I GRUPPI SOCIALI -...

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I GRUPPI SOCIALI SEZIONE PRIMA Il funzionamento dei gruppi diviene oggetto d’interesse scientifico negli Stati Uniti intorno agli anni ’30 sotto la spinta degli eventi storici, quali la grande crisi economica della fine degli ’20 che ebbe un evento marcante col crollo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929 e che si protrasse per anni, con disoccupazione e miseria di ampi strati della popolazione, fino agli anni del New Deal di Roosevelt che impresse un nuovo vigore all’economia mentre in Europa si andava affermando il totalitarismo (fascismo, nazismo, comunismo). Gli psicologi sociali si sentirono chiamati al compito “più urgente e dinamico di scoprire in che modo l’azione sociale possa essere controllata e manipolata per cambiare gli atteggiamenti e il comportamento, invece di limitarsi a misurarlo>>. Oltre agli eventi storici, altre pressioni di natura scientifica avevano cominciato a porre in evidenza, alla fine degli anni ’20, l’importanza dello studio dei gruppi ristretti e ci riferiamo: ELTON MAYO fine anni ‘20 Ricerche condotte presso gli stabilimenti Hawathorne della Wesser Eletric Company che mise in evidenza l’incidenza dei Fattori umani>> sulla produzione e del gruppo come forte organizzatore del comportamento degli individui concludendo che la produttività del gruppo era funzione della soddisfazione lavorativa dei suoi membri. KURT LEWIN ‘45 fonda presso MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) Il “Research Centre for Group Dynamicis” che diventa il cuore di una serie di ricerche e di elaborazioni teoriche sul gruppo concepito gestalticamente. STEINER Metodi individualistici con metodi di laboratorio. SCHERIF Studio dei gruppi attraverso il confronto storico e infraculturale misurando gli atteggiamenti attraverso varie tecniche ossia interviste, sede di atteggiamento, tecniche individuali indirette, analisi di contenuto, metodi sperimentali. Asserisce a chiare lettere come i metodi sperimentali di laboratorio non possano essere assolutamente il punto di partenza dell’indagine su fenomeni della vita sociale, in specifico i fenomeni di gruppo. MORELAND, HOGG, HAIS ’94 - compiono uno studio documentario volto ad accertare quanti articoli dedicati ai gruppi siano apparsi fra il 1975 e il 1993 nelle tre riviste internazionalmente più conosciute della psicologia sociale. Gli autori constatano che il gruppo non è utilizzato nella stessa prospettiva da tutti gli autori, poiché una parte degli articoli raccolti, pur facendo riferimento al gruppo, studiano i fenomeni individuali.

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I GRUPPI SOCIALI

SEZIONE PRIMA Il funzionamento dei gruppi diviene oggetto d’interesse scientifico negli Stati Uniti intorno agli anni ’30 sotto la spinta degli eventi storici, quali la grande crisi economica della fine degli ’20 che ebbe un evento marcante col crollo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929 e che si protrasse per anni, con disoccupazione e miseria di ampi strati della popolazione, fino agli anni del New Deal di Roosevelt che impresse un nuovo vigore all’economia mentre in Europa si andava affermando il totalitarismo (fascismo, nazismo, comunismo). Gli psicologi sociali si sentirono chiamati al compito “più urgente e dinamico di scoprire in che modo l’azione sociale possa essere controllata e manipolata per cambiare gli atteggiamenti e il comportamento, invece di limitarsi a misurarlo>>. Oltre agli eventi storici, altre pressioni di natura scientifica avevano cominciato a porre in evidenza, alla fine degli anni ’20, l’importanza dello studio dei gruppi ristretti e ci riferiamo:

ELTON MAYO fine anni ‘20 Ricerche condotte presso gli stabilimenti Hawathorne della Wesser Eletric Company che mise in evidenza l’incidenza dei

“ Fattori umani>> sulla produzione e del gruppo come forte organizzatore del comportamento degli individui concludendo che la produttività del gruppo era funzione della soddisfazione lavorativa dei suoi membri.

KURT LEWIN ‘45 fonda presso MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) Il “Research Centre for Group Dynamicis”

che diventa il cuore di una serie di ricerche e di elaborazioni teoriche sul gruppo concepito gestalticamente.

STEINER Metodi individualistici con metodi di laboratorio.

SCHERIF Studio dei gruppi attraverso il confronto storico e infraculturale misurando gli atteggiamenti attraverso varie tecniche

ossia interviste, sede di atteggiamento, tecniche individuali indirette, analisi di contenuto, metodi sperimentali. Asserisce a chiare lettere come i metodi sperimentali di laboratorio non possano essere assolutamente il punto di partenza dell’indagine su fenomeni della vita sociale, in specifico i fenomeni di gruppo.

MORELAND, HOGG, HAIS ’94 - compiono uno studio documentario volto ad accertare quanti articoli dedicati ai gruppi siano apparsi fra il 1975 e il 1993 nelle tre riviste internazionalmente più conosciute della psicologia sociale. Gli autori constatano che il gruppo non è utilizzato nella stessa prospettiva da tutti gli autori, poiché una parte degli articoli raccolti, pur facendo riferimento al gruppo, studiano i fenomeni individuali.

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Questo studio empirico mostra che dopo il declino degli anni ’70 e ’80 l’interesse per i gruppi riprende negli anni ’90 anche grazie all’”approccio europeo>> ( in particolare i lavori di TAJFEL, MOSCOVICI, TURNER, diffusi negli Stati Uniti a partire dai maturi anni ’80) e la social cognition.

Gli psicologi sociali si differenziano in:

Quelli che adottano una prospettiva Individualistica

↓ Si ritiene che le persone nei gruppi si comporti grosso modo come farebbe in una diade o da sola e i processi di gruppo non sono niente di sostanzialmente diverso da processi interpersonali fra un certo numero di individui.

Quelli che adottano una prospettiva Collettivistica (o sociale)

↓ Si ritiene che il comportamento della gente nei gruppi sia influenzato da processi sociali peculiari e da rappresentazioni cognitive che possono emergere solo in gruppo e solo da questo originarsi.

Punto2 IL GRUPPO IN PSICOLOGIA SOCIALE FRA LUCI E OMBRE

TAJFEL

↓ Esiste un pregiudizio epistemologico in cui l’uomo considerato singolarmente è un essere che procede nella conoscenza del mondo in modo razionale, mentre quando è in gruppo, piccolo o grande che sia, perde la propria razionalità.

“modello razionale di uomo” → “modello istintivo -viscerale di uomo” ↓ “l’uomo in gruppo perde la sua razionalità” L’autore sostiene che per quanto la conoscenza del modo naturale viene utilizzato un: modello razionale di uomo: che usa le proprie capacità di indagine, di comprensione, di ricerca attiva verso il significato allo scopo di adattarsi all’ambiente. modello istintivo-viscerale di uomo: come se nella vita collettiva gli individui perdessero le proprie capacità razionali e fossero guidati da istinti radicati nel loro passato filogenetico e da tendenze inconsce.

FISCHER E TEYLOR COGNITIVE MISER

Cioè l’uomo collettivo viene descritto come economizzatore di energie cognitive.

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MOSCOVICI DOICE ↓ Si associano nel denunciare questa visione pessimistica dell’uomo sociale come un individuo che appena si riunisce ad altri perde le proprie capacità. Gli esempi di ricerca che sottendono questa concezione sono numerosi:

- gli studi sui comportamenti della folla tendono a sottolinearne gli aspetti regressivi e irrazionali;

- le ricerche sull’influenza maggioritaria mostrano come in gruppo gli individui diventino

acquiescenti e passivi; - i lavori sulla produttività testimoniano come in linea di tendenza il gruppo sia

tendenzialmente meno efficiente dell’individuo; - gli studi sul comportamento altruistico sottolineano che in gruppo gli individui perdono il

senso della loro responsabilità e adottano condotte meno prosociali di quanto sono soli. Essi sostengono che il presupposto di base di molte ricerche attinenti i gruppi consiste nella concezione dell’uomo-massa, che ha una lunga filiazione a partire dalla psicologia delle folle di inizio secolo, la folla composta di individui anonimi, suggestionabili, privati di volontà propria.

***

MOSCOVICI: sostiene che la psicologia sociale è la scienza del conflitto fra individuo e società in quanto questo difficilmente (individuo società) è un rapporto armonico. Nel gruppo si costituiscono solo uniformità e conformismo ma anche dissenso ed innovazione. MOSCOVICI ritiene i gruppi e non gli individui capaci di introdurre nella dinamica sociale elementi di innovazione e cambiamento.

***

LEWIN - è stato il primo autore che ha mostrato come le decisioni di gruppo possono essere tecniche di mutamento di costumi consolidati (ex.: abitudini alimentari sulle quali l’autore svolge una serie di considerazioni). Egli, infatti, osserva che l’atto del mangiare è ben più complicato della pura semplice nutrizione e per comprendere perché gli individui abbiano particolari abitudini alimentari è necessario analizzare fattori psicologici (come le preferenze individuali, le tradizioni di gruppo, le motivazioni per le scelte del cibo) ne fattori non psicologici (la disponibilità del cibo, il reddito familiare), che si intersecano fra loro. Prima di svolgere qualunque mutamento sulle abitudini alimentari è necessario, secondo LEWIN, svolgere indagini sulle ragioni per cui le persone si alimentano in un determinato modo e per questo è necessario intervistare i “guardiani>> del cibo, cioè le massaie, e conoscere la “psicologia del guadiano>>.

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Questa indagine venne svolta presso una città centro-occidentale degli Stati Uniti nel 1942 su 5 gruppi:

- tre rappresentavano le stratificazioni economiche della popolazione bianca americana (ad alto, medio e basso reddito);

- due rappresentavano due minoranza, l’una cecoslovacca e l’altra nera. I dati raccolti mostrano che le abitudini alimentari sono un complesso coacervo di fattori, in cui è importante anche l’”ideologia alimentare del guardiano>>, cioè il sistema di valori che sta alla base delle decisioni circa i cibi da consumare. Questi valori si differenziano fra i 5 gruppi etnici e fra le stratificazioni sociali, ad esempio:

- la “salute -> è il valore primario dei ceti alti; - il “costo -> dei ceti intermedi e bassi; - il pane è molto valorizzato dai cecoslovacchi per abitudini culturali consolidate; - la carne viene sempre meno menzionata quanto più si scende nella scala del reddito; - nelle famiglie vi sono “cibi per mariti>> e “cibi per bambini>>, cibi “per ospiti>> , come

il pollo, che all’epoca della ricerca viene raramente utilizzato come cibo quotidiano (appunto perché ritenuto “adatto>> ad una determinata occasione.

Lo scopo: LEWIN doveva cercare di introdurre, utilizzando metodologie atte a persuadere le massaie a comperare e cucinare frattaglie di pollo, in un periodo di relative ristrettezze alimentari, poiché gli Stati Uniti erano entrati nella seconda guerra mondiale. Le ricerche di LEWIN sui gruppi non sono finalizzate solo a conoscere i fenomeni dinamici, ma anche a mettere a fuoco il problema del cambiamento sociale.

EFFETTO “CONSOLIDANTE” DELLA DECISIONE DI GRUPPO

Tecniche di persuasione individuali “deboli” Tecniche di persuasione di gruppo con partecipazione attiva e dimensioni di gruppo più “potenti” in quanto vanno a mutare norme di gruppo e quindi cambiamenti individuali cioè Il sistema dei valori. La sola motivazione non produce cambiamento c’è bisogno di un legame fra motivazione e azione, tale legame è fornito dalle decisioni di gruppo, che sembra avere come dice l’autore :

«un effetto consolidante»

In questa logica nascono: → l’action – research (ricerca e azione)

È una ricerca in cui sono attivista i soggetti-oggetto della medesima, sia i ricercatori in essa impegnanti; un esempio di action-research è quello sopra riportato riguardante il mutamento delle abitudini alimentari;

→ T - group (training group) Gruppo di formazione, è un metodo di formazione attiva di gruppo che nasce con lo scopo di permettere l’acquisizione di conoscenze su 3 livelli di comportamento sociale:

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GRUPPO DI FORMAZIONE ↓ Nel 1947 a Bethel nel Maine nasceva ufficialmente il metodo T- Group e più precisamente a Bethel. Questo metodo aveva lo scopo di permettere l’acquisizione di conoscenze su 3 livelli:

1) quello interpersonale (relazioni degli individui fra loro) 2) quello di gruppo (il funzionamento gruppale e il suo sviluppo) 3) quello fra gruppi

La novità di questo metodo consiste nel fatto che ogni partecipante diventa responsabile attivo del proprio cambiamento del “Qui ed ora” del gruppo. LEWIN era convinto dell’importanza del gruppo nei processi di cambiamento individuale sia sociale. Secondo LEWIN un programma di mutamento sociale doveva essere concepito come un processo a 3 fasi:

● Disgelamento del livello precedente ● Mutamento di tale livello ● Consolidamento del nuovo livello

Punto3 .1 DEFINIZIONE DI GRUPPO MC GRATH - afferma “se è vero che ogni gruppo è un’aggregazione di individui, ogni aggregazione di individui non è necessariamente un gruppo”. Quindi possiamo avere queste aggregazioni sociali:

● Aggregazioni artificiali: gruppi statistici o categorie sociali classificati in base a

caratteristiche hanno (età, sesso, livello di reddito ecc.). ● Aggregazioni non organizzate: individui che si trovano nello stesso luogo allo stesso

tempo senza al altro tipo di legame. ● Unità sociali con modelli di relazione: insieme di individui che condividono un set di valori

(lingua, cultura, costumi ecc..). ● Unità sociali strutturate: diviene forte il carattere di interdipendenza e di

relazioni strutturate (di sistemi politici, comunità, famiglia.

● Unità intenzionalmente progettate: organizzazione con scopi comuni, status e ruoli differenziati o un gruppo di lavoro.

● Unità sociale meno intenzionalmente progettate: come un’associazione o una organizzazione

volontaria (ci sono scopi comuni mentre possono esservi o non esservi relazioni interpersonali dirette).

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Queste aggregazioni non sono mutuamente esclusive, e un individuo partecipa normalmente a più di una di esse. Nella tipologia presentata esse differiscono su due ampie dimensioni:

- la base su cui si fondano le relazioni fra i membri (il grado di strutturazione di tali relazioni e l’intenzionalità dello sviluppo di tali strutture;

- la grandezza dell’aggregato, nei termini del numero di individui coinvolti.

