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HIRAM Rivista del Grande Oriente d’Italia n. 4/2008 EDITORIALE Equinozio di Autunno - XX Settembre 2008 3 Autumnal Equinox - September XX 2008 6 Gustavo Raffi Elagabalo e il culto della pietra di Emesa 9 Andrea Gariboldi Dante, Babele e noi 31 Giuseppe Cacopardi L’Arte del Silenzio: mescolando zolle e nuvole... 37 Giovanni Greco Siamo figli delle stelle 45 Bent Parodi di Belsito Le ceneri del diritto: a proposito di un libro di M.L. Ghezzi 53 Giulio Giorello Il diritto canonico contro la Massoneria 59 Luca Irwin Fragale Su viaggiatori massoni d’Europa sensibili alle grazie di Bologna 67 Davide Monda “AGITE SULLA SQUADRA, RAGAZZI! SIATE RETTI!” 83 Diane Clements SEGNALAZIONI EDITORIALI 99 RECENSIONI 110

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HIRAM

Rivista del Grande Oriente d’Italian. 4/2008

• EDITORIALE

Equinozio di Autunno - XX Settembre 2008 3Autumnal Equinox - September XX 2008 6

Gustavo Raffi

Elagabalo e il culto della pietra di Emesa 9Andrea Gariboldi

Dante, Babele e noi 31Giuseppe Cacopardi

L’Arte del Silenzio: mescolando zolle e nuvole... 37Giovanni Greco

Siamo figli delle stelle 45Bent Parodi di Belsito

Le ceneri del diritto: a proposito di un libro di M.L. Ghezzi 53Giulio Giorello

Il diritto canonico contro la Massoneria 59Luca Irwin Fragale

Su viaggiatori massoni d’Europa sensibili alle grazie di Bologna 67Davide Monda

“AGITE SULLA SQUADRA, RAGAZZI! SIATE RETTI!” 83Diane Clements

• SEGNALAZIONI EDITORIALI 99• RECENSIONI 110

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Collaboratori esterni:Giuseppe Cognetti (Univ. di Siena) - Domenico A. Conci (Univ. di Siena) - Fulvio Conti (Univ. di Firenze) - Carlo Cresti (Univ. diFirenze) - Michele C. Del Re (Univ. di Camerino) - Rosario Esposito (Saggista) - Giorgio Galli (Univ. di Milano) - Umberto Gori(Univ. di Firenze) - Giorgio Israel (Giornalista) - Ida Li Vigni (Saggista) - Michele Marsonet (Univ. di Genova) - Aldo A. Mola (Univ.di Milano) - Sergio Moravia (Univ. di Firenze) - Paolo A. Rossi (Univ. di Genova) - Marina Maymone Siniscalchi (Univ. di Roma“La Sapienza”) - Enrica Tedeschi (Univ. di Roma “La Sapienza”)

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* Gli articoli riflettono il pensiero dei singoli Autori e non il punto di vista ufficiale del G.O.I.

HIRAM viene diffusa in Internet sul sito del G.O.I.:

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Equinozio di Autunno - XX Settembre 2008*

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LLessing nei suoi Dialoghi Massonici,con molta chiarezza, sottolineacome i Liberi Muratori non pos-

sono deviare in nessun modo dal loroimpegno, scadendo in quello che noi chia-miamo profanità. Sarebbero fonte di ridi-colo e compassione.

Di ridicolo per il loro fallimento e di com-passione per non aver saputo lasciare –come diceva il Fratello Baden Powell – “ilmondo migliore di come l’avevano trovato”.

Lessing aveva ragione allora e ha ragio-ne anche nel presente.

La Libera Muratoria, oggi, non può enon deve deviare dal proprio secolareimpegno. Non può, in nessun modo, vivac-chiare su di un passato glorioso. Non puòlimitarsi a vantare la sua storia. Non può

solo ostentare quelle conquiste che sonostate il suo vanto e che sono diventatepatrimonio dell’Umanità. Ciò non è suffi-ciente. Altro richiede il tempo presente.Altro è necessario nel momento in cui - atutti gli uomini di buona volontà, di rettopensiero e di buoni costumi - si presenta-no sfide di straordinaria portata. Sono sfi-de - basta leggere i giornali e seguire i net-works per rendersene conto - che riguarda-no le aspettative, i comportamenti e lesperanze di un mondo in radicale trasfor-mazione.

È una trasformazione che, spesso, ha icaratteri di una crisi. È una crisi socialeche riguarda sia l’opulenta realtà occiden-tale che le povere realtà del Terzo Mondo.È una crisi esistenziale che attanaglia gli

* An English version of this talk is published at p. 6.

“AGITE SULLA SQUADRA, RAGAZZI! SIATE RETTI!” La Massoneria e l’Impresa del Music Hall*

di Diane ClementsDirettrice della Biblioteca e del Museo della Gran Loggia Unita d’Inghilterra

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uomini che non sanno più chi sono, dadove vengono e dove vanno. E che vorreb-bero saperlo.

È una crisi ancora –interiore ed esteriore– che non trova ade-guata risposta nelledottrine religiose, filo-sofiche e politiche. E,non trovando risposta,si trasforma o nel deli-rio consumista o nel-l’aggressività verso ilpiù debole. Entrambesono forme estreme –e tra loro complementa-ri - di disagio e di drammatica impotenza.

Questo fa sì che, ovunque, dilaghinoconflitti. Che ovunque la violenza assuma ibrutali caratteri dell’ovvio. Che ovunque latolleranza lasci il posto alla protervia delpiù forte. Protervia che scorge nell’altro -nel diverso - non il Fratello da comprende-re, aiutare e correggere (se necessario), mail nemico da vincere e distruggere. La stes-sa scienza - a cui l’uomo aveva affidato ilsogno di un processo ugualitario e pro-gressivo – rischia di trasformarsi in unmeccanismo fine a stesso. Rischia di diven-tare un idolo a cui sacrificare per avere incambio l’illusione di una potenza vana eillusoria: non per l’uomo ma contro l’uo-mo. Non per essere, ma per avere.

A fronte di tutto questo, i Liberi Mura-tori non possono fare orecchie da mercan-te. Non possono nascondersi. Non possonomostrarsi pavidi e inerti se vogliono nuo-vamente riappropriarsi di un ruolo storicoda parecchio tempo presente solo nella

memoria. Così come non possono usciredalle spelonche del segreto – in cui per

tanti anni, paurosamente,si sono rintanati - pertrincerarsi nella torred’avorio di una superiori-tà che non possiedono. Enon possono neppure –come troppo spesso acca-de – considerare l’Istitu-zione Massonica comeun’azienda da conquista-re con pacchi di delegheo un partito politico dascalare con mucchi di

tessere: senza esitare aricorrere al peggior arsenale di un passatoche si vuole dimenticare. Per sempre. E siaben chiaro che questo è un punto di nonritorno. Dimenticarlo equivarrebbe a tra-dire il messaggio liberomuratorio.

Questi comportamenti – che spesso sitrincerano nel più vile anonimato - nondevono trovare cittadinanza all’interno diuna Libera Muratoria che ha riconquistato– con estrema fatica – una credibilità socia-le e un prestigio culturale. Essi rappresen-tano un cancro che – se non viene elimina-to con decisione – la divora dall’interno,svuotandola di significato e rendendolacome diceva Lessing oggetto di compassio-ne e di ridicolo. Viene da pensare – para-frasando la famosa frase di D’Azeglio – che“Fatta la Massoneria, bisogna rifare i Mas-soni”. Significa che bisogna ritrovare – adogni costo e a prezzo di ogni sacrificio -una più alta Coscienza Massonica nel con-cepire la Libera Muratoria come una edu-cazione permanente alla vita spirituale e

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civile, come uno straordinario laboratoriodi idee e come una entusiasta moltiplica diiniziative sociali, culturali e formative.

I Liberi Muratoridevono accettarequesta sfida. Devonoassumersi il compitoe la responsabilitàdella denuncia e, nelcontempo, l’impegnodella risposta. Devo-no gridare a tutti –come hanno fatto inpassato – la loro fedenella dignità dell’uo-mo, il loro amore perla libertà, la loro voca-zione alla tolleranza, la loro assoluta con-vinzione nell’ugualitarismo.

Praticandoli, s’intende, in prima perso-na. Cosa questa che non sempre, purtrop-po, avviene: con esiti nefasti.

Devono impegnarsi, a fondo, per esserel’esempio vivente e operante – all’internoe all’esterno dell’Ordine - di come potreb-be essere il mondo in cui tutti vorrebberovivere: in pace, in concordia e in onestà.Devono moltiplicare i loro sforzi per quel-la solidarietà che non coincide con la pietà,ma con la disponibilità a condividere risor-se, intelligenza e felicità. E magari ancheun sorriso.

Gli strumenti non mancano. Hanno dalla loro l’eredità millenaria

della Tradizione Esoterica che - nell’Inizia-zione - vede la scelta militante di un uomoche dubita e ricerca: per avvicinarsi allaVerità.

Hanno dalla loro quell’acuta sensibilitàper tutti coloro che soffrono spiritualmen-te, moralmente ed economicamente. Una

sensibilità che li hasempre posti a fian-co di coloro cheerano soli, schernitie derisi. Una sensi-bilità che li ha vistilottare per la liber-tà ovunque venisseconculcata e vilipe-sa. Hanno dalla lorol’entusiasmo di tut-ti quegli uomini checredono nella Fra-

tellanza Universale:senza limiti di religione, cultura, apparte-nenza geografica e condizioni economiche.

Questo deve essere il solenne e rinno-vato impegno di tutti i Liberi Muratori nelgiorno in cui il Grande Oriente d’Italiacelebra i sessant’anni di una Costituzioneche ha fatto dell’Italia – anche grazie alcontributo della Massoneria - un Paesematuro, libero e democratico. Così, libera,matura e democratica, deve poter diventa-re l’umanità tutta.

Certo, non è facile. Certo, molti sono gliostacoli.

Ma questi si dissolveranno se manter-remo in noi, Liberi Muratori, quella certez-za – dirompente ed irresistibile – che PabloNeruda ha espresso in una indimenticabilefrase poetica: “Potranno tagliare tutti i fio-ri, ma non fermeranno mai la primavera”.

La nostra primavera, aggiungo conorgoglio.

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EDITORIAL

Autumnal Equinox - September XX 2008

by Gustavo RaffiGrand Master of the Grande Oriente d’Italia, Palazzo Giustiniani

LLessing, in his Masonic Dialogues,very clearly underlined that theFree Masons cannot deviate in

any way from their commitment, goingdown to what we call profanity. Thiswould generate ridicule and pity.

Ridicule for their failure, and pity forfailing to leave – as Brother Baden Powellsaid – “the world better than they found it”.

Lessing was right then, and still is. The Free Masonry today cannot – and

must not – deviate from its century-oldcommitment. It cannot, in any way, getalong thanks to a glorious past. It cannotlimit its action to boasting its own rich his-tory. It cannot only show off those con-quests that were its source of pride, andthat have become the heritage of mankind.Yet this is not enough. The present timerequires something more. More is needed

at a time when all men of good will,upright thought and good customs, needto face challenges of outstanding impor-tance. Challenges concerning the expecta-tions, the behaviours, and the hopes of aworld undergoing a radical transforma-tion. It is sufficient to read the papers andwatch networks programmes to realise it.

Such transformation often takes on thefeatures of a real crisis. It is a social crisis,concerning both the affluent westernworld and the poor third-world countries.It is an existential crisis gripping men, whono longer know who they are, where theycome from, or where they are going to.And they would like to know.

It is also an internal and external crisis,which does not find proper answers inreligious, philosophical and political doc-trines. Since it does not find a proper

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answer, such crisis transforms itself eitherinto the consumer’s culture delirium, orinto aggressiveness towards the weaker.Both are extreme and complementaryforms of malaise and dra-matic powerlessness.

This leads to thespread of conflictseverywhere. Everywhereviolence takes on thebrutal characteristics ofwhat is obvious. Every-where tolerance leavesthe place to the protervi-ty of the strongest. Pro-tervity which sees in oth-ers – different beings – not the Brother tounderstand, help, and correct (if neces-sary), but the enemy to win and destroy.The very science - to which man had givenhis dream to reach an egalitarian andgradual process - runs the risk of trans-forming itself into a mechanism with anend in itself. It runs the risk of becomingan idol to which making sacrifices, to havein exchange the illusion of a vain and illu-sory power; not for men, but against men.Not to be, but to have.

The Free Masons cannot turn a blindeye on such a situation. They cannot hide.They cannot prove to be coward and slug-gish, if they are to regain possession oftheir historic role, which for a long timehas been present only in memories. Simi-larly, they cannot exit the caves of secret –in which for many years they have fright-fully hidden – to take refuge in the ivorytower of a superiority they do not possess.Nor can they – as too often occurs – con-

sider the Masonic Institution as a compa-ny to conquer with many delegations, oras a political party to scale with lots of par-ty membership cards: without hesitating

to resort to the worstjunk belonging to apast that everybodywants to forget. Forgood. And it must beclear – this is a pointof no return. Forget-ting it would meanbetraying the FreeMasonry message.

