murgia, che lo sguardo calcolante mo-derno collocherà in una dimensione di assoluta povertà, diventano preziose.

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Il fatto che sull’altipiano murgiano pastorizia ed agricoltura non siano co-me altrove in conflitto, consente la valorizzazione dei paesaggi più impervi.Sui rilievi carsici la cerealicoltura è possibile solo negli affossamenti fradue dossi (le “lame”): lì si raccoglie la terra dilavata dalle colline insieme alconcime naturale delle pecore che vi pascolano, cosicché i rendimenti, an-che se rimangono modestissimi per unità di superficie, possono giungere alivelli assai elevati calcolandoli per unità di seme. Di conseguenza sulleMurge non sempre la pastorizia è lasciata alle genti della montagna. Decinedi migliaia di pecore soprattutto di Altamura e Gravina, ricoverate in jazziin solida pietra a differenza dei rifugi provvisori di corde, giunchi, “ferule”e sterpi delle pecore abruzzesi svernanti nel Tavoliere, spesso collocatisulle pendici calcaree che dall’altopiano scendono rapidamente sulla fossabradanica, interagiscono positivamente sia con le pratiche cerealicole delleterre nere in piano sia con quelle tipiche delle terre murgiane rosse e legge-re. Aratori, seminatori, mietitori, pastori locali e delle zone limitrofe si di-ramano lungo i tratturi tracciati sull’altopiano, popolano stagionalmentejazzi e masserie, producono merci che hanno destinazioni lontane. E vi la-sciano un sistema di segni giuridici, documentari, pedologici, edilizi.

I segni più vistosi di questi usi del territorio sono rappresentati, in uncerto senso, dagli stessi grandi borghi posti a corona dell’altipiano. Lastruttura, la qualità, la complessità dell’edilizia oggi visibile nei centristorici smentisce l’immagine corriva che li rappresenta come semplicidormitori di cerealicoltori e pastori. L’Alta Murgia di età moderna è parteintegrante di uno di quei «sistemi sociali a spazi multipli»49 diffusi in par-ticolare sulle sponde del Mediterraneo, caratterizzati da una fortissimasegmentazione del paesaggio per zone complementari e, allo stesso tem-po, dal fatto che i fenomeni di flusso che ne derivano non sono organizza-ti e diretti solo dall’esterno, secondo un modello “coloniale”, ma provo-cano una ipertrofia degli apparati mercantili, sociali, professionali – inuna parola urbani – collocati anche all’interno degli stessi segmenti terri-toriali. Nel caso della Puglia centrale, inoltre, le funzioni di governo deiflussi trattenute al suo interno non sono concentrate in un polo urbano chedomina gerarchicamente la struttura dell’insediamento, ma sono distribui-te fra nodi molteplici, coincidenti con i centri di addensamento dell’abita-to, dei poteri e delle identità locali: i nostri 12 borghi hanno tutti, sia pur

49. Medeiros, Espaces ruraux, pp. 1081-1117; Marti, Ville et campagne, in partico-lare il cap. 2 intitolato Espaces antagoniques et complémentaires.

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in varia misura, frammenti di ruoli direzionali sul sistema territoriale den-tro il quale viene valorizzata, fra tardo medio evo e prima età contempo-ranea, anche l’Alta Murgia. Essi sono inseriti in una rete di luoghi che po-tremmo definire di secondo grado. Ciascun centro produce un piccologruppo di derrate destinate a sbocchi lontani, ed è quindi, sotto il profilomercantile, finanziario, dei trasporti terrestri e marittimi, connesso in pri-ma istanza ai luoghi di destinazione delle sue merci. Ma le pratiche ruraliche mettono in circolazione queste merci sono possibili solo attivandonessi orizzontali fra i luoghi di produzione, derivati da quelli primari maindispensabili a realizzarli. I centri murgiani presentano così una facciarivolta all’interno, verso l’altopiano e le sue risorse produttive, ed un’altraverso l’esterno che, oltre a gestire l’annata agro-pastorale, organizza inessi con gli acquirenti lontani e con i centri circostanti.

Di qui la particolare atmosfera di questi borghi, collocati dai classifica-tori di fenomeni insediativi nella casella ossimorica delle agrotowns. I luo-ghi abitati della Murgia presentano, nel contesto dell’Europa rurale di etàmoderna, al tempo stesso una dimensione demografica media eccezional-mente elevata ed una scarsa differenziazione fra la popolazione e le fun-zioni direzionali di ciascuno di essi. Come si è visto, i luoghi dell’abitare edi luoghi del lavorare rimangono drasticamente separati. Le funzioni abitati-ve dei manufatti agresti sono nulle o irregolari, le grandi masserie possonoessere abitate, a seconda delle stagioni, da qualche unità lavorativa o damasse di lavoratori che si ammucchiano negli “scariazzi” e che vivononormalmente nei grandi borghi. Il modello insediativo europeo, articolatoin poche città abitate da amministratori e soldati, mercanti ed artigiani, cir-condate da vasti contadi ad esse subordinati e punteggiati di villaggi conta-dini, è qui totalmente assente. L’opposizione fra i due mondi economici,politici e mentali della città e della campagna è inesistente, dato che conta-dini e pastori abitano in centri di dimensioni gigantesche rispetto al villag-gio tipico e non privi di funzioni direzionali, e sono quindi essi stessi citta-dini; e viceversa una parte larghissima dei cittadini, invece di svolgere atti-vità artigianali o mercantili, fanno i contadini e gli allevatori vaganti.

Questi cittadini senza città e contadini senza contadi, immersi, comesi è visto, in forme di mal di vivere tipiche delle aree rurali a mercantiliz-zazione precoce, hanno poco a che fare con la retorica dei campi e dellacomunità locale anche perché il clima sociale e mentale della città conta-dina è comunque segnato dagli spazi vasti del mercato, dagli scambi, daicontatti con genti di lingue e costumi diversi. Se è debole quella che pos-

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Ragion pastorale, ragion di stato158

siamo chiamare l’economia del vicolo, cioè le mille forme della produ-zione artigianale, depressa dalla diffusione dei prodotti manifatturati cari-cati in porti lontani sulle navi che vi hanno trasportato il grano e l’oliopugliesi, rigogliosa è viceversa l’economia della piazza. Lì la famiglia,condannata ad un livello basso di autoconsumo, vende le derrate che haprodotto ed acquista manufatti provenienti da lontano, spesso anche il ci-bo quotidiano; lì si organizzano i flussi a lunga e corta distanza di uominie merci, si contrattano prestazioni lavorative, si realizza la frequente com-pravendita dei microfondi che integrano il reddito del lavoro salariato, sistipulano i contratti di fitto agricolo e pastorale quasi sempre a breve ter-mine: il tutto tramite sensali, notai, giudici, agrimensori, antenieri. Questapresenza di professionisti di ogni tipo di intermediazione non intacca laprevalenza netta dell’elemento rurale nella composizione professionale diquesti centri, ma gli dà un tono particolare. Il profilo sociale e culturaledel pastore e del “bracciale” si costruisce dentro un ambiente di magazzi-ni ed hostarie, di scambi monetari e mobilità.

Territorio non autonomo, capace di funzionare solo se messo in rela-zione con territori contigui ed altri lontani, la Murgia di età moderna èparte di un insieme di spazi correlati che si sovrappongono e si intreccia-no, iscrivendo nel paesaggio segni di decifrazione non immediata. È unadelle forme di strutturazione dello spazio, per dirla con Lévi-Strauss unadi quelle «isole di organizzazione» che traggono alimento dalla disorga-nizzazione normativa, dall’ingorgo istituzionale e dalla complessità deigiochi conflittuali di una formazione politica di antico regime.

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6. Il re allevatore, il re cacciatore

6.1. Le cavallerizze

In quest’universo di conflitti, in questa pluralità di diritti ed usi, l’inter-vento del re, del detentore del potere sovrano, quando decide di farsi alle-vatore, non porta ad una semplificazione o ad un ordinato, gerarchizzato epacificato disporsi degli stessi usi e diritti. Anzi, non infrequentemente,complica il quadro e attiva nuovi conflitti, che crescono a dismisura nell’al-tra importante modalità di produzione di carne, cioè nell’approvvigiona-mento che si realizza attraverso la caccia.

Accanto agli esempi di forte istituzionalizzazione quali sono le Do-gane o a quelli di evidente incoraggiamento pubblico alla produzione ani-male, non sono pochi i casi in cui è il titolare della sovranità a farsi alle-vatore, con motivazioni differenti a seconda delle specie o dei periodiconsiderati: si va dalle esigenze militari a quelle più latamente economi-che, di contribuire cioè con greggi, mandrie e capi selezionati al migliora-mento delle razze allevate nello stato. Non mancano i tentativi di realiz-zare, nell’allevamento, un investimento redditizio – come succede nel pri-mo Ottocento, nel Regno di Napoli, per far fronte alle spese di Casa Rea-le o di alcuni suoi membri – o quelli, estremamente dispendiosi, di rifor-nire con prodotti di qualità le dispense della Corte e, persino, di alimenta-re gli esotismi di moda. Anche in questi casi, pesante è il condizionamen-to di tali strutture sulla geografia dei diritti che si esercitano sulla terra,notevole è l’impatto sulle giurisdizioni, numerosi i conflitti.

Tra questi tipi di allevamento particolarmente importante è quello deicavalli. La frammentazione degli stati italiani rende, però, difficile la rico-struzione d’assieme di un aspetto così importante della politica militare – e

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non solo – d’antico regime, qual è soprattutto la fornitura di animali dasella,1 il cui massiccio impiego nei corpi di cavalleria si ritiene abbia avutoimportanti conseguenze anche sulle forme di utilizzazione del suolo.2

Per quanto riguarda le esigenze militari, presumibilmente negli stati ita-liani convivono diversi modelli, da quello delle razze di Stato – in realtà, dap-prima regie o granducali, con una qualche confusione per il carattere spesso“patrimoniale” degli allevamenti – a quello “liberista” di acquisto sul mercatodei cavalli necessari all’esercito, con dinamiche differenziate nel corso deltempo. Ma il cavallo, come è noto, ha anche un elevato valore simbolico. Se-gno di distinzione sociale, sia in tempo di pace che di guerra, il suo possesso ècaratteristico della nobiltà e marca in maniera significativa i rituali di corte.3

Numerose sono le “razze” di cavalli che molte famiglie della nobiltàtitolata allevano nei vari stati italiani. Non infrequentemente al verticesimbolico di questi allevamenti – come delle gerarchie sociali – ci sono le“razze” istituite dal Sovrano, le cui funzioni si trasformano, con il passardel tempo e con la “nazionalizzazione” dell’esercito, da cavallerizze “pri-vate” del Re – all’interno di una dimensione marcatamente cetuale – inallevamenti di Stato, che servono al miglioramento, attraverso la monta ela selezione, del patrimonio equino.

