I gregari del Milione

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L’opera scritta da Rustichello da Pisa, a partire dall’esperienza di Marco Polo, fornisce la cornice all’interno della quale sono inseriti alcuni racconti, aventi quali co-protagonisti due semplici uomini, un piemontese e un siciliano, al servizio del ricco mercante veneziano. L’effetto desiderato più che comico vuole essere umoristico e viene ricercato facendo costante riferimento a fatti di nostrana attualità, con particolare attenzione alle recenti questioni al centro del dibattito politico italiano. Il libro in diverse sue parti tende così a trasformarsi in una graffiante opera satirica, per mezzo della quale l’autore esprime il suo umore polemico, in riferimento a quanto di controverso vede quotidianamente accadere nel proprio Paese.

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DESCRIZIONE:

L’opera scritta da Rustichello da Pisa, a partire dall’esperienza di Marco Polo, fornisce lacornice all’interno della quale sono inseriti alcuni racconti, aventi quali co-protagonisti duesemplici uomini, un piemontese e un siciliano, al servizio del ricco mercante veneziano.L’effetto desiderato più che comico vuole essere umoristico e viene ricercato facendocostante riferimento a fatti di nostrana attualità, con particolare attenzione alle recentiquestioni al centro del dibattito politico italiano. Il libro in diverse sue parti tende così atrasformarsi in una graffiante opera satirica, per mezzo della quale l’autore esprime il suoumore polemico, in riferimento a quanto di controverso vede quotidianamente accadere nelproprio Paese.

L'AUTORE:

Gianluca Moretti è nato a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, nel 1974. Laureato aGenova in Geografia, indirizzo didattico-umanistico, ha successivamente conseguito, pressola Scuola di Specializzazione dell’Università di Torino, l’abilitazione all’insegnamento dellematerie letterarie negli istituti secondari di primo e secondo grado.

I suoi allievi, periodicamente interpellati in proposito, lo ritengono abbastanza simpatico edivertente, ma anche un po’ lunatico e, a volte, eccessivamente severo.

Titolo: I gregari delMilione Autore: Gianluca Moretti

Editore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 76 Prezzo: 10,50 euro8,93 euro su www.ilclubdeilettori.com

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

Gianluca Moretti

I gregari del Milione

www.0111edizioni.com

www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

I GREGARI DEL MILIONE2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici EdizioniCopyright © 2009 Gianluca Moretti

ISBN 978-88-6307-249-5In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 daDigital Print

Segrate - Milano

A mio padre,nella speranza che, dopo lunghi anni di impegnative letture, possa apprezzare an-che questa mia breve

e umile opera.

Signori Onorevoli, Eccellenze e Alte cariche tutte, che volete sa-pere di fatti di gente comune al seguito di messere Marco Polo, leggete questo libro dove troverrete la vera storia di due miseri servi, che furon con lui nei lunghi viaggi e ammirarono maravi-glie e diversitadi delle genti…………

Premessa

Con queste parole si apre il manoscritto da me casualmente ritro-vato in un rudere, lasciatomi in eredità dalla mia adorata prozia Vincenzina, che si era premurata di conservare antichissimi og-getti d’antiquariato, compreso un prezioso cofanetto contenente la sensazionale scoperta. Lessi l’intero volume, che mi parve immediatamente assai esila-rante, e decisi di lavorare al fine di restituire alla storia alcune pe-ripezie dei due servi, protagonisti minori, ma non per questo poco importanti, di tante avventure brillantemente affrontate grazie alle loro italiche virtù. Per poterlo fare, sono stato costretto a ritenere veritiere le notizie in esso contenute e commentate dall’autore - tale Brigantello da Arnozero, noto collaboratore dell’antico grup-po editoriale “Il Ristretto”- dalle quali prendo apertamente le di-stanze, declinando pertanto eventuali responsabilità derivanti da quanto affermato nel testo. Con i tempi che corrono, questa mi pare una precisazione dovero-sa e prudente, al fine di evitare che qualcuno, magari particolar-mente permaloso, si offenda e prenda sul serio quanto scritto con finalità prettamente umoristiche.

