Ho imparato a nuotare con una zucca

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Virgilio Dominici Ho imparato a nuotare con una zucca (Tre generazioni a confronto) Ho imparato a nuotare con una zucca Virgilio Dominici Realizzato in proprio Settembre 2014

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Virgilio Dominici

Ho imparato a nuotare con una zucca

(Tre generazioni a confronto) H

o imparato a nuotare con una zucca

Virgilio Dominici

Realizzato in proprio

Settembre 2014

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L’autore:

Virgilio Dominici Nasce a Lucignano Valdichiana,

terra di tante lotte antifasciste, il

15 maggio 1937 in una famiglia

mezzadrile; consegue la licenza di

quinta elementare nella terra

nativa.

Appena diciannovenne emigra a

Agliana dove si trasforma

definitivamente in operaio edile

come tanti altri suoi conterranei.

Con duri sacrifici riesce a

conseguire un innalzamento di

qualificazione seguendo corsi

dopo il lavoro.

E' un attivista sindacale. Nel 1968

entra come operaio nell'organico

del Comune di Agliana.

Successivamente, con i “Decreti

Delegati” entra nella vita fino a

diventare Presidente del Consiglio

di Istituto della scuola media

Bartolomeo Sestini.

Partecipa alla vita politica nelle

file del PCI e sindacale della

CGIL. E' attivista del movimento

circolistico, e diventa Presidente

dell'Associazione Civile del

popolo di San Michele Agliana

(Pistoia).

(A cura di Renato Risaliti)

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Prefazione dell’autore

Mio nipote Giacomo nel 2008 si trasferì a casa mia per essere più vicino a Firenze, frequentava il Liceo Artistico L.B Alberti.

Rimanendo a Borgo San Lorenzo, suo comune di nascita, quell'Istituto gli rimaneva troppo disagevole.

Quell'anno frequentava la seconda, quando tornava raccontava la sua giornata scolastica, come era l'aggregazione con gli amici e quanto aveva appreso prendendo passione per lo studio.

Gli dicevo quanto fosse importante la scuola per un giovane come lui e che la doveva coltivare come fanno i contadini con il podere, che seminano a Primavera o Autunno per raccogliere in Estate; gli ricordavo che non ho mai smesso di frequentare la scuola, e che occorre accrescere la propria persona 365 giorni l'anno, senza farsi “poveri e coglioni”.

Gli dicevo che si avviava ai 18 anni e che doveva pensare a una scelta di vita e farsi un ideale; che con la maggiore età, la Società avrebbe imposto certe scelte e certi programmi per essere autonomo dalla famiglia.

Gli raccontavo dei giochi che facevo da bambino, come

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stavo con gli amici, della mia scelta di vita e dell'ideale politico per cui ho sempre creduto e lottato affinché si affermasse.

Gli parlavo del lavoro e di quanto fosse stato duro mantenerselo nei primi anni di attività come operaio senza qualifica.

Un giorno, all'ombra di un albero nel giardino, parlando di questi argomenti, mi disse: “Nonno, perché questi racconti non li scrivi?”.

Cominciai a scrivere su due grossi quaderni e non bastarono. Avevo scritto tante pagine facendo con la memoria a ritroso il percorso della mia vita: quando giocavo in cortile con i giocattoli fatti dal nonno e poi da più grande, con gli amici nelle aie dei contadini; il periodo della guerra con i bombardamenti; i fascisti, i tedeschi, le riunioni fatte di nascosto da mio padre; coi partigiani che venivano di notte in casa mia; la radio clandestina.

Ricordai la scuola: poco funzionale, mutilata dalle leggi razziali, dai bombardamenti per colpa della guerra. E poi il mio impegno politico per la scuola, per una scuola diversa, un impegno che oggi, a guardar bene, non è ancora finito. Ripercorsi le varie lotte politiche e sindacali che molte volte mi videro impegnato in prima persona; durante il lavoro da contadino, poi quello da operaio e quello nella Pubblica Amministrazione, come mi imposero quei lavori, di prendere decisioni improvvise per realizzare il sogno di una vita migliore.

Rividi così, con gli occhi della mente, gli intrecci di vite con persone rimaste importanti nella mia vita; volti, sguardi, persone che hanno dato molto, chi poco, chi ha saputo dare un buon esempio sbagliando, chi ancora mi aiutò a formarmi come persona.

Ho lavorato molto per il sociale frequentando la Casa del Popolo “La Scintilla”. Sono stato eletto Presidente dell’associazione civile ricoprendo quella carica per ben 28 anni continuativi, fino al novembre 2012; ho lasciato dei ricordi; la pubblicazione di due libri di storia del circolo per coloro che

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sarebbero venuti dopo di me, e che dovrebbero imparare a memoria quanto scritto. Di questo libro ho riletto più volte le pagine accorgendomi di aver ripetuto alcune volte i medesimi discorsi; così ho dovuto eliminare tanti ricordi riducendolo alla metà.

Infine ho riletto quello che avevo scritto, cercando di mettere in ordine a tutto quanto per la migliore lettura; mi mancava la capacità di scrittura nelle pagine dal computer. Dovevo fare un altro sforzo per imparare a lavorare a quella macchina, altrimenti il lavoro sarebbe stato doppio.

Il difficile è stato trovare la pazienza per imparare a prendere confidenza con la tastiera, ma superate le prime difficoltà il lavoro mi è diminuito.

Ho comunque dovuto rileggere più volte e correggere ogni volta qualcosa che non tornava; inoltre, di quanto ho raccontato a memoria, ripercorrendo gli anni della mia vita, il lettore non avrebbe potuto credere senza un mio ulteriore sforzo per documentare quanto scritto con delle foto, impegnandomi nella ricerca e nel riprodurle adeguatamente per la qualifica da stampa.

Con il tempo mi sono reso conto che nel mese di Luglio di quel lontano 2008, iniziai un lavoro superiore alle mie possibilità di scrivere, posso dire però di aver passato cinque anni da autodidatta, mostrandomi deciso come sempre per raggiungere l'obiettivo.

Nel ripercorrere quanto ho scritto, in un esercizio di memoria così lungo, mi sento più fresco e pronto nel ricordare i tanti eventi accaduti, quelli che mi hanno fatto gioire e quelli che mi hanno fatto soffrire, in modo particolare quando ero bambino.

La storia della mia vita che ho raccontato in questo libro non è tutta, molta rimarrà sconosciuta, altrimenti dovrei scrivere due libri e chissà se sarebbero sufficienti. Chi lo leggerà forse non troverà ciò che si sarebbe aspettato, ma è la storia di tre generazioni che nel bene o nel male hanno fatto e visto

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abbastanza, sempre con l'idea in testa di rendere qualcosa alle generazioni future; dopotutto questo libro è per Giacomo, mio nipote, che quel giorno mi fece la richiesta di scrivere il diario della mia vita, ma è anche per coloro che come me hanno una vita intera dietro le spalle da raccontare. Per chi lo leggerà, penso possa essere un invito per la loro vita a fare altrettanto.

Anche se mi rendo conto di aver fatto un lavoro artigianale vorrei ringraziare tutti coloro che hanno camminato assieme a me questo sentiero della memoria. Dopo il mestiere di contadino, sono diventato operaio imparando il mestiere di muratore, poi ho lavorato nella pubblica amministrazione; comunque, in tutti quegli anni ho continuato a parlare con chi lavora. Forse ho ripetuto esperienze di mio nonno e di mio padre, ma spero ancora in un futuro migliore.

Ai futuri lettori, molti o poche che siano, letterati o

illetterati, sapienti o meno sapienti, interessati o annoiati per quello che racconto, chiedo venia per gli episodi che riferisco in modo più meno preciso rispetto alle regole grammaticali; perdonate gli errori perché io sono fra i milioni che hanno avuto poco tempo per diventare fini letterati.

La paura della guerra e il dopoguerra mi hanno costretto a ricercare un lavoro qualsiasi fin dalla tenera età per poi sfuggire alle persecuzioni politiche e sociali per prendere la via della emigrazione e cominciare tutto di nuovo.

Nella nuova terra ho trovato un lavoro e mi sono fatto una famiglia.

Ora sono un uomo. Posso dirlo. Sono un uomo che ha faticato tanto per quello che sono.

Ringrazio tutti e in particolare tutte le organizzazioni della sinistra storica che mi hanno aiutato a crescere.

Grazie a tutti,

Virgilio Dominici

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Virgilio Dominici, ormai da tempo ha raggiunto e superato il settimo decennio che secondo il sommo poeta, Dante era il tempo della vita di un uomo normale. Ha voluto raccontare il cammino della sua vita che, come quella di tutti gli uomini, è un viaggio che dopo alti e bassi conduce tutti senza eccezioni a fare un bilancio che è una narrazione di difficoltà, successi, peregrinazioni, lotte vittoriose e a volte anche delusioni amare e persino sconfitte.

Nella vita di Virgilio ci sono stati tanti cambiamenti come è successo a tanti suoi coetanei. Infatti, è nato come un contadino mezzadro della Valdichiana, quella zona Toscana che aveva visto prevalere gli ideali socialisti all'inizio del novecento e che aveva dato un contributo di sangue alla lotta antifascista già nel 1921. Infatti, il suo racconto prende le mosse della storia del nonno che aveva dovuto soffrire per questo suo schierarsi contro l'avanzata fascista e la successiva reazione degli agrari locali. La lotta di liberazione con un accentuato carattere di emancipazione sociale è vissuto dal padre e da lui di riflesso. Va alla ricerca di una

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vita migliore. Emigra a Agliana. Il contadino diventa operaio

Il contadino cerca rifugio nell'edilizia, diventa prima manovale e poi muratore. Entra in contatto con le organizzazioni sindacali e comuniste Aglianesi e Pistoiesi. Mentre compie attività politica e sindacale, non trascura affatto di migliorare la sua cultura di base partecipando ai corsi di scuola media. Riesce così a ottenere il diploma della scuola media; per un ex contadino è un traguardo non indifferente perché comporta un duro sacrificio di tempo, di cure ed attenzioni.

Contemporaneamente il giovane Virgilio deve pensare a crearsi una famiglia e con la famiglia nuova pensare ai genitori e a creare le condizioni per costruirsi una casa tutta sua. Deve compiere uno sforzo eccezionale come tanti altri immigrati: approfittare del tempo libero per costruire la propria casa con le proprie mani, attraverso mutui per comprare il terreno, gli strumenti e i materiali da costruzione.

Alla fine riesce a coronare il sogno di una intera vita. Ma il nostro Virgilio non si ferma qui. Il suo è un disegno inesausto: migliorare di continuo la propria esistenza cercando un lavoro meno pesante, ma anche più sicuro. Si presenta ai concorsi per diventare cantoniere comunale. Il diploma di terza media gli permette non solo l'accesso, ma di avere cognizioni maggiori di altri concorrenti che non avendo la stessa costanza non hanno e non possono avere le stesse cognizioni.

Gli sforzi compiuti nel passato dimostrano che ha intrapreso la strada giusta: vince il concorso e viene assunto in pianta stabile nell'amministrazione comunale di Agliana. Cambia di nuovo la sua vita e quella della sua famiglia che intanto è cresciuta di due figli: un maschio e una femmina.

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Quando in Italia le forze della sinistra riescono ad imporre dei cambiamenti anche nella scuola con i Decreti Delegati i suoi figli frequentano le scuole locali. Ecco allora che il padre di questi bambini entra nei consigli scolastici per fare applicare dal basso quello che la burocrazia scolastica cerca invano di evitare: impedire l'accesso della democrazia nella scuola ancora retta dalle norme fasciste per cui il Preside era ancora “il Duce nella scuola” (sic!).

Ma l'attività dell'indomabile Virgilio non si ferma qui: trascorso il periodo della frequenza scolastica dei figli si cerca un nuovo campo di attività che va oltre la partecipazione alle ormai tradizionali feste dell'Unità.

Virgilio questa volta sceglie il settore dell'asso-ciazionismo quello dei circoli ARCI. Vive a San Michele dove da dopo la guerra è aperto il circolo ARCI “La Scintilla”, che piano piano cresce oltre ogni speranza sia pur tra grandi difficoltà finanziarie. Ma il nostro Virgilio in un momento di difficoltà per la vita del circolo viene eletto Presidente dell'Associazione Civile. E in questa veste insieme ad altri suoi amici e agli Amministratori comunali, pensa a ampliare l'attività non solo ampliando la struttura muraria, ma istituendo l'asilo nido “Il Gatto Parlante” per i figli dei lavoratori locali. Fatta questa ultima impresa, il guerriero dopo tante battaglie vinte è giusto si prenda un periodo di riposo scrivendo le sue memorie.

E' quello che ha fatto e di questo gliene siamo grati. E ora due parole in amicizia con Virgilio. Perché? Sono

molteplici i punti di incontro e talvolta di proficuo scontro di idee fra me e Virgilio.

Conobbi, anzi, vidi Virgilio per la prima volta a casa mia in via Calice a San Michele Agliana nel 1961, il giorno stesso in cui, dopo sei anni, tornai da un periodo di studi alla Università di Mosca. Era a casa mia perché aiutava mio

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padre ad ammodernare la casa in cui ero nato. Ricordo di avergli fatto osservare che in U.R.S.S. le case non si costruivano più con la carrucola ma che si montavano perché erano prefabbricate.

La sorte ha voluto che lo ritrovassi vicino come capo cantoniere del Comune di Agliana di cui ero stato eletto Sindaco. Il contrasto era fra la “pratica” (Virgilio) e la “grammatica” cioè la politica generale della conduzione della cosa pubblica.

In genere ascoltavo il suo parere, ma a volte si verificava uno scambio contrastante di pareri che di solito si concludevano con compromessi, sopratutto quando divenne presidente del comitato dei genitori nella scuola locale.

Ricordo di aver dovuto fare un ordine di servizio, un solo caso, ma la cosa fu appianata successivamente senza strascichi.

Dopo una lunga pausa i rapporti ritornarono intensi quando mi coinvolse nella impresa della creazione di un nuovo libro sulla storia del circolo “Scintilla” di San Michele. E' un libro che riassume l'ascesa di una località e la sua storia. E' e rimarrà la testimonianza preziosa con documenti, in gran parte raccolti da Virgilio, della vita popolare di una comunità, della nostra terra Toscana e Italiana. Senza Virgilio questo libro non sarebbe mai nato perché è suo lo sforzo per raccogliere i documenti, per conservarli e per spingermi a riorganizzarli e interpretarli.

Alla fine devo ringraziarlo per la sua fertile collaborazione.

Renato Risaliti Professore di storia alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università Firenze. Emerito Sindaco di Agliana

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Non mi sono affatto meravigliato quando Virgilio

Dominici mi ha chiesto di leggere questo suo lavoro e magari di esprimere qualche riflessione.

Non mi sono meravigliato perché, sebbene la politica locale ultimamente ci abbia visti su posizioni ideali e strategiche distanti, fra noi non è mai venuto meno il dialogare schietto e sincero, a volte duro, ma sempre rispettoso delle posizioni dell'altro.

C'è inoltre fra noi una conoscenza che viene da lontano, che abbiamo approfondito negli anni, lavorando per i medesimi ideali, e che si è consolidata attraverso tante iniziative locali che ci hanno visti assai collaborativi.

Eccomi quindi a commentare, a caldo, questo libro dopo averlo letto tutto di un fiato.

A mio parere il filo conduttore del lavoro di Virgilio, più o meno evidente, è la consapevolezza del ruolo della scuola, quella con la S maiuscola, fatta di impegno e sacrifici, quella che ha rappresentato e tutt'ora rappresenta, anche se in misura minore rispetto agli anni passati, quell'ascensore sociale che ha permesso e permette alle classi meno abbienti di progredire, di migliorare la propria condizione sociale ed

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economica, fino a diventare classe dirigente. Lo aveva capito nonno Attilio, lo aveva capito babbo

Igino, ma ancora di più Virgilio quando incoraggiò sua figlia ad iscriversi al Liceo Scientifico.

Questa consapevolezza lo rese instancabile motore di attività nella scuola rinnovata, in seguito alla introduzione dei Decreti Delegati; scuola che vide, per la prima volta, i genitori protagonisti assieme ai docenti, agli alunni, al personale non docente.

Furono anni pieni di attivismo da parte dei genitori che non sempre riuscivano a comprendere le resistenze di un mondo chiuso nei suoi riti e nelle sue logiche e che, giustamente, pretendeva il rispetto delle proprie competenze, professionalità e compiti, non sempre chiari e definiti alla componente genitori.

Era necessario evitare pericolose invasioni di campo e stabilire un sereno terreno di discussione.

Proprio in quegli anni credo sia stato utile l'apporto di giovani insegnanti che, come nel mio caso, provarono a fare da ponte fra genitori troppo invadenti e professori troppo conservatori.

Gli episodi che Virgilio ricorda, legati alla performance teatrali della nostra scuola, al di là della validità di sperimentazioni didattiche, ebbero grande pregio di portare la scuola “fuori” dalle proprie mura, per proporsi in piazza, al territorio ed ai suoi abitanti.

Questa, a mio avviso, è stata la vera rivoluzione per quegli anni e non so quanta consapevolezza, allora, ci fosse di tutto questo; so solo che Virgilio ed io eravamo dalla stessa parte!

Parte non intesa strettamente ed in senso riduttivo come partito, perché così non era, bensì parte intesa come appartenenza politica a un ideale che ipotizzava una scuola

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impegnata a garantire i diritti anche degli “ultimi”; che voleva essere di tutti e di ciascuno, che guardava al territorio ed ai suoi abitanti come primi interlocutori per impostare attività e progetti.

Di allora ricordo un grande entusiasmo giovanile, un po' di incoscienza e tanta, tanta passione per l'insegnamento.

Quindi grazie Virgilio per questo tuo lavoro che, indubbiamente, ti è costato tanta fatica e che, come sovente ricordi nel tuo libro, potrà aiutare la gente a capire...

PaoloMagnanensi Emerito Sindaco di Agliana

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Mio nonno e il prozio Dante Biribò

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Avrei dovuto nascere qualche anno dopo, non il 15

maggio 1937, così avrei vissuto in altre condizioni e facendo meno sacrifici.

Quello che mi conforta è di aver conosciuto mio nonno Attilio.

Nacque il 3 ottobre 1875, e morì l'11 ottobre del 1951. Era un uomo socievole e di buona compagnia.

Attilio non amava molto parlare della sua infanzia, ma qualche volta é capitato sentirlo raccontare a mia madre e altre persone amiche che, in tenera età, venne abbandonato e lasciato in un collegio di Siena.

Raccontava che a tre anni venne preso in affidamento da Arturo Polvani, una famiglia di contadini di Foiano della Chiana e lì vi rimase per qualche anno, finché il collegio lo riprese, perché il padre adottivo lo picchiava (Attilio era un bambino sveglio e come tutte le persone sveglie, faceva dannare). Diceva che un infermiere (non si sa bene di dove)

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lo fece prendere da una famiglia del Casentino, Arezzo. Lì accompagnava i ciuchi caricati “a basto” per andare al mercato del paese o dal mugnaio a far farina (allora tra la campagna e il paese non c’erano tante vie praticabili e l’unico mezzo di trasporto che potesse passare per quei luoghi era il compagno del contadino: il ciuco.)

Un giorno,

quando aveva già 12 anni, arrivato al mercato col mulo gli capitò di incontrare il suo primo padre adottivo e

riconoscendolo volle tornare con forza con lui, benché in passato questi avesse usato comportamenti scorretti nei suoi riguardi.

Non ho mai saputo i motivi della sua adozione: parlo di “motivi” perché il mondo contadino è stato sempre governato dalle leggi dell’utile (anche il cane e il gatto avevano un lavoro da svolgere) e queste leggi erano “regolate” per lo più dai Patti Agrari.

Chi non aveva in famiglia un figlio maschio, secondo questi Patti, non possedeva i requisiti per condurre il podere a loro assegnato.

Era necessario che in famiglia ci fosse un maschio e chi non ne aveva era bene che se lo procurasse con un’adozione.

In età matura, Attilio si sposò con Maria Gallorini e da lei ebbe due figli, Igino e Pia. Il primo, mio padre, si sposò con Lisena Barluzzi ed ebbero quattro figli: due maschi e due femmine.

Ciuco caricato a basto

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Pia si sposò con Giulio Ondelli e nel ‘31 nacque la loro unica figlia, Onda.

Pia in quel periodo, rastrellando nei campi del fieno si ferì ad un piede con uno spunzone del rastrello e dopo qualche giorno morì di tetano.

Onda si sposò nel ‘53 con Dino Bruni da Torre a Castello (Siena); non ebbero figli perché lei morì poco dopo sposata: venne schiacciata da un rimorchio trainato da un trattore mentre andava con il marito a prendere del foraggio per il bestiame. Facendo una riflessione sulle condizioni del lavoro a quei tempi e quelle odierne in Italia, che portano (come dicono le statistiche) 3 morti sul lavoro ogni giorno, mi viene da pensare che non sia cambiato niente rispetto ad allora1.

Mettendo in conto anche il decesso improvviso di Marisa, mia sorella maggiore che nel ’36, in un giorno morì punta da un insetto, e l’infortunio mortale del nonno nel ’51 quando cadde rovinosamente da una pianta mentre coglieva una ciocca di uva, è stata una famiglia segnata dai decessi sul lavoro.

Nonno Attilio era un grande amico: mi portava con sé nei campi quando andava a lavorare, per fargli compagnia, mi raccontava tutte le storie che aveva vissuto da giovane, e soprattutto mi raccontava la grande fatica che provava nel vivere in una società che non gli apparteneva.

Era un uomo istruito, sapeva leggere e scrivere (fatto raro tra i contadini a quei tempi), sapeva cantare e recitare. Trasmetteva agli altri le proprie idee. Mi raccontava le storie vissute nella sua breve vita: la vita giovanile che fu molto dura, c'erano state due guerre mondiali, e il periodo intercorso tra loro.

1 Allora come ora il lavoro ha sempre preteso vittime. Ma stiamo parlando della

metà del XX secolo quando il lavoro non era tutelato.

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«Ho lottato tanto per una vita in una società migliore» diceva spesso.

«Ma quando morirò, ancora la gente non avrà capito come vanno realmente le cose. Io capii subito ma toccherà anche a me morire senza che la gente abbia capito».

Quel discorso lo recepivo come un lamento, non sapevo dargli il giusto significato, ero troppo piccolo. Diventato più grande invece ho toccato con mano quelle ingiustizie di cui lamentava. Ma con il tempo mi sono reso conto anch’io che dovrò morire e vedere che la «gente» ancora non ha capito.

Alla fine del 1800 la situazione politica in Italia era molto tesa: la sinistra e la destra storiche governavano a forza di compromessi, il mondo del lavoro si stava organizzando lottando per una vita migliore, dando vita ai partiti politici e alle organizzazioni sindacali, alle cooperative, alle casse rurali, alle società di mutuo soccorso.

Gli operai si organizzavano nelle grosse aziende e nelle miniere, nelle fabbriche, nei cantieri e nei porti; ma i contadini, legati alla terra, erano penalizzati dai patti mezzadrili erano molto lontani dal partecipare all’evoluzione sociale di quel periodo.

Inoltre la stragrande maggioranza della popolazione contadina era analfabeta, conservatrice, chiusa alle novità e incapace di far nascere al proprio interno un confronto fra i singoli individui; in Valdichiana, con caseggiati lontani l’uno dall’altro anche chilometri di distanza, dovevano aspettare le fiere e i mercati di paese per potersi incontrare.

Invece era normale che ciò accadesse fra gli operai, sempre fianco a fianco e facilitati allo scambio di idee.

Al Parlamento venivano sempre eletti i rappresentanti della nobiltà e della borghesia. Gli operai e i contadini non avevano i loro rappresentanti e non potevano votare perché erano poveri; nullatenenti, analfabeti non avevano il diritto

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di rappresentanza. Mio nonno Attilio era molto sensibile a queste

situazioni politiche ingiuste perché, essendo contadino, non aveva possibilità di esprimersi, ma essendo interessato alle dinamiche del paese sentiva il bisogno di fare qualcosa.

Anche se era mezzadro di un ricco borghese (probabilmente intollerante ad una presa di posizione contadina) non si fece trattenere e iniziò ad andare per le aie dei contadini a svegliare gli animi e a istruire le persone riguardo alla propria condizione sociale, convinto che la consapevolezza di tanti avrebbe potuto cambiare le idee, così da compensare il fatto di essere senza diritto di scelta al momento del voto perché contadino.

Verso la fine del secolo decise, insieme a suo cognato Dante, di conquistarsi quei diritti che fino ad allora erano stati negati dalla borghesia, quella libertà negata per comodo, i diritti di persone libere che possono scegliere con il proprio voto i loro rappresentanti al parlamento.

Oggi questo diritto sembra non avere più peso e per chi come me ha conosciuto storie e vissuto la negazione di espressione sembra un’offesa verso chi, come mio nonno, combatté per quei diritti.

Insieme a suo cognato decise di imparare a leggere e a scrivere correttamente, di andare a scuola, e siccome ormai erano persone adulte e la scuola dell’obbligo era solo un sogno (non esisteva), decisero di appoggiarsi ad un convento di frati Cappuccini. Non so di preciso quale fosse il convento dove andarono, ma tenendo conto che tutti e due erano di Foiano della Chiana in provincia di Arezzo e che il podere che lavoravano era sul versante senese, penso siano andati a quello di Sinalunga, in provincia di Siena, essendo il più vicino.

Anche i frati avevano il loro da fare a sbarcare il

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lunario. Il frate cercatore si faceva vedere spesso dai contadini, perché ad ogni raccolto provvedeva alle scorte alimentari da portare nel convento, e il fieno per i cavalli, che erano per i frati l’unico mezzo di trasporto.

I cappuccini dovevano sempre essere buoni amici con i contadini, perché essi contribuivano notevolmente al loro sostegno. Probabilmente mio nonno riuscì così a trovare un accordo con il frate cercatore2 per andare a scuola da loro.

Mio nonno e mio prozio Dante andavano a scuola a piedi, di notte, perché di giorno dovevano lavorare nei campi e accudire il bestiame, e perché la notte nasconde. Se il proprietario del podere che lavoravano avesse saputo che andavano a scuola, di sicuro lo avrebbe impedito. Mio nonno e mio prozio percorrevano 20 km circa a piedi, per andare e tornare dal convento dove si svolgevano le lezioni.

Che sacrificio facevano per andare a imparare a leggere e scrivere!

A quei tempi la scuola era diversa e inoltre loro frequentavano in segreto la scuola, non erano legati ad alcuni esami.

Quando poterono dimostrare di saper leggere e scrivere raggiunsero il loro obbiettivo: finalmente potevano votare.

Per loro essere riusciti a frequentare la scuola in questo modo era già molto, penso che non sfiorò loro neanche l’idea di conseguire degli studi ufficiali e riconosciuti, data la mole di lavoro che dovevano fare, la mancanza di tempo e di denaro.

Il nonno, dopo aver imparato a leggere e scrivere e far di conto, andò alle adunanze politiche e sindacali, leggeva alla gente le notizie riportate dai giornali in modo da tenere

2 Il frate cercatore era una figura del convento che girava con il legno (calesse)

nelle campagne aretine e senesi con funzioni di raccolta di derrate alimentari

per il convento e per il cavallo e portavano importanti notizie.

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informata la categoria dei mezzadri. Mi spiegava che faceva fatica a farsi capire come

procedevano le idee della politica alle persone con poca abilità di apprendimento.

Ma soprattutto con le persone intimorite dalle novità che portava che consideravano stravaganti e assurde, perché sottomessi dal potere e dalla loro ignoranza.

L'ingiustizia che più di tutti tormentava mio nonno era la possibilità di votare.

Per mio nonno il desiderio fu esaudito un po’ troppo tardi: 20 anni dopo le leggi fasciste soppressero anche quelle libertà di scelta.

Il desiderio di una società socialista

Fin da giovane mio nonno ebbe idee socialiste e appena si formò il Partito Socialista all’inizio del secolo, ne entrò a far parte, ma con il tempo, essendo militante attivo, non condivise le “nuove” idee e il cambio di programma politico portate da Mussolini, tanto fu che le sue idee si ritrovarono in quelle del PCI e nel 1921 aderì al Partito Comunista tesserandosi tra i primi 50 membri della sezione del PCI di Foiano della Chiana.

Foiano è sempre stato un punto di riferimento per i paesi confinanti. La gente del paese era attiva sia dal punto di vista lavorativo che da quello politico, infatti gli abitanti avevano idee legate alla sinistra.

A Foiano della Chiana il Comune era amministrato da una giunta rossa, aveva già cooperative, società di mutuo soccorso e sedi sindacali.

Tutte queste organizzazioni furono prese di mira dal fascismo e da lì iniziarono le incursioni dei fanatici fascisti; nessuno li conosceva, venivano da Firenze, Siena, dal

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Valdarno e da altre parti d’Italia. Renzino è il nome di una frazione del comune di Foiano

della Chiana, qui si svolse un avvenimento in quel periodo contro la furia fascista. Infatti i fascisti cominciarono a scorrazzare per le strade del paese, prendendo di mira e devastando le sedi sindacali di partito e le cooperative, il municipio, bruciando fogli che erano nella stanza del Sindaco, nella ragioneria ecc. chiedendo le dimissioni della giunta.

Si racconta che in quel periodo furono aperte le porte delle carceri nel Valdarno, e i prigionieri si unirono ai fascisti. Così nacquero le squadre fasciste.

Un gruppo di abitanti di Foiano della Chiana, stufi di quei soprusi, si unirono per realizzare un’imboscata. I gruppi fascisti lasciarono Arezzo e vennero a Foiano a bordo di camion e motociclette. Così la sera del 12 Aprile1921 gli abitanti volontari li aspettarono nella frazione di Renzino dietro una siepe in prossimità di un’abitazione e al passaggio dell’autocolonna fascista, incominciarono a sparare ammazzandone 3 e ferendone altri. L'imboscata fallì.

Chi aveva sparato probabilmente lo aveva fatto per la prima volta, oppure furono presi dal panico e, senza badare dove andavano i proiettili, non spararono all’autista, ma spararono ai primi che ebbero sotto tiro, facendo ribaltare il camion.

Allora i fascisti rimasti illesi chiamarono subito i rinforzi che giunsero a Renzino poco dopo e iniziarono a sparare all’impazzata uccidendo 4 o 6 persone e gran parte del bestiame, incendiando aie e abitazioni lì vicino; anche mio nonno fu picchiato a sangue benché avesse affermato che lui di quella imboscata non ne sapeva niente.

Il giorno dopo, e per lungo tempo, anche il centro cittadino di Foiano venne invaso dai fascisti: si dice che

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provenissero da altre province e che tutte le persone che erano di orientamento politico di sinistra venissero segnalate e picchiate. In quel frangente anche il nonno Attilio fu picchiato: allora le notizie non correvano veloci, occorreva una staffetta in bicicletta perché viaggiassero in fretta.

Mio nonno andò in paese all’insaputa dell’accaduto e non poté fare nulla quando alcuni fanatici gli si avvicinarono in gruppo e lo assalirono in un luogo isolato. Questi fecero a gara a chi picchiava più forte, senza dare al nonno neanche l’opportunità di poter chiedere aiuto, solo contro tanti.

Ma la stessa azione punitiva capitò a tanti altri uomini che come Attilio non sapevano neppure il motivo dell’accaduto. Mi ha sempre raccontato che ci furono anche tanti arrestati fra la popolazione foianese: i carabinieri, dopo aver lasciato i fascisti fare scorribande per le vie del paese, devastando tutto ciò che gli capitava e picchiando tutti coloro che erano segnalati come appartenenti alla sinistra, si diedero molto da fare per individuare i colpevoli dell’imboscata.

Ovviamente le forze dell’ordine stavano dalla parte dei fascisti e non certo del popolo che, pian piano, stava prendendo coscienza di sé e del proprio potere.

Furono molti gli uomini che vennero processati e condannati a diversi anni di carcere; ma tante di quelle persone al processo non ci arrivarono nemmeno: avevano preso talmente tante botte che morirono prima che il processo, fissato per l’inverno del ’24, fosse celebrato.

Io ho avuto il piacere di aver conosciuto una delle persone processate: Gagliano Gervasi accusato di essere l’organizzatore di quel gruppo d’assalto alla colonna fascista a Renzino, per cui fu condannato a oltre 20 anni di carcere, che poi furono ridotti a 12.

Faceva il falegname, ma dopo che uscì dal carcere con

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le prime elezioni politiche venne eletto senatore della repubblica per il PCI.

Mio padre spesso andava a trovarlo, e continuò anche dopo la “liberazione”. Per lui era un grande maestro.

Quando tornai di casa ad Agliana, ritrovai molti che come me erano immigrati da Arezzo, ci conoscevamo quasi tutti.

Tra i tanti c’era un certo Sarri, ma lo conoscevamo come Pacini. Mio padre lo conosceva bene e tutti a Foiano si ricordavano della sua famiglia per l’imboscata ai fascisti nella frazione di Renzino; una delle case che furono incendiate lì vicino e messe in rovina era la loro, e nell’accaduto uno dei suoi familiari morì affogato nel canale della Chiana, per sfuggire ai fascisti.

Il fatto è rimasto nella mente di molti provocando sdegno verso gli esecutori ma anche verso i mandanti di quella guerriglia fascista (quei fanatici e chi li mandò) dove venne coinvolta tanta gente senza colpa3:

Il Nonno dopo la prima guerra mondiale (1915-18), dopo aver lottato contro l’avvento del fascio, dopo essersi iscritto al PCI e aver manifestato in piazza le sue idee, finalmente nelle elezioni del 6 Aprile 1924 trovò, dopo tanti anni, il piacere, la soddisfazione di poter essere stato chiamato al voto per diritto.

Mio nonno votò la seconda lista, il partito socialista; purtroppo però quelli erano anni in cui il fascismo voleva conquistare il potere con la forza, e di lì a poco Attilio avrebbe sperimentato la sua violenza.

Il voto non fu segreto perché venne intercettato dai componenti del seggio, e avendo votato l’avversario politico 3 Giuliano Tomassini, “Foiano della Chiana: un paese toscano fra età

Giolittiana e Fascismo in Foiano 1922-1932”; Enzo Gradassi “Una la pensa il

gatto e una il topo”; Gagliano Gervasi “Da Renzino al Parlamento”, ANPI

Foiano della chiana.

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al regime fascista, i così detti “picchiatori” lo picchiarono a morte appena fuori dal seggio, riconoscendolo dal segno con il gesso dietro le spalle che gli avevano fatto al momento del voto.

Questo accadde a molte persone anche fuori Toscana.

Dante lottava per otto ore di lavoro

Il mio prozio Dante era un operaio agricolo, era uno di quei tanti che andavano a vangare i campi: allora gli operai lavoravano “da sole a sole” (e anche in qualche fabbrica) come si diceva a quei tempi, cioè dall’alba al tramonto.

Siccome il terreno si lavorava molto nel periodo estivo le ore lavorative dovevano essere tante. Allora si lavorava tutto a mano e con la vanga ; la coltre e l'aratro trainato dal bestiame per molti era ancora un sogno.

Per Dante fu tutta un’altra storia avendo un rapporto più stretto con gli operai e i braccianti agricoli. Essendo dalle parti del cortonese, il suo lavoro si svolgeva nelle campagne della Val di Chiana.

Allora si lavorava tutto a mano e con la vanga; la coltre non esisteva. Gli operai erano più organizzati rispetto ai contadini (che comunque nel cortonese risentivano delle influenze sindacali della città) tanto che le loro organizzazioni sindacali, quelle più rappresentative, con l’inizio del secolo avevano compiuto tutte 100 anni, come i contadini e gli operai.

Agli inizi del 1900 le zone che erano un punto di riferimento sindacale erano quelle degli operai minatori del monte Amiata, i “pionieri” che in qualche caso erano riusciti a portare la giornata lavorativa ad otto ore. Così raccontava a dei braccianti agricoli della Valpadana e di altre zone di Italia.

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Nei campi le cose purtroppo non andavano così, era più difficile far capire ai contadini le idee giuste che predicavano i sindacati. Dante nelle aie dei contadini spiegava di non lavorare dall’alba al tramonto, ma di lavorare per riconoscere parità di diritti e un lavoro più giusto.

Dante mi raccontava sempre un fatto, un po’ strano per i nostri tempi; diceva: “Una domenica mattina nella chiesa del mio paese, il parroco, nel fare l’omelia domenicale, chiamò a raccolta i parrocchiani e diceva loro di non tener conto di quello che diceva Dante Biribò, perché era impossibile lavorare solo otto ore al giorno. Mentre il parroco argomentava l’omelia appuntai sulla carta tutti quei discorsi e, alla fine della messa, andai verso il sacerdote rimproverandolo di quanto aveva affermato”. Forse Dante usò anche parole non appropriate esprimendogli tutta la sua rabbia, si capiva quando lo raccontava. Allora il Parroco intimorito aizzò il popolo contro Dante che fu costretto a far “fagotto” e partire per evitare il linciaggio.

Dopo aver vagato in qua e in là forse andò da qualche conoscente a Genova, ma dovette comunque girare per la città in cerca di un nuovo lavoro. Trovò da lavorare come “ammazzachenie” (o almeno così chiamava lui in genovese, il lavoro del manovale in un'impresa edile).

Ma sapendo leggere e scrivere, in breve tempo trovò un nuovo impiego come tranviere; subito la vita di Dante cambiò, da vangare quelle terre a Cortona, sia aride che umide, si ritrovò ben vestito, ben retribuito e soprattutto ben considerato.

Dopo tanti anni il prozio tornò a Cortona ancora con la paura del linciaggio. Entrato in paese si vide subito osservato con sospetto o, comunque, in modo strano e credette così di essere stato riconosciuto e bello che finito. Ma mentre lui nel tornare nel proprio paese di origine rivedeva le

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solite campagne, le solite abitudini e i medesimi personaggi di quando scappò, tutti gli altri vedevano un uomo distinto, ben vestito, di carattere, senza calli nelle mani, e con un accento genovese ben marcato. Uno sconosciuto. Lui d’altro canto, si accorse che nessuno lo aveva riconosciuto solo quando giunse dal pizzicagnolo e dato che in genovese non lo capivano, si fece riconoscere di proposito parlando in dialetto cortonese chiedendo da mangiare.

Dante rimase sempre con le sue idee e i suoi ideali, per un migliore tenore di vita e per una giusta uguaglianza. Il mio prozio veniva spesso a trovarci e con mio padre facevano lunghe conversazioni sul tempo passato, e della sua vita a lottare per raggiungere obbiettivi politici sociali. Mi ricordo bene quando mi promise di regalarmi il suo orologio da tranviere, che teneva nel taschino della giacca, lo usava quando era in servizio e lo aveva avuto in dotazione dalla compagnia dei tram.

Dante raccontava spesso della vita e delle abitudini della città, comprese le lotte dei portuali di Genova e si capiva benissimo la differenza che c’era tra la città e la campagna, costume, moda e progresso e in campagna gli avvenimenti politici e sindacali arrivavano più tardi che nelle città. Quando parlava in quel modo semplice faceva in modo di rispecchiare anche i suoi stati d’animo e pensieri facendo capire benissimo quello che intendeva spiegare. Rimase molto dispiaciuto per gli abitanti di Cortona: quando predicava la giornata lavorativa di otto ore, l’uguaglianza, la giustizia, i contadini si ribellavano, forse perché non capivano quello che gli diceva, sapevano solo che dovevano lavorare “da sole a sole” con i paraocchi come i cavalli, senza alzare mai la testa: gente ignorante, poco retribuita, persone che sia d’estate che d’inverno puzzavano di sudore, senza avere comodità. Persone analfabete, povere di mente e

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Seduto a destra Dante Biribò

soprattutto che avevano paura di guardare più in là del loro naso.

Nel 1958 Dante mi venne a trovare, per l’ultima volta, ad Agliana, in via Calice n. 27 e lui era anziano, ma sempre vispo e fresco di idee, simpatico, dall’aspetto intelligente e di facile linguaggio.

Rimase ospite a casa nostra per qualche giorno e parlando spiegava che era orgoglioso delle lotte che aveva fatto per il miglioramento della vita di tutta la collettività, per la dignità della persona, insomma per una società più

giusta. Lo ascoltavo con attenzione; per me furono giorni di

scuola, ma quando gli rammentavo il parroco di quella Parrocchia della piana di Cortona4, lui non aveva

4 Si tratta della parrocchia “La Fossa del Lupo” nella piana di Cortona

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risentimento nei suoi confronti, dato che lo considerava obbediente alla chiesa, ma aveva risentimento o forse compassione verso i popolani e soprattutto verso contadini, analfabeti e tardivi di mente.

Finalmente mi regalò il suo orologio. Quando ci giunse notizia della sua morte, mi chiesi se

qualcuno avrebbe raccontato mai la sua storia, perché quando qualcuno muore porta con sé tante storie, belle o brutte, che nessuno mai saprà, ma necessarie per riflettere.

Mio nonno Attilio morì prima del prozio Dante, nato e morto da contadino, benché avesse lottato e fatto le sue esperienze, come tutti i lavoratori della terra venne logorato più in fretta di chi invece poté vivere di lavori più dignitosi. Difatti i contadini erano stati più consumati e logorati a contatto con il terreno, esposti a tutte le intemperie stagionali.

Immaginiamoci per un attimo la mietitura del grano fatta con la falce a mano, sotto il sole, per diversi giorni. Che fatica! Che mal di schiena, stando curvo tutto il giorno con la falce in pugno!.

Da ragazzo guardavo passare i montanini di Palazzo del Pero e altre zone che dalla montagna umbra andavano, in bicicletta, verso la Maremma Senese per fare la stagione di mietitura; erano freschi, qualcuno allegro perché andava per fare qualche soldo e altri invece, erano di molto seri perché obbligati ad andare in Maremma sotto il torrido sole, dalla fame, per il sostentamento della famiglia.

Tornavano dopo la stagione di mietitura, abbronzati, dimagriti e stanchi. Anche là in Maremma la terra era fitta e scomoda.

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Anche mio nonno durante la sua giovinezza ha vangato tanta terra, ha preso tanto sole, ha tagliato tanto grano ed è stato tanto utile alla gente.

Mi sembra ancora di rivederle quelle domeniche quando mio padre riportava a casa il giornale “l’Unità” per il nonno: stava tutto il pomeriggio vicino alla finestra a leggere fino all’ultima parola.

Attilio era un ottimo parlatore, convincente, aperto a tutti, soltanto non sopportava l’ignoranza e gli egoisti.

Lo chiamavano il “Dottore”, mai per nome, forse anche perché si intendeva molto delle malattie delle bestie vaccine. Molti contadini, a quei tempi, venivano fino a casa per chiedere consiglio, era più comodo consultare lui, era pratico, rispetto a un veterinario. Uno dei motivi più logici era il denaro che serviva per pagare il professionista, l’altro era che le case coloniche erano lontane dal paese e quindi dai servizi. Chiamare il veterinario qualche volta era un’impresa per la lontananza, servivano ore di bicicletta o di cavallo per riuscire a trovare un accordo.

I contadini che stavano nelle nostre vicinanze chiamavano mio nonno, soprattutto se una bestia doveva partorire, in quel caso ci volevano molte ore, a volte anche nottate intere serviva per facilitare il parto, e non far soffrire

Il nonno Attilio Dominici

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tanto l’animale che doveva nascere, non sempre il nascituro era nella giusta posizione, a volte nasceva malformato o addirittura morto. Quindi era fondamentale mettere l’animale nella posizione giusta per facilitare la nascita.

Come per tutti i mammiferi, doveva venire fuori prima la testa poi il resto del corpo, i primi a venir fuori nell’animale sono gli zoccoli delle zampe anteriori, una volta visti, il personale li afferra e aiuta la bestia a uscire, però serviva stare attenti a non deformare l’animale.

Il nonno era molto esperto ed io ho assistito più volte a questi eventi.

Il nonno Attilio aveva molto rancore verso i preti, verso tutto il mondo cattolico e verso quanti professavano una politica diversa dalla sua.

Diceva che la chiesa ha fatto sempre politica di parte contro i lavoratori. Io l’ho capito dopo. Quando ho conosciuto i motivi del fallimento di quelle “Banche dei preti”: erano casse rurali, create, dirette e sorrette dal clero, e fallirono quasi tutte dal 1927 al 1936 per volontà del regime fascista.

Il Ministero del tesoro fu ostile al loro prolificare in quanto destinate al risparmio e all’aiuto ai contadini, o comunque al mondo rurale. Questo fallimento fu quasi totale in Val di Chiana, anche mio nonno aveva depositato lì i suoi risparmi. Si ritrovò senza soldi, e come lui tanti altri. Per quel fatto portò il nodo alla gola senza avere il potere di reagire. C’è da immaginarsi quando tutti i contadini si ritrovavano in paese, al mercato settimanale: quante sparate venivano fatte contro i preti e la loro politica, forse ignari dei motivi di quei fallimenti.

Mio nonno portò questo odio verso il clero fino alla morte; ma non dal lato umano, tanto era che con il parroco e con i frati cappuccini aveva buoni rapporti.

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Infatti le sere d’estate si ritrovava davanti al sagrato a veglia, come usava a quei tempi, con un gruppetto di persone e il Parroco che teneva sempre testa a tutti. Qualche volta, scherzando sul futuro della vita, il nonno ripeteva al Parroco che al momento del suo decesso avrebbe dovuto seguirlo dietro il carro assieme agli amici, non davanti con la croce, al suo posto voleva la bandiera rossa del PCI, della sua sezione, il resto non gli interessava. Al funerale era presente tutto il paese tranne il parroco, e anche se lui se ne andò in silenzio, come mio prozio, se ne andò un pezzo di storia che nessuno saprà mai.

Anche il suo funerale non farà più “storia”. Ricordo molto bene quando partì il feretro da casa, fu portato a spalla dai suoi “compagni” volontari, alla presenza di tante persone, che pian piano si allungarono in una lunga fila nel percorrere quel lungo tragitto di oltre quattro chilometri per giungere al cimitero.

Si formò un lungo serpentone per quella strada in salita gonfia di gente, e di fiori rossi; ad aprire il corteo c’era un suo caro compagno che al vento faceva sventolare la grande bandiera rossa con il simbolo del partito, come Attilio aveva desiderato in vita.

Ricorderò sempre Attilio e Dante e tutti i loro racconti che mi hanno insegnato a crescere ed a essere quello che sono.

Capivo lo spirito di lotta, l’essere partecipe con i sindacati e i partiti. Aderii ai Pionieri, poi in seguito alla FGCI, Federazione Giovani Comunisti Italiani; fu una scelta sentita, e con gli amici parlavo molto di politica e dicevo loro che gli ideali vanno coltivati.

Quale risultato poteva esserci anche se ormai erano passati tanti anni da quando mio nonno, e poi mio padre, insegnavano e spiegavano alle persone.

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Il problema era che la gente era rimasta quella di una volta, ignorante e ottusa, senza istruzione.

Da giovane mi chiedevo il perché avessi una mentalità più aperta.

Pensavo in maniera diversa rispetto ai miei coetanei. Dopo la guerra e per molti anni c’era tanto da

ricostruire e per fortuna i giovani come me avevano tanta speranza e forza per migliorare. Più tardi mi resi conto del motivo della mia partecipazione: lo spirito di lotta mi era entrato dentro.

Leggendo i libri di Antonio Gramsci mi sono riconosciuto nei suoi scritti, infatti in una lettera dal carcere inviata alla moglie5, spiegava che era giunto il momento di dire ai figli, di 6 e 8 anni, dove era il loro babbo, avevano l’età giusta per capire. La moglie di Gramsci non condivideva troppo quella sua richiesta, ma Antonio faceva l’esempio della Comunione e della Cresima, in ambito cristiano, i bambini capivano quello che gli succedeva e lo ricordavano nel tempo, ed è vero i ricordi di quel periodo mi sono rimasti tutti nella memoria, e ancora oggi li coltivo.

Quando il mio povero nonno venne a mancare ero un ragazzo, e quei pochi anni vissuti insieme a lui mi sono bastati per capire che era un grande maestro di vita, e sentivo che anche lui mi voleva molto bene. Cercava di farmi capire la vita che stavo affrontando; mi faceva conoscere il mestiere del contadino. Contadini si nasce, ed io provengo da una famiglia contadina quindi dovevo imparare presto a lavorare il terreno.

A quei tempi non vi erano molte scelte lavorative: o si faceva il contadino, mangiando i frutti dell’orto, o l’operaio che, qualche volta aveva lo svantaggio di saltare qualche

5 Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. A. Gramsci in carcere, condannato

dal regime fascista

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pasto; gli operai per non saltare il pasto andavano spesso in campagna per aiutare i contadini, in cambio di un pezzo di pane e un po’ di minestra di pane fatta con cavolo e fagioli, e quando andava bene portavano a casa qualche patata o qualche ciocca d’uva per la famiglia. La miseria era tanta e si “affettava con il coltello”.