Nel Regno di Napoli risale a Ferrante d’Aragona, nel 1485, la istitu-zione – «per guardia di questo Regno» – delle Regie Razze e Cavalleriz-ze, articolate in diverse sedi: la Razza di Calabria e l’altra, su cui ci sof-fermeremo più ampliamente, collocata in Capitanata, nei pressi di AscoliSatriano, riforniscono la Cavallerizza della Maddalena, vicino Napoli.4 In

1. Cfr. per la Francia, la vicenda dell’«amministrazione delle Razze», soprattutto daColbert alla Rivoluzione, in Mulliez, Les chevaux du royaume. Sulle scuderie reali inFrancia, cfr. Roche, Les écuries royales.

2. Ambrosoli ritiene che dalle guerre d’Italia fino alle guerre napoleoniche l’obbligodi consegna dei fieni per la cavalleria abbia indotto contadini e proprietari a rivedere leproprie pratiche agrarie, lasciando molti terreni a prato con foraggere (Scienziati, contadi-ni e proprietari, pp. 154-155).

3. Cfr. Hernando Sanchez, Titolo?, pp. 278-279. Goethe, nel Viaggio in Italia (p.210), a Napoli nota la «gran passeggiata dei nobili» il venerdì: «tutti sfoggiano i loro equi-paggi e specialmente i cavalli … Esemplari più eleganti di questi è impossibile vederne».

4. Le due “razze” sono rette ciascuna da un governatore (cfr. Una relazione vice-reale, p. 96). Ad Alfonso d’Aragona risalirebbe, invece, la “Cavallerizza” situata tra Mo-nopoli ed Alberobello, in Puglia, posseduta dai Veneziani dal 1495 al 1530 (Notarnicola,La cavallerizza). Nel 1500, in questo centro di allevamento e di addestramento venivanocensiti 20 stalloni, 250 cavalle e, presumibilmente, 250 puledri (ibidem, p. 36). Sui prece-denti meridionali, in particolare sulle aratie sveve, cfr. Porsia, I cavalli del Re. Sul com-

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Il re allevatore, il re cacciatore 161

Capitanata, a servizio soprattutto dei Regi Stalloni, era stato costruito ilgrande complesso di Palazzo d’Ascoli, asservendo per le esigenze di pa-scolo il demanio di quella cittadina dal 2 febbraio alla fine di maggio diogni anno e per il resto utilizzando, non senza conflitti, gli erbaggi diun’ampia fascia di territorio, da Laterza, in Terra d’Otranto, a Selvapiana,vicino Lucera, a San Giovanni Rotondo e Cagnano, sul Gargano, a Bisac-cia in Principato Ultra.5 Alla Razza di Puglia erano asservite anche le“difese” di Persano, in Principato Citra, per i mesi invernali, e del Maz-zone, in territorio di Capua, per i puledri nei mesi primaverili.6

Fig. 5. La Difesa di Palazzo d’Ascoli in una pianta del 1774 (ASFg, Dogana, s. I,b. 62, fasc. 640)

mercio di cavalli siciliani per le esigenze dell’esercito durante il regno di Alfonso, cfr.Epstein, Potere e mercati in Sicilia, p. 295.

5. ASNa, Atti della Società Napoletana di Storia patria, b. 11, fasc. 17. I comuni diAscoli, Bovino, Candela, Sant’Agata, in Capitanata, sono tenuti altresì a fornire alle RegieRazze letti, paglia e “mantroni”. Cfr. i “disegni” dei marchi delle Razze di Puglia e Cala-bria in Cappello, I veri disegni de’ marchi, p. ??

6. Cfr. manoscritto cit. in Gattini, Delle razze di cavalli, p. 14.

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Ragion pastorale, ragion di stato162

Il complesso delle Regie Razze di Puglia, articolato in “razze” specifi-che – le giumente, i puledri ecc., ciascuna delle quali distinta in razzette omo-genee dal punto di vista genetico – e le altre di Calabria raggiungono dimen-sioni ragguardevoli.7 Tuttavia le pesanti spese di gestione, compensate quasisolo dalla forza della tradizione e da un prestigio ormai declinante,8 più chel’interesse del viceré a «favorire il monopolio castigliano dei cavalli di pregiospagnoli», come si denuncerà senza fondamento nel primo Ottocento,9 indu-cono nel XVII secolo a provvedimenti drastici. Dismessa nel 1625 la razzadelle Calabrie e venduti i prati, le foreste e le difese su cui pascolava,10 dopola “rivoluzione” di Masaniello si pone mano all’altra, cioè a quella di Puglia.“Dispersi”, tra l’altro, molti capi per le vicende rivoluzionarie, l’avvocato fi-scale del Viceregno ne suggerisce una radicale “riforma” «per alleviare laspesa, et levare diversi inconvenienti et fraudi che se commettono», con lariduzione del numero delle giumente a 500 e la vendita di Palazzo d’Ascoli.

Non pare, tuttavia, che la proposta di “riforma” sia subito realizzata,se nel 1682 si contano ancora 1165 capi tra giumente e puledri; ma inquell’anno ben 272 capi sono ceduti a creditori a vario titolo che vantanospettanze nei confronti della Regia Corte.11

La Regia razza di Puglia rimane in funzione nei pascoli soliti fino al1693, quando il complesso di Palazzo d’Ascoli – con la “difesa” di 88

7. Cfr. i dati relativi al 1546, quando si censivano nella razza di Puglia 1250 giumentee 545 nella razza di Calabria, oltre a puledri, stalloni ecc. (cfr. Fenicia, Politica economica erealtà mecantile, p. 53 ). Cfr., ibidem, notizie sul divieto di esportazione di questi animali.Nel 1582 nelle Regie Razze di Puglia venivano censite 1205 giumente. Poco più di mezzosecolo più tardi, nel 1601-1602, alla Razza di Puglia sarebbero appartenute 1165 capi, aquella di Calabria ben 1357 (cit. in Gattini, Delle razze dei cavalli, pp. 13-14).

8. Galasso, Economia e società, p. 164. Alla razza di Calabria, che utilizzava pascolidell’Aspromonte e della Calabria ulteriore, erano addette circa 170 persone. Non mancano,nelle relazioni al visitatore del Regno nel 1583, notizie sulle Razze «non tenute in gran stima… per fallirne cavalli assai» (Archivo General de Simancas, Visitas de Italia, leg. 35, inc. 5).

9. Pignatelli, Lettera di F.P., p. 6. I puledri e i cavalli rifornivano la «cavallerizzareale», «gli altri se reparteno alle Compagnie di Gend’Arme del Regno, a conto di lorosoldo, et se n’avanzano, se vendono» (cit. in Gattini, Delle razze di cavalli, p. 14).

10. Galasso, Economia e società, p. 166, nota. Il presidente della Sommaria, Saluz-zo, giudica «espediente» «levarla e concedere le medesime terre della razza pel pascolo dipecore della Med.ma Provincia». «Non manco inutile» – si legge più avanti – èl’allevamento di Puglia (ibidem, p. 164).

11. Trenta capi vanno al duca di Montesarchio, per quel che gli si deve in qualità di«capitano di una compagnia di uomini d’arme in questo Regno», 4 giumente di scarto vannoa donna Marianna, donna Berardina e donna Elena de Montalvo per l’elemosina di due realial giorno di cui godono (ASNa, Dipendenze della Sommaria, s. I, b. 36, fasc. 16).

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carra – viene venduto, sub hasta, al marchese di Baselice, Rinuccini, dinon lontana origine toscana.12 Non sembra, invece, essere stato del tuttosmantellato l’allevamento che, seppure ridimensionato,13 qualche annodopo troviamo collocato di inverno nel feudo di San Paolo, di proprietàdella Badia di san Leonardo delle Matine, a pochi chilometri da Troia, inCapitanata. La locazione di questo pascolo di 49 carra (circa 1200 ettari),su cui verranno costruite le stalle e le abitazioni per cavallari e subalterni,sarà mantenuta fino al 1744, quando presumibilmente – come si vedrà –l’intera “razza” sarà trasferita in nuove località.14

Come si è accennato, un’istituzione privilegiata così pesante non puònon turbare le ordinarie giurisdizioni e, con effetti prolungati nel tempo, glistessi confini amministrativi. Si consideri, da un lato, l’esercizio da partedel Luogotenente del Cavallerizzo Maggiore, che è prefetto delle RegieRazze e Cavallerizze, della giurisdizione civile e criminale, con il mero emisto imperio, su tutti i suoi sottoposti;15 dall’altro, quando nel 1807, sciol-ta da tempo la Regia razza di Puglia, si lavora alla riforma amministrativadel Regno, il Duca di Carignano, proprietario della Difesa di Selvapiana,chiede – trovando sostanzialmente ascolto presso il Ministero degli Interni– che questo territorio non sia aggregato ad alcun circondario ma continui adipendere direttamente dall’Udienza, cioè ormai dall’Intendenza.16

In tutti i casi, inoltre, come si è accennato, non mancano le vertenzecon le Università, come quella con Laterza che è costretta ad implorareche i cittadini possano raccogliere legna nella difesa e vi possano condurreal pascolo i buoi aratori.17 E sindaco ed eletti di Ascoli, che nel 1649, almomento della tentata riforma delle Razza di Puglia, avevano chiesto di«non innovare» sul diritto degli ascolani di utilizzare per alcuni mesi l’an-no il territorio demaniale di quella città già asservito alle giumente regie,18

nulla potranno quando, venduta la difesa di Palazzo d’Ascoli a Rinuccini,sulle terre conservate a pascolo dovranno far largo ai locati, dal 29 settem-

12. Cfr. ASFg, Dogana, s. ??, b. 62, fasc. 640. Il Rinuccini ottiene di convertire in“portata”, cioè in seminativo vincolato alla rotazione quadriennale in uso nel Tavoliere,63 carra, cioè circa 1500 ettari.

13. Nell’inventario del maggio 1742 si ritrovano poco più di 500 capi, di cui 275giumente di “corpo” (ivi, s. I, b. 756, fasc. 18294).

14. Ivi. I pascoli estivi erano quelli della Duchessa, in Abruzzo (Ivi, b. 755, fasc. 18289).15. Archivo General de Simancas, Visitas de Italia, leg. 35, inc. 5.16. ASNa, Ministero degli Interni, inv. II, b. 739, lett. del 25 marzo 1807.17. ASNa, Atti della Società napoletana di Storia patria, b. 11, fasc. 17.18. Ivi, lett. del 7 luglio 1649.