Such behaviours –which often take

refuge in the vilest anonymity – must notfind a place within a Free Masonry that haslaboriously recovered social credibilityand cultural prestige. They are like a can-cer that – if not eradicated with determi-nation – devours it from within, deprivingit of its meaning and making it the targetof ridicule and pity, as Lessing said. Onemay think – paraphrasing the famousstatement by Massimo D’Azeglio – that“Once the Free Masonry has been made, itis necessary to remake the Freemasons”.This means that it is necessary to regain -at all costs and with any sacrifice - a high-er Masonic Conscience in conceiving theFree Masonry as a life-long education tospiritual and civil life, as an outstandinglaboratory of ideas, and as an enthusiasticmultiplication of social, cultural and form-ative initiatives.

The Free Masons must accept this chal-lenge. They must take on the task and theresponsibility of reporting and, at the

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same time, the commitment of providingan answer. They must all shout to every-body – as they did inthe past – theirfaith in the dignityof men, their loveof freedom, theirdevotion to toler-ance, and theirabsolute belief inegalitarianism.

Of course, bybeing the first onesto put such valuesinto practice. Unfor-tunately, this does not always take place,and with ill-omened outcomes.

They must feel deeply committed tobeing the living and working example –inside and outside the Order - of how theworld in which everybody wishes to livecould be like, in peace, harmony and hon-esty. They must multiply their efforts toachieve the kind of solidarity that does notcoincide with compassion, but with thewillingness to share resources, intelligenceand happiness. And, if possible, also with asmile.

There are plenty of tools to do so. They can rely on the millenarian legacy

of the Exoteric Tradition, which - in theInitiation – sees the militant choice of aman who doubts and inquires, with theaim to meet the Truth.

They can rely on the keen sensitivity

for all those who suffer spiritually, moral-ly and economically. A sensitivity that has

always spurred them to beon the side of those whowere alone, scorned andderided. A sensitivity thatsaw them fight for libertyin all places where it wasbeing oppressed andvilipended. They can relyon the enthusiasm of allthose men who believe inUniversal Brotherhood;regardless of religious

beliefs, culture, geographi-cal belonging or economic conditions.

This must be the solemn and renewedcommitment of all the Free Masons on theday in which the Grande Oriente d’Italiacelebrates the sixty years of a Constitutionthat made Italy – also thanks to the FreeMasonry’s contribution – a mature, freeand democratic country. The wholemankind should be enabled to becomeequally free, mature, and democratic.

Of course, this is not an easy task. Ofcourse, obstacles are many.

Yet, such obstacles will dissolve if wekeep in ourselves, as Free Masons, that dis-ruptive and irresistible certitude PabloNeruda expressed in an unforgettablepoetic verse:

“You can cut all the flowers, but youcannot keep spring from coming”.

Our spring, I proudly add.

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Elagabalo e il culto della pietra di Emesa: a proposito dei culti orientali nell’Impero Romano

di Andrea GariboldiUniversità di Bologna

The present article focuses on a very peculiar Solar cult which was introduced by theyoung Syrian emperor Elagabalus in Rome during the third century AD. The Author, inthe general framework of the Oriental religions that flourished in the Roman Empire,and taking into account both literary and numismatic data, discusses the importanceof the new religion of Elagabalus for the future of the Solar religion itself. In fact,notwithstanding the sudden and bloody repression by the people of Rome of the cult ofthe conical stone coming from Emesa, culminated with the murder of its great priestand his eternal damnation on the earth (damnatio memoriae), the worship of the Suncontinued all the same under different ways. In particular, it was the late pagan phi-losophy that attributed again to the Sun a central and vital role, influencing also theearly stages of Christianity.

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Culti orientali a Roma

NNon è possibile, purtroppo,affrontare in questa sede inmodo esaustivo lo sconfinato

tema dei culti orientali che giunsero inOccidente, e segnatamente a Roma, nellaTarda Antichità. Si tratta, in genere, di cul-ti di natura solare, dall’egizio Râ, all’indo-iranico Mithra, al dio greco-romano Heliossino a Sol indigens, già venerato nella Romaarcaica. I culti misterici, come quello diCibele, Iside, Adone e Attis, sono profonda-mente legati alla solenne dialettica della

vita e della morte, e sviluppano una com-plessa simbologia misteriosofica. Comeebbe a sottolineare lo storico delle reli-gioni Franz Altheim, il culto del dio solare,comunque lo si voglia chiamare, subì varietrasformazioni nel corso dei secoli, adat-tandosi in modo stupefacente a diverserealtà sociali e politiche.

Mentre la venerazione di Mithra rima-se sempre, presso i Romani, una religioneiniziatica1, il culto del Sole, che era origi-nario delle tribù nomadi arabe e partico-larmente diffuso in Siria, penetrò a Romagradatamente sino a divenire il dio supre-

1 Bianchi, 1982: 10.

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mo, sovrapponendosi persino a Iuppiter,proprio nel corso del III secolo d.C. Tuttiricordano, ad esempio,come a Nerone piaces-se essere paragonato aHelios; ma con Elaga-balo (218-222 d.C.), ilgiovane imperatore diorigine siriana, accad-de qualcosa di nuovo etravolgente per ildestino di Roma. Que-sti tentò, di fatto, unaprofonda riforma reli-giosa dell’Impero, conla pretesa di imporre aRoma il culto della pietra sacra di Emesa,che era la sua città natale. Indiscutibil-mente si trattava di una forma di cultosolare; il suo nome, infatti, era Deus Sol Ela-gabalus, ed era venerato come un betilo,che fungeva da dimora del dio. La pietranon si identificava dunque con il Sole, mane costituiva l’immagine vivente e potevaessere trasportata da un luogo all’altrosenza perdere di significato. Il betilo arrivòa Roma via Tevere, e quando terminò ilbreve tempo del regno di Elagabalo, la pie-tra fu rispedita con giubilo a Emesa. Non sicreda, però, che questo gesto pose fine alculto del Sole a Roma: esso rinacque subitosotto altre forme, più etereo e splendentedi prima. Con Aureliano divenne nuova-mente la divinità preferita dal principe,

assumendo l’aspetto di un giovane guer-riero radiato, irresistibile contro i barbari.

Il dio solare venne riela-borato, anche lettera-riamente, dalla sofisti-cata cultura pagana (sipensi al libello A HeliosRe di Giuliano), sino adessere ipostatizzatodalla filosofia neoplato-nica, divenendo in talmodo il principio gene-ratore dell’essere. Ilnascente Cristianesimofu dunque profonda-

mente influenzato dalculto del Sole, e dalla filosofia che era stataelaborata attorno ad esso, al punto chenell’immaginario artistico paleocristianol’immagine del Cristo si sovrappone talvol-ta a quella di Helios. Così il giorno delNatale coincide, e non è una mera casuali-tà, con la ricorrenza della celebrazionepagana della festa per l’Invitto Dio del Sole.

Il presente modesto contributo2 si limi-ta ad esaminare, invece, solo gli albori,immaturi e goffi, di queste vicende epocali.

Il sacerdozio dell’imperatore fanciullo

Elagabalo è ricordato nella storiografiaantica quasi esclusivamente per la suadevozione fanatica al dio aniconico di

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2 Questo articolo verrà sviluppato negli Atti del Convegno tenutosi a Ravenna presso la Biblio-teca Classense (3 febbraio 2007), intitolato: Eliogabalo, l’adolescente al potere, coordinato dal Prof. Tom-maso Gnoli dell’Università di Bologna.

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• 11 •Elagabalo e il culto della pietra di Emesa, A. Gariboldi

Emesa e per le sue stravaganze comporta-mentali. Fanatismo religioso, follie e per-versioni sessuali di un giovanissimo impe-ratore, che hanno suscitato ecertamente susciteranno anco-ra l’interesse di molti, non solostorici e studiosi della religio-ne romana3, ma anche scrittorie psichiatri. Nel tralasciarequesti aspetti, narrati anchenella Historia Augusta con dovi-zia di particolari – non senzauna certa attenzione ai limitidella morbosità – ritengo chesia importante, piuttosto, pun-tare l’attenzione sul trasferi-mento della pietra nera daEmesa a Roma, in quanto tale episodio sto-rico venne celebrato anche sulle monete.

La raffigurazione del betilo di Emesa,trainato su un carro da una quadriga,costituisce, infatti, la più eclatante novitàtipologica introdotta dal giovane principenella monetazione romana4. Furono proba-bilmente Giulia Soemia e Giulia Maesa,rispettivamente nonna e mamma di Elaga-balo, a prendere la decisione di traslare lapietra a Roma, che appare smodata e pre-matura per un quattordicenne, quantun-que vivace, quale Vario Avito Bassiano.Sembrerebbe, pertanto, che l’intera fami-

glia di origine siriana avesse il non celatoproposito di diffondere anche a Roma ilculto del dio di Emesa Heliogabalus5. È pro-

babile, inoltre, che Elagabaloavesse tentato di convertireanche altri luoghi di culto alsuo dio, se è autentica la testi-monianza della Historia Augusta(Marcus XXVI 9; Carac. XI 7),secondo la quale il tempio dedi-cato a Diva Faustina, alle pendi-ci del monte Tauro in Cilicia, fuconsacrato ad Heliogabalo.Questo progetto, quindi, fu per-seguito con una certa rozzezzaprovinciale nei confronti diuna realtà romana ancora piut-

tosto conservatrice e orgogliosa delle pro-prie tradizioni avite, sebbene fosse perva-sa da profonde inquietudini religiose.

La pietra nera compì un lungo e son-tuoso viaggio da Emesa a Roma6, in quantoad Elagabalo il sacerdozio ereditario dei re-sacerdoti di Emesa, noti come Sampsigera-mi, sembrava costituire la fonte stessa delproprio carisma. Non è un caso, infatti, cheil filosofo neoplatonico Giamblico, che tan-to appassionò l’imperatore Giuliano con lasua teologia pagana, rivendicasse col suonome – che fu di ben due re – il prestigiodell’antica dinastia emesena. Qui il culto di

3 Frey 1989; Berrens 2004; Gualerzi 2005, con ampia bibliografia; Kissel 2006; Altheim 2007.4 Belloni, 1983: 66-78.5 Alcune epigrafi attestano la venerazione del dio Heliogabalo anche in Italia. Si vedano Barnes,1972: 61; Bruun 1997; Halsberghe, 1972: 105-110, registra quasi duecento epigrafi dedicate a Sol InvictusElagabal, sparse in tutto l’Impero.6 Turcan, 1991: 72-81.

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questo dio solare era ben radicato, e alcu-ne monete della città [fig. 10], che fu eleva-ta al rango di colonia da Caracalla7, rappre-sentano – in segno della devozione locale –un tempio esastilo conall’interno il betilo dallasommità conica. Sul bloccoarrotondato sono visibiliun’aquila con il capo voltoa sinistra e alcune protube-ranze confuse, che potreb-bero anche far pensare allanatura “bisessuale” di Ela-gabalo8, tuttavia, è benesottolineare che l’interpre-tazione dei segni sulla pie-tra sacra, sia che si trattasse di simboliastrali sia sessuali, è materia molto incer-ta, come lo era, del resto, anche per Ero-diano. Il nome del dio “Elagabalo”, o Helio-gabalo, sembra che sia da ricondurre all’a-ramaico ’LH GBL, dunque “signore dellamontagna”, identificabile con la rocca for-tificata di Emesa. Questa interpretazione ècorroborata dal fatto che nel Vicino Orien-te si trovano iscrizioni greche dedicate a“Zeus Betylos”, tuttavia, poiché l’aspettosolare era preminente – forse in modoimproprio – Elagabalo venne assimilato aHelios, o meglio ad un suo simbolo9. Dietrola pietra nera emergevano due parasoli,quasi come se questa fosse dotata di unavitalità propria e quindi fosse degna diessere protetta oltre che venerata. All’in-

terno del timpano del tempio di Emesa èvisibile, talvolta, un crescente lunare. Lasimbologia astrale è certamente collegata,in questo caso, al dio Heliogabalo e alla sua

natura cosmica. Le raffigurazio-ni monetali corrispondonopiuttosto fedelmente alladescrizione di Erodiano (V 3, 5):

Non si notano nel tempio, cosìcome presso i Greci e i Romani, statuerealizzate da abili artisti a immaginedel dio; si vede, invece, una grandepietra arrotondata alla base che ter-mina a punta. La forma è conica e ilcolore è nero. Gli indigeni pretendono

che sia caduta dal cielo e indicano sullapietra alcune asperità o figure poco chiare. Essisostengono che si tratti di una immagine delSole che non è opera dell’uomo, e così la adorano.