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La scelta

Correva l’anno 1274 allorquando Messere Marco Polo venne ca-sualmente a sapere di un recente provvedimento del doge di Ve-nezia, il quale forniva a chiunque lo desiderasse la possibilità di reperire manodopera a costo zero presso le patrie galere della Se-renissima Repubblica. Tale decisione scaturiva principalmente dall’insostenibile situazione di sovraffollamento dei penitenziari che caratterizzava un po’ l’intera penisola e, in secondo luogo, dalla volontà di agevolare il più possibile le fiorenti attività com-merciali, che non poco contribuivano al benessere della comunità veneziana.Marco necessitava di almeno due uomini, da utilizzare per i lavo-ri più faticosi, quelli che certo non richiedevano un particolar-mente elevato quoziente intellettivo.Una volta entrato nell’edificio, piuttosto fatiscente ma più che adeguato per ospitare soggetti gravemente nocivi per la collettivi-tà, chiese immediatamente alla guardia di essere condotto nel set-tore occupato da coloro i quali si erano macchiati di crimini di minore gravità, in quanto ragionevolmente ritenuti più adatti alla missione.Fu subito colpito da un piccolo uomo adagiato in fondo a una stretta stanza, di nome Santo, Totuccio per gli amici, detenuto per avere tentato di esportare e riadattare un redditizio mestiere di-scretamente diffuso in Sicilia. La speculazione filosofica dell’in-dividuo non faceva una piega: se, infatti, esistevano da tempo i posteggiatori di calessi e carretti vari, perché non tentare anche con le gondole? L’idea era parsa all’ingegnoso uomo da subito accattivante, a maggior ragione considerando l’elevato traffico

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che caratterizzava la laguna, e quindi aveva deciso di trasferirsi nella Serenissima con l’intera famiglia al seguito. Inizialmente gli affari erano proseguiti nel migliore dei modi: Santo era riuscito a sbarcare il lunario senza troppi patemi d’ani-mo, diventando con il tempo anche un simpatico personaggio agli occhi dei veneziani, i quali non si erano lagnati più di tanto a cau-sa del misero compenso che l’uomo era abituato a chiedere in cambio del servizio prestato. Un giorno però tutto era cambiato drasticamente e repentinamen-te, nel momento in cui un provvedimento legislativo, portato avanti da una certa fazione politica, aveva previsto che tutti i la-voranti stranieri della Repubblica avrebbero dovuto dimostrare la piena conoscenza della pura lingua veneziana e, in aggiunta per quelli di carnagione scura o quantomeno olivastra, conoscere alla perfezione le ricette caratterizzanti la locale cucina. Il nostro To-tuccio, piuttosto abbronzato di natura anche a causa delle lontane origini arabe, ovviamente non aveva potuto soddisfare né il primo né, tanto meno, il secondo requisito previsto dalla nuova e certa-mente democratica legge in vigore. Aveva infatti tentato di ri-spondere, balbettando le poche parole già memorizzate e la medi-terranea ricetta della pasta con le sarde. Purtroppo per lui, tutto si era rivelato inutile ed era stato incriminato per vilipendio della Repubblica veneziana. Il giovane Polo spiegò a Santo i termini dell’accordo, ossia l’im-mediata scarcerazione in cambio del servizio da prestare durante l’intera durata del viaggio, con piccolo premio finale in caso di buona riuscita della spedizione commerciale. Tale patto, fortuna-tamente per tutti gli attori in campo, fu ritenuto discretamente vantaggioso dall’ormai ex posteggiatore. L’idea di abbandonare il misero vitto e l’alloggio, forniti gratuitamente dallo stato, certo non poteva entusiasmarlo troppo, ma, com’ è ben noto, la libertà non ha prezzo; l’uomo, seppur a malincuore, decise così di accet-tare. Dal canto suo Marco aveva trovato un lavoratore all’appa-renza non propriamente infaticabile, dotato però di una certa

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esperienza in tema di viaggi, o meglio migrazioni, e della già ci-tata carnagione da basse latitudini, che sarebbe senza dubbio al-cuno tornata utile al fine di mimetizzarsi un po’ in terra straniera.Il mercante proseguì quindi alla spasmodica ricerca del secondo uomo da selezionare, che individuò nel buon Battista, per gli ami-ci solo Batista, semplicemente senza quella pesante doppia poco apprezzata pressoché nell’intera pianura padana. L’uomo, origi-nario delle Langhe piemontesi, era da sempre ossessionato dall’i-dea di riuscire a produrre un buon vino, tanto per guadagnare dei quattrini quanto, anzi soprattutto, per fornire prova a se stesso di essere un enologo di successo. Era indubbiamente docile e volen-teroso, ma apparentemente poco adatto a svolgere un lavoro che richiedesse competenze non esclusivamente manuali. Aveva pro-vato per diversi anni a produrre, a partire dalle sue uve di ottima qualità, vino rosso che non aveva però mai trovato un soddisfa-cente sbocco nel mercato piemontese. Aveva dunque deciso di emigrare in Veneto, dove, almeno a suo dire, avrebbe trovato maggiori possibilità di vendere i prodotti non troppo apprezzati in patria. L’esperienza di produttore vini-colo era definitivamente terminata nella primavera successiva alla prima annata di vendemmia, quando una fetta consistente della popolazione di un rione periferico di Venezia era stata stranamen-te colpita da un’ improvvisa epidemia di dissenteria acuta. Le in-dagini erano state affidate a un’ equipe di luminari, i quali aveva-no indiscutibilmente individuato il responsabile nel vino del po-vero Batista, che era così stato processato e incarcerato per diret-tissima. A differenza di Totuccio, questo secondo uomo non tollerava l’i-dea di dover rimane in carcere e, soprattutto, non riusciva ad am-mettere il totale fallimento della propria attività che, qualora non fosse stata prontamente fermata, secondo le locali autorità avreb-be corso il rischio di provocare gravi difficoltà per lo smaltimento dei rifiuti organici e, con ogni probabilità, anche quello di deci-mare presto la popolazione adulta maschile dell’intero rione ve-