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bre alla Candelora. Ma il territorio in questione pur essendo «parato»,«senza potervi penetrare gli animali di chi che sia», viene ripetutamente«scommesso» dagli ascolani e dal marchese di Baselice che «ha fatto unamezzana abusivamente e semina quella quantità che li piace».19

Non basta la Razza pugliese a far fronte al fabbisogno di animali perl’esercito. Si comprano spesso cavalli e giumente nella Fiera di Foggia,come succede nel 1736 con un diritto di prelazione imposto ai venditori,mentre per fabbisogni maggiori, nel 1740, il Re dovrà far appello al Go-vernatore della Dogana per sollecitare i locati a vendere 150 cavalli per leesigenze del Reggimento dei Dragoni.20 Nel 1744, «per il servizio di ri-monta della cavalleria», si chiede al Governatore di Foggia di cercare icavalli migliori tra quelli posseduti dai locati e, intanto, di consegnarequelli dei soldati e dei cavallari dell’istituzione foggiana.21

In quello stesso anno Carlo III decide di impiantare un nuovo alle-vamento di cavalli, probabilmente trasferendolo dalla Puglia, nel feudodel conte di Acerra, nei pressi di Capua, in località Carditello, in quelloche diventerà uno dei più importanti “siti” borbonici.22 Più tardi, con Fer-dinando IV, alla razza di cavalli si aggiungono una mandria di vacche edi bufale, e l’altro allevamento di cavalli da carrozza e da sella di Persa-no, nella tenuta acquistata in precedenza dal Duca di Serre. Neppure i duenuovi “siti” riusciranno, tuttavia, a far fronte adeguatamente alle esigenzedell’esercito, tanto che, nonostante l’ottima reputazione dei cavalli napo-letani,23 se ne acquisteranno frequentemente nello Stato Pontificio.

Inoltre, negli anni di guerra, nel 1796, ad esempio, si “annoteranno”,cioè si precetteranno, i cavalli “da vettura”, cioè quelli da tiro, per il “Regalesercito”, obbligando nella corvée anche i proprietari, spesso piccoli conta-dini della montagna garganica, come nel caso di Paolo di Liddo, di SanMarco in Lamis, che, «carico di numerosa famiglia», ritenendo che «por-

19. ASFg, Dogana, s. I, b. 62, fasc. 640.20. Ivi, s. V, b. 20, fasc. 3972.21. Ivi, b. 70, fasc. 4856.22. Alisio, Siti reali dei Borboni, p. 46.23. Agli inizi dell’Ottocento, tra le buone razze italiane di cavalli «li soli napoletani,

mercé il clima più confacente, e quelli del Polesine conservarono la forma primiera»(Gandolfi, Sulle razze dipartimentali, p. 5). Sulla bontà dei cavalli napoletani, e in secon-do luogo dei polesani, cfr. anche il volume del veterinario piemontese Brugnone, Trattatodelle razze, p. 137. Qualche notizia sulle razze napoletane è ora nel breve saggio – conuna ricca bibliografia – di Fraddosio, Il cavallo del Sud.

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tandosi egli per guida del cavallo la povera famiglia perirebbe per la fame»,si offre di regalare l’animale al Re pur di essere dispensato dal servizio.24

Intanto, dopo la seconda Restaurazione, alle razze regie di Carditelloe Persano si sono aggiunte quelle di Tressanti, in Capitanata, e quelladella Ficuzza, nel Palermitano.25 Qualche anno più tardi, negli anni Trentadell’Ottocento, a partire dalla proposta del principe di Strongoli, France-sco Pignatelli, si discuterà del progetto di organizzare nuovi allevamentiregi per complessive 800 cavalle, distribuite in quattro “razze”, tre per“corsieri” (una in Calabria, la seconda tra Murgia e Basilicata e la terzatra Terra di Lavoro e Abruzzo) ed una per cavalli da tiro, da collocare trail Tavoliere e la Piana di Eboli.26 Peraltro le razze napoletane hanno, an-cora nel primo Ottocento, un’ottima reputazione, al pari di quelle polesa-ne e di alcune razze di proprietà di nobili romani.27

A questo delle “regie razze” si contrappongono negli altri stati, ancheall’interno della composita monarchia spagnola, differenti modelli.28

Nel Viceregno spagnolo di Sardegna, ad esempio, ai bisogni della ca-valleria si cerca di far fronte obbligando, sotto pena di una multa di 100 du-cati, «todos los señores de vassallos» a «tener, criar e sustentar» un certo nu-mero di cavalle.29 C’è, infatti, da ricordare – come si è detto – la diffusione,ovunque negli stati italiani, di razze di pregio allevate da molte famiglie del-l’aristocrazia, che esercitano tali attività per «considerazioni di signoria»,30

ma che evidentemente occorre obbligare a non dismettere gli allevamenti.Il provvedimento vicereale verrà mantenuto nell’isola nel periodo sa-

baudo,31 ma con un più diretto intervento della Real Casa e della Tesore-ria generale, come peraltro è consuetudine nei domini dei Savoia. Nel

24. ASFg, Dogana, s. V, b. 70, fasc. 4826.25. Gattini, Delle razze dei cavalli, p. 15.26. Pignatelli, Lettera di F.P., p. 17. A questa proposta si oppone l’altra di Ruffo che

ritiene siano sufficienti gli allevamenti privati e quelli regi di Carditello, Persano e Tres-santi (Su l’utilità di stabilire razze equine, p. 14).

27. Campagnola, Sulla rigenerazione delle razze de’ cavalli.28. Sulla necessità di una storia comparata dell’allevamento del cavallo di razza in

Europa, cfr. l’introduzione di Roche (Les Haras) alla nuova edizione del già citato volu-me di Mulliez (Les chevaux du Royaume). Al modello dirigista francese, dopo Colbert, sioppone il modello inglese in cui «le Roi donne l’exemple, légifère sur le commerce, en-traîne par les consommations curiales et militaires une part de la production», ma «laisse àl’aristocratie et à ses clientèles de la gentry et des fermiers l’élevage du cheval» (p. 9).

29. Libro segundo de las leyes, tit. XXXXIII, cap. XVII.30. Valenti, La campagna romana, p. ??31. Editti, pregoni ed altri provvedimenti, II.

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Settecento di Vittorio Amedeo II, infatti, al fabbisogno di cavalli per laCorte e l’esercito si fa fronte con l’allevamento di Venaria, situato neipressi di una grande riserva di caccia, gestito da un’apposita Azienda eco-nomica e dotato nel 1713 del monumentale complesso di edifici dellaMandria; ad esso si aggiungono più tardi l’apporto delle razze sarde, inparticolare di quella Regia di Paulilatino, e, dagli anni Sessanta, la RegiaMandria di Chivasso, che diventa il centro principale dell’allevamento,mentre Venaria «continuò ad essere luogo “di piacere e di caccia”, purconservando parte dei cavalli “della razza”», che ne faranno più tardi, inetà napoleonica, uno dei sei haras imperiali.32

Ma allevamenti di cavalli per esigenze militari non mancano neglialtri stati della penisola, come nel napoleonico Regno di Italia la «man-dria di cavalli normanni e di arabi stalloni», istituita nei pressi della VillaReale di Monza, con un deposito di stalloni a Mantova.33

Ben documentate sono le vicende delle granducali “razze di Pisa”, unmigliaio di cavalli allevati nella Toscana lorenese nella tenuta di SanRossore. Destinati al servizio della Corte, «per le cavallerizze», cioè perle scuole di equitazione di Siena e Firenze, e per gli squadroni dei caval-leggeri e dei dragoni, non pare siano di grande pregio, tanto da richiedereincroci migliorativi con purosangue inglesi ed esemplari normanni.34

6.2. Cacce nobiliari, cacce regie

Non è un caso che a Venaria come a Persano, a San Rossore come aCarditello – e lo stesso si può dire per le numerose “razze” nobiliari neglistati italiani – gli allevamenti dei cavalli siano collocati nello stesso “si-to”, a brevissima distanza dalle riserve di caccia, spesso dotate di “casini”e costruzioni di pregio. Il cavallo, il cui possesso è – come si è detto – se-gno eminente di distinzione sociale, è, infatti, anche lo strumento più im-portante, insieme alle armi da fuoco, delle pratiche venatorie in cui il So-vrano e la corte si dilettano frequentemente.

La caccia nelle riserve, strumento di sociabilità cortigiana, si configura

32. Picco, Un patrimonio al servizio della corte, p. 136. Sulle razze allevate, Bru-gnone, Trattato delle razze, passim.

33. Gandolfi, Sulle razze dipartimentali, p. 6.34. Cfr. Mineccia, Il bestiame in Toscana, p. 66. Sulle scuderie reali e il Dipartimento

del Cavallerizzo maggiore in Toscana, cfr. Maccabruni, Gli apparati di servizio, pp. 87-92.

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come un vero e proprio strumento di “disciplinamento” dell’aristocrazia,momento di esaltazione dei rituali di corte, di un articolato sistema di gerar-chie.35 Istruzione al – o metafora del – combattimento, la caccia ne riprodu-ce simbolicamente i “quadri tecnici” e le gerarchie: la caccia a cavallo, co-me la cavalleria in guerra, identifica infatti senza alcun dubbio la nobiltà.

Divenuta ormai da bene comune a “privilegio”,36 la caccia è esercitatain vaste aree, sottratte agli usi collettivi o alle pratiche ordinarie, e concesseal «piacere da gran signori», tra cui spicca quello del Sovrano. Ma non èsolo piacere e «ristoro degli onesti divertimenti»,37 per il Sovrano e la Cor-te, gravati dalle «cure del Governo dei vassalli», o strumento di “disciplina-mento”, ma anche – come si è detto – rappresentazione dell’esercizio mili-tare che è «il vero ornamento delle più maestose grandezze».38

In età moderna si moltiplicano le “bandite” e le riserve: nella Tosca-na medicea tra metà Cinquecento ed inizi Seicento si formano «le oltrecinquanta bandite toscane, di cui una trentina granducali e le rimanentisignorili e poche comunali», consentendo ai sudditi non titolati solo qual-che forma di aucupio (la caccia con le reti) in alcune zone ed in alcuni pe-riodi dell’anno.39

Meno numerosi, ma di grandi estensioni, sono i Siti Reali e le RegieCacce borboniche, da Procida, al bosco di Capodimonte, a Portici, agliAstroni, a San Leucio, Carditello, Persano, a Venafro, a Caserta, a TorreGuevara.40 Nel Regno di Napoli, da poco uscito dalla dominazione au-striaca, il «pretesto delle cacce» – come suggeriva Tanucci – poteva avereanche una grande valenza politica, consentendo alla Corona di acquisirecon l’esproprio e la confisca beni della nobiltà filoasburgica o di mante-nere il controllo su feudi devoluti.41

35. Mascilli Migliorini, La caccia in una società di corte, pp. 9-10.36. Cfr. Zug Tucci, La caccia, pp. 397-445.37. D. Caravita, cit. in Brancaccio, I siti reali, p. 19.38. Cit. in Barsanti, Tre secoli di caccia, pp. 107 e 148.39. Ibidem, p. 115. Secondo Susanna Pietrosanti, ci sarebbe un nesso molto forte tra

istituzione di bandite e rafforzamento del potere granducale (Le Cacce dei Medici, p. 25).Sulle riserve negli altri Stati italiani, cfr. ad esempio Antonini, Sola, Le cacce estensi, pp.163-176; sul Piemonte, Picco, Cavalli, caccia e potere; Vinardi, La Venaria Reale, pp. ??