Robert Turcan, il noto studioso dellareligione romana orientale, ritiene che lapluralità delle figure siderali sulla pietranera, appena intuibili nelle asperità del-l’aerolito, potesse alludere alla sovranitàdel Sole in qualità di corego degli astri, eche lo stesso profilo arrotondato del betilorichiamasse la volta celeste. Il betilo diEmesa, almeno nell’aspetto, era infattisimile ad altri monoliti venerati nel VicinoOriente (lapides qui divi dicuntur)10, comequello dedicato ad Afrodite-Astarte di Pafoa Cipro, o all’Artemide di Perge o di Sardi.In Fenicia, inoltre, il culto dei betili è

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7 Millar, 1993: 308.8 Turcan, 1991: 24-26.9 Millar, 1993: 300-309; Seyring 1971.

10 HA Elag. VII 5.

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ampiamente attestato, ed era ancora prati-cato nel III secolo d.C. La documentazionenumismatica relativa alla monetazioneprovinciale, infatti, testi-monia il culto dei betili inmodo particolare a Sido-ne, Tiro, e nella città sacradi Biblo. Analogamente,in Asia Minore era famosala pietra nera di Pessinun-te, ritenuta una meteoritee considerata una mate-rializzazione della deaCibele. In età repubblica-na, secondo un oracolodei Libri Sibillini, chesosteneva la necessità diportare la pietra a Romaper vincere su nemici stranieri, l’idolo del-la Mater Magna venne trasportato conun’imponente processione a Roma e postoin un tempio sul Palatino11.

L’allargamento dell’imperium romanumrichiedeva dunque l’assunzione di cultiallogeni, e l’integrazione di Cibele con ledivinità “italiche” fu tale, che Ciceronerestò ammirato dalle virtù etiche e religio-se dei Ludi Megalesi, gli unici che non por-tassero un nome latino12. Dunque, proprioa causa della relativa diffusione dei cultianiconici, i Romani non si scandalizzaronooltremodo per l’introduzione del dioHeliogabalo anche nell’Urbe, ormai abitua-ta ad un forte sincretismo culturale e reli-

gioso. I caratteri fondamentali di questadivinità solare orientale, comunque, sem-brano proprio essere l’androginia e l’ani-

conicità, due aspetti che Gua-lerzi ha giustamente eviden-ziato13. Elagabalo naturalmen-te si interessò anche alla MaterMagna, e ne sottrasse il simula-cro nascondendolo nel suotempio. Egli si fece iniziare aimisteri di Cibele, sottoponen-dosi al rito del taurobolio, masecondo la sua peculiare politi-ca religiosa che verrà esplicita-ta a Roma, dove pretese diassoggettare tutti quanti glidei italici ad Heliogabalo (HA

Elag. VII 4: omnes sane deos sui deiministros esse aiebat).

Elagabalo, dopo che le truppe ribelliebbero sconfitto l’imperatore Macrino (8giugno 218), nell’unica occasione in cui egliapparve in preda ad un furioso impetoguerriero, quasi divino14, lasciò Antiochianell’estate del 218 e giunse trionfalmente aRoma nel luglio del 219. L’episodio dellabattaglia contro Macrino merita di esseremenzionato, in quanto fu l’unica occasionein cui Elagabalo dette prova di spirito com-battivo, seppure fosse sospinto contro inemici dagli incitamenti della madre e del-la nonna, che provocarono in lui una sortadi “impeto divino” inarrestabile e travol-gente. Sembra di poter intravedere nelle

11 Liv. 29, 37, 1-2; 36, 36, 3-4. L’episodio si riferisce al 204 a.C.12 Cic. Har. 24.13 Gualerzi, 2005: 74-85.14 Dio Cass. LXXIX 38, 4.

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parole di Dione Cassio, comunque, una noncelata ironia, quando scrive che le urla del-le donne infiammarono il giovane Elagaba-lo e lo spinsero nellapugna. Questo com-portamento, che cer-to appariva bizzarroad un senatore roma-no, in realtà, era abi-tuale presso le tribùarabe15, dove i guer-rieri erano accompa-gnati dalle donne del-la comunità, che suo-navano piccoli tambu-ri e intonavano canti di guerra, arrivandopersino al punto di denudarsi di fronte alnemico.

Erano cinque anni che un imperatorenon si presentava a Roma, e possiamoimmaginare quanto grande fosse l’aspetta-tiva di vederlo, assieme alle sue stravagan-ze “orientali”. Il viaggio fu una sorta diprocessione sacra che durò un anno intero,nel corso del quale furono soffocati nelsangue i primi conati di ribellione, ancheda parte di chi, come Gannys, tentava inva-no di dare buoni consigli all’imperatoreper vivere decentemente16. È possibileseguire il percorso di Elagabalo verso nord,sino a Nicomedia, dove trascorse l’inverno,e poi, oltre il Bosforo, verso la Tracia, laMesia e la Pannonia sino a Sirmium, che gliaprì la via per Aquileia e quindi l’Italia,anche attraverso le iconografie di alcune

monete emesse da città che vollero cele-brare l’inattesa visita imperiale. Il betilosul carro è rappresentato, infatti, su mone-

te civiche di Hierapolis-Castabala, in Cilicia, e diIuliopolis di Bitinia. Ela-gabalo si consacrava per-sonalmente alle cerimo-nie del culto emeseno,danzava in modo con-vulso, agghindato nelsuo sfarzoso ed eccentri-co costume, che “era unavia di mezzo tra la stola,

propria dei sacerdoti feni-ci, e i sontuosi costumi dei Medi” (Herod. V5, 4), e rifiutò persino di indossare la togatrionfale il giorno della sua proclamazionea console, destando un comprensibilescandalo fra i Romani. Egli infatti detesta-va gli abiti di lana, e amava ricoprirsi diseta purpurea e di monili d’oro. Calzavaalti stivali gemmati e portava una grandecintura. Anche la pietra sacra era circon-data da cuscini e parasoli adorni di pietrepreziose, che rilucevano alla luce del sole.Elagabalo durante la processione sacraprecedeva il betilo a piedi, rivolto all’indie-tro, e teneva le briglie dei cavalli; sembra-va che il carro non fosse guidato da nessu-no. Altheim ha spiegato che questa era unaprassi tipica dei popoli arabi: gli animaliselezionati per portare l’icona del dio,infatti, dovevano trovare la strada da soli17.Forse, rendendosi conto dello stupore che

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15 Altheim, 2007: 70.16 Dio Cass. LXXX 6, 3.17 Altheim, 2007: 70-71.

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una simile visione avrebbe potuto suscita-re fra i Romani, Elagabalo pensò di farsiprecedere a Roma da un dipinto (sembraeseguito da lui stesso) che loritraeva in piedi e agghin-dato, pare, con l’abitosacerdotale emeseno, inatto di sacrificare di fron-te al betilo di Heliogabalo.Il quadro venne spedito aRoma e appeso nella Curiasenatoria, sopra la statuadella Vittoria, presso laquale i senatori erano soli-ti prestare giuramento alnuovo principe. Così iRomani, “già avvezzi allavista del quadro, non tro-varono l’imperatore parti-colarmente stravagante”(Herod. V 5, 6-7). Resta il fatto indiscutibi-le che Elagabalo preferì presentarsi aiRomani nelle vesti di sacerdote, piuttostoche in abito imperiale.

Questo noto episodio è solo uno dei tan-ti, che simboleggia la rottura che l’impera-tore intendeva apportare nei confrontidella tradizione romana. Lo scardinamen-to delle antiche istituzioni (consuetudo)costituisce la frattura della concordia: è, insintesi, il punto centrale della polemicasenatoria confluita nella Historia Augusta. Ilgesto irriverente di Elagabalo nei confron-ti della statua della Vittoria, posta al cen-tro della curia Iulia, dove Augusto meritòche fosse appeso lo scudo d’oro per ricor-

dare le sue virtù, viene sottolineato da Ero-diano; tuttavia, è curioso che proprio nellastoria attribuita alla penna di Lampridio

tale questione sia stata deltutto omessa. Si tratta forsedi un cauto silenzio su unacondotta di Elagabalo chepoteva richiamare da vici-no la scottante polemica fracristiani e pagani sull’altaredella Vittoria, un accesodibattito – che ebbe il cul-mine nella famosa disputaoratoria fra Ambrogio eSimmaco nel 384 – trasci-natosi fino agli inizi delquinto secolo. Elagabalo, inun certo senso, agisce inmodo esattamente contra-

rio rispetto ad Augusto, e lequattro virtù capitali del buon principe,ovvero virtus, clementia, iustitia e pietas,sono semmai il modello opposto del suocomportamento. Le fonti insistono oltre-modo sullo sfarzo delle vesti, sulla lussuriadella tavola e sul fasto smodato della cortedi Elagabalo, tutti stereotipi che di solitocaratterizzano la regalità “orientale”,secondo un cliché storiografico negativo“occidentale” assai diffuso e penetrante.

Elagabalo si vantava delle proprie origi-ni siriache e trascurava completamente icostumi romani, offendeva la religione, simacchiava di inutili crudeltà e credeva cie-camente nell’astrologia e nelle pratichedivinatorie18. Sono “qualità” genericamen-

18 Gualerzi, 2005: 19-20 e relative note; Cramer, 1996: 225-230.

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te attribuite ai Persiani, e quindi presentinegli imperatori romani “negativi”, comeCaligola e Nerone19. Si narra20, ad esempio,che Elagabalo, una volta divenuto impera-tore, viaggiasse con alseguito seicento carri,per non essere infe-riore al re dei Persianiche aveva diecimilacammelli e a Nerone,che si faceva scortareda cinquecento car-rozze. Risulta pertan-to evidente che la storio-grafia romana manipolò queste biografiesecondo modelli ideologici e topoi letterariche persistono sino all’età moderna, chevengono opportunamente rivissuti tantoin chiave positiva che negativa.

La figura di Alessandro Severo vienetratteggiata, invece, nella Historia Augustaesattamente come speculare e contrariarispetto a Elagabalo21. Questo nuovo “Ales-sandro” non imitò i Persiani, ma li combat-té duramente, organizzò una campagnamilitare e sconfisse il potente re Artaserse(ovvero Ardashir I, che però secondo Ero-diano non fu affatto battuto), al quale glistorici antichi attribuivano il desiderio diripristinare la grandezza dell’impero degliAchemenidi, e assunse il titolo onorifico di

Persicus maximus22. Alessandro Severo,anziché farsi raffigurare sulle monetecome un sacerdote orientale, preferivaessere immortalato con i suoi abiti milita-

ri, a guisa di AlessandroMagno. Ma anchequesto è il frutto del-la propaganda roma-na, difficile da nega-re, quando sono lefonti a fornire il para-gone23. Come sempre,la storia la fa chi la

scrive. Tutto questobasta a giustificare l’indignazione delpopolo romano e la cancellazione di Elaga-balo dalla memoria collettiva. Suo cuginoAlessandro Severo, infatti, non gli riconob-be nemmeno la dignità di princeps, e nep-pure osava parlare di un uomo, ma lo defi-nì causticamente inpura illa bestia24. Gualer-zi ha correttamente notato che nei con-fronti di Elagabalo non si verificò una nor-male damnatio memoriae, ma una cancella-zione radicale del suo ricordo che era auto-maticamente vissuto come un’infamiaperenne.

Il tema iconografico di Elagabalo sacri-ficante è ripreso anche su numerosemonete, sia in bronzo, sia in argento sia,eccezionalmente, in oro [fig. 2]. Sin qui

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19 Kissel 2006.20 HA Elag. XXXI 5. La notizia su Nerone ricalca Svet., Ner. XXX 3, dove le carrozze sono addirit-tura mille.21 Cracco Ruggini, 1991: 125-126.22 HA Alex. Sev. LV; LVI.23 HA Alex. Sev. XXV 9: Alexandri habitu nummos plurimos figuravit.24 HA Alex. Sev. LIII 6; LVI 6; Gualerzi, 2005: 9-10.

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25 Panaino, 2007: 143-182.26 Altheim, 2007: 67.27 Turcan, 1991: 129-138.

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non vi sarebbe nulla di strano, perché l’im-peratore a Roma è anche pontifex maximus,ma Elagabalo ne modifi-ca profondamente ilcarattere. Egli regge nel-la mano destra la paterasull’altare, mentre nellasinistra tiene un foltoramo di cipresso (matalvolta appare una cla-va), in quanto era unalbero consacrato al Sole[fig. 3]. Ai piedi dell’alta-re giace un toro sacrifi-cale. La leggenda mone-tale INVICTVS SACER-DOS AVG(ustus) designaappunto l’imperatorecome un sacerdote invin-cibile, a guisa di Sol. Dobbiamo tuttaviarimarcare che nessuna iscrizione romanasovrappone chiaramente Elagabalo adHeliogabalo: egli è amplissimus o summussacerdos, ma non è da identificarsi tout courtcon la sua divinità. La gloria di Elagabaloconsisteva proprio nel fatto di essere ilsommo sacerdote del Sole, simboleggiatosulle monete dalla stella, il legittimo offi-ciante dei riti secondo la tradizione arabo-beduina, dunque una sorta di mediatoretra cielo e terra, secondo una ideologia del-la regalità sacra tipica del mondo iranico25,ma estranea alla concezione genuina delpotere romano, dove l’imperatore è sem-

mai colui che ha maggiori meriti rispettoai colleghi nelle magistrature, un primus

inter pares. A riprova del fattoche Elagabalo non si identifi-casse col dio di Emesa, si puòaddurre la circostanza che egliordinò di costruire statue a sestesso, ma non al dio Heliogaba-lo. Solo il betilo, dunque, incar-nava la divinità, ed Elagabalogradiva moltissimo farsi ritrar-re nella veste sacerdotale e intale funzione. Certamente l’epi-teto imperiale di invictus, attri-buito nelle epigrafi anche aHeliogabalo, lo poneva al disopra degli uomini comuni equasi a livello divino, ma anche

lo avvicinava a Mithra e a Dusa-res, dio solare dei Nabatei, normalmentequalificati con l’appellativo di “invitto”26.Già Commodo, comunque, si era attribuitotale epiclesi paragonandosi ad Ercole. Iltitolo di pius, che troviamo sia in iscrizioniche su monete di Elagabalo, si inseriva,invece, nel solco della austera tradizionedegli Antonini.