Proprio questi due elementi, secondo McGRATH, differenziano fra aggregazione e gruppi. La definizione di McGRATH, per quanto restrittiva, ci porta al cuore di uno dei principali problemi concernenti i gruppi, cioè la grandezza e l’interazione diretta, elementi che contraddistinguono i piccoli gruppi (detti anche “ristretti>>) e i grandi gruppi (detti anche “estesi>>). Come nota opportunamente DE GRADA (1999), si deve operare una distinzione fra “piccolo gruppo>> e “gruppo faccia faccia>>, per quanto entrambi si caratterizzano per il numero limitato dei loro membri:

- nei piccoli gruppi i componenti si conoscono e si influenzano reciprocamente, per quanto l’interazione diretta e continuativa di tutti i membri non sia una conditio sine qua non;

- il gruppo faccia a faccia è un gruppo ristretto nel quale tutti i membri interagiscono

direttamente, hanno riunioni frequenti anche per lungo periodo, hanno livelli di strutturazione e ufficialità .

“ piccolo gruppo>> “gruppo faccia a faccia>> ↓ ↓ piccolo villaggio piccoli team di lavoro sono gruppi “ufficiali>> e strutturati una classe scolastica un gruppo amicale BALES - secondo questo autore quando si parla di “gruppo>> la caratteristica di base è la relazione faccia a faccia mentre la sua ragion d’essere è il perseguimento di un obiettivo comune. Oltre alla distinzione fra piccoli e grandi gruppi, un’altra differenziazione riguarda i gruppi primari e i gruppi secondari ⁄ POSITIVE Comportamenti socio emozionali \ NEGATIVE

Altra differenziazione ● Gruppi primari: sono insiemi di persone che interagiscono direttamente, sono legati da

vincolo di tipo affettivo, sentono un forte senso di appartenenza e di lealtà nei confronti del gruppo il gruppo.

● Gruppi secondari: sono insiemi di persone che hanno scopi da raggiungere, ruoli

differenziati in funzione del raggiungimento degli obiettivi, relazioni

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piuttosto impersonale perché basate sui fini pratici e sul contributo, in termini di ruolo, che ciascun membro può offrire.

● Gruppi formali: sono quelli che si formano sotto l’egida di una istituzione

(associazioni sportive, politiche, religiose o culturali). ●Gruppi informali: sono aggregazioni spontanee, naturali, il cui scopo non consiste nel

perseguimento di attività specifiche, ma nell’intensità delle relazioni fra i membri.

(Forma tipica e molto diffusa fra pari nell’università). I gruppi informali (o spontanei o naturali) costituiscono una forma tipica e molto diffusa di socializzazione fra pari nell’adolescenza mentre l’appartenenza ai gruppi formali riguarda solo una parte degli adolescenti MC GRATH - nella ricerca vengono impiegati 3 tipologie di gruppi: 1) Gruppi naturali esistono indipendentemente dalle attività e dai propositi della ricerca

(es.:commissioni di studio, squadre sportive,gruppi di lavoro, ecc.); 2) Gruppi inventati (concocdet), sono creati come mezzi per la ricerca (ad es.: giurie simulare,

famiglie artificiali, gruppi di laboratorio); 3) I quasi gruppi sono come i precedenti, creati a scopi di ricerca, ma non sono completamente

dei gruppi poiché hanno pattern d’attività altamente artificiali e costrittivi.

Nella letteratura appare anche il “gruppo di riferimento>> quello in cui l’individuo si identifica o ai quali aspira di appartenere. Il gruppo è per LEWIN : una totalità dinamica, le cui proprietà strutturali sono diverse da proprietà strutturali delle sottoparti. Una totalità dinamica è caratterizzata dalla interdipendenza delle sue parti. LEWIN: adatta una definizione di gruppo che può essere utilizzata sia per i piccoli gruppi sia per i grandi affermando che “la TEORIA delle unità piccole e grandi deve essere concepita sia nelle scienze sociali, sia nelle scienze fisiche come un unico sistema teorico>> Interdipendenza LEWIN parla di interdipendenza delle parti che compongono il gruppo e distinguendo tra:

→ Interdipendenza del destino Costituisce un elemento macroscopico di unificazione (aggregato casuale di individui che diventano gruppo ex.: rapina in banca ecc..) (Sindrome di Stoccolma ’73). pag. 39

→ Interdipendenza del compito

Costituisce un elemento più forte e più diretto dell’interdipendenza del destino poiché fa si che lo scopo del gruppo determini un legame fra i

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membri in modo tale che i risultati delle azioni di ciascuno abbiano delle implicazioni sui risultati degli altri.

→ Interdipendenza positiva → (o collaborazione)

Si ha nel caso in cui il risultato positivo di ognuno implica il successo del gruppo (come avviene ad esempio nelle squadre sportive)

→ Interdipendenza negativa → (o competizione)

Quando il successo di un membro costituisce l’insuccesso di un altro o degli altri membri (come può avvenire in gruppo di lavoro in cui vengano attribuiti ad personam incentivi o promozioni). E’ ovvio che questi tipi di dinterdipendenza creano dinamiche sostanzialmente diverse, che si riflettono sia sulla produttività di gruppo sia il suo clima interno.

Secondo SHERIF: il gruppo ha una concezione “architetturale>> nel senso che egli è orientato a considerarlo come una struttura in cui i membri sono legati da rapporti di status di ruoli e in cui si delineano norme valori comuni. Secondo SHERIF: la condizione essenziale per la formazione di un gruppo è l’interazione nel corso del tempo di individui che hanno motivazioni, interessi, problemi comuni. “gente che è tutta nella stessa barca>>. Le proprietà minime ed essenziali di gruppo sono rappresentate da:

1) una struttura ed organizzazione dei ruoli dei membri, differenziata per funzioni e per potere o posizione sociale;

2) una serie di norme o valori che regolano i comportamenti dei membri almeno nei settori di attività in cui il gruppo è più impegnato.

Anche per SCHERIF scompare da dicotomia piccoli gruppi grandi gruppi mentre prende corpo l’approccio multidisciplinare fra: Psicologia, Sociologia, Antropologia. Per TAJFEL: il concetto di gruppo è mutuato dal concetto di “nazione>> come “un corpo di

persone che sentono di essere nazione”. Per l’autore (TAJFEL), questa definizione è di natura essenzialmente sociopsicologica, in quanto basata sul processo di autocategorizzazione.

Definizione di gruppo basata sull’appartenenza la quale include 3 componenti:

1) componente cognitiva (conoscere di appartenere al gruppo) 2) componente valutativa (il gruppo e/o la propria appartenenza può essere connotata

positivamente o negativamente).

3) Componente emozionale (gli aspetti cognitivi e valutativi del gruppo e della propria appartenenza ad esso sono accompagnati da sentimenti ed emozioni.

TAJFEL: mostra che è sufficiente imporre ad individui una categorizzazione sociale che distingua un ipotetico ingroup da un outgroup per condurre a comportamenti discriminatori nei confronti dell’outgroup.

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La categorizzazione sociale è un processo cognitivo che divide il mondo sociale in categorie cui si appartiene e non si appartiene; tale processo accentua la percezione di somiglianze intra-categoriali e di differenze intercategoriali e produce differenziazioni sul piano valutativo e comportamentale. Per TAJFEL, la categorizzazione sociale gioca un ruolo cruciale nel processo di definizione di un gruppo.

La categorizzazione sociale è un processo cognitivo che divide il mondo sociale in categorie cui si appartiene o non si appartiene; tale processo accentua la percezione di somiglianza intercategoriali e di differenze intercategoriali e produce differenziazioni sul piano volontario e comportamentale.

Concetto di “ENTITATIVITA’>>

La lezione Lewiniana di origine gestaltica che sottolinea nel gruppo l’aspetto di “totalità>> è la fonte ispiratrice del concetto di “entitatività>> (entitativity) introdotto nel 1958 da CAMPBEL. Il concetto di entitatività si riferisce al grado in cui un aggregato sociale è percepito dagli osservatori come avente la natura di un’entità, dotata di una esistenza reale; i principi gestalgici di somiglianza, prossimità destino comune e organizzazione permettono di far emergere una percezione per cui un aggregato di persone diventa un’unità, un”entità>>, proprio perché i suoi componenti sono percepiti come simili, prossimi, legati ad un destino comune (cioè interdipendenti). Secondo CAMPBEL: i gruppi sociali variano lungo un continuum di entitatività percepita, per cui si caratterizzano per un’altra entitatività, altri per una bassa, a seconda del variare delle situazioni. Secondo ASCH, nella percezione sociale gli individui sono visti come unità e come entità dotate di coerenza interna; in altre parole, la nostra percezione degli altri si fonda sull’attesa che essi siano delle entità organizzate: ciascuno di essi è la stessa persona, con dei tratti personali che durano nel tempo (“consistenza>>).

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SEZIONE SECONDA

ENTRATE E USCITE DAI GRUPPI (Processi d’iniziazione e di socializzazione)

La vita sociale è caratterizzata dalla realtà del cambiamento, dal quel perenne movimento di “entrate>> ed “uscite>>, di separazioni e aggregazioni, che riguardano sia l’individuo nelle sue molteplici appartenenze ai gruppi e nei suoi status e ruoli sociali, sia i gruppi e le organizzazioni di cui si compone una società. I riti di passaggio sono i meccanismi cerimoniali che hanno la funzione di guidare, controllare e regolamentare i cambiamenti di ogni tipo degli individui e dei gruppi essi svolgono un’ importante funzione sociale, che è quella di facilitare i mutamenti di stato senza scosse violente per la società, né bruschi arresti della vita individuale e collettiva. VAN GENNEP, secondo questo autore i riti di passaggio comportano, almeno in linea teorica, la seguente distinzione:

1) Riti preliminari (di separazione) 2) Riti liminari (di margine) 3) Riti postliminari (di aggregazione)

LEWIN (nel 1951) ha chiamato i passaggi da un gruppo sociale all’altro “locomozioni sociali>> . Punto 1 ENTRARE NEI GRUPPI L’entrata in un gruppo è un’esperienza che costella l’intera esistenza umana. Entrare in nuovo gruppo può essere un’esperienza facile o difficile, a seconda del gruppo cui si accede, del tipo di individuo, con le sue particolari modalità di approccio e il suo insieme di aspettative, che compie questa “locomozione sociale>>, e delle caratteristiche del contesto sociale, che determinano quanto questo passaggio sia obbligatorio o volontario, facile o difficile, evitabile o inevitabile. Punto 1.1 I riti di iniziazione nelle società tradizionali ELIADE → L’iniziazione introduce contemporaneamente nella comunità umana e nel mondo dei

valori spirituali. Nei riti d’iniziazione è presente una simbologia ricorrente, constatata in alcune culture fra loro lontane e in epoche diverse: il simbolismo rituale della morte e quello della nuova nascita.

Poiché l’iniziazione rappresenta un inizio è necessario abolire prima di tutto ciò

che già esiste , che fa parte dell’individuo “vecchio>> e che in questo senso deve morire per lasciare il posto all’individuo nuovo.

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Secondo ELIADE i riti d’iniziazione possono essere raggruppati in 3 grandi categorie:

1) Riti puberali (riti di integrazione sociale) passaggio dal mondo dell’infanzia a quello degli adulti e che li preparano ad assumere le loro responsabilità sociali contrassegnati da una serie di prove psicologiche e fisiche non di rado tali incutere dolore, paura, incertezza nel neofita. L’educazione trasmessa coi riti puberali si compie, secondo MESLIN, attraverso la triplice rivelazione della sessualità, della morte, del sacro.

2) Riti di ingresso nelle società segrete, confraternite religiose e militari (vedi misteri eleusini e riti di iniziazione) Questa seconda specie di iniziazione si distingue dalla precedente in quanto non è obbligatoria, ma liberamente scelta, e non si situa in un momento particolare della vita come i riti puberali ma è aperta a tutte le età e si presenta come una “vocazione>>.

3) Riti d’ingresso categoria d’iniziazione comprende tutti i riti che segnano l’ingresso ad un tipo di chiamata mistica particolare delle società antiche: lo scimano e il “medicin-man>>

Punto 1.2 Transizioni sociali e iniziazioni severe Fra le principali transizioni di vita si annoverano ad ex.: la pubertà, il matrimonio, il divenire genitori, il divorzio, l’inizio di un nuovo lavoro, il pensionamento, l’esperienza della morte di una persona amata. Poiché tali eventi sono esperienze soggettive che toccano l’assetto sociale, è compito della società garantire l’adeguatezza di queste trasformazioni con cerimonie collettive a seconda del tipo di cultura e della natura della transizione stessa. I riti di passaggio e i processi d’iniziazione del neofita sono talora presenti, con precipue loro modalità, anche nelle nostre società a sviluppo a svliluppo avanzato, seppure in ambiti che variano da cultura a cultura. Ad es.: ROHLEN (1973) descrive il processo d’iniziazione di nuovi impiegati in una grande banca giapponese. Per un periodo di tre mesi, i nuovi arrivati erano costretti a fare meditazione e digiuno insieme in un monastero Zen, a partecipare ad esercitazioni in una base dell’esercito, a svolgere volontariato presso la comunità locale, a fare vacanza insieme in un ostello della gioventù e completare un faticoso percorso a piedi di 25 miglia. Tali attività erano concepite dalla proprietà della banca come una iniziazione necessaria per una socializzazione dei loro nuovi assunti. ARONSON E MILLS (1959) Esperimenti sull’effetto dell’iniziazione severa sulla preferenza per un gruppo. Essi si riferiscono in tali esperimenti alla teoria della dissonanza cognitiva di FESTINGER. (gli individui che sono sottoposti ad una iniziazione severa sviluppano una preferenza per quel gruppo. (vedere l’esperimento di 63 studentesse universitarie cooptate per partecipare ad una discussione di gruppo sulla “psicologia del sesso>>. Le iniziazioni severe, che alcuni gruppi mettono in atto, hanno queste diverse funzioni psicologiche: l’iniziazione severa potrebbe avere la funzione di suscitare nel nuovo membro un