40. Alisio, Siti reali dei Borboni, e Brancaccio, I siti reali, pp. 19-45. Sui re caccia-tori nel Regno di Napoli cfr. Giordano, I sovrani cacciatori, pp. 47-64, e Gallucci, Gran-dizio, I Borbone e la caccia, pp. 67-84.

41. Brancaccio, I siti reali, p. 41, nota.

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Fig. 6. Le Regie Cacce di Torreguevara, Cervellino e Tremoleto in una pianta del1768 (ASFg, Dogana, s. I, b. 370, fasc. 12865)

Con l’istituzione delle riserve frequenti sono le limitazioni degli usidelle comunità e non rari i conflitti: in Toscana, nel grande “Barco Reale”di Artimino, dove può cacciare solo il Granduca, non è possibile neppureraccogliere ghiande e castagne e i «contadini non potevano ingrassare piùdi un maiale a famiglia al fine di assicurare pascoli sufficiente alla selvag-gina».42 Parimenti nella Regia Caccia di Torre Guevara, in Capitanata, si-tuata su terre feudali del Duca di Bovino, appunto un Guevara, nel teni-mento delle Università di Bovino, Deliceto e Orsara, non solo è rigorosa-mente vietata la caccia agli abitanti delle comunità vicine, ma si arresta uncerto Mattia Parlante «per aver diramato alcuni cerri … per uso della fron-na» con cui ha alimentato i suoi buoi. Il bando del 1752, che vieta il tagliodegli alberi, il diradamento e le ordinarie pratiche del legnatico in una vasta

42. Barsanti, Tre secoli di caccia, p. 123.

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area di boschi e mezzane «per far ricetti agli animali, per costruire paglia-ri», non consente neppure di far legna per «bollire l’acqua con cui si fa ilpane ed il fuoco per cucinare» .43

Gli animali selvatici, in attesa del Sovrano e del suo numeroso seguito,frequentemente dilagano. Lo stesso Duca di Bovino, nel 1768, è costretto aprotestare per i gravi danni ai seminati all’esterno della riserva, provocatidai daini e dagli altri animali selvatici «cresciuti in numero eccessivo». Idaini – denuncia un massaro di campo – si introducono nei campi seminati«a guisa di morra di pecore»,44 mentre non è possibile “smacchiare” o“spurgare” la difesa di Cervellino, asservita alla Regia Caccia, benché si sia«resa tanto boscosa, cispigliosa e spinosa che li suoi [di Orsara] cittadininon ci possono praticare li animali vaccini», perché in queste condizioniviene ritenuta perfetta per accogliere i cinghiali.45

La limitazione degli usi collettivi e di quelli del proprietario non ri-guarda solo i terreni all’interno della Caccia, ma anche le terre del cosid-detto “miglio di rispetto”, una fascia circostante la riserva in cui non solonon si può cacciare e non si possono portare armi «senza aver prima leva-ta la pietra focale dal focile», ma non si può modificare liberamente l’usodel suolo, ad esempio tagliando i cespugli. Parimenti, nel 1752, per tute-lare i fagiani dell’altra riserva di caccia di Capodimonte, che «si estendo-no fino alla massaria dei Clerici regolari di Pietra santa», si stabilisce ildivieto di caccia per mezzo miglio attorno alla predetta masseria.46

Ben si comprende come nel 1799, dopo la fuga di Ferdinando IV aPalermo, nel Regno di Napoli dove non c’erano stati provvedimenti ana-loghi a quelli leopoldini di drastica riduzione delle bandite, nelle RegieCacce «i cittadini, al sentirsi liberi, uccisero le bestie, svanirono i confini;e spazzando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi, piantavano afrutto nei campi».47

Se certo, nel caso della nobiltà e della corte, la funzione “produttiva”della caccia è senz’altro secondaria rispetto agli elementi simbolici e ri-

43. ASFg, Dogana, s. I, b. 364, fasc. 12822.44. Ivi, b. 366, fasc. 12832.45. Ringrazio per la segnalazione di questi documenti, conservati nel fondo Dogana

dell’ASFg (s. I, b. 367, fasc. 12849), la dottoressa Angela De Sario.46. De Sariis, Codice delle leggi, IV, p. 446.47. Colletta, Storia del reame di Napoli, I, p. 219. Già nelle settimane precedenti,

per «distrarre dalle domestiche rapine», il Senato della città di Napoli aveva dichiarata li-bera la caccia nei boschi regi (p. 206).

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tuali, non se ne può trascurare il rilievo nella complessiva produzione dicarne delle economie di antico regime.48 Ma c’è un altro aspetto che ciinduce a trattenerci su questo tema: il governo delle riserve e delle ban-dite, su cui presiedono grandi apparati amministrativi – il Montiere mag-giore nel Regno di Napoli, il Cacciatore maggiore o Provveditore in To-scana – si spinge fino a pratiche di ripopolamento che non sono moltolontane dall’allevamento vero e proprio.

Accanto all’immissione, in boschi e selve destinati a diventare riser-ve, di animali da caccia “di pelo e di penna”, catturati con le reti, ci sono,infatti, diffuse pratiche di allevamenti di volatili, in particolare di fagianie pernici, ma anche di lepri, conigli, “capri” ed altri animali immessi nellearee destinate alla caccia.

Nel Regno di Napoli, dove già Alfonso V d’Aragona aveva introdot-to a Procida e nel vicino isolotto di Vivara allevamenti di pernici, fagianie starne, in età borbonica numerose sono le “fagianerie” (ad esempio aResina, a Caserta, a Capodimonte). In quest’ultima reggia, per la costo-sissima schiusa domestica di tremila uova di fagiani, raccolte da frotte diragazzi guidati da un guardacaccia nei boschi della riserva, si impieganonumerose “gallotte” e non meno di cento tacchine; inoltre per l’alimenta-zione dei piccoli fagiani si consumano 40 mila uova di galline, 4 cantaiadi riso, 230 salme di uova di formiche, 16 cantaia di grilli e, in seguito,tantissimo granturco.49 Schiuse domestiche, con modalità analoghe e conspese oltremodo elevate, si fanno anche per le pernici, per le oche di Sco-zia, le “galline di Numidia” ed altri volatili.

Ovviamente non si tratta di una pratica solo napoletana. “Gravissimo”è, ad esempio, a fine Seicento, il “dispendio” per l’allevamento dei fagianinelle due bandite granducali di Coltano e San Rossore, presso Pisa;50 nonmeno rilevante è – nella seconda metà del XV secolo – la quantità dighiande consumata per alimentare i cinghialetti nel Barco estense di Belfio-re, presso Ferrara, o di fieno, cereali inferiori, melica, fave che servono peril nutrimento di daini, cervi, caprioli, anatre “selvadege”, conigli, pernici,fagiani e animali esotici che ne popolano i boschi e i giardini.51

48. Negli anni Quaranta dell’Ottocento si stimava un consumo annuo in Europa dicirca 4 miliardi di capi di volatili cacciati (cit. in Barsanti, Tre secoli di caccia, p. 109).

49. Rosati, Le cacce reali, pp. 17-22. Cfr. anche Brancaccio, I siti reali, pp. 20-26.50. Barsanti, Tre secoli di caccia, p. 115.51. Cazzola, La città, il principe, i contadini, pp. 53-62.

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6.3. Allevare per la “pubblica felicità”

Significativamente, accanto alle “razze regie” dei cavalli e alle riservedi caccia, ci sono spesso altri allevamenti, che hanno finalità differenti, al-l’interno dello stesso disegno di controllo del territorio e di manifestazionedi una regalità che sempre più accompagna alla precedente privata patrimo-nialità la funzione di promozione paternalistica della “pubblica felicità”. Il“re allevatore”, che può essere anche “agricoltore”, si pone sempre di piùfinalità esemplari per le altre aziende del Regno, accanto a quelle immedia-tamente produttive, per le esigenze della Corte, del personale dei Siti e, inparte, per il mercato, o reddituali, per valorizzare il patrimonio o per costi-tuire un appannaggio per i membri della famiglia reale.

Nel Regno di Napoli, nel primo periodo borbonico sono numerosi gliallevamenti situati all’interno o in prossimità dei Siti e gestiti dalla CasaReale. Si tratta soprattutto di allevamento di bovini, tra i quali spicca inTerra di Lavoro, nei pressi di Caserta, la Reale Vaccheria di Alifreda chepuò ospitare fino a 136 animali, prevalentemente vacche svizzere, e al cuigoverno lavora personale specializzato proveniente dalla Lombardia, im-pegnato anche nella trasformazione del latte alla “maniera lodigiana” enella fabbricazione del burro.52 Voluta da Carlo III di Borbone, evidente-mente come una sorta di allevamento modello, oltre che a servizio delleesigenze della Corte, non avrà un grande impatto sul restante allevamentobovino del Regno e verrà dismessa nel Decennio francese, quando glianimali superstiti saranno trasferiti nella tenuta di Carditello, dove già siallevano vacche e bufale e si produce anche formaggio “parmeggiano”.

Allevamenti di bovini (vacche di Sardegna) sono anche a San Leu-cio, dove nel primo Ottocento si alleveranno anche bufali, merinos e ca-pre d’Angora, a Portici e in altre località.53

Alimentano un redditizio commercio di carni, pelli, latte e formaggigli allevamenti bovini del granducale Scrittoio delle possessioni a SanRossore e Coltano, in Toscana. Irrobustiti con acquisti di vacche e torisvizzeri, che dalle montagne sopra Lugano vi giungono nel 1771, dopo unlungo e faticoso viaggio, i bovini (da poco più di 700 capi nel 1752 ad unmassimo di 2089 nel 1793, per stabilizzarsi attorno ai 1400 capi durante

52. Corrado, Notiziario delle produzioni, p. 37. Un’altra manifattura di caci alla ma-niera lodigiana si trovava in Abruzzo.

53. Gianfrotta, Alcuni allevamenti reali, pp. 25-31; Iacono, La tenuta agricola diCarditello, pp. 33-40; Alisio, Siti reali dei Borboni, passim.