Robert Turcan vedeva nella eliolatria diElagabalo una sorta di “teologia unifican-te”, un monoteismo solare al servizio dellamonarchia sacra27. Questo enoteismo nonescludeva le altre divinità, ma piuttosto lesubordinava al culto del Sole, che ebbe unastraordinaria vitalità proprio durante la

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réaction païenne del III-IV secolo. La conce-zione enoteistica del Sole, esplosa sotto ilregno di Elagabalo, avrebbepoi trovato altre espressio-ni, certo più raffinate, sia inletteratura che in filosofia.Franz Altheim, in particola-re, fu un acuto osservatoredelle corrispondenze meta-storiche che percorrono lareligiosità romana. Il goffotentativo di Elagabalo diimporre a Roma il culto deldio solare emeseno fallì, mail Sole sarebbe rinato sottoaltre forme, come nelleEtiopiche di Eliodoro e nelneoplatonismo di Porfirio,per poi fondersi nel cristia-nesimo di Costantino28. Secondo l’analisineoplatonica dell’essere, la molteplicitàdelle azioni dell’uomo avrebbe trovato unperfetto parallelismo nelle poliedrichefunzioni divine, tutte subordinate al diosupremo, identificato con il Sole. Qualoraaccettassimo questa interpretazione “por-firiana” del culto promosso da Elagabalo,saremmo di fronte ad una “teocrazia tota-litaria” meno spiccia e ingenua di quantole fonti storiche lascino trapelare. È diffici-le però stabilire, sulla scia di questa esege-si di Turcan, se una siffatta filosofia fossepalese a Elagabalo, o se invece egli non silimitasse semplicemente a predicare unculto locale del Sole, che la filosofia paga-na neoplatonica seppe poi trasformare in

un impianto teoretico coerente, del tuttoestraneo però alle doti metafisiche del

nostro giovane imperatore.Nonostante quello che scri-ve Lampridio, Elagabalo,nei fatti, non pretese di dif-fondere vastamente il suoculto, che dovette apparireagli occhi dei Romaniquantomeno regionale.

In ogni caso, Elagabalodimostrò arroganza e ottu-sità etica e politica, offen-dendo e profanando alcuniluoghi ritenuti dal popolodi veneranda sacralità. Talefu il caso, ad esempio, deltempio di Vesta, oltraggia-

to da Elagabalo nel 221 perrapire e quindi sposare la vergine vestaleAquilia Severa, dopo aver divorziato daGiulia Paola. La Historia Augusta insiste sul-le offese arrecate alla religio publica e sul-l’incesto perpetrato nei confronti dellavestale: (VI 7) Ignem perpetuum extinguerevoluit. Nec Romanas tantum extinguere voluitreligiones, sed per orbem terrae, unum studens,ut Heliogabalus deus ubique coleretur – “Vol-le che fosse spento il fuoco perpetuo [diVesta]; e volle abolire non solo le cerimo-nie religiose romane, ma anche quelle ditutto il mondo, preoccupandosi di una cosasola, ossia che il dio Heliogabalo fossevenerato ovunque”. In un altro passo mol-to significativo (HA III 4-5), si dice che:“appena entrò a Roma, senza curarsi di

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28 Altheim, 2007: 135-148.

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quanto accadeva nelle province, consacròil culto di Heliogabalo e fece costruire insuo onore un tempio sul colle Palatino neipressi del palazzo imperiale, con l’inten-zione di portarvi ilsimulacro della Gran-de Madre, il fuoco diVesta, il Palladio e gliscudi ancilî, così chenessuno in Romavenerasse alcun dioall’infuori di Helioga-balo. Affermava, inol-tre, che in quel luogodovevano essere tra-sferiti i riti propri degli Ebrei e dei Samari-tani, nonché le cerimonie religiose dei Cri-stiani, affinché il sacerdozio di Heliogaba-lo detenesse i misteri di tutti i culti”.

Elagabalo operava così un forte sincre-tismo religioso che era, in fondo, tipicodell’area semitica, e la sua politica non eraaffatto priva di senso. Egli infatti facevaappello a ragioni ierogamiche: da un Som-mo Pontefice, come lui, e da una SommaVestale, come Aquilia, non poteva chenascere una prole divina. Mediante il con-

giungimento carnale del sacerdote e dellasacerdotessa si sarebbe ripetuto il matri-monio cosmico della terra col cielo, in unaprospettiva universalistica, rispetto ai cul-

ti “etnici” (Ebrei, Samari-tani, Cristiani) che eglivoleva inglobare nelculto solare. Tuttavia lamala sorte continuava anon concedergli unaprogenie divina. Allorapensò a vere e proprienozze sacre fra il Palla-dium, ovvero il simula-

cro ligneo di Pallas Athena,che si credeva fosse stato portato in salvoda Enea in fuga da Troia, e il betilo d’Eme-sa, secondo una logica allucinata magico-religiosa. Chiusi all’interno dei recessi sacridell’Elagabalium, un tempio sacro fattoappositamente costruire sul Palatino (i cuiresti archeologici giacciono forse sotto lachiesa di S. Sebastiano nell’antica vignaBarberini)29, l’aerolito e il palladio, in quan-to sterili fantocci, non ebbero figli. Questateogamia avrebbe dovuto sancire larestaurazione di un ordine cosmico garan-

29 Albanese, 2007: 153-154; Villedieu, 2001: 83-106; Turcan, 1991: 101-121. Diversa è invece l’opi-nione di Coarelli 1996, secondo il quale l’Elagabalium sarebbe da collocarsi presso la porticus Adonaea. Ineffetti, non si trattò probabilmente di una nuova costruzione voluta da Elagabalo per contenere il simu-lacro di Emesa e gli altri oggetti sacri, ma di una nuova dedica al dio Heliogabalo del vecchio tempio diIuppiter Victor sul Palatino. Il templum Iovis Victoris venne infatti voluto originariamente da Quinto FabioMassimo per celebrare la vittoria riportata sui Sanniti a Sentino nel 295 a.C. (Liv. X 29, 14-15; 18-19). Siritiene che anche Alessandro Severo avesse riconsacrato il tempio di Giove Vincitore a Giove Vendica-tore, per placare l’ira del dio dopo gli scempi compiuti da Elagabalo. L’Elagabalium vero e proprio, inve-ce, compare solo su un medaglione bronzeo di Elagabalo del 221 d.C. (Turcan, 1991: 234, fig. 21), e si pre-senta come una struttura molto simile a quella raffigurata sulle monete di Alessandro Severo. Uno sca-vo archeologico a Roma dell’École française mise in luce fra il 1985 e il 1999 le fondamenta e una parte

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del muro perimetrale della terrazza dell’Elagabalium, ma il tutto venne poi coperto. Un indizio del fat-to che le strutture rinvenute sotto l’odierna chiesa di S. Sebastiano fossero effettivamente appartenu-te all’Elagabalium, è dato dal fatto che una iscrizione di IV secolo da Piperno menziona un praepositus Pal-ladio Palatii (CIL X, n. 6441), e la chiesa di S. Sebastiano era precedentemente dedicata a S. Maria in Pal-lara (X sec.). Dunque questa chiesa potrebbe aver conservato per alcuni secoli una parte dell’anticotoponimo pagano, sino alla nuova consacrazione a S. Sebastiano.30 Belloni 1983.

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tito sulla terra dall’imperatore-sacerdote,tuttavia, nella vita quotidiana di Elagabaloerano presenti soltanto lesue caotiche e dissociateossessioni per il sangue eper il sesso. Basti pensareche nel corpus degli edittiimperiali non risulta nes-suna legge emessa duran-te il regno di Elagabalo,né dal senato di Roma, nétanto meno da quel“senatino” per le donne,che avrebbe dovuto occu-parsi solo di frivolezze muliebri, che parefosse stato edificato sul Quirinale. I preto-riani, esasperati, alla fine lo decapitarono etrascinarono il corpo esanime per le vie diRoma. Il suo nome fu eraso dai monumen-ti, specie dell’Urbe, e le statue che loritraevano vennero distrutte e gettate nelTevere, così come le sue “impure” spogliemortali furono annientate e disperse pres-so la Cloaca Maxima.

La testimonianza delle monete

Nonostante l’insistenza delle fonti let-terarie, possiamo certamente affermare,come già ebbe modo di rimarcare il Bello-

ni, che la testimonianza delle monete atte-nua il fanatismo di Elagabalo e il preteso

esclusivismo del suodio nella religionetradizionale roma-na30. Sulle moneteromane i riferimentiad avvenimenti poli-tici, conseguente-mente alla condottadi Elagabalo, sonopressoché nulli, e isoggetti raffiguratisono quelli conven-

zionali, con l’eccezione dei tipi che si rife-riscono al culto del Sole e della pietra diEmesa. Le monete di Elagabalo furonoemesse in gran numero a Roma e ad Antio-chia, e probabilmente anche in qualchealtra zecca provinciale (come Nicomedia),oltre all’abbondante monetazione dellecittà greche e delle colonie latine. In primoluogo, Elagabalo mantenne sulle monete ilsuo nome ufficiale, cioè M. Aurelius Antoni-nus Pius Felix, e mai fu chiamato Elagabalo,forse per l’intervento zelante degli ufficia-li della zecca di Roma.

Mi sembra significativo sottolineare,ancora una volta, come la titolatura di Ela-gabalo ricalchi fedelmente quella di Cara-calla; quindi, anziché apportare una pro-

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fonda innovazione, al contrario, sembrache Elagabalo si fosse uniformato imme-diatamente al suo predecessore, dal qualeegli proclamava di discenderedirettamente. L’assunzione delnome Marco Aurelio Antoninotradisce palesemente la volon-tà della famiglia siriana di tro-vare la propria legittimità aregnare nel casato degli Anto-nini. Ecco perché lo storicogreco Dione Cassio si rifiuta dioffrire dignità imperiale adElagabalo chiamandolo Antoni-nus: lo apostrofa, invece, Pseu-do-Antonino, oppure, conmaggior irriverenza, “l’assiro”o il “Sardanapalo”. Nella sceltadel nome è già insita, pertanto,tutta la contraddittorietà delnostro personaggio, che non può salire alpotere con il proprio – cioè Vario31 AvitoBassiano. L’Historia Augusta attribuisce aGiulia Maesa l’astuzia politica di “inventa-re” il nome di Antonino per Elagabalo, laquale avrebbe così attirato le simpatie deilegionari sul nipote, a scapito di Macrino. Isoldati, infatti, erano ancora molto legatial ricordo di Caracalla, e così venne diffusala falsa notizia che Elagabalo fosse suofiglio. Sembra che a quel tempo chi nonfosse in grado di fregiarsi del nome diAntonino, nemmeno potesse aspirare alladignità imperiale.

Possiamo aggiungere che persino ilritratto di Elagabalo è modellato su quellodi Caracalla, e non è solo una questione di

stile, ma anche di fisiono-mia. Le fonti dicono cheElagabalo era un bel ragaz-zo, alto e avvenente32,mentre i ritratti monetalilo mostrano giovane sì, manon proprio apollineo. Esi-stono sostanzialmente duetipi di ritratto per Elagaba-lo: il primo lo rappresentagiovanissimo e imberbe, ilsecondo, più maturo e conuna corta barbula. Losguardo, un poco torbido eattonito, è comunementerivolto verso l’alto, in con-

formità con la sensibilitàartistica del tempo di Caracalla, rispetto alquale, tuttavia, Elagabalo si discosta per lamancanza della folta barba. I ritrattimonetali si allineano sovente al tipo scul-toreo della testa del Museo Capitolino, daicapelli corti e dai tratti del viso distesi. Labarba appena accennata ricorda quellaportata da Nerone, che può essere stato unmodello anche iconografico a cui ispirarsi.Elagabalo appare così come un giovaneeroe, dove la barbula assume il significatodel raggiungimento dell’efebìa [fig. 3].

Elagabalo indossa normalmente sullemonete la corona d’alloro, simbolo del

31 Elagabalo era infatti il figlio di Varius Marcellus, ma le fonti insistono sulla circostanza che eglifosse stato generato vario semine. Si veda Beltrami, 1998: 50-51.32 Herod. V 3, 7; HA Macr. IX 3.