Durante il periodo di guerra vi era scarsità nei raccolti e in poco tempo la miseria si diffuse ovunque, vi erano le tessere per ritirare gli alimenti, ma non bastavano mai. Gli abitanti del paese erano in condizioni ancora peggiori di quelli della campagna, dove si poteva raccogliere qualcosa negli orti.

Nelle città nacquero i mercati neri e il contrabbando: mangiava chi aveva i soldi. Mio nonno mi diceva di essere accorto nell’uso del cibo e di non abbondare come si fa da giovani, e così mi raccontava spesso di un certo Busisi, che aveva un piccolo podere nelle campagne vicino a dove stava lui, nella provincia di Arezzo; durante il periodo di miseria fu costretto a venderlo e a fare il contadino e il mezzadro, e diceva sempre per scherzare: “Non fare come il Busisi, che non aveva il padrone e se lo fece”.

Attilio mi raccomandava sempre di fare quello che mi competeva senza mai delegare nessuno, nella vita si deve essere sempre svegli ed energici. Diceva di non fare come il cavallo di Cipicchione “che mosse il trotto da vecchio” perché era un vagabondo, e poi da vecchio si mise a lavorare”.

Quando il nonno morì avevo 14 anni e tutto quello che mi ha detto non lo scorderò mai.

Si raccomandava sempre di non dichiararmi povero, perché altrimenti sarei stato considerato anche un coglione. Diceva: “Povero e coglione non ti fare mai!”. Portava tanto rancore per i poveri che non erano mai riusciti a capirlo nel

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suo periodo di lotta per migliorare la società. Il povero ha poche idee e il comportamento scorretto, e non capisce nemmeno quello che gli capita il giorno dopo.

Le persone più avanzate riuscivano in un modo o nell’altro a portare a casa un lunario migliore degli altri, sapevano stare nella società, stando in conversazione.

Durante il periodo fascista, raccontava il nonno, che vi erano molte privazioni, come la libertà di parola, di aggregazione, di lotta, e tutte le libertà immaginabili.

Dopo la seconda guerra mondiale con il ritorno della libertà e la venuta della democrazia costituzionale, ci fu bisogno di riunirsi in forze politiche, sindacali, per ottenere una vita migliore, nelle campagne trovando nuovi patti mezzadrili, e con posti di lavoro nelle fabbriche e nella ricostruzione della città. Tuttavia chi dirigeva, chi doveva fare opere di persuasione si doveva scontrare sempre con coloro che non riuscivano a vedere più in là del proprio naso.

Tutti questi avvenimenti per me sono tutti insegnamenti e ricordi che porterò sempre nel mio cuore e nella mia vita.

Mio nonno faceva il contadino a un noto giornalista del giornale “Il Popolo D’Italia” organo del partito fascista che seguiva Mussolini prima e durante le campagne di guerra in Italia e all’estero.

Era il signor Lido Caiani, sempre zelante e ben vestito, così raccontavano i miei genitori aveva una bella macchina a disposizione, ma finita la guerra chiuse il giornale, smise la sua professione di giornalista e fu costretto a dedicarsi ai suoi tre poderi, subendo anche delle umiliazioni per aver militato in un regime sconfitto, i suoi contadini erano di un altro ideale, lottavano contro.

Un giorno il nonno si prese a parole molto brutte con l’ex giornalista, perché avevano idee politiche diverse, e

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nell’aia si accese una forte discussione che durò a lungo. Il nonno ormai anziano non aveva il linguaggio del commendatore ex giornalista e in risposta a una frase, che non so bene riportarvi, comunque offensiva, il Nonno gli disse: “Si ricordi signor commendatore che mi sono tolto la fame con la ciaccia (focaccia) di farina di granturco io e la mia famiglia”.

Io dal terrazzo della casa a sentire il mio nonno discutere apertamente con tanta rabbia, gli urlai di non parlare in quella maniera, altrimenti sarebbe passato da povero, cosa che mi rimproverava sempre.

Tra i ricordi di cui il nonno non amava parlare vi era quello di quando fu preso prigioniero nel giugno del 1944. I tedeschi fecero un rastrellamento e catturarono tutti gli uomini della zona, sia giovani che anziani, e li misero tutti in fila puntando loro la mitragliatrice e minacciandoli di fucilarli tutti.

Furono le donne, con i bambini in braccio, che chiesero pietà.

Con i tedeschi c’erano gli squadristi fascisti che conoscevano i comunisti da maltrattare, per impedire loro di organizzarsi nella lotta di resistenza, molto attiva in quella zona.

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Al mio caro nonno…

Resistenza

Ci conoscemmo nella Resistenza per lungo tempo abbiamo camminato insieme. Un giorno mi fermai a guardare l'orizzonte. I miei compagni mi lasciarono solo e solitario ancora sono compagno, come te nonno.

Marino Baroncelli (1963)

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Mio Padre

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Mio padre Igino nacque il 18 Novembre del 1908, da

genitori contadini; andò a scuola fino alla 6a classe ed era molto bravo.

Per un figlio di un contadino era un fatto raro: un ragazzo della sua età era più utile nel lavoro dei campi che a scuola. Era così bravo che dava ripetizione di varie materie ad alcuni studenti che erano in difficoltà nello studio.

Con i soldi guadagnati con le ripetizioni, riuscì a pagarsi la scuola di musica: imparò a suonare la chitarra e a cantare.

Come accade spesso a tutti i giovani musicisti, formò una band, che crebbe con il tempo.

Riuscì a rimanere nella band fino a quando gli morì la prima figlia nel 1936, Marisa, a causa di una grave infezione provocata da una puntura di insetto.

Quando con mia madre raccontava quel triste evento, mostrava di sentire ancora la mancanza di quella figlia scomparsa così in fretta e in tenera età.

All’epoca non avevano ancora a disposizione nessun

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tipo di antibiotico: sarebbe venuto in uso circa dieci anni dopo.

Ricordo che quando andavo a scuola gli insegnanti erano molto impegnati per la raccolta dei fondi necessari per la ricerca sulla penicillina. Ci facevano comprare delle cartoline da inviare a parenti e amici. Lo scopo era di far conoscere a noi ragazzi e al popolo l'importanza di quel risultato e prepararci a una educazione diversa verso le malattie nuove che sarebbero venute con la guerra.

Subito dopo la guerra, le malattie infatti proliferarono. Specialmente nelle campagne dove la popolazione era priva

di servizi igienici e di acqua potabile.

La morte della figlia coincise in mio padre con la conclusione della sua carriera musicale che si “celebrò” quando suonò per l’ultima volta su un carro folcloristico ma-scherato, durante la sfilata dei carri di Viareggio del 1936, con il gruppo folkloristico della “Maggiolata Lu-cignanese”.

Prima che ciò accadesse, con la sua band il babbo

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andava spesso a suonare ad Arezzo, nei circoli fascisti, perché solo in quelli venivano fatte feste importanti, come il veglione di fine anno, le feste di carnevale e svariati compleanni: vi ricevevano buoni compensi.

Per un veglione di fine anno, i fascisti, per salutare l’anno nuovo, iniziarono cantando “Giovinezza”, ma mio padre con i suoi colleghi continuarono con grande coraggio la serata cantando “Bandiera Rossa”.

Così, in maniera ironica, le persone che erano sedute nei primi tavoli davanti al palcoscenico, esclamarono: “Se si sapesse che qui in sala ci sono dei comunisti succederebbe baldoria”.

Una volta presa casa ad Agliana, mio padre e altre persone provenienti dalla Valdichiana, (tra loro c’era anche il Fei, il fisarmonicista della band di mio padre) ci ritrovavamo spesso nel giardino di casa mia, perché il babbo, per problemi di cecità, non poteva spostarsi. Tutti seduti intorno al tavolo si raccontavano le vicende passate e quando raccontavano la storia dei circoli fascisti e di quell'ultimo dell’anno, la mamma, che era presente assieme ad altre donne, rabbrividiva al pensiero e al ricordo di quella festa.

Mio padre e i suoi amici in Valdichiana si spostavano da un paese all’altro per suonare. Con le loro biciclette potevano fare anche trenta chilometri all’andata e trenta al ritorno. Frequentavano molto la città e il motivo per cui sopportavano tale fatica era la grande passione per la musica, per gli strumenti e per l’idea di libertà che essi comportavano. Il babbo raccontava che aveva frequentato la città e suonato davanti ad un certo tipo di pubblico, per cui notava la differenza abissale che divideva il mondo cittadino da quello contadino. Il contadino frequentava il dopo lavoro. La sala da ballo era una balera con delle panche di legno ai lati della stanza e molti cappotti appesi agli

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attaccapanni sistemati alle pareti per le tante persone che la frequentavano. Nei circoli fascisti invece c'erano i tavoli i guarda roba e tanta eleganza.

La passione per gli strumenti la coltivò fino agli ultimi anni di vita, suonando una piccola fisarmonica. In realtà la fisarmonica l'aveva comprata per mio fratello Libero, ma dato che lui non ne voleva sapere di imparare a suonare, mio padre la tenne per sé. Siccome era privo di vista, imparò a suonarla ad orecchio. Era il mio divertimento.

Credeva (e lottava) per una società socialista

Per i contadini, durante il periodo fascista, i luoghi di ritrovo non clandestini erano le stalle, quando partoriva una mucca, perché per il parto ci voleva molto tempo e in genere si svolgeva di notte. Così gli uomini che assistevano al parto potevano parlare e organizzarsi come volevano per combattere il regime fascista.

Istruivano i più giovani a rifiutare il servizio militare e condannavano chi si arruolava come volontario.

I partiti politici si stavano organizzando e qualche volta per divulgare le notizie si doveva aspettare che partorisse una bestia.

I proprietari dei terreni, che avevano il titolo di conte, marchese, cavaliere, ecc., legati al regime fascista e appartenenti a quel partito, vigilavano sui contadini in modo da non farli organizzare. Le squadre fasciste erano sempre presenti e pronte a punire chi esprimeva opinioni diverse dalle regole fasciste; commettevano atti vandalici, picchiavano, danneggiavano tutto quello che apparteneva agli antifascisti e spesso sequestravano anche il raccolto.

Il babbo era molto energico, sapeva parlare in modo chiaro ed educato, era una persona sincera, onesta e ben

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presto divenne attivista del partito comunista, anche se era un fuorilegge.

Poi venne la guerra che portò la miseria per tutti e in tutta Italia; con la dittatura, chi ne faceva le spese erano i contadini e gli operai.

Con l’uso della tessera “per generi alimentari”, dal bottegaio, di spesa ne facevano poca, prendevano pochi viveri e per aderire al mercato nero, molto redditizio in quei periodi, i soldi non c’erano e anche coloro che ne avevano, non potevano usarli per mancanza di prodotti alimentari. Si doveva ricorrere comunque alla tessera per poter avere zucchero, sale, latte, pasta…

Per me invece la tessera non c'era, ero esonerato. Essendo nato nel 1937, in piena stagione Fascista, i miei genitori erano mezzadri del Commendator Lido Caiani, un gerarca. La nascita di un maschio era una garanzia per il podere. Volle essere il protagonista del mio battesimo.

I proprietari dei terreni prendevano la metà del raccolto dei loro contadini, così era la legge. E se la parte spettante al contadino era troppo poca rispetto al fabbisogno della famiglia questa avrebbe patito la fame. I contadini non avevano grano sufficiente per ricavarne la farina per produrre il pane necessario per vivere.

Così accadde anche alla mia famiglia. In tempo di crisi come fu durante la guerra, non ci toglievano solo il grano, ma anche molti altri prodotti.

In quei giorni conoscemmo la fame. La mancanza di istruzione fra i contadini, unita alla

legge sui patti mezzadrili che li penalizzavano, li teneva sempre schiavi del sistema. Forse, se in quel periodo un contadino avesse avuto l’opportunità di frequentare una scuola per imparare a capire ciò che gli spettava, probabilmente non si sarebbero viste tante persone nella

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miseria più nera. Avrebbe avuto maggiore conoscenza della realtà per far valere i propri diritti, un linguaggio diverso e più ricco attraverso il quale farsi intendere e affermare la propria persona.

Mio padre con altri suoi amici simpatizzanti Socialisti, in paese, diedero vita al Partito Comunista e ad un Comitato di Liberazione collegato a quello Nazionale, che si doveva occupare di difendersi dal regime Fascista.

Lottò con i Partigiani, li aiutava nel cercare le armi che servivano e gli procurava scorte alimentari. Ricordo ancora quei giovani partigiani che mio padre nascondeva nella nostra casa; arrivavano di notte con in spalla la loro arma, mangiavano in fretta un piatto di minestra con pane e fagioli, che la mamma gli preparava, riempivano il pesante zaino di provviste e ripartivano per il bosco. Non ricordo molto bene che dicevano i partigiani, ero troppo piccolo, ma ricordo molto bene i loro moschetti e le mitragliette che appoggiavano in un angolo della stanza, dietro la porta

Si battezza Virgilio Dominici – Un figlio maschio è una garanzia per il futuro

del podere... e braccia per la guerra.

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dell’ingresso. Gli ultimi anni di guerra siamo stati messi tutti a dura

prova, per le ingiustizie, la miseria e la violenza che la gente subiva.

In quel periodo i partiti antifascisti si riorganizzarono ovunque, e mio padre contribuì attivamente a riorganizzare il Partito Comunista a Lucignano di cui continuò ad essere dirigente e punto di riferimento per i suoi concittadini.

In paese mio padre, chiamò i più attivi per formare il Comitato di Liberazione.

Bisognava riunirsi più spesso; così gli attivisti del comitato si ritrovavano quando le persone erano a pranzo o quando si riposavano durante il giorno. Ricordo che mio padre e gli altri si ritrovavano vicino al bosco, sotto ad un grande albero, per non farsi vedere dall’alto, ma erano ben visibili da casa nostra, e io li osservavo spesso mentre discutevano le strategie di lotta. Avevano poco tempo per discutere e dovevano stare attenti a non essere visti.

Mia madre, dal terrazzo di casa, faceva da sentinella e faceva segno se qualcuno si avvicinava. Se non poteva la mamma veniva Filomena Rossi, una mia vicina di casa, componente del Comitato di Liberazione.

Doveva essere fatto tutto di nascosto e con la più completa naturalezza, in modo da non dare nell’occhio ai Tedeschi e ai fascisti.

Non bastava stare attenti ai tedeschi, bisognava stare attenti con chi si parlava, anche del proprio vicino di casa, perché poteva riferire tutto al nemico.

Per organizzare quelle riunioni il babbo scriveva un biglietto lo metteva nella mia tasca, e io lo portavo a un suo compagno, che poi lui stesso lo passava a un altro e poi con il medesimo sistema a un altro ancora.

Facevano passa parola in modo da mettersi d’accordo

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perché si riunissero. Quelle riunioni servivano ad aiutare i partigiani e a

cercare di persuadere altre persone a fargli cambiare idea politica.

Nel 1944 le camicie nere e i tedeschi si agguerrirono; cominciò la resa dei conti contro tutti e tutto, c'erano rappresaglie in continuazione. Ci furono bombardamenti ovunque, anche nelle stazioni ferroviarie dove c'erano vagoni fermi, carichi di munizioni e armi.

Un giorno giocavo in una capanna vicino casa, quando nell’aria, a bassa quota, apparve un grosso aereo che, in prossimità della stazione, sganciò due bombe. Erano molto piccole lassù in cielo: sembravano due salsicce di maiale.

Stavo attento; quando fossero cadute chissà il fragore che avrebbero fatto. Non esplosero, e a guerra finita andammo a vederle: erano molto grosse, sembrava impossibile che un aereo le potesse trasportare...

La gente allora cominciò a nascondersi e a scappare dalla città rifugiandosi nelle campagne. A casa mia si rifugiarono il capo stazione e il suo aiutante (il cantoniere) con le loro famiglie, amici da lungo tempo.

Nel mese di giugno di quell’anno, con i campi rigogliosi e il grano maturo, in uno di quei lunghi pomeriggi estivi, i soldati tedeschi, in assetto di guerra, perquisirono tutte le case della zona e arrestarono tutti gli uomini, senza distinzione d’età, tra cui mio Padre e mio nonno che era già molto anziano. Quando entrarono in casa era evidente che erano in cerca di comunisti, anche se ovviamente non l’avevano scritto in fronte, ma guarda caso quel giorno il cantoniere aveva indossato una camicia rossa.

Forse non l'aveva mai indossata prima di allora! Gli uomini della zona, che si conoscevano tutti, se non

erano iscritti al Partito Comunista, perché ancora fuori

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legge, erano simpatizzanti o comunque vicini a quell’ideale. Tutti stavano attenti nel comportarsi e nel parlare. Non sapeva dove fosse il nemico.

In casa nostra, con tutte quelle persone, c’era sempre conversazione. Quel giorno a tavola, durante l’ora di pranzo, nessuno della nostra famiglia fece caso a quelle vesti che indossava quel “cantoniere”, ma senz’altro erano un segnale.

Furono arrestati tutti gli uomini della zona, portati al comando generale tedesco e allineati in modo da poter essere fucilati. Tutte le donne, sorelle, cognate, con i bambini in braccio andarono davanti al comando tedesco a chiedere pietà per quegli uomini.

I tedeschi liberarono tutti tranne mio padre, che rimase prigioniero in una cantina, continuamente minacciato con le armi e ogni giorno gli veniva detto: “domani caput”.

Io avevo solo sette anni, ma ancora oggi non riesco a capire quella mossa tedesca.

In quella cantina non vi erano servizi igienici, non c’era acqua, non c’era niente tranne l’odore della muffa.

Mia madre tutti i giorni gli portava i viveri, e li passava da una finestra a pari terra, sotto la stretta sorveglianza tedesca che non esitava a offenderla facendogli richieste scorrette, e lei aveva molta paura e cercava sempre la compagnia di un familiare. Quando tornava a casa e riferiva le cattiverie tedesche io soffrivo molto.

Mio padre fu liberato all’insaputa di tutti; ricordo ancora quando lo vidi tornare a casa attraverso i campi.

Il babbo era molto provato, impaurito, pallido e dimagrito e passò molto tempo prima di poter ritornare alla vita di tutti i giorni.

Col passare degli anni ogni volta che raccontava la vicenda diceva: “ Io ho avuto paura dei Tedeschi”.

In quel periodo mio fratello Libero aveva due mesi.

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A tavola, durante il pranzo, il babbo talvolta raccontava come era riuscito a dare quel nome, Libero, al proprio figlio.

Mio padre si recò all’ufficio di stato civile per dichiarare la nascita del figlio, ma gli negarono la possibilità di chiamare il proprio figlio Libero perché quel nome aveva qualifiche rivoluzionarie.

Dopo aver discusso per lungo tempo, l’Ufficiale di Stato Civile andò a controllare il calendario.

Esisteva un Santo Libero e mio padre ebbe la meglio. Come e perché il cantoniere ospite a casa nostra quel

giorno si era messo la camicia rossa? Perché i Tedeschi, se erano veramente Tedeschi, cercavano di casa in casa i comunisti? Perché quel cantoniere durante il rastrellamento riuscì a scappare? Nella spiegazione che ho dato di questi avvenimenti si torna alle frasi che diceva il nonno, ma soprattutto al fatto che i fascisti della zona erano camuffati da brava gente, ed erano le spie del Paese oppure cosa peggio, poteva essere una spia anche il proprio vicino di casa, oppure un parente.

Il cantoniere, approfittando della confusione che regnava in quell’aia del contadino per la presenza delle tante donne a chiedere la liberazione dei propri mariti, si dette alla fuga nel campo di grano maturo.

Un altro prigioniero scappò via, anche se gli fu sparata una raffica di proiettili.

Il grano a quei tempi aveva gli steli molto alti e robusti; oltre che al seme per fare la farina serviva anche come paglia per fare il letto al bestiame.

In tutta questa vicenda l’unico a pagarne fu mio padre e tutta la nostra famiglia per essere stato il capofila del movimento di liberazione.

Mio fratello Libero era nato solo da due mesi quando

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avvenne il rastrellamento, ed è da immaginarsi quanto abbia sofferto mia madre.

Anche il nonno Attilio, portava molto rancore per quei militari senza pietà.

Per fortuna nel 1945 la guerra finì, e lasciò tanta tristezza nel cuore della gente, soprattutto nei contadini e nelle categorie meno adagiate, nelle loro intelligenze e nel loro animo, ma anche nei più giovani come me, che per colpa della guerra non sono potuti andare a scuola, per imparare lo stretto necessario che sarebbe servito in futuro.

Furono molti i giovani che andarono a combattere contro il regime fascista, nascosti nei boschi e, come tanti, finita la guerra, non si rividero più.

Passarono pochi giorni da quel rastrellamento erano già cambiati i destini della guerra. I partigiani erano più organizzati; in Paese coloro che sostenevano quel regime incominciarono a venire allo scoperto.

Ricordo che quando andavo a scuola c’era un uomo di una certa età, ma ancora scapolo, detto “Fanacchia”, da tutti preso in giro per i suoi modi di fare strani. Quando vedeva una persona appartenente al partito fascista comminare per la strada, si calava i pantaloni, si metteva accovacciato sul ciglio della strada con la testa volto verso i campi faceva finta di fare i bisogni e quando passava la persona interessata a alta voce diceva: “Qui mi fermo e ce la faccio per il Duce e per il Fascio”.

In quel periodo si cominciarono a vedere militari di colore. Venivano dall’Africa e da altri Stati, facevano parte dell’Esercito anglo-Americano, chiamati i “liberatori”.

Quei militari erano in “prima linea”, quelli che si dovevano confrontare con i tedeschi, per aprire la strada agli Inglesi e agli Americani che sarebbero venuti dopo.

A noi ragazzi, quando andavamo a scuola, la gente

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avversa al nuovo esercito ci impauriva dicendoci di stare attenti a quei militari perché erano “la mano nera” che portava via i ragazzi.

Poi arrivarono gli aerei inglesi e americani che volavano a bassa quota e tutta la popolazione li salutava con fazzoletti bianchi in segno di liberazione e di vittoria; era giunto il momento che il popolo respirasse con sollievo.

Quando fu liberato il paese il primo a essere cacciato dalla poltrona fu il Podestà, che controllava tutta la situazione secondo le leggi fasciste.

Gli successe un governo provvisorio, nominato dal fronte di liberazione, in attesa di libere elezioni.

Di questo Go-verno provvisorio mio padre ideal-mente ne fece parte, dandosi molto da fare per preparare le elezioni ammini-strative del 1946.

Con quelle ele-zioni furono eletti i consiglieri comunali, gli Assessori e il Sindaco. Anche mio padre fu eletto con-sigliere comunale e poi Assessore.

Si dette molto da fare per il paese e per la gente. Cercò di rafforzare il Partito dandogli una sede.

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In quei locali si riunivano tutte quelle persone che fino ad allora facevano riunioni clandestine; si ritrovavano alla luce del sole a dirigere il partito. Aiutarono anche il partito Socialista a riorganizzarsi, cedendogli una delle stanze dei loro locali e mia madre gli cucì la bandiera.

Mio nonno, mio padre e mia madre erano molto orgogliosi di partecipare alla realizzazione della nuova Repubblica Italiana.

I Segretari dei due partiti con i loro attivisti dovevano lavorare molto tra la gente, per le case, per stimolarli al voto; dicevano votare, per il Re oppure per la Repubblica.

Il Partito Comunista era il più organizzato, più impegnato e più coinvolto. Con il sindacato CGIL, che era quello predominante nel mondo contadino che guardava con simpatia i risultati della sinistra, i contadini si organizzarono anche a quei temi per rivendicare la modifica dei Patti Agrari, il miglioramento dei rapporti con le fattorie, la cancellazione degli obblighi colonici il riconoscimento dei loro diritti.

I contadini rivendicavano riconoscimenti per aver salvato e tutelato il bestiame durante la ritirata e per aver salvato i raccolti dalle angherie tedesche e fasciste, che erano soliti rubare ciò che trovavano.

Infatti i contadini avevano nascosto i raccolti: sotto il monte della legna, dentro il pagliaio, sotto terra, in buche ben profonde, ben costruite per evitare infiltrazioni d'acqua.

Il bestiame lo avevano nascosto nei rifugi costruiti sotto terra, o nel bosco dove la vegetazione era più consistente.

I rifugi erano stati costruiti in una grotta, con un grande scavo grosso come una stanza; sopra venivano messi dei grossi tronchi di albero per costruirci una “barcata” di legna, una grossa quantità di frasche legate a fastello, che poi

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sarebbero servite alle famiglie per riscaldare il forno per cuocere il pane durante l’anno.

Nel 1946, il 2 giugno, insieme alle elezioni amministrative, venne proclamato il referendum abrogativo per decidere le sorti dell’Italia, repubblica o monarchia, vinsero i sostenitori della repubblica.

Il risultato non fu quello che il popolo di sinistra voleva. Furono circa 12.790.000 Si e 10.790.000 No.

Quelle votazioni segnarono un momento storico importante; per la prima volta nella storia ebbero il diritto di voto anche le donne.

Il risultato però rimase incerto fino all’ultimo momento e divise l’Italia in due. Il meridione non rispose all’appello di chi aveva lottato per la liberazione, la maggioranza degli elettori votò per la monarchia.

Ricordo che furono fatte delle bandierine per inneggiare al risultato elettorale. Vinsero i sostenitori della repubblica.

Per la prima volta la sinistra, sui resti ideologici del fascismo che voleva mantenere il re, ebbe la meglio.

In paese molti andarono a festeggiare la vittoria cantando, ballando, sventolando bandiere rosse e tricolore, che venivano distribuite con il simbolo della repubblica.

Mio padre, prima dell’esito delle elezioni aveva portato a casa delle bandierine, con adesivi, che in caso negativo bastava togliere e appariva sotto quello della monarchia.

Dopo aver passato tempi burrascosi, in cui mancava il cibo, in cui venivano picchiati uomini onesti, ma con ideali di sinistra, in cui si veniva privati di tutte le libertà, il popolo non aveva ancora capito come si doveva votare!

Probabilmente l’Italia non era tutta uguale. A Lucignano, dove abitavo, in Val di Chiana, il popolo lo vedevo lottare per un risultato ampio e positivo; ero troppo giovane, non capivo, però vedevo la gente partecipare.

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Può darsi che altrove il popolo ancora dormisse. Mio padre lavorando in campagna come contadino,

usava tutte le sue tattiche di persuasione per poter convincere gli altri contadini.

Ere un uomo di buone parole, educato, capace di esprimersi, durante le campagne elettorali saliva sui palchi a fare comizi.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Italia fu governata da componenti dei partiti antifascisti: da quello popolare e da quello comunista.

In quel periodo ci furono esponenti politici molto attivi in tutti i partiti, per riportare l'Italia ai livelli alti. C’era bisogno di ricostruire in fretta i danni provocati dalla guerra. Ma la classe moderata che dominava il sistema politico, non voleva al governo il Partito Comunista e quello Socialista.

De Gasperi, che fu nominato Presidente del Consiglio, fu invitato in America a prendere ordini per trovare il sistema per eliminare i Partiti di sinistra dal Governo del Paese.

Il 18 aprile del 1948 furono indette le elezioni politiche. Le forze di sinistra furono molto impegnate ma ebbero scarso successo.

Con la Liberazione, in Italia, i partiti al governo erano: il Partito Popolare, poi Democrazia Cristiana, quello Comunista e Socialista, altri partiti di scarso rilievo, c'era anche l'Uomo Qualunque.

L’attività politica

Non ho parole per raccontare lo stato d’animo di quel periodo in cui la sinistra faceva di tutto per vincere le elezioni, o comunque per aggiudicarsi un buon risultato.

Ero molto giovane, partecipavo alla vita politica del

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paese, mio padre mi portava sempre con sé, gli facevo da spalla. Mi sentivo grande, partecipavo alla vita dei giovani più grandi di me.

Ero affascinato dalle canzoni rivoluzionarie che canticchiavano i giovani, non le ricordo tutte ma tra quelle che ricordo c’era una che diceva: “Truman comanda, De Gasperi obbedisce, Cippico ruba e il popolo patisce”; Truman a quei tempi era il presidente degli Stati Uniti.

Un’altra elogiava i segretari dei due partiti della sinistra, e diceva: “E’ arrivato Pietro Nenni con la falce e il martello e il libro sotto il braccio, è arrivato Palmiro Togliatti con la stella sul cappello ecc.”, dove venivano descritti i simboli dei partiti.

Infatti la falce e il martello su libro era quello Socialista, mentre quello Comunista oltre la falce e martello aveva la stella.

Il ruolo più importate in Italia era quello del clero, che con le scomuniche impartite, con i santi che parlavano e si muovevano, aveva in pugno tutta la situazione.

Si iniziò con la Madonna di Assisi, dove venne fatto un forte lavaggio di cervello, così la popolazione per la paura dell’inferno, si sottometteva ai voleri della Chiesa.

Il Papa bandì la scomunica per tutti coloro che appartenevano ai partiti di sinistra, Comunista e Socialista. Tutti i parroci dalle più piccole chiese a quelle più grandi, furono allertati per fare rispettare le regole e gli ordini del Papa. Tutti coloro che appartenevano o simpatizzavano per quei due partiti, Comunisti e i Socialisti, essendo scomunicati, non potevano ricevere la benedizione pasquale.

Furono molte le famiglie nel mio paese a non prendere la benedizione pasquale, e così fu per qualche anno, fino a quando il parroco non decise di sua spontanea volontà di benedire tutte le case. Ma qualcuno rimase sdegnato da

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quell’evento. Due fatti mi sono rimasti in mente, e ne sono

fermamente convinto, il parroco del paese, durante il periodo pasquale, andava a fare le benedizioni accompagnato dal sacrestano, che di solito non aveva né arte né parte, aveva fame e faceva quello che gli veniva suggerito.

I contadini, quando veniva il parroco, non avendo soldi, gli offrivano le uova, perché tutti i contadini avevano un pollaio e le uova non gli mancavano, mentre per il prete e il sacrestano erano fonte di guadagno. Con la scomunica e il fatto che quell’anno il raccolto era scarso, il parroco e il sacrestano sentivano proprio la mancanza di quelle uova, soprattutto il sacrestano che aveva poco e nulla da mangiare. Ricordo che ne parlavano anche alla radio; la domenica c’era una trasmissione alle 14:00, che se non sbaglio si chiamava “Il grillo canterino”, dove veniva cantata la canzone “Cornacchia di attualità” che era una canzoncina satirica, le parole erano: “viva viva la cornacchia di attualità, viva viva quel prete che la benedizione non portò a chi non la prenotò... ma le uova non l’ha prese e la frittata non ce la fa. Viva viva la cornacchia di attualità”.

Un altro fatto che ricordo bene riguarda un'accesa discussione tra l’arciprete di Lucignano e un parrocchiano, un certo Casagni.

Casagni era seduto sulle scale davanti a casa, in compagnia del suo cane lupo. L'arciprete arrivò davanti a casa dell’uomo lo salutò e gli disse “Casagni sono venuto a benedire la vostra casa”: L’uomo rispose “Chi ti ha chiamato?”. L'arciprete era rimasto un po' stupito, perché era stato accolto da tutti anche dai comunisti. Decise di cercare un dialogo, ma il Casagni non lo fece entrare in casa, quindi l'arciprete che aveva cercato amichevolmente di parlare con il parrocchiano si stufò e gli disse: “Casagni, ho

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tanti pensieri per voi” Il Casagni gli rispose che non aveva nessun pensiero lui. Forse da buon cattolico digerì male il fatto della scomunica; per lui la benedizione era un atto dovuto.

L’altro fatto capitò a mio nonno che, come tutta la famiglia, era molto amico del parroco e dei frati cappuccini che abitavano vicino casa, in particolar modo del frate cercatore che ad ogni raccolto era sempre presente a prendere la sua parte e a prendere il fieno che gli serviva per il cavallo.

Un giorno nel mese di giugno andammo con il carro, con mio babbo e mio nonno, a caricare del fieno. Il fieno era di prima tagliatura, di erba tenera; ricordo sempre il profumo, adatto per qualsiasi tipo d’animale. Per chiedere il fieno il frate passava anche dal campo quando i contadini lavoravano.

Una volta lo venne a chiedere, ne prese un po' in mano e lo annusò, poi chiese a mio padre se ne poteva prendere un poco. Mio nonno che aveva seguito tutta la scena gli rispose che se voleva far morire il cavallo ne poteva prendere quanto ne voleva, senza però dare la colpa a noi, visto che quello era terreno sconsacrato, dopo la scomunica. Allora il cercatore andò via con la coda fra le gambe esclamando: “Così per colpa della scomunica mi morirà il cavallo”.

Vennero scomunicati i comunisti e i loro figli; questi non potevano né fidanzarsi né sposarsi in chiesa. Chi non dichiarava all’altare di rinunciare al proprio ideale non si poteva sposare in chiesa.

Con la scomunica furono messi in crisi tanti futuri sposi; e famiglie intere, come successe con la prenotazione pasquale.

I sacerdoti insinuavano persino che da un matrimonio con un comunista potevano nascere figli con gli occhi e i capelli rossi.

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Prima incominciarono a muoversi i santi nelle chiese principali, poi ovunque.

Vi erano persone che stavano a pregare tutto il giorno di fronte all’altare per vedere la santa muoversi.

Anche le nostre insegnanti ci portavano in chiesa facendoci osservare i movimenti, come il battito degli occhi, il movimento della testa o della mano. Anch'io come tutti i miei compagni di classe stavo lì a guardare ad ore sperando di vedere un movimento. Tutti riuscivano a vedere qualcosa, io per quanto mi sforzarsi non riuscivo a vedere proprio niente. Allora tornavo a casa piangendo. Mia madre mi rassicurava dicendo che ci vedevo molto bene, e meglio dei miei compagni che si facevano influenzare dai discorsi della maestra.

La Madonna di Assisi non sapevo che santa fosse e come me tanti altri. Se lo chiedevo alle persone più grandi di me mi rispondevano che era la Madonna di Assisi e basta.

Questa madonna veniva portata in tutti i comuni della Valdichiana, la chiamavamo la “Madonna girellona”.

Infatti i sacerdoti organizzavano pellegrinaggi, da un paese all’altro, con uomini che trasportavano a spalla la Madonna d’Assisi per circa 10/15 chilometri durante le ore pomeridiane e notturne. Arrivati al confine di un altro paese vi erano altri uomini e un altro sacerdote che ripercorrevano la stessa distanza circa.

Al seguito del parroco vi era un gruppo di persone, in genere donne, che camminavano per le strade delle campagne illuminate dalle candele e dai tanti falò fatti di paglia e legna organizzati dalle famiglie durante il percorso religioso.

Era tutta una preghiera. La Madonna veniva portata a spalla da volontari, e il pellegrinaggio consisteva nel trasportarla dalla chiesa principale del paese fino al confine

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di un altro paese secondo i loro programmi. Al confine vi erano altre persone per proseguire il

pellegrinaggio cantando e pregando come in precedenza. La processione finiva molto tardi, dopo circa tre o più

ore di camminata; finita la cerimonia le persone poi si disperdevano nel buio della notte.

Per organizzare quel pellegrinaggio, giunsero in paese i così detti “galoppini”; venivano da altri luoghi, gente capace di organizzare. Avvicinarono tante persone, quelle della parrocchia più vicine al Sacerdote, i così detti “bacchettoni”, che in poco tempo organizzarono il programma.

Ricordo quella sera le tante persone giunte al confine del paese in attesa che giungesse la processione da Foiano della Chiana.

La Madonna giunse molto tardi in chiesa della Collegiata, a Lucignano; la strada da percorrere era tanta e in salita, giunse molto tardi, non ci fu più tempo per pregare.

Il giorno successivo, durante la sosta, gli insegnanti ci portarono tutti in Chiesa insieme a tutte le altre persone per la preghiera che si protrasse per tutto il giorno.

La processione così ripartì la sera; il parroco in testa, con canti e preghiera come la sera prima verso Monte San Savino.

I parroci furbi bene addestrati divennero i padroni della situazione, bravi a convincere il popolo. Il loro obbiettivo consisteva nel risultato elettorale con le elezioni politiche, già programmate per il 18 aprile 1948.

Mio padre da buon parlatore come era andava per le piazze a denunciare il comportamento scorretto dei sacerdoti e del clero che, nel nome del buon Dio, carpivano quella poca intelligenza che aveva il popolo.

Il babbo andava nell'aia dei contadini, nelle case a far riunioni invitando tutti alla lotta; in piazza erano sempre in

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molte persone ad ascoltare quello che diceva, lo applaudivano, era un uomo che sapeva quello che diceva.

Alcune volte si rivolgeva al popolo, alla chiesa e chi la

dirigeva, l’arciprete, per essersi prestato al gioco. Questi lo interrompeva mentre parlava e allora veniva fatto un vero e proprio “contraddittorio”, alcune volte coinvolgevano anche il pubblico che assisteva al battibecco.

Durante il giorno, all’ora di pranzo, nelle conversazioni con mio nonno, il babbo raccontava i fatti. Si aspettava un risultato elettorale negativo.

Non era Lucignano a dare quel risultato, c’era il partito forte, ma a livello nazionale era preoccupato per il lavaggio del cervello che faceva alla gente la Democrazia Cristiana, in combutta con la chiesa.

Ero ancora ragazzo, andavo a cantare gli slogan a

Igino era attivista della Federterra, il sindacato dei contadini

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favore dei comunisti insieme a ragazzi più grandi di me. Tanti sostenitori del partito erano impegnati nella

campagna elettorale. Come si usa nei piccoli paesi, ci si conosce tutti e tutti

amici, ma in politica la persona che emerge, fa amicizia con le autorità e le persone di rilievo del paese; il maresciallo, il dottore, il farmacista, il maestro, il direttore di banca, il parroco ecc. ecc..

Ricordo il clima di cordialità che c‘era in paese durante quella campagna elettorale, e in modo particolare alla vigilia delle elezioni, salutavano tutti mio padre, anche i rappresentanti dei comitati, erano tutti amici. A casa il Babbo raccontava l'accoglienza avuta alla vigilia del risultato del voto.

I socialcomunisti come previsto subirono una grande sconfitta.

Quel responso diede una mazzata tra capo e collo a tutti coloro che avevano lavorato per avere un risultato più decente. Tanti Compagni dopo quel risultato rimasero un po' lontani dal paese. Invece mio padre, nonostante tutta la rabbia che aveva, tornò in paese come se non fosse successo niente. Fece il solito percorso cercando di capire i commenti degli avversari.

Da quel giorno le persone di rilievo, il dottore, il farmacista, ecc. cercarono di evitarlo, ma mio padre vinse la loro ipocrisia andandoli a cercare per mantenere attivo il dialogo.

Comunque anche in quell’occasione la povera gente ancora non aveva capito, allora anche mio padre iniziò a pensarla come mio nonno sul fatto che gli toccherà morire e veder la gente che ancora non ha capito.

Nonostante l’esito delle elezioni, mio padre rimase responsabile del Partito Comunista, e con i suoi compagni

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che come lui avevano preso delle botte per essere antifascisti, il giorno prima delle elezioni sperava in una loro vittoria.

Le elezioni furono vinte dalla Democrazia Cristiana, ed era molto mortificante per chi aveva passato notte e giorno nelle campagne, nelle piazze e nelle case a parlare, che avesse vinto, la borghesia e la chiesa di Roma.

Essendo molto attivo nel Partito, mio padre fu invitato a dirigere la Federazione provinciale di Arezzo. Era una grossa opportunità per lui, ma purtroppo fu costretto a rifiutare perché la forte malattia che aveva agli occhi lo stava rendendo cieco.

I medici non davano grandi speranze di miglioramento. Ma la malattia non lo fermò, mio padre continuò a

viaggiare ed ad andare nelle piazze, alcune volte si faceva accompagnare da me e lì in mezzo al pubblico cercavo di capire quanto per lui fosse difficile quel momento.

Il risultato riportato dalla Democrazia Cristiana nel 1948, fu un risultato molto ambizioso, e si iniziò a riorganizzare per le elezioni del 1953.

Quel risultato del 18 Aprile del 1948 fu mal digerito dalla sinistra e da buona parte del popolo.

Alcuni intellettuali rimasero molto scontenti, e così anche dei componenti del mondo dello spettacolo. Quindi le persone non ignoranti, che sapevano leggere e scrivere, avevano capito!

Quel risultato era troppo spropositato e col tempo le conseguenze politiche si poterono evidenziare non avendo più una opposizione, come lo era il Partito Comunista.

Alla radio, in alcune trasmissioni, anche se il tempo passava, si parlava ancora di quel risultato elettorale.

Ricordo una canzone satirica, che parlava di quel risultato elettorale, chiamarono la Democrazia Cristiana il Partito dei Forchettoni, la canzone a un certo punto diceva:

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“... il Minestrone primo a Milano e molti traguardi sul veneziano...” perché la Lombardia e il Veneto furono i luoghi dove il cattolicesimo era più sentito. Anche allora chi gestiva il potere mangiava e tanti avevano già mangiato.

Infatti per assicurarsi il potere la Democrazia Cristiana in cambio del voto dava degli alimenti visto che gran parte del popolo era ancora in miseria e il cibo faceva comodo nelle varie famiglie.

Dopo le elezioni del 1948 mio padre continuò a fare politica. Se con le elezioni del 1953, il risultato elettorale avesse premiato ancora la Democrazia Cristiana, con il risultato del voto al 50% più uno dei voti sarebbe scattata la cosiddetta legge truffa1

1- La legge elettorale del 1953, che i suoi oppositori definirono "Legge truffa", fu una

modifica in senso maggioritario della legge proporzionale vigente all'epoca dal 1946.

Promulgata il 31 marzo 1953, la legge, composta da un singolo articolo, introdusse

un premio di maggioranza consistente nell'assegnazione del 65% dei seggi della Camera

dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei

voti validi.

Voluta dal governo di Alcide De Gasperi, venne proposta al Parlamento dal ministro

dell'Interno Mario Scelba e fu approvata solo con i voti della maggioranza, nonostante i

forti dissensi manifestati dalle altre formazioni politiche di destra e sinistra.

Vi furono grandi proteste contro la legge, sia per la procedura di approvazione che per il

suo merito.

Il passaggio parlamentare della legge vide un lungo dibattito alla Camera, ma una lettura

fulminea al Senato, i cui presidenti Paratore e Gasparotto in sequenza si dimisero quando

capirono che la maggioranza aveva intenzione di forzare la mano per ottenere la

pubblicazione in Gazzetta Ufficiale in tempo per svolgere le elezioni in primavera con la

nuova legge. Il nuovo Presidente della Camera alta, Meuccio Ruini, approfittò della

sospensione domenicale dei lavori per la domenica delle Palme del 1953 per riaprire la

seduta e votare l'articolo unico della legge: ne scaturì un tumulto d'aula, che

secondo Roberto Lucifero produsse l'uscita dall'aula del segretario generale Domenico

Galante alla testa dei funzionari parlamentari. Il gruppo del PCI contestò la regolarità

della seduta, preannunciando che non avrebbe mai votato a favore del processo verbale di

quella seduta: non ve ne fu bisogno, perché il giorno dopo il Presidente della

Repubblica Luigi Einaudi firmò il decreto di scioglimento delle Camere ed il Senato si

riconvocò solo nella nuova legislatura. In ogni caso, quel processo verbale non fu mai

approvato.

Quanto al merito, la polemica s'è riaperta negli ultimi anni. Secondo gli oppositori

l'applicazione della riforma elettorale avrebbe introdotto una distorsione inaccettabile del

responso elettorale. I fautori invece vedevano la possibilità di assicurare al Paese dei

governi stabili non ritenendo praticabili alleanze più ampie con i partiti di sinistra o con i

monarchici e i missini.

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I partiti di sinistra non avrebbero avuto la rappresentanza nel Parlamento. Ma non fu così: il popolo Italiano questa volta non premiò il partito di maggioranza, che perse i voti ovunque e non riuscì a raggiungere quella percentuale desiderata.

In quei anni la vita degli Italiani cambiò, come cambiò anche lo scenario politico.

I partiti di sinistra non furono messi fuori legge e nemmeno scomunicati. Non ci furono le Madonne che si muovevano, anche quella “girellona” rimase al suo posto.

Anche se cambiò il sistema di fare politica, l’estrema destra era sempre al potere.

Si noti che la legge andava a innovare una materia che, almeno nell'Europa di diritto

latino, era tradizionalmente regolata secondo le elaborazioni di alcuni giuristi,

principalmente Hans Kelsen, i quali vedevano in un sistema elettorale strettamente

proporzionale (e con pochi correttivi o aggiustamenti) la corretta rappresentatività politica

in Stati di democrazia. Se anche appare scorretto sostenere che la Costituzione del 1948

recepisse un favore per il proporzionale, è però vero che già da allora il sistema del

premio di maggioranza era considerato assai rudimentale, per conseguire le esigenze di

governabilità delle democrazie moderne, da buona parte della dottrina politologica..

Nel tentativo di ottenere il premio di maggioranza, per le elezioni politiche di giugno,

effettuarono fra loro l'apparentamento la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista

Democratico Italiano, il Partito Liberale Italiano, il Partito Repubblicano Italiano,

la Südtiroler Volkspartei e il Partito Sardo d'Azione.

Con l'obiettivo contrario si mossero importanti uomini politici, tra i quali Ferruccio Parri,

proveniente dal Partito Repubblicano che, insieme a Piero Calamandrei e Tristano

Codignola, provenienti dal Partito Socialdemocratico, partecipò alla fondazione di Unità

Popolare: tale movimento aveva proprio lo scopo di avversare la nuova legge elettorale.

Non mancarono infatti, all'interno dei partiti che appoggiarono la nuova norma, forti

contrarietà. Da una scissione nel partito liberale si costituì Alleanza Democratica

Nazionale.

Le forze apparentate ottennero il 49,8% dei voti: per circa 54.000 voti il meccanismo

previsto dalla legge non scattò. Unità Popolare e Alleanza Democratica Nazionale

raggiunsero l'1% dei voti riuscendo entrambe nel loro principale proposito. Rispetto

alle elezioni del 1948 si constata una riduzione dei voti verso i partiti che avevano voluto e

approvato la legge: la DC perse l'8,4%; i repubblicani arretrarono dello 0,86%, più di

200.000 voti; perdendo circa 34.000 voti il Partito Sardo d'Azione dimezzò il suo consenso,

anche liberali e socialdemocratici dovettero registrare perdite. Il Partito Comunista

Italiano e il Partito Socialista Italiano aumentarono i consensi ottenendo 35 seggi in più;

il Partito Nazionale Monarchico aumentò da 14 a 40 deputati e il Movimento Sociale

Italiano aumentò da 6 a 29 deputati.

Il 31 luglio dell'anno successivo la legge fu abrogata.

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Venne l’era dello Scelbismo. Vennero eletti in Parlamento Scelba, Merzagora e Pella

e altri anticomunisti dei più accaniti, avversi al sindacato, avversi agli operai e ai contadini, avversi a tutta la sinistra In un certo modo ritornò il pericolo del fascismo. Questo pericolo continuò a regnare fino agli anni ’70 e oltre.

Nelle lotte sindacali per i rinnovi dei contratti collettivi di lavoro degli anni 60, la Polizia usò anche le armi per reprimere le manifestazioni sindacali.

Il babbo dopo aver rifiutato l’opportunità di dirigere la Federazione del Partito comunista di Arezzo, per il difetto della vista, fu colpito da infarto cardiaco. Rimase immobile nel letto per oltre un mese e poi fece molti giorni di degenza in ospedale. L’infarto cardiaco riapparve anche l’anno successivo: fu la fine della sua attività politica.

Nel 1957 ci trasferimmo in provincia di Pistoia. Mio padre purtroppo era peggiorato fisicamente, le dure lotte e la malattia lo avevano segnato. Passeggiava per il paese con il suo bastone bianco, che era il segno di riconoscimento delle persone prive di vista. Pur non essendo più attivo politicamente era sempre attento agli avvenimenti che accadevano nel mondo.

Mio padre era solito conversare con il parroco; era una persona disponibile e a conoscenza degli avvenimenti. Prevedeva come sarebbe stata scritta la storia in futuro, era una persona attenta.

Quelli furono gli anni delle grandi immigrazioni, dalla campagna verso la città.

Dall’inizio degli anni ‘50 e ‘60 lo sviluppo economico e industriale si concentrò nelle regioni settentrionali. Così le campagne si svuotarono, il popolo raggiunse anche la provincia di Pistoia dove veniva offerto del lavoro.

Il babbo a casa continuava a ricevere gli amici con i

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quali rievocava i tempi delle sue lotte e soprattutto i periodi di guerra dove vi era molta disperazione.

Furono molti gli immigrati delle campagne della Valdichiana che si trasferirono nelle zone tra Prato e Pistoia, e molti di questi conoscevano mio padre per il ruolo politico che ricopriva nelle campagne aretine della Valdichiana.

A causa della cecità molto del suo tempo lo trascorreva a casa, ma non era mai solo. C'erano i suoi coetanei, alcuni dei quali in tempo di guerra facevano parte delle brigate partigiane, come Coppola, il più giovane, e Zappalorto, con nome di battaglia di Gigino, essendo il più basso di statura della brigata. C'erano gli amici e compagni dei partiti, socialista e comunista, Vichi, Del Pasqua ecc..., e il fisarmonicista della sua band, Fei.