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neziano. L’uomo accettò pertanto senza alcun tentennamento la proposta di Messere Marco che, oltre alla libertà, gli avrebbe ga-rantito una sorta di seconda possibilità, assolutamente da non fal-lire.

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La reciproca conoscenza

Nei giorni immediatamente seguenti Messere Marco, notata l’in-dole assai differente dei suoi due uomini, pensò che, ai fini della buona riuscita della spedizione, fosse opportuno garantire loro la possibilità di conoscersi un po’ prima della partenza. Prese allora nuovamente la via della prigione e comunicò quelle che erano le sue intenzioni alle guardie, le quali provvidero im-mediatamente a trasferire Totuccio nella cella di Battista allo sco-po di esaudire, dietro a una lauta mancia, il desiderio dell’agiato mercante. Teoricamente simili atteggiamenti erano vietati per legge, qui nella parte alta della penisola dove tutto doveva essere o almeno apparire trasparente, ma poco importava alle povere guardie, per-ché avevano pure loro una famiglia discretamente numerosa e, cosa comune a tutti i pubblici dipendenti, non sembrava possibile affermare che se la passassero granché bene. Oltretutto, negli ultimi tempi, un nuovo politico aveva acquisito un apprezzabile potere, cavalcando il malcontento della popola-zione veneziana a causa della indubbiamente reale inefficienza della pubblica amministrazione; la situazione lavorativa di tutti gli addetti alle dipendenze della Repubblica, a prescindere dalle personali abilità, era quindi improvvisamente peggiorata e anche le povere guardie carcerarie ne pagavano le spese. Oltre agli sti-pendi da impero turco, ossia letteralmente da fame se non si con-sidera solo il cereale prevalente nella dieta, all’impossibilità di evadere le varie gabelle perché tassati alla fonte e alla scarsissima considerazione sociale, avevano dovuto sopportare un’ultima gra-ve offesa da parte del nuovo uomo al potere che, ironizzando sul-

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l’aspetto fisico tondeggiante di alcune di loro, aveva chiesto pub-blicamente quali fossero i loro tempi medi di percorrenza dei lun-ghi corridoi del penitenziario. Ottenuta una risposta non propria-mente soddisfacente, propose allora di impiegarli per due ore quotidiane, ovviamente extra orario, in qualità di rematori per il pubblico trasporto. Il tutto era naturalmente a costo zero per la collettività, in quanto non pareva ragionevole retribuire un’attivi-tà pensata a tutto vantaggio dei malcapitati addetti, che avrebbero così riacquistato in tempi brevissimi la migliore forma fisica, ca-pace anche di garantire un sicuro successo con le giovani donne della Serenissima. In ogni caso le guardie accettarono la mancia e, anche se ciò non pareva corretto, fecero leva sulla loro penosa situazione nel tentativo di alleggerirsi la coscienza.Dopo pochi minuti di permanenza comune in cella, Salvo e Batti-sta appresero di dovere affrontare insieme un’avventura che rite-nevano entrambi, anche grazie alle consolidate conoscenze geo-grafiche, di brevissima durata. Fornitasi reciproca conferma sulla reale prossimità della meta del viaggio, ossia la Cina, ammisero infatti candidamente che la scelta di accettare era stata fortemente influenzata dalla presunta breve durata della spedizione: che cosa sarebbero mai stati sei o sette mesi di impegno a fronte della ri-trovata libertà? Questo fu il non segreto pensiero di entrambi.Una volta raccontatasi la rispettiva storia personale, anche se non lo confessarono apertamente, i due uomini ebbero immediata-mente un’impressione non troppo positiva l’uno dell’altro, origi-natasi a causa delle evidentissime differenze culturali esistenti. Santo non riusciva a capacitarsi di come un uomo in possesso di terra convenientemente coltivata a casa propria, dove per indi-scussa opinione le rendite sono piuttosto elevate, potesse termina-re mestamente in prigione per avere quasi avvelenato un’intera città, oltretutto senza l’opportunità di ottenere dalla manomissio-ne del prodotto un guadagno supplementare. Aveva in passato sentito parlare di una sostanza denominata metanolo, che veniva utilizzata nel processo di vinificazione al fine di alterare il prezio-