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la Restaurazione) riforniscono i mercati di Pisa, Livorno e, attraversoquello di Pontedera, tutto il Valdarno centrale.54 Fattoria modello è anchequella di Poggio a Caiano, la cui cascina può contenere fino a 150 ani-mali, di razze selezionate, alimentati con una grande produzione di fienoe leguminose da foraggio.55

Un ulteriore esempio della casistica relativa al “re allevatore” riguarda ilpiù vasto settore dell’allevamento ovino. In questo caso è proprio il decenniofrancese il periodo chiave, con la istituzione, nel 1813, nel cuore del Tavolie-re di Puglia, del Reale Stabilimento delle pecore spagnole, un’iniziativa vo-luta da Gioacchino Murat che compra 1486 ovini merinos da Vincenzo Dan-dolo, il ben noto agronomo lombardo, cui aggiunge altre pecore fatte venireda Trap, in Francia. La finalità dichiarata è di costituire un’azienda modelloche miri «al miglioramento delle lane e al rinnovellamento delle razze di pe-core di Puglia, oggetto importantissimo per le fabbriche de’ panni».56 Ac-canto al gregge merinos, c’è una cospicua “razza” di vacche che alternano aipascoli invernali del Tavoliere quelli molisani di Montedimezzo, in estate.

Qualche anno dopo, lo “Stabilimento delle pecore spagnole”, con ilgregge di pecore “gentili di Puglia” donato dai locati della Dogana all’e-rede al trono Francesco, nel 1797, in occasione delle sue nozze celebratea Foggia, e con un altro importante armento ovino esistente nel comples-so, già dei Certosini, di Tressanti e sue dipendenze, darà vita ad uno deipiù grandi allevamenti di pecore del Regno delle Due Sicilie, giunto nel1824 ad annoverare oltre 20 mila capi. Gradualmente trasformato in unarmento interamente merinos, fungerà da rifornitore di arieti e capi mi-glioratori per altri greggi del Regno e, in parte, dello Stato Pontificio.L’intero complesso – che comprende anche un grande allevamento di bo-vini ed una “razza” di giumente – sarà concesso negli anni Venti a titolodi Maggiorasco ad uno dei figli del Re e liquidato dopo l’Unità, in osse-quio alla legge del 21 agosto 1862 sulla vendita dei beni demaniali.

Anche in questo caso è la Toscana a proporre un esempio compara-bile: è ancora nelle tenute di San Rossore e Coltano – accanto ai pascoligoduti promiscuamente da bovini e bufali, cavalli e, come si dirà, “cam-

54. Mineccia, Il bestiame in Toscana, pp. 72-73. Cfr. nel Viaggio in Italia di Michelde Montaigne, nei primi anni Ottanta del Cinquecento, la visita alle cascine di «don Pietrodei Medici vicino Pisa», dove «gran numero di persone travagliano a far ricotte, butirro,casci» (p. 306).

55. Mineccia, La modernizzazione difficile, pp. 105-106.56. Cfr. Russo, Tra Abruzzo e Puglia, pp. 85 ss.

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melli” – negli anni Novanta del Settecento si allevano circa 500 capi ovi-ni. Durante l’impero napoleonico, a San Rossore si installa uno dei dueÉtablissements di merinos (l’altro era nel Senese). Nel 1814 si numerano800 capi tra merinos e “pugliesi”, più altri di razza locale. La masseria dipecore, oltre alla lana e agli agnelli, produce discrete quantità di formag-gi, soprattutto “raviggioli” e ricotte.57 Ma i merinos si diffonderanno o-vunque negli Stati italiani, dallo Stato Pontificio, dove introdotti dal Go-verno nel 1792 nella tenuta di Campo Pescia, vicino Montalto, e incre-mentati nel periodo napoleonico con acquisti da Perpignano per istituirela bergerie impériale,58 alla Lombardia, al Piemonte.59

Un allevamento granducale con marcati tratti di esotismo è quello dei“cammelli” – pare che in origine fossero proprio tali60 – introdotti da Fer-dinando II dei Medici nella tenuta di San Rossore e, dopo un’epidemia,sostituiti con dromedari acquistati a Tunisi nel 1739. Cinquant’anni dopola “razza” – che continua ad essere chiamata “dei cammelli”– avrebbecontato ben 196 capi, dei quali si incoraggia la diffusione nelle tenute pri-vate della Maremma, che presenterebbe una «perfetta somiglianza conmolti dei paesi occupati dai Turchi». Se ne propone l’impiego, al postodel bue o del cavallo, nei frantoi oleari o, al posto dei barocci, nell’allu-miera di Montioni, o come animale da carne, considerato che «a Pisa laclasse indigente [ne] mangia» quella delle bestie morte.61 Sopravvissutafin quasi ai nostri giorni, la razza dei “cammelli” – che, tra Settecento edOttocento, dà al paesaggio del litorale toscano un insolito fascino di de-serti esotici e che con pittoresche carovane anima talvolta le strade di Pi-sa, Livorno e Firenze – non ha una reale utilità economica: impiegati per itrasporti all’interno delle aziende granducali, sono acquistati da “ciarla-tani” di tutta Europa, che con essi trasportano le loro mercanzie.62

Nessun risultato pratico registra, invece, nel Regno borbonico la pro-posta di Galanti di «naturalizzare … almeno nella Calabria ulteriore enella Sicilia, il cammello, molto più utile dell’asino e del mulo».63

57. Mineccia, Il bestiame in Toscana, pp. 67-68.58. De Felice, Aspetti e momenti, p. 97.59. Vincenzo Dandolo parla, ad esempio, di 8 mila pecore «spagnole e migliorate»

esistenti nel «celebre stabilimento» della Mandria di Chiasso, gestito da una «Società pa-storale», composta da «ricchi proprietari» (Sulla pastorizia, p. 216).

60. Mineccia, Il bestiame in Toscana, p. 64.61. Porte, Del cammello toscano, passim.62. Cit. in Mineccia, Il bestiame in Toscana, p. 65.63. Galanti, Della descrizione geografica, p. 139.

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I “Siti” reali o granducali, infine, ospitano – come succede, ad esem-pio, a Portici – veri e propri serragli, popolati da leoni, scimmie, struzzi epersino da un elefante.64 La loro funzione – anch’essa distintiva del so-vrano – è, in questo caso, solo quella di “stupire”.

64. Furia, Animali venuti da lontano, pp. 97-99.

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7. Epilogo. Negli spazi proprietari

7.1. Uso, diritto, scienza

Negli spazi densi di poteri, di autonomie e di pluralismi dell’Italia dietà moderna descritti per cenni in questo libro, il controllo concreto delle ri-sorse non è un dato, un presupposto dell’agire economico fissato dalla tito-larità dei diritti su pascoli ed animali: esso si conquista attraverso il control-lo di reti ed apparati e tramite atti possessori. Sono questi ultimi che creanouna gerarchia di fatto, variamente legittimata, fra diritti di uso distribuiti frauna molteplicità di soggetti, ed attribuiscono in forma nettamente differen-ziata potere dispositivo sulle risorse. A volte – lo abbiamo visto nel casodella campagna romana illustrato da Marina Caffiero – i potenti locali di-fendono strenuamente la pluralità dei diritti ed il carattere demaniale dellerisorse pascolatorie perché, influenzando i centri decisionali, riescono ad u-sarle a costi bassi ed in forme di fatto pressoché esclusive. In altri casi lapluralità delle norme e delle condizioni giuridiche dei suoli, la molteplicitàdei soggetti singoli, dei corpi e delle istituzioni aventi causa non vengonopercepite come risorse, ma come ostacolo insormontabile alla decifrazionedelle opportunità disponibili, come causa di indeterminatezza decisionale ecosti pesanti: il gioco economico, ed i segni onorifici che esso permette diesibire, possono apparire immersi in una condizione di radicale incertezza.

I modelli proprietari, che assumono forza crescente con il cresceredella ruralizzazione cinquecentesca, tendono a definire ambiti collocati alriparo dal gioco delle giurisdizioni, situati in una cartografia che non di-stribuisce lo spazio fra i poteri legittimi, ma marca i confini dentro i qualiviene meno la legittimazione dei poteri stessi a decidere su usi e praticheeconomiche. E così si può assumere la vagatio come un carattere insop-

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primibile dell’allevamento ovino ma, al tempo stesso, si cerca di ridurnel’alterità rispetto alla quadrettatura istituzionale richiudendola nei proprispazi proprietari – ad esempio quello del vescovo Malvasia ai primi delSeicento; o situarla, tramite contratti ed accordi di reciprocità, non più acavallo di diversi spazi giurisdizionali, ma di pascoli di proprietari diver-si. A volte, come nel caso della mezzadria, quei modelli propongono, inuna sorta di ossimoro, una territorialità di natura privatistica: la residenzadella famiglia colonica nel podere la sottrae in parte alla presa della co-munità giurisdizionale e la riferisce alla fattoria come ad una sorta di istan-za territoriale superiore, capace di esercitare potere, come si sa, ben al dilà della sfera delle scelte produttive.

La legittimazione di questi nuovi ritagli dello spazio passa attraversol’attacco al nesso fra uso e diritto di disposizione sul suolo, a lungo un ca-posaldo della dottrina e della giurisprudenza che aveva contribuito a rende-re “divisa” la proprietà, attribuendone una parte al rustico che ne estrae ri-sorse in forma ripetuta e regolare. La memorialistica agronomica che circo-la in abbondanza nel Cinquecento svaluta l’uso svalutando i saperi ad essoconnessi: le buone pratiche non sono quelle dei “villani” vittime della loro“ignoranza” e “avidità”, ma quelle dettate da chi, avendo sulla terra dirittiindipendenti dal suo uso e trasferibili alle generazioni successive, connettepresente e futuro e di conseguenza non è “avido”, sa rifiutare quei vantaggitemporanei che producono danni perenni. Il modo più efficace per ribadiree promuovere in nesso proprietario col suolo è quello di esercitare tutelasull’uso affidato al “villano”, di delimitarlo nel tempo con contratti a sca-denza breve, fino all’ideale del rapporto a giornata, e frantumarlo in una gri-glia che contrappone il lecito e l’illecito. Di conseguenza ad essere colpitidai modelli proprietari sono in particolare quegli usi multipli e stratificati neltempo e nello spazio che sostengono una parte ampia della produzione ani-male di età moderna. I capitoli in volgare premessi, a partire dall’ultimoQuattrocento, ai contratti bresciani esprimono, ben più delle ripetitive for-mule contrattuali latine, questa tendenza a quadrettare minutamente lo spa-zio in forme alternative a quelle dell’intrico giurisdizionale: «… il fittale siatenuto continuamente tenir sopra la possessione bestie grosse bovine overvaccine n° 4 sotto pena de un ducato per cadauna bestia che esso non teneràsuso cioè per settimana … più io me reservo tutto il boscho, et non voglioche ’l fittale per modo alcuno gli abbi raggione né si impazzi in esso …».1