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potere imperiale romano, ma talvoltacompare sul capo del giovane imperatore,sopra la corona d’alloro stessa, un “corno”,che è stato variamen-te e fantasiosamenteinterpretato. Il Mat-tingly33, seguendo l’o-pinione che fu già delCohen, parla generi-camente di un cornodivino connesso alculto solare, senzaperaltro approfondireil problema. Altre ipo-tesi, tutte riassunte inun lavoro specifico diElke Krengel34, spaziano dall’amuleto sola-re alla coda di gallo e si è pensato persinoad un dito indice. Krengel, invece, sullabase della considerazione che questo “cor-no” compare perlopiù su alcune monetedella zecca di Roma, dove sui rovesci Ela-gabalo è raffigurato in atto di sacrificareun toro, in abito sacerdotale, ritiene chequesto curioso oggetto possa essere la par-te terminale del pene del toro sacrificato,che giace ai piedi dell’imperatore. La stu-diosa, dopo aver esaminato con curanumerosi falli di toro conservati presso l’I-stituto di anatomia veterinaria dell’Uni-versità di Berlino, dei quali peraltro non cirisparmia nemmeno le foto con le relativemisure, è convinta che Elagabalo si aggi-rasse per Roma munito di questo attributo

sulla fronte. Nelle fonti, comunque, non viè traccia di una simile performance di Ela-gabalo, che, credo, non sarebbe certo pas-

sata sotto silenzio.La bizzarra ipotesidella Krengel, èbene dire, non haavuto fra i numi-smatici e gli storicidell’arte anticamolto successo. Sipotrebbe ritenere,più semplicemen-te, che si trattassedi una applique

posta sulla coronad’alloro, che assumerebbe così anche unavalenza sacerdotale. Su monete provincia-li di Tarso in Cilicia, coniate da Caracalla edElagabalo, ad esempio, compare al rovesciola corona del Demiurgo assieme a quelladel Kilikiarchon, che sovrintendeva al koi-non delle metropoli della Cilicia, adorna diben sei teste umane35. Elagabalo, invece,indossa una corona radiata, come sugliantoniniani della zecca di Roma. Nei recessidel palazzo imperiale, egli, per apparirepiù bello, non disdegnava nemmeno di fre-giarsi anche del diadema regale (ovvero unnastro impreziosito da perle), che figureràsulle monete e nella iconografia ufficialeromana solo a partire da Costantino.

Le monete coloniali emesene emesse daCaracalla e da Elagabalo esaltano il culto

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33 Mattingly, 19752: ccxxxv.34 Krengel, 1997: 53-56.35 Gariboldi, 2000: 52.

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solare di Heliogabalo e raffigurano la pie-tra nera all’interno del tempio esastilo [fig.10]. Può apparire quasi incredibile che unculto così particolare,come tanti altri nell’O-riente romano, diven-ne tanto famoso da farvacillare la vecchiareligione romana e dainfiltrare in essa,comunque, un nuovoafflato mistico incen-trato sul primato delSole, che si sarebbe poievoluto sotto altre for-me. Sulle monete di Elagabalo vi sono spes-so simboli astrali, come stelle e crescenti.Ad esempio, sui bronzi di Antiochia conia-ti da Elagabalo e Alessandro Severo, i sim-boli sembrano alternarsi, ma è difficile tro-vare sempre una spiegazione logica pertale fenomeno, e spesso la presenza deisimboli astrali appare semplicemente beneaugurante.

Diverso, invece, il caso delle moneteromane di Elagabalo dove compare il sim-bolo del Sole sui conî nei quali l’imperato-re è raffigurato come sacerdote di Helioga-balo: in questo caso, l’astro luminoso nonpuò che rappresentare il dio di Emesa. Laspiegazione circostanziata della simbolo-gia astrale sulle monete romane richiede-rebbe una lunga trattazione, che non èpossibile affrontare in questa sede. Si ten-ga presente, comunque, che i Severi e gliAntonini tennero sempre in grande consi-derazione gli astrologi, ed anche Elagabalosi uniformò perfettamente a questa cre-denza: così, prima di muovere guerra ai

Marcomanni, egli avrebbe consultato Chal-deos et magos, senza peraltro riuscire a far-si rivelare la formula magica per interrom-

pere l’amicizia di questi barba-ri nei confronti del popoloromano.

La scelta delle tematicheda raffigurare sulle monetedelle colonie e delle libere cit-tà di lingua greca era proba-bilmente demandata alleautorità locali. Per tale motivola politica religiosa di Elagaba-lo emerge più chiaramente

nelle monete di Roma. Elagaba-lo, dunque, non abolì affatto la tradizioneromana di una ricca tematica monetale.Nelle monete coniate a Roma, infatti, in unprimo periodo (218-219), compaiono Roma,la personificazione più tradizionale possi-bile, Mars Victor, Fides exercitus e Fides mili-tum, per favorire l’impressione che l’impe-ratore fosse un comandante di uomini vit-torioso e legato all’esercito; inoltre si cele-brano la lealtà nei confronti dello Stato(Fides publica), la gioia comune (Laetitiapublica), e si saluta il fortunato rientro aRoma dell’imperatore (Fortunae reduci). Nel219 (con titolatura TR P II COS II), compareper la prima volta sulle monete il titolo diPius (IMP ANTONINVS PIVS AVG), che loavvicina pertanto a Caracalla e sottolineala sua devozione religiosa. In concomitan-za con l’arrivo del corteo imperiale a Roma(Adventus Augusti), appare anche la pietradi Emesa, portata da una quadriga, sor-montata da un’aquila, con la leggenda Con-servator Aug. (Coservator è un epiteto nor-malmente conferito a Giove, tuttavia

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accompagna anche la figura di Sol: si trattapertanto di un epiteto piuttosto ambiguo),ma prudentemente viene menzionata sualcuni conî anche laProvidentia Deorum[fig. 5]; ciò basti afugare ogni dubbiosulla non esclusivitàdel culto di Helioga-balo. Salus Antonini eVictoria Antonini Aug.,inducono invece l’i-dea che il nuovoimperatore, la cuisalvezza è assicuratadalla vittoria, è un degno discendente degliAntonini, ed egli non manca nemmeno ditranquillizzare i cittadini di Roma conAnnona Augusta e Liberalitas.

A proposito di elargizioni pubbliche aRoma, Lampridio ricorda con ironia cheElagabalo, durante le cerimonie di liberali-tas imperiale, anziché spartire danaro,faceva scaraventare sul popolo affamatoanimali vivi di grosse dimensioni, comebuoi e cammelli36. La terza ed ultima fasedel regno di Elagabalo (220-222), oltre aBonus Eventus, Fides, Fortuna, Hilaritas, Laeti-tia, Liberalitas, Libertas, Pax e Victoria, cele-bra sulle monete anche Spes, Aeternitas eSecuritas Saeculi, per dare rassicurazioni sulfulgido futuro di Roma; Aeternitas alludeall’eternità dell’impero tramite la simbolo-gia astrale del Sole e della Luna, ma si trat-ta di una propaganda particolarmente caraalla dinastia dei Severi e non è peculiare di

Elagabalo. È probabile, invece, che attra-verso le monete con la personificazionedella Nobilitas, si volesse porre in risalto la

differenza fra gli aristo-cratici lignaggi del pre-sunto nipote di Setti-mio Severo e il vile sta-tus di Macrino.

Dopo il 220 sembrache l’insistenza sul cul-to di Heliogabalo si fecepiù pressante. Le leg-gende monetali cheevidenziano lo strettolegame fra Elagabalo e il

suo dio sono sostanzialmente tre, vale adire Invictus Sacerdos Aug., Sacerd(os) deiSolis Elagabal(i) e Summus Sacerdos Aug. Ela-gabalo è raffigurato, come si è detto sopra,nell’atto di sacrificare su un altare nellaveste di sacerdote e non come pontifex.Anzi si potrebbe dire che summus sacerdossostituisca il titolo usuale di pontifex maxi-mus. Si trattò di una emissione monetaleabbondante in tutti i nominali, certamen-te destinata a lanciare un preciso messag-gio propagandistico. Queste leggendemonetali probabilmente costituiscono unaforma abbreviata del titolo completo sacer-dos amplissimus dei invicti Solis Elagabalus,che si trova attestato su diplomi militari eche venne conferito dal Senato ad Elagaba-lo alla fine del 220. Talvolta la pietra sacrastellata, sormontata dall’aquila, campeggiasulle monete assieme alla titolatura uffi-ciale dell’imperatore [fig. 6]. La fanatica

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36 HA Elag. VIII 3.

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devozione alla pietra di Emesa emergecomunque chiaramente anche neglistraordinari aurei (presumi-bilmente antiocheni) conleggenda Sancto deo SoliElagabal, del 218-219, ante-cedenti la più nota serieromana [fig. 8]. Anchel’aureo dove Elagabalo sipresenta come reggitoredel mondo, in nudità eroi-ca e con il globo terraqueoin mano (Rector Orbis),pare mostrare l’imperato-re come controparte ter-rena del dio solare emese-no, secondo una concezio-ne della regalità cosmicatipicamente orientale [fig. 7]. Sempre lazecca di Antiochia presenta al rovescio diun rarissimo antoniniano una scena dovevediamo Elagabalo mentre sacrifica su unaltare, e dietro, in veduta frontale, la son-tuosa quadriga con il betilo emeseno cir-condato da due parasoli [fig. 9]. La legendaè di nuovo Conservator Aug(usti), ma in que-sta rappresentazione è palese l’accosta-mento in unum dei due soggetti iconografi-ci normalmente separati, sottolineandone,qualora fosse necessario, la stretta relazio-ne concettuale. Può essere significativo aquesto riguardo, credo, che sulle monetedi Roma si fosse insistito maggiormentesolo sulla rappresentazione di Elagabalocome sacerdote, piuttosto che sulla pre-sentazione della pietra, che compare inmodo più disinvolto nelle monete provin-ciali. In ciò è possibile cogliere una diversasfumatura della politica religiosa di Elaga-

balo, più prudente a Roma nella propaga-zione del culto emeseno.

A prescindere da questi raricasi – comunque significativi– potrebbe stupire anche lapresenza della figura dellapersonificazione di Sol con lacorona radiata [fig. 1], secon-do il noto tipo greco-romanoantropomorfizzato, in atto disalutare con la mano destra econ una frusta da auriga cele-ste nella sinistra; segno evi-dente che Elagabalo nonintendeva soppiantare il Solromano, già ampiamente dif-fuso sotto i Severi, con quello

emeseno, ma casomai questedivinità si sovrappongono. Su aurei dedi-cati a Soli Propugnatori, il Sole reca il fulmi-ne anziché la frusta, identificando sincre-tisticamente la stella con Iuppiter, in sinto-nia con le parole sbrigative di Lampridio I,6: fuit autem Heliogabali vel Iovis vel Solissacerdos.

Questa incapacità patologica di attener-si a un criterio politico-religioso in sé e persé coerente, senza riuscire a trovare unequilibrio sufficiente per regnare, portòalla morte prematura del giovane impera-tore. Sua zia Mamaea da tempo tramavaper sostituire al potere Elagabalo col cugi-no Alessiano, noto come Alessandro Seve-ro, il quale, divenuto imperatore nel 222,fece subito rispedire il betilo a Emesa, doveperò il culto persistette, come dimostranole monete dell’usurpatore Uranio Antoni-no. Alessandro ripristinò subito ufficial-mente il culto di Iuppiter Optimus Maximus.

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Fig. 2 - Aureo (6,42g.). Zecca di Roma. D/ IMP ANTONINVS PIVS AVG. Busto drappeggiatoe laureato a d. R/ INVICTVS SACERDOS AVG. Elagabalo, stante a s., sacrifica su un tripode,tiene una patera nella d. e un ramo nella s. Nel campo, a s., stella a sei punte.

RIC 86b

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Egli stesso si presentò ai Romani nellaveste rassicurante e tradizionale del Pon-tifex maximus. Il noto storico delle religio-ni Robert Turcan ha scritto che il regnodi Elagabalo “assomiglia al carnevale diuna rivoluzione mancata”. In effetti, ilculto del Sole tornò presto a Roma conl’imperatore Aureliano, un Sole però dal-le sembianze umane, e non glaciale e ste-rile come la pietra caduta dal cielo, unSole portatore di salvezza e vittorioso

sulle forze del male, che preludeva all’Im-pero cristiano. Costantino stesso avevaadorato prima della conversione il SolInvictus, la cui iconografia passò a quelladel Cristo-Helios trionfatore. Evidente-mente per stabilire a Roma una religionemonoteista era necessario il figlio di unConstantius, una persona ferma e risoluta(constans appunto), e non un Varius, unuomo incerto tanto nelle origini quantonelle idee.

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IMMAGINI DI MONETE DI ELAGABALO

Fig. 1 - Denario (2,96g.). Zecca di Roma. D/ IMP ANTONINVS PIVS AVG. Busto drappeg-giato e corazzato a d., con corona d’alloro. R/ PM TRP IIII COS III PP. Sol avanza verso s.,tiene una frusta nella s., la d. alzata. Nel campo, a s., stella a sei punte.