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so nettare, con la conseguenza di guadagnare molto di più rispetto ai produttori onesti, mandando però al creatore alcuni tra i malca-pitati clienti. Non era questo comunque il caso di Battista, il quale continuava a farneticare sulle tecniche di produzione del vino da lui definito “sincero” e dava costantemente prova di essere in buona fede. Insomma, doveva trattarsi esclusivamente di incom-petenza e non di un deliberato tentativo di frode, il che portava Santo a giudicare Battista un buon uomo, per dirla tutta un indivi-duo non particolarmente perspicace.Come già anticipato, anche il mancato enologo conservava in cuor suo una pessima opinione del nuovo compagno, accusato di non essere stato in grado di procurarsi un vero e proprio mestiere, che non fosse quello di tentare di vivere grazie a espedienti sug-geriti dalla mediterranea arte del sapersi arrangiare. D’altra parte, nella logica di Battista, occorreva essere un vero scansafatiche per improvvisarsi posteggiatore di gondole, oltretutto abusivo, e, francamente, tutti i torti non li aveva, anche se non teneva troppo conto delle reali motivazioni che avevano spinto il compagno di cella a cimentarsi in un lavoro quantomeno bizzarro. Oltre alla ci-tata questione lavorativa, la sua parlata e l’aspetto fisico certo non contribuivano a procurargli una favorevole impressione in Batti-sta, il quale lo reputava un potenziale lestofante o, addirittura, un soggetto effettivamente tale.Queste, in estrema sintesi, erano le loro prime opinioni. Sbaglia-vano entrambi, ed ebbero modo di accorgersene durante i succes-sivi lunghi anni.

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La partenza

Alcuni giorni dopo, Messere Polo si rese effettivamente conto di essere pronto per salpare verso l’oriente, avendo completato le operazioni di carico merci e provviste varie sulla nave che stazio-nava impaziente nel porto. Decise pertanto di prendere la propria gongola personale, recante sulla fiancata destra lo stemma uffi-ciale della Repubblica, per dirigersi al penitenziario e prelevare gli uomini da lui prescelti. Imboccato il canal grande, iniziò spensieratamente a remare di buona lena, per la folle paura di dovere affrontare lunghe code una volta giunto a destinazione. A un certo punto, il giovane uomo notò sulla sua sinistra un paio di minacciosi figuri che in-dugiavano, opportunamente nascosti, dietro al pilastro portante di un ponte: sfortunatamente il suo primo timore trovò conferma nel momento in cui si accorse di essere appena stato vittima del gon-dolavelox, un sofisticatissimo sistema ideato al fine di multare i piloti troppo spericolati. Tale innovazione tecnologia venne introdotta nei canali della Se-renissima qualche tempo prima, con l’obiettivo di decrementare l’elevato numero di incidenti nautici che preoccupavano non poco le pubbliche autorità cittadine. Queste, infatti, sostenevano che una moderna Repubblica avesse il dovere morale di preoccuparsi della salute dei suoi cittadini, oltretutto potenziali elettori, e che il peso economico degli incidenti causati dall’eccessiva velocità fi-niva per ricadere negativamente sulla, già di per sé assai sofferen-te, pubblica finanza, a causa delle costosissime cure ospedaliere che si dovevano prestare ai poveri ma incoscienti piloti spericola-ti. In realtà, osservando il posizionamento dei numerosissimi gon-

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dolavelox e l’atteggiamento degli addetti alle contravvenzioni, molti cittadini si erano pian piano persuasi del fatto che la vera motivazione risiedesse altrove, ossia nella malcelata volontà di rimpinguare le piangenti casse comunali. Tra questi scettici vi era anche Messere Polo che, conscio delle ingenti imposte sul reddito puntualmente versate ogni semestre, non aveva la minima inten-zione di contribuire ulteriormente alla pubblica causa. Tornò pertanto indietro e mostrò ai maldestri vigili lo stemma della Repubblica, quale testimonianza del blasone di famiglia. La sua richiesta, piuttosto esplicita, fu quella di cancellare immedia-tamente l’iniqua sanzione che, più che turbarlo per una questione prettamente venale, lo infastidiva alquanto perché irrispettosa nei suoi confronti. Uno dei due gendarmi si mostrò inflessibile e, per la verità, anche un po’ indignato a causa dell’atteggiamento del Polo che, oltre a correre all’impazzata con la gondola, si permet-teva adesso di disquisire sulla ragionevolezza del provvedimento in cui era incorso. Il vigile urbano, nella spiacevole circostanza, ravvisava quasi gli estremi per procedere con l’accusa di oltrag-gio a pubblico ufficiale, mentre il ricco mercante pensò di avere molte pratiche da sbrigare e quindi di non dovere perdere ulterior-mente tempo per discutere con soggetti che, essendo mantenuti dallo stato, non avevano nulla di meglio da fare se non rimanere in attesa di onesti e frettolosi lavoratori da colpire. D’altra parte, anche a quei tempi ben si sapeva che, chi si intestardisce nel vole-re lavare la testa all’asino, corre il notevole rischio di rimetterci pure il sapone. Decise così di proseguire, anche perché in ogni caso il recente decreto legge sulla richiesta conoscenza del dialetto avrebbe pre-sto fatto giustizia e, qualora ciò non fosse accaduto, avrebbe pre-sto pensato in prima persona a sistemare opportunamente i due maleducati agenti, grazie a una altolocata conoscenza in comune.Mezz’oretta dopo arrivò al carcere e apprese con somma frustra-zione che i guai quotidiani non erano affatto terminati. Spesso, in-fatti, il buongiorno si vede dal mattino e la sua giornata era sini-