Si rammentavano i periodi più belli della loro vita. Parlavano anche molto delle loro delusioni in campo politico, nonostante avessero lottato una vita.

Il popolo stentava a capire il motivo per cui mio padre e gli altri lottavano con anima e corpo.

Parlavano anche di altri modi di lotta, come i fagioli “all’uccelletto” o la minestra di pane che cucinava mia madre ai partigiani durante quei periodi in cui si pativa la fame, e di quando gli preparava le uova da poter mangiare quando stavano nascosti nel bosco.

Riaffioravano tanti ricordi curiosi, o simpatici, come quando a un’assemblea sindacale che aveva come tema i patti agrari, un gruppo di contadini si dispose in cerchio per poter dire le proprie idee guardando tutti in faccia.

Divenne come un’interrogazione. Uno dei contadini invitato a dire il proprio parere disse: “Io dico quello che hanno detto tutti quegli altri”. Chi era alla direzione di un movimento politico doveva tener conto di tutto.

Un altro ricordo che mi fa sorridere a pensarci ancora

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riguarda gli anziani. Era nel periodo delle novene e delle quarant'ore a San Michele, quando il popolo andava in chiesa a sentire che diceva il predicatore. In genere quella predica era un vero e proprio comizio. Uno di quegli uomini anziani che diceva di andare a sentire la predica, descriveva le caratteristiche del frate cappuccino che si tratteneva per una decina di giorni in parrocchia, facendo capire quello che aveva compreso durante quella predica.

Diceva per lo più così: “Una sera la gente da tempo attendeva il frate in chiesa per assistere alla predica, questo arrivò in tutta fretta, a piedi scalzi, veloce come se avesse rabbia e montò in tul crinaccio (sul pulpito), iniziò a parlare e aumentava il tono della voce sempre più forte e con la velocità delle parole che diceva non si capiva cosa diceva!. Poi a un tratto incominciò ad arrabbiarsi sempre di più e a gesticolare con le mani, quindi iniziò a dare manate qua e in là sulla testa delle persone fino dove arrivava. Per fortuna il crinaccio era più in alto di noi, altrimenti a quelle persone lì sotto con quelle manate gli portava via la testa”.

Anche questo era il popolo che l’ascoltava; andavano tutti ad ascoltare le prediche, ma che ci capivano?

Povero frate! Quanto tempo avrà impiegato per mettere insieme quei discorsi e poi modificarli ogni pomeriggio nel contenuto e nel tono della voce per fare contenti i parrocchiani. La regola voleva che tutti dovevano essere in chiesa presenti e per far questo ci voleva una personalità di grido.

Quel frate francescano veniva alla parrocchia di San Michele nel periodo delle “novene” e delle “quarant'ore” rimaneva per più di 10 giorni. Credo si chiamasse Padre Ferdinando. Un uomo distinto, giovane, con la barba ben tenuta e sempre ben pettinato, portava la tunica sempre ben pulita e sempre stirata. Le ragazze, comprese quelle più

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attempate, e non solo del borgo, gli stavano sempre vicine, attente e sempre presenti alle sue prediche. Era un bravo predicatore proprio come il parroco voleva. I fedeli a San Michele erano tanti, bene organizzati nell'Azione Cattolica, per il paese erano un punto di riferimento politico.

La Democrazia Cristiana portava come esempio proprio l'organizzazione dell'Azione Cattolica di San Michele.

Tuttavia c'erano alcuni popolani avversari al predicatore e a chi lo ospitava alla predica; spesso percorrevano in bicicletta le vie a la piazza del paese per carpire notizie e pettegolezzi per poi fare complotto, commentando la partecipazione popolare e le persone che stavano intorno al predicatore.

Venivano dette parole anche troppo ardite, ad esempio, parafrasando le strofe di una vecchia canzone: “La tunica del frate cappuccino c'era chi la lavava con acqua e sapone chi la stirava con ferro e carbone, ogni pieghina un sospiro e tanto batticuore” ecc...

Mi ritrovavo spesso come ascoltatore a quelle conversazioni, a volte molto accanite. Avevo fatto amicizia con un poeta Aglianese, Marino Baroncelli, che mi regalò una sua poesia scritta nel '46, dedicata al parroco della parrocchia di San Niccolao dal titolo “Come è bello fare il prete”. La portai un giorno a una di quelle conversazioni, leggemmo la poesia e a tutti ridendo ci venne in mente di dire: “com'è bello fare il frate predicatore in quel di San Michele!”

Mio padre contestava il parroco per quel modo di far predica; sosteneva che per i tempi che correvano era fuori moda.

La chiesa era rimasta al 1948, i comizi in chiesa non erano seri, la chiesa era un luogo di culto, meditazione e preghiera per i credenti, il resto era propaganda.

Anche Bonacchi Costantino veniva spesso a trovarlo.

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Passava in bicicletta per la via, mentre mio padre se ne stava sul marciapiede passeggiando lungo la strada con appresso “la Volpina”, un cagnolino molto affezionato che non lo lasciava mai un secondo. Costantino per farsi riconoscere lo chiamava da lontano: “Dominici!” gridava. Poi saltando giù dalla bicicletta lo toccava sulla spalla per salutarlo e così ogni volta la Volpina lo mordeva sulla caviglia o sullo stinco presa dalla gelosia e Costantino si metteva a piangere!

Mio padre morì a 76 anni, portò con sé una vita di altruismo, di sacrifici, di esperienza, e anche di tristezza per la libertà e la lotta, la qualità della vita.

La sua morte lasciò tanta tristezza. A dargli l’ultimo addio vennero alcuni dei Compagni di

lotta della sua sezione da Lucignano Arezzo. Vennero con la bandiera rossa del suo partito a cui tanto era affezionato.

Lo ricordarono. Ricordarono il percorso della sua vita e quanto aveva dato della sua persona.

Quella, era un pezzo della sua storia, l’altra l’ha portata via con la sua scomparsa come accade a tutte le persone di questo mondo.

Ho cercato in questo capitolo di raccontare un po' della sua storia.

Tutto questo per far capire a chi lo vorrà

Mio padre Igino

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capire, che se il mondo va avanti qualcuno tra la povera gente ne avrà avuto il merito.

Oggi siamo un poco distratti nel riconoscere questi valori.

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La scuola

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Gli anziani hanno molti ricordi. Li rammentano sempre con una certo rimpianto e con

tanta tristezza. Ora che ho deciso di ripercorrere la mia storia, ripenso sempre a momenti ormai lontani. Ricordo quando, nell’aia abbastanza sconnessa, tiravo con uno spago un cavallino costruito da mio nonno che non voleva stare in piedi cadeva subito. Era un cavallino fatto di legno fissato su una tavoletta con quattro ruote.

Quando cadeva mi arrabbiavo tanto e insistevo a rimetterlo in piedi. Il terreno non era pianeggiante.

Ricordo che ero vestito con un grembiule colorato a piccoli quadretti e mi stava molto grande perché in quei tempi gli indumenti per i bambini li facevano tutti a crescimento, molto ampi.

Poi ricordo molto bene quando andai a scuola il primo anno, era in tempo di guerra.

Quell’anno a scuola andai un mese o poco più: era la

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prima elementare. Nei primi mesi non andai perché c’era la guerra, ma anche il cattivo tempo, la neve, il freddo impediva di muovermi e la scuola era lontana. Poi, passato l’inverno, incominciarono i bombardamenti con ripetute incursioni aeree. L’obiettivo era la stazione ferroviaria lì vicino dove erano depositate tante armi e munizioni.

Tutti i giorni dalla scuola si sentivano i rumori degli aerei che solcavano il cielo, la maestra ci portava subito nella chiesa adiacente alla scuola a pregare. Poi finite quelle azioni, si ritornava in classe. Però molte volte ci mandava a casa per paura che si ripetesse la stessa storia.

Un giorno alcuni aerei volarono molto bassi; prima mitragliarono e poi sganciarono tante bombe. Una fu sganciata vicino alla scuola; noi eravamo dentro la chiesa a pregare e dal tetto ci piovvero in testa tanti calcinacci. Allora non ci fu tempo nemmeno di pregare, ci fu una fuga come dire “si salvi chi può”.

Piccolo com’ero, lontano da casa, mi trovai in piena campagna con gli aerei che fischiavano sopra la mia testa, piangevo dalla paura, disperato, non sapevo dove andare.

Ricordo una bambina più grande di me che frequentava la stessa scuola in un’altra classe, anche lei scappata per la paura, mi venne incontro in aiuto, mi consolò e ci avviammo verso casa mia.

Non ho mai saputo quanta paura abbia provato lei. Tante volte ho pensato a quella bambina, chissà come avrà raccontato in seguito l’episodio di quel giorno maledetto.

L’anno dopo frequentai la scuola in paese perché l’altra era inagibile.

Per me anche il secondo anno di scuola fu molto triste. La guerra lasciò il segno ovunque: nelle campagne le bombe sganciate dagli aerei impazziti, nelle abitazioni squarciate, nelle strade dissestate.

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Anche l’aula che frequentavo era danneggiata, aveva un grosso squarcio sul tetto, tuttavia quando pioveva o nevicava, le lezioni continuavano lo stesso.

Rispetto agli altri ero già grande avendo un anno di ritardo, ripetente in prima come altri ragazzi della mia età provenienti da altre zone della campagna e anche di paese. Molte volte si diceva male del Fascio e di Mussolini, parole sentite dire in famiglia, ma il maestro molto giovane, alto, biondo, non voleva sentirci parlare e ogni occasione che gli capitava era la scusa per darci tanti nocchini sulla testa.

Le punizioni che adottavano gli insegnanti verso gli alunni erano diverse: botte nella testa con una lunga canna d'india, rimanere fuori della porta della scuola, stare dietro la lavagna in ginocchio sui semi di granturco con la faccia rivolta verso il muro. Più tardi si capì perché quel maestro si vendicava in quel modo: si sentiva sconfitto essendo stato un militante del vecchio regime.

Eravamo un gruppo di ragazzi figli di comunisti e l’insegnante trovò il sistema per sfogarsi.

Il fascismo era stato sconfitto, ma non la mentalità di chi era abituato a picchiare.

Quell’anno doveva essere l’anno del recupero, visto che i bombardamenti, la guerra, ci avevano penalizzati.

La scuola non fece niente per farci scordare quella triste esperienza.

L’insegnante che usava metodi fascisti fu sostituito dalla moglie del Podestà. Una donna che si impegnò molto per noi ragazzi, anche il babbo ne parlava bene quando la famiglia si riuniva all’ora di cena, ma trovava tanta difficoltà a seguire una classe di trentacinque alunni, alcuni molto grandi e ripetenti.

Dalla terza classe un solo insegnante ci seguì fino alla quinta. Con quell’insegnante presi passione alla scuola e in

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tanti si faceva a gara per avere il voto più alto. Il maestro mi assegnava molti nove e dieci sui quaderni. Mi sentivo un protagonista. Mi resi conto dopo che quello che mi mancava era il materiale didattico.

Le letture le facevo su un misero libro di testo che poi ho riletto da grande facendomi delle risate per le tante fesserie che c’erano scritte. “La satira dell'asino di Mele Secche”. Mele Secche intendeva abituare l'asino senza mangiare. Faceva mangiare quella povera bestia ogni giorno sempre di meno, ma dopo un mese l'asino morì. Oppure la “storia del ghiandaiotto” che abbandonò il nido senza saper volare. Rimase per terra e quando sentì che gli uccelli rapaci gli volavano intorno per nascondersi rimase sopra una foglia di un albero a occhi chiusi per nascondersi.

In quella scuola ci mancavano i quaderni; non abbiamo mai scritto in brutta copia. Le matite e i colori non c’erano e quando mi arrivarono, ormai avanti con l’anno scolastico, nell'astuccio c'erano solo sei colori. Anche la penna con il calamaio venne più tardi. Quello che imparai era di scrivere a braccio, così come faccio tuttora e come ho sempre fatto, non avendo avuto le basi alle elementari.

Andando a scuola in paese incontrai altri ragazzi ripetenti, qualcuno con qualche anno più di me. Altri si aggiunsero negli anni successivi.

In terza eravamo una classe poco omogenea, molti grandi e tanti piccoli. Quelli più grandi venivano quasi tutti dalla campagna.

Essendo ripetente, in poco tempo feci gruppo con quelli più grandi; noi non rientravamo nel gruppo dei privilegiati, quelli avevano il banco in prima fila come il figlio del dottore, del direttore di banca, dell’imprenditore e così di seguito. Il nostro banco era sempre l'ultimo della fila accanto alla parete, così era facile fare capannello prima delle lezioni.

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Ci raccontavamo i giochi che facevamo durante la settimana e i tanti discorsi sentiti dire in casa nostra.

La rivalità tra campagna e paese

C’era la rivalità tra quelli del paese e quelli della campagna; noi ragazzi portavamo quelle discussioni a scuola.

Ricordo bene quando il comune espose l'elenco dei poveri. Quanti commenti furono fatti nelle nostre case e tra il vicinato.

Di quell'elenco facevano parte tutti i poveri del paese, quelli dentro le mura. Persone disadattate, operai con poca voglia di lavorare, con famiglia numerosa e anche tanti furbetti. Così per tutti i figli delle persone iscritte nell'elenco, tutto il materiale scolastico lo passava il Patronato Scolastico e, dopo la scuola, avevano la refezione scolastica, oggi mensa. Si sentivano superiori a noi poiché avevano il materiale scolastico necessario. Dopo la scuola andavano alla refezione scolastica vantandosi con noi figli di contadini, dicendoci che noi si mangiava solo pane e baccalà.

Ed era proprio così. Ricordo mio nonno quando rimproverò mia madre

perché gli faceva mangiare tutti i giorni e per tanto tempo il baccalà. Alla fine della discussione il nonno le disse di farlo mangiare a chi lo pescava, era già stufo.

Per lungo tempo il piatto del giorno se non era baccalà, erano sarde oppure aringhe, era il prodotto che si trovava sul mercato e quello che costava di meno.

Il più delle volte i miei genitori stavano nei campi a lavorare tutto il giorno e, per me che ritornavo da scuola, per mangiare c'era il pane nella madia. Andava meglio quando potevo rubare una salciccia sotto olio oppure una fetta di rigatina. Ma quando mi aspettavano nei campi, con la fetta

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di pane potevo mangiarci una ciocca di uva lasciata nell'albero durante la vendemmia, qualche pomodoro rimasto sulla pianta oppure adattarmi con il baccalà o l'aringa. Quel companatico si mangiava anche senza cuocere, era sempre pronto.

A noi di campagna ci facevano rabbia i ragazzi che andavano alla refezione, così decidemmo di punirli, mandandoli alla refezione a corsa e con qualche manata sulle spalle.

Questo avvenne un giorno. I ragazzi partirono dalla scuola verso la mensa tutti

armati di tovagliolo, cucchiaio e forchetta e noi dietro tra spintoni e botte, tutta una corsa per la strada nel centro del paese. Uno di quei ragazzi preso dalla paura e dalla disperazione, si voltò indietro lanciando la forchetta in direzione dell'inseguitore, gli si conficcò nel labbro inferiore provocando una brutta ferita: dovemmo ricorrere all'ospedale.

I ragazzi paesani si sentivano superiori ed orgogliosi. Tanto fu che si organizzarono per una rivincita. Scoprimmo che la sera sarebbero andati nel bosco ad armarsi di bastoni, per prepararsi la mattina dopo all'uscita dalla scuola ad una grande battaglia.

Noi ragazzi escogitammo tutte le tattiche da adottare per picchiare per primi.

All'uscita della scuola, prima di lasciare il corridoio, gli saltammo addosso e li disarmammo tutti.

In strada ci fu la resa dei conti: ognuno prese il suo rivale e a tutti si fece una grossa tamburata. A me toccò Giuseppe, detto “Ruzzo” era un ragazzo svelto e forte ma partì in ritardo e, povero ragazzo, penso ancora risenta quelle botte perché le nostre mani, anche se eravamo giovani, erano già rozze e pesanti.

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Quel giorno era giovedì, c’era il mercato settimanale: c’era ancora tanta gente in giro e, con i compagni di classe, credo di aver dato un grande spettacolo.

Ci fu una bella conclusione quando il babbo di Giuseppe mi venne incontro per vendicare il figlio: le persone presenti lo sollevarono di peso portandolo via.

Quell’odio regnava da tanto tempo. Ricordo quando in classe portarono l’inchiostro, era confezionato in bottiglie di vetro da due litri e tutte le settimane a turno dovevamo riempire i calamai.

Quando il turno toccava ad uno del nostro gruppo, riempivamo fino all'orlo i calamai dei nostri compagni considerati privilegiati, quelli che avevano il banco in prima fila. Durante la mattinata bastava una scusa per passargli accanto e bastava poco per far oscillare il banco e l’inchiostro che fuoriusciva rovinava tutto, libri, quaderni e qualche volta anche il vestito.

Il maestro si arrabbiava con noi più grandi quando vedeva piangere il ragazzo del primo banco, ma noi in fondo alla fila ci nascondevamo il viso tra le braccia facendoci l’occhiolino, soddisfatti della bravata riuscita.

La scuola mi è mancata tanto e tanto soffrivo quando vedevo i miei amici che sfrecciavano in bicicletta giù per la discesa verso Foiano, andavano a frequentare le scuole superiori di Arte e Mestiere. Erano figli di famiglie facoltose e se lo potevano permettere, ma per noi figli di contadini dopo la scuola c’era il lavoro nei campi e basta. Come tanti, anch’io lasciai libro e quaderni in un cassetto.

Con il tempo frequentai altri corsi scolastici per prendere la licenza di quinta elementare. Partecipai, ma tutto quello che insegnavano ai giovani che avevano abbandonato la scuola anticipatamente, non mi interessava, già lo sapevo ancora bene.

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Il mio impegno politico per la scuola

Nel 1957 mi trasferii ad Agliana e in breve iniziai a frequentare un corso di dattilo-stenografia a Pistoia, organizzato dalla C.G.I.L.; mi riuscì abbastanza bene, frequentai anche qualche corso di lingua straniera.

Ero interessato alla scuola e avevo capito che il popolo di Agliana del dopoguerra era molto sensibile all'istruzione, voleva colmare le lacune scolastiche esistenti, lasciate da un passato poco felice.

Fin dal dopoguerra alcuni giovani, con l’intento di far crescere il proprio popolo, organizzarono corsi di “Università Popolare” nei locali in via Magni Magnino, oggi sede del Circolino.

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L'amministrazione comunale stava già pensando alla costruzione di nuovi edifici scolastici nelle varie frazioni del paese, voleva eliminare tutte quelle aule di fortuna che, sistemate in ordine sparso , risultavano poco funzionali.1

Oggi al posto delle scuole ci sono uffici, negozi e appartamenti.

Una delle insegnanti é rimasta nella memoria di alcuni studenti dell'epoca, oggi anziani, in base alle testimonianze raccolte risulta fosse una certa Maria, che lavorava presso il Ponte alla Trave nel 1944. Alla Catena in via Casello, c'era Lina Benesperi di Chiazzano. A San Michele Lina Zaffi in Gorgeri abitante a San Michele, (era per tutto il popolo la maestra Gorgeri ).Poi per le commerciali ma questa più tardi, Roberta Roberti, conosciuta Professoressa Mignanelli abitante a Agliana in piazza della Resistenza. Tra gli insegnanti più conosciuti a Agliana, quello che ha fatto più storia, era il maestro Nicola Sarno, che terminò la sua carriera come segretario della Direzione Didattica presso la scuola elementare.

Tra il 1951-1956, con la seconda legislatura, l'Amministrazione comunale guidata dal Sindaco Terzo Coppini, realizzò per ogni frazione del comune un piccolo

1

Le scuole commerciali erano in via della Repubblica al civico 37, al piano

superiore. Invece le scuole elementari, quelle di San Piero erano ai piani

superiori della Parrocchia, con accesso dalla piazzetta delle Erbe, per il primo

ciclo (primo e secondo anno). Il secondo ciclo (dal terzo al quinto anno)

invece era all'asilo dalle suore mantellate in piazza IV Novembre. A San

Niccolò le scuole elementari erano in via San Niccolao,1. Invece alla Catena

era in via Adelmo Santini incrocio con via Casello, da Imperio. A San

Michele le aule erano nei locali del fabbricato, in prossimità della piazza Don

Ferruccio Bianchi, al piano superiore il primo ciclo, oggi sede della

Vacchereccia. Il secondo ciclo si trovava in via Calice dalle suore, all'asilo

degli Angeli custodi. Alla Ferruccia erano al Ponte del Gello, via Selva 256,

mentre al Ponte alla Trave erano al n. 204 o al 224, di via Provinciale Pratese.

A Spedalino erano all'interno del chiosco accanto alla vecchia chiesa.

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edificio scolastico di due, tre o cinque stanze . A San Piero, in via Vincenzo Bellini, c’erano cinque

stanze, due per la Direzione Didattica e tre aule dove presero posto gli studenti delle scuole commerciali, oggi l’edificio è trasformato in scuola materna.

A San Niccolò in via Dante Alighieri le aule erano tre, la struttura è stata poi demolita facendo posto a sei appartamenti. Al Ponte alla Trave, in via Vincenzo Bellini due aule, oggi adibite a cucina per mensa comunale. A Spedalino in via Provinciale Pratese due aule, oggi trasformate in civili abitazioni. Alla Catena in via Casello al civico 1 due aule, oggi ampliata a cinque, rimanendo scuola elementare. A San Michele due aule poi ampliata a quattro, oggi scuola materna. Alla Ferruccia in via Branaccia due aule, oggi adibite a civile abitazioni.

Per un periodo la scuola elementare c'è stata anche al Ponte dei Bini, fino agli anni 1980-82, in via L. Calice 99.

A fine anno 1962 fu varata la riforma della scuola che elevava l’istruzione obbligatoria fino alla terza media, ma il comune di Agliana aveva già provveduto per l'edificio scolastico in via della Libertà che ospitava le commerciali e nel mese di marzo del 1963, l'Amministrazione Comunale deliberò per l'apertura dell'anno scolastico con la scuola dell'obbligo, la scuola media.

Quell'edificio prese vita senza nome. Era Scuola Media di via della Libertà. Nel giugno 1967, il Collegio dei Docenti di quella scuola, propose all'amministrazione Comunale di assegnarle il nome, chiamandola Bartolomeo Sestini, poeta pistoiese di fama internazionale.

L'Amministrazione Comunale decise di fornire un edificio scolastico per ospitare quel nuovo tipo di scuola, tanto desiderata dalla popolazione .

Eravamo orgogliosi noi giovani nel veder crescere quel

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plesso scolastico, lo sentivamo nostro. I lavori terminarono

in breve tempo e si aspettava, entusiasti, l’inaugurazione. Quel plesso nuovo era costruito bene, in una buona

posizione, raggiungibile con facilità da ogni parte del paese. Noi giovani volevamo ritornare a scuola, specie quelli

come me che avevano frequentato la scuola “mutilata”, nella quale durante l’inverno non importava se pioveva o nevicava, dentro l’aula la pioggia e la neve ci facevano compagnia. I nostri insegnanti non facevano caso né all’acqua, né al freddo.

Come pure nelle nostre case era lo stesso: anche se avevano il tetto, il freddo era tanto, mancavano legna e stufe per scaldarsi. A scuola ci mancava tutto: quaderni, matite, libri da leggere; anche il sistema di insegnamento era molto arretrato.

Gli insegnanti dovevano tener conto di tutti i ragazzi che frequentavano la scuola e di quante assenze si contavano durante l’appello. Molti ragazzi venivano a scuola dalle zone più lontane, dalle campagne molto distanti dal paese e le assenze erano sempre numerose, specie nei mesi invernali. Molti alunni la scuola l’abbandonavano nel corso del primo anno e anche del secondo, essendo piccoli e senza mezzi di trasporto. Molti si fermavano alla prima classe e magari la ripetevano per diversi anni. Altri si fermavano alla terza classe, a causa della lontananza dai plessi scolastici e a causa dell’ignoranza che regnava nelle famiglie, specie nel mondo rurale, dove si diceva che la scuola non serviva. E poi c’era il problema economico. Si preferiva mandare i figli a lavorare: potevano portare a casa qualcosa, mentre la scuola anche se gratuita, costava.

A quei tempi le autorità non si preoccupavano degli alunni che la disertavano.

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Le scuole medie

Con la riforma della scuola quel bel plesso scolastico lo volevamo per noi e per i nostri figli, per essere più preparati e capaci di fare scelte giuste per il nostro e il loro futuro.

Il giorno dell'inaugurazione ci fu una grande festa e tanta partecipazione popolare.

Eravamo soddisfatti di quella scelta e di quel momento storico per la scuola e per il popolo aglianese, facendo così onore ai nostri amministratori.

Il mio mestiere era operaio edile; da qualche anno facevo il muratore e già ero pratico di costruzioni: vedevo quel plesso scolastico tanto bello. Era costruito bene, confortevole, anche lo stile era bello, era moderno, con quelle aule molto grandi e piene di luce, con quelle finestre così grandi in modo che il sole facesse compagnia agli studenti

Nel 1960 il comune di Agliana inaugura il nuovo plesso scolastico in via della

Libertà

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durante le lezioni. Con quella scuola ci rendemmo conto di quanto era

cambiato il mondo: era stato introdotto l’obbligo di rimanere a scuola fino ai quattordici anni. Invece io a quell’età, come tutti i ragazzi di campagna, ero nei campi a lavorare.

Lo slogan che noi giovani lanciammo era: scuola aperta sempre, trecentosessantacinque giorni l’anno, dando la possibilità ai bambini e agli adulti di frequentarla ogni qualvolta ne sentissero il bisogno. C’era bisogno di imparare e di recuperare il tempo perduto. Così ad Agliana avremmo avuto una società più intelligente e più comprensiva per poi portarla per il mondo come esempio.

La scuola ad Agliana è stata sempre all’avanguardia e la partecipazione popolare ha contribuito a migliorarla.

Quel plesso scola-stico fu frequentato subito da tanti studenti. I primi furono i ragazzi di prima media, della scuola dell'obbligo e gli studenti del secondo e del terzo anno delle scuole commer-ciali che vi erano stati trasferiti da via Vincenzo Bellini per completare tutto il ciclo scolastico.

In quel periodo ero molto interessato alla scuola insieme ad altri amici di lavoro. Si lottava tramite il Sindacato per dar vita a una scuola di specializzazione, per otte-

Certificato di frequenza scuola di specializzazione per operai edili Filippo

Pacini

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nere una maggiore conoscenza delle nuove tecniche e saper leggere nelle carte i progetti elaborati dai tecnici addetti, oltre che conoscere la sicurezza e le regole del cantiere stesso.

Io frequentai quella scuola a Pistoia, presso l’Istituto Tecnico per geometri Filippo Pacini, per tre anni, con enorme sacrificio. Le lezioni si facevano di pomeriggio, dopo l’orario di lavoro.

Quella scuola c'insegnava tanto dal punto di vista tecnico e tanta matematica, ma non ci dava la licenza di terza media.

Durante la frequenza, con gli amici si parlava spesso del valore che essa aveva, ma ci mancavano altre nozioni importanti da imparare; pensavo in futuro di organizzarne un’altra, che ci permettesse di conseguire la licenza di scuola media.

All’inizio dell’anno 1969 ebbi modo di conoscere un'insegnante della nostra scuola media. la Professoressa Elena Giovacchini, molto gentile e brava.

Durante una conversazione le chiesi se fosse disponibile a aiutarci a dar vita a una scuola privata per persone adulte, in modo da conseguire la terza media.

Accettò entusiasta. Così insieme ad altre persone mi adoperai per raggiungere un numero di partecipanti volenterosi di ritornare sui banchi di scuola.

Bastò poco tempo per raggiungere il numero sufficiente per formare una classe, ma mancava il luogo in cui frequentare le lezioni.

All’insegnante Giovacchini chiedemmo collaborazione per poter usufruire di un’aula della scuola media, così da poter avere uno sgravio economico. Le spiegai che ne avevamo diritto, quel plesso scolastico era nato grazie a noi.

Rimanemmo amareggiati quando i dirigenti della scuola rifiutarono la nostra richiesta senza darci spiegazioni

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sufficienti. Portammo a conoscenza anche l’amministrazione

comunale della nostra richiesta, ma anche dall’Ente Locale ci fu un netto rifiuto.

Trovammo una stanza in affitto in un'abitazione in via Ticino, 26. Ci dovemmo organizzare per arredarla: costruimmo panche e tavoli. Poi creammo un comitato di gestione per l’organizzazione e per concordare il programma didattico con i professori.

Volevamo un programma alla Don Milani con tanta permanenza nella scuola.

Mi fu attribuita la mansione di cassiere, in quanto avevo vissuto un'esperienza simile qualche anno prima, nella scuola per operai edili.

Il costo delle lezioni fu fissato in lire 10.000 mensili a persona. Servivano per pagare l’affitto della stanza e i tre professori. Nel mese di settembre, con l'anno scolastico 1969-70, iniziammo le lezioni per il conseguimento della terza media.

Fu un anno di studio molto duro, l’orario delle lezioni era dalle ore 19.00 alle 23.00 per l’intera settimana; la domenica mattina ci

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recavamo a Firenze con il professore a visitare le opere d’arte.

Nel programma che avevamo concordato c’era molta letteratura e conoscenza dell’arte.

L’anno scolastico passò in fretta e vennero i giorni di preparazione agli esami.

Dovevamo darli come privatisti, ma anche questa volta la nostra scuola, che tanto amavamo, ci rifiutava senza darcene spiegazioni.

Per sostenere gli esami dovemmo cercare un’altra scuola. Fummo accettati dalla scuola Enrico Fermi di Prato. Il personale ci accolsero bene e i componenti di quella commissione poi, a esami conclusi, ci richiamarono per capire bene quali erano stati i motivi che ci avevano portato a organizzare quella scuola.

Per noi organizzatori del corso e per tutti coloro che lo frequentarono, fu motivo di orgoglio aver superato con disinvoltura quella prova che ritenevamo molto difficile.

Eravamo tutti già adulti, 20-35 anni; alcuni frequentarono poi le scuole superiori per ragioneria e geometri.

Quando il professore si presentò a noi studenti il primo giorno di scuola per spiegarci tutto il programma che avevamo concordato, iniziò a parlare con queste parole: “Amaro il mallo, duro è il guscio, dolce è il gheriglio”…

Fu un insegnamento duro e pignolo, ripensando al sacrificio, anche economico, per sostenere le spese fatte da ciascuno di noi e furono tante, ci fu chi alla fine sentì il dovere di esclamare: “Quando siamo chiamati ad eleggere chi ci rappresenta a tutti i livelli, non sempre scegliamo le persone giuste”. Queste parole senz’altro furono rivolte a chi rifiutò le nostre richieste.

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I “Decreti Delegati”

Nel 1974, furono emanati i “Decreti Delegati"2 che prevedevano la partecipazione attiva dei genitori, fui candidato per fare il presidente del Consiglio di Istituto nella scuola media.

A quell’incarico proprio non ci pensavo; quando mi elessero rimasi sorpreso: credevo ci fossero altre persone più preparate di me. Quella scelta mi impose di conoscere la legge nei suoi dettagli, così da potermi presentare preparato alle assemblee dei genitori e con loro stabilire i programmi, al fine di raggiungere gli scopi che politicamente ci erano stati assegnati.

Fui sostenuto politicamente dal Partito Comunista, bene organizzato ad Agliana, che andava oltre le indicazioni nazionali, tanto che al suo interno esisteva una commissione scuola di cui io e altri genitori da tempo facevamo parte. Lo scopo era di stimolare gli insegnanti simpatizzanti della sinistra a dare un volto nuovo alla nostra scuola, incoraggiandoli a fare delle forzature verso le autorità

2

Il titolo I del DPR 416/1974 riguarda prevalentemente gli organi di partecipazione

democratica nella scuola. Con questo decreto vengono infatti costituiti gli organi collegiali

della scuola, "al fine di realizzare" dice la legge all'articolo 1 "la partecipazione nella

gestione della scuola dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più

vasta comunità sociale e civica".Vengono previsti quattro livelli di partecipazione

democratica: il circolo o istituto, il distretto scolastico, la provincia, infine la nazione intera.

In seguito il D. lgs 233/1999 ha di fatto abolito i livelli distrettuale e provinciale, istituendo

quello regionale.

Gli organi collegiali che vengono costituiti a livello di circolo e di istituto (articoli 2-8)

sono il Consiglio di classe o di interclasse, il Collegio dei docenti, il Consiglio d'istituto,

la Giunta esecutiva, il Consiglio di disciplina degli alunni (oggi denominato "Commissione

disciplinare") ed il Comitato di valutazione del servizio degli insegnanti. Tutte queste

istituzioni, confermate dal Testo unico del 1994, sono ancora oggi esistenti e pienamente

funzionanti.

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scolastiche affinché queste ci aprissero le porte. Nella scuola di Via Livorno, oggi intitolata a Gianni

Rodari, due anni prima, nel 1972 fu costituito uno storico “Consiglio di Circolo”, formato da genitori e insegnanti.

Il direttore didattico Salvatore Bernesco Lavore, persona molto attenta ai problemi della scuola, nominò per seguire le attività didattiche alcuni insegnanti e genitori più in vista e più attivi, (io ero uno di quelli), anticipando così i Decreti Delegati.

Con i Decreti Delegati del 1974 si doveva votare in una lista di nomi, un rappresentante dei genitori che avrebbe avuto l'incarico di presidente del Consiglio di Istituto.

Ovunque per quell’evento, si mobilitarono i partiti politici e tutto il mondo cattolico. Ciascuno nelle proprie sedi si riuniva, discuteva, programmava e lavorava per dar vita alla propria lista.

Delle due liste formate nell'anno scolastico 1975-76 , una era molto vicina alla sinistra ed io ero la persona più attiva, avendo già fatto esperienza nel “Circolo Didattico” della scuola elementare.

Fui nominato in quella lista insieme ad altri genitori perché avevo la figlia che frequentava la classe 3a E.

L’altra lista, di destra, anch’essa molto attiva, era molto vicino alla chiesa e al partito della Democrazia Cristiana. Aveva un nutrito gruppo di genitori. Il Parroco di San Piero, assieme a quello di Spedalino, che era anche Vice Preside alla scuola media Bartolomeo Sestini, riuscirono a sostenere una campagna elettorale vera e propria.

I rappresentanti della lista di sinistra invece fecero il lavoro tipico del Partito Comunista: andarono di casa in casa a fare propaganda, ottenendo così il miglior risultato.

Il giornale La Nazione del 19 febbraio 1976, in cronaca riportava il seguente risultato elettorale: Elettori 1064,

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votanti 918. Lista n 1 voti 305, lista n 2 voti 431. Furono eletti: Fulvio Zamponi, Renzo Toci, Anna

Bartolini Vettori, per la lista n 1; per la lista n 2 Tesi Ivan, Virgilio Dominici, Giorgio Babini (Badini), Renza Sardi, Tamara Bacci.

Personale docente. Elettori 60; votanti 56. Lista n 1: 24; eletti i professori Giannino Biagini, A. Paola Laldi, Fabrizio Feraci, G. Franco Bernardi. Lista n 2 voti 10; eletto il professor Marcello Giacomelli. Lista n 3 voti 22; eletti i professori Fausto Marini, Giulio Paiotti, don Franco Leporatti.

Personale non insegnate. Elettori 11; votanti 11. Lista n 1 voti 8; eletto Diano Marini. Lista n 2, voti 3; eletto: Renato Leporatti.

Fu eletto Presidente del Consiglio di Istituto Renzo Toci.

La lista n° 2 di sinistra vinse le elezioni e doveva avere la presidenza del Consiglio d'Istituto, ma ero io il capolista, per i motivi che ho spiegato, non fui eletto.

I docenti che furono eletti dagli altri colleghi della scuola non tennero conto del risultato elettorale espresso dalle famiglie. Ne fecero una questione di parte e, incoraggiati dal preside, non votarono per la seconda lista, contribuendo ad eleggere il rappresentante dell’altra lista, che non aveva vinto le elezioni.

Ci furono molte contestazioni a livello politico, la sinistra tutta contestò il modo di agire di quel preside e anche nelle file dei cattolici furono tanti a non condividere quella forzatura.

Essendo io capolista, dovetti migliorare l’organizza-zione insieme agli altri genitori eletti, in quanto in quella scuola tutto l’andamento organizzativo era affidato a un sacerdote eletto nel Consiglio di Istituto più per comodo che

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per capacità organizzative. Il preside era sempre pronto ad interferire sui lavori del Consiglio di Istituto.

Al preside contestai l’ingerenza come autorità scolastica poiché non aveva tenuto conto del risultato elettorale, preparai subito un volantino di protesta dal titolo “Si parte male” e quel preside, forse per questo motivo o altri, l’anno successivo fu trasferito ad altro istituto.

Tutti i genitori con l’entrata in vigore dei “Decreti Delegati”, si resero molto attivi e in tutte le classi fu eletto un rappresentante che in seguito dette vita all’assemblea dei genitori di cui facevano parte tutti i rappresentanti eletti. Era una assemblea molto attiva e partecipativa. L’assemblea dei genitori faceva capo al consiglio d'Istituto.

La guida di quell’assemblea e l’indirizzo politico per la lista di sinistra era affidata alla commissione scuola del partito Comunista.

Agliana fu scelta come sede del Distretto scolastico tra i comuni di Agliana, Montale e Quarrata con sede in via Del Serragliolo, 36.

I componenti del Consiglio di Distretto erano tutti i consiglieri dei circoli didattici, quelli dei Consigli d'Istituto dei tre comuni, oltre agli assessori alla Pubblica Istruzione dei comuni sopra descritti.

Ne facevano parte anche il personale docente, eletto nei vari consigli di Circolo e d'Istituto dei tre comuni.

Durante quelle riunioni esaminavamo vari aspetti della scuola: come legarla al territorio, le esigenze dei giovani studenti, le prospettive che avrebbero avuto a scuola finita.

Si esaminavano gli sviluppi industriali del territorio, per rispondere alle richieste dell’industria e cercare di formare personale ben preparato e qualificato per il futuro.

Va ricordato che ad Agliana, essendo vicina a Prato, l’industria laniera pratese richiedeva manodopera

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qualificata, la scuola quindi doveva fare la sua parte. I nostri giovani studenti sceglievano principalmente le scuole superiori ad indirizzo commerciale, proprio perché a Prato avrebbero trovavano occupazione.

Con i genitori della lista che coordinavo ci si riuniva spesso e con i componenti della commissione scuola si riusciva a coinvolgere persone con preparazione tecnica che ci potessero essere d'aiuto.

Si capì in breve tempo che la scuola non era dei partiti politici e tanto meno di chi ci lavora dentro, ma era del popolo.

Ci rendemmo conto che la situazione che si era creata nella scuola, con due liste contrapposte, aveva portato solo divisioni. Quei due anni furono, come si dice, piatti, senza aver ottenuto risultati dal punto di vista politico e organizzativo in senso generale; regnava la divisione. Dopo il primo biennio rimasi ancora nella scuola con i giusti requisiti, perché frequentata dal mio secondo figlio.

In vista delle elezioni successive, gli accordi per il programma elettorale non si fecero nelle sedi politiche ma nella scuola, tra noi genitori, allo scopo di raggiungere un buon risultato con un'unica lista. Anche alle scuole elementari, per eleggere il Consiglio di Circolo, fu fatta la stessa cosa.

Si dette vita a una lista unitaria, formata da tutti i genitori rappresentanti delle forze politiche e da quelle cattoliche. Avevamo raggiunto quel risultato programmato, con tanta partecipazione. Fui eletto Presidente del Consiglio d' Istituto. Anche il personale docente prese atto della nostra collaborazione e decise questa volta di votare per il candidato scelto dai genitori.

I nomi dei genitori eletti della lista unitaria: Deanna Baroncelli, Romano Bini, Bruna Carlesi, Celio Cipolli,

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Virgilio Dominici, Angela Gori, Deanna Saltini, Antonio Zappi.

I genitori e le attività con gli insegnanti

Tutti i genitori eletti nei vari organismi della scuola si misero a disposizione del Consiglio di Istituto. Tra le tante attività organizzarono la cooperativa del libro, con lo scopo di recuperare i testi usati, rilegandoli, per poi ridistribuirli ai ragazzi più bisognosi. Inoltre fornirono alla scuola tante nuove macchine da scrivere donate da vari enti o comprate con i soldi dei genitori stessi tramite una sottoscrizione dando così la possibilità alla scuola di realizzare la redazione vera e propria di un giornalino che fu chiamato “Vespaio”. I

ragazzi appartenenti alla redazione cominciarono con grande entusiasmo a recarsi nei locali pubblici, tra la gente, e le famiglie e tramite le persone anziane farsi raccontare la loro storia. Grazie a questo evento gli anziani, aiutati dai giovani, riuscirono a sbloccare la loro timidezza verso il microfono e adottarono un linguaggio più sicuro e

fluente, trasmettendo così tutto l'entusiasmo

Il “giornalino” della scuola

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nel narrare racconti e non solo... Questa novità riaccese nella maggior parte degli

intervistati la voglia di poter ritornare a Scuola! Fu così che gli anziani stimolarono i genitori

appartenenti al Consiglio di Istituto ad adoperarsi affinché la scuola aprisse le porte anche a loro. In seguito, forti di questa richiesta verso le Istituzioni competenti, nacquero alcuni progetti tra cui i corsi “CRACIS” e “150 ore” che dette la possibilità a tanti Aglianesi, e non solo, di accedere alla licenza di terza media.

Un altro obiettivo era il “tempo pieno”. In attesa che il Ministero alla Pubblica Istruzione

concedesse il tempo pieno (e per averlo fu fatta una grossa ”battaglia” perché c'era una gran voglia di scuola nel pomeriggio), i ragazzi dovevano essere seguiti nei compiti a casa, cosa che i genitori, entrambi occupati nell'industria laniera pratese e nell'artigianato aglianese, non potevano fare. Desideravano e chiedevano che la scuola, in qualche modo, diventasse un servizio per la famiglia, non solo per il tempo lungo ma anche un servizio più qualificato e con le porte sempre aperte.

Il Ministero alla Pubblica Istruzione nominò nuovi insegnanti, molto giovani, alle prime esperienze di insegnamento.

Quei nuovi insegnanti ci ispirarono molta fiducia: erano portatori di idee nuove molto simili alle nostre.

Noi rappresentanti dei genitori instaurammo da subito un buon rapporto di amicizia, in modo particolare con due professori, Paolo Magnanensi e Serafino Gian Gregorio. Essi, più degli altri, si configurarono come insegnanti con idee innovative, i trainanti del gruppo.

Le loro idee per il rinnovamento della scuola furono subito prese in considerazione e come genitori gli rimanemmo

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sempre vicino. Quell'anno il tempo pieno non fu assegnato, ma il

Consiglio di Istituto non voleva perdere quegli insegnanti e stabilì, per loro, un programma didattico apposito, denominato L.A.C.3 Questo programma didattico permetteva agli studenti più bisognosi di rimanere a scuola. Il tempo pieno prevedeva di usufruire della mensa, fare i compiti e le libere attività.

Furono costituiti gruppi teatrali che lavoravano su commedie scritte dagli stessi studenti, sulla scorta degli avvenimenti storici di Agliana, una delle quali aveva come argomento la ristrutturazione della chiesa di S. Piero nella metà ‘800, e altre commedie scritte da personaggi famosi.

Furono organizzati molti eventi sportivi ed un meeting intercomunale di atletica.

3 Libere Attività Complementari

Giochi della gioventù fase provinciale di Pistoia – Paola Zappi, in

rappresentanza delle scuole medie di Agliana.

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Vedevamo i Prof. Paolo Magnanensi e Serafino Gian

Gregorio i più impegnati per le libere attività. Per le attività sportive la Prof.ssa Maura Ereditieri era

rappresentante dei docenti in Consiglio di Istituto, più volte ha battuto i pugni sul tavolo affinché i suoi colleghi capissero che la scuola doveva rinnovarsi.

Con loro si stabilirono dei programmi di lavoro per gli studenti, per portare la scuola fuori dalle aule tra la gente.

Infatti i gruppi teatrali si esibirono in piazza A. Gramsci durante le festività patronali del Giugno Aglianese.

L'anno scolastico del debutto fu il 1977-78 e due gruppi teatrali debuttarono in piazza Antonio Gramsci con due commedie. Una realizzata dai ragazzi in base a una ricerca sulla costruzione del campanile della chiesa, l'altra commedia di Dario Fo, “Gli imbianchini non hanno ricordi” coinvolgendo molti ragazzi e tanta popolazione che si era avvicinata alla scuola in quanto gli studenti in precedenza avevano intervistato molte persone coinvolgendole con la loro ricerca, aspettando di vedere il loro debutto in piazza.

Durante lo spettacolo ci fu molta attenzione verso gli artisti che strapparono molti applausi, ma non tutta la popolazione condivise quel lavoro.

In molti non ritennero veritiera la storia senza rendersi conto che era un po’ romanzata: non fu capito il valore artistico dei ragazzi.

I professori che prepararono il programma e i genitori impegnati nella scuola per quello spettacolo, sapevano di non avere una scuola di recitazione, il loro scopo era di stimolare i ragazzi attraverso il teatro per contribuire alla realizzazione di un percorso educativo.

Quella fu una occasione per me per capire il valore che il nostro impegno dava alla nostra scuola .

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Scuola di ballo del Circolino “R” di San Niccolò. Da sinistra Sabrina Lazzerini e Italo Liberati, Chiara Liberati e Luca Atrei, Stefania Cini e Stefano Sarri.

Teatro Nocino piazza IV Novembre.

Dovetti stare accanto ai professori come presidente del Consiglio d'Istituto e rispondere di persona alle prese di posizione dei cattolici.

La Nazione nel giugno del '78 riportava sulla cronaca “Trecento ragazzi di Agliana dalle aule al palcoscenico”, il primo spettacolo fu fatto al cinema Giuseppe Verdi in occasione della chiusura dell'anno scolastico e poi i ragazzi raccontarono in piazza la storia di Agliana.

Il giornale La Nazione continuò a dare notizie dell'evento anche nei mesi successivi. Avevamo rivoluzionato il sistema scolastico. I ragazzi della scuola, con la scuola in piazza al di fuori dell'anno scolastico.

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Dette noia ai cittadini conservatori vedere noi genitori decisi, impegnati per il rinnovamento della scuola.

I ragazzi fecero la ricerca sugli archivi parrocchiali e lessero che il parroco Don Geremia Magni a metà '800, andò dalla famiglia Mangoni in piazza IV Novembre dove c'erano i muratori che ristrutturavano la loro casa e mentre demolivano un muro, trovarono dei soldi.

Don Magni saputo la notizia, bravo intenditore di vini, offrì loro quello buono e tra un discorso e l'altro si fece dare i soldi per

costruirci il campanile. Il cartellone che annunciava lo spettacolo era la figura

di quel parroco con in braccio un grosso fiasco di vino. Il Proposto contestò il cartellone dicendo che era

raffigurato Don Magni come il “Dio Bacco teneramente abbracciato a un fiasco di vino”.

Con lui discutemmo tanto, era un componente del Consiglio d'Istituto, fu molto duro durante le riunioni e mi scrisse delle lettere sia a me che alla stampa locale,

Rappresentazione della commedia di Dario Fo

“Gli imbianchini non hanno ricordi”

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Prove di uno spettacolo nella Piazza Gramsci

sulla storia della chiesa di Agliana

lamentandosi per la commedia non veritiere e per il cartellone dove veniva raffigurato il dio Bacco.

Con l'aiuto dei professori del tempo pieno, riu-scii ad avere la meglio con il parroco rispon-dendo e motivan-do il successo. La stampa locale che nella cronaca più volte riporta-va la notizia definendo il lavoro della no-stra scuola un grande evento, fu di grande aiuto.

Il preside aveva esposto il suo disaccordo di portare i ragazzi in piazza, ma noi genitori eravamo soddisfatti del risultato, la risposta fu unanime: la scuola é per la gente.

Il vicepreside invece che teneva i piedi su più staffe, dopo l'interferenza iniziale non fece mai pesare nei miei confronti quell'evento. Penso però abbia avuto un bel compito, giustificare quella forzatura verso il Provveditorato agli studi.

Il sindaco mi faceva capire che la mia era una troppa presenza nella scuola, penso fossero suggerimenti del vicepreside che qualche volta si sentiva escluso.

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Per un certo periodo gli incontri con il preside li facevamo in riservatezza, addirittura il preside, persona

sempre disponibile al confronto, per evitare gelosia, mi invitava a casa sua a Pistoia in ore pomeridiane.