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impegno maggiore nei confronti del gruppo, disponendolo ad accettare tutte le successive pratiche di socializzazione per divenire membro effettivo. Inoltre, l’iniziazione severa può avere la funzione di scoraggiare gli aspiranti poco motivati, che in tal modo rinunciano ad entrare in un gruppo in cui rimarrebbero per poco e in cui la loro breve permanenza potrebbe causare turbative inutili.- Infine l’iniziazione severa può avere la funzione di indebolire, confondere, rendere dipendente dai membri del gruppo il nuovo arrivato, che si troverà in tal modo nella condizione più propizia per accettarne senza opposizione le regole e le dinamiche Socializzazione Primaria (Famiglia) Socializzazione Secondaria (settori sociali diversi dalla famiglia) BERGER e LUKMANN: definiscono processi di socializzazione secondaria tutti quelli seguenti: socializzazione primaria, che avviene nella famiglia di origine e che ha specifiche caratteristiche affettive e cognitive. STAFFING LEVEL (Levine Moreland) : differenze tra questi membri appartengono attualmente al gruppo e quanti membri sarebbero necessari per una prestazione ottimale. Teoria degli stadi di sviluppo di TUCKMAN. Punto 2 PROCESSI DI SOCIALIZZAZIONE DEI GRUPPI Una volta entrati in gruppo, è necessario imparare a rimanervi. Secondo la definizione di socializzazione di BRIM (1996), un processo attraverso il quale gli individui aquisiscono le conoscenze, le abilità e le disposizioni che li rendono in grado di partecipare come membri più o meno effettivi dei gruppi della società. Percorso di socializzazione - Interattivo (in quanto l’individuo da socializzare è un soggetto attivo che può a sua volta

influenzare l’ambiente e il gruppo che lo accoglie. - Negoziazione (in quanto il soggetto esplica un ruolo attivo al pari degli agenti socializzatori)

MORELAND e LEVIN→ Teoria sull’influenza reciproca dell’individuo e del gruppo e di come questa influenza cambi in modo sistematico nel tempo attraverso 3 processi (pag.85)

1) La Valutazione Implica gli sforzi compiuti dal gruppo e dall’individuo per

stimare e massimizzare la remuneratività l’uno dell’altro. 2) L’ impegno Dipende dal risultato del processo di valutazione. 3) La transizione di ruolo Cambiamento delle relazioni col gruppo, come pure

muteranno le aspettative reciproche

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Dopo una transizione di ruolo, continua la valutazione, che produce ulteriori cambiamenti nell’impegno e susseguenti transizioni di ruolo. In questo modo l’individuo può passare attraverso 5 fasi della socializzazione di gruppo:

1) Eplorazione implica per l’individuo un processo di ricognizione sul gruppo (o sui gruppi) cui vorrebbe integrarsi e per il gruppo un processo di reclutamento dei nuovi membri;

2) Socializzazione il gruppo cerca di cambiare l’individuo in modo che

contribuisca maggiormente al raggiungimento degli scopi di gruppo;

3) Mantenimento il gruppo e l’individuo si cimentano in negoziazioni di ruolo,

nelle quali il gruppo cerca di trovare per l’individuo un ruolo specializzato che massimizzi i suoi contributi per il raggiungimento degli scopi comuni;

4) Risocializzazione fase nella quale sia il gruppo che l’individuo cercano di

ripristinare contributi che ciascuno dei due può fornire rispettivamente per il raggiungimento degli scopi e per la soddisfazione dei bisogni personali;

5) Ricordo Durante questa fase il gruppo rammenta quanto l’individuo ha

fatto per il raggiungimento degli scopi grippali e queste memorie diventano una parte della tradizione del gruppo.

Queste fasi sono separate fra loro da quattro transizioni di ruolo: 1) l’entrata 2) l’accettazione 3) la divergenza 4) l’uscita

gruppi chiusi gruppi aperti ↓ ↓

Stabilità di appartenenza poca stabilità di appartenenza → “Definizione>> HIRSCHMAN → “Protesta>>

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Punto 3 LO SVILUPPO DI GRUPPO Socializzazione di gruppo e sviluppo di gruppo sono due nozioni che vanno distinte e che provengono da tradizioni di ricerca diverse. Tratteremo tre i modelli di sviluppo: (McMURRIAM, TUCKMAN, WORCHEL) MC MURRIAN → 4 stadi (incontri effettuati da otto psichiatri per due semestri)

1) Esplorativo Basato su un gruppo di otto psichiatri che si sono incontrati una volta alla settimana per due semestri allo scopo di conseguire una certa esperienza di counseling.

2) Di transizione Iniziato con una serie di scambi su come dovessero svolgersi gli

incontri e si è concluso con un accordo di massima. 3) D’azione I membri si sono centrati sull’effettivo lavoro da svolgere, cioè sui

tentativi di risolvere i propri problemi. 4) Conclusivo Si è presentato nell’approssimarsi della chiusura dell’esperienza

quando i partecipanti hanno tentato di fronteggiare i loro sentimenti conflittuali di gioia per aver creato un gruppo gratificante e di tristezza per doverlo sciogliere.

Una delle più famose teorie sullo sviluppo di gruppo è quella proposta da TUCKMAN (1965) che dopo aver passato in rassegna 50 studi sullo sviluppo di piccoli gruppi di vario genere (naturali, di laboratorio, di terapia, di formazione) ha cercato di evidenziare tendenze di sviluppo sia negli scambi socioemozionali sia in quelli funzionali allo svolgimento del compito. Gli scambi socioemozionali hanno dimostrato una chiara struttura di sviluppo per diversi tipi di gruppo: - nello stadio iniziale di” dipendenza>> I membri cercano qualcuno adatto per fungere da leader

del gruppo; - nello stadio seguente di “conflitto>> I membri discutono l’uno con l’altro e criticano la

conduzione del leader; - il terzo stadio della “coesione>> Ciascun partecipante comincia a provare sentimenti

positivi concernenti la propria appartenenza al gruppo; - nello stadio finale “role-taking>> I partecipanti adottano quei ruoli sociali che rendono il

gruppo più remunerante per tutti quanti. Anche per le attività dirette al compito è possibile rinvenire una struttura di sviluppo piuttosto comune ai vari tipi di gruppo:

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- Primo stadio di “rientamento>> I membri hanno scambi sulla natura del compito e sui modi per svolgerlo;

- Secondo stadio è “emozionale>> I membri oppongono resistenza al bisogno di lavorare

vicini gli con gli altri ; - Terzo stadio di “scambio>> ognuno condivide con gli altri le idee su come

migliorare la prestazione di gruppo; - Stadio finale di “problem solving>> I partecipanti lavorano produttivamente insieme e

risolvono i loro problemi di prestazione. Al seguito di queste constatazioni, TUCKMAN (1965) ha proposto la sua teoria in 4 stadi (cui ha aggiunto un 5° stadio più tardi (1977) e ha sostenuto che essa può applicarsi ad tipo di piccolo gruppo. TUCKMAN → 5 stadi (gruppi terapeutici T-GROUP e gruppi di laboratorio)

1) Forming (di formazione) Comprende dipendenza e orientamento, i membri sono ansiosi e incerti rispetto alla loro appartenenza al gruppo e, come conseguenza, il loro comportamento è piuttosto circospetto.

2) Storming (di conflitto) Implica conflitti e aspetti emozionali, in questa fase i

membri diventano più assertivi e cercano di modificare il gruppo secondo i propri bisogni.

3) Norming (normativo) Comporta coesione e scambio, i membri cercano di

risolvere i conflitti precedenti e si impegnano spesso nella negoziazione di linee direttive e regole più chiare per il comportamento del gruppo.

4) Performing (di prestazione) Implica roletaking e problem solving, in questa fase

ogni partecipante lavora cooperativamente con gli altri per raggiungere gli scopi comuni.

5) Adjourning (di sospensione) ciascuno comincia gradualmente a ritirarsi sia dalle

attività socioemozionali sia da quelle centrate sul compito.

Un modello più recente di sviluppo di gruppo è quello di WORCHEL et al.(1991/92) che hanno svolto un lavoro estensivo di archivio sui gruppi di natura diversa: ampi movimenti sociali (ad es.: movimenti per i diritti civili, movimenti femministi), partiti politici di recente formazione in varie nazioni, piccoli gruppi sociali e religiosi. Lo scopo è quello di studiare l’evoluzione dei gruppi reali, la cui nascita avviene spesso per il distacco da gruppi precedenti e la cui evoluzione avviene secondo stadi abbastanza identificabili. Il modello gruppale è descritto come di seguito:

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WORCHEL → (studio sui piccoli gruppi sociali, partiti, movimenti sociali e religiosi) ↓ (distacco da gruppi precedenti)

1) Periodo di malcontento Si tratta della condizione preliminare per il formarsi di un nuovo gruppo, nel quale alcuni membri cominciano ad essere delusi e apatici, senza volontà di partecipazione, come se il gruppo avesse perso la capacità di essere propositivo.

2) L’evento partecipante Si tratta di un evento chiaro e identificabile per cui gli

individui che formeranno un nuovo gruppo, si riconoscono in un terreno d’incontro e si differenziano dai membri “centrali>> del gruppo precedente.

3) Identificazione di gruppo In questa fase, il nuovo gruppo ricerca la propria

identità , si differenzia dagli altri gruppi, forma una struttura interna, composta da una leaderschip in genere centralizzata, da norme e valori, da ruoli differenziati.

4) La produttività di gruppo In questa fase, il gruppo ha già una sua identità e si

volge alla definizione alla definizione degli obiettivi da raggiungere; per questo valuta i membri in base alle loro competenze e la leaderschip viene assegnata in base alle abilità mostrate.

5) L’individuazione In questa fase della vita di gruppo, l’interesse si sposta

sugli individui, poiché i vari membri cominciano a chiedersi quanto il gruppo sia per essi soddisfacente, quanto i loro sforzi ottengano un riconoscimento sociale e quanto altri gruppi potrebbero soddisfare meglio i loro bisogni.

6) Il declino E’ la fase in cui il valore del gruppo è messo in

questione, viene criticata la direzione interna, si accendono competizioni fra membri e fra sottogruppi, si sottolineano i fallimenti del gruppo, vengono identificati capri espiatori, si diffonde l’inerzia sociale, cioè la demotivazione a lavorare attivamente per il gruppo.

WORCHEL et al.(1991) sostengono che il loro modello di sviluppo di gruppo si attaglia meglio alle condizioni dei gruppi reali e può agevolmente spiegarne le dinamiche interne, che si differenziano a seconda dello stadio in cui si trova il gruppo; secondo questi autori, il modello pur interessante di TURCKMAN ha una generalizzabilità più dubbia, poiché è stato costruito su gruppi particolari (gruppi terapeutici, T-group e gruppi di laboratorio), mentre il modello di socializzazione di gruppo di MORELAND e LEVINE, pur prendendo in considerazione un iter temporale, si centra molto sul singolo membro ed è meno in grado di fare previsioni sulle dinamiche del gruppo.

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Punto 4 USCIRE DAI GRUPPI Il processo di uscita dal gruppo può essere affrontato secondo ottiche diverse, che dipendono strettamente dal tipo gruppo e dalla posizione che svolge la transizione di quel ruolo all’uscita.

MOSCOVICI e DOISE: → Appartenenze salienti: esistono appartenenze di gruppo molto salienti e poco salienti per l’’individuo. Per questi autori le appartenenze salienti si distinguono per il livello di partecipazione attiva dei propri membri, ai quali sia garantita libertà di azione e di parola, di libero scambio con gli altri membri.

→ Riconoscimento di valori condivisi: come avviene in

gruppi politi, religiosi, e in gruppi che si riconoscono in un ideale comune (ad es.: Grenpeace, Ameesty International, Medici senza frontiere ecc.)

→ Obiettivo comune: indicato come ragion d’essere per

la formazione di un gruppo.

→ Totalità affettiva: costruisce particolari tipi di “climi di gruppo>>, che hanno effetti sulla produttività e sulla soddisfazione dei membri. Voi possono essere tonalità affettive di tipo positivo e negativo in ogni tipo di gruppo, anche quelli di tipo istituzionale, “obbligato>>, come i gruppi di lavoro o le classi scolastiche.

Le ripercussioni sull’individuo dell’uscita da un gruppo dipendono da questi fattori appena esaminati. Quanto più l’appartenenza sarà stata contrassegnata da partecipazione attiva, adesione valoriale, riconoscimento di un obiettivo comune, tonalità affettiva, tanto più l’uscita dal gruppo sarà vissuta come una perdita importante e tale da richiedere alla persona una rielaborazione della propria identità personale e sociale. Nel caso di gruppi superiori, possono esistere due condizioni che portano ad abbandonare il proprio gruppo:

a) l’esistenza o la percezione di minacce da parte di un altro gruppo; b) l’appartenenza al gruppo superiore è legata ad un forte conflitto di valori.

Nel caso dei gruppi inferiori, l’abbandono del gruppo di appartenenza può avvenire nelle situazioni di “mobilità sociale>>, in cui c’è flessibilità sociale sufficiente per permettere a chi ne abbia l’energia e le capacità di trasmigrare in un gruppo più elevato, non esistendo né particolari sanzioni per chi lascia il gruppo né conflitti di valori associati alla migrazione.

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In contesto di conflitto intergruppi, ad esempio, l’uscita da un gruppo per entrare ad in quello rivale assume un significato particolare e comporta in alcuni casi sanzioni gravi per il fuoriuscito, che possono giungere fino alla morte, come nel caso del codice militare nel corso di una guerra. Colui che esce può essere definito da altri gruppi come uno che si è “pentito>>, che si è “ravveduto>>, mentre dall’interno del gruppo può essere considerato e definito come un “traditore>>, un “infame>> Da un lato, dunque, l’uscita dal gruppo può apparire come un ravvedimento, dall’altro come una defezione, un tradimento. LEVINE e MORELAND : accomodamento anticipatorio (un newcorner avanza richieste prima di entrare di entrare nel gruppo altrimenti se queste richieste non vengono accolte ne resta fuori).

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SEZIONE TERZA

I FENOMENI DINAMINCI DELLA VITA DI GRUPPO I fenomeni di dinamici che stanno alla base del gruppo sono rinvenibili sia nei gruppi formali sia nei gruppi informali, nei gruppi naturali e nei gruppi di laboratorio, nei gruppi con una storia e nei gruppi a tempo limitato. Sui fenomeni più ricorrenti della dinamica di gruppo, sui quali si sono svolte e si svolgono ancora ricerche, nel tentativo di comprendere la “meccanica>> che sta alla base della costruzione di quell’organismo vivo che è il gruppo. Punto 1 IL SISTEMA DI STATUS NEL GRUPPO Secondo alcune ricerche di tipo osservativo, è possibile rendersi conto di chi all’interno del gruppo occupa un posto elevato anche solo dal comportamento non verbale: secondo HARPER (1985) chi ha più potere:

- tende a parlare con voce ferma e con poche esitazioni; - mantiene il contatto visivo con gli altri; - ha postura eretta.