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stramente iniziata con lo sciagurato incontro della pubblica forza. Si trattava adesso dei permessi di rilascio di Santo e Battista, non ancora pronti perché il funzionario incaricato risultava assente da giorni, a seguito di una lieve indisposizione. La concomitante presenza della festa patronale, proprio nel rione di residenza del-l’impiegato, lasciava più di un sospetto nel mercante, al quale non restava altro da fare che recarsi in comune per risolvere la que-stione con il suo potente amico. Quasi miracolosamente, in breve tempo i sospirati permessi di rilascio furono nelle mani di Messe-re Polo, che sfruttò l’occasione anche per accennare a chi di do-vere dello scandaloso sgarbo subito in mattinata.Arrivato nuovamente alla casa di reclusione, questa volta con tutti i necessari documenti, chiese e ottenne il rilascio dei due suoi nuovi servi, che avevano ormai perso la speranza di uscire in giornata. Insieme ripercorsero canal grande, prestando attenzione alla possibilità che i vigili fossero ancora appostati lì dalla matti-na. Una volta superato il posto di blocco, incredibilmente ancora presente, Polo iniziò a fare vistosi cenni ai conducenti delle gon-dole che provenivano in direzione opposta, nell’evidente tentativo di rendere inoffensivo il gondolavelox. Si trattava esclusivamente di un normale e lodevole atto di solidarietà tra conducenti, ampia-mente diffuso nelle italiche regioni.I tre arrivarono al porto, dove ad attenderli c’erano gli altri mem-bri dell’equipaggio, da ore pronti alla partenza, e le famiglie di Santo e Battista, avvisate nei giorni precedenti al fine di garantire ai due ex reclusi l’ultimo saluto, prima della partenza per la breve ma pericolosa missione che li attendeva. La moglie di Santo, per la lieta circostanza, decise di derogare alla regola che da circa vent’anni la costringeva continuativamente in abito nero, a causa del susseguirsi di lutti familiari, sfoggiando un vestito a fiori che, nel giro di pochi istanti, riuscì nell’intento di risvegliare gli istinti mascolini di Santo. Ai due non fu però permesso di appartarsi, neanche per brevi istanti, e forse fu meglio così, considerando i quattordici figli presenti che facevano da soli la fortuna della lo-

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cale squadra juniores, vincitrice del campionato della Repubblica, con otto titolari, quattro riserve, un raccattapalle e un aiuto ma-gazziniere. Anche Battista non si trovò solo in un momento tanto delicato, avendo così la possibilità di salutare l’intera famiglia composta dalla moglie, i tre figli e lo zio Gepin. Quest’ultimo, in apparenza un intruso, era sempre stato in famiglia con loro, semplicemente perché non aveva mai trovato una donna che facesse al caso suo, né avrebbe mai potuto tollerare la semplice idea di doverne man-tenere una. Si trattava di un soggetto dal carattere ombroso e scontroso, in una sola parola pesantissimo da sopportare, ma pos-sedeva un discreto patrimonio da lasciare in eredità, che aveva imparato a gestire quale potente arma di ricatto nei confronti dei terzi eventualmente interessati. Battista lo aveva pertanto accetta-to con sé, forse confidando in un precoce declino fisico dello zio, che continuava però a godere di ottima salute, minacciando in questo modo di sotterrare lui il nipote e non viceversa, come in-vece da sempre auspicato dal produttore vinicolo che continuava a consolarsi pensando all’agiato futuro dei suoi figli.Esauriti i saluti di rito, la barca salpò verso mete lontane, mentre ai naviganti non restava che rimanere voltati all’indietro a osser-vare i fazzoletti bianchi sventolanti nell’aria. In uscita dal porto, sotto il faro di accesso alla città, tutti furono all’improvviso attratti dalla stravagante visione di due individui che, nella desolazione più totale, erano intenti a fare inutili segna-li alla barca. Dopo pochi metri tutto fu più chiaro: si trattava, in-fatti, dei due ex vigili incontrati da Polo poche ore prima, nel frat-tempo promossi al ruolo di “controllori della brezza marina”.