RIC 40; BMC 242

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Fig. 4 - Denario (3,27 g.). Zecca di Roma. D/ IMP ANTONINVS AVG. Busto drappeggiato ecorazzato a d., con corona d’alloro. R/ IOVI CONSERVATORI. Giove stante a s., tiene unlungo scettro nella s. e un fulmine nella d.; a s., in basso, aquila; a d., stendardo legionario.

RIC 91

Fig. 3 - Denario (3,13g.). Zecca di Roma. D/ IMP ANTONINVS PIVS AVG. Busto drappeg-giato e corazzato a d., con corona d’alloro. R/ INVICTVS SACERDOS AVG. Elagabalo, stantea s., sacrifica su un altare, tiene una patera nella d. e un ramo nella s. In basso, a s., torosacrificale. Nel campo, a s., stella a sei punte.

RIC 88

Fig. 5 - Antoniniano (5, 69 g.). Zecca di Roma. D/ IMP ANTONINVS AVG. Busto drappeg-giato e corazzato a d., con corona radiata. R/ PROVID DEORVM. Providentia stante a s.,regge nella s. una cornucopia e si appoggia ad una colonna, nella mano d. tiene una bac-chetta puntata su un globo.

RIC 129

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Fig. 7 - Aureo (7.02 g.). Zecca di Antiochia. D/ IMP C M AVR ANTONINVS P F AVG. Bustodrappeggiato e corazzato a d., con corona d’alloro. R/ RECTOR - ORBIS. Elagabalo in piedia s., in nudità eroica, regge un globo nella d. e tiene una lancia nella s.

RIC 192; BMC 272

Fig. 6 - Denario (2.07 g.). Zecca di Antiochia. D/ IMP ANTONINVS AVG. Busto drappeg-giato e corazzato a d., con corona d’alloro. R/ COS III PP. Aquila stante sulla pietra di Eme-sa, con le ali aperte e la testa a s., tiene una corona nel becco; sulla pietra, cinque stelle asei punte.

RIC 176; Thirion 336

Fig. 8 - Aureo (6.90 g.). Zecca di Antiochia. D/ IMP CAES M AVR ANTONINVS P F AVG. Bus-to laureato e corazzato a s. R/ SANCT DEO SOLI. Quadriga al passo verso d., circondata daquattro parasoli, porta il betilo con sopra l’aquila. In esergo, ELAGABAL.

RIC 196a; BMC 273

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Fig. 10 - Æ (7, 27g.). Zecca di Emesa (Syria). D/ AYT. K. M. AYP. ANTΩNINOC. Testa laure-ata a d. R/ KOL. EMICΩN. Tempio esastilo di Heliogabalo, con scalinata d’accesso. All’in-terno, betilo, con aquila con alloro nel becco, posto su basamento; dietro, due parasoli.

BMCGC (Galatia, Cappadocia and Syria) 239, 17

Fig. 9 - Antoniniano (5.66 g.). Zecca di Antiochia. D/ IMP ANTONINVS PIVS AVG. Bustodrappeggiato e corazzato a d., con corona radiata. R/ CONSERVATOR AVG. Elagabalostante a s., sacrifica su un altare con patera nella d.; dietro di lui, una quadriga frontaletrasporta il betilo di Emesa, sul quale vi è un’aquila. Ai lati, due parasoli.

RIC manca; BMC manca

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Dante, Babele e noi

di Giuseppe CacopardiSaggista

The Author quotes a passage from Dante Alighieri’s De vulgari eloquentia (I, VII, 6-7) in order to speak about the regularity and unanimity of the different spoken or ges-tural signs of Freemasonry.

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QQuasi tutto il genere umano eradunque convenuto a quell’operadi iniquità: alcuni dirigevano i

lavori, altri li progettavano; gli uni costrui-vano i muri, gli altri li squadravano livel-landoli o li intonacavano con le spatole;c’era chi attendeva a spaccare le pietre, chia trasportarle per mare e per terra; gruppidiversi alle altre diverse mansioni eranoaddetti; quando dal cielo furono colpiti dacosì grande confusione che, mentre tuttiusavano, in quel cantiere, una sola e iden-tica lingua, differenziati in molte lingue,dovettero rinunciare all’impresa e mai piùpoterono ritrovarsi in un’opera comune.

Infatti solo a quelli che facevano uno stes-so lavoro rimase una lingua identica; cioèuna per tutti gli architetti, una per tuttiquelli che trasportavano i massi, una pertutti quelli che li lavoravano; e cosìaccadde per ogni gruppo di addetti. Diconseguenza, quante erano all’opera le dif-ferenti competenze, altrettanti furono gliidiomi in cui si divise il genere umano, equanto più importante era il lavoro che sifaceva, tanto più cominciarono a parlareuna lingua rozza e barbara1.

È Dante Alighieri che discute la “varia-bilità”2 del nascente volgare, ma secondoalcuni studiosi3 allude anche alle liti fra gli

1 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia I, vii, 6-7, Traduzione di Vittorio Coletti, Garzanti Edito-re, 1991, pag. 17.2 Op. cit. pag. xiii.3 Op. cit. pag. 110 n. 4.

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“alteri Babilonii”, i fiorentini delle “Arti” ocorporazioni di mestiere, per motivi politi-co-religiosi (guelfi e ghibellini, bianchi eneri); nel brano, pareche spieghi nei parti-colari come Dio abbiainterrotto la costru-zione della città e del-la torre di Babele (Gn.11,7).

Fin da quell’epoca,come pare, ai murato-ri potevano essereimputate nefandezzee crimini contro l’u-manità, il progetto empio e sacrilego diconquistare il cielo, la perdita dell’unicalingua differenziata in molti idiomi congerghi causa di incomunicabilità e incom-prensione.

Venendo a noi, è innegabile che linguee gerghi creino difficoltà di ogni genere, eche molti si siano impegnati per superarlema, svaniti finora proposte e progetti diuna lingua universale, rimangono quasiuniversali — oltre gli standards industriali— qualche lingua naturale egemone e igerghi tecnico-scientifici condivisi dallecomunità dei matematici, fisici, chimici,logici, informatici.

Un modo di facilitare la comunicazionee comprensione credo sia quello della Mas-soneria con l’uniformità di alcuni “segni”verbali e gestuali di riconoscimento for-male, poiché l’universalità è ritardata dacriteri giuridici e ideologici: fra essi laregolarità stabilita con landmarks stimatinon superabili, quali il GADU e la territo-rialità etc.

Con l’odierna mobilità, i massoni, colgrembiule nel corredo, potrebbero parte-cipare all’estero ai lavori scambiandosi i

segni tradizionali e qual-che parola d’inglesepronunciata alla menopeggio. Ma è utilesapere che i grembiulisono di molti colori efogge, numerosi imodi di “formare” ilpasso, diverse le mar-ce dei tre gradi e leparole o le “grife”manuali etc. Restano

unici l’“ordine” e il segno d’Apprendista,per i quali c’è accordo fra rituali antichi emoderni; forse perché non facilmentemodificabili non furono coinvolti nellevariazioni subite dagli altri segni ritualiquando non c’erano documenti cartaceima Grandi Logge rivali e la rapida diffusio-ne in Europa e nelle Americhe, variazionirimaste tradizionali nelle nuove logge, inparticolare quelle filiate dalle Grandi Log-ge F.&A.M. e A.F.&A.M.

Oggi però in qualche Oriente assistiamoa “personali” variazioni anche dei segniunici: detto che non è facile stare a lungo“all’ordine” e che si potrebbe far seguiresubito dopo il segno del grado e assumereil segno di fedeltà, penso che sia beneabbandonare le variazioni personali e noncreare disarmonia tra i presenti, con le dif-formità gratuite. Per evitare equivoci emalintesi preciso che non è in argomentol’ortodossia e conseguente caccia agli ere-tici: se in Massoneria c’è ortodossia essasarà altrove, sono regole convenzionali

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necessarie per recitare rituali e cerimoniecomprensibili da tutti anche senza linguecomuni; ed è escluso l’integra-lismo che mi pare concettoimproprio di uso improprioin luogo improprio. Nei seco-li scorsi i monaci mendicanti,chiedendo l’ospitalità deiconventi lungo le stradeosservavano la regola che“non si porta la propria rego-la nell’altrui convento”: par-te dalle radici cristiane “checi portano”, di essa potrem-mo profittare specie coi rego-larizzati.

La descrizione di Dante“[…] una lingua identica pertutti gli architetti, una pertutti quelli che trasportavano i massi, unaper tutti quelli che li lavoravano” e così viaper ogni gruppo4, pare riferirsi a noi coidifferenti segni verbali e gestuali da cuitraspaiono le provenienze o le culture qua-lificanti i rituali e le ritualità adottate. Se leprovenienze hanno anche un lato giuridi-co-giurisdizionale che compete al governodell’Ordine (Gran Loggia, Gran Maestro,Consiglio dell’Ordine, Giunta) le loro cultu-re coinvolgono quotidianamente le logge etutti noi che udiamo spesso “promozione”,aumento di luce, raramente esaltazione emolta “camera di mezzo” come equivalen-te a camera di terzo grado. A mio parerepossiamo fare a meno di promozione,espressione profana e generica; di

“aumento di luce” e di “esaltazione” per-ché proprie di due Corpi Rituali indipen-

denti, per motivi che dirò subi-to dopo; e camera di mezzoriservarla alla camera parataa lutto in cui vi sono i Compa-gni d’Arte da elevare Maestri.L’aumento di luce è concessoai Maestri dell’Ordine chehanno scelto di continuarenel RSAA per il contenutodeista e illuminista-intellet-tualista; l’esaltazione è con-cessa ai Maestri dell’Ordineche continuano, con gradiaggiuntivi di perfezionamen-to, la via dell’Arco Reale (ver-sioni “inglese” o del Rito diYork, ispirata al teismo e

all’empirismo) con varie tinte cristiane. Amio parere entrambe le espressioni, insenso letterale fuori luogo, nell’Ordineperdono il tradizionale, intimo, gergalevalore e significato, e non guadagnanodegradate a livello di Apprendista e diCompagno d’Arte.

Oltre che per i suddetti, credo apprez-zabili, motivi, la mia preferenza va alleespressioni di aumento di paga per passag-gio a Compagno d’Arte o per elevazione aMaestro: precise nel valore gergale e nelsignificato tecnico, sono lascito della Mas-soneria operativa, nel XVIII secolo accoltodagli accettati speculativi che insiemefecero la Massoneria moderna ricevuta danoi che la pratichiamo: principalmente

4 Op. cit. pag. 17.

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descrivono il percorso da Apprendista chelavora fuori dal cantiere col rumore delmetallo che martella e scal-pella le pietre da farneconci il quale “passa” nellacamera dei Compagnid’Arte; questi li levighe-ranno e porranno in opera.Sul fondo c’è la scala curvadi 3-5-7 gradini con cui iCompagni d’Arte merite-voli dell’aumento di pagaandranno nella camera dimezzo per essere elevatiMaestri.

Un percorso raffiguratodalla squadra da disegnoposta in piano col lato lun-go verticale: l’ipotenusa, la salita, evoca losforzo fisico che genera l’impegno psicofi-sico necessario per il lavoro intellettuale ospirituale, nesso strutturale — da cementoarmato — fra operatività e speculazione.

Un inciso esoterico. Ciascuno puòduplicarsi come icona mentale gli stru-menti affidatigli dal MV all’iniziazione, alpassaggio, all’elevazione; la pietra grezza eil concio rifinito, le colonnine delle luci,etc. Come gli strumenti custoditi in loggiaalla sospensione del lavoro, i duplicati van-no custoditi nel tempio interiore come inun teatro di memoria, e con essi, per “stru-mentare la volontà e i propositi, di tanto intanto agire col senso morale delle finalità acui sono applicabili. Ossia al lavoro conmartello e scalpello, e col regolo di 24 in.Rivedere tempo e quantità (quantità ditempo impiegato in rapporto alla qualitàdel compito); verifica della perpendicolare

dei muri col filo a piombo (rettitudine) e“dell’acqua” delle scale e dei pavimenti

con la livella (linearità dicomportamento); con-gruità degli angoli con lasquadra da muratore(moralità dei costumi);progetti e piani esecuti-vi con squadra da dise-gno, regolo, compasso,matita, tavola di traccia-mento e sisaro (se l’edi-ficio è stato lavorato adamussim).

Aggiornandosi congli strumenti affidati,che dovrebbero tradursiin prese di coscienza,

intuizioni, emozioni, esperienze moralicoll’intensità di un’esperienza “drammati-ca” personale vissuta, ciascuno potrebbericordare, ramentare, evocare volti fami-gliari, promesse fatte, impegni onorati,“insegnamenti” sulla propria pietra anco-ra fecondi, quelle che poteva o dovevafare; trovare conforto, aiuto, stimoli neimomenti cruciali della propria vita e, coninventari e bilanci, valutare lo “stato del-l’Arte”, se si è impegnato o no quando eratempo di operare e non smettere. Se, dice-va Marco Aurelio, si è compiuto il propriolavoro di uomo.