Per quanto attiene al comportamento verbale , chi ha status elevato parla più degli altri, più probabilmente esprime critiche, dà ordini o interrompe gli altri. Il concetto di status si riferisce alla posizione che un individuo occupa in un gruppo e alla valutazione di tale posizione in una scala di prestigio. Gli indicatori principali che possono informarci sullo status dei membri di un gruppo sono 2:

1) la tendenza a promuovere iniziative intese come attività ed idee continuate dal resto del gruppo; è chiaro che chi ha uno status più elevato ha questo potere di iniziativa molto più nettamente di chi ha uno status meno elevato. WHYTE (1943) nel suo celebre lavoro Street Corner Society studiò col metodo dell’osservazione partecipante un quartiere di Boston (Cornerville) abitato quasi esclusivamente da immigrati italiani, in egli visse almeno tre anni condividendone il ritmo quotidiano, gli usi, il linguaggio. Nel suo studio, l’autore descrive la vita sociale dello slum (termine traducibile che si riferisce ad un’area urbana strutturalmente svantaggiata e in cui confluiscono gruppi sociali deprivati economicamente) e mostra come esso sia un sistema sociale fortemente organizzato e integrato, a dispetto dell’immagine del caos sociale, di “immenso agglomerato di confusione>> che possono averne le classi medie abitanti fuori dell’area.. Uno dei gruppi che l’autore descrive con particolare precisione è la banda della Via Norton, Nortons, guidati da Doc, di cui WHYTE diviene amico e confidente. Doc è il motore di ogni iniziativa, l’ideatore delle attività che vengono poi portate avanti dagli altri membri e quanto lui è assente sono i suoi “luogotenenti>> che prendono le redini delle attività.

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2) una valutazione consensuale del prestigio (connesso ad un certo status).

I cambiamenti di status non sono spettacolari e imprevedibili, ma seguono una logica posizionale, per cui ad as.: se un membro di status elevato deve lasciare il gruppo o viene estromesso sarà un membro di status intermedio, un luogotenente, ad assumere una posizione più elevata non certo uno dei membri di basso status. Nel gruppo di via Norton è la forza fisica e il primato di combattività a cambiare le posizioni dei membri; Doc, il boss, ha guadagnato posizioni nella gerarchia a forza di pugni destituendo Nutsy, il boss presedente, che d’altra parte non scivola agli ultimi posti, ma in attesa di un onorevole rango intermedio, che permette di conservare anche la leaderschip su di un sottogruppo

I teorici degli stati d’aspettativa (pag.118) Ci sono due correnti esplicative sulla rapida formazione di un sistema di status nel gruppo, quella etologica e quella sugli stati di aspettativa. I teorici della corrente “etologica>> MAZUR 1985, sostenendo che fin dalle loro prime interazioni i membri di un gruppo si misurano fra loro a partire dai dati percettivi come l’appartenenza e il contegno, che includendo elementi evidenti come l’espressione facciale, la muscolatura, la statura, ma anche aspetti più sfumati come la capacità di fissare una persona finché questa distolga lo sguardo. I teorici degli stati d’aspettativa BERGER, ROSENHOLTZ e ZELDITCH 1980 avanzano un’altra spiegazione per quanto attiene al rapido sviluppo del sistema di status nei piccoli gruppi. Essi sostengono che i membri di un gruppo formano fin dai primi incontri un insieme di aspettative relativamente ai contributi che ciascuno potrà offrire per il raggiungimento degli obiettivi del gruppo stesso. La differenza di status nei gruppi crea ordine e prevedibilità all’interno del gruppo. Coordina le varie forme in vista del raggiungimento degli obiettivi, inoltre essa è funzionale anche all’autovalutazione di ogni membro che, nel confronto della propria posizione con quella degli altri, matura una valutazione di sé e un insieme di aspettative concernenti le proprie capacità e valore. Lo status definisce l’architettura essenziale, a livelli, del gruppo. Punto 2 I RUOLI NEL GRUPPO Il ruolo riguarda i comportamenti esibiti ed attesi dei vari componenti. Il ruolo viene definito come un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona che occupa una certa posizione nel gruppo. I ruoli hanno una caratterizzazione che è data dai valori, dalle ideologie, dalle rappresentazioni condivise di una società.

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Secondo LEVINE e MORELAND in quasi tutti i gruppi, sia formali che informali, possiamo rinvenire alcuni ruoli, i più comuni dei quali sono quelli di leader, di nuovo arrivato e di capro espiatorio. Figure importanti capro espiatorio e quella del clown, del burlone (pag.129) ↑ ↑ ruoli strumentali ruoli socioemozionali I ruoli nel gruppo assolvono tre funzioni:

1) Facilitare il raggiungimento dello scopo di gruppo poiché i ruoli dividono la mole di lavoro fra i vari membri

2) Portare ordine e prevedibilità nel gruppo, in quanto i ruoli si basano su aspettative condivise e in questo modo tutti sanno cosa aspettarsi e da chi.

3) Definire “chi sia>> ciascuno all’interno del gruppo, cioè i ruoli contribuiscono alla nostra autodefinizione, alla consapevolezza di ciò che siamo.

Punto 3 LE NORME DI GRUPPO SCHERIF afferma: “ una norma definisce la gamma o latitudine delle differenze individuali che i membri del gruppo ritengono accettabile , nonché il limite al di là del quale un certo comportamento può essere biasimato, tramite, tramite disapprovazione o altre sanzioni a seconda della gravità della violazione>> Le norme sono “delle scale di valori>> che definiscono ciò che è accettabile e non accettabile per i membri di un gruppo o di una comunità o di una società. Queste norme vengono definite da LEVINE E MORELAND delle “aspettative condivise>> circa il modo in cui dovrebbero comportarsi i membri di un gruppo. Le norme sono un prodotto collettivo e non includono solo regole di comportamento, ma possono riguardare anche modalità espressive come il gergo linguistico, l’abbigliamento ecc. Secondo SCHERIF, l’essenza di un gruppo, intesa come una struttura sociale più o meno duratura, è data dai due elementi centrali della struttura e delle norme e valori; le situazioni sociali che mancano di tali proprietà non sono definibili come gruppi, ma come aggregati. Nei gruppi informali le norme hanno carattere “motivazionale ed emotivo” Nei gruppi formali, il processo normativo può seguire un iter formativo di lunga durata. Vi è per ogni gruppo l’esistenza di norme centrali e norme periferiche. OPP parla di 3 tipi di norme che scaturiscono da processi diversi:

1) le norme istituzionali; sono imposte dal leader del gruppo o da autorità esterne. 2) le norme volontarie; nascono dalla negoziazione fra i membri di un gruppo (ricompostone

dei conflitti). 3) Le norme evolutive; quando i comportamenti in grado di soddisfare un membro vengono

appresi anche dagli altri, che li diffondono in tutto il gruppo.

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SCHERIF effetto autocinetico, un particolare tipo di illusione ottica ben conosciuta dagli astronomi e navigatori, ma non alle persone comuni, per cui in un luogo molto buio (come può essere una stanza completamente oscurata o anche all’aperto in una notte nuvolosa e senza luci) un’unica piccola luce sembra muoversi in ogni direzione. Se in condizioni di completa oscurità si presenta ripetutamente il punto luminoso ad un individuo, egli vedrà muoversi in diversi punti della stanza in modo erratico, soprattutto nel caso in cui egli non conosca la distanza che lo separa da tale fonte luminosa. Questa sperimentazione è stata scelta per il semplice motivo che essa è obiettivamente instabile e può essere strutturata in modi diversi a seconda dei punti di riferimento scelti dal soggetto. Le condizioni sperimentali sono due: individuale e di gruppo. Secondo CARTWRIGHT E ZANDER la costruzione delle norme di gruppo assolverebbe ad almeno 4 funzioni (pag.141):

1) L’avanzamento del gruppo; cioè le norme sono necessarie perché il gruppo raggiunga i suoi obiettivi.

2) Il mantenimento del gruppo; cioè le norme permettono al gruppo di presentarsi in quanto

tale, lo preservano dalla loro estinzione. 3) La costruzione della realtà sociale; spesso non esistono evidenze percettive, logiche ed

obiettive che permettono agli individui di giungere ad opinioni e giudizi che siano inequivocabilmente corretti. Le nome assicurano al gruppo una concezione comune della realtà, che serve come punto di riferimento anche per l’autovalutazione dei membri e per fronteggiare situazioni ambigue, non familiari, emozionali.

4) La definizione delle relazioni con l’ambiente sociale; le norme permettono di specificare

le relazioni con l’ambiente sociale circostante, che è ovviamente composto da altri gruppi, organizzazioni, istituzioni.

4° punto COMUNICARE IN GRUPPO: STRUTTURE E RETI DI COMUNICAZIONE I processi di gruppo fondamentali come l’influenza sociale, la polarizzazione, la produttività, la coesione, la devianza, la collaborazione, la competizione non potrebbero realizzarsi se mancasse il veicolo della comunicazione sia verbale sia non verbale.

Senza comunicazione non esiste gruppo

La rete di comunicazione è l’insieme di canali di comunicazione presenti in un gruppo, essendo i “canali>> l’insieme delle condizioni materiali che rendono possibile un passaggio di informazioni. Una rete di comunicazione è un insieme di possibilità materiali di comunicazione (scambio epistolare, internet ecc…

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La struttura di comunicazione è, invece “l’insieme di comunicazioni che si sono EFFETTIVAMENTE scambiate all’interno di un gruppo>> N.B. - La rete è una possibilità di comunicazione, la struttura una realtà di comunicazione. MOSCOVICI e DOICE distinguono due tipi di partecipazione e definiscono: La partecipazione consensuale come la situazione in cui tutti i membri del gruppo possono esprimere le proprie posizioni senza preoccupazioni di ordine procedurale, senza che la maggioranza parta avvantaggiata e la minoranza svantaggiata, senza il peso di limiti esterni. La partecipazione normalizzata è caratterizzata dal fatto che le possibilità di accedere alla discussione sono regolamentate dalla gerarchia esistente nel gruppo, che assegna “ordini di beccata>> differenti a seconda a seconda delle competenze assegnate a priori.

BALES – Studi sulle strutture di comunicazione in piccoli gruppi di discussione libera; col suo strumento di osservazione e analisi di processi d’interazione, IPA (Interaction Process Analysis), Bales suddivide l’interazione di un gruppo in atti microscopici, cioè in segmenti di comportamento significativi e percepibili ad un osservatore esterno, quali espressioni verbali, comportamenti non verbali, come gesti, ecc. Questi atti vengono codificati in 12 categorie divise in 3 aree:

1) l’area socioemozionale positiva (solidarietà, allentare tensioni, mostrarsi d’accordo ec.); 2) l’area del compito (neutra) (comprende 6 categorie: dare suggerimenti, esprimere

opinioni, fornire orientamenti, chiedere orientamenti, chiedere delle opinioni, chiedere dei suggerimenti);

3) l’area socioemozionale negativa (comprende 3 categorie: disapprovare, esprimere tensione, mostrare antagonismo. (attraverso l’ordine degli status sociometrici è possibile rilevare chi è il leader in quanto emette e riceve più formazioni e via tutti gli altri che lo seguono nella gerarchia. Le reti studiate da LEAVITT: (pag.159) (le figure sono da riportare) Ruota Cerchio Catena Rete ad Y Indice di centralità (misura il grado di centralizzazione di una rete basata su una persona o distribuito tra i membri). Indice di distanza (numero minimo di legami di comunicazione che un membro deve attraversare per comunicare con un altro individuo.

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SEZIONE QUARTA

LA LEADERSHIP: teorie a confronto Il Leader è la persona che esercita più influenza in un gruppo degli altri membri; poiché i processi d’influenza sociale sono reciproci (cioè il leader influenza, ma è anche influenzato dagli altri partecipanti), si può precisare la definizione precedente affermando che il leader è la persona che può influenzare gli altri membri di un gruppo più di quanto sia essa stessa influenzata di quanto sia essa stessa influenzata. Il Leader gioca il ruolo più importante nel dirigere le attività di gruppo, nel mantenimento delle sue tradizioni e costumi e nell’assicurare il raggiungimento dei suoi obiettivi. HOLLANDER sottolinea il significato di leadeschip, che è un processo che coinvolge non solo il leader, per quanto il suo ruolo sia centrale in detto processo, ma anche i seguaci (followers) o “subordinati>>, che hanno un ruolo attivo nelle attività di gruppo, ivi comprese anche le azioni per stimolare il leader. La leaderschip è un processo non una persona e tale processo implica l’interazione fra leader e seguaci e situazioni. La leaderschip appare come un fenomeno complesso poiché, come afferma HOLLANDER, essa si trova all’intersezione di 3 fattori:

1) La situazione: (struttura sociale tipo di compito, norme, storia del gruppo); 2) Il leader: (sue competenze, motivazioni, legittimità, caratteristiche personali); 3) I membri del gruppo: (loro attese, competenze, motivazioni, caratteristiche personali).

NOVARA e SARCINELLI propongono, invece, le seguenti distinzioni concettuali:

1) Il potere, come capacità di influenzare o di vincere le resistenze degli altri, assicurandosi comportamenti di adesione o di acquiescenza.

2) L’autorità, come legittimità dell’esercizio del potere, che si fonda su regole stabilite e

rispetto a un certo campo di attività. 3) Il controllo, come modalità con cui viene valutato il conseguimento degli obiettivi

predefiniti, e si assicura il rispetto di un certo patto sociale che lega fra di loro gli attori sociali.

4) La leadeschip, pur comprendendo gli aspetti sopra evocati, si delinea con una propria

specificità e cioè “come una forma di influenza, caratterizzata dalla capacità di determinare un consenso volontario, un’accettazione soggettiva e motivata nelle persone rispetto a certi obiettivi del gruppo o dell’organizzazione>>

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Punto1 LE TEORIE DEL “GRANDE UOMO>> OVVERO L’APPROCCIO DEI TRATTI Consiste nel sottolineare le qualità personali del leader. Mentre BODIOU vede nella leaderschip una strategia identitaria che insieme agli indubbi benefici, comporta per l’individuo dei costi in termini di mantenimento di tale posizione. Per tale motivo, BODIOU vede nella leaderschip un processo dinamico ed evolutivo, che è il risultato di strategie individuali, interpersonali, e di gruppo – (applicabile solo ai piccoli gruppi strategia identitaria. Come dice HOLLANDER, staccare li leader dai fattori situazionali è totalmente irrealistico, perché trascura un dato essenziale e cioè la leaderschip è un processo interattivo. Punto 2 II COMPORTAMENTI DEL LEADER (pag.171) (Ricerche sul comportamento del Leader – Approccio situazionista). Una delle ricerche classiche è quella di LEWIN, LIPPIT e WHITE su 3 stili di leaderschip. Ricerche sul comportamento del leader

1) Autocratica ( + produttivi + aggressivi + dipendenza dal conduttore). 2) Democratica ( buona produttività + motivazione + autonomia). 3) Permissiva o laissez faire ( - produttivi + aggressivi).