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La montagna di Baudac

Circa un anno dopo la partenza, la comitiva di Messere Polo si trovava nella città di Baudac, tristemente nota per il fatto di esse-re la residenza di un Califfo particolarmente intransigente nei confronti della nutrita comunità cristiana, composta da oltre cen-tomila persone. La situazione si era ulteriormente aggravata a causa delle notizie provenienti da occidente, dove, secondo le più recenti notizie, a qualcuno era astutamente venuto in mente di or-ganizzare un “porchetta party”, su un’area che l’amministrazione locale aveva destinato alla costruzione di un luogo di culto isla-mico. La festa, a base di gustosissima carne di porco condita con spezie varie e innaffiata con del buon vino rosso d’annata, avreb-be avuto nella peggiore delle ipotesi la funzione di purificare pre-liminarmente tutta la zona e, nella migliore, quella di dissuadere definitivamente gli infedeli, che avrebbero così optato per una so-luzione alternativa. A torto o a ragione, l’atmosfera a Baudac si era fatta particolarmente pesante, e minacciosi provvedimenti sta-vano per piombare sulla testa di tutti i cristiani, non importa se re-sidenti o semplici viandanti.Il Califfo, assolutamente determinato a farla finita con questa fa-stidiosa minoranza etnica, aveva però un grosso problema, consi-stente nel trovare un infallibile pretesto per procedere all’attua-zione di una sinistra pratica, di nome “soluzione finale”, da lui appresa leggendo il libro scritto da un piccolo generale teutonico, dimostratosi in seguito scarsamente sereno dal punto di vista psi-cologico.La questione venne brillantemente risolta intimando alla comuni-tà cristiana di procedere con pressanti preghiere alla sua presunta

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divinità affinché, entro e non oltre una precisa data, la stessa des-se prova certa della propria esistenza, spostando la montagna so-vrastante la città in modo che il miracolo fosse apprezzabile a oc-chio nudo dal Califfo in persona. Naturalmente, in caso d’insuc-cesso, sarebbe inesorabilmente scattata la citata punizione per tut-ti.I cristiani locali si mobilitarono, coinvolgendo i più alti prelati delle province circostanti al fine di organizzare sedute permanenti di preghiera, nella speranza di riuscire a ottenere la tanto attesa grazia, mentre i nostri due protagonisti, piuttosto scettici sulla possibilità di farla franca senza un aiuto supplementare, iniziaro-no a discuterne tra loro per valutare il da farsi. Totuccio pensava di potere contribuire a risolvere la questione coinvolgendo la Santissima Rosalia, patrona della sua caotica cit-tà d’origine, nei confronti della quale poteva vantare un discreto credito, avendo sempre preso puntualmente parte ai numerosi pel-legrinaggi organizzati dalle autorità cittadine in suo onore. Tene-va costantemente indosso un ciondolo contenente un’immagine della Santa che, almeno a suo dire, si era sempre dimostrata infal-libile nell’assicurargli la necessaria protezione. Battista proveniva invece da un ambiente maggiormente secola-rizzato e, francamente, non riteneva troppo probabile un interven-to divino risolutivo, né credeva alla presunta protezione di cui po-teva beneficiare il compagno che, d’altronde, aveva conosciuto al fresco in carcere e non in una lussuosa villa, caratterizzata dalla presenza di ogni comodità. Iniziò allora a pensare a una soluzione più concreta, capace di agire in qualche modo sul Califfo, e gli venne in mente l’esperienza avuta a Milano, ospite dell’affasci-nante e disinibita cugina Luana, quando conobbe un tale, perso-naggio assai spigliato, in possesso di due redditizie specializza-zioni. L’uomo, originario della bassa Italia peninsulare, si occupava in primo luogo di reperire un po’ ovunque compiacenti e giovani ra-gazze, da presentare a personaggi potenti in occasione di feste