Questo comportamento sarebbe inlinea con una ricerca su un campione stati-stico di circa duemila europei laureati dadieci anni: il risultato era che chi non ave-va aggiornato le conoscenze specifiche eraregredito a quelle possedute circa cinqueanni prima della laurea.

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5 Etienne Wenger, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006. L’originale, pubblicato per Cambrid-ge University Press, 1998, è intitolato Communities of Practice, Learning, Meaning and Identity.

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È chiaro che non penso, non auspico,non sto dicendo che debba regnare l’uni-formità negata in linea di principio dal-l’autonomia delle log-ge, e di fatto dalla plu-ralità dei rituali libe-ramente adottabili;dico che durante ilavori di ciascuna log-gia i presenti – in pièdi lista o visitatori –dovrebbero adeguarsialle istruzioni delrituale scelto in quellatornata e, nei limitidel possibile, rispetta-re usi e costumi di quellaloggia. Ciò, se presuppone molta informa-zione da trasformare in conoscenza, è perònecessario per lavorare insieme in armo-nia di propositi, proposte, progetti e senti-menti arricchiti cogli insegnamenti ritualied esoterici, e crescere insieme vecchi egiovani puntando al cielo senza torre diBabele. Sarebbero facili le visite fra logge,la reciproca conoscenza e comprensione

negli Orienti numerosi genererebbe fidu-cia e stima, la fraternità formale vivrebbedi amicizia fraterna, con beneficio dell’O-

riente e dell’Ordine.Forse le acquisizionipersonali, nel sensodella psicologia, iprocessi di sviluppodi nuovi comporta-menti nell’individuomaturati coll’esoteri-smo in catena d’unio-ne valgono se ispira-no progetti con-gruenti col loro avve-rarsi per collabora-

zione di tutti i Fratelli.Perché credo che il primo scopo della Mas-soneria sia di unire gli uomini col lavoro,nel lavoro, per il lavoro in comunicanti“comunità di pratica” (titolo di un libroche ho soprannominato “Manuale teorico-pratico di Massoneria laica)5 in cantieridove asceti e mistici non potrebbero svol-gere alcuna mansione: forse Hiram Abifsembrò uno di loro…

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L’Arte del Silenzio: mescolando zolle e nuvole...

di Giovanni GrecoUniversità di Bologna

Thanks to the Art and Practice of Silence, we are able to take up someone’s way of think-ing after having filtered it through our own intelligence and sensitiveness. The presentarticle deals with the concept of Silence in Freemasonry and also in other disciplines, ashistory and philosophy or literature or music, from Confucio to Gibram and to Gandhi.

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DDiscutere o scrivere del silenzio èparadossale dal momento cheper farlo non possiamo usare

silenzi. Ad ogni buon conto quantomeno sarò

breve e per di più farò delle lunghe pauseche, di solito, sono la parte migliore deimiei discorsi. D’altro canto le virgole in undiscorso scritto, sono lì pronte a suggerireall’oratore di introdurre dei micro-silenzial momento opportuno per avvalorare icontenuti della comunicazione. Del restoforse che non nasciamo senza saper parla-re ed, a volte, non muoriamo senza aversaputo dire?

In effetti il silenzio che, dopo la parola,è il secondo potere del mondo, è un beneche in certe occasioni si dona e che rara-mente si riceve.

Non casualmente Thomas Merton ebbea sostenere che le parole stanno fra il silenzioe il silenzio: tra il silenzio delle cose e il silenziodel nostro personale essere, tra il silenzio delmondo e il silenzio di Dio.

I greci avevano due parole per definirel’atto di ascoltare: “udire”, “Aio”, che vole-va dire “sentire coll’orecchio”, e “Otakou-steo”, da cui il nostro “ascoltare”, chesignificava invece “cercare di scoprire,porre attenzione alle parole”.

Dal latino silentium, il silenzio è un ter-reno umile e fertile, il silenzio è l’inizio e lafine di un discorso, con le parole che siincastonano nel silenzio. Il silenzioso ècolui che non parla, che sta volentieri insilenzio e che ama il silenzio, con motiva-zioni emotive, sentimentali, filosofiche,esistenziali, religiose. Nelle cose di rilievo

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che facciamo, abbiamo spesso bisogno del-la massima concentrazione, liberando lanostra attenzione da tutti irumori di fondo interni edesterni, facendo cioè silen-zio. Silenzio inteso comecosciente stato del proprioessere, un voler esseresilente, una scelta pondera-ta, una situazione oggettivapromossa dalla propria sog-gettività.

La funzione del silenziofavorisce certamente laconoscenza per via nonrazionale ma intuitiva eperciò merita di essere pra-ticata con attenzione. Quindi silenzio inquanto meditazione, introspezione, rifles-sione, revisione spirituale, contemplazio-ne, concentrazione, reviviscenza.

Il silenzio è una ragione di stile e dipuntuale insegnamento ed è lo strumentoattraverso il quale assorbire il contributodi pensiero degli altri filtrandolo attraver-so la propria intelligenza e sensibilità,impadronendosi degli elementi utili allapropria crescita interiore. L’arte del silen-zio si sviluppa gradualmente, via via con-sentendo di apprezzare ulteriori sfumatu-re, quasi come una sorta di raffinato ascol-to musicale. In una situazione di silenzio,l’apparente vuoto diventa uno spazio pie-no in cui la nostra consapevolezza è aimassimi livelli e siamo presenti a noi stes-si e a quello che facciamo. Anche attraver-so l’esercizio del silenzio possiamo scopri-re la nostra vera identità profonda. Altrevolte un certo silenzio è determinato dal

pudore o dalla timidezza e suona come unnon volersi impegnare con gli altri. Natu-

ralmente a volte si gioca colbramato silenzio delle per-sone che ci vivono accantooppure in certi casi è pro-prio l’assenza di un familia-re ad essere desiderata:“amo il tuo posto vuotoaccanto al mio”.

A parte questo aspettovi sono persone di cui sipuò dire: “il silenzio diquell’uomo è magnifico daascoltare”, dimostrandoquella persona autorevo-lezza e precisi significati col

suo silenzio. Infatti da un uomo di grandecaratura, come sosteneva Seneca, c’è qual-cosa da imparare anche quando tace. Inrealtà se stessimo in silenzio, se facessimopiù silenzio forse potremmo udire e capiredi più. Ma per imparare davvero ascoltan-do, bisogna innanzitutto saper ascoltarenoi stessi: se una parte di noi, con la suastoria di conflitti e di emozioni, vienetagliata fuori, allora non potrà mai vibrareempaticamente sino in fondo con un altro.

Gli amici veri sanno capire, sannoaspettare e sanno ascoltare anche il tuosilenzio.

Per alcuni invece il silenzio ha, in certicasi, una valenza non positiva, com’era peresempio, per Dante, per il quale il silenzioaveva un’accezione prevalentementenegativa quasi come morte e mancanza dicalore. Si pensi anche al conte zio, di man-zoniana memoria, al suo parlare ambiguoe al suo “tacer significativo” che tendeva a

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coprire la vanità di un presunto potere e lapura scempiaggine. In effetti il silenzio,essendo non solo assenzadi rumore ma anche diparole, allorquando nonè una libera scelta,quando viene ordinatoda qualcuno, quando èuna punizione, quandoè un’imposizione, alloradiventa una privazione,una menomazione. Inquesto senso per mil-lenni le donne sono sta-te ai margini della società e la loro massi-ma virtù era quella di saper far silenzio. Civorranno secoli per uscire dal silenzio,peraltro cominciando a raccontarsi, dopoche si erano sempre viste con occhimaschili. Al riguardo desidero almenoricordare l’esemplare storia raccontata daDacia Maraini dedicata alla Lunga vita diMarianna Ucrìa, siciliana del Settecento,sordomuta per un terribile trauma infanti-le, che impara a leggere e scrivere e attra-verso la scrittura riesce a rompere il pro-prio silenzio, non solo quello fisico, maquello forse ancor più duro a cui le donneper secoli sono state assoggettate, il silen-zio dei sentimenti, il silenzio dell’anima.

In talune occasioni si determinano del-le situazioni nelle quali straordinario è ilsilenzio che ne seguì. Nessuno pronunciaparole vane. Il silenzio, applauso delleemozioni durature e vere, non è statointerrotto da nessuno di noi, ognunorispettando nell’altro i pensieri che sentein se stesso.

Greci e Romani personificavano il silen-zio con il dio Arpocrate e consideravano la

legge del silenzioall’origine di ogniiniziazione, tant’èche Apuleio nell’Asi-no d’oro sostenevache nessun pericolopotrebbe forzarmi maia rivelare al profanoche cosa è stato confi-dato a me sotto l’impe-gno della segretezza.Non dimentichiamo,

inoltre, il silenzio del cospiratore, di coluiche opera segretamente per precisi scopipolitico-religiosi; non casualmente in Sici-lia vi era una vendita carbonara detta “delsilenzio”.

Ne il Simposio di Platone, proprio nelleprime battute, l’inventore dell’arte dialet-tica, Socrate, proprio lui, prima di ognigran tenzone retorica rimaneva a lungo dasolo, in silenzio, come quando dovendodiscettare sull’amore, rimase per qualchetempo davanti alla casa del poeta Agatone,per l’assoluto bisogno di concentrazione edi riflessione, alla stessa stregua dei gim-nosofisti e dei santoni indiani. AddiritturaPlutarco sosteneva che Socrate non fossetroppo dissimile da un cantore epico cheaveva bisogno di ascoltare la sua musa, pri-ma di dar corso al suo canto.

Uno sconosciuto autore siciliano ebbecosì a classificare le varie modalità delsilenzio: Il silenzio in cui ascolti Bach o leggiun libro di poesie. Il silenzio della concentrazio-ne o addirittura della morte. Il silenzio dellasolitudine, il silenzio della riflessione. Il silenzio

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perché non si trova nulla da dire: si tace di dolo-re, di rabbia, di tristezza, di noia, di malinconia.Il silenzio dell’amore, ilsilenzio di due innammo-rati che si abbracciano. Ilsilenzio della sopporta-zione, del compatimento.Può essere il momento incui un uomo dà il megliodi sé o, al contrario, rap-presenta una mancanzadi energia. Può esistere ilsilenzio di chi si trovadavanti alla tomba di Gandhi, ma anche ilsilenzio di chi striscia nel buio per uccidere.

Proprio per Gandhi l’uomo manifesta sestesso sia col silenzio che con la parola el’osservanza del silenzio è segno autenticodi consapevolezza dei propri limiti, dila-tando il silenzio lo spazio della nostra vita.Naturalmente, secondo Gandhi, il silenzioispirato dalla paura non è il silenzio al qua-le stiamo facendo riferimento. Si puòattuare il silenzio perché impauriti da unacerta situazione, paura degli altri, paura didire delle stupidaggini, paura di provocaredei danni, paura dei propri limiti sino alsilenzio come rifiuto del rapporto col mon-do esterno.

Per la chiesa di Roma la predicazionenel medioevo e nell’età moderna era lostrumento per diffondere le forme di pietàe di devozione da praticare. D’altrondeGesù prima di radunare gli apostoli e dicominciare a predicare il verbo di Dio, tra-scorse quaranta giorni di solitudine e disilenzio nel deserto. E i sermoni, per esem-pio, del domenicano Giordano da Pisa e delfrancescano Bernardino da Siena e le

“Regole”, come quella di san Bernardinoda Norcia, che a partire dall’817 veniva

estesa a quasi tutti i mona-steri dell’impero carolin-gio, avevano anche lo sco-po di una più intensa inte-riorità attraverso la pre-ghiera e il silenzio. Ilsilenzio fa parte di tutte leregole monastiche, per-mettendo all’individuo dicostruire o ricostruire lasua interiorità lavorando

nella quiete del tempio. In particolare nelmilletrecento non si poteva prescinderedalla triade domenicana del Cavalca, delPassavanti e di san Bartolomeo da san Con-cordio, autore nel 1338 di una fortunatissi-ma Summa casuum coscientiae nella quale sisosteneva che lo parlar brieve è meglio che loparlar lungo, perché lo parlar brieve fa deside-rio, mentre lo parlar lungo fa rincrescimento.Per san Bonaventura il silenzio era l’atteg-giamento dell’uomo di fronte alla ineffabi-lità dell’essere supremo. Ricordate pure neIl nome della rosa allorquando il vegliardofrate Jorge da Burgos, apostrofa cosìGuglielmo da Buskerville: Ho udito personeche ridevano su cose risibili e ho ricordato unodei principi della nostra regola: il salmistasostiene che bisogna astenersi persino dai di-scorsi buoni per il voto del silenzio.

Il silenzio inoltre è fondamentale ancheall’interno del progetto religioso di MadreTeresa di Calcutta: Noi vogliamo incontrareDio, egli non può essere trovato nel rumore enella confusione. Dio è amico del silenzio. Guar-da come la natura, alberi, fiori, erba crescono insilenzio, guarda le stelle, la luna e il sole, come

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loro si muovono in silenzio… noi abbiamo biso-gno di silenzio per essere capaci di toccare ani-me. E parimenti, fra lepiù belle, le preghiereanche ebraiche, chevengono dette quasiin silenzio e appenaimpercettibilmentepronunciate.