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Aveva molto rispetto nei miei riguardi e degli altri genitori collaboratori, capiva il nostro sacrificio e quanto eravamo uniti. Qualche volta da lui ho avuto dei rimproveri molto marcati, ma durante i nostri incontri finiva sempre per affermare che lui era il Signor Preside della Scuola Media ed io ero il rappresentante di genitori, eravamo nella scuola insieme per cambiarla.

Paolo Magnanensi nel suo libro “Buona la prima”, mi definisce comunista forse un po’ clericale perché credevo nelle sue capacità e fermamente in quel progetto, ma a quei

tempi c'era il P.C.I. forte e bene organizzato e sebbene il Ministero alla Pubblica Istruzione sia stato sempre una

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chimera della Democrazia Cristiana, era un partito con delle idee. Noi militanti si spronava la direzione di quel partito per una scuola diversa. La scuola noi poveri “cristi”, la volevamo come una fabbrica che producesse materiale di prima qualità per i nostri figli e per cancellare le tante sofferenze ingiuste provate da noi genitori nei tempi passati .

Il PCI non esiste più e nessuno della povera gente, da allora, è stato in grado di far sentire la sua voce; il Ministero della Pubblica Istruzione è passato di mano in mano ai vari governi ma restando, con furbizia, sempre dalla parte della classe dirigente e continuando a far star male le classi meno abbienti con il risultato di mantenere tanti giovani semianalfabeti.

Ci vorrei essere tra qualche anno per leggere quello che scriveranno a proposito gli storici.

Noi genitori entrammo con forza nella scuola in quegli anni con i Decreti Delegati con l'intenzione di portarci tante idee fresche, ma molti di chi lavora là dentro in cattedra, si trova meglio così, con questo sistema, lavorano un poco, con il programma per loro già fatto.

Quell'anno anche la fine dell’anno scolastico, per volontà del Consiglio d'Istituto e dell’assemblea dei genitori, fu festeggiato fuori del plesso scolastico, al cinema teatro “Da Nocino” di nuova costruzione, in Piazza IV Novembre dove oggi risiede la Cassa di Risparmio di Lucca, già cinema Giuseppe Verdi, con l’ingresso dalla Piazzetta delle Erbe, di proprietà della Parrocchia.

Molto attivi per la riuscita furono i soci del CRAL aziendale dipendenti del comune di Agliana che si prodigarono nel trovare le attrezzature necessarie per gli spettacoli e per allestire il palco in piazza.

Furono organizzate tante gite per far conoscere ai nostri ragazzi luoghi e abitudini più lontane dalla nostra città.

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Tra le tante gite fu anche proposto di raggiungere la Città del Vaticano per partecipare ai ricevimenti di sua Santità che tutti i mercoledì della settimana riceveva a turno i ragazzi delle scuole di tutto il territorio nazionale.

Misi tutta la mia pazienza a favore del mio ruolo di Presidente del Consiglio di Istituto per sedare le contestazioni di buona parte dei componenti del Consiglio stesso che erano contrari per motivi esclusivamente di natura politica.

Feci opera di persuasione e me-diazione e alla fine fu decisa questa gita all'unanimità perché riuscii a far comprendere loro l'importanza che a-vrebbe avuto que-sta esperienza nella vita dei nostri ragazzi, coinvolgen-do per l'occasione anche le Istituzioni Aglianesi e le azien-de del territorio, che fecero portare dai ragazzi i loro doni ed i loro prodotti oltre alla storia del popolo Aglianese.

Quel periodo per alcuni studenti

Convegno realizzato dal consiglio di fabbrica in

collaborazione con l’Istituto “B. Sestini” di

Agliana. (volantino pubblicitario)

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della scola media, fu l'occasione per conoscere il computer, uno dei primi. All'Unicoop Firenze presso gli uffici ammini-strativi a Sesto Fiorentino, era presente un computer così grande da occupare tutta una stanza.

Il 27 marzo del 1979 fu organizzato un convegno di orientamento scolastico per i ragazzi delle terze classi, circa 200 ragazzi, presso le Officine Breda di Pistoia, dal titolo: “Convegno di orientamento professionale e scolastico”.

Fu fatta vedere loro la fabbrica mentre le maestranze lavoravano, e poi parteciparono al convegno assieme alle forze sindacali e a quelle imprenditoriali nel saloncino del dopo lavoro. Furono molti gli studenti che intervennero con richieste e domande. L'interesse dei ragazzi fu tale che chiesero al Consiglio di Istituto di invitare il Consiglio di fabbrica nelle loro classi, allo scopo di conoscere la realtà del lavoro, per poi poter fare le scelte giuste nella scuola per il loro futuro.

Su richiesta dei ragazzi quel Consiglio di fabbrica fu ospitato molte volte nella scuola. Spiegarono loro le attività delle fabbrica e il monte ore passato là dentro.

A fine convegno fu offerto loro il pranzo assieme a tutte le maestranze per consolidare l’amicizia con gli operai. L'iniziativa fu molto sentita e molto apprezzata dalle varie autorità del territorio.

Questo avvenimento portò la nostra scuola ad essere sempre tenuta in considerazione: ovunque parlavano della scuola media di Agliana.

Anche le Associazioni dei Partigiani in seguito fecero richiesta al Consiglio di Istituto di entrare nella scuola per raccontare agli studenti le loro testimonianze sulla lotta partigiana nel nostro territorio e nella provincia di Pistoia.

In seguito furono tanti i docenti a venire a insegnare nella nostra scuola, ma anche tanti altri a chiedere notizie

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per la realizzazione di quegli eventi che la stampa quotidianamente riportava.

Oggi quando leggo sui giornali che i ragazzi delle scuole recitano al teatro “Bolognini”, al teatro “Manzoni” oppure in altri luoghi, con il pensiero ritorno al 1975 al mio lungo impegno nella scuola dei Decreti Delegati, che miravano ad una scuola per tutti aperta tutto l'anno.

I genitori ebbero un ruolo attivo anche alle scuole elementari.

In quella scuola, per eleggere il Consiglio di Circolo, fu costituita una lista unitaria. Con l’unità dei genitori che si era creata nelle due scuole, il popolo aglianese fu molto attivo e preciso. Penso sia stato anche per questo motivo che Agliana fu scelta come sede del Distretto scolastico dei tre comuni con Montale e Quarrata, che ci permise di fare un salto di qualità.

Di quel Distretto facevano parte, oltre ai rappresentanti dei genitori eletti nei due consigli, Istituto e Circolo, anche le rappresentanze delle varie scuole e quelle delle Istituzioni. Durante quelle riunioni, dove dibattevamo i problemi relativi al futuro della scuola e ai futuri indirizzi didattici, era forte la richiesta affinché nella piana ci fosse una scuola superiore di indirizzo commerciale. L’industria laniera di Prato richiedeva giovani ben preparati, con un'istruzione appropriata.

Presidente di quel consiglio di Distretto fu eletto il Presidente del Consiglio di Circolo della scuola elementare di Via Livorno, oggi Gianni Rodari. Emilio Rafanelli si distinse nel coordinare i lavori di quel Consiglio, mettendo sempre a disposizione le sue capacità, senza mai far pesare la propria opinione.

Il comune di Agliana aveva già le condizioni per ospitare la nuova scuola: aveva una buona viabilità ed era

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raggiungibile facilmente da tutti i comuni limitrofi. Era il luogo adatto per ospitare una scuola superiore, ma la sua piccola dimensione e la mancanza di una struttura che l'ospitasse rendeva quasi impossibile la realizzazione di quel progetto.

Di questo grosso evento che doveva realizzarsi si parlava nelle sedi politiche oltre che nei consigli di Distretto ma senza mai approfondire la realizzazione. Noi genitori rappresentanti della scuola non riuscivamo mai a entrare nel merito. La questione era demandata agli Assessori dei tre comuni che dovevano mettere a disposizione i locali. Su questo argomento chi teneva banco in consiglio in genere era la rappresentante del comune di Quarrata, l’Assessore alla Pubblica Istruzione. Era una professoressa molto sveglia e ben preparata, molto interessata alla scuola e si capiva dai suoi ragionamenti che voleva farla realizzare nel proprio comune.

Un giorno infatti arrivò la notizia: era stato scelto il luogo per dar vita a quella scuola.

Ma qualche giorno dopo ho potuto assistere di persona a una discussione molto forte tra il nostro sindaco e l'assessore alla Pubblica Istruzione del nostro Comune; quest'ultimo aveva partecipato agli incontri con gli assessori degli altri due comuni e forse con qualche rappresentante dell’amministrazione provinciale competente.

Il nostro sindaco voleva fortemente quella scuola nel nostro territorio.

Riportai la notizia in sede politica, in commissione scuola e nell’assemblea dei genitori con lo scopo di fare una riunione con tutte le autorità competenti e informarle dell’accaduto, per fare chiarezza e capirci di più, c’era qualcosa che, secondo me, non tornava.

Un giorno mi venne a trovare il preside dell’Istituto

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Tecnico Commerciale Filippo Pacini di Pistoia. Mi spiegò i motivi del suo interessamento, mi dette dei

buoni consigli perché la scuola fosse aperta ad Agliana. Quell’uomo dall’aspetto intelligente e convincente mi

intrattenne molto tempo. Volle sapere prima di tutto se ero io il Presidente del Consiglio di Istituto della scuola media, le attività che facevamo e come eravamo organizzati. Ne sapeva più di me della nostra scuola, era molto informato anche sul Distretto Scolastico.

Mi disse che si sentiva aglianese nel sentirmi spiegare gli eventi con tanta passione e che la sua scuola a Pistoia era frequentata in maggioranza dagli studenti aglianesi. Mi disse che quella scuola doveva decollare per forza a Agliana. Gli feci sapere che nel nostro territorio non c'erano locali adatti ad ospitare una scuola superiore. Gli raccontai anche che avevo assistito ad un'accanita discussione in comune tra sindaco e assessore alla pubblica istruzione che parlavano della nuova scuola, ma che i locali idonei erano in un altro comune. A quel punto il preside dell’Istituto superiore Pacini mi suggerì il modo per avere la scuola nel nostro territorio, mi spiegò tutte le operazioni che dovevo fare per arrivare rapidamente alla conclusione e convincere gli organi competenti che la scelta che avevano fatto era sbagliata.

I suggerimenti del preside mi convinsero, dovevo assumermi molte responsabilità e agire con freddezza. Quell’Istituto Agliana non doveva perderlo. La sede era facile trovarla, me la suggerì lui stesso. Dovevo però iniziare un percorso politico che andava fuori dai canoni e dalle regole che noi genitori ci eravamo dati. In breve tempo organizzai degli incontri nelle varie sedi dei partiti più rappresentati nel nostro territorio per far capire l’importanza dell’evento.

Anche in comune ebbi dei colloqui con le autorità,

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chiesi loro collaborazione e riuscii ad avere contatti con l’assessore alla Pubblica Istruzione dell’Amministrazione Provinciale che aveva le competenze per la nascita di quella scuola commerciale, era poi lo stesso che doveva dare il benestare alle nostre richieste mandando personale ausiliario e materiale sufficiente per il funzionamento della scuola.

Trovato l’accordo con tutte le parti, rimaneva sempre aperto il problema con le autorità della nostra scuola media, perché le sezioni della scuola media superiore commerciale dovevano essere ospitate in quel plesso scolastico, dove le lezioni si sarebbero svolte di pomeriggio.

Il preside mi diede tutte queste dritte per arrivare alla conclusione dicendomi poi che le delibere le avrebbe fatte il Consiglio di Istituto ed ero io quello che dovevo proporre e fare approvare la delibera di accoglienza della nuova scuola. Dovevo però agire cautamente perché, se il preside della scuola media o altri suoi collaboratori fossero venuti a conoscenza del nostro progetto, tutto, molto probabilmente, sarebbe stato impedito.

I rappresentanti dei genitori già eletti nei vari consigli di classe, di tutte le scuole elementari e medie, quelli eletti nel consiglio di Circolo e di Istituto, fecero la loro parte sia in sede scolastica che in quella amministrativa.

Convocai il Consiglio d'Istituto, l'ordine del giorno aveva come oggetto: “Come ospitare alcune sezioni della nuova scuola superiore”.

Durante la riunione di quel consiglio furono valutate tutte le possibilità per ospitare nella nostra scuola la scuola superiore, proponendo la ristrutturazione di alcune classi e il recupero di qualche spazio poco utilizzato.

Non ci fu accordo. La scuola superiore doveva essere ospitata altrove. In quel consiglio però, si giunse ad un compromesso: la scuola media doveva collaborare sulla base

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della delibera che avrebbe fatto il Consiglio di Distretto durante un'assemblea appositamente convocata nella sala del Consiglio Comunale con le varie autorità scolastiche, del Distretto e quelle amministrative, compreso l’Assessore alla Pubblica istruzione della provincia di Pistoia.

Come Presidente del Consiglio d'Istituto trovai l’accordo prima con i due assessori di Comune di Agliana e Provincia, poi, dal Presidente del Consiglio di Distretto mi fu data la delega di presiedere quell’assemblea. Mi trovai per la prima volta a sedere nei banchi del consiglio comunale al posto del sindaco con al fianco i due assessori: quello di Agliana e quello dell’Amministrazione Provinciale.

In quell’occasione deliberammo la nascita a Agliana della nuova scuola superiore, sarebbe stata accolta nei locali della scuola media, le lezioni si sarebbero svolte di pomeriggio in attesa di altre strutture idonee che l’Assessore del Comune di Agliana e quello Provinciale nel frattempo si impegnavano a trovare. L’ Assessore provinciale si assunse gli obblighi per tutte le sue competenze.

L’assemblea durò molto tempo ma al termine ci fu un lungo applauso; avevamo vinto una scommessa facendo un conquista storica per il nostro Comune, per il nostro popolo; fu una vittoria soprattutto per tutti coloro che lavorarono per quella riuscita, tra cui i genitori di tutti i bambini che frequentavano le scuole del nostro territorio elementari e medie, che parteciparono con grande interesse.

Gli insegnanti delle scuole elementari e della scuola media furono per noi dei bravi collaboratori e apprezzarono il nostro lavoro, la nostra passione.

In seguito fui rimproverato dal preside della scuola media e dal vicepreside: mi dissero che nella scuola chi decide è l’autorità scolastica che ci lavora, non gli eletti che ci sono oggi e non domani e mi accusarono di aver abusato del mio

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ruolo di Presidente del consiglio di Istituto, avendo fatto tutto senza il loro consenso. Ma per me si trattava di portare avanti quell’impegno preso con tanta passione all'inizio dell’entrata in vigore dei Decreti Delegati che descrivevano il ruolo che avevano i genitori dentro la scuola.

Quella scuola aprì nell’anno scolastico 1978-79, il pomeriggio del 19 settembre, con quattro classi e 68 ragazzi, due classi prime e due seconde, nelle quattro aule di fronte via della Libertà, per tre mesi, rimanendo fino alle festività natalizie, poi la sede scolastica fu trasferita nei locali in Piazza Giovanni XXIII al piano superiore.

L’anno successivo la scuola fu subito molto frequentata. Furono in tanti gli studenti, licenziati dalla nostra scuola media, a iscriversi alla quella scuola commerciale. Molti studenti giunsero dai comuni limitrofi. Per tale motivo lo spazio della scuola divenne insufficiente per cui venne occupato tutto il pianoterra dove oggi risiede la U.S.L.

Avevamo raggiunto lo scopo, avevamo una scuola media superiore nel nostro territorio a disposizione dei nostri figli, per farli crescere più preparati a vivere in una società nuova.

In quel periodo riuscimmo a creare tra la popolazione entusiasmo per la scuola.

Molta fu la partecipazione del popolo Aglianese e come conseguenza furono valorizzati i contenuti e i programmi della scuola locale.

La scuola aperta

Molti adulti ritornarono a scuola beneficiando dei programmi CRACIS e poi di “200 ore” per conseguire il diploma di terza media e a quella scuola superiore da noi

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desiderata per conseguire il diploma di ragioneria. La scuola privata di qualche anno prima, organizzata e

sostenuta a nostre spese da noi adulti. Avrà fatto ripensare alle autorità scolastiche e

comunali agli errori commessi un tempo da poco trascorso? Dopo pochi anni, l’esperienza dei corsi CRACIS e delle

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“200 ore” vide la sua fine. Eppure ancora oggi non tutti hanno il diploma di terza

media e non tutti hanno la licenza di scuola superiore. Allora qui viene il rammarico in quanto noi ci

impegnammo affinché la scuola rimanesse aperta a tutti e per tutto l’anno per dare la possibilità a persone come me di ritornare a scuola ad imparare quello di cui ancora oggi sento la necessità.

In quel periodo cercammo di far spiccare un salto di qualità alle famiglie prima invitandole alla partecipazione nei nostri organismi, poi a diventare amici degli insegnanti dei loro figli allo scopo di avere consigli utili per le loro scelte.

I Decreti Delegati facevano in modo che docenti e geni-tori si impegnassero per la conoscenza delle proposte del progresso cognitivo ma anche a far superare alcune menta-lità arretrate che regnavano nelle famiglie.

Durante le nostre riunioni nella scuola si invitava sem-pre il personale docente ad essere disponibile a dare consigli utili ai genitori per l’orientamento dello studente e a dare indicazioni sulle predisposizioni dimostrate.

Il 29 novembre del 1982, la Federazione del P.C.I. di Pistoia, organizzò un convegno provinciale sulla scuola.4

Il titolo era: “Studenti, genitori e insegnanti, impegno per un nuovo governo della scuola”.

Quel convegno si svolse a Agliana, nei locali della casa del popolo di S. Michele . A livello provinciale fu un grande evento, in modo particolare per le scuole di Agliana. A presiedere quel convegno, la direzione centrale del partito mandò l’Onorevole Giovanni Berlinguer, Presidente della Commissione Nazionale scuola e l’Onorevole Petruccioli,

4 Il convegno di tenne nei locali del Circolo Scintilla di San Michele Agliana,

Nelle foto due momenti molto significativi: l’intervento della Professoressa

Fiorenza Gherardini e le conclusioni di Giovanni Berlinguer, responsabile

scuola del PCI a livello nazionale.

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responsabile della commissione scuola Regionale. C’erano anche tanti rappresentanti sindacali e delle Istituzioni che portarono il loro saluto.

I protagonisti del convegno furono i genitori e tanti insegnanti, specie quelli delle nostre scuole.

Tutti insieme misero a disposizione le loro forze, i loro ideali, il loro impegno democratico per una scuola nuova.

Quel rinnovamento unitario, sostenuto dai genitori che avevano raggiunto quel grande risultato con la formazione di liste unitarie, portò all’unione dei genitori all’interno della scuola.

Ospitare quella scuola superiore di indirizzo commerciale ha fatto onore alle autorità che fecero la scelta.

Molti studenti delle medie si iscrissero a quella scuola con indirizzo commerciale. Ma anche tanti altri si iscrissero ad altre scuole in modo particolare al Liceo Scientifico, a dimostrazione di quanto era attiva la nostra scuola nel preparare i suoi allievi dimostrando così che ad Agliana aveva cambiato mentalità anche la famiglia.

Nei comuni cambiarono sindaci e assessori, vennero persone nuove ad amministrare il patrimonio e ci si rese conto che la scuola necessitava di una nuova sede.

In poco tempo fu individuata la zona per costruire l’edificio scolastico nuovo più grande, più moderno che oggi fa bella mostra anche per chi visita il nostro paese. La scuola oggi ha tanti indirizzi professionali. Ed è considerata un fiore all’occhiello dell’intera provincia di Pistoia.

Oggi è conosciuta ovunque come “Istituto Tecnico Commerciale Aldo Capitini”.

Entrai dentro la scuola con i Decreti Delegati; volevo una scuola aperta a tutti, ma quel sogno è rimasto nel cassetto. Eppure anche oggi, come ieri, farebbe proprio bene

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a tutti ritornare un poco a scuola. Avevo letto alcuni libri di Don Milani, sentivo parlare

bene della storia di quel sacerdote ma non avevo mai approfondito le sue doti, la sua missione verso il popolo più debole, verso i bambini. Una volta entrato nella scuola come rappresentante dei genitori, insieme ad altri cercammo di capire meglio la sua figura e l’importanza che aveva avuto nella storia di Barbiana e nella scuola di quel paese.

Nella nostra scuola per il libro di testo insistemmo affinché si adottasse il suo libro “Lettera a una Professoressa”.

Noi genitori lottavamo per l’autonomia della scuola e per una didattica all’avanguardia, volevamo far capire ai nostri ragazzi che bisognava essere più preparati per affrontare il futuro come diceva Don Milani, anche se tra i

L’istituto tecnico commerciale “Aldo Capitini” nella sua veste attuale in Via

Goldoni, nei pressi dello Stadio Comunale.

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tanti genitori qualcuno lo contestava più per un fatto politico che per il suo operato come sacerdote. Avevo avuto occasione di conoscere persone vicine a lui, con ideali di sinistra, lo consideravano uno di loro.

Quando vidi la proiezione del film a lui dedicato ”Un Prete scomodo”, capii chi fosse quel prete attraverso i rapporti con i parrocchiani, con il popolo, con le forze politiche, non aveva avversari, era il prete di tutti, ma come accade spesso alle brave persone non lo era dei potenti. Con quel film rappresentarono perfettamente quello che era stato.

Comunque, nella scuola, la presenza di noi genitori fece sentire il suo peso e alcuni dei nostri ragazzi poterono rimanere a scuola il pomeriggio, in attesa del tempo pieno.

Quello fu un momento preparatorio per me e per tanti altri genitori per il futuro dei nostri figli.

Poco tempo dopo insieme ci trovammo ad affrontare un altro problema, quello di mantenere le sezioni della lingua francese. Le classi erano contrassegnate in lettere A, B, C, ecc. Nelle prime due, A e B, insegnavano la lingua francese, ma nessun genitore voleva iscrivere più i propri figli a quelle sezioni.

Quelle due sezioni non venivano valorizzate poiché avevano molti assenti agli appelli, guarda caso erano frequentate per lo più dai ragazzi delle famiglie più disagiate.

La Presidenza, senza fornire nessuna comunicazione, voleva cancellare quelle due sezioni, abolendo definitivamente l’insegnamento della lingua francese nella scuola.

Dovemmo mobilitare tutti i genitori dei consigli di classe di Istituto e l’assemblea dei genitori, intervenendo contro gli insegnanti, le autorità scolastiche e quelle comunali. La lingua straniera più richiesta era l’inglese, ma il

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popolo aglianese non poteva perdere due sezioni della sua scuola.

La storia fa sempre il suo corso e venne il giorno che il Comune di Agliana fece un gemellaggio con la cittadina francese di Mallemort de Provence.

Oggi il popolo aglianese può vantare di avere una scuola che insegna la lingua francese.

Tanti dei nostri ragazzi decisero di iscriversi alle scuole superiori. I figli di operai e contadini si iscrissero oltre che alle altre scuole, al Liceo Scientifico e Classico, fino ad allora riservati ai figli delle famiglie benestanti. La mia stessa figlia si iscrisse al Liceo Scientifico, consigliata e incoraggiata da noi genitori e dai suoi professori. Molti ragazzi si iscrissero alla scuola commerciale del nostro territorio.

Una famiglia di operai che faceva frequentare ai propri figli il Liceo era una novità. In quegli anni, poteva essere una vera forzatura. Infatti al Liceo non tutti i componenti, dagli insegnanti al consiglio di Istituto e quello di classe, accettavano volentieri la presenza dei nostri figli e molto meno noi genitori a rappresentarli. Si interveniva spesso quando si veniva a sapere a quale interrogatorio venivano sottoposti i nostri ragazzi campagnoli da parte dei docenti: che mestiere faceva il padre, quale la madre, se possedevano la casa, il telefono ecc… E di queste storie ne potrei raccontare tante altre. Avendo fatto quattro anni di esperienza nella scuola media inferiore, conoscendo quanto scritto nei Decreti Delegati ed essendo stato eletto nei vari consigli di classe del Liceo, nel corso dei cinque anni mi accorsi che molti studenti interrompevano la frequenza spesso per la mancata considerazione o la loro scarsa immagine tra i compagni di classe. Naturalmente chi, provenendo dalla campagna, andava a quel Liceo non poteva essere ben vestito e avere un atteggiamento

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compunto come uno di città, quindi aveva meno esperienze cittadine: non frequentava cinema, teatro o luoghi aggreganti.

Poi i nostri figli si iscrissero all’università e le nostre case si arricchirono di architetti, ingegneri, ecc.

In seguito ho continuato a interessarmi alla scuola, al ruolo dei genitori e alle attività interne, rammaricandomi tante volte per la scarsa diligenza e rendendomi conto che i partiti politici andavano perdendo il loro ruolo di guida. Di pari passo con la disgregazione del Partito Comunista, infatti, le Commissioni Scuola perdevano il loro ruolo politico sul territorio e oggi non esistono più. Quel legame di una volta fra la politica e gli eletti all'interno della scuola è andato a perdersi. In un sistema di lassismo, i dirigenti hanno preferito arrivare per fare carriera e curare i loro interessi, la questione della scuola è rimasta abbandonata.

Con il tempo sono arrivati la nuova tecnologia e il computer, che hanno rivoluzio-nato tutto il sistema, compreso quello scolastico, e noi adulti siamo ritornati analfa-beti.

Per un po' di tempo non ho sentito la necessità di avvicinarmi a quella macchina, ma poi mi sono

Saggio finale dopo il corso di chitarra

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reso conto di rimanere escluso dalla vita moderna e con pazienza, a 74 anni, ho ricominciato a essere allievo. Mi sono organizzato con altre persone pensionate dando vita ai corsi di studio per principianti in una casa del popolo. Il nostro scopo era di imparare ad accendere il computer e alla meglio di sapere scrivere il minimo indispensabile. Inoltre non mi potevo permettere di spendere tanti soldi in corsi bene organizzati né di partire, come tanti altri, da livelli avanzati. Ho dovuto, quindi, ripercorrere l’esperienza di quando organizzai il corso per prendere la licenza di scuola media.

Durante la frequenza di quel corso di computer, più volte mi sono detto: “Quando avrò imparato a scrivere con questa macchina, racconterò un poco di storia della mia vita, così chi la leggerà si renderà conto di quanto è stata dura, nell'impegno per la scuola e per il lavoro, per l'essermi sempre impegnato per i figli e per un mondo migliore”.

Oggi chi dirige il nostro Stato, la nostra Italia, l’ha ridotta in un “bordello” e tutto quello che è stato costruito dal popolo più minuto, in poco tempo, gli è stato tolto. Per questo ho pensato di scrivere con la speranza di dare ai nostri giovani e a chi lo vorrà un giusto contributo.

Tornando alla mia vita, giunse poi anche per me il giorno di andare in pensione e, con il tempo che avevo a disposizione e la voglia di imparare a suonare una strumento, tornai a scuola di musica.

Comprai una chitarra classica con l’intenzione di imparare a suonare qualche spartito.

Mentre fu semplice apprendere la teoria della musica, con lo strumento fu molto più difficile. Le mie dita rigide e troppo grosse non mi dettero la possibilità di esprimermi.

Trovai soddisfazione quando, accompagnato da un bambino, feci la prova del saggio finale della scuola.

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Imparai un poco a canticchiare e, con l’accompagnamento dello strumento, riuscii a comporre delle parole che poi un bravo amico maestro di fisarmonica musicò. Venne fuori un motivo, valzer lento, che portò nel suo repertorio per alcuni anni, provai molta soddisfazione per l'aver composto una canzone “artigianale” ma che poi tutti canticchiavano nelle sale da ballo.

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Mio nonno era un grande maestro

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Mio nonno per me era un grande maestro, mi insegnava

a fare il contadino, perché contadini non si nasce. (La scarsa disponibilità finanziaria non permetteva loro di aggiornarsi e le disperate condizioni della vita rurale alimentavano lo scontro sociale in tutta la campagna).

I contadini dovevano occuparsi di tutto: delle sementi, dei raccolti e della conservazione dei prodotti, della fecondazione e della nascita degli animali, specie quelli da cortile.

Quando era tempo di raccolto, il grano e gli altri prodotti dovevano essere divisi a metà con il proprietario del terreno, senza che questi in qualche modo avesse contribuito a farli crescere.

Al contadino rimaneva poco del frutto del suo lavoro e non disponeva mai di denaro finché non arrivava la chiusura dei conti colonici.

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Il contadino non poteva pensare a tanto, doveva lavorare dalla mattina alla sera tardi, doveva accudire il bestiame e stare al passo con le stagioni, a volte con ritmi di lavoro molto elevati.

Da bambino era la curiosità che portava alla passione per quel mestiere. Era la vita dell'aia, del cortile, della stalla; si vedevano nascere e crescere gli animali.

Il contadino aveva cura del loro allevamento insieme alle donne che si occupavano degli animali da cortile, servivano per il sostentamento della famiglia e per recuperare qualche soldo per l’acquisto del corredo, indumenti o altro per tutta la famiglia specie per i bambini.

I patti mezzadrili che furono aggiornati negli anni '30, condizionarono la vita dei contadini. Imponevano loro una serie di obblighi, penalizzandoli moralmente e finanziariamente.

Il nonno mi diceva che non condivideva tutti quegli obblighi e le imposte dovute. Era molto arrabbiato anche perché in quegli anni fallirono tante banche, forse saranno state Casse Rurali , ma lui diceva che erano banche dei preti, e con tutti i gestori della ricchezza aveva da ridire, specie con quelli del mondo cattolico.

Da bambino mi divertivo a guardare la nascita degli animali da cortile, vedevo deporre le uova sotto la chioccia, pronta per covarli. Ci volevano venti giorni per far nascere i pulcini.

Che meraviglia la nascita di quei pulcini che rompevano con il loro becco il guscio dell’uovo e liberavano la testolina!

Mi incuriosiva anche la nascita dei conigli nascosti tra tutto quel pelo. La madre, poco prima di partorire, si toglie il suo pelo per fare il nido ai piccini. Questi nascono completamente nudi e per alcuni giorni rimangono a occhi chiusi e tutti rannicchiati nel loro nido, al caldo, protetti

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dalla madre. Più tardi i miei genitori mi fecero assistere alla nascita

del vitellino. Tra i contadini c’erano degli esperti e mio nonno era

uno di quelli, lo chiamavano dottore, lo cercavano sempre per assistere al parto perché il vitellino va aiutato a nascere e si deve capire se si trova nella posizione giusta, qualche volta non lo era e soffriva durante il parto rischiando anche di morire. Allora l’esperto doveva lavorare all’interno del corpo della madre per metterlo nella posizione giusta. Appena il piccolo era nato, la mucca si alzava in piedi e lo puliva tutto con la lingua.

Anche il vitellino si alzava in piedi, un po’ sorretto dalle persone presenti e incominciava a nutrirsi con il latte della madre .

Anche il parto dei maialini era lungo. La scrofa per tutto il tempo resta stesa sul giaciglio e ad uno a uno incominciano a nascere tutti i piccoli. Subito dopo il parto i maialini vengono allattati, vanno tutti dritti al loro posto perché quello che nasce prima va in cima al petto della scrofa e tutti gli altri accanto, in fila, senza lasciare nessun spazio vuoto.

La corsa alla poppata si ripeteva più volte al giorno e tutti riconoscevano il loro posto questo per tutto il periodo dell’allattamento.

Fin da piccolo dovevo andare al pascolo coi maiali, mestiere riservato in genere ai bambini, mentre gli adulti andavano a lavorare nei campi per molte ore al giorno. Più volte il loro lavoro era disturbato da azioni militari.

Quando la guerra finì, la situazione era disastrosa. Non si facevano raccolti buoni per colpa delle rovine e delle buche causate dalle bombe sganciate dagli aerei.

Ci volle tanto tempo per chiudere quelle falle, d'inverno

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si riempivano di acqua e d'estate rimanevano a metà livello. Per chiudere le buche che avevano un diametro di circa

venti, venticinque metri, i contadini cercavano di gettare la terra dentro la buca senza chiuderla quando aravano il terreno.

La campagna era stata devastata. Molti contadini furono penalizzati perché non ricevettero nessun risarci-mento per i danni subiti.

Anche la scuola che frequentavo rimase impraticabile a causa di quei bombardamenti, l'anno successivo dovetti andare in quella del paese.

Era lontana da casa mia e il percorso era molto faticoso. La lunga salita da percorrere a piedi tutte le mattine mi faceva sudare e poi quando giungevo a scuola mi raffreddavo; la tosse mi disturbava per molte ore della mattinata.

In paese c'era tanta miseria, ma c'era un modo di vivere diverso dalla campagna. C'erano i negozi, le botteghe il mercato settimanale, il ritrovo della gente. La scuola ci chiudeva per diverse ore dentro le sue mura e anche la vita con i compagni era diversa dalla scuola di campagna.

Da grande, con gli amici, ho continuato a frequentare il paese. Appena si giungeva lì la prima cosa che si faceva era fermarsi dalla Teresina, “all'appalto”, a comprare le sigarette, allora le vendevano sfuse, poi con la sigaretta accesa tutti andavamo verso il bar, ci sentivamo persone importanti.

In paese venne un circo equestre e ci rimase tutto il periodo invernale. Tutte le domeniche c'era lo spettacolo. Conobbi una ragazzina di quel circo e in breve tempo diventammo amici, mi invitava sempre a vederla volare dal trapezio con sua madre. Mi affezionai a lei, era molto carina aveva i capelli neri e lunghi che le coprivano le spalle.

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Dovetti fare una scelta o comprare le sigarette come facevano gli amici oppure andare a vedere la ragazzina volare al trapezio.

Non c'erano i soldi e la scelta fu obbligata; da allora non ho più rimesso sigarette in bocca.

Il tempo passava veloce anche per me e mio nonno mi insegnava ad accudire il bestiame e a usare attrezzi agricoli trainati dalle bestie: aratro, coltri, carri, seminatrici ecc... Molto presto mi sarei dovuto occupare dei lavori dei campi.

Sapevo già imbrigliare i buoi e sapevo portarli nella stalla.

Il babbo non poteva eseguire certi lavori, stava perdendo la vista.

Il nonno invece ci lasciò all’improvviso mettendoci tutti in crisi: era ancora molto giovane, molto attivo e un buon maestro.

Con il decesso del nonno, la vita per me divenne molto complicata, tutto mi venne a cadere sulle spalle.

La mia vita da adolescente trascorse priva di quella spensieratezza che ogni ragazzo deve ricordarsi per tutta la vita per poterla poi trasmettere alla generazione futura.

Subito dopo la guerra, in paese e nelle campagne c’era la miseria più nera.

Alcune situazioni precarie furono risolte qualche anno dopo la guerra, quando il Governo fece aprire tanti cantieri dando lavoro a tanti operai1.

Per noi ragazzi, invece, non c'era una grande attenzione da parte dei nostri genitori, impegnati per la sopravvivenza

1 I cantieri Fanfani del 1948, furono aperti a favore della Forestale e la

sistemazione del suolo riferiti in genere alle opere di bonifica dei corsi

d'acqua, ma anche nella costruzione di case popolari.

Gli operai in genere lavoravano 5 ore al giorno con la paga di 500 lire al

giorno per chi prendeva il rancio, oppure seicento senza.

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della famiglia e a ricostruire tutti i danni provocati dalla guerra.

Noi ragazzi giocavamo con giochi che costruivamo da soli con materiale da recupero. Ci recavamo nelle aie dei contadini a fare “ruba bandiera”, oppure a praticare il gioco del pallone, con una palla fatta di stracci recuperati per casa, legati stretti con uno spago. Passavamo serate a tirare pedate, però a piede scalzo perché le scarpe non c’erano e chi le possedeva doveva togliersele per non sciuparle. Alla fine avevamo i piedi sanguinanti per le tante pedate date al terreno molto duro.

Ricordo quando fui incaricato dai compagni di gioco a comprare la prima palla di gomma con i soldi di una colletta.

Era una piccola palla, una delle prime, l'avevamo vista in vetrina in un negozio del paese.

Incominciammo a giocare con gioia, ma alla prima pedata più decisa, la palla si spaccò in due pezzi.

Costruivamo anche dei carretti, erano fatti in modo rudimentale per mancanza di attrezzatura e di materiale. Ricordo che le ruote andavamo a rubarle alla stazione ferroviaria tra i resti dei vagoni bombardati e bruciati, alle baroccine che servivano ai militari per il trasporto delle cassette da munizioni.

Quei carretti ci permettevano di gareggiare percorrendo una lunga discesa; vinceva chi che percorreva più strada, quello che si fermava per ultimo, quello era il traguardo. Al termine della gara si finiva sempre con una cazzottata per gli accorgimenti non consentiti che qualcuno faceva al proprio carretto violando le regole che si stabilivano ogni volta prima della partenza.

I carretti nella lunga discesa andavano molto veloci e alle curve chi stava dietro come secondo passeggero veniva sbalzato via, ruzzolando più volte sul selciato.

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Per noi ragazzi un altro periodo di svago e di tanto divertimento era l'estate, andavamo al fiume per fare il bagno. Di piscine non ne ho mai viste.

Percorrendo la strada principale andando verso il fiume, in aperta campagna, si trovava sempre Augusto Caldi, un uomo già con qualche anno che con la sua martelletta frantumava i sassi per il risanamento stradale, Augusto un giorno era seduto su di un monticino di sassi all'ombra di una frasca già appassita dal grande caldo, tagliata da un albero lì vicino, mezzo addormentato, a ogni colpo che dava con la sua martelletta, il sasso non si rompeva.

Mi avvicinai e gli chiesi: “Augusto, son duri codesti sassi?”

Girò leggermente la testa, aprì appena un occhio e mormorò: “Meno dei poveri”. Quel discorso ci fece sorridere tutti, non capimmo il significato, ma quando sono diventato più grande, quella frase mi ha fatto pensare, aveva proprio ragione.

Giunti al fiume dovevamo percorrere un lungo tratto del grottone, l'argine, la regola era che in quel tratto dovevamo rimanere nudi. Eravamo scalzi, l'unico indumento che ci copriva era un paio di pantaloni corti, strappati o male rattoppati.

Mentre si camminava su quell'argine, si mettevano in mostra i nostri genitali e coloro che erano più qualificati stavano sempre in prima fila.

Camminando in fila indiana si cantavano le canzoni rivolte alle donne, le più sporche che esistessero e quelle che finivano sempre in tragedia a causa dei tradimenti. Saranno state scritte da persone che conoscevano i fatti. Uno di questi, che ho conosciuto, era un certo Angelo detto Giangione, mai andato a scuola, ma dotato di tanta fantasia. Ricordo quando la mattina governava il bestiame nella

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stalla, su un foglio di carta scriveva la storia di una donna trovata in casa dal marito abbracciata all'amante mentre faceva il bucato.2

Diceva: “La Consiglia faceva il bucato, in quel mentre il marito è arrivato”. Un'altra si cantava così: “Quando passa la Raschiona portala in cantina, portala in cantina dagli il tubo, dagli il tubo e zeppa su”, e altre ancora ma… meglio non rammentarle!

Per andare al fiume a fare il bagno approfittavamo sempre del momento in cui i nostri genitori andavano a riposare dopo pranzo. Loro non volevano, erano troppo pericolose quelle buche fatte sul fondo del fiume della furia dalle abbondanti acque dei mesi primaverili.

In quelle buche molto profonde l'acqua rimaneva per tutto il periodo estivo e qualche ragazzo ci rimaneva affogato perché non sapeva nuotare.

Anche noi non sapevamo nuotare ma sapevamo galleggiare. Alcuni si procurarono delle grosse camere d'aria dei camion lasciati abbandonati in tempo di guerra, altri e tra questi anch'io ci arrangiammo con una zucca di quelle con il collo.

Ne avevo una che conteneva 6-7 litri, robusta, il nonno le conservava come contenitore per mantenerci asciutti i semi per la semina primaverile dell'orto.

Legate sopra i fianchi con una corda, continuavamo a galleggiare solo con una zucca.3

2

Il bucato le donne lo facevano in casa in una grossa grasta, un recipiente di

terracotta a forma conica, lo facevano di notte oppure di giorno.

Mettevano in quel recipiente tanta biancheria ben sistemata e sopra un telo

massiccio appositamente tessuto con sopra della cenere.

Ripassavano più volte l'acqua calda fin quando veniva considerato il bucato

perfetto. 3 Zucca ligenaria con il collo a forma di bottiglia.

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Con quelle zucche imparai a nuotare, come i cani. Nessuno di noi sapeva le regole del nuoto.

Zucca ligenaria (o del pellegrino)

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Le tradizioni rurali

Nei mesi estivi era facile fare tardi la sera perché dai

contadini c’era sempre gente che parlava, c’era dopo cena la sgusciatura del granturco, approfittando del lume di luna, la luce elettrica ancora in alcune zone era un sogno. Nell’aia si riunivano tante persone del vicinato per aiutare il contadino in quel lavoro.

Qualche donna più anziana approfittava nel mettere da parte delle foglie, quelle più sottili, quelle più vicine alla spiga da usare per farci i materassi per il letto.

Altri facevano conversazione, cantavano, qualcuno portava lo strumento musicale per suonare. Le ragazze intonavano le canzoni allora di moda, oppure sentite in altre manifestazioni canore avendo comprato il canzoniere alle fiere o ai mercati settimanali più importanti. In quei luoghi, venivano sempre degli improvvisatori, cantanti e suonatori di strumenti come la fisarmonica, nella piazza del paese suonavano e cantavano dentro un cerchio fatto di tante persone curiose di ascoltare motivi nuovi e pronti ad acquistare il canzoniere. Ne vendevano sempre tanti, specie alle ragazze.

Il canzoniere era un foglio di carta a colori, grande come quello di un quotidiano con i testi delle canzoni scritti sul davanti e sul dietro, che le ragazze imparavano a memoria. I giovani più canterini giunti da altri luoghi, si aggregavano a cantare, qualcuno ballava, dando vita così a una bella festa improvvisata. Altri invece, quelli più anziani, raccontavano storie che qualche volta forse non erano

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nemmeno vere. Altri organizzavano il gioco della ruzzola con delle

forme di cacio pecorino stagionato, un gioco a punteggio, praticato con molto accanimento. Chi realizzava il miglior punteggio, non pagava la quota del costo del cacio. Poi con quella forma di cacio iniziava un altro gioco a coppie; doveva essere frantumata sopra un tavolo con tanti cazzotti. Chi la rompeva per primo ne aveva un pezzetto in premio, l'altra veniva consumata subito da tutti coloro che avevano partecipato al torneo.

Durante questi incontri avveniva lo scambio di manodopera tra i contadini, dopo la raccolta del granturco c’erano altri prodotti da mettere in ordine compreso il tabacco raccolto da chi non possedeva il granturco.

Quando sono diventato più grande anch'io con gli amici ho fatto branco. Frequentavamo le abitazioni dove c’erano ragazze della nostra età, in genere per noi maschi il divertimento era fare la partita a carte con gli adulti. Le ragazze nelle case dovevano lavorare anche per prepararsi il corredo per quando si sarebbero sposate. A volte la serata si passava tutti intorno al canto del focolare. Lì gli anziani ci raccontavano le loro storie di vita, il militare, la guerra, la prigionia, ma in genere andavano sempre a finire nelle paure. Il lupo mannaro, il gatto nero con i campanelli, gli spiriti con la fiammella, e questi fatti esistevano sempre nei luoghi più bui, accanto ai cimiteri.

Ero ancora molto giovane, le recepivo con facilità, quelle persone anziane le sapevano raccontare con convinzione, sembravano tutte vere. Ho avuto paura tante volte di notte, specie nei mesi invernali, quando si faceva buio presto. Ricordo il periodo quando mio padre mi mandò a scuola nella sede del sindacato in paese per imparare a leggere il libretto colonico. Al ritorno la sera dovevo passare

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per una strada molto buia con accanto un bosco molto folto, lo stesso in cui le persone adulte ci raccontavano di aver visto la paura; quel tratto di strada lo percorrevo sempre di corsa e tutto di un fiato. Da quanto andavo veloce mi sembrava di non toccare i piedi per terra.

Tutto raccontavo al nonno e al babbo e loro cercavano di tranquillizzarmi dicendomi che qualcosa forse poteva essere possibile, come gli spiriti nel cimitero.

A quei tempi dentro al cimitero non esisteva illuminazione e i gas prodotti dalle tante salme seppellite potevano dar luogo a piccole fiammelle.

Mi tranquillizzai più tardi, quando incominciai a accompagnare mio padre alle riunioni di partito nei vari caseggiati sparsi nelle campagne. La sera si faceva molto tardi; in bicicletta, con un misero lume a carburo, con mio padre che mi teneva la mano attaccata a un braccio, era frequente passare da quei luoghi segnati dalle paure; toccando con mano quanto mi avevano raccontato quelle persone anziane, capii che non corrispondevano a verità.

Trascorso un po’ di tempo mi resi conto che quella cultura faceva parte di una ignoranza forse tramandata di generazione in generazione, per una questione di comodo di coloro che stavano alla testa della società.

Un giorno il Fattore che amministrava varie proprietà, compresa la nostra, invitò tutti i contadini a cena per il matrimonio della figlia.

A quella cena andai io perché mio padre da solo di notte non poteva viaggiare. La casa del fattore era lontana da casa mia, tanto fu che la notte rimasi a dormire da una zia lì vicino.

Quando arrivai in quella stanza così grande e bene apparecchiata, un contadino mi fece notare la particolarità dell’esposizione della tavola. Per i trenta o forse più

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contadini invitati era stato apparecchiato su un gradino abbastanza alto in modo da essere ben visibili dai proprietari seduti al tavolo in basso.

I contadini seduti secondo la fattoria di appartenenza e di importanza.

A rappresentare la nostra fattoria eravamo in tre al centro del tavolo perché noi eravamo coloni del Signor Commendatore Lido Caiani, giornalista del Giornale d’Italia. Un “Gerarca”.

Fu una bella cena anche se il regalo dei contadini per la figlia del fattore era abbastanza costoso. Ero giovane e feci una bella esperienza.

Mi servirono la bistecca che era più grande del piatto, una bistecca di vitello.

Non avevo mai visto una bistecca così grande in tutta la mia vita.

Ricordo che ci furono applausi per la sposa, per chi aveva fatto il pranzo, per il fattore e per tutti coloro che avevano contribuito e partecipato alla cerimonia. Ci furono scambi di opinioni tra contadini e proprietari e qualche risata. Poi la conversazione si fece più seria e qualche “battuta” fu di poco gradimento, forse il troppo mangiare e il troppo bere aveva contribuito a far parlar male.

Fu il Commendatore, con lo sguardo rivolto verso noi tre contadini che eravamo di fronte, a far notare agli altri proprietari accanto a lui la nostra presenza dicendogli: “Guardate i miei tre schiavi”.

Ci fu subito la mia risposta: “Sì, ma fino a che ce ne torna conto”. Quelle parole pronunciate da me così giovane dettero molto fastidio al Cavaliere, si sentì mortificato e offeso in mezzo a quei proprietari terrieri.

Ero un figlio educato da un uomo che andava per le case, per le aie dei contadini, nelle piazze a predicare la

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giustizia sociale e l’uguaglianza. Era mio padre che aveva pagato di persona l’ingiustizia

del periodo della dittatura dopo un rastrellamento in tempo di guerra.

Quella persona, quel Commendatore, poco dopo fece il peggior dispetto che si potesse fare a un contadino: decise di vendere il podere in sette parti.

Mio padre dovette rimanere amico e in buoni rapporti con i sette nuovi proprietari. Comunque doveva programmare un altro sistema di vita verso altri luoghi e anche verso altre città.

Il babbo un giorno andò alla fiera a Buonconvento (Siena) e comprò due vitellini piccoli di razza maremmana, belli, ben fatti, molto docili. Si facevano accarezzare e coccolare, appoggiavano la loro testa grossa alla persona vicina in segno di amicizia.

Quando arrivarono a casa nostra quelle due bestiole, era tarda notte dopo un lungo viaggio a piedi di circa 30 Km e tante ore passate nella piazza del mercato. Furono messi nella stalla con un bel letto di paglia e mia madre dette loro un secchio di acqua tiepida con della farina per sostenerli dalla stanchezza del lungo viaggio. Ricordo che la bevvero tutta di un fiato.

Ero io che tutte le mattine li pulivo strigliandoli sulle spalle e per tutto il corpo e poi con la spazzola gli raddrizzavo il pelo. Quelle due bestie si sentivano bene, dopo la pulizia leccavano ovunque la persona con quella lingua ruvida, a volte mi faceva rabbrividire, ma accettavo e contraccambiavo con delle carezze.

Fecero in fretta a crescere. Gli furono messe le briglie e il giogo sul collo per insegnargli a obbedire e per lavorare.

Andavo con loro a lavorare nei campi lontano da casa: facevo una grande fatica, ero ancora giovane per quel lavoro.

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Era impossibile tenere conficcato nel terreno nella giusta posizione l'aratro in quella terra asciutta e dura,.