1. Tarello, Ricordo d’agricoltura, appendice I, pp. 130 e 132.

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La sedentarizzazione dell’allevamento, al limite la stabulazione inte-grale, è un elemento costitutivo di questo disegno, in quanto permettereb-be di risolvere molte delle contraddizioni e delle difficoltà che il nessoproprietario incontra nella sfera della produzione animale. Ma rimane unprogramma largamente inattuato e, secondo non pochi “modernizzatori”,inattuabile. I modelli proprietari devono continuare a fare i conti con l’al-levamento vago, in particolare col suo animale di gran lunga più significa-tivo, la pecora, e con la sua continua ed insopprimibile interferenza con lavariegata tessitura ambientale e giurisdizionale italiana. Gli atteggiamentidi chi aspira a riservarsi diritti esclusivi su un suolo ben confinato oscilla-no fra la linea del ricacciare gli ovini dalle terre in piano suscettibili di usiintensivi per confinarli sulle montagne, e quella, speculare, proposta nelprimo Ottocento da Vincenzo Dandolo nelle sue attività di imprenditoreed in un libro ampiamente dibattuto anche negli ambienti della decisionepolitica,2 ma in larga parte inefficace sulle pratiche pastorali: una lineafondata sull’immagine della pecora come animale che, una volta emanci-pato dalle sue mille varietà locali e nobilitato con gli incroci giusti, produ-ce merci e letame preziosi senza richiedere gli investimenti massicci ne-cessari ai bovini. La sua capacità di inserirsi fra colto ed incolto, fra i tem-pi del calendario agricolo, negli spazi di transizione fra i diversi ambientinaturali ed artificiali, può essere dunque pensata come una risorsa anchedal punto di vista della contabilità economica. Resta la questione dellacompatibilità incerta della sua particolare spazialità con l’intrico dei poterie con il controllo proprietario; la questione cioè delle occasioni che essaoffre, anche ai pastori inseriti nelle griglie contrattuali più restrittive, disfruttarne ed allargarne i margini di flessibilità per realizzare pratiche diallevamento condannate da nuovi e vecchi manuali di scienza pastorale.

7.2. Le ambiguità delle “riforme” pastorali

Queste difficoltà non vengono del tutto azzerate quando intellettuali,proprietari, usurpatori di demani annidati in snodi importanti degli appa-rati pubblici cominciano a sciogliere le promiscuità, a deistituzionalizzareil territorio, ad attaccare gli usi multipli in nome di una scienza della con-servazione delle risorse antitetica ai saperi locali; e, al tempo stesso, ad

2. Del governo delle pecore.

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affidare le risorse stesse alla lungimiranza orientata dall’interesse dei ti-tolari della proprietà perfetta. I mutamenti dei quadri intellettuali e nor-mativi, a partire soprattutto dal secondo Settecento, sono evidenti ovun-que, ma hanno tempi ed esiti assai variegati, e finiscono spesso per pro-spettare e contribuire a costruire soluzioni mediatorie.

L’abolizione della feudalità, con la divisione in massa dei demani exfeudali e la privatizzazione – incisiva in particolare nelle ricche aree dipianura – dei beni comunali e pubblici, molti dei quali erano pascoli arbo-rati o boschi, sconvolge ovviamente il contesto dell’intero mondo dellaproduzione agro-silvo-pastorale. Ma l’allevamento, in particolare quellotransumante, sul quale si era per secoli stratificato un universo normativoimponente e minuto, è oggetto di misure specifiche di grande rilevanza,spesso di lenta e non pacifica esecuzione e distese nel corso di vari decen-ni, con ripensamenti ed accelerazioni significative; misure che tendono, altempo stesso, a “modernizzare” l’allevamento ed a tenerlo dentro una sfe-ra speciale, protetta, investita da una temporalità più lenta di quella della“ragione agricola”. Non sempre il suolo pascolatorio viene trasformato dicolpo in uno spazio “liscio”, libero dai vincoli e dalle disomogeneità giuri-diche e politiche del pluralismo di età moderna; non diventa subito, secon-do la linea proprietaria, un semplice recettore potenziale di investimentiproduttivi, calcolabile secondo i parametri della massimizzazione econo-mica ed adoperabile ai fini dei soggetti sociali “interessati”.

Ricordiamo per cenni qualche esempio di “riforma” pastorale. NellaSardegna sabauda, dopo l’editto del 1806 che consente la chiusura deicampi aperti compresi all’interno del “vidazzone” purché finalizzata all’im-pianto di oliveti, il processo di riforma è piuttosto lento e contrastato.Nell’ottobre 1820, con l’editto “sopra le chiudende”, si consente la chiu-sura dei terreni soggetti al pascolo vagante ai proprietari che ne ottenganoil permesso dai prefetti della provincia, provocando, accanto all’oppo-sizione di molti consigli comunitativi, violenti disordini nei centri pasto-rali del Nuorese.3 Non meno periodizzante è, per la transumanza ovinaveneta e per la vita delle comunità pastorali della montagna vicina, l’abo-lizione della servitù del “pensionatico”, cioè della servitù di pascolo dicui beneficiavano i pastori dei sette comuni dell’Altopiano di Asiago, suterreni loro riservati conosciuti, significativamente, col nome di “poste”.Preparata da norme della seconda metà del Settecento – nel 1765, ad e-

3. Scaraffia, La Sardegna sabauda, pp. 755 ss.

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sempio, si stabilisce non esservi «assolutamente privilegio o prerogativaalcuna di pascolo in favore dei sette comuni»4 – e dalla legge del 1839sull’alienazione dei beni comunali, l’abolizione della servitù sarà decreta-ta, non senza opposizioni, dall’ordinanza imperiale del giugno 1856.5

Oggetto di attacchi furiosi da parte dei riformatori, le tre grandi isti-tuzioni della transumanza non possono certo sopravvivere alla stagionedelle riforme.6 La dogana toscana è la prima ad essere abolita, all’internodi una serie di misure di stampo liberista – ad esempio lo smantellamentodel vasto sistema delle riserve e delle bandite di caccia. Il motuproprioleopoldino dell’11 aprile 1778 sopprime l’ufficio e il magistrato dei Pa-schi di Siena, consolida nel proprietario del suolo «il dominio pieno e as-soluto del terreno con la percezione di tutti i suoi frutti»,7 scioglie il com-pascuo e affida la provvista delle erbe al mercato. Le terre incolte dellaMaremma vengono concesse in proprietà o a livello a quanti voglianocoltivarle. Nello Stato pontificio già Pio VI promuove l’affrancazionedalle servitù di pascolo cui erano soggette le terre della Dogana lazialeconcesse a coltura; ma solo nel dicembre del 1823, sotto Leone XII, vieneemanato l’editto che abolisce la Dogana della fida e dei pascoli di Roma,della provincia del Patrimonio, di Marittima e Campagna, riconoscendoai pastori transumanti il diritto di far pascolare il loro bestiame, nel tragit-to tra i monti e il piano, nei terreni adiacenti al tratturo, per una profondi-tà di 20 canne, «purché non fossero seminati o ridotti a miglior coltura».8

Nel 1849 una notificazione concederà ai proprietari la facoltà di affranca-re i propri fondi dalla servitù dello ius pascendi: una opportunità non col-ta in pieno se ancora nel 1864 la servitù di pascolo nelle province di Ro-ma e Comarca, Civitavecchia, Viterbo, grava su circa 269 mila ettari.9

Nel Regno di Napoli uno dei primi atti di governo di Giuseppe Bonaparteè la legge sul Tavoliere del maggio del 1806, alla quale del resto si eragià messo mano durante la prima restaurazione borbonica. Abolito il tri-

4. Panciera, La transumanza, p. 376.5. Novello, Agricoltura vs pastorizia, pp. 205-230. Sulla crisi dell’economia dell’al-

topiano dei Sette Comuni, cfr. Panciera, I pastori dell’altopiano.6. Una rapida sintesi sull’abolizione dei sistemi fortemente istituzionalizzati è in

Russo, Dogane e pastorizie, pp. 116-121; cfr. anche, sulle Dogane italiane, Cazzola, Ovi-ni, transumanza e lana, pp. 37-39.

7. Cit. in Barsanti, Allevamento e transumanza, p. 102.8. De Cupis, Le vicende dell’agricoltura, pp. 400-401.9. Caffiero, L’erba dei poveri, p. 100.

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bunale particolare ed il monopolio pubblico dell’erba nei confini del Ta-voliere fiscale, l’affitto annuale dei pascoli, già divenuto dal 1789 sessen-nale, viene trasformato in censuazione perpetua affrancabile, gli usi delsuolo vengono liberalizzati, le promiscuità vengono sciolte, a partire dalleservitù di pascolo sulle “portate”.10 Ridimensionato sotto la pressione degliarmentari abruzzesi al ritorno dei Borbone, che ridimensionano la libertàd’uso della terra e aboliscono l’affrancabilità dei censi, il provvedimentoregolerà il sistema della transumanza fino alla legge del 1865, che disporràl’affrancazione obbligatoria dei censi e la piena libertà d’uso della terra.Nella congiuntura di mercato post-unitaria e con la prospettiva speculativadi alti rendimenti cerealicoli conseguibili da terreni vergini, il provvedi-mento favorirà ampi dissodamenti soprattutto nelle aree di pianura.

Dunque le nuove condizioni normative non mettono bruscamente fi-ne alla nostra vicenda. La pastorizia ovina sopravvive adattandosi aglispazi proprietari e riciclando pratiche e saperi secolari. A fine Ottocentola “depecorazione europea” causata dall’esplodere dell’allevamento da la-na nell’emisfero australe è un fenomeno macroscopico; e purtuttavia, fragli spazi del Tavoliere non occupati dalla dilagante cerealicoltura, che pe-raltro sempre più di frequente integra l’allevamento nelle forme dell’azi-enda mista cerealicolo-pastorale,11 e le montagne abruzzesi, dove le greg-gi transumanti ritrovano ancora le erbe dei pascoli comunicativi aggiudi-cate con il tradizionale rito delle aste, transumano ancora 528 mila capiovini; ed altri 320 mila “vagano” fra l’Agro romano e l’Abruzzo. Non acaso il complesso e ramificato sistema dei tratturi, tratturelli e bracci delMezzogiorno adriatico viene tutelato, conservato nel demanio pubblico,periodicamente reintegrato e continuamente cartografato, nel tentativo dicontrollare la tensione tra pastori e contadini, tra transumanti e stanziali,che, non più mediata e disarticolata dalla grande istituzione doganale,esplode di frequente.12 Solo quando la “vaporiera”, a partire dalla finedell’Ottocento, e più tardi il camion, renderanno inutile il tratturo nelmeccanismo della transumanza, avrà termine il secolare confronto fra“ragione pastorale” e “ragione agricola” intorno alle grandi “vie erbose”che collegano il monte ed il piano.