- Il leader autocratico organizza e dirige ogni attività, resta piuttosto distaccato, tende a inibire le comunicazioni, non rende partecipi;

- Il leader democratico discute con il gruppo ogni decisione ed attività, è piuttosto

amichevole e disponibile, non inibisce i contatti, rende partecipativi i membri del gruppo;

- Il leader permissivo interviene pochissimo nel lavoro di gruppo, lasciando

quest’ultimo di agire Punto3 L’APPROCCIO SITUAZIONISTA L’approccio situazionista cerca di definire cosa sia richiesto ad un leader nella situazione in cui si trova. Il problema non è, dunque, quello di accertare quali tratti possegga un leader, ma quali siano i tratti o le caratteristiche che la situazione richiede ad un leader. Il punto centrale dell’approccio situazionista è che il leader ha bisogno di ricoprire funzioni diverse in situazioni che contemplano compiti diversi. Tanto nell’approccio dei tratti quanto in quello centrato sul comportamento del leader il focus attentivo è sulla persona del capo. Nell’approccio situazionista il focus si sposta sulle circostanza ambientali, sulle situazioni in cui si svolge il processo di leaderschip, dando loro un carattere di priorità assoluta

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Punto 4 I MODELLI DELLA CONTINGENZA (pag.178) FIEDLER parte dalla classica distinzione di BALES fra leader centrati sul compito e leader centrati sulle relazioni. L’orientamento del leader può essere più o meno efficace a partire da 3 fattori che determinano il grado di favorevolezza della situazione per il leader: (ricerca LPC, Least Preferred Co-Worker), cioè la persona con cui l’individuo ha lavorato meno facilmente, che deve essere giudicato in base a coppie opposte di aggettivi (amicale-non amicale, collaboratico-non collaboratico) su una scala a 8 punti.

● la qualità delle relazioni leader–membri Che sono buone se esistono elementi come fiducia reciproca, lealtà, clima affettivo positivo, o povere in assenza ti tali elementi

● il grado di strutturazione del compito Che è positivo se lo scopo da

raggiungere è chiaro, le istruzioni sono precise, il risultato finale previsto. Un compito non strutturato (scopo poco chiaro, istruzioni imprecise, risultati incerti e numerosi) costituisce un indicatore di sfavorevolezza della situazione per il leader.

● il potere legato alla posizione del leader. Che può essere forte o debole, a seconda

che il capo abbia a disposizione mezzi sufficienti per influenzare i membri o la competenza necessaria per affrontare quel compito.

Malgrado le possibili critiche al suo modello della contingenza, FIEDLER ha avuto un’indubbia importanza negli studi sulla leaderschip, in quanto è stato il primo autore ad avvicinarsi decisamente verso una direzione interattiva, in cui lo stile di leaderschip e variabili situazionali sono presi simultaneamente in considerazione – Il modello di FIEDLER è quello che ha avuto il successo maggiore. Modello della contingenza di VROOM e YETTON, modello normativo della presa di decisione. Gli stili dei leader sono 5 e variano su un continuum che va da dall’autocratico al partecipativo:

● Autocratico Il leader prende le decisioni da solo senza consultare i membri del gruppo, utilizzando le informazioni di cui dispone.

● Autocratico con richiesta di informazioni ai suoi collaboratori Il leader decide da solo, anche se i subordinati

sono almeno in parte implicati, poiché il leader richiede solo delle informazioni, precisando o non precisando a quale scopo esse siano utili.

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● Consultivo individuale Il leader consulta individualmente (e non in gruppo) i collaboratori e prende da solo la decisione, che può tener conto o meno dei suggerimenti dei subordinati.

● Consultivo di gruppo Il leader consulta il gruppo nel suo insieme, per

quanto egli prenda da solo la decisione, che può tener conto o meno dei suggerimenti del gruppo.

● Partecipativo Il leader condivide il problema col gruppo,

valuta insieme ad esso la situazione per arrivare ad una soluzione consensuale. Il leader con questo stile emerge come un moderatore e un conduttore, piuttosto che come un conduttore.

Il merito di VROOM e YETTON è quello di essere usciti dalla classica dicotomia del leader centrato sul compito o sulle relazioni e di aver mostrato che vi possono essere vari stili di leaderschip, nessuno dei quali validi in assoluto, ma efficaci a seconda delle richieste situazionali. La paht-goal theory (sentiero verso l’obiettivo) Modello della contingenza si basa sugli aspetti motivazionali individuali nei gruppi. I leader con il loro comportamento influenzano la percezione dei subordinati rispetto al “sentiero verso l’obiettivo>> (path-goal), in pratica aiutandoli ad identificare un determinato percorso per raggiungere gli obiettivi del gruppo. Questo modello della contingenza si basa sugli aspetti motivazionali individuali nei gruppi ed è stato delineato per primo da EVANS poi sviluppato da HOUSE e MITCHELL includendo i seguenti fattori contingenti:

●Leaderschip strumentale Definita anche come initiating structure cioè “dare origine ad una struttura>>

●Leaderschip supportiva Detta anche “considerazione>>, che è orientata

a creare un clima di lavoro sereno e a considerare i bisogni dei subordinati.

● Leaderschip orientata ai risultati Il leader ha elevate aspettative nei confronti dei Subordinati e cerca di incentivarli di continuo.

●Leaderschip partecipativa Come quella supportava è orientata alle

relazioni, e in misura ancora più rilevante. Il leader vuole mettere in comune coi collaboratori le informazioni, li interpella, ascolta i loro pareri, vuole effettivamente lavorare con tutto il gruppo.

Nella path-goal theory viene accordato più ampio spazio alle caratteristiche dei collaboratori che non nel modello di VROOM e YETTON, caratteristiche che insieme a quelle del contesto organizzativo determinano la scelta dello stile di una leaderschip che voglia essere realmente efficace.

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Il modello di HERSEY e BLANCHARD (pag.186) “Situational Leaderschip Theory” Questo modello si focalizza sulla corrispondenza fra stile della leaderschip e caratteristiche dei membri.

● Telling (stile prescrittivi contrassegnato da molta guida e poco sostegno, per cui il capo da ordini).

● Selling (come sopra ma, tiene in considerazione i sottoposti, usa

comunicazione a due vie, incoraggia, aiuta fornisce supporto). ● Partecipating (stile partecipativo caratterizzato da poca guida e molto sostegno). ● Delegating (stile caratterizzato da poca guida e poco sostegno definibile) “di

delega>>, in cui il leader lascia che i collaboratori organizzino il proprio lavoro e non fornisce loro neppure supporti o incoraggiamenti particolari.

Secondo LEVINE e MORELAND (1990), i modelli della contingenza restano approcci orientati sul leader, non diversamente dagli studi centrati sul comportamento del leader o da quelli, più recenti, sulla leaderschip trasformazionale o carisma. Punto 5 LE TEORIE TRANSAZIONALI E LE TEORIE DELLO SCAMBIO (pag.188) La teoria transazionale di HOLLANDER. Le teorie transazionali sottolineano, a differenza dei modelli finora discussi, l’interazione reciproca fra leader e subordinati (Followers) Il termine transizione si riferisce allo scambio sociale che avviene fra il leader e i seguaci e sottolinea un ruolo più attivo di questi ultimi in tale relazione. HOLLANDER nel quadro della sua prospettiva transazionale presenta il suo modello del credito idiosincratico, che è la credibilità personale che il leader conquista presso i Fallovers, riguardi i seguenti 4 punti:

●Conformismo iniziale Il leader, o l’aspirante tale, deve inizialmente

conformarsi alle norme del gruppo per acquistare l’influenza necessaria per poi eventualmente cambiarle

●Competenza Il leader deve dare prova di contribuire al principale

compito del gruppo con le competenze di cui dispone. ●Legittimità E’ importante per guadagnare autorità; la legittimità

può derivare da due fonti: la 1^ riguarda la designazione esterna, cioè il leader viene assegnato da un gruppo, come avviene nella maggior parte dei contesti organizzativi istituzionali, la 2^ si riferisce al fenomeno dell’emergere del leader che può realizzarsi

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attraverso l’elezione da parte del gruppo, come avviene ad es.: nel mondo politico, sia informalmente nei gruppi naturali.

●Identificazione col gruppo La credibilità che si conquista un leader è legata anche

a quanto egli dimostri di identificarsi con gli scopi e la natura del gruppo.

La teoria di HOLLANDER si presenta come un approccio più dinamico di quella della contingenza e pare più adatta a spiegare i cambiamenti che si realizzano in qualunque processo di leaderschip. La teoria di HOLLANDER accorda ai seguaci un ruolo indubbiamente più attivo rispetto alle teorie sinora esaminate. Teoria dello scambio VDL (Vertical Dyad Linkage) (Modello di legami verticali diadici di leaderschip) (LEVINE e MORELAND 1990) Pag.193. Nel modello dei legami verticali diadici, i rapporti fra i leader il leader e i Fallowers non sono considerati tutti allo stesso livello; in altre parole il gruppo non viene preso in considerazione come un tutto omogeneo e si parte dall’ipotesi che ogni segnale costituisce un rapporto specifico col capo (e in tal senso si può parlare di “diadi>>. Ogni leader ha un cerchio più o meno prossimo di seguaci, questi cerchi costituiscono un:

- ingroup quando sono vicino al capo, - outgroup quando sono più distanti.

I seguaci che fanno parte dell’ingroup ricevono più informazioni, interesse e confidenze dal leader rispetto ai seguaci che fanno parte dell’ outgroup, che invece hanno rapporti più formali col capo e comunicazioni che vertono soprattutto sul compito. Nell’evoluzione di questa teoria GRAEN e UHL–BIEN sono giunti a presentare un modello di costruzione della leaderschip che ha come base l’idea che il leader possa sviluppare scambi di alta qualità con tutti i subalterni e non solo con alcuni. Gli autori citati sostengono che la costruzione della leaderschip si sviluppa nel corso del tempo in 3 fasi: a) la fase sconosciuta Le interazioni all’interno della diade leader-sottoposto sono

limitate dalle norme esistenti, suggerite dai rapporti contrattuali.

a) la fase di conoscenza Inaugura gli scambi e inizia con un’”offerta>> da parte del

leader e del subalterno per migliorare gli scambi, condividere informazioni e risorse.

b) la fase matura di associazione Caratterizzata da scambi di alta qualità, da un alto grado di

reciprocità fra leader e sottoposti.

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Punto 6° LEADERSCHIP TRASFORMAZIONALE E LEADERSCHIP CARISMATICA Con la nozione di leaderschip trasformazionale ci si riferisce ad un processo che cambia, che trasforma gli individui in esso coinvolti, cioè sia il leader sia i suoi seguaci. In questo processo sono presenti valori, prospettive etiche, scopi a lungo termine. Il leader trasformazionale valuta le motivazioni dei suoi sottoposti, va incontro ai loro bisogni, li considera persone a tutto tondo, cerca di aiutarli nel raggiungere pienamente le loro potenzialità e così facendo trasforma anche se stesso, perché pur essendo egli il perno dell’operazione, è coinvolto totalmente nel processo d’interazione coi sottoposti e investito al pari di essi dal cambiamento (ex.:GHANDI) – (sociologo politico BURNS colui che per primo ha sviluppato questo modello. La teoria della leaderschip carismatica è stata elaborata da HOUSE nel 1976. Essa ha diversi aspetti simili a quella della leaderschip trasformazionale, tanto che viene considerata come facente parte, complessivamente, degli approcci trasformazionali. Il termine carisma è stato impiegato ampiamente nel linguaggio teologico cristiano “per indicare i doni i doni elargiti dallo Spirito Santo, quali la profezia,il potere di fare miracolo, il dono delle lingue ecc. per il bene della comunità>> e ripreso anche da WEBER per indicare i “tipi carismatici>>, individui che possiedono particolari caratteristiche eccezionali e lo stesso WEBER riconosce un ruolo importante ai seguaci nella validazione del carisma di questo leader. HOUSE (1976), sostiene che il leader carismatico ha speciali caratteristiche, quali la dominanza, il desiderio di influenzare gli altri, la fiducia in sé, una forte consapevolezza dei propri valori morali questo set di tratti personali si concretizza nei seguenti comportamenti dei leader carismatici:

● Forti modelli di ruolo (S. Francesco - Garibaldi) ● Competenza (Napoleone) ● Scopi ideologici (Martin Lutherking) ● Comunicare (ai loro seguaci un elevato grado di aspettative) ●Attivare le motivazioni (rilevanti per l’esecuzione del compito nei seguaci).

Gli effetti della leaderschip carismatica sui seguaci sono senza dubbio potenti. Rispetto a BURNS un altro autore cioè BASS ritiene che la leaderschip transazionale e trasformazionale non siano dimensioni indipendenti, ma piuttosto gli elementi di un nuovo continuum, per quanto concordi sul fatto che leaderschip trasformazionale supera la logica dello scambio, insita nella leaderschip transazionale. In questo Continuum che va dalla leaderschip trasformazionale a quella transazionale alla non- leaderschip BASS e AVOLINO individuano 7 fattori (4 trasformazionale - 2 transazionale - 1 non leaderschip)

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a) Fattori leaderscip trasformazionale (“le 4 I”) 1) Influenza idealizzata (Idelal influence):

i leader trasformazionali mettono in atto comportamenti tali da renderli modelli di ruolo per i loro collaboratori (NELSON MANDELA).

2) Motivazione ispirazionale (Ispirational motivation) I leader trasformazionali motivano i collaboratori, li coinvolgono nell’immaginare situazioni future attraenti, rendono il lavoro significativo, comunicano chiaramente le loro aspettative. Tutto ciò genera spirito di gruppo ed entusiasmo.

3) Stimolazione intellettuale (Intellectual stimolation): i leader trasformazionali stimolano i loro seguaci ad essere creativi, innovativi, effettuando le vecchie situazioni in modi nuovi.

3) Considerazione individualizzata (Individualized Consideration):

I leader trasformazionali sono attenti ai bisogni di crescita e di successo di ognuno dei loro seguaci. b) fattori di leaderschip transazionale

1) La ricompensa contingente: Si riferisce al processo di scambio per cui il leader ricompensa gli sforzi dei seguaci.h

2) Direzione per eccezione:

Attiva e passiva, si riferisce a quel tipo di leaderschip che comprende la critica tendente a correggere, Feedback negativo e rinforzo negativo. La forma attiva implica un’osservazione da vicino in quanto fanno i sottoposti allo scopo di rilevare errori e violazioni di regole per apportare immediatamente le relative correzioni. La forma passiva implica che l’intervento del leader non sia così immediato.