Stanco, nervoso, triste, arrabbiato, qualche volta piangevo dalla disperazione. Un giorno che cercavo di lavorare quella terra tanto dura, i buoi che tiravano l'aratro scapparono, si misero a correre con quell’attrezzo dietro, con la lama tagliente che sfiorava gli zoccoli delle zampe. Rimasi a terra ancora più disperato e impaurito. Dopo alcuni metri si fermarono, mi aspettarono. Ancora disperato e stanco andai davanti a loro, li accarezzai, ci parlai come si fa con gli amici quando hanno bisogno di aiuto, poi ci rimettemmo a lavorare, trovammo la calma giusta e loro furono obbedienti.

A quei tempi i contadini tenevano molto alla campagna e alla lavorazione del terreno, era una gara tra i confinanti ad essere più precisi. Ad esempio quando c’era la semina del grano si lasciavano i campi ben livellati con dei solchi più o meno distanti l’uno dall’altro per lo sgrondo delle acque piovane, secondo la natura del terreno. Quando li dovevo tracciare, mettevo a distanza un palo in fondo al campo come per segnalare la parte finale.

I buoi già sapevano che dovevano andare dritti. Veniva un lavoro preciso e i solchi erano dritti come ceri.

I due buoi diventarono adulti e rimasero per molto tempo poco utilizzati nella stalla. Dopo giunse anche per loro l’ora dell’addio. Diventarono molto appetibili per il mercato, erano belli e molto grassi. Un giorno li accompagnai alla stazione e quando li feci salire sul vagone, destinazione Roma per il mercato, poi al mattatoio, li lasciai con tanta malinconia.

Il tempo passò veloce, incominciai a presentarmi alle fattorie a chiedere di condurre un altro podere. Eravamo già una famiglia che dava buone garanzie, babbo, mamma, tre figli giovani.

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Ero io che mi presentavo accompagnato da qualche amico conoscente della fattoria, ma nessun proprietario accoglieva le mie richieste.

Provai anche fuori provincia, facilitato dall’abbandono delle campagne da parte dei contadini, ma anche in questo caso non ci fu niente da fare.

Ancora usava essere accolti dal fattore e questo prima di dire l’ultima parola di accettazione, doveva informare il proprietario e chiedere informazioni sulla famiglia in modo particolare dal punto di vista politico.

Le informazioni venivano chieste a persone del nostro paese, le più conosciute, il parroco, il farmacista e il maniscalco, molto avverse a mio padre per i suoi ideali; questi facevano a gara nel dire quello che pensavano nei confronti della nostra famiglia.

Siccome mio padre era ben conosciuto per i suoi ideali, nessun proprietario ci affidò un podere. Mio padre era un comunista e attivista, spesso pagava di persona tante ingiustizie. Mi spinse a cercare un altro lavoro.

I lavori nei campi, l'operaio in fabbrica

Andai all’ufficio di collocamento a chiedere il libretto di lavoro.

Non fu facile averlo, come non fu facile poi trovare occupazione.

Trovai lavoro in una fabbrica di mattonelle; dividevo quell'attività lavorativa con quella contadina, in quanto la retribuzione era molto scarsa.

Avendo già l’età per prendere la patente di guida, mi iscrissi a una scuola con l’intenzione di lavorare come autista.

La patente doveva essere di secondo grado, per i motori

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a scoppio e diesel, perché a quei tempi i motori per automezzi li costruivano ancora così.

La scuola fu molto dura e scomoda seguirla. Mi costò molti soldi e feci tanti sacrifici per pagarla. Spesi tredicimila lire. Per molti pomeriggi dovetti andare in città che era distante circa trenta chilometri.

Al lavoro tentai di guidare un vecchio camion. Non mi sentivo sicuro, non frenava, aveva troppi difetti, mi rassegnai e continuai a lavorare in quella fabbrica.

Nella fabbrica c'erano ventotto addetti con capo e sottocapo. Ero il più grande degli addetti, tutti apprendisti, lavoravamo a turni.

Quando fui assunto toccavo il cielo con un dito dalla gioia per aver trovato lavoro in quella fabbrica, che era l’unica in quella zona; ma là dentro ci trovai le ingiustizie che poi con il tempo furono ravvisate e condivise anche dagli altri operai.

I turni di lavoro erano molto lunghi per noi giovani operai, otto ore di lavoro senza alcuna interruzione, dovevamo nutrirci lavorando.

Il lavoro consisteva nel manipolare sassi, sabbia e cemento, mangiando il panino mentre si lavorava ci si nutriva anche del materiale inerte usato per il manufatto.

Maturò il tempo per una rivendicazione sindacale, ci furono alcuni licenziamenti.

Per me giunse il momento di cambiare azienda e mestiere.

Avevo quasi venti anni e fui licenziato; partii per la città di Prato dove alcuni miei amici andavano per il lavoro stagionale alle fornaci dove producevano materiale edile.

Quel lavoro era simile a quello che svolgevo io nella fabbrica di mattonelle, ma era molto più pagato.

In quel periodo però dovevo stare anche attento al

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raccolto del grano, dovevo lavorare il terreno rimasto per arrotondare quella miseria di stipendio della fabbrica.

A quei tempi tagliavo il grano maturo con una falce a mano e la fatica e il mal di schiena mi faceva tanto soffrire.

Ero quasi sempre solo a lavorare nei campi. Qualche giorno veniva una persona a aiutarmi, era più grande di me e molto abile per quei lavori; in cambio gli davo l'aratura del suo campicello vicino casa al momento del bisogno e la consumazione di qualche pasto durante il giorno.

Lui e la sua famiglia, formata da quattro persone grandi, in qualche modo dovevano arrangiarsi all'ora di pranzo.

La fatica era tanta e l’avrei ben sopportata se poi quel raccolto fosse rimasto alla mia famiglia; invece al momento della trebbiatura la metà andava al proprietario del terreno senza che questi avesse mai messo piede nel campo una volta per aiutarmi.

Augusto, l'uomo che veniva con me a mietere il grano, mi incoraggiava a continuare per finire fino al giorno del raccolto e rimanere in attesa di momenti migliori. Invece quando giunsi con la mietitura in fondo al campo, con un gesto violento conficcai nel fusto di un albero quella bella falce nuova, con quel bel taglio perfetto, che mi faceva durare tanta fatica.

Decisi di prendere il treno alla stazione vicino a quel campo di grano e andai a Prato, poi ad Agliana per cambiare completamente mestiere e vita.

Il gesto fatto con la falce determinò la mia liberazione, mandai a quel paese tutti coloro che negarono le mie richieste di lavoro con l’intento di vivere dignitosamente insieme alla famiglia e poi ricompensare mio padre del peccato di essere comunista.

Giunto a Agliana andai subito a cercare lavoro a Prato

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dove c’era molta offerta. Non fu difficile trovare occupazione, ero molto giovane ma con la mentalità di uomo adulto.

La fabbrica mi riservò il lavoro peggiore Il capofabbrica mi fece l’elenco delle cose che dovevo

svolgere durante la giornata lavorativa e tutte le difficoltà che potevo incontrare lavorando là dentro. Mi spiegò come mi dovevo comportare in caso di pericolo.

Il pericolo più frequente era il fuoco in quanto in quella fabbrica si lavorava solo cotone cardato.

Presto mi accorsi che quel lavoro non era per me. Dopo qualche giorno si verificò un piccolo incendio che

con la prontezza degli operai fu subito domato. Scappai subito di là con l’intento di tornare a casa. Tornando indietro mi fermai presso un cantiere edile

per chiedere lavoro e mi assunsero subito: costruivano grossi palazzi con tanti appartamenti. Mi appassionai a quel lavoro.

Dopo il mestiere di contadino non potevo pretendere altro lavoro come succedeva a altri giovani venuti dalla campagna, non avevamo nessuna qualifica.

Con quella Ditta imparai alcuni segreti del mestiere rubando con gli occhi e attivandomi con le mani usando gli attrezzi del muratore.

In poco tempo fui utilizzato nei lavori di muratura più comuni e intanto che passava il tempo cercavo di capire con quali regole dovevo stare a quelle dipendenze.

Mi accorsi dopo qualche mese che le regole contrattuali non erano rispettate. Non per il lavoro e i rapporti di amicizia con i datori di lavoro e con gli operai di quella Ditta ma per i diritti, visto che i doveri venivano rispettati da tutti i lavoratori.

Insieme agli altri operai si stabilirono una serie di

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rivendicazioni normative e salariali, in quanto nella categoria dell’edilizia si diceva che l’ assicurazione non era nominale, ma numerica. In caso di malattia o infortunio però il numero veniva sostituito dal nome.

Si rivendicava la retribuzione con la busta paga; fu una dura lotta.

Una volta quando ci consegnarono la mensilità, lo fecero dentro una busta da lettere.

Gli operai più sprovveduti l’accettarono. Quelli più attivi politicamente come me rifiutarono quella presa in giro, dichiarandosi offesi per il gesto.

Dopo pochi giorni venne la notizia del licenziamento ed io ero tra i primi.

La lettera di licenziamento mi fu consegnata a fine giornata lavorativa ma già pensavo di chiedere lavoro ad altre ditte vicino casa.

Mi rivolsi a una già affermata nella zona fissando l'incontro la domenica dopo la Santa Messa.

I due datori di lavoro, due fratelli, mi ricevettero nel loro studio. Mi fecero alcune domande di rito: dove lavoravo, da dove venivo.

Il colloquio mi sembrava interessante ma si interruppe quando mi chiesero se ero disponibile a lavorare il giorno del primo di maggio.

Risposi che quel giorno è festa internazionale del lavoro, e che avevo già dato la mia disponibilità al Sindacato per organizzare la festa a Agliana.

A quel punto i due si guardarono in faccia e mi dissero: “Ci dispiace, ma date le circostanze, non ti possiamo assumere.”

Aggiunsi che ero andato a chiedere di lavorare alle loro dipendenze per la loro serietà e per la loro professionalità.

Offrivo mani e braccia come forza lavoro e loro, forse, a

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fine mese mi avrebbero pagato, eravamo in quell'ufficio alla pari. Ci salutammo e rimanemmo nel tempo amici.

Con un amico, che in altra ditta aveva subito la stessa sorte, decidemmo di lavorare insieme in attesa di momenti migliori.

Gelindo, che aveva iniziato a costruirsi la casa in proprio senza mestiere, cosa che facevamo tutti a quell’epoca, non riusciva a continuare e ci affidò i lavori per portare a termine la sua costruzione.

Per me fu una grande occasione lavorare con quell'amico maestro: diventai più pratico e più sicuro nel mestiere.

Nel 1958 imparai a fare il muratore

Dopo qualche mese, mentre lavoravamo in quella struttura, venne a trovarci un capomastro molto conosciuto nella zona e ci offrì da lavorare con la sua Ditta, conosceva la nostra professionalità e il nostro attaccamento a quel lavoro

Rimasi sorpreso quando seppi che quella Ditta era iscritta al Genio Civile.

Prendeva lavori di grande importanza dagli Enti. In quel periodo costruiva scuole e case popolari, aveva la manutenzione ordinaria degli immobili lungo i percorsi delle strade statali in alcune province Toscane.

Con l’amico concordammo il tipo di assunzione in base alle proposte offerte da quel datore di lavoro.

L’amico veniva assunto come muratore specializzato, invece per me l’offerta era di operaio qualificato perché non conoscevano le mie capacità.

In quella ditta ero ben considerato e il datore di lavoro, un buon maestro, mi dava la possibilità di conviverci bene.

Questo mi costava a volte dei sacrifici, rimanendo

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qualche ora in più in cantiere per il riordino, ma anche per essere spostato nei cantieri più lontani dato che ero il più giovane fra le maestranze.

Fu un datore di lavoro che mi stava vicino ad insegnarmi piccoli segreti che nel mestiere servivano per non perdere tempo e acquisire esperienza.

Era una persona che rispettava le regole sindacali, molto puntuale per saldare il conto alla fine del mese, con busta paga, cosa molto rara a quei tempi. Qualche difetto rimaneva nel conteggiare le ore fatte di straordinario, alcune volte dovevamo ritornarci sopra, mancavano sempre al conto di fine mese.

Un mese mancarono venticinque ore, ma non glielo feci pesare rimandando il discorso ai giorni successivi.

Una sera estiva del 1959, con il suo automezzo, un Fiat 615, ritornando da un cantiere in Firenze si faceva conversazione mentre si percorreva l'autostrada, si parlava di ladri che secondo lui, si annidavano in un circolo ricreativo che io frequentavo spesso. Gli feci capire che i ladri non erano in quel circolo ma in questo camioncino in quanto anche questo mese nella mia busta paga mancavano tante ore di straordinario.

Là finì la discussione. La domenica successiva, mentre con la mia famiglia ero a pranzo, quell’uomo entrò in casa con uno scatto deciso che solo lui sapeva fare, salutò tutti, poi rivolgendosi verso di me disse: “Da questo mese in poi le ore di straordinario le conteggerai sempre te per scriverle in busta paga”. Rimasi sorpreso del suo gesto e delle sue parole. In seguito mi fece capire che era una forma di collaborazione.

Il datore di lavoro era Loris Nesti di Agliana, ogni mattina arrivava in cantiere prima degli operai e man mano che ne arrivava uno, faceva la predica per un motivo o per l'altro.

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Verso di me qualche volta il rimprovero era per non incominciare qualche minuto prima a prendere lavoro.

La regola era che ogni muratore doveva avere un “manovale” per fornirgli il materiale necessario durante la giornata, ma all'inizio della giornata lavorativa, il muratore doveva avere tutto pronto, nel luogo di lavoro, calce, mattoni ecc.. . Il muratore non doveva perdere tempo.

Nei primi tempi io non capivo, allora mi diceva: “Virgilio!!! tre per otto ventiquattro!” oppure qualche altro giorno, con più rabbia “Oggi sei per otto quarantotto!!!”

Qualche giorno dopo capii il ragionamento; voleva dire che persi sei minuti di tempo per otto operai faceva quarantotto minuti. Quel giorno, a modo suo, quei minuti erano persi.

Era una persona che aveva sempre qualcosa da dire, con semplicità dialogava con la gente, era uno che sapeva comandare, ogni suo comando sembrava una lezione per fare bene il lavoro.

Teneva in tasca dei lapis di legno, quelli da falegname e a ogni muratore ogni tanto ne consegnava uno, facevano parte degli attrezzi.

Un giorno lo dette anche a me, mi fece andare insieme a un muratore a prendere lezioni, mi fece alzare la cantonata del fabbricato e poi tirare le corde. Era un muro a sassi abbastanza largo, con doppie corde. La costruzione era un edificio per le case popolari, veniva costruito senza “badare a spese”. Prima di iniziare a murare, mi venne vicino e con quel lapis segnò il punto dove ricadevano le corde.

Quel segno sul muro serviva nel caso che durante i lavori le corde venissero urtate; non avrei impiegato altro tempo per riposizionarle, essendoci il segno già fatto.

Mi dava i consigli per riconoscere i materiali, come usarli, come murarli. Si comportava da grande maestro ed io

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ero sempre pronto a seguire i suoi consigli. Presto fui molto richiesto da alcune ditte che venivano

nel cantiere, come il falegname oppure il fontaniere, l'elettricista, mi volevano per assisterli nell'esecuzione dei loro lavori. Il falegname mi preferiva agli altri perché avevo trovato il modo sicuro per murare gli infissi.

Ero diventato buon amico non mancavano le confidenze, molte volte si faceva conversazione anche fuori dal recinto del cantiere.

Una volta le organizzazioni sindacali proclamarono uno sciopero generale. Ero attivista del Sindacato, stimolai i lavoratori per la sua riuscita. Infatti quel giorno lavorò un solo operaio.

Il giorno dopo il Nesti mi disse: “Ieri avete fatto tutti sciopero ma il Pesciolino, che è un fascista non l’ha fatto”.

Gli risposi subito dicendogli che nella sua ditta con quell’ideale ce n’era uno solo.

Rimasi per oltre due anni, fin quando un altro datore di lavoro mi venne a cercare.

Il dramma venne quando decisi di dare il preavviso del mio licenziamento, quante offerte mi furono fatte per rimanere!

Rimanemmo buoni amici, mi cercava quando doveva vedere dei lavori nuovi, voleva la mia compagnia, non mi fece pesare mai la mia scelta. Capì che volevo ricoprire una qualifica più alta e rimanere a lavorare nella zona, per alleviare i costi che dovevo sostenere per gli spostamenti da un cantiere all’altro, fuori provincia e molto lontani che per raggiungerli qualche volta dovevo usare mezzi di fortuna.

L’altro motivo, che lui non sapeva, era che in sede sindacale si parlava ormai da tempo tra i colleghi di categoria di dar vita a una cooperativa edile.

Nella zona c'erano tanti muratori che si misero a

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lavorare in proprio, ma con scarsa professionalità, facevano in prevalenza piccoli lavori. Anch'io avevo quel desiderio. Insieme potevamo avere la consulenza da tecnici ben qualificati per la migliore riuscita nelle costruzioni e nel disbrigo delle pratiche.

Fu impossibile però tra tanti trovare gli accordi necessari per unirsi.

Agliana, poteva avere una cooperativa edile che poteva essere un punto di riferimento per uno sviluppo edilizio più preciso e più razionale.

Viste le tante persone interessate, immigrate ad Agliana da molte regioni italiane, specie da quelle meridionali, era senz'altro un evento storico irripetibile. Non andò così, perché l'idea si diffuse in paese e le poche ditte esistenti nel territorio cominciarono a distribuire in abbondanza piccoli lavori a quei muratori che lavoravano in modo individuale.

I rappresentanti sindacali della zona e anche quelli provinciali, giovani delle loro competenze, non seppero prendere in mano con decisione l'idea di quell'evento. Rimasero assenti.

Questo secondo me fu il fallimento del Sindacato con gli immigrati, specialmente quelli meridionali . Era dovuto alla cultura paesana ogni persona manteneva le sue abitudini e le sue tradizioni.

Era difficile dare fiducia all'organizzazione sindacale, specialmente le persone poco politicizzate venute dal Sud. Si sentivano imprenditori con orgoglio, ritornando al loro paese qualche volta con il doppio metro fuori della tasca !

La Ditta che mi assunse in seguito era formata da tre soci, Baldi, Bindi e Bucciantini.

Baldi Giovanbattista, detto Bista, era quello che aveva più potere decisionale, fu lui a venirmi a cercare per lavorare con la sua ditta. Ci conoscevamo ormai da un po’ di tempo in

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quanto frequentatori del circolo La Scintilla, lui in quel luogo, era un attivista molto impegnato. Mi sottopose alla prova.

I giorni di prova furono svolti per la costruzione della casa del figlio di Emilio Baldi in via Lungo Calice. I primi due giorni mi fece lavorare insieme agli altri operai, il terzo giorno, mi dette il compito di portare a termine le mura di mezzo con mattoni murati a viaggio, era un poco più difficile.

Dopo aver controllato il muro già costruito in precedenza fino a una certa altezza, se era murato in piombo, tirai la corda in linea e incominciai a murare. A una certa ora del giorno, in cantiere, giunse Bista a controllare i lavori e dopo una breve conversazione mi lasciò lavorare. Non mi accorsi che mi aveva spostato, di proposito, un poco la corda dalla giusta posizione che io avevo messo.

Bastarono pochi mattoni murati e mi resi conto che quel muro non era perfetto. Controllai la posizione della corda, era spostata dal segno che avevo fatto con quella matita.

L'aveva spostata Bista e forse lui da una certa distanza guardava il mio comportamento.

Tornò al cantiere, salì sull'impalcatura accanto a me dicendomi che avevo superato la prova: ero assunto come suo dipendente.

Rimasi a lavorare con quella ditta per sette anni. Da imprenditore mi spiegò come faceva a valutare la

convenienza di aggiudicarsi un lavoro, su che base facevano i conti e quali rapporti avevano con i clienti. Questo aspetto lo curava molto, spiegandomi inoltre quali richieste facevano i clienti nei riguardi delle maestranze da mandare nelle loro case.

Ho fatto il muratore fino al 1968. Oggi si riconoscono i

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segni da me lasciati in alcune case, le facciate, i marciapiedi, le scale interne e qualche pavimento.

Capii che non bastava fare il muratore, servivano gli aggiornamenti per comprendere il materiale da usare, i progetti per leggere i disegni e per calcolare il ferro e tutta la carpenteria .

Per questo ci unimmo in un gruppo di muratori. Avevamo bisogno di tornare tutti a scuola.

A livello provinciale, tramite il sindacato, si dette vita a una scuola professionale per operai edili presso l'Istituto Tecnico per Geometri, Emilio Fedi di Pistoia.

La scuola venne programmata per cinque anni con il primo anno di abbuono perché eravamo già esperti del mestiere e del cantiere.

Ci insegnarono tante cose utili, prima di tutto la matematica per poter fare i calcoli del ferro, consegnandoci poi il regolo calcolatore.

Avevo molta passione per quel mestiere, vedevo crescere il muro da me costruito, a fine giornata lo osservavo a qualche metro di distanza dal fabbricato. Gli amici commentavano il mio atteggiamento poi mi dicevano: “Quel muro sembra costruito a faccia vista”. Mi sono detto tante volte che nella vita basta poco per superare le difficoltà, basta un momento e guardarsi intorno con gli occhi ben aperti.

Trascorso qualche anno, per motivi diversi, sono ritornato in alcune di quelle case, ma mi sono fermato anche ad osservarle strada facendo, guardo con interesse i miei ricordi. Qualche proprietario o abitante meravigliato del mio sguardo curioso, mi chiede perché, gli rispondo se conosce la vera storia della casa, chi l'ha costruita e come.

Ancora ho impresse nella memoria tutte quelle abitazioni e i tanti lavori eseguiti per il miglioramento

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strutturale. Era bello costruire e ristrutturare per migliorare la

qualità della vita. E' vero quel proverbio che dice: “La calce è bella e bianca e va messa dove manca”.

Frequentai la scuola per tre anni e fu un enorme sacrificio, tutti i pomeriggi dopo l’orario di lavoro

In cantiere mettevo in pratica quanto acquisito. Qualche volta mi sono divertito nel disbrigo di alcuni lavori aiutandomi con la matematica.

Un socio della ditta, Bucciantini, non aveva fiducia nei conti che gli facevo, ricorreva sempre alla squadra per vedere se l'angolo, oppure una pendenza corrispondevano.

Invece l'altro socio, Bista, mi osservare soddisfatto per quello che portavo di nuovo in cantiere, esempi semplici ma utili a risparmiare tempo e fatica

Senza nessuna richiesta, finita la scuola, mi promosse muratore specializzato di prima categoria.

Mi divertivo a risolvere alcune situazioni dal punto di vista pratico e teorico e se qualche volta mancavo in cantiere per risolvere dei problemi, qualche collega diceva aspettiamo “l’architetto”.

Anche per la sicurezza del cantiere ci furono più attenzioni che davano una crescita nell'arte dell'edilizia: la cassetta dei medicinali per il pronto soccorso, l'uso corretto degli attrezzi elettrici, l’uso del quadro elettrico con interruttore salva vita e con lo scarico a terra. A quei tempi l'educazione delle persone era scarsa. Bastava un filo che dal motore elettrico veniva legato a un tubo dell'acqua o un tondino di ferro conficcato in terra e tutto andava bene.

Alcune norme erano trascurate perché non erano ancora obbligatorie come l'impalcatura esterna al fabbricato.

Ricordo quando andammo con Bista a riparare il tetto della chiesa di San Michele. Quella mattina c'era la brina,

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montammo sul tetto credendo che ovunque fosse asciutto, invece Bista incominciò a camminare sui marsigliesi poi cadendo, questi ghiacciati incominciarono a scivolare verso il basso, ed io sdraiato sul manufatto, con una mano cercavo di trattenerlo. Finì la corsa sulla grondaia murata, altrimenti, povero Bista, sarebbe stata la fine.

Si parlava poco di sicurezza sul lavoro e mancava l'informazione.

Le ditte in quegli anni avevano materiale scarso sulla sicurezza. Usavano molto legname. Lo usavano per fare l'impalcatura. Molte volte facevo osservazioni sull'uso di quelle abetelle lunghe e sottili. Materiale che non ritenevo sicuro. C'era sempre un collega con più anni di me e più anni di mestiere, più pratico nell'uso di quel materiale, mi diceva a modo di battuta, di non essere troppo preoccupato e faceva sempre l'esempio “del palo per ritto e donna per piano reggerebbero il Duomo di Milano”.

Durante la costruzione della Distilleria Baroncelli in Via Ticino ad Agliana Gli operai stavano lavorando senza alcuna protezione a 15 metri di altezza.

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Dopo aver frequentato quella scuola molte volte richiamavo all'attenzione la ditta per fornirsi di materiale nuovo per rendere i ponteggi più sicuri, ma dei tre soci, c'era sempre quello che si tirava indietro, uno perché era giunto all'età pensionabile, l'altro perché era una persona egoista.

La persona più giovane era Bista, aveva l'interesse della continuità dell'azienda e di dare valore ai suoi dipendenti mostrandogli sempre buona considerazione.

Eravamo un gruppo di operai tutti alla pari e tutti buoni amici anche se il carattere era diverso l'uno dell'altro.

Angiolino, detto Gamba Gialla da Campi Bisenzio, Fernando, detto Firenze, veniva da Bagno a Ripoli, Giovanni, Enrico , Teodoro, venuti da Chieti, detti Gomitino per essere dei grandi bevitori di vino, bevendo alzavano il gomito, il Nencini venuto da Vicchio del Mugello, “la Carvietta”, il tovagliolo che si usa al ristorante.

Tutti riportavano la loro storia e tutti avevano il loro modo di vivere.

Angiolino veniva la mattina in cantiere dicendo che la notte si era sentito male insieme alla moglie, un infarto, gli sarebbe passato dopo avere bevuto “due o tre grappini”.

Una mattina in bicicletta andavamo al lavoro a Prato tutti insieme, c'era ovunque tanta brinata, sembrava una nevicata. In prossimità della casa di un contadino, in via Galcianese, Enrico notò dentro una fossa una tacchina morta ricoperta di brina. La raccolse e quando giunse in cantiere incominciò a parlare con voce disperata con altri colleghi di quella tacchina che l'aveva investita con la bicicletta strada facendo, poi dovendo pagarla al contadino e rimanere senza soldi.

Quella tacchina era troppo grossa per la sua famiglia, la offrì ai colleghi un pezzo a uno, un pezzo all'altro, a prezzo ridotto, in breve tempo la mise in vendita tutta.

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Con quei soldi ricavati, tra una risata e l'altra, ci consumammo tanti fiaschi di vino durante e dopo la giornata lavorativa.

Al cimitero di San Michele si doveva costruire una tomba familiare per un cittadino del posto. Incominciammo a sfondare il terreno, a un certo punto trovammo due teschi in ottimo stato, gli feci una accurata pulizia per esaminarli. Erano bene conservati, uno era con tutti i denti l'altro non ne aveva .

Li misi poi su di un muretto per osservarli e farli vedere anche a qualche curioso.

Ghilli un muratore della ditta disse a Firenze: “Fernando guarda!! a me mi ci vorrebbe quello con i denti, a te quello con il cervello”.

Fernando si era sposato a quarant'anni con una donna più grande di lui di origine meridionale, non aveva figli. In casa viveva anche con la suocera. A volte si disperava, non lo trattavano come una persona normale, diceva di subire i comandi della moglie e della suocera.

Gli dicevamo sempre di reagire a quei soprusi, ma lui non era capace, era sempre costretto a subire.

Tutti i giorni c'era della cronaca e qualche risata, quello era il modo di stare insieme e volersi bene.

Rimasi a lavorare con quella ditta per sette anni. Comunque dentro di me rimaneva sempre il desiderio di

lavorare in proprio. Con un collega di lavoro provammo, ma le mie

condizioni familiari non mi permisero di continuare. Avevo i genitori invalidi, il padre cardiopatico, bisognoso di assistenza continua e mia madre invece soffriva di disturbi all'apparato addominale.

Quella situazione familiare mi imponevano di lavorare alle dipendenze per avere l’assistenza gratuita. L’assistenza

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sanitaria a quei tempi era privata e solo lavorando alle dipendenze c'era un minimo di agevolazione almeno nei ricoveri ospedalieri, l'assistenza pubblica venne dopo qualche anno.

Più tardi decisi di fare un concorso pubblico bandito dal comune di Agliana per operai addetti alle manutenzioni, cantoniere. Non mi fu difficile superare quella prova, nella parte teorica e pratica ero molto preparato. Divenni dipendente del Comune di Agliana, ma i rapporti di amicizia con gli operai e con Bista rimasero. Ero sempre interessato alla vita di quella ditta e con Bista e altri amici passavamo qualche ora insieme la sera e nel fine settimana nel circolo dove c'era sempre il ritrovo e l'attività.

Quando il consiglio decise di rialzare il fabbricato, io feci parte della commissione urbanistica appositamente costituita, fu stabilito che i lavori dovevano essere affidati a ditte del posto, Bista e la sua ditta erano affidabili.

Con lui spesso parlavamo dei lavori che doveva eseguire e dei tanti clienti che aveva, rammaricandosi spesso che presto la sua ditta sarebbe andata a finire non avendo ricambio in famiglia, le sue due figlie non gli garantivano niente e nemmeno i futuri generi che avevano altre professioni.

Bista mi riteneva un buon amico, mi corteggiava affinché ritornassi con lui a lavorare. Mi diceva che in seguito mi avrebbe affidato la ditta.

Tutto doveva avvenire con i lavori del circolo La Scintilla.

Quando gli portai il capitolato d'appalto per avere il suo preventivo, prima di riconsegnarlo volle aspettare alcuni giorni. Si era reso conto che la sua salute non era più perfetta e rinunciò l'offerta.

I lavori del circolo se li aggiudicò un'altra ditta, sempre

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del posto, perché per Bista il tempo era finito. I nostri buoni propositi finirono e la sua ditta cessò di

esistere. Bista, la mattina quando usciva di casa per venire a

trovarci sui lavori, prima di salire sulla vespina CC 50 accendeva la sigaretta e continuava a fumare tutto il giorno. Molte mattine veniva sul lavoro, mi consegnava il pacchetto di sigarette perché lo gettassi via. Diceva che quelle sigarette gli facevano male.

Il pacchetto lo nascondevo dietro un mattone in alto per non farlo vedere, ma lui dopo poco tempo tornava a chiederlo con la smania di fumare.

Molte volte ho fatto il finto tonto per non ascoltare ciò che diceva, ma con il suo insistere e qualche parola detta male, dovevo cedere alla sua richiesta.

Forse non si rendeva conto, del resto come tanti altri, che anticipava la fine della sua vita.

Il giuramento

Entrai a lavorare in Comune e dopo qualche giorno il segretario generale mi chiamò per fare il giuramento. Dovetti giurare di rispettare la Costituzione Repubblicana, il Presidente della Repubblica Italiana.

Con quel giuramento mi sentii persona responsabile verso i cittadini di Agliana. Capii che tutti non potevano ricoprire certe mansioni e che dovevo avere un comportamento al di sopra delle parti.

Il segretario generale del comune insieme ad altri dipendenti mi chiamava per spiegarmi quello che diceva la legge comunale e provinciale allora in vigore.

Nelle leggi si diceva che il dipendente dell'Ente locale deve prestare aiuto e non deve accettare né pretendere

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compensi, deve fare educazione, prevenzione e da ultimo repressione ma con molta attenzione e tanta cautela. Consigli che ho sempre rispettato.

Conoscevo il mestiere di muratore e avendo frequentato la scuola per operai edili all'Istituto Tecnico di Pistoia, in cui ci insegnarono molta teoria, l’Amministrazione Comunale mi utilizzò in tutte le esigenze. Oltre a impegnarmi nella muratura, mi utilizzò come elettricista e in piccoli lavori di falegnameria.

Avevo la patente di guida categoria “D “ autoveicoli, per lo scuolabus, fui il primo autista del comune, iniziando dall’Opera Nazionale Maternità Infanzia, oggi asilo nido. Più tardi nella la scuola media ed elementare.

Presto fui qualificato capo cantoniere. C’era un piccolo gruppo di persone per aiutarmi nei vari lavori di manutenzione ordinaria, ma anche alcuni anziani già in pensione o disoccupati che venivano assunti per qualche mese, avevano bisogno di arrotondare la pensione molto bassa oppure bollare il libretto di lavoro avendo poi diritto all’assistenza sanitaria per tutto l’anno.

Poi la mia qualifica cambiò in assistente di cantiere. L'Amministrazione Comunale intese allargare la pianta organica aumentando altri servizi. In seguito mi furono date altre qualifiche, fino ad arrivare alla qualifica di concetto, Assistente Tecnico.

Quando fui assunto dall’ Amministrazione, trovai un modo diverso di lavorare, dovevo tener conto della ”gerarchia”. Per me una cosa del tutto nuova, con le ditte private prima il rapporto era tra persone. Il datore di lavoro suggeriva, comandava e qualche volta chiedeva consiglio alle maestranze.

In comune, invece, a quei tempi era la politica che suggeriva e gli Uffici che comandavano. Non c’erano contatti

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diretti con le persone preposte a comandare ma l’operatore doveva essere in grado di assolvere ciò che il Comune aveva deliberato.

Sono rimasto a lavorare in quel Comune per venticinque anni, fino alla pensione.

Era in vigore la legge comunale e provinciale e la categoria ancora non era riconosciuta, c'erano molte disparità economiche e normative tra impiegati e salariati.

I salariati erano coloro che lavoravano fuori dagli uffici, otto ore di lavoro con orario spezzato e poco stipendio. Questa categoria era in continua agitazione per farsi riconoscere un contratto di lavoro proprio.

Quando feci il concorso, era per titoli e esami. Il bando richiedeva per il titolo di studio la quinta elementare, mi presentai con altri titoli fra cui anche il diploma di terza media. Era una novità per la commissione giudicatrice avere un operaio già adulto con quel titolo.

Tornato ad abitare ad Agliana mi sono divertito a conoscerla. Il territorio era diviso in frazioni ben marcate e distanti l'una da l'altra, con le sue abitudini, con le sue tradizioni, con i suoi campanili.

Un comune che si stava trasformando da attività agricola a quella artigianale con le premesse di arrivare presto a quella industriale.

Il periodo agricolo che si stava con il tempo estinguendo, ancora vedeva la campagna attiva con molta mezzadria, e tanti piccoli proprietari.

Agliana era ben considerata nell'organizzazione dei coltivatori diretti. La roccaforte era S. Michele, la zona con più coltivatori diretti. Infatti la sede comunale era proprio a S Michele in prossimità della piazza, con tanti aderenti alla

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cosiddetta “Bonomiana”4 L’espansione industriale pratese, favorì l’attività

artigiana in Agliana. Quasi tutte le case avevano il portico oppure qualche

stanza da rimessa agricola vicino l’abitazione, ci portavano un telaio per tessere stoffa e tutta la famiglia, dal più giovane al più anziano, lavoravano con quella macchina.

Nella campagna avevano mucche nella stalla che producevano latte per il fabbisogno del paese e anche l'allevamento dei vitelloni era fonte di guadagno, come la “ciuchina” adatta ai lavori dei campi, quelli più leggeri.

L’edilizia incominciò a prendere campo in quanto ogni tessitore con quella attività, aveva l’ambizione di allargarsi. Vicino alle loro abitazioni cominciarono a far costruire un piccolo stanzone per il telaio, diventando più grande con il tempo, per altri telai.

Entrarono molti soldi nelle case e furono in molti a decidersi di farsi costruire anche la casa.

Anche gli immigrati, che si organizzarono verso lo sviluppo artigianale, alcuni definiti come “tessitori per conto terzi”

La grande immigrazione poi diede un forte contributo alla crescita del paese.

Gli immigrati prima sostituirono il contadino poi abbandonarono la vita agricola per dedicarsi a quella artigianale e industriale ormai in espansione.

Quando divenni dipendente del comune, nel 1968, Agliana non contava che quindici strade asfaltate: via Dante Alighieri, via Vincenzo Bellini, due tratti da via Fratelli Cervi a via Giovannella, e alla fine, un breve tratto al Ponte alla Trave. Via Cervi, via Garibaldi, via della Libertà, via

4 Nome popolare assegnato al sindacato dei coltivatori diretti fondato da

“Bonomi” già ministro democristiano all’agricoltura.

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Magni, via Matteotti, dalla piazza A. Gramsci fino alla provinciale SP1, via Puccini dalla piazza IV Novembre fino alla provinciale SP1, via Roma, via Santini, via S. Michele, questa cilindrata, via S. Niccolao.

Via Travetta era una delle strade principali del paese, da via Magni continuava con via XX Settembre, l'ho vista asfaltare nel 1969. Fu a penetrazione come tutte le altre strade.

Un giorno fui invitato dal tecnico del Comune a procurarmi degli attrezzi per il collaudo di quella strada che sarebbe avvenuto qualche giorno dopo.

Per le altre strade del paese il risanamento della carreggiata avveniva nel periodo autunno- inverno. Quattro camionisti locali a turno portavano del pietrisco di cava prelevato a Serravalle oppure a Monsummano e noi addetti a quel lavoro lo distendevamo con la pala per tutta la carreggiata.

In alcune strade era difficile entrare con i camion. Ad esempio in via Ticino, via della Costituzione, via Reno molto di quel materiale doveva essere trasportato con il barroccino a mano. Via Settola e via Galcigliana invece in alcuni mesi dell'anno erano impraticabili. Furono necessari molti viaggi con quel materiale per rialzare un buon tratto della carreggiata.

Lo sviluppo urbanistico si stava estendendo e la richiesta di terreno per edificare era tanto. Alcuni proprietari dei terreni vicini ai centri abitati tracciarono una strada con pala e piccone e cominciarono a vendere dei lotti di terreno da edificare, senza provvedere alla illuminazione, alla fognatura, ai marciapiedi, altri servizi ancora non c'erano.

Le strade più conosciute, via Venezia, via Buozzi, via Trieste, via Don Bosco, via Don Minzoni, via Mazzini, strade sterrate, private, erano ancora senza manutenzione.

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In seguito fu difficile garantire la manutenzione ordinaria nelle strade private che dovevano essere percorse con gli automezzi dei residenti e da altri cittadini, perché i proprietari erano tanti. Ci furono tante discussioni tra amministratori e cittadini per trovare un accordo per farle passare comunali. Ma in questi casi i lavori di risanamento, non furono fatti a regola d'arte.

Solo molto più tardi incominciarono a cambiare le regole.

Oggi invece quelle strade non si riconoscono più come strade private, sono diventate di grande importanza per il paese. Ad esempio via XX Settembre che ha sostituito quasi tutta via Travetta, terminava all'incrocio con via Carducci.

Imparai a conoscere la classificazione delle strade, cosa nuova per me, ma quando presi servizio volli conoscere la geografia del comune e tutte le strade, comprese quelle consorziali, vicinali e poderali.

Mi accorsi che con il tracciato dell'autostrada Firenze-Mare, il territorio di Agliana era diviso in due e a farne le spese furono proprio le strade sopra descritte.

Insieme ad altri dipendenti del comune più anziani di me, conoscitori del territorio, cominciammo a individuarle per rendersi conto in quale stato si trovavano.

In alcuni tratti di tutte queste strade abbandonate a se stesse, si trovarono piante da vivaio, foraggio per bestiame, vegetazione di ogni tipo.

Con l'aiuto dell'ufficio tecnico e la collaborazione dei vigili urbani, cercammo di recuperarle tutte. Le contestazioni degli occupanti furono tante, ma capimmo che qualche cittadino aveva occupato quel terreno privo di ogni conoscenza del dovere civico.

Per noi dipendenti e per i nostri amministratori fu un fatto importante aver recuperato quei luoghi, dimostrammo

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alla cittadinanza attaccamento e custodia del patrimonio pubblico.

Le strade recuperate furono poi transitate con i nostri mezzi meccanici per la ripulitura dei corsi d'acqua, tosature delle erbe infestanti, ed altri lavori per migliorare la visibilità del territorio.

L’attività politica ad Agliana era molto attiva, c’era il Partito Comunista molto organizzato e anche il Sindacato, la C.G.I.L. che aveva molti iscritti.

Il comune era amministrato da una Giunta Socialcomunista con delle persone ben qualificate politicamente e molto attive per il partito e per il territorio. Alcune venivano dalla lotta partigiana, altre avevano vissuto il periodo fascista, altre ancora più giovani già con l’esperienza della fabbrica e del mondo del lavoro.

Agliana cresceva molto in fretta dal punto di vista demografico. I cittadini avevano bisogno dei tanti servizi che la Società moderna imponeva e le forze politiche le rivendicavano con forza alle Autorità competenti.

Ho sempre prestato attenzione alla vita politica e amministrativa del comune facendo parte degli organismi dirigenziali del Partito Comunista . Nelle discussioni in sede politica mi sono ritrovato tante volte ad essere chiamato a decidere su alcune decisioni importanti.

Quando ho iniziato l'attività lavorativa in Comune ho gestito la realizzazione di tutti quei servizi che politicamente i nostri amministratori avevano da tempo programmato dando loro consigli per realizzarli.

Ho partecipato in prima persona all'inaugurazione della prima biblioteca comunale nel 1969, in via della Libertà 3. Insieme a due colleghi di lavoro abbiamo selezionato tutti i volumi in dotazione e li abbiamo collocati nei vari scaffali per renderli ben visibili. La biblioteca ancora non aveva il

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nome e nemmeno un responsabile. Per quell'occasione organizzammo una festa nel rispetto delle Istituzioni visto che partecipava a quella inaugurazione l’Assessore Regionale, il primo nella storia dell’ordinamento regionale.

Organizzai tutta la cerimonia per l'inaugurazione dell’asilo nido allora ONMI , nel 1971, dopo che ebbi riparato al suo interno tutti i danni provocati dall’usura del tempo, perché quel locale era rimasto inutilizzato per circa dieci anni.

All'inaugurazione erano presenti il sindaco, assessori, autorità civili militari e religiose, un onorevole e la presidente nazionale dell'ONMI e la cerimonia avvenne in pompa magna.

Le strade si presentavano in pessimo stato, (comprese

Via Mazzini e via Curiel), ancora sterrate e terminavano vicino a quell'edificio, dovemmo falciare e spalare l'ortica e

Inaugurazione della sede dell’ONMI in Via Eugenio Curiel, poi sede

dell’asilo nido Comunale.

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altre erbacce per renderle transitabili. Questa era la nostra volontà ci sentivamo partecipi e

collaboratori della vita amministrativa, spinti dalla volontà politica con l'organizzazione femminile presente, l' UDI, Unione Donne Italiane, che faceva da guida.

Il tecnico del comune mi teneva sempre bene informato dei programmi del lavoro e dei deliberati della giunta. Dimostrava fiducia nei miei riguardi, per la mia diligenza e per l’interessamento alle opere da realizzare, utilizzandomi quando doveva procedere agli espropri dei terreni o altro.

Rimasi male e triste quando andammo ad espropriare il terreno per costruirci lo stadio comunale.

Tutto il terreno di quel bel podere, un unico appezzamento, ben tenuto con una vigna che faceva invidia a tutti, pensare di doverlo demolire per adibirlo al gioco del pallone proprio non lo condividevo.

Ricordo l’inaugurazione. Fu invitata la squadra di calcio di serie A, la Fiorentina. Avevo il biglietto omaggio uno dei primi numeri della serie, lo regalai per non soffrire pensando a quel bel podere. che non esisteva più.

Lo stadio comunale l’ho visto costruire, ero quasi sempre presente e curioso di vedere come veniva preparato il terreno da gioco. So bene come è stato costruito il drenaggio e l’impianto per il deflusso delle acque sotto il manto erboso per la sua funzionalità. Il titolare dell’impresa parlava volentieri con me quando si esaminava il terreno per le impermeabilizzazioni del drenaggio e poi quello che occorreva per la semina. Parlavamo anche del concime da usare per governare il manto erboso. Lo trovammo in abbondanza, fu recuperato nella concimaia del contadino che conduceva quel podere

Quell'impianto sportivo fu costruito bene, gli fu dato il nome del vecchio campo sportivo, ma con grande titolo.

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“Stadio Comunale Germano Bellucci”. In seguito fui incaricato dall’Ufficio Tecnico del

Comune a fissare tutte le targhette in metallo dove erano specificate le misure della lunghezza della pista sul lato in travertino ai bordi della pista per lo svolgimento delle gare di atletica leggera, sulla base dei disegni progettati e forniti dal Coni.

Anche per costruire un cimitero per tutti gli abitanti di Agliana l'amministrazione comunale individuò la zona, fui incaricato di eseguire prelievi di terreno a oltre un metro di profondità per mandarlo a esaminare e stabilire se era adatto per consumare le salme.

Inoltre la rete del metanodotto ad Agliana arrivò prima che negli altri comuni limitrofi. Politicamente come organizzazione comunale noi aglianesi eravamo più preparati nel richiedere la fonte energetica, volevamo eliminare gli altri prodotti considerati fonte di inquinamento.

L’acquedotto rimaneva l'opera più difficile visto che nel territorio non c'erano montagne, il governo lo aveva programmato per il 2020.

Ogni famiglia aveva il pozzo artesiano, realizzato per prelevare l'acqua alla falda acquifera poco profonda, ma era molto inquinata. Per risolvere questo problema il Comune sfruttò i bacini artificiali del territorio mirando al recupero di altre sorgenti fuori di esso.

In quel periodo, le forze politiche bene organizzate, con persone molto serie, conoscitori della disciplina di partito e delle esigenze del popolo, sapevano quello che volevano e sapevano chiedere alle autorità governative.

Il partito comunista aveva una cellula bene organizzata all’interno dell’ente. C’era una forte organizzazione sindacale che stimolava e collaborava con l’Amministrazione per le migliori riuscite delle sue scelte nella realizzazione dei servizi.

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Ricordo quando parlavamo della realizzazione dell’acquedotto comunale, nacque in tutti i componenti del movimento politico e sindacale l'interesse, eravamo tutti pronti a collaborare.

Alcuni iscritti si proposero per uno studio approfondito, affiancandosi ai tecnici per trovare le soluzioni giuste e stabilire i tempi per la realizzazione..

Come bacino per il contenimento dell’acqua dei tre laghetti sul territorio, fu scelto quello di via Vincenzo Bellini, ex cava Briganti, il più grande, il miglior conservato. Quel bacino era usato solo come luogo di caccia agli acquatici nel periodo dell’attività venatoria. Gli altri due della fornace "Frosini" per un periodo di tempo servirono come discarica.

Necessitavano di una bonifica e nel periodo estivo gli operai del comune si proposero di ripulire gli argini.

In seguito furono collegati l'uno con l'altro per tenerli

Un momento delle operazioni di pulizia del cavo “Briganti” da parte delle

maestranze del comune.

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come riserva, ma poi quel progetto fu abbandonato. Il lago scelto in poco tempo fu bonificato. Gli operai del

comune individuarono tutte le infiltrazioni esterne deviandole in altre direzioni, recintandolo per tutto il perimetro per vietare l'accesso ai non addetti ai lavori.

Quei lavori di bonifica non bastarono, dovemmo collegare quel bacino con una sorgente di acqua pulita individuata nel territorio del comune di Pistoia, fuori dell’abitato, dove non doveva esserci nessun tipo di inquinamento. La zona individuata era sopra l’abitato di Santomato, nel torrente Bulicata.

Per raggiungere quel luogo molto lontano dal lago, dovemmo distendere tanti tubi in metallo, semplici tubi che in genere vengono ancora usati per l’irrigazione dei terreni agricoli.

Posa in opera della tubazione provvisoria dal Bulicata per l’alimentazione

del bacino dell’acquedotto (L’Assessore ai lavori pubblici Luciano Bonacchi

e il Sindaco Marco Giunti in visita ai lavori)

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Il percorso molto lungo e pieno di ostacoli indusse il personale dell'Ente a lavorare molte ore al giorno con dei decespugliatori, tosaerba, motoseghe e altri mezzi meccanici per fare posto alla tubazione che doveva correre sul greto del fiume.

Ero in prima fila con i colleghi di lavoro a coordinare il lavoro insieme al tecnico, per la migliore riuscita, mettendoci tutta la mia professionalità.

Il lavoro si svolse anche nel tardo pomeriggio e di notte con il lume della luna quando si dovette passare sotto la strada provinciale Pratese, il fiume e la ferrovia Pistoia-Firenze per non dare nell'occhio ai loro sorveglianti, rischiando l'impedimento anche se temporaneo dell'opera.

Bastò poco tempo per quella realizzazione e per far partire l’impianto di depurazione dell'acquedotto. Fu definito l'acquedotto dei quindici giorni. Quelli furono i giorni che servirono per posizionare le tubazioni e il collegamento all'impianto, con lo scopo di allargare la rete idrica nel territorio, per fornire le famiglie di acqua buona e a volontà.

Quella realizzazione fu ideata in collaborazione con il comune di Pistoia, ma questo non garantiva la sufficienza necessaria.

I programmi dell'Amministrazione Comunale e le richieste di tutta la popolazione dicevano di estendere ancora la rete idrica su tutto il territorio.

Si costituì una Azienda Municipalizzata per chiedere finanziamenti statali.