10. Cfr. Di Cicco, Censuazione ed affrancazione. Sulle conseguenze della riformaanche sugli assetti proprietari, D’Atri, Puglia piana.

11. Russo, Tra Abruzzo e Puglia, p. 61.12. Su questa fase, cfr. Archivio di Stato di Foggia, Cinque secoli, un archivio, pp.

91-99; Archivio di Stato di Foggia, Le vie della transumanza.

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7.3. Gli spazi “inutili”: l’Alta Murgia da sistema agro-pastorale a parcorurale

Ma non tutto lo spazio sottoposto per secoli alla utilizzazione pasto-rale istituzionalizzata è suscettibile di valorizzazione nel nuovo contesto.A volte la pervasiva concezione “giacobina” dello spazio, ossia la disarti-colazione in parti funzionali del territorio, la loro sottomissione al calcoloeconomico e la loro gerarchizzazione a seconda della capacità di produrre“pubblica felicità” alla società di proprietari e salariati che li vive, sembraagire con vigore anche in ambito pastorale. La secolare distinzione fraspazi “utili” e spazi “inutili” si irrigidisce: il suolo da sottoporre alle ma-nipolazioni incontrollate volute dai loro proprietari viene isolato da quelloda lasciare all’abbandono.

Ai margini del Tavoliere pugliese, l’“isola di organizzazione” mur-giana, strutturatasi nell’interazione fra vincoli ecologici e pluralismo isti-tuzionale di antico regime, diventa fra Sette ed Ottocento, agli occhi di at-tori ed osservatori, uno di quegli spazi, tutt’altro che rari sul contorno me-diterraneo, che sono stati umanizzati per sbaglio e male, e non sono ri-scattabili né con l’azione dei governi né dando libero corso all’interesseprivato. La Murgia pastorale inquadrata nella Dogana foggiana che dallecampagne di Andria, Barletta e Corato sale verso l’interno fino a Casteldel Monte, presenta, in una relazione di primo Ottocento, un’immaginesinistra e disperata:

de’ frequenti e poco interrotti strati di calcare, delle terre in pendio e spessoelevate in modo che, soggette all’urto de’ venti impetuosi, veggono aduggiarela vegetazione ed inaridire le piante al momento stesso in cui si sviluppano,de’ macigni rotti dalla mano dell’uomo per piantarvi in mezzo degli alberi, inqualche punto degli strati di argilla rossa, che fra i tufi e le pietre tiene luogodi terreno vegetabile … è solo nelle valli … e nelle poche pianure … che puòrivenirsi della terra atta ad esser posta a profitto.13

In osservatori, amministratori, viaggiatori ormai emancipatisi dalleculture e dalle pratiche del grand tour e lettori di libri di agronomia edeconomia politica, il fatto che gruppi umani, per quanto sparuti e residuali,tentino di “porre a profitto” ambienti di questa natura provoca meraviglia.Nei casi culturalmente più elaborati, la modesta umanizzazione di quei

13. Relazione di Andrea Modula, del Commissariato civile del Tavoliere, in Il Tavo-liere di Puglia, pp. 47-48.

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paesaggi viene configurata tramite la categoria del “paradosso”, destinatoad una particolare fortuna nelle scienze sociali che fra Otto e Novecento sivanno istituzionalizzando e trasformando in discipline accademiche: adesempio nel robusto apparato concettuale del geografo francese di primoNovecento Albert Demangeon, nel quale la presenza del villaggio contadi-no è il parametro di giudizio da applicare alle forme di valorizzazione del-lo spazio rurale.14 La tradizione meridionalista, e gli studi che ancora oggivi si richiamano in maniera più o meno esplicita, si collocano su una lineanon dissimile, insistendo in raffigurazioni di questi ambienti “paradossali”fondate, piuttosto che sull’analisi delle loro logiche e delle loro vicende,sulla misurazione della loro distanza da un modello di spazio umanizzatodi intonazione funzionalista, presupposto come normale e positivo.

Ma il paradigma dell’“inutilità” non è, ovviamente, semplice rappre-sentazione; esso coinvolge pratiche, forme dell’economia, modi di esseredel territorio e del suo governo, i cui effetti sullo spazio murgiano sonospesso sconvolgenti.15 Mentre “popoli di formiche” continuano a cercaretestardamente sull’altipiano frammenti di reddito, tutt’intorno, sulle terreprofonde delle piane a nord-ovest ed a sud-ovest e sui primi gradoni colli-nari paralleli alla costa, il territorio, sottoposto al calcolo proprietario, sitrasforma impetuosamente: la pastorizia non ha più gli strumenti culturali epolitici per resistere ai dissodamenti, le colture arboree ed arbustive si lan-ciano alla conquista dell’incolto in concorrenza con i grani, l’“uso di Pu-glia” viene travolto. Pezzi dello stesso altopiano subiscono manipolazioni avolte non prive di valori da conservare, più spesso prepotenti e vistose. Inogni caso esse si presentano come episodiche, sporadiche, asistemiche: sisperimentano colture, come quella vitivinicola, destinate in quell’ambientea prospettive precarie, con ampia produzione di manufatti edilizi di soste-gno; si costruiscono chilometri di muretti a secco a difesa di possessi chespesso hanno un valore più simbolico (sono ora “proprietà perfetta”) cheeconomico. Nel frattempo tutta la grammatica secondo la quale l’altopianoera stato a lungo descritto vissuto – specchie, pagliai raggruppati, massi po-sti in verticale, grandi piante secolari isolate – si va sconnettendo, lasciandooggetti e segni isolati, enigmatici per il nuovo senso comune. La rete fittadi tratturi e percorsi, i ripari temporanei, i boschi residui, i pozzi e le cister-ne, le aree coltivate in relazione stretta con quelle pascolate, gli jazzi e le

14. Cfr. Demangeon, Problèmes de géographie, in particolare p. 162.15. Alcune indicazioni e la bibliografia in Salvemini, L’innovazione precaria.

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masserie, vengono investite da forme di utilizzazione improprie, saltuarie,cominciano a degradarsi man mano che le pratiche agro-pastorali che leavevano prodotte nei secoli si rifugiano in spazi fisici e sociali sempre piùristretti. Non più poggiati sulle forme secolari di utilizzazione del suolo, iflussi mutano di qualità, in parte si indeboliscono, in parte si intensificano esi allungano perdendo la tradizionale forma reticolare e polarizzandosi sualcuni centri costieri, Bari in primo luogo. Ne risulta un aumento indubbiodelle merci circolanti e dei redditi complessivi di una popolazione in cre-scita considerevole, ma anche un incremento della specializzazione pro-duttiva e dell’esposizione mercantile accompagnata da una divaricazionedelle condizioni di vita fra gruppi e zone, che la svalutazione degli ammor-tizzatori sociali – in primo luogo quelli sostenuti dalla massiccia presenzaecclesiastica nel mondo dell’economia – rende per certi versi drammatica.La grande crisi degli anni Ottanta dell’Ottocento segnala inequivocabil-mente il bisogno insoddisfatto di governo emerso vistosamente nei pochidecenni di emancipazione del territorio pugliese dai vincoli di lungo perio-do che avevano in qualche modo prodotto effetti di regolazione.

I dodici centri, da secoli segnati dalle migrazioni stagionali di raggiocorto, vedono ora dispiegarsi una mobilità di tipo nuovo: quella delle emi-grazioni definitive a lungo raggio. Per contenerla, essi devono ora volgerele spalle alla pietraia a cui fanno corona, si proiettano sulle zone del loroterritorio capaci di rese più alte in termini di prodotto per unità di superficiecoltivata, e al contempo cercano una collocazione nel nuovo sistema diflussi regionale: ad esempio si adoperano per non essere tagliati fuori dallarete viaria costruita vigorosamente nel corso dell’Ottocento, che, puntandodecisamente sui nuovi poli, finisce per disegnare essa pure un vuoto in cor-rispondenza dell’altopiano (fig. ???).16 Gli esiti sono assai diversificati, edandrebbero seguiti puntualmente. Un indicatore grezzo ma riassuntivo co-me la dimensione demografica, proiettato sul lungo periodo, racconta co-munque una storia inequivocabile: dopo secoli in cui avevano seguito unatraccia relativamente coerente, i centri murgiani vedono divaricarsi l’anda-mento della propria popolazione (fig. ???).17

16. La carta è elaborata sulla base di Massafra, Campagne e territorio.17. I dati su cui è stato elaborato il grafico (che, inutile sottolinearlo, ha per l’età

moderna solo valore comparativo) derivano dalle seguenti fonti:a) “Fuochi” al 1447 (moltiplicatore dei componenti dei fuochi 3,5): Da Molin, La

popolazione del Regno di Napoli e Cozzetto, Mezzogiorno e demografia;b) “fuochi” al 1532 (moltiplicatore 4), al 1545 (moltiplicatore 4), al 1561 (moltipli-

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Fig. 7. Strade e ferrovie costruite in Terra di Bari dal Decennio francese ai primianni Ottanta dell’Ottocento.

In forme varie e con diverse giustificazioni politiche ed ideologiche,riaffiora a varie riprese, nel corso del Novecento, la proposta dei riforma-tori settecenteschi di far rivivere le pratiche agro-pastorali “normalizzan-do” la Murgia, cioè riunificando i luoghi dell’abitare e quelli del lavorarescissi dal secolare dominio della città contadina. In particolare negli anni

catore 4,5), al 1595 (moltiplicatore 4,5), al 1648 (moltiplicatore 4), al 1669 (moltiplicatore3,5): Giustiniani, Dizionario geografico; la numerazione del 1595 è stata verificata suMazzella, Descrittione del Regno di Napoli, quelle del 1648 e 1669 su Beltrano, Descrit-tione del Regno di Napoli;

c) “fuochi” al 1732 (moltiplicatore 4): Barbagallo De Divitiis, Una fonte per lo stu-dio;

d) popolazione a fine Settecento: Di Simone, Topografia politica del Regno di Na-poli, manoscritto in Biblioteca Nazionale, Napoli, ms. X-C-36 e ms. XII-D-59, e Alfano,Istorica descrizione;

e) popolazione 1806-1860: Assante, Città e campagne;f) popolazione 1861-1991: censimenti, pubblicazioni ISTAT.Per l’individuazione dei moltiplicatori dei “fuochi” ho tenuto conto in particolare

delle Relationes ad Limina custodite nell’Archivio Segreto Vaticano, Roma.