La differenza fra ricompensa contingente e la direzione per eccezione è che la prima usa modelli di rinforzo positivo, la seconda modelli di rinforzo negativo.

c) Fattore di non leaderschip In questo caso c’è assenza o esitamento di leaderschip. Si tratta di uno stile non transazionale e, come mostrano la maggior parte delle ricerche, fra i meno efficaci.

1) Laissez faire:

Il leader abdica alle proprie responsabilità, rinvia le decisioni, non fornisce feedback, non ha particolari scambi con i sottoposti, non si sforza di andare incontro ai loro bisogni e di occuparsi della loro crescita.

Le ricerche compiute da BASS ed AVOLIO hanno fatto emergere che i leader più efficaci usano prevalentemente lo stile trasformazionale, seppure talora impieghino anche lo stile transazionale. I punti forti della teoria trasformazionale e carismatica consistono nel superamento dell’ottica di scambio e di ricompensa per inaugurare una diversa considerazione del processo di leaderschip, che

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si appunta non sui bisogni contingenti del leader e dei seguaci, ma su un corpus di valori che spingono al superamento degli interessi soggettivi in vista di un bene comune o di una comunità. Infine, le teorie trasformazionali e carismatiche esercitano una indubbia fascinazione a livello di senso comune, con questa concezione di leaderschip in cui il capo fornisce una “visione>> nei confronti del futuro, da senso agli sforzi individuali, addita la possibilità di cambiamento e innovazione. Punto 7 DONNA E LEADERSCHIP: UN BINOMIO POSSIBILE? (pag.203) (Riferito al modello occidentale). Nella realtà, le organizzazioni si differenziano secondo il genere: il mondo degli affari è più “maschile>> di quello della pubblica amministrazione, e in genere sono più maschili gli ambiti di lavoro considerati consensualmente più prestigiosi. Nelle posizioni degli organigrammi le posizioni più elevate sono maschili e le più basse femminili. ROSENER in uno studio su donne leader descrive il loro stile come più interattivo o trasformazionale di quello degli uomini. GRIGGS : mette in luce le seguenti caratteristiche di un modello di leaderschip femminili: ● Tendenza a mettere in essere strutture partecipative piuttosto che autoritarie (Mentre la leaderscip maschile è di tipo verticale, cioè gerarchico, quella femminile è piuttosto del tipo “a rete>>, in cui le persone sono interrelate fra loro, il leader fa parte del cerchio e dispone in questo modo di una maggiore quantità di informazioni; le decisioni vengono prese con modalità di tipo consensuale, cioè con un livello di partecipazione dei membri più elevato. ● Concezione del potere (distingue uomini e donne: mentre per i primi il potere è concepito come dominazione e controllo degli altri, per le seconde il potere non è dominazione ma energia e forza che posso essere condivise. ● Gestione del conflitto (nella prospettiva femminista di leaderscip è qualcosa di importante per giungere a soluzioni produttive e soddisfacenti per tutti). ● Creazione di un ambiente di lavoro supportivo (costituisce una forza particolare del leaderschip femminista Per “supportivo>> si intende un ambiente lavorativo caratterizzato da calore comprensione, incoraggiamento, supporto, fiducia reciproca, empatia). ● Valorizzazione della differenza (costituisce uno dei cavalli di battaglia del femminismo fin dai suoi esordi; si tratta di una prospettiva di pensiero non limitata alla differenza di genere, ma che si estende al considerare tutte le differenze /razziali, etiche, sessuali ecc.) come fonti possibili di arricchimento e di innovazione. Quando hanno potuto raggiungere, le donne ruoli di leaderschip, le donne hanno saputo apportare importanti cambiamenti nei posti di lavoro, introducendovi, flessibilità, strategie diversificate per conciliare famiglia e lavoro, provvedimenti legislativi importanti come il congedo di maternità o paternit). MAIER distingue i seguenti periodi: - anni ’50 e ‘60 “essenzialmente diversi>> concezione “maschilista>> - anni ’70 ad oggi “essenzialmente simili>> concezione “pari opportunità>>

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- anni ’80 ad oggi “essenzialmente diversi>> concezione o filosofia della “differenza>> - a partire dagli anni ’90 “essenzialmente simili>> concezione “femminismo trasformativi>> (uomini e donne sono simili). In altre parole uomini e donne possono imparare gli uni dalle altre, incorporando reciprocamente gli aspetti migliori degli e delle altre, e dando luogo ad uno stile di leaderschip più “androgino>> che potrà rivelarsi come più efficace. GLASSER e SMALLEY usano nel loro libro Swin With The Dolfhins la metafora di squali, guppies e delfini per riferirsi ai comportamenti sul luogo di lavoro. Gli squali sono a sangue freddo, arroganti, duri, forti e propensi all’adozione del modello di comando e del controllo. I guppies rappresentano metaforicamente delle applicazioni deboli e inefficaci di leaderschip. I delfini hanno grandi capacità di comunicazione, sono a sangue caldo e amichevoli, sono implicati come gli squali nelle questioni di profitto e dei bilanci, ma scelgono uno stile alternativo che massimizza l’efficacia organizzativa. Nell’ottica di GLASSER e SMALLEY i delfini sono “veri leader>> e non “capi>>; donne e uomini possono essere delfini, per quanto le donne siano più predisposte ad assumere questo ruolo in virtù della socializzazione ricevuta, che ha basi secolari.

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SEZIONE QUINTA LE FORZA CENTRIPETE E CENTRIFUGHE NEL GRUPPO: DALL’UNIFORMIT’ ALLA DIVERGENZA Collante per il gruppo, nonostante i cambiamenti nel tempo, sono la coesione e la conformità. Dall’altro esistono forze che avversano qualunque coesione, qualunque stabilità di gruppo, come la devianza ed i conflitti (sia intragruppo - cioè dentro al gruppo - che intergruppi - relazioni con gruppi diversi). Infine possiamo avere lo scisma, come di un tipo di processo che divide, spezza un gruppo e ne crea, a partire dal gruppo originario, un altro. Punto 1 LE FORZE CENTRIPETE: COESIONE E CONFORMITA’ Si prenderanno in considerazione le principali forze che tendono a mantenere unito il gruppo nel tempo e a rendere il più uniforme possibile la sua visione del mondo. Punto 1.1 LA COESIONE La coesione può essere definita come “la risultante di quel processo per cui un insieme di individui diventa un gruppo e si mantiene come tale, resistendo alle forze che possono tendere alla separazione>> (AMERIO E BORGONOVO). Il concetto di coesione, nella psicologia sociale, viene scandito da 3 fasi: 1) prima fase; in cui la definizione di coesione appare unidimensionale, poiché essa viene

concepita unicamente in termini di attrazione interpersonale fra i membri, è costituita da 2 elementi:

a) attrattività del gruppo in quanto tale b) dal grado con cui un gruppo assicura il raggiungimento di due obiettivi, cioè

l’interazione in se e gli scopi individuali che non sarebbero raggiungibili senza il gruppo.

FESTINGER SCHACHTER e BACK presentano un studio di campo svolto su due quartieri residenziali per le famiglie di studenti MIT (Massachusettes, Institute of Technology: WESTGATE composte in complessi a forma di U che permettono una certa prossimità fra inquilini e WESTAtE WEST, composte da appartamenti in edifici a due piani. 2) seconda fase; che può essere definita come critica del riduzionismo unidimensionale,

poiché da più parti viene messa in discussione e considerata come riduttiva la concezione di coesione basata esclusivamente sull’attrazione interpersonale.

3) terza fase; che può essere definita dalla riconcettualizzazione della coesione di gruppo,

in cui il concetto viene affrontato in modo multidimensionale.

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Teoria della categorizzazione del sé di TURNER (1985) Questa teoria indica come nell’ordinare cognitivamente il monndo sociale, noi categorizziamo gli altri e noi stessi in gruppi o categorie prototipiche e in tale processo la nostra autocategorizzazione in qualche modo si depersonalizza. A causa di tale fenomeno TURNER afferma che la depersonalizzazione della percezione di sé costituisce il processo che sta alla base di numerosi fenomeni di gruppo, come la stereotipizzazione, l’etnocentrismo, il contagio emozionale e l’empatia, la cooperazione e l’altruismo, i processi di influenza sociale, la condivisione di norme e la coesione di gruppo. Le teorie dell’identità sociale e della categorizzazione del sé permettono di distinguere due tipi di attrazione, cioè sentimenti positivi che si possono provare per gli altri:

1) l’attrazione personale (che si situa verso il polo “interpersonale>> del continuum, associato all’identità personale).

2) L’attrazione sociale (che si situa verso il polo “intergruppi>>, associato

all’identità sociale). L’attrazione sociale è diversa da quella personale, poiché si tratta di un legame basato sull’attrazione fra individui in quanto appartenenti ad un gruppo sociale saliente ed è per sua natura un legame “depersonalizzato>> poiché si basa sulla prototipicità di gruppo e sulla categorizzazione del sé. Quindi l’attrazione personale è idiosincratica, si delinea nel corso dei rapporti interpersonali e hanno come bersaglio uno o più individui non intercambiabili fra loro, cioè unici; essa è, dunque, altamente personalizzata. L’attrazione sociale è depersonalizzata, i suoi bersagli sono intercambiabili fra loro poiché essi suscitano sentimenti positivi in quanto appartenenti ad un certo gruppo e non per le loro caratteristiche personali. Al limite, può succedere che si provi attrazione sociale per un individuo, in quanto membro del proprio +, ma attrazione personale verso il medesimo, cioè non si desideri averlo come amico; ovviamente può anche succedere che, soprattutto nei piccoli gruppi faccia a faccia , le interazioni prolungate permettano il nascere di relazioni interpersonali forti, di amicizie. L’attrazione sociale è un fenomeno di gruppo, mentre l’attrazione personale è un fenomeno interpersonale e non ha nulla a che fare coi gruppi, solo l’attrazione sociale è attinente a vari processi di gruppo, ivi compresa la coesione. Punto 1.2 LA CONFORMITA’ La conformità sociale è definita da TURNER (1991) come il movimento di una o più persone “discrepanti>> verso le posizioni normative di gruppo come funzione di una pressione implicita o esplicita da parte dei membri del gruppo.

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(vedi “pensiero di gruppo>> La decisione di invadere Cuba presa nel 1961 dal presidente Kennedy e dai suoi consiglieri sulla base di un piano della Cia; l’invasione fallì e si apri una crisi con l’Unione Sovietica (pag.223) MUCCHI FAINA (1996) precisa ulteriormente il significato di questa nozione, definendo la conformità come “l’adesione a un’opinione o a un comportamento prevalente anche quando questi sono in contrasto con il proprio modo di pensare>> Per JANIS i vincoli “affliliativi>> o di appartenenza che si riferiscono a legami di affiliazione del leader o del vertice dirigenziale che da un lato posso servire a salvaguardare in rapporti con un piccolo gruppo primario e dall’altro lato servono a fare i conti con l’appartenenza ad un gruppo secondario, in primis l’organizzazione per la quale si lavora (Dipartimento di Stato, banca, azienda, esercizio sociosanitario. Queste regole affiliative sono:

● Il “coprirsi le spalle>> (conosciuta al Pentagono come la regola “c.y.a.>>, “cover your ass>>), il cui punto fondamentale è quello di garantirsi di non essere incolpati se la decisione ha cattivo esito.

● La scelta della posizione più forte fra quelle possibili, per JANIS si tratta di una versione modificata della precedente “coprirsi le spalle>>.

● Il “voler vincere ad ogni costo>> regola affiliativa che emerge nei contesti di

confronto intergruppi che possono essere sia interni che esterni all’organizzazione, con questa regola il leader di una fazione adotta un orientamento di lotta esclusivamente in termini di vittoria/sconfitta.

● le “riunioni manovrate>>; ritratta di una regola affiliativa che consiste nel

manipolare un consenso per arrivare ad una decisione già presa in pectore.

Motivi principali per cui le persone si conformano all’influenza della maggioranza : (MUCCHI FAINA).

● La compiacenza; i soggetti danno risposte pubbliche conformi alla maggioranza, non perché convinti, ma per non apparire diversi, per non subire ritorsioni da parte del gruppo, per non essere giudicati male dagli altri.

● L’accettazione; gli individui fanno propria la posizione della maggioranza per

timore di sbagliare. ● La convergenza; si tratta di una motivazione alla conformità di tipo affettivo in cui

l’individuo si convince che la posizione della maggioranza è corretta.

Le pressioni del gruppo verso l’uniformità hanno, secondo FESTINGER, 2 funzioni principali:

1) preservare la realtà sociale, cioè la realtà costruita e condivisa dai membri, che serve sia come punto di riferimento per stabilire la validità soggettiva delle credenze di ciascuno, sia come mezzo per identificarsi col gruppo.

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2) facilitare la locomozione sociale, cioè il movimento di gruppo verso il raggiungimento dei propri obiettivi.

L’uniformità viene mantenuta in diversi modi:

1) o convincendo il deviante (che così viene ricondotto nell’alveo della maggioranza). 2) o producendo cambiamenti nel gruppo (che arriva ad accettare la posizione del deviante). 3) o estromettendo il deviante dal gruppo.

Punto 2 LE FORZE CENTRIFUGHE: DEVIANZA, CONFLITTO, SCISMA Sono le forze che tendono a portare instabilità nel gruppo, che possono comportare più o meno fortemente un rischio per la sua sopravvivenza. Punto 2.1 DEVIANZA E MINORANANZA NEL GRUPPO Il deviante è qualcuno che nel gruppo avanza posizioni diverse da quelle della maggioranza e che per questo può essere percepito come elemento perturbatore della coesione e dell’unità del gruppo. Il deviante può essere percepito come una minaccia per la coesione del gruppo; per ricondurlo nell’alveo il gruppo può aumentare la quantità di comunicazioni ed atti persuasivi, se tale strategia fallisce il deviante può essere cacciato dal gruppo o ridotto in condizione da non nuocere perché emarginato e esautorato. Un ulteriore elemento che influisce sul trattamento ai derivanti o ai minoritari è costituito dalla distinzione fra gruppi chiusi e gruppi aperti:

- I gruppi chiusi, si richiudono su se stessi, difendendo la propria identità e distinguendosi con forza da altri gruppi, prescrivendo norme, forme di pensiero che non tollerano alcuna deviazione.