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private, ma non disdegnava affatto di arrotondare i suoi già lauti introiti, procurando anche una magica e costosissima polverina bianca che, una volta assunta indipendentemente dalla via utiliz-zata, era in grado di provocare notevoli stati d’euforia e, in dosi massicce, pure pesanti allucinazioni. Disporre di una simile por-tentosa sostanza avrebbe certamente fatto molto comodo, ma sa-rebbe comunque rimasto il problema di somministrare al califfo la magica pozione. Battista decise saggiamente di pensare a una cosa per volta e scrisse, con il fondamentale contributo del suo compagno semi analfabeta, una lettera al losco figuro conosciuto a Milano, del quale aveva casualmente conservato l’indirizzo. I lunghi tempi di spedizione non consentivano certo di aspettare la merce prove-niente dall’Italia, ma, trattandosi di attività redditizia, i due servi di Messere Polo pensarono che senza dubbio la rete di distribu-zione doveva essere piuttosto capillare e che quindi, dopo avere ricevuto la giusta dritta, avrebbero potuto provvedere al reperi-mento in loco del prodotto.La risposta del milanese trapiantato non si fece attendere più di tanto, semplicemente perché l’uomo sperava in questo modo di allargare comunque il giro dei clienti, anche a rischio di subire pericolosissime intercettazioni postali. Totuccio e Batista seppero così a chi rivolgersi e procurarono un sufficiente quantitativo del-la miracolosa sostanza. Per quanto riguardava invece la più con-veniente modalità di somministrazione al Califfo, i due servi non avevano dubbi: occorreva indiscutibilmente preparargli un poten-tissimo the corretto, ma restava da decidere come potersi intro-durre nella sua lussuosissima dimora.Nel frattempo, nella tenda adiacente, si teneva un’accesissima di-scussione tra Messere Polo e un noto giurista locale, che non in-tendeva assolutamente piegarsi alle ragioni del primo. Nello spe-cifico, il mercante sosteneva di non essere troppo preoccupato dalla minaccia del Califfo perché, pur essendo un fervente cristia-no praticante, lui era pur sempre il Messer Polo, inviato dal Gran

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Khan con tanto d’insegne d’oro, e non poteva pertanto subire le punizioni eventualmente comminate agli altri comuni mortali. Il giurista ribatteva però colpo su colpo con decisione, sostenendo che nella provincia era da tempo in vigore un noto provvedimen-to, detto articolo terzo, che stabiliva come tutti gli individui fosse-ro uguali di fronte alla legge, indipendentemente da sesso, razza, condizioni socio-economiche e convinzioni politiche. Secondo l’esperto, Polo avrebbe dunque subito per legge lo stesso tratta-mento riservato agli altri cristiani, senza possibilità alcuna di ap-pellarsi a importanti frequentazioni o a insegne di metallo pregia-to. Il mercante continuava però a non mostrarsi turbato, perché un provvedimento analogo era da parecchio tempo in vigore anche dalle sue parti, ma egli aveva prova certa che, molto spesso, lo stesso non trovava concreta applicazione, come dimostrava effi-cacemente il noto adagio “fatta la legge, trovato l’inganno”.I due servi ascoltarono l’intero dibattito e a Santo venne la genia-le intuizione di proporre al suo padrone di recarsi in persona dal Califfo, con le tanto decantate insegne d’oro e una pregiata mi-scela di the proveniente direttamente dalla Cina, per discutere a quattr’occhi della questione relativa alla reale applicazione del fa-stidioso articolo terzo. Battista precisò inoltre che, al fine di sem-brare il più possibile influente, a Messere Polo sarebbe convenuto portare con sé anche i due servi, quale palese dimostrazione di ricchezza e potere. Il mercante giudicò ragionevole la proposta e mandò un messo a chiedere, naturalmente in nome del Gran Khan, un appuntamento al Califfo per il giorno seguente.Quest’ultimo accettò, risolvendo così positivamente il problema di introdursi nella sua dimora per somministrargli il the corretto.L’indomani, al cospetto del Califfo, Messere Polo riprese l’anno-sa discussione avuta con l’esperto giurista, sorseggiando insieme al padrone di casa la bevanda preparata a partire dalla miscela precedentemente manipolata dai due fedeli servi italiani. Battista si dimostrò inoltre assai servizievole, nel momento in cui si ap-

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prestò a rabboccare fino all’orlo la tazza del Califfo, rimasta for-tunatamente vuota. Il saraceno, così chiamato dai cristiani della zona, rispose al mer-cante veneziano che, in effetti, il famoso articolo terzo rimaneva in vigore ma, in presenza di particolari condizioni, esisteva la possibilità di derogare, a patto però di non rendere troppo pubbli-ca la cosa, per non scatenare le stupide proteste degli altri comuni cittadini. In alternativa, per non correre rischi di sorta, al Califfo venne in mente la possibilità di proporre una leggina ad hoc, da fare approvare con voto di fiducia e in tempi brevissimi, denomi-nata “salva Polo”. Il navigato mercante trovò la risposta che cercava: anche in Per-sia le cose stavano più o meno come in Italia, perché, come si suole dire, “tutto il mondo è paese”.Nel frattempo era ormai trascorsa una mezz’oretta dall’assunzio-ne del the corretto che, inevitabilmente, cominciava a fare effetto sui due importanti uomini a colloquio. L’italiano, in preda all’eu-foria anche per la certezza di potere comunque riuscire a salvare le penne, a prescindere quindi da eventuali interventi divini, ini-ziò a essere fisicamente attratto dalla donna di servizio, da tempo immobile all’ingresso della stanza, e decise di vantare pubblica-mente le proprie sensazionali prestazioni sessuali, nel tentativo di strappare alla giovane un incontro a lume di candela in una delle sue lussuose tende.Il Califfo, incurante della strategia di Messere Polo, ormai quasi delirava e si comportava come un ultras da stadio, intonando un coro riproducente una frase, “fora di ball”, appresa sulla pagina di cronaca estera del quotidiano locale. Lo slogan, per dovere d’in-formazione, era stato coniato e utilizzato ai margini di un campo di zingari milanese, da un esponente di una fazione politica che ha già, assai tristemente, trovato spazio in questo libro. Il Califfo, con la poca lucidità residua, pensava seriamente di riadattarlo alla diatriba in essere con i cristiani, cantando a squarciagola senza ri-spetto alcuno per i presenti.