Doveva essere costruito l'acquedotto nelle zone limitrofe del paese, ma l’ azienda non aveva personale, e non disponeva di una pianta organica sin quando il servizio non andava a regime era il comune a dover mettere a disposizione il personale qualificato per condurre quell’impianto.

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Con una nota di servizio, il sindaco Renato Risaliti mi spostò in quel luogo dicendomi che ero l’unico ad avere i giusti requisiti per quel lavoro. Dovevo rimanerci in attesa di concorsi all’azienda dandole la possibilità di assumere personale qualificato.

Quell’impianto dotato di quattro grosse cisterne e quattro grosse pompe era a funzionamento manuale, periodicamente dovevo fare il contro lavaggio dei filtri e il controllo della quantità di cloro immesso in rete, anche la macchina dosatrice era manuale.

Il lavoro non era faticoso, ma il tempo impiegato era tanto giorno e notte, ventiquattro ore al giorno. Rimasi in quell’impianto per alcuni mesi passando molte notti là dentro, specie nell’estate quando c’era molta richiesta di acqua, qualche volta riposando su una branda che mi ero portato da casa.

Poi giunsero i nuovi tecnici, freschi di scuola e bastò poco tempo per fargli capire il funzionamento di quell’impianto. Solo allora potei tornare al cantiere.

L’azienda in poco tempo divenne più grande estendendo la rete idrica anche nelle zone più periferiche del paese e anche i comuni limitrofi copiarono un po’ i nostri progressi nel garantire quel servizio a tutti i loro cittadini. Infatti bastò poco tempo per costituirsi in un unico consorzio con i comuni di Montale e Quarrata, questa volta però attingendo acqua nel territorio del comune di Montale nell'Agna alle Conche.

Con l'allargamento della rete dell'acquedotto, si garantiva una maggiore riserva di acqua da usare nei mesi estivi. Quel bacino doveva essere più grande.

I Tecnici stabilirono di rimodularlo all'interno e rialzare gli argini per tutto il perimetro. Cominciarono i lavori con mezzi meccanici e fu riportata con grossi automezzi molta

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terra, così quel bacino incominciò a prendere un'altra forma come ampiezza.

I cittadini osservavano soddisfatti quella realizzazione. Purtroppo anche nei lavori semplici la troppa

confidenza con l'automezzo porta a sottovalutare qualsiasi pericolo. Anche in questo caso un camionista addetto al trasporto della terra con il suo camion dopo averlo scaricato, ripartì con il ribaltabile ancora alto, alla prima manovra, questi ribaltò dentro il lago e l'autista rimase dentro la cabina.

Avevo lavorato a quell’impianto e fui invitato dalla direzione dell'azienda municipalizzata, AMAG a continuare a lavorare alle loro dipendenze. Poteva essere conveniente dal punto di vista economico, ma proprio in quel periodo le nuove regole contrattuali mi diedero la possibilità di accedere a un concorso interno per titoli. Lo superai e il mio nuovo inquadramento professionale divenne una qualifica intermedia tra assistente di cantiere a impiegato di concetto con un piccolo aumento dello stipendio, preferii rinunciare a quell'offerta.

In seguito con il rinnovo del contratto, la mia qualifica, fu preso in considerazione dagli amministratori l’ avanzarmi ancora di livello, raggiungendo così la categoria di concetto.

Molte volte ho pensato a quei tempi, quando il lavoro per me era una gara. Quando studiavamo in cantiere il modo di lavorare, all’attaccamento al lavoro, alla politica, al partito.

Quando il sindaco o la giunta andavano nelle zone del paese anche a quelle più limitrofe per fare conferenze oppure a rendere conto ai cittadini del loro operato, con altri dipendenti del comune andavamo a controllare le zone se erano in ordine, come dipendenti ci sentivamo partecipi di ogni evento.

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L'Amministrazione comunale aveva fiducia della nostra partecipazione e in poco tempo allargò la pianta organica dando la possibilità ad ognuno di essere responsabile delle sue mansioni. Ci dotarono di attrezzatura idonea per fare alcuni lavori in proprio, sostituendo alcune ditte che non sempre mettevano in pratica la loro professionalità.

Era più facile comandare un dipendente ed essere più puntuale.

L'organizzazione del comune si vede dal territorio, dalla viabilità.

Il verde ben tenuto e mantenuto, la viabilità sotto controllo nei riguardi delle ditte appaltatrici e la segnaletica sempre efficiente. Questo era possibile essendo dotati di personale e macchinario adatto alle esigenze. Potevamo essere considerati una Ditta Comunale, per il pronto intervento. Il nostro comune era portato come esempio dai cittadini dei comuni limitrofi.

Per noi dipendenti del Comune, il motivo del lavoro era farlo bene, cosa che con le ditte appaltatrici non succedeva.

Gli facevamo anche i conti in tasca, costava molto meno farlo in proprio. Facevamo anche la bitumatura stradale noleggiando la rifinitrice, l'altra attrezzatura l'avevamo in proprio, lo scopo era non rimetterci le mani per venti anni e così avveniva e con minor costo. Questa politica non ha funzionato, con il tempo è fallita per colpa della classe dirigente al potere facendo pesare sui dipendenti pubblici, (quelli di bassa qualifica,) i costi statali, lasciando a desiderare il funzionamento dei servizi, ma da noi, nel nostro comune non era così.

L'Associazione Partigiani, Sezione di Agliana voleva ricordare i suoi caduti nell'ultima guerra 1940-45 e in collaborazione con l'Amministrazione comunale incaricarono l'Ufficio Tecnico per dei progetti per redigere un monumento

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per ogni Partigiano caduto. Quello di Santini Adelmo in località Groppoli nel comune di Serravalle Pistoiese, fu da me realizzato.

Da pensionato molte volte ho pensato a quale poteva

essere il motivo che spinse gli amministratori a tanta considerazione nei miei riguardi visto che non forzai mai troppo, specie in quell’occasione per quella richiesta di qualifica .

Mi trovai nella categoria di concetto, sesto livello uguale a quella di geometra, anche se di categoria inferiore con un salario inferiore, ma in compenso una bella qualifica. (Istruttore Tecnico con Mansioni Progettuali).

Potevo rimanere ancora a lavorare in comune. Con quella qualifica stavo molto bene nell’ esercizio della mia professione, ma il mio sogno era ancora quello di lavorare qualche anno in proprio, fare il muratore.

Negli anni '60 e '70 furono programmati tutti questi servizi e tanti di questi in breve tempo si videro realizzati. Il

Monumento al partigiano caduto Adelmo Santini in località "Groppoli" di Serravalle Pistoiese

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comune di Agliana era in evoluzione ma non aveva una pianta organica efficiente per far fronte a tutte le esigenze del cittadino.

Con la misera pianta organica che aveva, come si è visto prima, utilizzava spesso personale anziano per fare fronte alle esigenze di tutto il territorio, molta manutenzione era necessaria per mantenere in ordine il patrimonio e i luoghi frequentati sempre dai cittadini. Tre cimiteri, i campi sportivi, i marciapiedi lungo le strade costruiti non a regola, i parchi ecc... impegnavano tanta manodopera,

L'Amministrazione comunale dal 1971 al 1983 fece arrivare ad Agliana tanto diserbante, specie nei primi quattro anni, per far fronte a quelle esigenze. Ne fece arrivare a quintali in barattoli di 15-20 Kg ciascuno. Un prodotto granulare e in polvere. In alcuni di quei contenitori c'era scritto “DERVAN” e altre marche senza etichetta e senza istruzioni per l'uso.

In quelle etichette si capì dopo non c'era il nome del produttore, ma era il fornitore la ditta che figurava.

Lo trovammo molto efficace per distruggere tutte le erbe infestanti, facendo qualche volta a gara a chi ne distribuiva di più con lo scopo di risparmiare tempo e fatica nei mesi primaverili, dovendo usare arnesi da lavoro, molto più faticosi per eliminare tutte le erbacce infestanti.

Usando quel prodotto lungo le strade, qualche volta si verificava di danneggiare piante di altro genere e verdura seminata negli orti.

Un giorno quel materiale fece male a tutti, dovemmo ricorrere al medico. Ci suggerì di non usarlo mai più fin quando non si sapevano le origini chimiche di quel prodotto.

Con il tempo l'ente Infortuni mi ha riconosciuto l'invalidità permanente per malattia professionale, ma non abbiamo saputo che fine hanno fatto quelle persone anziane

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che venivano assunte per qualche mese all'anno per arrotondare la loro pensione o aver diritto all'assistenza sanitaria.

Un giorno decisi di chiedere di andare in pensione visto che avevo già maturato i requisiti necessari. Mi fu concesso.

Continuai a lavorare per conto mio nell’edilizia. Con un minimo di attrezzatura, iniziai a fare tanti di

quei lavoretti di alta precisione che ho sempre sognato fare, caminetti, forni, stanze da bagno, lavori che richiedono abbastanza professionalità e non troppo faticosi.

La sfortuna però è sempre in agguato; in breve tempo mi sopraggiunsero grosse difficoltà fisiche, la mia salute non mi assisteva più, dovetti cessare anche questa attività. Non dovevo più preoccuparmi per il lavoro.

La mia vita è continuata con altre attività, quelle ricreative, per il sociale e quelle per il divertimento, cercando di essere utile alle generazioni che crescono, per una vita migliore, serena, moderna e consigliarle se possibile a non sbagliare come qualche volta ho fatto io.

Oggi quegli sbagli me li sento addosso senza rimedio per cancellarli.

Questo racconto della mia vita lavorativa riguarda l’occupazione alle dipendenze di ditte e di enti. Ma un’altra parte della vita lavorativa, forse meno importante, ma più laboriosa, vale la pena raccontarla. Inizia proprio quando arrivai a Agliana quando imparai a fare il muratore.

Ormai ero ben conosciuto da tutti nella zona, mi interessavo del Partito Comunista, ero attivista, frequentavo la Casa del Popolo in modo assiduo, partecipando a varie iniziative e qualche volta anche discutendo dei problemi del giorno nei locali e nella piazza del Paese.

Come ho ricordato all'inizio di questo libro, negli anni ’60 l’agricoltura a Agliana era in piena efficienza con tanti

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contadini e piccoli proprietari attenti al proprio podere con l'intenzione di avere sempre buoni raccolti.

I lavoratori della terra prestavano attenzione al deflusso corretto delle acque piovane.

Il territorio di Agliana nel suo insieme ha poca pendenza senza possibilità di un veloce deflusso delle acque piovane e anche i torrenti che lo solcano sono costruiti con argini pensili che non lo permettono.

Il terreno di Agliana si prosciugava quando il letto del fiume ritornava alla normalità.

I contadini stavano attenti all'acqua che avrebbe danneggiato il loro podere. Alcuni di loro avevano degli sbarramenti nelle fosse, volevano trattenere le acque che potevano invadere i campi. Con il passare del tempo gli sbarramenti fatti con materiale poco resistente, si ruppero, avevano bisogno di qualcosa di più robusto: sabbia, mattoni e cemento. Avevano bisogno di aiuto. Mi chiesero se li potevo aiutare. Nel periodo estivo dopo l’orario di lavoro andavo a costruire i muretti per loro.

I contadini preparavano mattoni, cemento e sabbia per me.

Il lavoro consisteva nel costruire vari muretti a mattoni, più o meno alti, con al centro una finestra più o meno grande, secondo l’importanza della fossa.

Davanti a quei muretti, a valle, ci veniva fissata una “calla” un poco più grande di quella finestra che doveva aprirsi quando le acque a valle defluivano e chiudersi al momento giusto quando le piogge erano abbondanti.

Ad Agliana c’era il mercato settimanale la domenica mattina e tutti i contadini. prima e dopo la messa, si trovavano davanti alla chiesa a chiacchierare. In quel luogo parlavano anche di me, di quei lavori eseguiti a contadini della mia zona.

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In seguito dovetti farli ad altri contadini sparsi nel territorio in quanto tutti avevano gli stessi problemi per regolarizzare il deflusso delle acque piovane durante il periodo invernale.

A quei contadini risolsi il problema delle acque per il loro podere ma anche per il loro portafoglio. La mia tariffa oraria non aveva prezzo, non chiedevo mai niente a nessuno infatti alcuni mi saldavano il conto con qualche damigiana di vino, altri a differenza di aver incaricato una ditta, se la cavarono con poche lire.

Non ho fatto mai speculazione per il denaro, non l'ho mai chiesto anche in momenti di crisi.

Ho sempre cercato di aiutare anche i colleghi di lavoro. Le case in affitto non si trovavano per la grande

immigrazione giunta ad Agliana molto in fretta, c'era molta richiesta della casa e tutti coloro che lavoravano nell’edilizia cercavano alla meglio di costruirsela, lo scopo principale era di risparmiare l’affitto che anche allora costava tanti soldi.

In molti si comprarono un quadro di terreno iniziando la costruzione. Negli anni '50/ '60 non c'erano tanti regolamenti per costruirsi la casa, ci voleva un piccolo appezzamento di terreno e tanto coraggio.

A chi costruiva con scarsa professionalità capitava qualche volta nel corso dei lavori che le travi prefabbricate rimanessero corte, per costruirci il solaio.

Questo dipendeva dalla costruzione che non era fatta in “piombo”, ma era fatta a imbuto allargandosi dal basso verso l’alto.

I compagni di lavoro tutti ebbero la smania di farsi la casa ma essendo poco pratici del mestiere, mi invitavano ad alzare le cantonate, poi da soli durante la settimana facevano il resto.

A fine mese qualcuno mi pagava, altri promettevano il

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cambio di manodopera perché mi stavo organizzando anch'io per costruirmi la casa.

Nel 1962 acquistai il terreno e incomincia subito a lavorare per costruirci una abitazione, purtroppo con mille difficoltà che non avevo previsto.

La costruzione della mia casa costò tanta fatica e tanti sacrifici, prima per edificarla e dopo per pagare tutto il materiale usato e le altre spese.

I lavori per le nostre case erano considerati ad avanza

tempo. A casa mia nei mesi estivi lavoravo a tarda sera e di

notte e, molte volte, con mio fratello, molto più giovane, al lume di luna.

Per andare avanti con i lavori necessitava sempre nuovo materiale disponibile, bastava ordinarlo che subito le ditte me lo fornivano. Ero considerato dai fornitori una persona con tanta moneta disponibile. Ma non era così.

Feci un grosso debito per acquistare il terreno, iniziai

La mia casa in Via Ticino n. 32

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subito a lavorarci, anche se non avevo soldi. Con i soldi che gli amici mi davano quando li aiutavo a

preparare il lavoro delle loro case, riuscivo a dare ai fornitori di volta in volta un po’ di denaro, acquistai tanta fiducia e mi potei organizzare secondo le necessità del momento.

Un idraulico si offrì di farmi l’impianto di riscaldamento anche se gli avevo detto più volte che per molto tempo non avrei avuto soldi disponibili per pagarlo.

Usando quel sistema per me fu facile avere un buon nome. Invece i miei compagni di lavoro per avere il materiale necessario, nonostante anche loro fossero conosciuti non sempre riuscivano ad essere serviti con puntualità.

Comunque qualche fornitore, conoscendoli come lavoratori di una ditta seria del paese, a volte abbondava a fornire materiale da costruzione a tutti gli operai.

Per garantire il pagamento del materiale veniva usata la cambiale che era solo carta con scritto un numero sopra e rappresentava moneta, quando questa mancava, quel foglio di carta non valeva niente.

Era la serietà di un uomo che faceva il mercato anche con la cambiale, ma quando la moneta è scarsa, si perdevano i valori, usando tutti i marchingegni possibili.

Un collega di lavoro che si costruiva la casa come me, una volta si approfittò di un fornitore indaffarato mentre questo, nel suo cantiere per l'edilizia, era intento con un pala a caricare di sabbia un grosso barroccio. Era l'unico mezzo di trasporto che aveva. Lo faceva trainare da un cavallo, un bel cavallo di razza francese. Le forniture di materiale dovevano essere fatte in breve tempo, specie di lunedì in quanto quel fornitore aveva tanta clientela .

Il mio collega, invitato dalla banca ad estinguere una sua cambiale in scadenza già da qualche giorno, emessa da quel fornitore, andò il lunedì la mattina presto a

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raccomandarsi affinché se ne occupasse egli stesso. Il fornitore non potendo in quel momento sbrigarsi dal

lavoro, diede al mio collega i soldi per il valore della cambiale in modo di andare lui in banca per ritirarla. Ma il mio amico anziché andare in banca a ritirarla, andò a sistemare un altro conto di un altro fornitore.

La mia educazione era diversa. Ho sempre pensato che chi lavorava aveva diritto alla riscossione e così mi sono sempre comportato.

Per costruirmi la casa e poterla pagare ho dovuto escogitare tanti sistemi, chiedendo soldi alla banca e agli amici. La banca mi fece soffrire abbastanza per avere un prestito anche a tasso molto alto. Mi trovai meglio con un amico. Quando gli feci la richiesta del prestito, subito tirò fuori di tasca i soldi richiesti ed erano tanti!

Fissammo in quel momento gli interessi ma non volle fissare come e quando rimborsarglieli.

Il contratto fu scritto su carta strappata da un sacchetto che conteneva il mangime per il bestiame . Ci scrisse il giorno, il mese e l’anno, la cifra prestata e gli interessi che dovevo dargli. Firmai su quel foglio di carta e quello era il contratto.

Era la faccia della persona che dava la garanzia La casa la costruii in poco tempo ma la rifinitura durò

molto di più. Bastarono poche stanze finite, il minimo indispensabile per andarci a abitare. Lo scopo era evitare le spese dell'affitto dell'altra casa.

Avevo bisogno di tanti soldi per estinguere i debiti contratti in quel periodo, e con lo stipendio che percepivo non potevo far fronte a tutte le spese, anche se mia moglie si arrangiava con il rammendo e dei lavori in casa ma avendo i figli piccoli, con i suoi guadagni non si fronteggiavano le spese familiari.

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Con la forza nelle braccia, mi sembrava facile arrivare in breve alla conclusione, ma non fu così.

Con altri colleghi di lavoro, anch’essi nelle stesse condizioni, ci arrangiammo in piccoli lavori da eseguire in proprio, accantonando moneta da destinare all'estinzione di quei debiti.

Scelsi in seguito di andare a lavorare alle dipendenze della pubblica amministrazione, ma tutto si complicò ulteriormente perché era vietato il secondo lavoro.

In tutte le abitazioni della zona ero troppo conosciuto come muratore, ormai le case le conoscevo tutte.

Gli abitanti non potevano fare a meno di me per piccoli lavori fuori e all’interno del fabbricato e andarci ero quasi obbligato.

Con dei colleghi di lavoro, decidemmo di cercare lavori fuori dal comune per non essere visti.

Al proprietario di una ditta che era arrivato alla fine della sua attività lavorativa per l’età avanzata, era rimasto solo il camion per dedicarsi a piccoli lavori.

Ci unimmo a lui per trovare un altro lavoro. Con il suo automezzo e la sua disponibilità, durante la

mattinata, lui ci preparava il lavoro. Si riusciva bene nell’organizzazione e si guadagnava.

Poi nella vita capita sempre l’imprevisto. Un cittadino mi offrì di completargli un lavoro di rifinitura nella propria abitazione, lasciato da muratori indaffarati per iniziare un altro lavoro più importante.

Per aiutarmi trovai un’altra persona molto disponibile. Lavorammo insieme consumandoci tutto il mese di ferie.

In quel mese guadagnai tanti soldi che mi permisero di saldare tutto il mio debito che mi pesava tanto.

Ho descritto la mia vita lavorativa: quella alle dipendenze di ditte e quella degli Enti, poi quella definita a

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tempo libero o privata. L’attività lavorativa privata è stata molto più dura,

non dovevo tener conto della fatica e nemmeno del sacrificio. Dovevo far lavorare le braccia e metterci un poco di intelligenza, altrimenti tutto sarebbe andato a monte.

Per farmi coraggio, molte volte con il pensiero andavo a quel male di schiena quando tagliavo lo stelo del grano già maturo con la falce a mano, un lavoro tanto faticoso e non avevo mai soddisfazione del risultato.

Oggi guardo la mia bella casa stile anni ’60, grande, ariosa e piena di luce, soddisfatto di averla costruita come volevo. Ma dentro mi rimane tanta malinconia domandandomi se ho fatto bene. Costruendola credevo di avere raggiunto uno scopo, invece ho fatto solo ricchezza per lo Stato! Perché anziché riconoscermi i sacrifici fatti, oggi devo pagarci le tasse da esso imposte.

Allora la domanda mi viene spontanea se sarebbe stato meglio essere andato negli uffici, fino all’ultimo piano delle Istituzioni, a chiedere la casa, aiuti di ogni genere come hanno fatto in molti? Avrei avuto la possibilità di trascorrere qualche periodo estivo insieme alla famiglia su un lungomare bene attrezzato, anche godermi qualche settimana bianca. Senz’altro il mio fisico ne avrebbe risentito in modo positivo.

Certo ci voleva la faccia e la capacità per elemosinare, per fare la farsa, che io non ho mai imparato.

Don Milani nella “Lettera ad una Professoressa” richiamava gli insegnanti a valutare i ragazzi, non per come erano vestiti. Gli abiti erano vecchi e i libri erano tanti anche se non rispondevano ai libri di scuola.

“Per dare l'esame hanno fatto chilometri a piedi e se hanno i piedi sporchi, cara Professoressa, dipende solamente dal fango”.

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Il ricordo degli amici

Ripenso spesso a tutto il periodo del lavoro, a quante persone ho incontrato e con quanti ho parlato e stretto amicizie.

Ricordo spesso Lucignano e le lotte sindacali. Nel 2010 ritornai a Lucignano per un funerale di un

grande amico. Improvvisamente mi sentii abbracciare. Era Alvaro Neri detto “Trimbello”, un amico di lotta nella fabbrica di mattonelle e mentre tutta le gente intorno rimase meravigliata del gesto, a voce alta disse a tutti: “Quest'uomo, in quel luogo di lavoro, era il punto di riferimento di tutti noi”. Lo ringraziai del gesto, poi lo riconobbi. Ricordavo quel periodo, ma mai mi ero reso conto di quanto ero importante in quella fabbrica.

Mi piace ricordare quell'episodio perché quel gesto amichevole dopo tanti anni significava che ancora si ricordava di me.

Quando tornai ad Agliana, andavo a Prato a lavorare, iniziò lì la vita di cantiere edile. Incontrai persone venute dalla montagna pistoiese, immigrati come me in queste zone. Avevano una educazione senza paragoni. Come ci stavo bene in loro compagnia! Sono rimasto amico per sempre e quando purtroppo alcuni di loro se ne sono andati e altri la natura li ha penalizzati, costringendoli seduti nella carrozzina, ho chiesto notizie anche ai loro parenti.

Un altro fatto che voglio ricordare fu quando mi licenziai dalla Ditta di Loris Nesti, era un datore di lavoro diverso dagli altri, mi faceva da maestro. Una sera lo vidi “pazzo”. Non voleva perdermi, mi diceva ero il suo compagno di viaggio, il suo amico più caro, mi diceva avrebbe voluto un figlio come me.

Era già un uomo adulto. Ho continuato a frequentarlo

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fino al suo decesso. Sono stato sempre disponibile nel risolvere alcuni

problemi della popolazione, la mia mentalità mi ha sempre detto di ritenermi prima dipendente dell'Ente, poi cittadino. Ancora oggi in molti mi salutano anche se qualcuno ha scordato il mio nome, chiamandomi “comunale”!

Un caro amico fu il Maresciallo Vito Nolé che comandava la caserma dei carabinieri del Comune di Montale in tempo di guerra, quando era imposto la tessera per prendere i viveri alla bottega e i contadini dovevano portare parte dei raccolti all'ammasso.5 Quel maresciallo ne ha raccontate della sua vita militare e privata! In me aveva fiducia essendo diventato buon amico e per averlo aiutato qualche volta a guadagnare qualche soldo.

Mi ha raccontato più volte quanto trovava difficile la vita militare con un regime ingiusto che non gli apparteneva. Mi diceva che stava sempre dalla parte di poveri e quando i suoi “capi” lo comandavano a eseguire i sopralluoghi dai contadini se avevano ancora il grano in casa ed erano stati assenti verso l'ammasso, faceva di tutto per avvertirli dicendo loro dove dovevano nascondere quella roba in modo da perquisire altri luoghi.

Stava dalla parte della povera gente, ma anche per lui giunse il giorno della resa.

Un giorno gli fu notificato il trasferimento in Veneto, zona di confine.

Doveva prendere delle decisioni importanti: o partire o andare in pensione. Scelse di andare in pensione anche se era ancora molto giovane e con pochi anni di servizio. Mi diceva anziché prendere la “gallina”, come doveva, prese un uovo.

5

L'ammasso era un luogo, un fabbricato, dove i contadini dovevano portare i

prodotti agricoli a favore dello Stato, in tempo del fascio, prima facoltativo

poi in tempo di guerra obbligatorio.

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Mi diceva: “Decisi così perché in tanti anni delle mia vita tutti i giorni prendere un uovo posso dire di avere preso con il tempo tante galline”.

Si comprò un vecchio camion militare, Il Doge, e con quello faceva dei piccoli lavori. Scherzando gli dicevo che con il suo modo di fare per qualcuno poteva essere considerato un traditore. Lui rispondeva sempre: “Quando si sta dalla parte dei poveri non si fa mai peccato, non si tradisce mai nessuno”.

Lo conobbi quando andava per i cantieri edili oppure alle fabbriche a raccogliere il ferro usato. Era un uomo socievole, di buona compagnia e dotato di tanta memoria. Mi diceva dei suoi buoni propositi quando aveva indossato le vesti militari, come si atteggiava verso le persone bisognose, per esempio i contadini che vedeva molto penalizzati dal sistema. Quante volte però si é rammaricato della sua storia perduta in poco tempo. Tutte quelle persone aiutate in quei pochi, ma lunghi anni di sofferenza, in breve tempo sono scomparse tutte senza lasciare traccia di quei rapporti di amicizia che lui aveva intessuto come forza dell'ordine.

Pochi dei loro figli si ricordavano di lui. Quando cominciai a lavorare in comune, avemmo molte

occasioni per incontrarci. Lui per arrotondare la sua pensione costruì transenne da usare per le feste religiose, culturali, oppure per manifestazioni sportive, di solito il ciclismo.

Dato che eravamo buoni amici, mi diceva sempre di suggerirgli gli eventi che lo interessavano. Una domenica in cui era programmata una gara ciclistica scordò delle transenne in un angolo di strada, passai dal suo cantiere e gli lasciai un biglietto sotto il tergicristallo di quel vecchio camion con scritto: “Mangia uova (a tradimento) hai scordato delle transenne usate per la gara ciclistica in via Casello”. Il maresciallo, la mattina seguente chiese a dei miei

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colleghi dove ero a lavorare e venne a ringraziarmi per la missiva.

Gli chiesi come mi aveva trovato. Mi rispose. “La mia vera storia dovuta all'uovo e alla gallina, la sai solo te”. Ecco l'amicizia, i buoni rapporti, la fiducia, il lavoro, storie che non si cancellano.

Poi ci sono le storie delle persone, quelle che mi hanno ben considerato e nello stesso tempo mi hanno un po’ preso in giro pur rimanendo buoni amici, Ad esempio, Ezio Gorgeri mi chiamava il “santaio” perché quando muravo la sua casa e stavo facendo il muro a sassi, qualche volta li posizionai a “madonna”.

Un'altra persona doveva squadrare un fabbricato oppure una cantonata di una casa, per far questo usava una grossa squadra di ferro. Gli consigliai di mettere in pratica la radice quadrata, e gli spiegai come fare. Incominciò a chiamarmi “guasta mestieri”.

Andavo a lavorare nelle abitazioni ed era facile farsi gli amici. Con il tempo si cominciava a conversare scambiandoci qualche opinione.

L'amico Spagnesi, un uomo ormai anziano, abitava in via Lungo Calice, andai a ristrutturare casa sua, mentre lavoravo non mi abbandonava un minuto e voleva sapere tutto della vita politica e amministrativa del comune. Mi conosceva come muratore, ma anche come attivista del P.C.I. nella sezione di San Michele. In quella zona la domenica portavo il giornale l'Unità alle famiglie. Lui, a fine settimana, prendeva la sua bicicletta e andava dai suoi amministratori socialisti, assessori al Comune di Agliana, si informava sull'andamento del comune e poi continuava a parlamene nei giorni successivi.

Un giorno venne a trovarmi a casa, aveva saputo che lavoravo alle dipendenze del comune, mi chiese notizie sugli

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assessori ecc.. e da allora per informarsi non andava più in comune, si fermava sempre a casa mia dove sostava a lungo.

Emilio Baldi, durante la costruzione della casa di suo figlio, tutti i giorni veniva a raccontarmi le sue sofferenze durante la vita militare. Aveva partecipato alla guerra 1915/18, me l'ha raccontata tutta, a puntate, con la mente lucida e quando raccontava gli episodi che erano rimasti alla “storia” e fissi nella sua memoria, a stento finiva il racconto, i suoi occhi erano lucidi.

Per farlo sorridere qualche volta continuavo io il discorso facendogli delle domande su quanto hanno riportato gli storici. Gli impedivo di continuare il racconto dicendo che di quei ricordi era tutto giusto, ma che lui con tutti quegli anni di guerra, non aveva fatto il proprio dovere. Si rilassava e sorrideva, non capivo però se comprendeva il mio discorso, volevo fargli capire che il proprio dovere l'hanno fatto quelli che dalla guerra non sono ritornati.

Io con il lavoro prima ho prodotto, poi ho costruito e dopo sono stato a disposizione della collettività, per quello che potevo, garantendo dei servizi. Non posso fare esempi significativi, ma ci tengo a rendere evidente almeno un fatto.

Quando fui incaricato dal Sindaco Marco Giunti di andare, insieme a due colleghi di lavoro, in soccorso ai terremotati dell'Irpinia, con un camion carico di indumenti nuovi e con materiale di prima necessità, affrontai enormi difficoltà, oggi forse incredibili.

Oggi invece tutti quei valori sono caduti ad uno ad uno, l'attuale classe dirigente ha distrutto il lavoro e il lavoratore. Tutto è svanito, le lotte sindacali per salvaguardare il posto di lavoro non ci sono. Il luogo di lavoro é diventato un posto non sicuro. E' una vergogna.

Il lavoratore nel luogo di lavoro è un numero, non ha possibilità di dialogo, non esiste più la solidarietà, non c'è più

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l'amicizia! C'è la paura, lo sfruttamento dell'individuo. Azioni, fatti negativi, che hanno portato alla

distruzione dell'individuo, della famiglia in una società più corrotta cancellando la bella storia della classe operaia.

Oggi la persona che lavora alle dipendenze di qualsiasi azienda è diventato un ostacolo per la classe dirigente.

Se ha l'età per andare in pensione gli viene detto non ci sono soldi. Se è ancora in età lavorativa gli va bene se l'azienda non fallisce o lo manda in cassa integrazione. Le giovani madri anziché mandare i loro bambini alla scuola dell'infanzia, li trattengono a casa per mancanza di soldi.

Altri ancora li vedo passare davanti a casa mia, a testa bassa, e quando chiedo il motivo, la risposta è: “Sono senza lavoro e la Banca mi porta via la casa”.

In una società moderna, alla base della vita dovrebbe esserci il lavoro, per fare camminare a testa alta la persona.

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La vita politica e associativa

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In guerra

Nel 1942 il Presidente Americano Roosevelt si rivolse ai suoi concittadini con queste parole: “Questa guerra è di un nuovo tipo. Essa differisce da tutte le guerre del passato, non solo per le armi e i metodi, ma anche per la geografia. E’ una guerra che abbraccia tutti i continenti, tutte le isole, tutti i mari, tutte le rotte aeree, il mondo intero”.

Non esisteva un fronte: tutti, militari e civili, si trovarono in prima fila. Le nuove armi e gli aerei portavano morte ovunque. Mai prima di allora le popolazioni civili erano state coinvolte nella guerra. Subirono le privazioni, la fame, le malattie, le persecuzioni, lo sterminio, la deportazione. Tutto fu causato dalle bombe sganciate in aree abitate, dai carri armati che in pochi minuti uccidevano soldati e civili.

La seconda guerra mondiale fu una guerra tecnologica, soprattutto ideologica perché le forze dell’asse hitleriana giustificavano le loro azioni in base a ideali: volevano un nuovo ordine mondiale sotto il comando delle razze superiori. Gli Anglo-Americani dichiararono di combattere per sollevare le follie tedesche e fecero uso di giornali, cinema e della radio per propagandare il loro intervento militare.

La radio clandestina incominciò a dare informazioni anche agli Italiani e agli altri paesi Europei, era uno strumento prezioso, l’unico mezzo per capire cosa stavano facendo Hitler e Mussolini.

Nel 1942 avevo cinque anni, la mia infanzia iniziò vicino alla radio clandestina che la mia famiglia possedeva. Ho vissuto quel periodo storico in casa e ricordo che rare volte mio padre e mio nonno, ascoltandola, si alzavano soddisfatti dalla panca, ma spesso andavano a letto più tristi

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di prima. Eravamo l’unica famiglia nella zona ad avere la radio,

l’ascoltavamo con il volume basso perché nessuno sentisse la sua voce, nemmeno il vicino di casa. Dovevamo stare molto attenti a non insospettire i sostenitori del regime. Coloro che, invece, avevano la stessa idea politica di mio padre, venivano ad ascoltarla di notte.

La voce del cronista era chiara ed il linguaggio semplice, sapeva spiegare bene e incitava il popolo alla ribellione. Ricordo che il cronista, il colonnello Stevenson, iniziava sempre così: “Qui radio Londra…” e parlava tanto di uomini, di guerra, del regime da combattere e dell'Armata Rossa.

Ero piccolo, ma ricordo bene gli uomini giovani e anziani che ascoltavano a lungo le stesse notizie. Diventavano tristi, si guardavano negli occhi senza parlare e poi, seduti intorno al tavolo, commentavano gli eventi e discutevano della guerra. Capivo che erano tutte persone impegnate politicamente, avevano contatti con i partigiani, dicevano di far parte del Fronte di Liberazione, ognuno esprimeva le proprie idee. La guerra e i suoi momenti era un argomento costante nelle giornate di mio nonno e del babbo, ne parlavano a tavola durante il pranzo e al lavoro nei campi e io ascoltavo senza che i grandi se ne accorgessero. Fu così che presto capii cosa significava la guerra, “una guerra diversa”.

La guerra non finiva mai, portava sempre più distruzione, i giovani che dovevano partire per il militare venivano a chiedere consiglio agli uomini più anziani per decidere quale scelta fare, specie negli ultimi anni di guerra.

Ricordo molto bene quei giovani che venivano in casa mia e poi con le armi partivano verso la montagna. La chiamata alle armi era a 16 anni. Si diceva che i nuovi

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reclutati venivano mandati in prima fila a combattere l’avversario.

Rifugiarsi nella macchia per qualcuno risultava più sicuro, infatti furono proprio i più giovani a prendere con decisione la strada della montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane. Qualcuno tentò di mutilarsi le dita della mano destra per essere giudicato non adatto al servizio militare.

La guerra lasciò ovunque distruzione, lutti, tristezza e tanta miseria, nelle case mancava tutto, anche il pane. I contadini lavoravano il terreno che dava l’unica risorsa alimentare. Nella nostra zona però i raccolti scarseggiava-no perché i contadini non potevano lavorare i campi in modo con-tinuo. Tutti i giorni dovevano ripararsi dai numerosi bombarda-menti e dalle numerose rappresaglie tedesche. Rimanevano per lungo tempo nei rifugi con tutta la famiglia e con altri nuclei familiari del vicinato insieme al loro bestiame. Sotto le

Foto di famiglia (in alto da sinistra: Il

babbo Igino, la nonna Maria Gallorini, il

nonno Attilio, la mamma Lisena Barluzzi con Libero in braccio, i piccoli Marisa e

Virgilio

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Un pezzo della tessera del pane: sul

retro gli aggiornamenti dello stato

di famiglia.

bombe era morte sicura. Nei primi anni della guerra i contadini erano obbligati a

recarsi in paese con gli arnesi da lavoro. Dovevano sfilare per le strade con la vanga sulle spalle, per recarsi poi al campo sportivo percorrendo il giro di pista davanti ai dirigenti politici: Potestà, segretari di partito e tutti gli appartenenti alla dirigenza del Partito Fascista. Quegli atti di

sottomissione erano umilianti e portarono la comunità ad odiare il regime. Di conseguenza molti contadini avversi al sistema si affrettarono ad unirsi al fronte di Liberazione e alle forze politiche avverse alla dittatura.

Osservando questa foto di famiglia penso si capisca quanta sofferenza ci fosse tra la gente.

Anche la farina per fare il pane scarseggiava, i miei genitori contadini riuscivano a farlo in casa tutte le settimane. Non tutti potevano permetterselo. Ricordo che sfornavano tanti pani molto grandi. Mio nonno era molto bravo nel fare la polenta di farina di granturco e ogni volta ne faceva un grande paiolo. Dopo aver tolto il pane, il forno era ancora molto caldo e il nonno metteva alcune cucchia-

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iate di polenta sopra delle foglie di cavolo, le rimetteva in forno a “ricuocere” e otteneva una specie di pane che chiamava “leprotti”. Erano buoni. In molti venivano a prendere un pane e qualche leprotto. Di questi la privilegiata era la zia Maria. La sua era una famiglia di operai con quattro figli che non riusciva a sfamare.

I contadini non guadagnavano, ma la tanta fatica nei campi permetteva loro di avere qualcosa da mettere sotto i denti, mentre alcuni compaesani e compagni di lotta erano costretti a digiunare e in cambio di cibo venivano sempre a aiutare al momento dei raccolti, della mietitura del grano, della vendemmia, della raccolta delle olive e anche nel periodo della “sarchiatura” che era obbligatoria anche per le piante del grano affinché venissero eliminate erbe infestanti stagionali, in modo da avere un miglior raccolto. Quel sistema di cuocere tanti pani e fare beneficenza, non si concluse con la fine della guerra, ma continuò per qualche anno, anche se dopo, la tessera per comprare il pane e gli altri prodotti alimentari fu eliminata.

Passato un po’ di tempo dalla fine della guerra, mio padre mi portò ad una riunione dove parlò a lungo ad alcuni ragazzi e ai loro genitori. Ad ognuno di noi consegnò una tessera: era la tessera del Pioniere, la mia prima tessera. Ancora adolescente sentivo dentro di me la necessità di partecipare a qualcosa d’importante e con quella tessera da Pioniere avevo capito da che parte stare e mi sentivo grande. Aver vissuto gli anni della guerra e aver conosciuto tante persone che l’avevano combattuta, mi facevano sentire protagonista. La mia fu una educazione vissuta in casa con la gente, ascoltando le loro parole. Ammiravo il modo in cui mio padre parlava con le persone, il suo modo di spiegare, lo sentivo bravo, capivo la sua lotta e i suoi sacrifici per persuadere gli altri. I ragazzi che insieme a me partecipavano

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alla riunione e si tesserarono, erano figli di famiglie con ideali di sinistra, anche loro avevano vissuto la triste esperienza della guerra.

Terminata la scuola e ormai più grande, mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, (FGCI). Leggevo giornali e riviste della sinistra giovanile. Per i giovani iscritti alla federazione, il paese di Lucignano risultava diviso in zone e in ogni zona c’era un coordinatore. C'era anche il coordinatore comunale, era capace di dare spiegazioni convincenti sempre sicuro di quello che diceva. Presto mi appassionai a quella organizzazione e così divenni diffusore della stampa giovanile. Ero il rappresentante della mia zona e molti giornali passavano per le mie mani. I giornali che distribuivo mi mettevano in contatto con le persone che vivevano nelle frazioni di campagna. La bicicletta era il mezzo per raggiungere le zone lontane. Avevamo bisogno di saper parlare con gli altri giovani, avere la meglio nel contesto politico; ma il difficile arrivava quando in conclusione essi dovevano chiedere il parere ai loro genitori prima di impegnarsi con quella organizzazione e pagare la tessera.

I conti colonici

I contadini a fine anno facevano i conti, chiamati “conti colonici”, per sapere quanto avevano guadagnato o rimesso durante l’anno. Per tutto l’anno non avevano una lira, infatti, il proprietario del terreno che teneva la cassa e la contabilità, si teneva tutti i soldi dopo la chiusura dei conti colonici senza dividerli con i contadini e questo si ripeteva di anno in anno.

Ricordo le parole di mio nonno quando mi spiegava l’importanza dell’istituzione della scuola dell’obbligo, infatti

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in genere i contadini non erano istruiti e non sapevano fare i conti, così il proprietario terriero poteva usare sempre un suo “trucco” che li lasciava sempre in debito. Tutti i contadini

italiani dovevano saper fare la loro firma, anche i conti colonici dovevano essere firmati per esteso, altrimenti non sarebbero stati validi. In fondo al libretto colonico c’era due diciture: “firma del proprietario”, “firma del colono”. Ma se

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le persone non sapevano contare non potevano rendersi conto dell’imbroglio. Da lì iniziava la truffa legalizzata. Siccome da quando la società si è divisa in classi, la smania di rubare al più debole c’è sempre stata, anche in quegli anni chi sapeva far di conto rubava.

Il contadino era il grande penalizzato a causa della propria ignoranza anche nel difendere i suoi diritti, succedeva che il rappresentante politico dopo aver predicato tanto nelle assemblee per fare opera di persuasione e convincere i partecipanti a ribellarsi, quando arrivava a concludere e capire chi aderiva, si trovava sempre di fronte il fattore miseria che imponeva la sua politica. Capii questa ingiustizia molto presto. Mio padre cercava di farmi capire come stavano i conti colonici e cercava di prepararmi per quando sarei diventato più grande. Così per farmi imparare a leggere il libretto colonico, mi iscrisse a un corso presso il sindacato. Anche mio padre si accorgeva dei brogli e anche i suoi conti non tornavano mai, pur essendo lui bravo in matematica, intanto la sua vista era già peggiorata e io dovevo accompagnarlo, ero capace ma troppo giovane, mancavo ancora di personalità

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Riunioni e passatempi

Noi della Federazione Giovanile Comunista della zona, eravamo tutti buoni amici. Ci ritrovavamo per le riunioni oppure la domenica per giocare al pallone nelle aie dei contadini oppure la sera a veglia nelle case del rione a giocare a carte. Con il tempo, dopo la guerra, tutti iniziammo a usare le biciclette, erano le nostre utilitarie. Mio padre ne fece rimettere una a nuovo, era bella sembrava presa nella vetrina di un negozio.

Fu costituito un comitato tra giovani e ragazze per imparare a ballare. Qualche volta in paese si assisteva a feste danzanti e noi più giovani eravamo esclusi. Fui incaricato dagli amici, anche se ero il più giovane, di organizzare qualche festa di ballo tutta per noi. Eravamo un gruppo di dieci ragazzi tutti presi da quella passione. Conoscevo tante persone e dalle famiglie ero sempre bene accolto. Fu facile trovare accoglienza presso una famiglia di pastori che ci mise a disposizione la cucina, la casa era a piano terra e andava molto bene per l'occasione. Si poteva saltare come si voleva e ospitare tante persone, dato che allora le ragazze dovevano essere accompagnate da genitori, fratelli e sorelle.

I due figli di quella famiglia di pastori, Giulio e Mario, furono contenti di avere in casa tanti giovani a divertirsi, d'altronde erano molto presi dal loro gregge e non avevano molto tempo per divertirsi. Anche la loro madre, Pasquina, era una grande appassionata delle canzoni e della fisarmonica. “Baffino”, con la sua fisarmonica, seduto su una sedia sopra la madia, suonò tutta la sera e suonò per tante altre sere per farci divertire e per farci imparare a ballare. Imparammo in breve tempo ma senza regole e quando andavamo al dopolavoro con i giovanotti più grandi, c’era sempre chi ci rimproverava dicendo che avevamo imparato il

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“ballo dell’aia”, come dire, a “modo nostro”. Nelle sale da ballo suonavano quelle belle canzoni sentimentali e tutti i ballerini le canticchiavano stretti alle ragazze. Suonavano “Vola Colomba”, “Terra Straniera”, “Mamma”, “Firenze Sogna”, il valzer lento che veniva ballato “quadrato” e tutti dovevano fare un unico movimento e stare ognuno al proprio posto.

Venne il momento in cui ci prese il desiderio della città, eravamo più grandi e con la bicicletta ormai avevamo la stoffa di veri atleti. Per noi trenta chilometri non erano troppi e la domenica, specie con il bel tempo, alle ore quattordici eravamo tutti pronti per andare a Arezzo. In città c'erano tanti divertimenti: i bar eleganti, i negozi, c’era il “casino”, le case di tolleranza, con le donne che facevano attività sessuale a pagamento. La curiosità di andare ad esplorare quei luoghi era tanta, ma per me non c’era niente da fare, ero troppo giovane. Quando mi presentavo per varcare la porta c’era sempre una signora che mi respingeva. Nel periodo estivo, al ritorno si faceva sosta all’Olmo, dove c’era lo “scialè” una pista da ballo sulla quale finire la serata ballando e facendo conoscenza con le ragazze, alcune a servizio nelle famiglie facoltose della città.

Quando passeggiavamo per le vie cittadine, si notavano i locali riservati alla gente bene ma non erano per noi. Non avevamo abbastanza soldi. Tuttavia da giovani piace a tutti scherzare, così una domenica decidemmo di andare a prendere un caffè al bar “La Buca di San Francesco”. In quel bar c’erano tante persone, uomini al tavolo accompagnati da donne eleganti, qualcuno consultava il giornale. Entrammo dentro quel locale in dieci un po’ alla campagnola, con poca educazione. Si voltarono tutti incuriositi, ciascuno di noi chiese un caffè. Il primo che lo bevve andò a pagarlo, gli costò 150 lire. Quando sentimmo quella cifra, facemmo i finti

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tonti, ci avvicinammo piano piano all'uscita e lasciammo il locale di tutta fretta. Chi li aveva tutti quei soldi!. Al dopolavoro di Lucignano il costo era di 25 lire. Chissà se il prezzo di quel caffè non fosse stato gonfiato appositamente per farci allontanare, io ho sempre creduto che lo fosse stato così.

Noi giovani della FGCI eravamo sempre attenti agli eventi politici, specialmente quando si svolgevano in città.

Le manifestazioni della Democrazia Cristiana erano sempre più “interessanti, perché il partito metteva a disposizione i mezzi per raggiungere Arezzo. I ragazzi più grandi di me ne approfittavano e qualche volta lo facevo anch'io. Quando ci recavamo in massa alla stazione a prendere il treno, gli organizzatori esclamavano soddisfatti: “Ma guarda quanti compagni oggi alla manifestazione!”. La Democrazia Cristiana, passata l'euforia del 1948, per avere tante presenze pagava il treno e spesso anche il pacco spesa per portare gente alle manifestazioni. Noi però avevamo altri scopi. Eravamo presenti, solo al termine della manifestazione per non perdere il treno di ritorno.

Lotte contadine

In quegli anni immediatamente dopo la guerra, i contrasti, le discussioni, le lotte sindacali, la necessità di rivedere i patti agrari incitarono la lotta politica. I mezzadri si organizzarono secondo le indicazioni sindacali, avevano troppe rivendicazioni da trattare con la proprietà terriera per non unirsi. I contadini in rivolta reclamavano il compenso per aver salvato il bestiame dalle “razzie” tedesche avvenute durante la guerra e durante la ritirata dell'esercito, nascondendolo nei rifugi. Forti di una organizzazione sindacale molto presente che vedeva impegnate donne,

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uomini e famiglie intere, rivendicavano la revisione dei patti agrari per dividere i raccolti, 57% in favore dei contadini, (che poi furono accordati al 53%) e cancellare gli obblighi agricoli, ormai superati. Erano i giovani mezzadri a tenere in pugno la situazione. Ricordo molto bene quando nelle aie dei contadini sventolavano le bandiere rosse del sindacato. La macchina trebbiatrice piazzata nell'aia del contadino rimaneva dei giorni ferma per lo “sciopero a sin-ghiozzo” organizzato, la-voravano un’ora e facevano un’ora di sciopero. Mio padre in prima fila manifestava durante la trebbiatura del grano, mentre i Carabinieri tutti indaffarati, venivano sul luogo a controllare, arrivavano la mattina presto con delle biciclettone nere da viaggio e sostenevano sempre le ragioni del proprietario. La Val di Chiana insieme alla Val d'Orcia e la Val d’Arbia, erano le zone trainanti e più forti di un'organizzazione sindacale che fece storia sin dalla fine del 1800 e inizio del 1900, quando fu costituita la prima di quelle organizzazioni sindacali. Mio nonno mi raccontava del ruolo che ebbero gli operai minatori del Monte Amiata (Abbadia San Salvadore).