- I gruppi aperti, si basano sull’attrazione reciproca dagli individui e che sono in

grado di proporre ideali da perseguire. Questa distinzione fra i gruppi aperti e gruppi chiusi ci ricollega ai due volti dell’identità di gruppo di cui parla TOURAINE: → l’identità difensiva e l’identità offensiva. L’identità difensiva è costituita da un richiamo difensivo e regressivo all’uniformità, che esalta le similitudini interne e si oppone a qualunque deviazione interna ed apertura all’esterno, enfatizzando tradizioni e conservazioni di norme, col rischio di chiudere l’azione collettiva nella mura del settarismo.

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L’identità offensiva si presenta come una forza d’innovazione, con capacità di azione e di cambiamento sociali che fa leva su ideali comuni e tollera il dissenso interno come espressione di libertà e di partecipazione sociale. I gruppi chiusi si basano su identità difensiva. I gruppi aperti si basano su identità offensiva. Un’altra possibile espressione del dissenso è costituita dalle posizioni di minoranza. La scoperta dell’influenza minoritaria è di MOSCOVICI il quale ha messo in luce il potere di persuasione e conversione di minoranze che si caratterizzino per un certo stile di comportamento:

● La consistenza; cioè essere coerenti e tenaci. ● L’autonomia; essere indipendenti da legami e agire secondo principi. ● L’Investimento; dare prova di coinvolgimento e sacrifici personali per sostenere le

proprie posizioni. ● Flessibilità; capacità di assumere uno stile di negoziazione flessibile pur mantenendo

la coerenza. ● L’equità; cioè la capacità di guardare anche a posizioni diverse dalla propria con

imparzialità. Secondo MOSCOVICI l’influenza minoritaria è di natura diversa da quella maggioritaria, poiché ha un potere di penetrazione meno visibile ma più profondo e interiorizzato: la maggioranza produce compiacenza, cioè adesione pubblica senza che vi sia accettazione personale, la minoranza può avere un’influenza indiretta e nascosta, che MOSCOVICI definisce come conversione e che consiste in un effettivo cambiamento delle proprie posizioni iniziali rispetto ad un determinato problema. NEMHETH sostiene che il dissenso minoritario promuove un pensiero divergente, cioè creativo che stimola gli individui e i gruppi a considerare il problema posto dalla minoranza secondo molteplici prospettive e che può avere l’esito di produrre selezioni originali, mentre la maggioranza tende a produrre un pensiero convergente in cui diviene prioritario aderire alla norma condivisa, fossilizzando il gruppo su un’unica posizione e bloccando il processo di ricerca delle possibili alternative. Risposte negative del gruppo al fenomeno della dissidenza interna.

● Il rifiuto esplicito e totale: ciò che afferma il dissidente non corrisponde a verità, non dispone di alcuna attendibilità, e questa strategia può accompagnarsi all’espulsione materiale o simbolica del deviante dal gruppo.

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● Il rifiuto parziale: anche se è vero quello che afferma il deviante è meglio non parlarne per ragioni di credibilità del gruppo, con questa strategia il deviante può essere tenuto nel gruppo, per quanto si cerchi di “farlo tacere>>.

● La disconferma: cioè il silenzio, l’apparente indifferenza con cui viene accolta la

posizione minoritaria . La disconferma è una strategia che nega la presenza del deviante è “come se non ci fosse>> in quanto sistematicamente ignorato e i cui interventi e iniziative cadono sempre nel vuoto.

● La ridicolizzazione: è una strategia che tende a mostrare il o i devianti come

personaggi un po’ patetici, dei “fissati>> su cui è possibile scherzare, fare battute ridere. La sanzione del ridicolo sociale è molto potente, tale da riportare nei ranghi coloro che vorrebbero opporsi al punto di vista maggioritario, anche quando esso palesemente scorretto.

● La naturalizzazione: si tratta di una forma di resistenza alla devianza che si presenta in modo sottile e consiste in un meccanismo per cui i gruppi (piccoli e grandi) si immunizzano contro i devianti rovinando la loro credibilità con l’attribuire l’origine dei loro comportamenti ad opinioni e caratteristiche personali, “naturali>>.

La naturalizzazione può assumere forme diverse:

1) la biologizzazione, che consiste in un’attribuzione dei comportamenti devianti a caratteristiche biologiche, come il sesso, la razza, l’etnia, un handicap ecc..;

2) la psicologizzazione, in cui l’attribuzione si appunta alle caratteristiche di personalità (“è un

paranoico>>, “è un caratteriale>>;

3) la sociologizzazione, in cui il focus attributivo riguarda le opzioni e l’impegno sociopolitico oppure le origini sociali dell’individuo.

L’accettazione della dissidenza può avvenire in vari modi: stimolando la creatività del gruppo, mettendo in atto processi di conversione che possono realizzarsi con modalità differenti. La conversione può avvenire:

1) in tempi ritardati, cioè in tempi successivi a quando si è stati esposti alla fonte d’influenza; 2) privatamente, solo quando il soggetto non esplicita il suo cambiamento ma lo ha

interiorizzato;

3) in modo trasporto, cioè riflettersi sugli altri argomenti collegati a quanto la minoranza ha espresso.

Inoltre, la minoranza può avere un’influenza pervasiva sul comportamento, detto effetto modellante che MUCCHI FAINA ha mostrato nel corso del femminismo, minoranza attiva che ha avuto un grande impatto sociale anche sulle donne che non si considerano tout court “femministe>>. La distanza fra accettazione e rifiuto è spesso molto sottile, e dipende sia dal tipo di gruppo e dalla fase evolutiva in cui si trova, sia dalle caratteristiche intrinseche del dissenso stesso. Quest’ultimo non è necessariamente una forza disgregante, ma può essere un’occasione di cambiamento e innovazione.

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Punto 2.2 IL CONFLITTO ALL’INTERNO DEI GRUPPI Gran parte dei conflitti intragruppo possono essere letti nell’ottica delle influenza maggioritarie e minoritarie. Il conflitto intragruppo può sortire esiti diversi: da un lato può avere conseguenze negative sia per i singoli membri che per l’intero gruppo, quali: ostilità interpersonali, prestazioni deficitarie e nei casi più gravi disintegrazione del gruppo; dall’altro può avere conseguenze positive, quali: incremento della creatività nella soluzione dei problemi e soluzioni unificanti che ricompongono interessi competitivi in modo tale da apportare benefici a tutti i membri del gruppo Insomma, vi sono costi benefici potenziali nel conflitto di gruppo così importanti e pervasivi da rendere indispensabile una comprensione delle ragioni per cui il conflitto si genera e dei modi in cui esso viene risolto. Per conflitto introgruppo vedi FOTTY WHYTE e il gruppo di via Norton e le ragazze del Club Aphrodite – pag.242. Una delle caratteristiche dei gruppi rispetto ai templi aggregati è l’interdipendenza che i membri hanno fra di loro vedi LEWIN interdipendenza del compito e del destino e da KELLEY THIBAUT, che suggeriscono che il gruppo sia interdipendente riguardo alle informazioni e ai risultati e che entrambi questi due tipi di interdipendenza possono produrre conflitti. I conflitti relativi all’interdipendenza dei risultati si attivano quando si produce una relativa incompatibilità fra gli scopi e gli interessi dei vari membri, quanto insomma si produce un’interdipendenza negativa. Tale possibilità è sempre presente nella vita dei gruppi , in quanto i membri sono da un lato motivati a collaborare per raggiungere obiettivi comuni e difficilmente raggiungibili individualmente, dall’altro sono spinti a competere fra di loro quando le risorse sono scarse e ognuno intende accaparrarsi il massimo vantaggio individuale. Nella vita reale dei gruppi queste due possibili origini del conflitto intragruppo, quella dei “pensieri>> e quella relativa alle “risorse materiali>>, sono spesso talmente congiunte da rendere difficile la comprensione se un conflitto tra membri si origini per la distribuzione ineguale delle risorse o per una divergenza sostanziale circa il modo di concepire i problemi. I meccanismi che i gruppi usano per affrontare i conflitti sono essenzialmente 3:

a) L’evitamento del conflitto , si tratta di un intervento preventivo teso ad impedire la comparsa del conflitto oppure a bloccarlo prima che diventi saliente per il gruppo;

b) La riduzione del conflitto, intervento atto a ridurre o eliminare un conflitto già

acceso o ritenuto rilevante per il gruppo; c) La creazione del conflitto, produzione intenzionale del conflitto in situazione di

assenza del medesimo, oppure esacerbazione di conflitti già esistenti.

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L’evitamento del conflitto non costituisce un meccanismo molto produttivo in quanto impedisce le forme di apprendimento e di ricerca del consenso che invece si hanno con il conflitto sociocognitivo. Il conflitto sociocognitivo produce scambi intellettuali che comportano profonde ristrutturazioni nel modo di affrontare il problema, per cui la soluzione non è il prodotto di un’imitazione è piuttosto il risultato della costruzione di nuove conoscenze derivate dall’interazione sociale. Il conflitto può avere una doppia faccia, in quanto esiste il conflitto distruttivo e quello costruttivo Il conflitto distruttivo è caratterizzato da un allargamento ed escalation della conflittualità a tal punto che essa diviene indipendente dalle cause che l’hanno generata ed è possibile che continui anche quando queste cause sono state rimosse o addirittura dimenticate. Il conflitto costruttivo comporta, invece, un processo di ristrutturazione cognitiva, uno sforzo di considerare ciò che unisce agli altri, un impegno di cooperazione e di ricostruzione. I gruppi “longitudinali>> cioè quelli che continuano nel tempo, devono essere in grado di incontrarsi col cambiamento, col mutare delle appartenenze dei processi di entrata ed uscita dei vari membri, con l’evolvere delle richieste e dei bisogni dei partecipanti, con la manifestazione degli inevitabili conflitti, dal fronteggiamento dei quali dipenderà la trasformazione o la spaccatura del gruppo. Punto 2.3 I PROCESSI SCISMATICI L’elevata frequenza di tale fenomeno induce a ipotizzare che la storia di quasi tutti i gruppi sia segnata prima o poi uno scisma, a qualunque stadio del loro sviluppo. Gli autori SANI e REICHER inquadrano la definizione di scisma come un processo di divisione di un gruppo in sottogruppi e alla secessione finale di almeno uno dei sottogruppi dal gruppo originario. Secondo SANI e REICHER il processo scismatico comincia quando compaiono delle differenze cruciali nelle posizioni sostenute da due o più sottogruppi, che si accusano a vicenda di contraddire e alterare elementi essenziali dell’identità intragruppo; in altri termini, un sottogruppo ritiene che la posizione adottata da un altro sottogruppo sia a favore di un cambiamento radicale di quella che viene percepita come l’essenza dell’identità di gruppo. Per “essenza>> si intende riferirsi ad aspetti centrali, se vogliamo vitali, per la sopravvivenza del gruppo in quanto tale. A questo punto si arresta il processo di consensualizzazione ed emerge un blocco dei processi di negoziazione fra le fazioni o sottogruppi implicati, in quanto le disomogeneità appaiono inconciliabili, il conflitto intragruppo diviene insanabile e comincia il processo scismatico. * (vedi scisma PCI – Rifondazione comunista pag.250).

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Affinché avvenga lo scisma, SANI mette in luce alcune condizioni necessarie quali: ● La percezione di una minaccia di gruppo; avviene quando i membri di un sottogruppo

percepiscono le idee sostenute da un altro sottogruppo come qualcosa che contrasta con la “vera>> identità di gruppo e temono una “futura identità>>;

● La percezione di una mancanza di >entitatività>> del gruppo, cioè di compattezza e

coerenza interna; ● Quando si realizzano le condizioni dei due punti precedenti, vengono accentuate sia le

differenze fra i sottogruppi avversi, sia le somiglianza fra membri di uno stesso sottogruppo, nel tipico “effetto accentuazione>> che riguarda il processo di categorizzazione;

● Quando un sottogruppo percepisce la posizione di un altro sottogruppo come contrastante

con l’identità profonda del gruppo, i membri di tale sottogruppo diventano impermeabili all’influenza sociale da parte dei membri dell’altro sottogruppo e cessano di considerare questi ultimi come membri legittimi del gruppo stesso, ed anzi iniziano a percepirli come membri illegittimi (potremmo dire “clandestini a bordo>>

● Perché avvenga uno scisma è necessario che le percezioni dei due (o più) sottogruppi siano simmetriche, cioè è necessario che ciascun sottogruppo veda l’altro come “sovversivo>>.

Se c’è asimmetria , cioè se solo uno dei sottogruppi vede l’altro come sovversivo, c’è una maggiore probabilità di trovare un compromesso, un accordo, in quanto una delle due fazioni può essere più disponibile ad accettare le esigenze dell’altra.

● Il modo in cui si sviluppa uno scisma dipende probabilmente anche dalle relazioni di status

fra le fazioni. In ambito religioso con scisma ci si riferisce al processo di separazione, il sottogruppo che si stacca viene definito setta, quest’ultima viene definita come “un’organizzazione socioreligiosa formatasi per separazione rispetto ad una tradizione religiosa storicamente consolidata>>. In termini di psicologia dei gruppi è importante riflettere sulla dinamica che presiede alla costituzione di una setta; secondo PACE vi sono almeno i quattro seguenti elementi:

a) i confini di una determinata istituzione religiosa si alterano, in essa si sviluppano i presupposti dottrinali per dar luogo alla separazione e i confini del gruppo originario appaiono meno definiti e si evidenziano contrapposizioni fra ciò che può essere definito un “noi>> e ciò che può essere definito un “loro>>. La base di questa situazione è il conflitto che può riguardare sia questioni dottrinali, sia l’organizzazione interna del gruppo e l’esercizio del potere d’interpretazione del sistema di credenze.

b) Si costituisce un nuovo principio di autorità che si contrappone a quello esistente nell’istituzione originaria; deve formarsi una nuova leaderschip attorno alla quale si formi un nucleo di seguaci disposti a seguire un nuovo corpus di norme e valori.

c) La ricerca di nuove condotte di vita, che segnino la radicalità della scelta religiosa.

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d) La temporanea o definitiva fuoriuscita dal mondo “normale>> cioè dal comune sistema istituzionale (modelli di famiglia, scuola, di produzione) che regola una comunità e dagli usuali comportamenti che in essa vigono.