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A questo punto per Santo e Batista era giunto il momento di pas-sare all’azione, provando a fare vedere al saraceno, in preda alle allucinazioni, la montagna in movimento. Non ve ne fu però biso-gno, perché la divinità, non importa quale, semplicemente disgu-stata dall’assistere a uno spettacolo tanto deprimente, decise di in-tervenire sul serio, provocando un violento terremoto che rase al suolo l’intera montagna.Il Califfo così si persuase dell’esistenza divina e l’intera comunità cristiana fu salva: l’articolo terzo aveva alla fine trionfato.

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La notte perenne dei cavalieri di Nogodar

Qualche tempo dopo la nostra comitiva si apprestava ad attraver-sare una provincia unanimemente ritenuta assai pericolosa, a cau-sa della presenza dei cavalieri di Nogodar, capaci di prolungare fino a ben sette giorni la durata dell’oscurità notturna, al fine di approfittarne per razziare tutto il razziabile. Tale inquietante circostanza allarmava non poco Messere Polo, il quale era consapevole di avere con sé oggetti preziosi, in partico-lare le già citate insegne d’oro consegnategli dal Gran Khan, e di essere pertanto una potenziale ricca preda dei briganti che infesta-vano la via.La popolazione locale narrava che i malviventi, fino a circa un se-colo prima, si erano dedicati esclusivamente a una povera agricol-tura o alla pastorizia, attività se vogliamo poco remunerative ma che avevano storicamente assicurato una dignitosa sopravvivenza a loro e alle rispettive famiglie. Un giorno però prese piede una rivolta, organizzata da un genera-le che intendeva cacciare il re straniero presente nella provincia, con l’obiettivo di annetterla alla parte settentrionale della stretta penisola. L’uomo, senza dubbio animato da buoni propositi, chie-se e ottenne la collaborazione della popolazione locale, che aveva intravisto nella rivoluzione la possibilità di liberarsi definitiva-mente del controllo altrui e di migliorare progressivamente la propria condizione socio-economica. Una volta cacciato lo straniero, con il decisivo contributo dei lo-cali, le aspettative di questa gente furono disattese per vari moti-vi: larghi strati della popolazione si scoprirono improvvisamente più miseri di prima, oltre che obbligati a sottostare a uno statuto

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inadeguato a quelle latitudini, che prevedeva tra le altre cose la coscrizione obbligatoria, fino allora assolutamente sconosciuta, con la conseguenza di privare la campagna, già di per sé non troppo produttiva, di giovane manodopera. La reazione di alcuni uomini senza troppi scrupoli, non certo per i citati motivi giustificata dal resto della popolazione, fu quella di organizzarsi in bande dedite a varie forme di malavita, sempre più strutturate con il passare del tempo. I locali affermavano che negli ultimi decenni, oltre alle tradizionali razzie, erano conve-nientemente praticati anche traffici illegali della già incontrata polverina bianca, estorsioni, intromissioni in pubblici appalti e quant’altro di illecitamente redditizio. Per di più, pareva ormai assodato che il numero dei partecipanti al business fosse costante-mente in crescita e alcuni locali, sottovoce per non rischiare pe-santi ripercussioni, affermavano di avere indiscutibilmente rico-nosciuto anche diversi membri del parlamento nazionale tra i te-mutissimi cavalieri di Nogodar. Molti pensavano inoltre, non si sa se a torto o a ragione, che la situazione fosse resa ancor più grave da un infallibile sistema di protezione che, agendo dalle alte sfere, garantiva protezione a tutti, sancendone in pratica l’ef-fettiva impunità, un pò come quando, nel gioco del “nascondino”, l’ultimo riesce a precedere chi conta per infine gridare: “libera tutti !!!”. CONTINUA...