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Cinquanta il potere pubblico torna ad incidere direttamente sul paesaggioproducendo un’edilizia fisicamente consistente e sistematica: agglomeratidi case ampie e razionali, designati con un termine pomposo e sconosciu-to agli abitanti della Murgia, quello di “villaggio”, vengono sparsi sullapietraia ed offerti a contadini abituati ad ammassarsi con gli animali inqualche stanza angusta del borgo per cercarvi le mille relazioni sociali afondamento del loro reddito familiare. Ma è un’edilizia che si rivela subi-to economicamente e socialmente effimera. Il miracolo economico italia-no trasformerà presto i “villaggi” in insiemi spaesati di case-parcheggioin vista della seconda grande ondata di emigrazioni definitive dopo quelladei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento.

Fig. 8. Popolazione dei centri dell’Alta Murgia dal 1447 al 2001.

La marginalità dell’area e la disattenzione sociale nei suoi confronti di-ventano a questo punto un dato macroscopico; ma, ancora una volta, non laconsegnano ai processi naturali di inselvatichimento. Modernizzazione emarginalità continuano, sia pure in forme del tutto nuove, ad intrecciarsi,producendo altri gruppi ristretti, spesso estranei ai luoghi, che nella disat-tenzione sociale per gli spazi emarginati trovano occasioni di “libertà” ed

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iniziativa. Ne risulta una vigorosa escogitazione di modi di riutilizzo ineditie creativi. Poligoni militari, villaggi turistici disabitati, sale da ricevimentoche esibiscono qualche pecora per farsi classificare come agriturismo, cavedi pietra calcarea aperte e mai sanate, laghetti artificiali senz’acqua, disca-riche abusive di materiali nocivi che percolano nelle falde: tutta una varietàdi nuovi manufatti invasivi si sovrappone ai segni e all’edilizia prodotta daisistemi secolari istituzionalizzati di produzione e di flusso, cancellando iresidui ancora visibili delle catene relazionali che legavano e davano sensoalle componenti del paesaggio umanizzato; fino alla soluzione finale delladistruzione ferocemente sistematica dell’ambiente, perseguita con la fran-tumazione meccanica delle superfici rocciose per trasformarle in suoloagricolo produttore di poco foraggio e molti incentivi finanziari.

La recente istituzione del parco nazionale rurale, esito di un percorsolungo ed accidentato, è l’indizio più evidente del riaccendersi dell’attenzio-ne sull’area, grazie soprattutto a gruppi intellettuali di grande qualità, capa-ci di svolgere funzioni di pedagogia sociale, di organizzazione dell’azionecollettiva e, al tempo stesso, di intervento efficace nelle molte e complicatearene decisionali; ma giunge quando i giochi sono in larga parte fatti.18

7.4. Gli spazi “utili”: il terribile diritto del marchese Sgariglia

Le temporalità e gli esiti radicalmente differenziati del grande muta-mento sette-ottocentesco, suggeriti dai cenni dei paragrafi precedenti, an-drebbero riportati alle varietà delle forme dell’azione sociale. Vi facciamoallusione, in chiusura di questo lavoro, ricorrendo ancora una volta ad unesempio concreto: un caso primo-ottocentesco di attribuzione di “utilità”pastorale allo spazio tramite un adeguamento riuscito fra vagatio e pro-prietà, che fa emergere l’interazione fra le novità del quadro politico-isti-tuzionale ed intellettuale ed i mutamenti di pratiche dell’allevamento nondirettamente investite dalle nuove norme.

Si tratta di un altro caso situato sull’Appennino nord-orientale, sullamontagna ascolana, presentato in uno studio esemplare di Olimpia Gob-bi.19 Il marchese Pietro Emilio Sgariglia è un agronomo illuminato che

18. Vedi, per queste questioni, le pubblicazioni di uno dei protagonisti della batta-glia per il parco; ad esempio Castoro, Cronache murgiane.

19. Il marchese agronomo, pp. 69-90.

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agita temi tipici dei suoi tempi: combatte la smania del dissodare ed il le-gnicidio, vuole riscattare la silvicoltura e la pastorizia dalla condizione di«inonorata e gretta occupazione di gente idiota e miserabile» selezionan-do le razze, propone il ripristino di un equilibrio fra colture e pascolo fon-dato sulle “vocazioni naturali” dei suoli. Applicata all’ambiente piceno,questa linea comporta un ripensamento complessivo delle forme e deinessi che il territorio è andato assumendo dal Cinquecento: l’obbiettivodiventa quello di ritrovare in loco gli spazi della pastorizia che l’appode-ramento aveva chiuso, di rimettere le risorse pascolative in mano ai loca-li, di abbreviare la transumanza staccando le montagne marchigiane daglierbaggi invernali tirrenici e ricollegandole alle vicine coste adriatiche.L’aspetto più interessante di questa figura è la sua volontà e capacità ditradurre queste proposte non in “riforme”, ma in iniziativa economica den-tro un quadro proprietario che appare nuovo non sul piano delle norme,ma delle pratiche. A partire dal 1801, secondo una strategia precisa, Sga-riglia acquisisce da monasteri, commende e comunità, frammenti di terra,spesso goduti con contratti enfiteutici o in comune, da ricongiungere perrealizzare una continuità territoriale pensata in funzione di un nomadismoovino per così dire dolce, di raggio breve, che non abbia bisogno di attra-versare confini giurisdizionali o proprietari e non disperda concime pre-zioso. Dopo un decennio l’insieme delle sue proprietà configurano unospazio ‘verticale’ continuo, digradante da 1650 metri a 650 metri, con unavarietà di microclimi, attrezzato alle quote basse da ovili raggiungibili fa-cilmente dalle quote più alte, e connesso ad un’altra proprietà costiera de-stinata ad accogliere gli animali in pieno inverno: qui egli alleva con suc-cesso 1000 pecore integrate con il ciclo di produzione della canapa.

Dal momento che si tratta di una di quelle aree nelle quali i secoli del-l’età moderna hanno costruito e stratificato situazioni di “pieno” demogra-fico, consuetudinario, giurisdizionale, economico, questa operazione illu-minata sul piano tecnico, produttivo e giuridico si sviluppa sotto gli occhidi una folla di attori tutt’altro che consenzienti e passivi. La questione ènon tanto il titolo giuridico secondo il quale i suoli vengono acquisiti,quanto i contenuti che ad esso Sgariglia vuole dare. Agli utilizzatori localierano familiari da secoli forme varie di privatizzazione delle risorse. LaMontagna di San Giacomo, nel demanio di Ascoli, era stata ininterrotta-mente, a partire dal Cinquecento, patrimonializzata ed offerta al miglior of-ferente in fitto anche ultradecennale: un’operazione, abbiamo visto, diffu-sissima in età moderna, che permetteva di far fronte alla crescita delle pre-

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tese del fisco a scapito dei diritti di pascolo e legnatico dei cives. D’altrocanto questa diminuzione di diritti, sembra suggerire la Gobbi, ha conse-guenze sociali governabili perché avviene in un quadro negoziale che rendenon assoluta l’esclusione dei locali dal godimento delle risorse. Le difficol-tà di controllo causate dal carattere impervio dei luoghi, la labilità e l’incer-tezza dei confini, i margini di ambiguità del disciplinamento del danno da-to, la consuetudine che, ancora in pieno Settecento, permette il pascolo diqualche capra e la raccolta di piccole quantità di legna senza corrisposta, lapratica diffusa del subaffitto a favore dei proprietari di piccole greggi, i fur-ti generalizzati ed incontenibili: tutto questo permette che beni di pertinen-za giuridica formalmente esclusiva continuino ad avere una circolazionenon onerosa socialmente larga.

Nelle mani di Sgariglia, la situazione della Montagna di San Giaco-mo muta drasticamente, ed il diritto proprietario diventa “terribile”:20 iconfini vengono rimarcati e sorvegliati da un manipolo di guardiani che,sotto la guida di una “ministra” di nome Brigida, aggredisce a morsi dicani e bastonate pastori, falciatori, legnaioli, viandanti, e tutta la folla deifruitori tollerati per consuetudine. Al contempo una implacabile azionegiudiziaria, sostenuta dalle reti di relazione del marchese, persegue chiun-que accampi diritti. Ancora più brutale si presenta l’acquisizione da partedi Sgariglia della Montagna dei Fiori, nel vicino comune di Lisciano.Mantenuta nella disponibilità della comunità come produttrice di erba adintegrazione dello scarso foraggio poderale e rigorosamente suddivisa frai “fumantia”, la Montagna dei Fiori viene rimessa a disposizione degliabitanti nel 1805 con un contratto di fitto di 12 anni stipulato dal comunecon il nuovo ente proprietario, la Cassa di Amministrazione dei Beni Co-munitativi. Quando il nostro agronomo la acquista nel 1807, la comunitàgli chiede di lasciargliela in fitto «per non veder ridotti alla disperazione»i suoi abitanti. Lo stesso legale di Sgariglia ritiene opportuno e giuridica-mente corretto che Lisciano concluda i 12 anni di fitto stipulati con laCassa prima del passaggio di proprietà. Ma i disegni del marchese illumi-nato sono altri: ottiene dal tribunale competente l’immissione nel posses-so pieno ed immediato del bene, espelle gli utilisti di Lisciano e lo integranella sua azienda. Uno spazio che rischiava di essere risucchiato in unacondizione di “inutilità” del tipo di quella murgiana torna ad essere “uti-le”, anche se sul metro di una razionalità che, per farsi largo, deve misu-

20. L’allusione è a Rodotà, Il terribile diritto.

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rarsi con l’opposizione senza quartiere di chi non la comprende: con leoccupazioni di terra e con gli atti violenti dei “briganti” locali, che, nelnuovo diritto, non trovano il terreno efficace di negoziazione loro offerto,in qualche misura, dal tradizionale diritto plurale.

Scelte e conflitti di questa natura, difficilmente pensabili al di fuoridel contesto di quel passaggio di secolo, costruiscono il nuovo spazioproprietario-amministrativo, che, al groviglio dei confini di antico regi-me, tutti attraversabili in forme negoziali e conflittuali, va sostituendouna geometria duplice: da un lato quella dei confini pubblici che i flussidi animali, di uomini, di merci possono attraversare lecitamente seguendoregole definite; dall’altro quella dei confini privati, non superabili lecita-mente se non per volontà “assoluta” del proprietario. Le pratiche dellaproduzione animale, che avevano nei secoli dell’età moderna attivamentepartecipato alla costruzione e ricostruzione dei territori, devono situarvisipassivamente. Da questo punto di vista – non certo dal punto di vista del-le grandezze economiche – la Memoria del 1840 di un agronomo terama-no coglie nel segno: «la pastorizia è finita».21

21. Rossi, Il “problema” della montagna, p. 126.

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∗ Sono qui presenti i lavori usati e citati nel testo, esclusi manoscritti e documenti.

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