Quando abbiamo parlato di uscita dai gruppi (cap.2) e di devianza estromessa dal gruppo abbiamo considerato l’ottica individuale, cioè il caso di un individuo che per differenti ragioni sceglie di “chiamarsi fuori>> (o viene buttato fuori) operando quella transizione di un ruolo che MORELAND e LEVINE chiamano “uscita>> e che avviene quando i livelli di impegno del gruppo e dell’individuo scendono sotto i rispettivi criteri di uscita. Il caso dello scisma si pone in un’ottica diversa, cioè quella per cui l’uscita dal gruppo è operata da un gruppo di individui, in un fenomeno che vede delinearsi in una situazione fra “noi>> e “loro>>, fra i “buoni>> e i “cattivi>> fra i “fedeli>> e gli “infedeli>> di un partito, di una Chiesa,, di una cooperativa, di una piccola impresa, di un movimento sociale, di un team di scienziati, di un gruppo di piccoli delinquenti di periferia in un rimando di auto ed eterodefinizioni inconciliabili

che hanno l’esito di spaccare un gruppo in due e di mettere in moto tutti i meccanismi dinamici che faranno delle due compagini due veri e propri nuovi gruppi, con la loro struttura interna, fatta di leaderschip, norme, differenziazioni di status e ruoli.

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SEZIONE SESTA CONFRONTI, CONFLITTI E TENSIONI NELLE RELAZIONI TRA GRUPPI I rapporti fra gruppi costituiscono un argomento cruciale e di fondamentale interesse per la comprensione della realtà sociale, in cui è continuamente in atto il confronto fra gruppi con tensioni, conflitti, e anche tentativi di collaborazione. Ricerca longitudinale di campo svolta dal 1958 al 1960 da ELIAS e SCOTSON nella piccola comunità suburbana (circa 5.000 abitanti) di Winston Parva, presso Leicester ( i risultati vennero pubblicati nel 1965 e, dopo anni di dimenticanza, ripubblicati più volte, in considerazione del loro significato paradigmatico a proposito dei rapporti fra gruppi. La mappa sociale di Winston Parva comprende all’epoca della ricerca 3 diversi insediamenti, distinti in base alla distribuzione del potere: - Zona 1: area residenziale abitata da classi medie; - Zona 2: area abitata da classe operaia di vecchio insediamento (gli established), con una rete

sociale di famiglie dalla lunga storia comune di rapporti associativi e di organizzazione del tempo libero, caratterizzata da “tabù condivisi>> e da un codice normativo rigido che restringe la libertà d’iniziativa personale in nome di una più agevole “arrampicata sociale>>;

i membri ricoprono delle posizioni-chiave nelle istituzioni locali; - Zona 3: area abitata da classe operaia di nuovo insediamento (gli outsiders), nella quale sono

presenti alcune famiglie problematiche e un tasso più elevato di delinquenza giovanile, rappresentato soprattutto da “the Boys>>, un gruppo informale di adolescenti con condotte devianti (atti di piccolo teppismo, di prepotenza, comportamenti sessuali “illeciti>>.

La ricerca, di matrice socioantropologica, mostra il processo di esclusione, etichettamento,

discriminazione messa in atto dagli established nei confronti degli outsiders; il tasso di delinquenza (inferiore al 10%) e la presenza di un piccolo numero di famiglie disturbate fra questi ultimi diventano il pretesto per la costruzione e la legittimazione di stereotipi negativi, veicolati da una fitta rete di pettegolezzi e per la messa in atto di processi di esclusione discriminazione sistematica da parte dei “vecchi>> insediati, che intendono proteggere la propria reputazione e la propria “purezza>> dai rischi del contagio per contatto.

Da notare che gli established preferiscono enfatizzare il lato problematico e ignorare

la presenza di una vasta parte “sana>> degli outsiders, operai come loro e senza problemi di natura economica od occupazionale.

Nel corso dello studio di campo si realizza , fra l’altro, un marcato decremento del

tasso di delinquenza presso gli outsiders a causa del trasferimento di alcune famiglie difficili, che hanno trovato altrove condizioni abitative migliori e minor prezzo; il tasso di delinquenza fra la Zona 2 e 3 diventa quasi sovrapponibile, ma questo fatto non muta la visione stereotipica negativa e il rigetto non solo verbale degli established nei confronti degli outsiders.

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Permane, dunque, la percezione degli outsiders come minoranza anomica, cioè inaffidabile, senza legge , sregolata; la loro inferiorità di potere viene considerata lo specchio di un “minore valore umano>>; la chiusura nei loro confronti (sostanziata da pettegolezzi, rifiuti, tecniche di “congelamento>> nelle relazioni) diventa il mezzo per un “esitamento ideologico>>, volto a scongiurare i “rischi di una infezione anomica>>.

Tali fenomeni mostrano la resistenza e la forza dei processi di stigmatizzazione di

gruppo, per quanto gli autori sottolineino molto opportunamente che i cambiamenti di stereotipi sono possibili, ma richiedono tempi più lunghi di quelli concessi ad una ricerca longitudinale di campo.

ELIAS afferma che ciò che è stato osservato nella piccola comunità di Winston

Parva costituisce “in miniatura>> un tema universale umano, in cui i fenomeni di costruzione-mantenimento di stereotipi e di identità sociali (“weimage>>) con forti connotazioni valoriali e in cui queste “rappresentazioni sociali>> improntano le azioni di rigetto e di esclusione di coloro che sono percepiti diversi.

Punto 1 GLI STUDI SULLE RELAZIONI INTERGRUPPI Gli studi sulle relazioni intergruppi hanno messo a fuoco il modo in cui gli individui agiscono in quanto componenti di un gruppo, le dimensioni cognitive, valutative, emozionali, che questo dato implica, e il fatto che gli stessi individui si pongano di fronte ai loro interlocutori considerandoli come componenti di un “altro>> gruppo dalle stesse caratteristiche/specificità evocate per il proprio gruppo di appartenenza. Fin dal lavoro di SUMMER in cui compare per la prima volta il termine “etnocentrismo>>, gli scienziati sociali hanno discusso animatamente circa le condizioni che inducono i membri di un gruppo a svalutare i gruppi diversi dal proprio (outgroups). La ricerca sperimentale ha mostrato che è sorprendentemente facile creare le condizioni perché si generi animosità fra i gruppi. Il prototipo di tali ricerche che può essere considerato, giustamente, il lavoro di SCHERIF riguardante la genesi delle ostilità fra gruppi di adolescenti. SCHERIF ha fondato la propria elaborazione teorica sui risultati di 3 ricerche svolti in campi d’estate per ragazzi, ricerche realizzate tra ’48 e il 52’. (distinguere 1° - 2° - 3° fase dell’esperimento). L’elaborazione teorica che SCHERF trae dai dati è molto semplice :

- se due gruppi che sono in rapporto tra loro si pongono degli scopi competitivi giungeranno rapidamente ad un conflitto di intergruppi;

- se due gruppi in rapporto tra loro si pongono scopi sovraordinati giungeranno ad

una cooperazione reciproca. Per scopo sovraordinato si intende uno scopo che ha un forte potere di richiamo per i membri di ognuno dei gruppi ma che nessuno ma che nessuno dei gruppi può raggiungere senza la partecipazione dell’altro.

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RABBIE e HORWITZ sperimentarono anch’essi una ricerca volta ad isolare le “condizioni minime>> che sono sufficienti a generare atteggiamenti discriminatori fra ingroup ed outgroup (gruppo di appartenenza ed un altro gruppo). L’ispirazione teorica essenziale prendeva le mosse da una riflessione di LEWIN (’48) riguardante adolescenti ebrei: “non ha importanza che il gruppo degli Ebrei sia un gruppo religioso, nazionale o culturale, il fatto che sia classificato dalla maggioranza come un gruppo distinto è quello che conta. Il criterio principale di appartenenza è il destino comune>>. L’esperimento, assegnazione di una radio a transistor a due gruppi di ragazzi che non si conoscono, attraverso il lancio di una moneta, quindi tirando a sorte, rilevano come i membri si sentono a proprio agio con i membri dell’ingroup che avevano attenuto lo stesso risultato . In altre parole il solo fatto di condividere la stessa sorte (l’interdipendenza Lewiniana), indipendentemente da come questa si realizza, sembra sufficiente a suscitare una discriminazione valutativa a favore del gruppo di appartenenza. Si delineano due orientamenti di studio:

1) ispirato alla scuola di Francoforte, uso di strumenti concettuali tratti sia dalla sociologia marxista sia dalla psicanalisi freudiana, tentava di spiegare i fenomeni in questione chiamando in causa distorsioni quasi-patologiche dello sviluppo personale degli attori implicati come nella “personalità autoritaria” di ADORNO.

2) Ispirato alla tradizione fenomenologia della filosofia europea e della psicologia della

Gestalt, vedeva gli stessi fenomeni di distruzione e crudeltà come manifestazioni assurde di processi psicologici e sociali “normali>>. I contributi della scuola di LEWIN, quelli dello stesso SCHERF, oltre a quelli di RABBIE e TAJFEL si inscrivono entro questo quadro di riferimento.

Successivamente TAJFEL elaborò un’ipotesi secondo la quale non è necessario chiamare in causa, per dare conto delle discriminazioni intergruppi, né i conflitti oggettivi di interessi, né l’interdipendenza del destino. E’ sufficiente, a suo giudizio, una categorizzazione in gruppi di certi attori del mondo sociale. TAJFEL giunse alla conclusione che in una situazione in cui si pongono a confronto due gruppi si attiva, nei membri di ognuno di essi , il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito dell’altro: il fatto puro e semplice della categorizzazione sociale provoca negli individui un comportamento intergruppi che discrimina l’”l’altro>> gruppo e favorisce quello di appartenenza. Sia il paradigma sperimentale impiegato nelle ricerche ora citate (denominato ben presto “paradigma del gruppo minimo>> sia i risultati in esse ottenuti hanno ispirato una gran quantità di ricerche ulteriori. TAJFEL giunge dunque alla conclusione che la categorizzazione sociale, cioè la percezione pura e semplice da parte di un soggetto di far parte di un gruppo in rapporto con un altro, è sufficiente per produrre una discriminazione intergruppi in cui è favorito il gruppo di appartenenza rispetto all’altro..

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Punto 2 SVILUPPI E LIMITI DELLA TEORIA INTERGRUPPI DOISE amplia il concetto di categorizzazione distinguendo 3 aspetti delle relazioni tra gruppi:

1) quello comportamentale 2) quello dei giudizi di valore 3) quello delle rappresentazioni

Il processo di categorizzazione che permette agli individui di organizzare la propria esperienza soggettiva dell’ambiente circostante, rende conto anche dello strutturarsi di un sistema di interazioni sociali. Il comportamento, come funzione di appartenenze condivise e contrapposte, struttura e trasforma la realtà sociale. Il processo di categorizzazione, perciò, non permette soltanto agli individui di organizzare e semplificare il proprio mondo sociale ma, fornisce ad ogni individuo uno strumento per differenziare gruppi e categorie sociali. In altre parole, è corretta l’interpretazione di TAIFEL e BILLIG ai risultati delle loro ricerche: l’induzione da parte dello sperimentatore di una categorizzazione dei soggetti in gruppo è sufficiente a creare la discriminazione intergruppi osservata. In questa prospettiva DOISE elabora la nozione di processo di differenziazione categoriale per spiegare in modo articolato come i comportamenti di differenziazione sociale si svolgono proprio partendo dal processo di categorizzazione. Sei proposizioni descrivono il processo di differenziazione categoriale e permettono di spiegare l’effetto intergruppi: (vedi pag. 277) La differenziazione categoriale è dunque un processo psicologico che collega le attività individuali alle attività collettive attraverso valutazioni e rappresentazioni intergruppi. Queste posizioni permettono di spiegare i risultati ottenuti dalle ricerche su categorizzazioni e processi intergruppi a partire da quella di SCHERIF a quelle TAJFEL e collaboratori, a quelle realizzate dallo stesso DOISE. Nella competizione sociale, sostengono TAJFEL e TURNER (’79), entrano in giogo 3 processi fondamentali:

1) la categorizzazione sociale: permette di costruire una rappresentazione semplificata dell’ambiente sociale, in cui le differenze fra categorie sono accentuate mentre quelle all’interno della stessa categoria sono ridotte;

2) l’identificazione sociale: si riferisce al fatto che in molteplici circostanza gli individui si

definiscono come membri di una certa categoria sociale;

3) il confronto sociale, serve per determinare quale sia la valenza (il valore) relativa di certe caratteristiche del gruppo.

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Segue teoria della categorizzazione del sé (SCT) e (SIT) pagg. 284/5/6. Si può sostenere con TURNER che la teoria dell’identità sociale (SIT) sia stata abbozzata in modo chiaro proprio con le argomentazioni di TAJFEL. IL paradigma del numero minimo fornì all’autore dati empirici utili ad illustrare la ricerca della specificità positiva; quanto alla nozione di identità sociale (SIT), lo stesso TAJFEL la aveva già usata in precedenza ed aveva anche parlato del ruolo del concetto di sé nello strutturare la ricerca di significato delle relazioni intergruppi. Verso la fine degli anni ’70 ci fu uno spostamento dell’interesse teorico di alcuni allievi di TAJFEL verso i processi intragruppo e il gruppo sociale come entità psicologica (HOGG e McGARTH ’90). Questa tendenza ha avuto la sua espressione più completa nella teoria della categorizzazione del Sé (SCT) elaborata da un gruppo di studiosi raccolti intorno a TURNER (’87) HOGG e ABRAMS ’88 considerano la SCT come uno degli sviluppi più interessanti della SIT, perché il contributo sembra dar conto dei processi fondamentali concernenti i rapporti fra identità sociale e fenomeni di gruppo. Come teoria formale la SCT, pur essendo collegata alla SIT per molti aspetti, è distinta da essa, in almeno 2 punti importanti:

- mentre i primi lavori sul comportamento intergruppi erano focalizzati sul raggiungimento di una specificità positiva per il proprio gruppo come nozione esplicativa fondamentale;

- la SCT pone l’identità sociale quale base sociocognitiva del comportamento del

gruppo e meccanismo che lo rende possibile, non considerandola soltanto un aspetto del Sé derivante dall’appartenenza di gruppo.

La SCT riguarda gli antecedenti, la natura e le conseguenze della formazione psicologica di un gruppo. L’obiettivo della SCT è, in altre parole, quello di mostrare attraverso quali processi le persone giungano a concettualizzare se stesse come appartenenti a determinate categorie sociali. La categorizzazione di sé e degli altri (appartenenti all’ingroup e all’outgroup) a livello intermedio (quello dell’ identità sociale) accentua il carattere prototipico (prototypicality) e stereotipico del gruppo: ciò comporta un incremento della somiglianza percepita tra sé e i membri del proprio gruppo, una sorta di “omogeneità intragruppo>>, definita da TURNER:

“depersonalizzazione della percezione di sé dell’individuo>>:

“la depersonalizzazione si riferisce al processo di stereotipizzazione del Sé per cui l’individuo percepisce se stesso più come un esemplare intercambiabile di una categoria sociale che come una persona unica definita dalle differenze individuali dagli altri.

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