Le lotte contadine più significative nella

Val d'Orcia e nella Val d'Arbia

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Tutta la sinistra, ma in modo particolare gli aderenti al PCI, i giovani, il popolo contadino che ancora lottava per i diritti mezzadrili, dovettero essere molto compatti a seguito dell’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista. Era il 14 luglio del 1948, il sangue era ancora caldo nelle vene della gente. Il 18 aprile la Democrazia Cristiana aveva riportato un successo elettorale che mortificò notevolmente l’opinione pubblica. Alla notizia dell'attentato la gente scese a manifestare nelle piazze. Nelle aie dei contadini le macchine trebbiatrici già piazzate per la trebbiatura del grano, rimasero ferme. Ricordo ciò che accadde nell’aia di un contadino piuttosto importante, un certo Di Ciocco dal quale, durante la trebbiatura, lavoravano a turni centoventi persone e il raccolto in genere si aggirava sempre in 1400 staia. Di Ciocco era un punto di riferimento per il sindacato, durante la manifestazione l’aia fu tappezzata di bandiere rosse e la sospensione della trebbiatura durò a lungo, lo stesso accadde in altri luoghi.

Mio padre, era un rappresentante sindacale molto attivo nella zona e nel Partito Comunista ed era sempre presente. A causa di quelle lotte dure, i proprietari presero di mira i contadini che si esponevano maggiormente. Furono anni difficili. Gli agrari avevano l’ordine di punire i contadini attivi politicamente e fra questi mio padre, dovevano reprimere le lotte sindacali e politiche, così il padrone decise di disfarsi dei contadini facendo loro il peggior dispetto. Misero in vendita il nostro podere dividendolo in sette parti così, anziché esserci un proprietario, ce n’erano sette, ognuno con le loro singole esigenze e i loro interessi da tutelare.

La salute di mio padre cominciava a peggiorare, soprattutto dopo le azioni squadriste dei militari fascisti che lo avevano tenuto recluso per molti giorni. Io ero il figlio più grande con pochi anni sulle spalle e poca esperienza per poter

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prendere in mano la gestione della famiglia, ma anche se ancora in giovane età, la necessità di aiutare la famiglia mi portò ad impegnarmi in questo compito. Fu una persona adulta, amica di famiglia a cercarmi, era un “sensale” che aveva bisogno di un punto di sosta dove ricoverare il bestiame acquistato. Incominciammo ad andare nelle stalle dei contadini per acquistare vitelli giovani che tenevamo nella mia stalla, per rivenderli magari il giorno dopo nei mercati. Ci accontentavamo di un piccolo guadagno pur di rimanere nel giro d'affari e cercare di allargarlo.

Il tempo passò rapidamente, ero molto conosciuto dai fattori che amministravano i poderi della zona e mi avrebbero affidato sicuramente la gestione del podere. Però ero figlio di Igino Dominici, un comunista, un rifiuto, una punizione e i proprietari di quelle fattorie mi ostacolarono con tutte le loro forze. Pensai che quella punizione fosse ingiusta. Mio padre aveva la colpa di avere parlato alla gente del paese di giustizia sociale, di lotte sindacali per il miglioramento della vita nelle piazze, in campagna, nelle aie dei contadini. Quella situazione mi fece crescere e riflettere su quello che avrei fatto per aprirmi altre strade.

Feci di tutto per avere il libretto di lavoro, volevo fare l’operaio. Era già iniziato lo spopolamento delle campagne. I nuclei familiari si avvicinavano sempre più alle città adattandosi a fare lavori diversi da quelli agricoli e per questo avere quel libretto era difficile, poco incentivato dal governo centrale che nel primo dopoguerra necessitava reintegrare le risorse attraverso il lavoro agricolo.

Liquidai infine uno di quei proprietari in maniera brutale, era un padrone di molti poderi che da qualche anno non aveva più contadini e che mi aveva sempre osteggiato, così gli dissi: “Da oggi in poi i vostri poderi ve li lavorate da soli perché io non sono più disponibile”. Rimase di sasso.

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Poco dopo riuscii a ottenere il libretto di lavoro, grazie al quale in breve tempo trovai occupazione in una fabbrica di mattonelle della zona. In quella fabbrica, anche se piccola, potei maturare il mio modo di pensare, ma capii un’altra ingiustizia.

I proprietari della fabbrica erano due, un imprenditore edile e l’altro un conte, una guardia svizzera in Vaticano. Nel personale esisteva una scala gerarchica divisa in capo, sottocapo e ventotto operai, tutti apprendisti e molto giovani, dai 14 ai 17 anni, io ero il più grande. Ci davano 75 lire l'ora, mentre la tariffa dovuta doveva essere più alta, oltre le 100 lire e divisa per categorie. Per noi, che in maggioranza lavoravamo alla pressa, sarebbe stata ancora di più. In quella occasione cambiai categoria di tesseramento del sindacato, la prima tessera era della Federterra, sempre della CGIL.

Iniziai a frequentare la Camera del Lavoro e capii quanto fosse ingiusto lavorare in un sistema di sfruttamento di quella fabbrica. Da giovane è difficile capire situazioni di quel tipo, ma io che avevo fatte altre esperienze vicino al nonno e al babbo, tiravo sempre il carro dalla parte del timone con onestà, dignità verso coloro che stentavano ad emergere e che non capivano per quali diritti lottare. Dopo tanto tempo fra rivendicazioni e discussioni senza ottenere niente, forse a causa della nostra giovane età, trovammo l'accordo per indire uno sciopero. Fui io a organizzarlo, i compagni della federazione provinciale del sindacato non volevano permetterlo, ma vista la mia insistenza, dettero comunque l'autorizzazione. Con lo sciopero sostenevamo alcune questioni di prima importanza come la tutela della salute, il salario equiparato alle altre realtà lavorative, la pausa per la colazione e la merenda perché il lavoro si svolgeva a turni di otto ore ciascuno durante i quali si

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doveva mangiare senza potersi lavare le mani, sempre cariche di polvere di cemento e polvere di marmo. Dietro la nostra insistenza ci concessero trenta minuti di pausa per ogni turno.

Credevamo di aver fatto una grossa conquista, ma in cambio ci obbligarono a entrare prima a ogni turno. Il primo alle ore 5 del mattino e quello pomeridiano alle ore 13,30, eludendo così l'ipotetico contratto collettivo di lavoro che ancora non c'era. I rapporti fra maestranze e azienda peggiorarono. I titolari non vollero mai un confronto, tutti noi dovevamo riferire al capofabbrica. Decidemmo di fare sciopero. Il giorno prima, durante la riunione per organizzarlo eravamo in ventotto, tutti d'accordo all'azione di lotta, ma al momento dello sciopero eravamo solo in cinque e subito tutti i cinque fummo licenziati. Ero nel turno di pomeriggio e quando entrai in fabbrica alle ore 14.00, il mio nome e quello degli altri quattro appariva nell'elenco dei licenziati affisso alla colonna; allora il padrone faceva così. Affrontai quella protesta sapendo quanto sarebbe stato duro e difficile lottare, lo sapevo già da quando andavo a far compagnia a mio nonno a lavorare nei campi, mi diceva: “Io ho capito subito, mi toccherà morire e vedere la gente che ancora non ha capito.” Anche in quella fabbrica c'era chi non voleva capire e forse sarebbe toccato anche a me un giorno dire le stesse parole di mio nonno.

Non mi era più possibile lavorare in zona come operaio, ormai anche le persone del paese, le abitudini della gente, il loro comportamento, il non capire le richieste giuste, i pettegolezzi mi davano noia. Se mi fermavo a parlare con le persone, con dei coetanei, parlavo a testa alta. Cercavo di farmi capire, ma quelli stavano a testa bassa, non condividevano la mia forma di lotta, senza rendersi conto di essere disposti a sopportare soprusi e ingiustizie. Anch’io,

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come mio nonno prima e mio padre dopo, imparai a rispettare i dieci comandamenti di Dio insegnatici dal Parroco in vista della santa comunione. Invece gli altri, la guardia svizzera, l'imprenditore edile con la ricchezza, il potere, la prepotenza guardavano sempre al loro profitto, li vedevo ciechi nella loro ideologia, dentro un sistema di sfruttamento dell’uomo; del resto non gli interessava.

L'emigrazione verso il nord aveva preso vita, qualche casolare nella zona era già rimasto abbandonato, alcuni abitanti si spostavano verso la città in modo definitivo, altri si spostavano seguendo periodi “stagionali”. Avevo una gran voglia di andare via per conoscere un nuovo mondo e fare altre esperienze di vita, volevo lasciare quell'ignoranza terriera che mi dava solo lavoro e nessuna soddisfazione privandomi di tutte le libertà, senza possibilità finanziarie.

A diciannove anni, me ne andai. Partii per Prato dove erano già stati alcuni miei amici e qualcuno non aveva fatto ritorno. Un'impresa difficile, ma a quella età il coraggio è tanto, si guarda solo avanti e io avevo bisogno di allargare le mie esperienze e trovare la strada giusta. Avevo la vita davanti a me. A Prato girai per qualche giorno per rendermi conto dove ero, andando a cercare consiglio da qualche amico. Chiesi lavoro a qualche imprenditore, mi accertai quanto sarebbero stati i compensi salariali e se venivano rispettate le regole. Trovare occupazione non fu difficile e anche il salario non era male, essendo un terzo più di quello precedente. Mi ritrovai a dividere una stanza con altre cinque persone, sopra un materasso disteso sul pavimento in via Provinciale, località Ponte di Ferro a Agliana. Fu un passo importante della mia vita. Ero autonomo, decidevo io delle mie sorti, anche se il pensiero era rivolto verso casa e facevo la spola avanti indietro il fine settimana da Agliana a Lucignano.

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Gli abitanti della zona che avevo lasciato erano in fermento e tutti o quasi tutti avevano la smania di andarsene. Anche i genitori della Germana, la mia fidanzata, che poi diventò mia moglie, avevano abbandonato il podere per occuparsi in fabbrica e quella stanza dormitorio la divisi anche con il futuro suocero. Era un uomo ancora giovane e sicuro. In poco tempo decise di trasferirsi con la famiglia e così feci anch’io. Trovai una casa in affitto, volevo ricomporre il nucleo familiare, fu una nuova esperienza. Eravamo cinque persone, babbo, mamma, una sorella e un fratello ancora bambino. L’affitto mi costava un terzo dello stipendio, ero solo a lavorare, la vita continuò a essere molto dura.

L'emigrazione dalle campagne verso la città in quegli anni fu tanta, non solo dalle campagne aretine, ma da tutta la Toscana e dall'Italia intera. I motivi che spinsero quell'esodo dalle campagne verso la città, erano la ricerca di un avvenire migliore, il bisogno dei soldi e di certezza che la campagna non dava.

Agliana: l’impegno politico

Ad Agliana incontrai molte persone, quasi tutti conoscevano mio padre, personalmente oppure solo per nome e cognome, perché era stato a far comizi o a tenere riunioni in tutta la zona dell'alta Val di Chiana. Presto andai in paese e chiesi dov'era la sezione del Partito Comunista, volevo conoscere altri compagni della zona. La sede era nel Circolo Rinascita, lì divenni amico di tante persone che la frequentavano per essere informati degli eventi politici. La sede del sindacato era ubicata nello stesso circolo, nella stanza accanto alla sezione del partito, mi presentai con tanta voglia di lavorare.

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Conobbi il segretario comunale della CGIL Danilo Bassi, venuto da Reggio Emilia, il quale mi chiese di fare il volontario nelle attività del circolo. La casa del popolo era luogo di divertimento e di attrazione e dato che avevo la passione della musica e del ballo, per me fu facile salire le scale della sala. Divenni un addetto al servizio del guardaroba e ai tavoli, mentre svolgevo queste attività, rievocavo tutti i ricordi degli anni vissuti. Più volte ho rimpianto le copie dei giornali che diffondevo, che leggevo con gran passione, stampa che aiutava noi giovani a tenere fresca la memoria e riflettere sulla storia dei popoli e la loro evoluzione politica. Sentivo il desiderio di rileggerli. Il Pioniere, Pattuglia, Avanguardia, tutti giornali su cui formai la mia idea politica che oggi non avranno nessun valore, lasciati a Lucignano.

Presto entrai nelle file del partito Comunista per seguire la politica più impegnativa, avevo trascurato un poco l’organizzazione giovanile.

Ad Agliana quella organizzazione la trovai molto preparata. La FGCI nel 1960 riuscii ad organizzare nel Circolo Rinascita il congresso provinciale con la presenza del segretario nazionale Achille Occhetto. Avevo aderito al PCI, non potevo partecipare a quel congresso come delegato, ma essendo componente del comitato della sezione di S. Michele, partecipai come invitato. Tra i presenti ci fu tanto entusiasmo, soprattutto per il suo linguaggio, qualcuno lo definì uguale a quello del Segretario Nazionale del Partito Comunista Palmiro Togliatti. Per ricordare l'anniversario della Liberazione l'ANPI di Agliana, organizzarono un pullman per andare alla manifestazione Regionale a Pisa, dove Occhetto fece un lungo intervento, in cui ripercorse tutta la storia della Liberazione, ascoltandolo lo considerai una persona di rilievo.

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Ero iscritto al Partito Comunista, partecipavo alle attività della sezione con qualche incarico, mi occupavo della stampa e della propaganda. L’organizzazione politica a quei tempi era capillare e molto efficiente. Agliana contava quattro Sezioni, una per frazione e ognuna era divisa in cellule con tanti compagni iscritti e attivisti, il fermento politico si respirava nell'aria. Il Circolo Rinascita era il punto di riferimento, era anche sede del comitato comunale. Ne facevano parte i membri iscritti delle quattro Sezioni e di altre organizzazioni di ispirazione di sinistra, compreso il sindacato CGIL. Era un comitato comunale, molto rappresentato. Anch’io per un periodo ne ho fatto parte, essendo iscritto alla Sezione di S. Michele, presso il Circolo Scintilla. Ricordo che venivano organizzate molte riunioni durante le campagne elettorali per scegliere i candidati da eleggere in consiglio comunale, oppure a livello provinciale, o i candidati a senatore, oppure deputato della Repubblica. Dalla Sezione di San Michele sono stati eletti due sindaci, Dante Giuntoli e il Prof. Renato Risaliti e ancora assessori e consiglieri ben qualificati politicamente che furono importanti e stimati dalla comunità aglianese.

Facevo l'operaio, la mia attività politica era rivolta più al sindacato. Frequentavo la Camera del lavoro di Agliana, ma il punto di riferimento è stato sempre quella Provinciale. A Pistoia eravamo tanti operai, edili, tessili, metalmeccanici, ci trovavamo alla Camera del Lavoro in Via Curtatone e Montanara, poi nella nuova sede in Via Puccini a seguire le lezioni per imparare a leggere i contratti collettivi di lavoro e come condurre le lotte sindacali nei cantieri e nelle fabbriche. Il movimento sindacale era ben strutturato, dovevamo sapere con quale linguaggio esprimersi, saper esporre bene, essere convincenti con gli operai, farli avvicinare al sindacato e stare uniti. Questa era la scuola sindacale e posso dire che

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c’erano bravi maestri. Eravamo all'epoca dei Governi di Tambroni e Scelba.

La destra più reazionaria della Democrazia Cristiana era al potere, dirigeva quella parte della politica che aveva programmato la vittoria elettorale del 1948 e voleva la maggioranza assoluta nel 1953, quando auspicò di raggiungere il 51% per varare una legge “truffa” che avrebbe messo fuori legge tutti i partiti di sinistra, ripetendo l'esperienza De Gasperi. Il risultato delle elezioni politiche del 1951 invece fu molto inferiore di quelle del 1948. Aveva prodotto divisione tra la povera gente. Alcune persone con mentalità vicina al confessionale, che facevano parte delle organizzazioni cattoliche in cui il parroco era presente, si improvvisarono attivisti della Democrazia Cristiana e alla vigilia delle elezioni andarono a chiedere alla gente a chi avrebbero dato il loro voto.

Ricordo che un amico di Monte San Savino che faceva il mercante di pelle di coniglio, piuma di oca e stracci, venne a trovare mio padre per raccontargli di un contadino che gli aveva chiesto per chi votava. Quel mercante, Vardo era il suo nome, passava tutte le mattine a piedi davanti la casa di quel tale, il quale gli disse:

“Vardo, a chi dai questa volta il vòto?” Vardo rispose: “Non lo so, te lo dirò domani”. Il giorno successivo il mercante andò nell'aia del contadino a spiegargli per chi avrebbe votato, egli troppo indaffarato nella stalla con la pulizia del bestiame, gli offrì un fiasco di vino per bere in modo di trattenerlo per un poco di tempo, ma Vardo in breve tempo finì il vino e lasciò il fiasco vuoto dietro il pagliaio. Ritornò a trovare il contadino ancora indaffarato nella stalla, sudicio, puzzolente di sterco del bestiame come se facesse compassione per quella brutta immagine che dava. Gli disse: “Se vuoi sapere a chi do il vòto, è dietro il pagliaio”.

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Quella legge non passò, non bastarono i voti dell’estrema destra verso la Democrazia Cristiana, non tutti i cattolici accettarono quella politica dittatoriale. Furono elette le persone più conservatrici della destra che in seguito ricoprirono tutti i posti di comando nei governi che si susseguirono. Il Partito Comunista con i suoi militanti dovette stare all'erta per lungo tempo per respingere i loro attacchi che potevano essere anche verso le istituzioni, ma noi sorvegliammo le nostre sedi in modo attento. Le spedizioni della destra di Scelba non erano solo contro le federazioni provinciali, ma anche verso le manifestazioni sindacali che si svolsero in tutte le piazze delle città d’Italia, in quella di Reggio Emilia la polizia sparò alla testa del corteo uccidendo sei operai.

Anch'io partecipavo a quelle manifestazioni. Andammo avanti per alcuni anni con il compito di fare opera di persuasione verso quei gruppi di giovani esaltati, disposti a sfasciare tutto quello che trovavano in città, il patrimonio pubblico e le vetrine dei commercianti. L’indicazione del partito era quella di proteggere le sue sedi e quelle del sindacato più soggette agli atti vandalici e noi attivisti eravamo sempre pronti a fare vigilanza fuori e all’interno delle sedi. Ero molto giovane e facevo parte dei delegati di categoria della CGIL, ero spesso invitato alle riunioni dove si dibattevano i problemi, riunioni che poi si trasformavano in lezioni per imparare ad essere un uomo preciso, buon attivista convincente.

Giunti agli anni ‘70, ci furono ancora periodi di lotta per il lavoro. Tutte le categorie erano in agitazione per il rinnovo dei “contratti collettivi di lavoro”, per avere un salario adeguato, per la riduzione dell’orario di lavoro ed il riconoscimento della dignità della persona. Le maggiori categorie di lavoratori, metalmeccanici, edili e tessili, per

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primi conquistarono la riduzione dell’orario di lavoro a 44 ore settimanali, ottenendo il sabato pomeriggio libero, conquista che costò ai lavoratori tante giornate di lotta e di scioperi. Non tutti gli operai rimasero convinti e compresero quella conquista salariale. Alcuni operai edili della mia categoria mi rimproverarono di aver lottato per ridurre l’orario di lavoro, dicendo che lavorando meno sarebbe sopraggiunta la “miseria” nelle case.

Iniziarono le prime lotte per il contratto di lavoro dopo quelli di fine '800 e inizio '900 quando mio nonno andava a predicare il diritto alla giornata di 8 ore. Il mondo del lavoro doveva dare un attivo segnale per costruire una società moderna. Quelle lotte aiutarono a raggiungere tante altre conquiste: un salario più adeguato per i lavoratori, l'emancipazione della donna, la parità salariale, poi il diritto di famiglia. Ero euforico quando nelle sedi sindacali ci informavano sugli accordi raggiunti, compresa la parità salariale tra uomo e donne. Andavo sempre con il pensiero indietro oltre sessanta anni, quando l'operaio lottava per darsi un orario di lavoro giusto, per far cessare quella vergogna di sfruttamento cioè lavorare da “sole a sole”, dall'alba al tramonto, desiderando un orario fisso per dedicarsi alla propria persona e alla propria famiglia. Pensavo a quanto tempo era passato da quei giorni in cui i nostri padri non poterono lottare per i loro diritti dato che riunirsi e fare sciopero era vietato a causa della dittatura. Solo dopo la fine delle guerre furono rispettati i loro diritti.

Da quelle rivendicazioni a cavallo di due secoli a quelle del nostro tempo per la settimana corta, sono passate oltre due generazioni. Mio nonno me le ha raccontate tutte quando ero bambino, mi diceva quanto fossero dure. Diceva che l'operaio e il bracciante, dedicati ai lavori agricoli, erano scherniti per la loro incapacità di reagire e per la loro

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incapacità di dialogare, allora non esistevano regole scritte che li tutelassero e li sostenessero.

Con il tempo ho appreso che le persone che non leggono, non si aggiornano, vivono sempre nella miseria. E’ difficile far capire le conquiste nuove, quelle che fanno aprire gli occhi alla gente dando il via al progresso, che la fanno ricca insieme a tutta la società. Purtroppo la maggior parte della gente non trova un riscontro nella lettura della storia! Ci sono sempre alcuni che stanno soltanto a guardare e aspettano senza interesse le conquiste ottenute dagli altri. Per questo partecipavo sempre ai dibattiti del sindacato dove si stabilivano quello da rivendicare e le strategie di lotta. Ogni volta si prendevano in esame i documenti pervenuti dalla Segreteria Nazionale da esporre alla controparte; il primo aspetto da mettere in evidenza per me era sempre la realizzazione della settimana corta.

Credevo che l’operaio dovesse avere più tempo libero da dedicare alla famiglia e allo svago, per arricchire la propria cultura, per leggere e per capire, per fruire di un tempo per andare al cinema e a teatro, per insegnare ai figli come studiare e lottare fin da piccoli per i propri diritti impegnandosi in un progetto che avrebbe visto una scuola aperta a tutti e tutti i giorni, perché l’aggiornamento fosse continuo.

Incontri

Ero venuto ad abitare ad Agliana in Via Provinciale e lavoravo a Prato; avevo bisogno di un mezzo di trasporto nuovo, leggero e veloce e soprattutto economico. Un giorno, mentre giravo per conoscere le strade di Agliana, mi trovai nella piazza di San Michele. C'era un meccanico di biciclette, Corrado Bonacchi, il suo locale era uno dei tanti luoghi di

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ritrovo. Decisi di andarci per l'acquisto di una bicicletta. Vidi un gruppetto di persone che parlavano un poco, come fossero stati al forno o al lavatoio dove andavano le donne a quei tempi. Vidi una bicicletta sportiva con cambio. Corrado mi disse che venivano costruite a Pistoia, era una Super Landa, io non avevo tutti i soldi per pagarla, ci accordammo che l'avrei pagata a rate. Trovai il meccanico molto disponibile, malgrado non mi conoscesse, ebbe fiducia in me. Mi fece molto piacere il suo atteggiamento e mi fece riflettere sull'impressione d'onestà che avevo dovuto dare nel presentarmi e sulla facilità di instaurare relazione tra le persone che c’era allora. Ogni tanto passavo di lì per consegnare la rata e per riparare qualche difetto che si creava con il cambio, fu allora che conobbi Don Sottili ed altre persone.

Il caso volle che decidessi di spostarmi con la famiglia in una casa proprio dietro alla chiesa in Via Calice n 27, era il 1957. L'iscrizione nel registro comunale dei residenti avvenne il 19 febbraio 1958. Non trovai difficoltà ad inserirmi in quella comunità, anzi, dopo qualche giorno invitai il Parroco a fare la conoscenza dei miei genitori e di tutta la famiglia. Mio padre insieme a me, gli manifestò i nostri ideali e i motivi della scelta di trasferirsi in questa zona. Già conoscevo il Circolo Scintilla che si trovava in località Casone nella frazione di San Michele. Era l’unico luogo di ritrovo per la sera dato che non c'erano bar ma solo l'appalto dell'Assuntina, della famiglia Bonacchi, dove c'era qualche tavolo e si passava la serata giocando a carte. Nel circolo invece alla sera, la gente si ritrovava per disputare la partita a carte e per tante altre attività dato che c'era la sezione del Partito Comunista, quindi era anche il punto di ritrovo politico e culturale.

In Val di Chiana ero circondato da persone iscritte al

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PCI o comunque da un vicinato con ideali vicini alla sinistra, frutto dell'onda delle lotte agricole. In quella zona erano i contadini ad essere politicamente organizzati. Gli operai non avevano organizzazioni sindacali perché le industrie erano poche, quindi l’operaio in genere lavorava nei periodi stagionali e non esisteva la presenza di un sindacato che insegnasse loro a rivendicare i loro diritti. Al contrario, ad Agliana erano gli operai ad essere organizzati; il paese era vicino a Prato e l’economia dipendeva molto dalla vicinanza dell’industria pratese. Nella zona di San Michele c'erano però molti piccoli proprietari terrieri, erano i coltivatori diretti ad essere organizzati. Punto di riferimento Bonomi. In quella organizzazione, detta la Bonomiana, c'erano tanti iscritti, era molto importante a livello provinciale.

Abitare in via Calice e mi trovai circondato da un vicinato di democristiani, molto cattolici in gran parte iscritti all’Azione Cattolica. Nei primi tempi trovai un po’ di imbarazzo ad iniziare con loro un dialogo perché in tutte le case c’erano persone di età compresa tra i 50-60 anni, con molta esperienza storica alle spalle, già esperte in politica. Inoltre Don Ferruccio Bianchi, il vecchio parroco padre della Filodrammatica, in quella zona aveva istruito la comunità insegnando a leggere e scrivere correttamente. Comunque passato il primo imbarazzo, riuscii a capire le loro idee e lasciare comprendere loro le mie, che in fondo erano le stesse. L’obiettivo comune era la pace, la giustizia e l’uguaglianza anche se da raggiungere in modi diversi.

Gli anni ’50 e ‘60

L'anno successivo, 1958, iniziò la campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali. Ricordo che in piazza di San Michele proiettarono dei filmati per mostrare al popolo

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l’operato dei governi democristiani. Nel 1951 fu emanato l'Ente Maremma, alcuni filmati mostravano i risultati ottenuti dall’Ente con la bonifica dei terreni paludosi e con la formazione di nuovi nuclei familiari. C’era uno speaker che illustrava le realizzazioni seguendo le indicazioni del partito. In seguito nella piazza organizzavano pullman per andare a visitare le zone tanto decantate, dove i contadini di varie parti avrebbero potuto emigrare e trovare il benessere.

Dalle mie parti invece, il popolo dava giudizi diversi. Ci vedevano una grossa mangiatoia per coloro che erano al potere, la chiamavano “l'ente merenda”! Furono molti i giovani, uomini di fattoria chiamati in quelle zone con mansioni di coordinamento, che ritornavano tanto grassi che a qualcuno ci vollero due sedie accoppiate per sedersi. I fattori, sotto fattori ecc. della Valdichiana che controllavano i contadini durante i raccolti dell’uva, delle olive, del grano perché questi non rubassero, rimanevano tutto il giorno nel campo a controllare e a fare la guardia al raccolto. Erano molto odiati dai contadini, perché stavano sempre al servizio dei proprietari, qualche volta dovevano fare dei lunghi digiuni, perché il contadino andava a pranzo a dispetto... lasciavano a quella sentinella il compito di guardare tutto il raccolto.

La Democrazia Cristiana già aveva fatto lo scandalo delle “banane” nel 1964, dei “tabacchi” nel 1965, arricchendo tutti quelli che gli stavano intorno. Successivamente fu la volta dell'ONMI nel 1971, degli aerei Lockheed nel 1976 e non finì lì.

Nelle discussioni con le persone, cercavo sempre di portare gli argomenti politici quotidiani, riuscivo a mantenere sempre il dialogo aperto perché parlavo a persone oneste e sincere, ma non tutti conoscevano i fatti. Alle riunioni partecipavano sempre esponenti di partito di

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Pistoia. Comunque nel sentirli parlare capivo che non era il luogo per me, il mio modo di pensare era diverso. A tutto questo ricollegavo sempre ciò che dicevano alcuni politici qualche anno prima. In un teatro a Arezzo fui onorato di stringere la mano ad Amintore Fanfani, ministro della Repubblica all'agricoltura e foreste, legislatura 1953-58, il cui intervento fu molto lungo fino alla noia.

Allora fui invitato a ritirare un premio di L. 3000 per aver frequentato un corso di botanica e di antinfortunistica. Nel 1954 mi dettero un attestato di partecipazione, un paio di forbici da potatura, un seghetto, un coltello da innesto, un largo cappello per proteggersi dal sole, un paio di occhiali e un paio di guanti per non sciuparsi le mani e le braccia. Tutto mi dava fastidio addosso, compresi i guanti. I premi in denaro erano due assegni, uno da 3000 e uno da 5000. Per la giovane età e la mia assiduità al corso avrei dovuto ricevere il premio più grosso, non fu così. Ricordo che in paese furono fatti molti commenti negativi per l'assegnazione di quei premi, dato che per lo più erano rivolte a persone che niente avevano a che fare con l'agricoltura.

Allora il grano si “mieteva” con una falce a mano e la spiga del grano urtava facilmente negli occhi e graffiava le braccia, per questo regalai i guanti ad una bella ragazza intelligente che aveva molta cura della sua persona, voleva essere sempre carina sul fisico senza calli nelle mani e graffi sulle braccia.

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La chiesa di San Michele con l’antistante prato prima della costruzione

della piazza. A lato ragazzi di San Michele sul monumento ai caduti della

prima guerra mondiale (il monumento fu tolto per far posto alla piazza nel 1948)

San Michele

Con il Parroco ci salutavamo senza problemi e non era poco a quei tempi. Qualche volta si parlava degli eventi del giorno, della politica, delle attività lavorative, era molto

Il 22 marzo 1990, su progetto dell’Architetto Nicola Risaliti, viene realizzata

la nuova piazza intitolata a Don Ferruccio Bianchi, con un nuovo monumento

ai caduti delle due guerre. Sullo sfondo, la chiesa con la statua di Cristo Re.

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impegnato nelle sue attività, era presente ovunque. Più volte si è congratulato con me per il mio modo di fare e per il mio carattere.

Facendo il muratore con la ditta della zona dei tre soci Baldi, Bindi, Bucciantini, ho potuto partecipare alle riparazioni della struttura della Chiesa, compreso il rifacimento del tetto negli anni 1961-62. Il Parroco Don Sinibaldo Sottili volle che gli lasciassi un ricordo; posizionare sul tetto della Chiesa la statua di “Cristo Re”. Lo scultore non ebbe pietà per noi muratori, infatti la statua era di cemento ed era molto pesante. Secondo il racconto del Parroco, giaceva da diversi anni sull’altare in “Compagnia”. Per me e per gli altri fu una grossa impresa tirarla fin lassù e metterla in piedi sul tetto con la misera attrezzatura che avevamo. Eravamo forniti di un montacarichi collaudato solo per 350 kg, mentre quella statua pesava molto di più e non c’era nessuna impalcatura esterna. Oggi con le norme vigenti sulla sicurezza, saremmo stati impossibilitati a posizionarla. Corremmo molti rischi nel fare quella manovra, specialmente io che manovravo il montacarichi. Il Parroco si prodigò in ringraziamenti verso tutti per la riuscita, dicendo che aveva pregato per me, avendo capito quanto fosse pericolosa quella manovra.

Con il tempo ho parlato più volte con le persone di quella statua lassù sul tetto della chiesa; alcuni credono che rappresenti San Michele perché nella mano alzata manca la bandiera che lo contraddistinguerebbe come Cristo Re, ma fu tolta perché con il tempo sarebbe diventata pericolosa. Il Parroco raccontò che quella statua era stata regalata alla chiesa al tempo di Don Ferruccio Bianchi negli anni 1952-53, dalla Signora Ardea Benesseri, moglie di Enzo Marini di via Selva dopo aver partecipato a una processione solenne come Priora, in seguito lo testimoniò lei stessa. Oggi quella statua

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sembra voglia lanciarsi verso la cima del monumento ai caduti unendosi alla memoria di tutti coloro che persero la vita in guerra. Il monumento fu costruito dal Comune in occasione della ristrutturazione della piazza nel 1989. Alla base del monumento fu eretta una targa in pietra con la dicitura: “Il popolo di San Michele a ricordo dei suoi caduti in guerra 1915-18 e 1940-45 - Comune di Agliana”. Alla sua inaugurazione il giorno 22 marzo 1990, erano presenti l'esercito, le autorità militari, civili, religiose e tanto pubblico. Già negli anni '30, per ricordare i loro caduti della guerra 1915-18, il popolo di San Michele, aveva edificato un monumento davanti alla Chiesa, consisteva in una base in cemento abbastanza grande con tre gradini che poi furono ricoperti con manufatti in cemento in modo da usarli come panche ed una grossa croce in ferro innalzata su un piedistallo. Questo monumento fu tolto negli anni 1948-49. quando fu tracciata la strada nuova che da via Selva giungeva davanti alla chiesa.

Solo la croce con il piedistallo rifatto, in ricordo dei caduti di tutte le guerre che furono tanti, fu collocata sulla parete della “Compagnia”, con scritto: “Questo segno regale che Cristo improprio del suo sangue a sostanziare la speranza della Resurrezione ai figli di San Michele Agliana”. La croce ed il suo piedistallo furono spostati nuovamente dopo la ristrutturazione della “Compagnia”, fu collocata sulla parete del fabbricato dove ha sede l'Associazione La Vacchereccia, già sede della “Banchina”, lato via Casello.

Durante l’inaugurazione della piazza alcune persone si soffermarono a osservare la costruzione accanto al sagrato, fatta subito dopo il rifacimento del tetto della chiesa, dove fu ubicato il negozio di sale, tabacchi e generi alimentari dei fratelli Bonacchi, figli di Costantino. La gente osservava l'angolo tondo della sua facciata e ammirata esclamava: “È

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fatto tanto bene! Fa la piazza più visibile e vivibile”. E pensare quante discussioni vennero fatte all’inizio intorno a quella costruzione! Ha fatto parte della storia di San Michele, ma sembra sparire nel tempo. Quando i figli dell'Assuntina, Tonino e Costantino decisero di costruire il negozio nuovo sulla piazza all'angolo con via Calice, ci furono tante contestazioni e accanite discussioni con il vicinato e non solo.

Alcuni forse non a torto, sostenevano che quella costruzione non avrebbe rivalutato l'aspetto urbanistico e la viabilità, anzi sotto certi aspetti l'avrebbe peggiorata. Per smorzare quelle discussioni, con il titolare della ditta Giovanbattista Baldi, detto Bista, inventammo l'angolo tondo. Gli disegnai su un cartone delle ellissi per prendere il punto da configurare con la costruzione dell'angolo, poi costruimmo un pezzo di muro per convincere i due fratelli della modifica. L'idea fu accolta e alcuni contestatori, vista l'originalità dell'intervento, si addolcirono, ma Angiolino di Castino, Angelo Giusti, fornaio sempre indaffarato per la consegna del pane a domicilio, che più avanti aveva il forno e il negozio di generi alimentari, non volle demordere. Durante la consegna del pane a domicilio, si fermava in piazza con l'ape furgonata e a piedi, di corsa, andava al suo negozio. Passando davanti al fabbricato mi diceva sempre di smettere di murare tanto di lì a poco la costruzione sarebbe stata demolita.

Un giorno fu ascoltato dall'Assuntina dal davanzale della finestra al piano superiore della casa accanto; lo rimproverò di aver detto quelle parole poco appropriate e lui voltando lo sguardo in alto verso la finestra, adirato e con voce possente le disse: “Assuntina! Un giorno giocavo a carte, al mio compagno dicevo di non giocare picche altrimenti si sarebbe perso il gioco, il compagno volle giocare

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a tutti i costi picche e il gioco si perse, così toccherà anche a voi e questa costruzione sarà demolita”. E continuò a correre verso il negozio. La costruzione fu fatta, son passati gli anni senza che una carta di picche sia mai stata calata.

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Il circolo Scintilla

La sezione del PCI al Circolo Scintilla comprendeva quattro cellule appartenenti ai diversi rioni del Comune, Casone, S. Michele, Ponte dei Bini, Ferruccia, la casa del popolo era sempre frequentata sia dalla gente del paese che da altri. Tra le attività ricreative e sportive c'era la squadra di calcio, la Scintilla, l'unica a Agliana. La squadra dell’Aglianese qualche anno prima aveva fallito, mentre la Scintilla aveva un bel gruppo dirigente e tanto seguito fra la gente. Partecipava al campionato UISP interprovinciale incontrandosi con squadre importanti dal punto di vista agonistico. L'Avanguardia di Pistoia faceva capo al circolo Garibaldi, era della Federazione del Partito Comunista e la Zenit del circolo di Frascati di Prato, sempre della Federazione del Partito Comunista. Sconfiggendo quelle due squadre che erano le più forti del girone, la Scintilla vinse il campionato 1958-59. Quante feste per sostenerla! Anch’io ero sempre pronto a tifarla e fu l'occasione per conoscere un imprenditore edile locale che mi dette la possibilità di lavorare molto nel territorio aglianese, dato che allora lavoravo con un'altra ditta che mi portava sempre lontano da casa.

Nella zona di San Michele entrai in tutte le casa anche per piccole riparazioni ed ebbi modo di capire la storia del popolo aglianese. In molti, quando capitava di parlare di politica, oppure delle loro abitudini e di quanto realizzato dal dopoguerra in poi, riguardo la Scintilla, dicevano: “Il mio circolo”. Tutti si sentivano almeno un poco protagonisti della stessa storia per aver contribuito alla sua costruzione oppure per averlo visto crescere.

Alla Sezione del PCI di San Michele ripresi a diffondere

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la stampa come avevo fatto in passato a Lucignano, distribuendo il quotidiano del PCI l’Unità e altri giornali di tiratura settimanale. Era un'occasione per leggere e far leggere. Andavo nelle case dove c’erano persone giovani, con le quali potevo parlare da pari e commentare gli eventi della settimana, cercando di stimolarli anche alla lettura di qualche libro e quanto più possibile a una preparazione culturale. La diffusione della stampa era domenicale, io diventai il responsabile, diffondevo tanti giornali nelle case, specialmente in occasioni particolari come le campagne elettorali. Alcune volte distribuivo fino a 180 copie in un giorno in un percorso a anello, che facevo in bicicletta fino ad arrivare al Ponte dei Bini e oltre. In casa di Remo Lombardi era come il capolinea e spesso trovavo una tazzina di caffè. Silvana, moglie di Remo, donna molto intelligente, attenta e attiva anche politicamente, mi aspettava. Mi intratteneva con una buona conversazione nell’attesa dell’arrivo del Parroco dopo la S. Messa che teneva in una chiesetta vicina, per prendere il caffè insieme.

Ho già detto che con il Parroco avevo buoni rapporti, infatti qualche anno dopo si offrì di aiutarmi a scrivere i 50 anni di storia del circolo “ La Scintilla” mettendo a mia disposizione le sue conoscenze e le documentazioni dell’archivio parrocchiale. Mentre consultavamo i giornali e commentavamo i fatti del giorno, lui da buon cattolico, non condivideva il modo in cui venivano riportati in quella stampa. Mi diceva quanto ammirasse la nostra organizzazione, la considerava seria, capillare, di buona fede politica, l'avrebbe voluta anche lui nel suo ambiente. Gli dicevo che era lui a sbagliare. Teneva troppo stretto il suo popolo, doveva trovare il modo di aprirsi. Qualche volta preferiva non rispondere, soprattutto quando consigliavo di essere veramente il capopopolo della sua parrocchia. Secondo

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me doveva seguire l’esempio del parroco precedente, Don Ferruccio Bianchi, il quale in periodi più difficili, trasmise al popolo di S. Michele il modo di lottare, insegnò a parlare, a camminare insieme. Dicevo a Don Sinibaldo che doveva fare le medesime azioni per le nuove generazioni, doveva essere il Don Milani di San Michele, altrimenti c’era il rischio che i ragazzi non avrebbero più condiviso la sua educazione ma addirittura avrebbero potuto voltare le spalle all’insegnamento storico del parroco precedente. Il suo popolo doveva essere meno attaccato al “campanile”, il mondo è per tutti più grande. Soffrivo tanto quando gli dicevo queste parole, credevo veramente che fosse necessaria una maggiore apertura.

Ricordo un fatto che dimostra come una parte del paese fosse chiusa in un cerchio ristretto e in un campanilismo estremo. Un abitante di San Michele, Ferdinando Marini, detto Nandino, aveva chiesto alla famiglia che, al suo decesso, fosse seppellito nel cimitero di San Niccolò. La cerimonia funebre fu effettuata nella chiesa di San Michele ed il Parroco accompagnò il corteo funebre fino al confine della Parrocchia, in via Selva 119, abbandonando lì il corteo che dal n° 117, li accanto, fu guidato dal parroco di San Niccolò fino al cimitero.

Cultura

Ad Agliana non c’era ancora una biblioteca, come comitato di sezione cercammo di attrezzarne una piccola nel circolo Scintilla. Il Comune l’avrebbe inaugurata il 12 dicembre 1971. Con quella biblioteca si capì che eravamo in pochi a saper leggere correttamente, capire e interpretare gli scritti preziosi dei libri che ogni tanto gli Editori Riuniti ci mandavano da Roma. Anche nella comunità di Don

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Sinibaldo occorreva altrettanta preparazione, ma lui faceva finta di non sentire. ”L’importanza del sacrificio e l’impegno nello studio perché, come ricordava Don Milani e prima di lui Antonio Gramsci, la cultura è fondamentale perché è l’unico mezzo che l’uomo possiede per confrontarsi con gli altri, per rendersi migliore e per saper rendere migliore il mondo in cui vive.”

Quando abitavo in via Calice mi resi conto di quale fosse il loro sistema politico democristiano. Avevano fatto tutti cerchio tra loro, all’interno del quale un bel quadrato, di lì non si poteva né uscire, né entrare.

La sera del 17 aprile del 1960, le piogge abbondanti provocarono la rottura all’argine del fiume Calice, in prossimità della casa Gorgeri, dai Niccoli in via Lungo Calice, che demolì parte della casa e le stalle mentre tutti gli animali erano all’interno. Le acque invasero la campagna del Ronco e del Ponte dei Bini stagnando per molti giorni. Il comune organizzò i soccorsi, ma mancavano gli attrezzi necessari per raggiungere le famiglie isolate. Al circolo Scintilla esisteva una grande organizzazione giovanile disponibile a prestare immediatamente i soccorsi, la FGCI. Si rivolsero ad Alberto Panello, un immigrato dalla Versilia, esattamente da Tonfano, per poter avere dei pattìni a noleggio per soccorrere quelle persone alluvionate. In breve, Parisio Gorgeri partì con il suo camion a prenderne due.

Il Comune si servì del circolo La Scintilla come base di coordinamento dei soccorsi con l’aiuto dei giovani disponibili per raggiungere le famiglie alluvionate, portando subito materiale di prima necessità. Con quei pattìni carichi, i giovani passarono davanti casa mia e si avviarono verso via Francesco Ferrucci per raggiungere il Ronco e le altre zone. Un consigliere comunale di minoranza della zona non volle far parte dell’organizzazione, ma volle salire comunque su un

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pattìno e si aggregò ai soccorritori. Strada facendo, parlò male dell’Amministrazione Comunale perché secondo lui non aveva provveduto in tempo al bisogno e alla protezione delle famiglie. Il rematore del pattìno non condivideva quelle affermazioni e gli altri dell’equipaggio mugugnavano, allora cominciò a dire che il pattìno prendeva acqua per il troppo carico e che qualcuno doveva scendere. Giunti al sottopasso dell’autostrada, il consigliere fu invitato a scendere e salire sull’autostrada in attesa del loro ritorno. Purtroppo rimase su quella scarpata senza sapere cosa fare e come ritornarsene a casa. Non ho mai saputo in che modo tornò indietro, ma so che rimase in quel luogo per diverse ore. In paese quell’evento fu commentato a lungo in termini positivi e negativi. Ci furono anche interrogazioni in consiglio comunale, ma nessuno condannò quel gesto, il sindaco eletto nel 1956, faceva parte dell’ organizzazione del circolo e di quel gruppo di giovani con spirito rivoluzionario. Il popolo della piazza legato alla Democrazia Cristiana e al mondo Cattolico invece non accettò quello “sgarro” al suo consigliere. La distanza ideologica, l’odio delle persone tra la piazza e il Casone, luogo del circolo, si mantenne ancora per molto tempo nella mente delle persone.

Nel mese di maggio del 1964 venne organizzato lo sciopero dei tessitori che lavoravano per conto terzi. Rivendicavano una tariffa più equa, adeguata al costo della vita, la vecchia tariffa ormai era di gran lunga superata. Lo sciopero fu preparato dai tessitori più attivi, la lotta durò per ventuno giorni, ma non tutti aderirono allo sciopero. Nella zona di San Michele i tessitori avevano il campicello per il sostentamento della famiglia, quindi il telaio in casa era una risorsa in più, ma chi viveva solo di tessitura era molto arrabbiato nei confronti di coloro che facevano i crumiri. Spesso c'erano scaramucce molto vivaci davanti gli stanzoni

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richiedendo le forze dell'ordine, perciò intervennero più volte i carabinieri, la polizia e altre forze dell'ordine per calmare gli animi dei manifestanti. Sono stato spesso testimone di tante discussioni e polemiche mentre svolgevo il mio lavoro di muratore.

In quel periodo nel giardino del circolo era stato inaugurato il pallaio, tanti scioperanti venivano a giocare alle bocce e si informavano sugli eventi. Era l'occasione per gli attivisti di ritrovarsi per organizzare picchetti e fare opera di persuasione verso coloro che lavoravano. Durante una discussione molto animata, era presente un tessitore crumiro e uno di quei giovani volontari per il soccorso agli alluvionati. Il tessitore, una persona di terza età, apostrofò più volte con parolacce quel giovane fino a farmi paura, gli rimproverò l'atteggiamento scorretto avuto da lui e dai “suoi compagni” nei confronti del consigliere lasciato solo durante l'intervento di soccorso per l'alluvione. La sua era la rabbia e l'impotenza di non poter reagire in quel momento. L'isolamento, l'odio e la poca democrazia portarono a quelle azioni violente che impedivano ogni forma di dialogo.

Il 4 novembre del 1966 ci fu la grande alluvione che è rimasta alla storia. Lo Stato intese risarcire i danni alle masserizie e agli immobili provocati dall'acqua, con qualche decina di migliaia di lire, circa L. 170.000 da assegnare ai tessitori e agli abitanti. Il circolo Scintilla divenne sede per le riunioni del coordinamento comunale. Amministratori, rappresentanti degli artigiani, forze sindacali e politiche insieme ai comitati paesani si ritrovavano per decidere quanto e chi avesse diritto ad ottenere i contributi in base ai danni denunciati. I componenti del comitato della piazza non erano mai presenti, nella loro mente il circolo era sempre lontano.

L'ultimo evento che fece incontrare le due fazioni fu il

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giorno 27 settembre 1973, quando nella zona una tromba d'aria scoperchiò tanti tetti facendo enormi danni alle strutture. Anche questa volta il circolo La Scintilla fu coinvolto nei soccorsi e nello stabilire come risarcire i cittadini. L'Amministrazione Comunale fece arrivare alcuni autotreni carichi di “marsigliesi” dalla fornace del Tempora di Bettolle (SI) da distribuire immediatamente a coloro che erano stati colpiti da quella tempesta, che tuttavia non furono abbastanza. Anche la Regione stabilì delle somme per contribuire ai risarcimenti. Ricordo una riunione alla presenza delle autorità e delle forze politiche per trovare l'accordo su come ripartire le risorse per i danni subiti, la discussione si protrasse fino alla notte. Fu chiesto all'unico rappresentante del popolo della piazza che fino allora non si era mai pronunciato, se fosse d'accordo sulle decisioni prese, egli rispose dicendo: “Ora vado a sentire quello che dicono gli altri che mi aspettano in piazza”. Il segretario del comitato comunale del PCI esclamò subito: “Ecco il capopopolo!” Da allora quella persona era per tutti il capopopolo, nome che si portò dietro finché rimase in vita. A San Michele rimaneva sempre la stessa mentalità: due popoli molto divisi.

La “Banchina”

Le famiglie più ricche erano più politicizzate, erano soci della banca, la “Cassa Rurale”, facevano parte del consiglio di amministrazione e, come si può capire, il resto del popolo ne restava fuori. Le stesse famiglie amministravano la ricchezza e condizionavano la vita del paese con il loro comportamento, qualche volta condizionavano la vita del paese e del Parroco stesso.

Una volta partecipai insieme a un amico più anziano all’assemblea dei soci della banca. Egli sapeva già come si

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svolgevano i lavori perché altre volte aveva partecipato, ma quella sera la mia presenza, dette fastidio, non fu gradita. In paese correva voce che il Circolo Scintilla volesse diventare socio di quella banca, era risaputo che il Consiglio di Amministrazione non ne voleva sapere e forse pensarono che fossimo lì per questo. Non essendo socio della Cassa Rurale, creai tante difficoltà all'oratore nel continuare la sua relazione. Mi conoscevano quasi tutti, ma politicamente appartenevo a un’altra corrente come l’amico che era con me. Il relatore non era del posto, non mi conosceva, così interruppe il suo discorso, chiedendo al suo collaboratore chi eravamo, dimostrandosi abbastanza preoccupato. A quel punto ci rendemmo conto del disturbo e abbandonammo l’assemblea.

Nel 1961 sentii la necessità di costruirmi la casa, l’affitto mi costava un terzo dello stipendio, non potevo permettermelo. Non avevo molta disponibilità economica, così feci domanda alla Cassa Rurale per avere dei soldi in prestito. Conoscevo bene il presidente, il cassiere e tutti i componenti del consiglio, ero buon amico di tutti, ma dovetti impegnarmi e aspettare molto tempo prima di avere il prestito, con gli interessi molto alti e ci volle tanta pazienza per rimettere il conto. Quello fu per me un chiaro esempio del “cerchio e del quadrato” dell'ambiente democristiano di S. Michele.

Trascorsi altri due anni la banca fallì, era il 1964. Nel popolo di San Michele ci fu grande smarrimento, delusione, sfiducia, c'era il pericolo dell'azzeramento del capitale come avvenne negli anni trenta con altre Casse Rurali. Tra la popolazione della zona si diceva che la colpa fosse da attribuire ad alcuni deputati eletti nel collegio di Pistoia, appartenenti al gruppo politico al potere per aver fatto degli investimenti sbagliati in affari petroliferi. Il popolo non

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seppe mai la verità, ma la loro sensazione era che dei truffatori si fossero inseriti nella dirigenza, portando via il capitale. Altri invece lamentavano la leggerezza del consiglio nel concedere con facilità prestiti senza garanzie. Ci fu chi, per paura di perdere il valore monetario segnato nei loro libretti bancari, allora non esistevano ancora i conti correnti, cadde in eterna crisi. Nei paesi poi c'è sempre chi gode sui chiacchiericci che coinvolgono le persone. Pellegrino e altri andarono davanti a piedi scalzi all'abitazione del vicepresidente a rivendicare i loro soldi.

Il panico, la paura tra la gente creditrice si estese anche verso altre banche, qualcuno approfittò per prendere in giro un tale che si affrettò a recarsi presso un’altra banca del paese per accertarsi di persona sulla sicurezza dei suoi risparmi. Il cassiere capì l'antifona e gli portò sul tavolo l'ammontare del suo conto. Una volta controllati anche gli interessi, questi allora esclamò: “Va bene rimettili tutti a posto, ma non darli mai a nessuno”! La sede della “Banchina” era nell'edificio in piazza di San Michele, oggi Don Ferruccio Bianchi, al piano superiore dell’edificio dove ha sede l'associazione culturale La Vacchereccia. La Banca Toscana intervenne e risolse molti problemi, ma di questa storia dovrei fare un capitolo a parte.

Alla Scintilla parlavamo di cronaca paesana, eravamo vicini moralmente alle persone più preoccupate, studiavamo come allargare il consenso politico, mirando ai cittadini indecisi che stavano con un piede nella casa del popolo e l'altro nella piazza dove c'era l'Azione Cattolica molto forte e bene organizzata. In preparazione delle elezioni, alla vigilia di ogni campagna elettorale ci si riuniva nella sezione con le liste elettorali per stimare quanti elettori potevano votare per il PCI o per gli altri partiti. Noi rappresentanti di lista o scrutatori che venivamo nominati dal Partito Comunista

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Italiano, sapevamo già il risultato finale ancor prima di votare. Il seggio n. 7 era l'unico a San Michele, qui il partito democristiano aveva sempre la maggioranza. Il Parroco si impegnava a far capire ai fedeli per quale partito dovevano votare. A ogni competizione elettorale, nelle operazioni di scrutinio quando si rovesciava l'urna per leggere i voti espressi dai cittadini, si diceva: “Ora si scrutinano i voti della Messa”! Il risultato finale delle elezioni era sempre come previsto, era facile per noi capirlo dato che in paese ci conoscevamo e noi numerosi attivisti del partito, sapevamo come la pensava il vicino di casa.

Anche gli altri partiti si comportavano nella stessa maniera, erano favoriti dall’intervento del parroco che nel nome del “buon Dio” doveva essere presente e indirizzare le persone secondo le indicazioni della Chiesa e di chi era al potere. Per ogni seggio elettorale i partiti nominavano i loro scrutatori e i rappresentanti di lista, solitamente erano le persone più preparate politicamente della zona. Al momento dell'insediamento al seggio elettorale c'era sempre lo scherzo, la battuta, tutto filava liscio, tutti buoni amici. Anche il Circolo Scintilla, il più vicino al seggio, partecipava offrendo caffè e bevande a tutti i componenti durante i due giorni dell'operazione di voto, in segno di amicizia con l'augurio che tutto andasse bene. In genere le discussioni, anche molto accese, tra i rappresentati di lista avvenivano dopo, durante l'operazione di scrutinio.

Sono stato nominato più volte scrutatore oppure rappresentante di lista per il PCI e ho partecipato a tante discussioni per strappare un voto al partito avversario. In quel momento sì che c'era molto antagonismo! Due fatti però mi sono rimasti particolarmente nella memoria e uno mi riguarda personalmente. Mio padre era privo di vista e come accompagnatore lo portai a votare, erano le elezioni politiche

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del 1958. Mi fu impedito di accompagnarlo in cabina dal rappresentante di lista dalla Democrazia Cristiana. Mio padre aveva con sé la tessera dell'Unione Ciechi Civili e il certificato medico del dottore di famiglia, tuttavia il rappresentante di lista si oppose fermamente. Solo nel pomeriggio fu chiarito il contrasto all'interno del seggio e ci invitarono a votare con l'accompagnamento. A quel seggio sapevano benissimo per quale partito mio padre avrebbe votato. L'altro caso accadde alcuni anni dopo, fu protagonista una elettrice suora. Uscì fuori dalla cabina rivolgendosi con apprensione verso il presidente del seggio, dicendogli che aveva sbagliato a votare. Allora ci fu subito la risposta secca dello scrutatore nominato dal PCI: “Ogni volta che ho sbagliato, ho dovuto sempre pagare”. Nacque immediatamente una accesa discussione tra tutti i componenti del seggio per l'interpretazione della legge, rimandando la discussione addirittura alla chiusura del seggio. Fu necessario restare fino a tarda notte per interpretare ogni parola della legge. La segretaria di seggio, laureata in giurisprudenza, sosteneva l'annullamento del voto, ma un operaio, Corrado Scuffi, rappresentante di lista del Partito Comunista e con la licenza di quinta elementare, portò alcuni codici, spulciò una miriade di pagine sostenendo il contrario e alla fine tutti i rappresentanti del seggio, dovettero arrendersi alla sua fermezza. Il voto fu considerato valido e andò al PCI. Quella notte fu una piccola grande vittoria per Corrado e per noi, aveva dimostrato tutta la sua capacità di fronte ai componenti del seggio e ad una laureata che si faceva forza del titolo!

Lo sbaglio della suora forse non fu il primo e neanche l'ultimo a causa della posizione dei simboli dei partiti sulle schede. Il simbolo del Partito Comunista era in prima posizione sulla sinistra della scheda, mentre quello della

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Democrazia Cristiana in fondo a destra. Avevano sempre queste due posizioni “strategiche” perché gli attivisti del PCI alcuni giorni prima di presentare il simbolo di lista elettorale, in Pretura, a turno, giorno e notte, sostavano di fronte agli uffici del palazzo per avere il primo posto, a differenza di quello democristiano i cui dirigenti, dovevano stare attenti a non andare fuori tempo presentandosi sempre all'ultimo secondo. A quei tempi per avere un voto in più venivano raccolti anche i “cadaveri viventi”, persone che erano quasi sul finire della vita e che magari non si interessavano della vita politica.

In prossimità della Piazza sembrava che ci fosse un grande muro invisibile che divideva due popoli, quello della piazza con la Chiesa, la Santa Messa e le organizzazioni cattoliche e quello del Casone con il Circolo ARCI “La Scintilla” con le sue organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Il “muro” allora non era solo a Berlino, ma credo che un po' ovunque con il tempo si erano erette mura invisibili che rappresentavano la fisionomia degli eventi mondiali. Penso che molti cittadini di S. Michele con idee cattoliche, i “bacchettoni” aderenti alla Democrazia Cristiana, non abbiano mai messo piede dentro il Circolo, come se quel luogo fosse del diavolo. Anzi, i “capopopolo” impedivano la frequenza in quel luogo anche al parroco e alle religiose, come se gli ordini fossero tassativi. Molte volte è capitato di osservare qualche persona camminare per la strada, passare sul marciapiede opposto in prossimità della Casa del Popolo.

Grazie alla mia amicizia con Don Sinibaldo e la buona relazione che avevamo, lo invitavo ad essere presente agli eventi importanti del circolo, che negli anni ottanta e novanta, furono molto frequenti, ma non partecipava.

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Il Circolo cresce

Al circolo organizzavamo tante feste che duravano

anche vari giorni, specialmente quelle dell'Unità. Di conseguenza il circolo necessitava di più spazio. Il consiglio si riunì per un progetto di rialzamento dell'edificio. Fui impegnato in prima persona per redigere il progetto del rialzamento.

I componenti del consiglio del circolo formarono una commissione edilizia. Individuarono in me la persona più preparata tecnicamente perché conoscevo l'arte dell'edilizia. Ero tra i più impegnati nel circolo per il sociale.

La contrarietà del presidente del consiglio di amministrazione alla realizzazione di qualsiasi ampliamento portò alla necessità di trovare qualcuno che potesse seguire i lavori in sua sostituzione, di conseguenza fui incaricato di individuare un tecnico che avrebbe preparato il progetto e il relativo preventivo di spesa.

Furono in molti a presiedere il consiglio del circolo, il responsabile però era sempre Danilo Niccoletti; il presidente storico del circolo, era il componente della commissione che sollecitava il corpo sociale a organizzarsi per concludere quanto prima la parte burocratica per dare inizio ai lavori. Il presidente dell'Associazione Civile non voleva costruire, non gli interessava la richiesta della base del popolo vicina a noi, non vedeva nessun professionista di sinistra a cui avrebbe potuto affidare i lavori progettuali. Per convincerlo a prendersi tutte le responsabilità per portare a termine il progetto, si mossero il sindaco, l’assessore all'urbanistica, alcuni funzionari della Federazione del Partito Comunista di Pistoia, ma senza riuscire a farglielo capire.

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L'organizzazione politica e quella associativa in quegli anni era bene affiatata. Il consiglio del circolo era allargato ad altri componenti facenti parte delle commissioni sportive, ricreative e culturali, si riunivano sempre circa trenta componenti, con un modo di procedere concorde e funzionale. In una assemblea per decidere la costruzione del piano superiore per realizzare una sala polivalente, oggi pizzeria, il cassiere portò all'attenzione di tutti la disponibilità finanziaria del circolo, circa trenta milioni per incoraggiare la commissione che doveva essere eletta in quella assemblea. Quei soldi sarebbero bastati per pagare al Comune gli oneri di urbanizzazione, ma furono gli anziani, i vecchi soci a spingere per avere un circolo più bello, all'avanguardia con i tempi, senza preoccuparsi di come pagare i debiti di costruzione, sapevano che i soci e il popolo di San Michele in qualche modo avrebbero contribuito.

Iniziò una campagna di solidarietà verso il circolo e i contribuenti furono tanti

Il Consiglio del Circolo poteva far conto su tre forme di finanziamento: prestito con interessi, senza interessi, a fondo perduto che era un contributo mensile volontario. Al momento della restituzione del prestito molti rinunciarono agli interessi o comunque a una parte di ciò che avevano versato. Era l'anno 1979 ed io, come componente della commissione edilizia e nella prospettiva che molti avevamo da superare quel muro che divideva il paese, feci di tutto per affidare il progetto a un giovane ingegnere che abitava vicino al nostro circolo, l'ingegner Umberto Mannelli. L'ingegnere era democristiano e per questo non da tutti gradito, comunque nei deliberati fu deciso di affidare i lavori ai professionisti più vicini alla nostra zona. Non so descrivere quante e come furono le contestazioni delle vecchie figure storiche e di quel presidente presenti nel circolo. Non

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avevano capito quanto avevamo lavorato in passato e quanto eravamo ancora impegnati per il rinnovamento e il superamento delle idee che ci avevano divisi. Il momento e gli attivisti e i frequentatori disponibili a fare tanto volontariato ci davano ragione nel procedere.

Arrivò l'esigenza di costruire un prefabbricato adibito a ristorante e per questo furono acquistati alcuni appezzamenti di terreno posti di fianco al circolo che fino ad allora avevamo in affitto. In molti fecero la proposta come costruirlo, per il progetto fu incaricato Renzo Gori, studente per diplomarsi come geometra presso l'Istituto Tecnico Filippo Pacini di Pistoia. Si costituì un comitato di volontari guidati da Antonio Fusco e Mauro Barni per dar vita a una pizzeria che operava nel prefabbricato durante il fine settimana. Fu facile saldare i debiti contratti in precedenza con i soci per finanziare la sopraelevazione della struttura, per l'acquisto del terreno e in breve potemmo accantonare qualche milione di lire. Nel 1983 la costruzione per il rialzamento fu terminata. Avevamo realizzato un circolo all'avanguardia. Possedevamo gli spazi giusti per iniziative importanti; anche l'amministrazione comunale insieme a altre associazioni e forze politiche e sindacali, vennero nei nostri locali. La Federazione del PCI di Pistoia ci tenne un convegno provinciale sulla scuola, ospitando personalità politiche di rilievo a livello regionale e nazionale.

Per gestire quei finanziamenti e garantire la serietà e la trasparenza della gestione, dovemmo costituire una commissione finanziaria composta da due soci del circolo e un membro del consiglio come responsabile che fu Antonio Fusco, in modo da rispondere in seguito alle esigenze del socio finanziatore. Il prefabbricato che con euforia era stato ideato e costruito qualche anno prima dai giovani frequentatori, risultò abusivo, in seguito l'amministrazione

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comunale lo fece demolire (pochi giorni prima che venisse varata una legge di condono edilizio). Fu l'unico delle tante decine di abusi edilizi sparsi su tutto il territorio comunale a non essere condonato.

Nei miei confronti, essendo dipendente comunale, venne adottata una forma di ricatto da parte delle autorità comunali, era il capo gruppo di maggioranza che spronava la Giunta in quella direzione per dare l'immagine di un partito che si batteva per la questione morale e per dimostrare serietà nel rispetto delle regole e che voleva stare politicamente lontano dai compromessi. Eppure in molti costruivano abusivamente nel proprio terreno, sperando che prima o poi l'autorizzazione dalle istituzioni sarebbe arrivata. Era il governo centrale che imponeva ai comuni le regole e il partito comunista già soffriva di debolezza.

Fra i soci del circolo ci furono molte contestazioni nei riguardi degli amministratori e nei riguardi dei politici che stavano prendendo la decisione di demolire. Il Comune mi impose di demolirlo, dato che ero stato eletto Presidente dell'Associazione Civile 1984, risultavo colpevole dell'abuso edilizio. Fu un enorme danno per l'organizzazione e i gruppi di lavoro. In quel prefabbricato ci vedevamo una realizzazione urbanistica con delle caratteristiche particolari che evitassero la cementificazione tradizionale. Delusi da quella imposizione, volevamo una rivincita. Ritornammo dall'ingegner Umberto Mannelli per realizzare un altro progetto di urbanizzazione per l'edificazione di un grosso ampliamento accanto alla struttura esistente.

Eravamo nel 1989 e dovevamo stare al passo con i tempi. Visto che a San Michele la popolazione aumentava, occorreva un locale adeguatamente più grande per garantire una maggiore frequenza dove sviluppare le attività culturali e ricreative e non perdere il gruppo di volontari che avevano

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gestito la pizzeria nel prefabbricato demolito. Ci volle del tempo per convincere la gente vicina al circolo e i soci dell'importanza di quella realizzazione. Questa volta i soldi non c'erano, ma ci avrebbero permesso di fare una bella festa con tutte le autorità cittadine, dimostrando loro di non pensare troppo alle decisioni sopra descritte.

Questa volta il finanziamento e le condizioni erano diverse. Le persone di prima generazione, quelle che avevano partecipato alla costruzione del 1948 e che spinsero per l'ampliamento del 1979, non c'erano più e se qualcuno era rimasto se ne stava da una parte a osservare. I più giovani si sentivano partecipi, c'erano ancora dei punti di riferimento come lo sport, la cultura, invece politicamente già si sentiva aria di divisione. Con la banca Credito Cooperativo di Vignole e un mutuo ipotecario si risolse la situazione finanziaria. Come presidente del Consiglio di Amministrazione dell'Associazione Civile La Scintilla, avevo buoni rapporti di amicizia con il parroco, pensavo che questa volta alla festa di inaugurazione non doveva proprio mancare. Cercai di trovare il modo di iniziare un percorso di avvicinamento con tutti i cittadini, partendo proprio dalle autorità, per rendere quell'ampliamento un momento istituzionale. Purtroppo all'inaugurazione del 1993 l'unico a mancare fu proprio Don Sinibaldo Sottili.

In seguito volli sapere il motivo della sua assenza, mi fece capire che era dovuta al fatto che non era stato invitato a benedire la struttura, mi dispiacque ma non ero io che dovevo decidere. Ricordo bene che portai all’ordine del giorno dell'assemblea dei soci la richiesta della benedizione del locale per dare maggiore importanza alla inaugurazione, volevo preparare gli inviti per programmare l'avvenimento, ma fu deliberato che il circolo era sempre stato aperto a tutti, quindi non importava l'invito. L’assenza del parroco

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alla cerimonia fu una perdita culturale e storica per tutti. Tuttavia oggi il popolo ha dimenticato. Forse sarà mancata la comprensione e il dialogo. Forse Don Sinibaldo ebbe da qualcuno a lui vicino l’impedimento a partecipare all’evento? Non lo so, ma già allora per me quel muro invisibile che ci aveva diviso per anni dalla piazza, non c'era più, avevamo iniziato un percorso per il consolidamento dell'amicizia, per il dialogo. Ero ancora legato agli ideali che più volte ci avevano fatto incontrare.

Venne la disfatta dei partiti e la disaffezione politica e come tutti coloro che si davano da fare per il proprio partito convinti di far bene, anche il parroco, con il suo ideale di obbedienza, andò in crisi. Più volte capitò di incontrarsi per strada ed ogni volta ci sfogavamo a vicenda, eravamo quasi due anime in pena. Parlavamo della fine del nostro lavoro, frutto di tanta volontà, pensavamo al nostro attaccamento agli ideali, eravamo simili, mi disse che non voleva sapere più niente né della politica né dei partiti. Era il sintomo più evidente, anche se inconsapevole, del crescente processo della laicizzazione della società civile. Un giorno però venne a trovarmi invitandomi ad andare a Barbiana nel Mugello per visitare la tomba di Don Milani.

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Tante volte gli avevo proposto di andare in quel luogo per rendersi conto che anche lui per i suoi abitanti poteva essere il “Don Milani” di San Michele.

A Barbiana avevo ancora qualche amico e conoscevo il posto, accettai volentieri.

Quell’invito mi ha fatto tornare alla mente la nostra amicizia: quando lo incontrai in piazza davanti al meccanico, quando comprai la bicicletta, quando lo invitai a far conoscenza con la famiglia. Oppure quando decisi di sposarmi, lui mi invitò alla confessione insieme alla Germana, mia futura moglie. Ancora quando l'ho invitato, più volte, a partecipare come autorità religiosa agli eventi del Circolo La Scintilla. Ormai era troppo tardi per proseguire l'esempio di Barbiana, a San Michele la storia era cambiata, i personaggi storici educati dal vecchio parroco avevano già reso l’anima a Dio e le nuove generazioni avrebbero ignorato la sua storia.

Un fatto nuovo

Un altro fatto storico importante per S. Michele si verificò il 17 dicembre del 1983 con la riapertura della Cassa Rurale ed Artigiana di Vignole. Dal fallimento della Banchina erano passati tanti anni, tanti vecchi soci non erano più al mondo, altri ormai erano anziani, non fecero caso al nuovo evento, quelli della nuova generazione, accettarono l'evento come un fatto naturale. La dirigenza della Cassa Rurale ed Artigiana di Vignole, poi abbreviata in BCC (Banca di Credito Cooperativo), quando si stabilì a San Michele, entrò nel nostro circolo a chiedere aiuto, offrendo possibilità vantaggiose di mercato ai nostri soci. La ricchezza aveva varcato la soglia della casa del popolo. Aveva anticipato la caduta del muro a San Michele. Stringemmo

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subito un'amicizia che tuttora si sta consolidando in maniera proficua. Mettemmo a disposizione i nostri locali e nel 1993 quando decidemmo di contrarre un mutuo per far fronte alle maggiori spese per un grande ampliamento del circolo, la banca fu disponibile a superare i vecchi pregiudizi politici, che però regnavano ancora nella nostra organizzazione.

Fu il direttore generale Guerrini a parlare da parte della banca, in favore delle nostre richieste. Era una persona molto attenta e preparata, vedeva nella nostra associazione la possibilità di nuove aperture nel territorio allargate anche ad altre case del popolo, mentre le banche fino ad allora erano state poco disponibili nei nostri confronti.

Quella fu una grande novità, in passato non eravamo mai stati presi in considerazione, sempre osservati con distacco e considerati come avversari. Nel nostro circolo tuttavia, alcuni componenti del gruppo di attivisti rimanevano chiusi nei confronti della banca, nonostante cercassimo di persuadere sia molti elementi del consiglio che gli attivisti. Il Segretario del consiglio di amministrazione, Bruno Giacomelli si rifiutò di firmare i verbali dell'Associazione Civile. Diceva che in banca “i soldi si portano per lavorarci e non si prendono a pagamento”, si dovette voltare pagina. Intanto i clienti della banca aumentarono, ci vollero altre stanze per far fronte al lavoro, il 4 giugno del 1994 la banca divenne più grande. In quella occasione ci fu una bella cerimonia di inaugurazione. Erano presenti la massima dirigenza della banca a livello provinciale e regionale e tante autorità. Ero stato invitato come rappresentante del Circolo, non solo perché avevamo contratto un mutuo l'anno prima, ma anche per i rapporti di amicizia che esistevano da qualche anno sia con il presidente della filiale sia con la direzione centrale.

Quando entrai nelle “stanze della ricchezza”, mi sentii

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onorato dell'invito, cominciai a salutare gli amici, i direttori, il presidente, il sindaco e altre autorità. Giunsi infine a salutare Don Sinibaldo. Quando gli strinsi la mano scambiandoci un sorriso, la prima cosa che mi disse con tono indecifrabile era: “Cosa ci fa lei qua dentro?” Gli risposi che rappresentavo il circolo Scintilla, ero invitato ufficialmente dal presidente, perché eravamo entrati anche noi a far parte del mondo della ricchezza. La mia risposta era un po' caustica ma spontanea.

Inaugurazione della filiale di San Michele della BCC Banca di Credito Cooperativo di Vignole . A sinistra le autorità della Banca, poi il Sindaco

Marco Giunti e il parroco Don Sinibaldo Sottili.

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Venti nuovi

Con il passare del tempo la parrocchia di San Michele si

trovò con il parroco ormai anziano e bisognoso di aiuto. Gli fu mandato in aiuto un sacerdote di origine polacca, Don Cristoforo che niente sapeva delle tradizioni locali. Avrebbe comunque trovato aperta qualsiasi casa dove fosse andato e questa volta, era la Pasqua del 2001, anche il circolo sarebbe stato benedetto. Questo nuovo parroco straniero, giovane di indole buona, contento di stare col nuovo popolo poiché era stato accolto bene da tutti i parrocchiani che l'aspettavano nella proprie abitazioni, entrò anche dentro il circolo, lo benedì come un adempimento dovuto, però nessun attivista si fece trovare presente mantenendo le vecchie abitudini. Quella fu la prima volta nella storia in cui “La Scintilla” venne benedetto. In passato, nel periodo della benedizione, per scansare il circolo, Don Sottili la dava in giorni alternati, nei dispari alle case del lato destro della strada e nei pari a quelle del lato sinistro, così il circolo, che era chiuso per riposo settimanale in un giorno dispari, non veniva mai benedetto.

In paese la voce corse di bocca in bocca e dopo quella volta il sacerdote fu richiamato a dovere da alcuni parrocchiani legati alle vecchie regole, i quali lo rimproverarono per aver varcato la soglia della casa del popolo. L'anno successivo il giovane parroco fu affiancato da un accompagnatore che gli indicava in quale casa andare. Noi consiglieri questa volta lo aspettavamo dentro i nostri locali per non perdere l'opportunità di fare amicizia. Gli avevamo preparato una calorosa accoglienza e tutti eravamo pronti a fargli conoscere il nostro mondo, affinché si rendesse conto di cosa esisteva in paese e ne conoscesse le attività.

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Purtroppo l'accompagnatore bene addestrato gli impedì di entrare dentro il circolo. Anche in questo caso il “capopopolo” impartì ordini ben precisi. Dopo qualche giorno incontrai l'accompagnatore, volli sapere i motivi di quel divieto, ma la risposta che ottenni fu: “Io non so niente”. Tutto fu rimandato all'anno dopo. Qualcuno della piazza ancora non si era accorto che il tempo ormai non gli stava dando più ragione.

Il sintomo del rinnovamento si fece sentire l'anno successivo quando fu nominato un altro parroco, Don

Raffaele Grandinetti.. Con lui non ci fu tanto da aspettare, si presentò immediatamente al circolo e cercò i responsabili per conoscerli e instaurare un rapporto di amicizia e di collaborazione.

Successivamente infatti fu presente alle nostre iniziative per il sociale, nelle attività culturali… Fu così che cadde il muro invisibile anche nei ri-guardi della casa del popolo.

Ma come usa dire in gergo popolare “di acqua sotto i pon-ti ne è passata tanta”, tanta ne è passata anche in questo caso. La parrocchia di San Michele dovette ancora cambiare

sacerdote, fu nominato il pievano della parrocchia più vicina di San Niccolò. Don Rodolfo Vettori, come il suo predecessore, una sera venne spontaneamente nel nostro circolo per incontrare il gruppo di attivisti, voleva

Don Raffaele Grandinetti alla

inaugurazione dell’ampliamento

dell’asilo nido “Il Gatto Parlante”

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collaborare per il bene del popolo e di lì ripartire in base a nuovi rapporti, superando qualsiasi divergenza. Così il pomeriggio del 26 settembre del 2008, nel giardino della casa del popolo fu celebrata la Santa Messa, poi la processione mosse verso la chiesa parrocchiale.

Anche le religiose dell'Asilo degli Angeli Custodi cambiarono modo di fare nei nostri confronti, alcune parteciparono a qualche spettacolo teatrale organizzato in casa nostra, altre portarono i loro alunni delle scuole parificate a giocare nel nostro giardino. Furono grandi eventi, per raggiungerli c’erano voluti anni di attesa. A parer mio l'inizio di tutta questa storia risale al periodo di fine guerra negli anni 1940-45. La lotta partigiana, le vittime della guerra, la voglia di rinascere, la costruzione di un circolo, avvenuta nel 1948 allo scopo di riunirsi, confrontarsi, dando merito agli uomini che con il loro “poco sapere” nell'arte dell'edilizia, portarono a raggiungere un sistema di dialogo e di confronto con tutti.

Noi attivisti del circolo, come in passato, cercavamo ancora di propagandare fra la gente l’importanza della casa del popolo, non solo come centro di ritrovo, ma anche come luogo dove si discutono le strategie di lotta per tutti i lavoratori, per il miglioramento della vita e per le tante iniziative a livello culturale aperte a tutta la popolazione. Ma il tempo passa, cambiano le persone, cambiano i partiti, cambiano gli ideali, cambia il modo di far politica e anche le tradizioni perdono di importanza. I giovani non conoscono la storia locale, non conoscono il motivo della “scomunica” impartita dal clero nel 1948 a chi era iscritto o simpatizzava per il partito comunista o per quello socialista. Nessuno ha detto loro quanto sono stati difficili i rapporti politici tra i partiti e tra la gente a causa delle divisioni. I rapporti di amicizia noi li avevamo cercati molti anni prima, all'epoca di

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Papa Giovanni Roncalli, quando emanò l'Enciclica Pacem in Terris, la predicammo a lungo in piazza, tra le famiglie, dentro e fuori dei nostri locali, fino alla noia, ma come già detto, ci vollero anni perché qualcosa si muovesse. Mi ritornano in mente i ricordi, la storia degli allievi del vecchio parroco in anni più difficili e quella di Don Milani, che facevano una politica per unire e non per dividere.

Anche il popolo di S. Michele con il tempo ha beneficiato del progresso. La scuola gli ha dato lo stimolo per buttar via in parte i pregiudizi idealisti di un tempo, andando oltre le regole tradizionali. Infatti, un gruppo di giovani che vedevano le nostre organizzazioni molto attive, decisero di fare una festa del popolo diversa creando un comitato “paesano” per organizzare la festa del S. Patrono di cui potevano far parte rappresentanti di tutta la popolazione, senza alcuna distinzione politica, per cui ne dovevano far parte anche alcuni soci del consiglio del circolo e della parrocchia. La festa fu chiamata “Festa Bella” e prevedeva un programma in cui le due componenti erano protagoniste dei festeggiamenti. Era il 1992, furono fatti tanti incontri e tante riunioni per coinvolgere il popolo. I riti religiosi vennero celebrati nella piazza e in chiesa, quelli culturali e ricreativi nel Circolo Scintilla. Andò tutto bene, fu una bella festa che vide tante persone impegnate, anche il Parroco Don Sottili, dall'altare espresse la sua soddisfazione per la riuscita dell’evento. Eppure le persone della generazione precedente, più vicine alla parrocchia, si opposero a ripetere in futuro l'esperienza che in effetti finì lì. Quei giovani euforici ed entusiasti erano riusciti a rompere tradizioni ormai vecchie che regnavano nella loro comunità da troppo tempo, riuscirono a concludere una festa gettando le basi per il futuro, invece le loro idee furono bruciate. Il comitato si sciolse e la “Festa Bella” del S. Patrono non fu

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riorganizzata con il comitato paesano, ma solo da quello parrocchiale. Con il tempo si sono succeduti vari sacerdoti e alcune persone della passata generazione sono salite a Dio, sono ricomparsi altri giovani con altre mentalità, disponibili a mantenere le vecchie tradizioni religiose, dimenticando però molte innovazioni perse nel tempo.

Nel 2008 ci suggerirono di rifare un comitato paesano per organizzare la festa del Santo Patrono che nel nostro ambiente fece discutere molto. Quando fu elaborato il programma e poi portato a conoscenza del consiglio del circolo, si lesse che nella nostra casa del popolo doveva essere organizzata una mostra di armi d'epoca. Il circolo è sempre stato promotore della politica pacifica, non dell’uso delle armi, dichiarandosi contrario ai conflitti bellici, quindi la mostra fu subito proibita e sui terrazzi dei nostri locali non è mai mancata la bandiera della pace. Mentre sedici anni prima la priorità era rivolta alla cultura da promuovere tra tutta la popolazione, questa volta si rischiava di dare spazio all’ambizione di qualche protagonista.

In chiesa si condannano le violenze, si predica la pace, in quelle famiglie si sono mantenute le tradizioni? Penso di no. Il nostro popolo ha lottato per la pace, per una società più libera, più democratica, contro tutte le guerre. Oggi invece alcuni vivono ancora con l'orgoglio e qualcuno con la passione delle armi, senza rendersi conto che anche quelle da collezione sparano, la mentalità di certe persone non ha camminato di pari passo con la crescita della vita, della storia.

Sviluppo del circolo

Torniamo alla storia del circolo riguardo al suo sviluppo. Già dalla prima volta che vi entrai, sentii parlare di

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ampliamenti. All’inizio era costituito da due stanzette e una stanza più grande di legno, la casa rossa ormai diventata vecchia. In una di queste erano esposti sui tavoli alcuni progetti di ampliamento per farli conoscere ai soci, allora si pensava di aggiungere anche l'abitazione del banconiere. Erano progetti ambiziosi e molto costosi, il consiglio, viste le sue scarse possibilità economiche, decise di fare solo l'ampliamento al piano terra raddoppiando la grandezza della stanza di legno. Lavoravo già con la ditta della zona, Baldi, Bindi e Bucciantini, che nel 1961 si aggiudicò i lavori.

Baldi Giovan Battista, titolare della ditta e socio fondatore del circolo, si sentì gratificato nel fare quei lavori e volle dare respiro nel riscuotere il dovuto. Con il passare del tempo il cassiere, Bruno Giacomelli molto pignolo come amministratore, non volle pagare un conto per mancanza di documentazione. Quel comportamento era dovuto alla serietà con la quale intendeva amministrare il circolo perché non solo i soci finanziarono quella realizzazione, ma anche una parte del popolo amico. Il circolo divenne grande, a misura di uomo, costruito con la prospettiva di un futuro rialzamento.

Nel 2002 ci fu una grossa ristrutturazione al suo interno. Si trattava di fare una riconversione degli spazi per altre attività. Fu deciso di fare politica per l'infanzia e aprire un asilo nido. Quando proposi il progetto al consiglio e all'assemblea dei soci, in molti lo contestarono, non volevano mischiare la vita ricreativa con quella dell'infanzia. Ci volle tanta pazienza e molto dialogo fra la gente. Anche in questo caso dovetti impegnarmi in prima persona, facendomi anche qualche nemico in alcuni rimasti fermi alle tradizioni, ignari della storia dei nostri circoli e del mondo che stava cambiando.

L'ultima costruzione risale al 2008, quando dopo tante

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Il Circolo Scintilla nel 1957 (data di costruzione 1948)

riunioni decidemmo di ampliare il nostro asilo, realizzato nel 2003, per far posto a quaranta bambini. Quell'ampliamento fu finanziato in parte dalla Fondazione Cassa di Risparmio Pistoia e Pescia con un contributo di 50.000 euro a beneficio dell'asilo. Per questo scopo ho dovuto depositare tante firme in tanti documenti che oggi giacciono in banca, in Comune, all'U.S.L., al Genio Civile, dai Vigili del Fuoco.

Un giorno nel 2010, mi presentai agli Uffici del S.U.A.P. a Quarrata per chiedere chiarimenti su dei documenti che riguardavano il circolo e quando dissi il mio nome all'impiegato, una signora vicina a me sussurrò: “Quando si dice Dominici, si dice circolo “La Scintilla”. Vedendo la mia curiosità, mi mostrò il fascicolo con i documenti che mi riguardavano… era enorme.

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Con questo libro non voglio parlare di me, voglio parlare della storia di un uomo come tanti altri, ma chi lo leggerà, darà il suo giudizio. Certo è che per realizzare nel tempo tutto ciò, mi sono dovuto confrontare con molte persone, tanti mi hanno aiutato perché da solo sarebbe stato impossibile raggiungere tante realizzazioni, a volte per andare avanti con i programmi è stato molto faticoso. Il circolo La Scintilla lascia due libri importanti, due documenti storici: “Un Circolo, una Storia”, realizzato per il 50° anniversario della costruzione del circolo a cura del professore Paolo Magnanensi e dei suoi alunni della scuola media classe 3a C, che riporta tutti i documenti della sua storia.

Il secondo, “Storia del circolo La Scintilla”, nel quale si riportano eventi politici culturali e sportivi, risale al 60° anniversario e fu curato dal professore Renato Risaliti, docente universitario, storico di fama internazionale.

Giorno dopo giorno siamo arrivati al 2012 e la mia

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storia dentro il circolo presto finirà. Dopo ventotto anni di presidenza, lascio il posto a

qualche giovane con la speranza che questa storia continui, anche se in questi ultimi anni sembra essere più difficile, sento tanta incertezza per il futuro.

La nostra associazione ha l’abilità di stare insieme e progettare.

Gli uomini che si sono succeduti a dirigere la casa del popolo, sembra non si rendano conto dei sacrifici affrontati negli anni per lo sviluppo dell’edificio e della sua riconversione avvenuta negli anni e sembrano addirittura non ascoltare consigli.

Molte volte commettono errori anche banali. Mentre in passato si poteva vantare di avere una casa del popolo ben gestita da portare ovunque come esempio, oggi sembra essere circondati da “mezzi uomini”, se poi con l'esempio saliamo ai nostri dirigenti da quelli provinciali ai regionali, viene voglia di chiedere aiuto. Con la dirigenza non c'è dialogo, non ci sono garanzie e la politica non è più tra la gente, le persone non parlano più. Facendo politica, si fa amicizia, non si diventa amici! Anni fa le persone erano diverse, c'era più partecipazione e desiderio di creare qualcosa, la voglia di fare l'attivista tra la gente. La politica era la base dell'educazione.

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Lo sviluppo del Circolo

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Attivitá politica

Come responsabile della stampa della sezione del PCI del circolo, ricevevo a casa libri, riviste e altro che leggevo con passione arricchendo la mia biblioteca che ritenevo molto importante. Con i soldi guadagnati per ogni giornale venduto che la redazione metteva a disposizione del responsabile, erano cinque o sei lire, feci un bel regalo alla sezione, facendo confezionare una bella bandiera rossa da una ditta di Firenze che produceva gonfaloni e paramenti sacri. Costò 18.200 lire, era molto bella, quando andavo alle manifestazioni con quella bella bandiera, la gente semplice mi chiedeva sempre in quale negozio l'avessi acquistata. In quel periodo nel giardino del nostro circolo organizzavamo ogni anno feste dell'Unità insieme ai compagni di partito. Con un nutrito programma politico, era facile per me ottenere quei risultati, stimolato come ero dalla Federazione Provinciale. Proprio da questa, nel 1974, fui invitato insieme ad altri cinque compagni a comporre la delegazione di Pistoia per visitare la redazione dell'Unità a Roma. Rappresentavamo Pistoia ed eravamo tutti impegnati politicamente. In redazione ci accolsero i responsabili del giornale e dopo un breve saluto ci fecero visitare e assistere a tutti i lavori della tipografia, dalla riunione del comitato di redazione per stabilire l'impaginazione del giornale, fino alla spedizione dei pacchi alle varie destinazioni. In quella tipografia stampavano l'Unità e Paese Sera. Potemmo vedere le telescriventi che raccoglievano notizie da tutto il mondo. Assistemmo alla stampa del giornale in diretta di una edizione straordinaria di Paese Sera per la zona di Roma, rimasi meravigliato da quelle innovazioni.

Qualche anno dopo, partecipai per tre giorni al convegno degli “Amici dell'Unità” a Roma come delegato

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della Federazione di Pistoia. C'erano compagni di tutta Italia a rappresentare le varie Federazioni provinciali. Fu una bella esperienza e rimasi soddisfatto della considerazione ricevuta nell'essere stato scelto a rappresentare Pistoia insieme a altri quattro compagni. Durante il ritorno in treno però, mentre parlavamo dell'aspetto politico e quale fosse il risultato, ci trovammo a riflettere sull’organizzazione del convegno, concludemmo che nell'aria c'era qualcosa che non tornava. Secondo noi, la riunione doveva essere tenuta in una casa del popolo. Avremmo invitato tanti volontari mobilitati, sicuramente sarebbe costata meno. Invece il convegno fu organizzato in un albergo inaugurato da pochi giorni, lungo la strada per Fiumicino. Noi che venivamo dalla campagna pistoiese, lo giudicammo molto elegante e munito di un servizio troppo eccessivo per la visione che avevamo del partito. Di lì cominciò il declino del Partito Comunista.

I militanti cominciarono ad assentarsi, la base non rispondeva. Dalle case del popolo cominciavano a sparire le foto dei personaggi politici nazionali e stranieri, Marx, Lenin, Gramsci... Sparirono anche le foto dei personaggi locali che avevano combattuto per la liberazione del Paese. Anche la redazione dell'Unità, quel grande patrimonio, sfumò nel nulla. Prima cessò di stampare Paese Sera poi anche l'Unità. Eppure con la distribuzione di quel giornale si portavano tanti soldi alla Federazione che in tal modo poteva sostenerlo.

La caduta

Cadde il Partito Comunista e con la caduta si formò un nuovo partito, la politica si rivolgeva ad un’aria “socialdemocratica” e molti compagni non si ritrovarono nei nuovi programmi. Molti di loro non aderirono al nuovo

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partito. Ad Agliana delle quattro sezioni ne rimase una e abbastanza ridotta, la chiamarono “Circolo”. Il Partito Comunista ormai era già lontano, la sua storia già sconosciuta. I nuovi dirigenti cambiarono ancora nome al partito spostando la sua politica ancora verso il “centro”.

Tanti compagni rimasero delusi e con il tempo si allontanarono dalla vita politica. I nuovi dirigenti, insieme ai politici rimasti, non seppero nemmeno salvaguardare il loro patrimonio, anzi, presto venderono tutte le sedi delle Federazioni del partito Comunista senza curarsi dei sacrifici fatti da tutti i singoli volontari per acquistarle e mantenerle. Vennero vendute come se quel patrimonio gli appartenesse, contribuendo a dimenticare i luoghi di storia e di percorso del popolo comunista. Io che avevo partecipato all’acquisto dell’immobile della Federazione di Pistoia e alle tante sottoscrizioni fatte nel tempo insieme a altri compagni e simpatizzanti, ero molto rammaricato di questi comportamenti. Non solo, mi vengono in mente le tante nottate passate all’interno a fare vigilanza insieme a altre persone attaccate al nostro partito per poi finire così senza niente.

Ho raccontato questa storia a modo mio, con una sofferenza che mai saprò quantificare. Ancora prima della nascita del Partito Comunista, con il congresso di Livorno, i militanti iniziarono a costruire le sedi per la loro autonomia. Il motivo di tanto dolore è dovuto al fatto che la terza e la quarta generazione è ignara dei sacrifici e degli sforzi fatti da chi aveva vent'anni durante il dopoguerra. Il dispiacere è ancora più grande pensando che ho assistito al tesseramento di mio nonno al Partito Comunista, poi ho visto mio padre che subito dopoguerra, a Lucignano, rifondò il P.C.I. con altre persone, facendo enormi sacrifici. Ricordo molto bene quando saliva sul palco a fare il comizio su una piazza piena

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di persone e ricordo le tante riunioni nelle case dei contadini o in altri paesi dove lo accompagnavo, per convincere a iscriversi al partito con l’obiettivo di essere più numerosi, più forti.

Poi furono costituite le scuole del partito nelle federazioni, nelle città capoluogo di regione. L'ubicazione era scelta in base alle possibilità finanziarie del partito, quella delle Frattocchie a Roma, quella della Bolognina erano le più importanti, come quella femminile a Fuggitorario sul Lago di Garda. Da lì uscirono dirigenti di Partito.

Il Partito Comunista era tutta una scuola con insegnanti e tanti studenti sparsi nel territorio che poi trovavamo nelle sezioni di partito di ogni paese. Con la caduta del Partito Comunista abbiamo avuto il cambiamento attraverso tre diversi partiti, il P.D.S., il D.S., infine il Partito Democratico. I dirigenti attuali sembrano andati a scuola in ”sacrestia” e poi saliti sul pulpito per farsi vedere e farsi eleggere nei posti di comando, ritengono il proprio partito progressista, secondo me manca la parola continuità e senza questa mancano alcuni valori del passato.

Ho parlato tanto di abbattimento di muri, ma non intendevo l'abbandono della propria storia. Oggi posso concludere dicendo che gli uomini politici non ci sono più e manca un programma serio dove tutti i lavoratori si possono ritrovare per sapere con chi rivendicare e tutelare i propri diritti.

Oggi ognuno pensa ai fatti suoi, dimenticando i principi politici che contribuivano all'integrazione delle classi sociali, vedo una società più povera e molto assente. Spero che la bella storia di quel Partito Comunista un giorno sia raccontata con tutta la verità, così le generazioni future capiranno che agli inizi del terzo millennio siamo tornati indietro. Siamo arrivati all'Italia “bordello”, siamo arrivati

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ai giorni d’oggi con la perdita di tutte le nostre conquiste, di tutti i valori costruiti negli anni passati.

Agli operai più svantaggiati e alle categorie meno abbienti sono rimasti solo gli occhi per piangere, sono state cancellate la dignità, la personalità, riducendoli a essere niente come persone morte. Avrei voluto vedere coloro che si trovano ai vertici del partito, allenarsi in una palestra come fa un pugile sconfitto, impegnato a prepararsi a combattere e tornare in campo più forte di prima.

Ci voleva proprio Achille Occhetto per sciogliere il Partito Comunista! il Partito Comunista Italiano non era quello sovietico che di errori ne ha commessi tanti, specie negli ultimi anni! Perché ci fu tanta fretta per fare quella operazione? Ancora non ho capito quella scelta. Sarà stato consigliato? Penso che ci fossero e ci siano persone più furbe di lui, ambiziose di prendersi le poltrone, in più considero scarse le sue capacità politiche che favorirono l'operazione. Occhetto mostrando il simbolo la “quercia”, diceva che è un albero duro, è vero, ha delle radici sane robuste e profonde, ma se l’albero è giovane, è fragile e non regge all’urto del vento e alle noie dell’essere umano.

Non avevo partecipato alla creazione del nuovo partito, perché mi ci sono sentito molto scomodo, specialmente quando ho notato lo spostamento verso una socialdemo-crazia troppo permissiva, che andava in una direzione centrista in procinto di cancellare tutti quei valori che la sinistra aveva costruito dal dopoguerra in poi.

Più tardi partecipai come delegato al congresso di Circolo (così si chiamava ora la vecchia sezione), a quello comunale e provinciale. Nel congresso provinciale dovevamo approfondire le tesi discusse nei vari congressi comunali per trarre una sintesi e dar vita al nuovo partito, il Partito Democratico. Sotto certi aspetti, tenuto conto dei tempi che

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cambiavano, potevo essere anche d’accordo sulle motivazioni che venivano esposte, ma anche allora sentivo la mancanza della continuità.

Era svanita, c’era il vuoto, non mi ritrovavo nella relazione del segretario uscente e ancora meno negli interventi che seguirono.

Ero ammutolito

Ero ammutolito, non mi trovavo nell’ambiente giusto. Mi resi conto di partecipare a quel congresso come un numero e basta. Si dava vita a un altro partito, al Partito Democratico, un partito progressista, aperto, democratico, nato con l’intenzione di andare tra la gente. Bello il nome e nobile lo scopo, mancava però il dibattito, il programma che dovevo condividere. Nella mia mente si susseguivano domande... In quel congresso chi rappresentavo? Dove era la mia storia? Quella di mio padre e di mio nonno e di tutti gli altri compagni attivisti dirigenti dei partiti di sinistra che furono picchiati, torturati, condannati per l’ideale scontando lunghi anni di carcere, dove era?!

Il Senatore e i Deputati della Repubblica eletti a Pistoia, il presidente della provincia, il sindaco del comune capoluogo e tutti i sindaci dei comuni della provincia avevano in mano da scelta politica del PD; c’erano anche i rappresentanti delle varie categorie degli operai, degli impiegati, dei pensionati, degli studenti e delle associazioni. Tutti quanti furono poco partecipi al dibattito, incapaci di esprimere le proprie idee.

Di fronte a tale situazione ero sconcertato, non volevo cambiare i miei ideali. Alcuni dei miei amici lo fecero, invece io preferii aderire a un altro soggetto politico che stava nascendo: “Sinistra Ecologia e Libertà”. Forse un nome

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troppo lungo, ma in quel programma trovavo qualcosa che mi apparteneva, c’era ancora dentro il sostegno all’ideale socialista.

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Conclusioni

Oggi a fare politica sono gli eletti negli enti e tutti coloro che vi sono nominati. Amministrano senza rispetto per la gente, a livello governativo. Ciò che predomina è lo stipendio, più è grosso, più è importante il personaggio, un atteggiamento che provoca disaffezione verso la politica. E’ vero che i contadini non esistono più. Anche la parola operai scomparirà dal vocabolario. Oggi le parole chiave del progetto politico sono lavoratori a progetto, a contratto, a tempo, in mobilità, e tanti padroncini!

Il problema rimane quando si tratta della retribuzione, i soldi per il “sostentamento” non bastano mai. Ci sono ancora lavoratori da tutelare ma purtroppo sembra che questi non abbiano tempo per capire e per decidere, cadono nel tranello sostenendo coloro che hanno portato la nostra società ad essere un vero “bordello”.

Ho finito la parte più importante della vita, la curva pian piano si chiude, anch’io dovrò ritirami dalla vita politica, con grande rammarico perché anche questa volta, come diceva mio nonno, “io capii subito, la gente ancora non ha capito”.

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Indice

L’autore

Presentazione ...................................................................pag. I

Prefazione dell’autore............................................................ 5

Mio nonno e il prozio Dante Biribò......................................11

Mio padre..............................................................................37

La scuola...............................................................................71

Mio nonno era un grande maestro ......................................123

La vita politica ed associativa ............................................189

Indice ..................................................................................263

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Un sincero ringraziamento a Roero Nesti

per aver pazientemente curato il lavoro di impaginazione e grafica di

questo lavoro

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