Nel 1998 a Torinodinanzi alla Sacra Sin-done, Giovanni PaoloII sottolineò il bisognodei nostri tempi di riscoprire la feconditàdel silenzio, per superare la dissipazionedei suoni, delle immagini e delle parole.

Nel pensiero buddhista il silenzio rap-presenta la via maestra per immergersi nelnirvana, l’atteggiamento dell’essere difronte alla trascendenza. Il silenzio e lacontemplazione alimentano l’aperturamentale e l’attenzione, così come la capa-cità di dire senza parlare. Nel celebre testodi Sun Tzu, L’arte della guerra, si racconta diun sapiente in visita ad un monastero. Loscopo della visita è quello di approfondirelo Zen, ma il visitatore non può fare ameno di arringare il maestro sulla teoria esulla dottrina buddhista. Il maestro ascol-ta educatamente e versa il tè. Giacché ilsuo ospite continua e continua, versa il tèfinché la tazza non è colma e il liquidocomincia a tracimare sul tavolo. Senzabisogno di parole, sta spiegando che lamente dell’ospite è troppo piena perapprendere elementi nuovi.

Nel bushido, il codice d’onore degliantichi samurai giapponesi, si legge: Nelsilenzio, estranei a tutti, noi dobbiamo lavorare

sino alla fine, dobbiamo nascondere sotto lacenere le ultime faville, perché le future gene-

razioni trovino di che riaccen-dere le braci.

Sotto l’aspetto simboli-co, il silenzio, è la via perapprofondire un rapportocon la parte più profondadella nostra interiorità.Nella interpretazione sim-bolica di Jung, il silenzio èun trasformatore di ener-

gia che ci permette di allar-gare i limiti ordinari della consapevolezzache abbiamo della realtà che viviamo, riap-propriandoci di orizzonti più vasti. InfattiPitagora, prima di aprire la sua scuola aCrotone, trascorse numerosi anni in asso-luto silenzio, e quando divenne capo dellasua scuola, lo impose ai suoi discepoli.

Per un massone il silenzio non si limitaalla semplice astensione della parola per-ché è inteso come un complesso processodi purificazione della mente attraversoun’esperienza implosiva. Indubbiamente illinguaggio del silenzio è un linguaggio periniziati e piuttosto che essere un obbligo, èuna proposizione razionale attraverso laquale il nostro corpo si dispone a prepara-re lo spirito all’ascolto e alla riflessione. Ilneofita comprende che restare in silenzionon significa solo mantenere un segreto,ma imparare ad ascoltare il proprio io equello degli altri. Il silenzio massoniconaturalmente non è da confondere colmutismo, perché il primo è il preludio allaparola e racchiude le cose, il secondo leocculta, l’uno segna un progresso, l’altro

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un regresso, il silenzio è preparazioneall’accettazione di doni, il mutismo è rifiu-to di doni e di ogni altra cosa. Un massoneparla al momentoappropriato e, control-lando le parole, espri-me il suo pensiero inmodo essenziale. Certoè che l’iniziato potràimparare molto anchequando si siederà sottoun albero ad ascoltareil proprio silenzio, chein realtà ha un suono,una musica remota chea volte si può persino riuscire a percepire.

Come sappiamo bene in Massoneria gliapprendisti non hanno facoltà di parola,cominciando così con una rinuncia il cam-mino iniziatico, immersi nel silenzio chefavorisce l’approfondimento dei pensieripropri e altrui. Tutto ciò nella scia dell’an-tica tradizione di Pitagora, ad una parte deicui allievi era persino vietato far domande.

Importante il silenzio riflessivo dellacatena d’unione con il passaggio appenasussurrato delle parole semestrali. Ilsilenzio massonico è meditazione, è intro-spezione, è incubazione, è ascolto, è auto-controllo, è uno strumento verso unamaggiore maturità, è il rispetto di antichetradizioni.

Credo che un preciso dovere massonicosia quello di ammobiliare al meglio il pro-prio silenzio.

Il silenzio è pure una formidabile com-ponente di taluni passaggi amorosi. Noncasualmente in amore certi silenzi valgonopiù di un discorso.

Persino l’invidia fa brillare il peso di unsilenzio, come sostiene il grande KahlilGibran, che ribadisce che il silenzio dell’in-

vidioso fa molto rumore. Masoprattutto Gibran sostieneche il silenzio illumina l’ani-ma, sussurra ai cuori e li uni-sce, ci porta lontano da noistessi e ci avvicina al cielo.

Il silenzio si accompagnaanche inevitabilmente alconcetto di morte. Basti pen-sare al muto raccoglimentonel ricordare un defunto

oppure il “Silenzio” d’ordi-nanza suonato in talune occasioni militarie civili. Ecco quindi, come sostiene EnricoLonardo, il silenzio massonico come doverosa,utile, necessaria preparazione a quell’ultimomomento della nostra vita terrena, e cioè lamorte, che è fine e principio di un ulteriorecammino iniziatico e ci vedrà nuovamenteindossare simbolicamente il grembiule dell’ap-prendista. Si rammenti anche il cupo eirreale silenzio dopo una battaglia, unsilenzio che è sapido di morte, di dolore, diincredulità per l’orrore a cui si assiste.

Dai Dialoghi di Confucio, una acutariflessione sull’opportunità di parlare o difar silenzio: Ci sono tre errori che non si devo-no commettere in presenza di un uomo di qua-lità: parlare senza essere stati invitati, chesignifica precipitazione; non parlare quando siè invitati, che significa simulazione; parlaresenza osservare l’espressione del viso, che signi-fica cecità.

Persino il suono che diviene musica, hacome sfondo il silenzio: ascolto note del mioe del tuo silenzio, forse è musica (Haiku).

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Il silenzio quindi non è una sempliceastensione dalla parola, ma presiede unprocesso di purificazione, è ascolto attivo,è la lenta costruzione di un ponte verso l’e-sterno delle nostre più intime valutazioni.

Il silenzio è parteintegrante del mondodei suoni costituendodue facce della stessamedaglia. Non di radotaluni compositorihanno cercato di darvoce al silenzio, comenel caso famoso del“Coro a bocca chiusa”della Madama Butterflydi Giacomo Puccini o alcuni pezzi di musi-ca da camera di Mozart. Non dimentichia-mo, fra gli altri, Cantare in silenzio di Salva-tore Sciarrino e Le pause del silenzio di GianFrancesco Malipiero del 1917, e sinanco lacanzone di Simon & Garfunkel The sound ofsilence, canzone scritta subito dopo l’assas-sinio di John Kennedy nel 1963. Inoltre ilFr. Daniele Tonini, artista e musicologo,ama ricordare come, sinanco nella traspo-sizione cinematografica del Flauto magico,la vigile, partecipata, silente attenzionerappresenti una fase ben definita del per-corso massonico: Forse anche con il sensoprofetico e utopistico che ci riporta alle inqua-drature iniziali del Flauto magico diretto peril cinema da Ingmar Bergman, dove l’umani-tà/pubblico nella sua diversità di razze, linguee religioni, trova piena espressione simbolicanel viso di una bambina che durante la sinfonia

iniziale, muta come un apprendista, si preparaquasi come in un gabinetto di riflessione adaffrontare una esperienza iniziatica.

Per quanto riguarda le prove pittorichedesidero almeno ricordare il pittore pie-

montese FeliceCasorati, che hasaputo sapiente-mente dipingere ilsilenzio attraversouna pittura dotatadi grande conci-sione, con figureimmote e solenni,all’interno di

gusto e rigore geo-metrici. Fra i dipinti, come dimenticare Ilgrido di Munch, con un urlo disperato masenza rumore, un urlo così profondo eintenso da essere trattenuto più che libe-rato.

Infiniti, infine, gli aforismi sul silenzio,come ricorda lo stesso Max Picard nel suoIl mondo del silenzio, che vanno da sia purautorevoli estremizzazioni: solo il silenzio ègrande (Alfred de Vigny); sino alla serenasaggezza di Paul Claudel: È nel silenzio che cisi capisce meglio.

E concludo con gli attualissimi versi delpoeta Arcangeli: Siamo nati nel tempo/ cheancora si poteva/ ascoltare il silenzio/ Ora fraringhiosi motori/ guidati da omicidi/ o da sevi-ziatori,/ non è il nostro luogo,/ non ci ricono-sciamo;/ e, fra pareti fragili, viviamo/ una vitaviolata.

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Siamo figli delle stelle

di Bent Parodi di BelsitoSaggista

Mythology often predicted scientific truths which have been verified by experimentsonly in recent times. We are sons of stars, as Orphic initiates and many other asserted,because we are the final and mature fruit of infinite astral sacrifices. Supernovae,ancient astral giants, after having burned all their helium and hydrogen, exhale heavymaterial substances, as iron and carbon, which are the most important elements for life.

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IIl tema che mi accingo a trattare èper tutti, io credo, un argomentomolto stimolante, ancora di più se

immaginiamo di essere ospiti di una catte-drale di tardo stile gotico. Pensatevi alloraintenti ad ammirarne il magnifico rosone:sappiate che esso è simbolo di Massoneriaoperativa. I nostri remoti progenitori rea-lizzarono, come ben sapete, sia le catte-drali gotiche che quelle romaniche. Visono dodici feritoie che rappresentano deipetali: il numero dodici, vi è a tutti chiaro,è un numero mistico, basti pensare ai do-dici discepoli di Gesù, alle dodici divinitàdell’Olimpo e così via. È una riproduzionemagica del cosmo, l’Universo in miniaturasormontato da una struttura triangolare.

Questo lega un passato ormai remoto alpresente e ci àncora ad un probabilefuturo sostenibile.

Veniamo al tema delle stelle. È noto atutti voi che i templi massonici hanno iltetto colorato di azzurro e trapuntato distelle, come a significare che il tempio èincompiuto e che vi si lavora sotto le stel-le. Ma l’idea non è esclusiva della Masso-neria, è un’idea ben più antica.

Consideriamo i templi greci: il témenos,e prendiamo ad esempio un tempio insplendida salute architettonica com’èquello di Segesta nel trapanese, di fronte alquale molti turisti si sono chiesti: Ma, comemai è in così buone condizioni e non c’è tracciaalcuna del tetto?

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Ma perché non c’è mai stato, il tetto,come non c’era il tetto nei templi egiziani,dove si celebravano iriti sotto i beneficiraggi del sole. Ed èbene ricordarlo, lanostra è una iniziazio-ne solare, come amia-mo dire nei nostrirituali, il Sole è unastella e neppure parti-colarmente significa-tiva, una stella secon-daria, eccentrica nellanostra galassia, comece ne sono migliaia dimiliardi nell’universo e tutte in comunenascondono le radici della vita.

Vedete, oggi possiamo dirlo, i miti han-no intuito mirabilmente ciò che è stato poiconfermato dalla scienza sperimentale,come dall’astrofisica di cui fra poco vi par-lerò, ma, per ora, continuiamo sul tema piùgenerale delle stelle.

Vorrei anzitutto ricordare il celebreepitimbio, o epigrafe funeraria, del grandepensatore Immanuel Kant, che ha lasciatoscritto sul suo sepolcro: Due cose non cessa-no mai di stupirmi: il cielo stellato che è sopradi me e la coscienza morale che è dentro di me.A questo tipo di anelito hanno teso uominisaggi di tutti i tempi e di tutte le età.

I miti ci raccontano di un tempo senzatempo, il tempo anicronico del mitoappunto, in cui terra e cielo erano salda-mente congiunti in una sorta di amorosoabbraccio. Solo dopo avvenne la fatalescissura.

Platone parlò di tys syntichìa, cioè di unqualche accidente non meglio definibile.

Un altro filosofo, Ploti-no, padre del neoplatoni-smo, parlerà di tolma, ungesto di temerarietà, diaudacia da parte dell’uo-mo che ha causato que-sta separazione. È un fat-to che da quel momentol’uomo ha cercato dispe-ratamente di ricongiun-gere, di riaccostare il pia-no terrestre a quelloceleste, e lo ha fatto tra-

mite le montagne, costi-tuite di solida e durevole pietra; ricordia-moci che la pietra è un simbolo e non soloper il massone.

Il mito greco del diluvio universale ciracconta di Deucalione figlio di Epimeteo,germano di Prometeo e Pirra, figliola delladonna di tutti i guai, Pandora, che sfuggo-no a morte sicura grazie ad un’arca che siarenerà sulle cime del monte Parnaso,quello che più tardi sarebbe diventato ilmonte simbolico delle muse, e afflitti esconsolati, non sapendo più che cosa fare,si rivolgono alla madre Terra, identificataqui come altrove da una grotta, che rap-presenta simbolicamente il regressus ad ute-rum, la condizione di vita placentare. I dueallora sconsolati interrogano l’oracolo lacui risposta, andate avanti senza voltarvi, èun tema ricorrente, come nel mito di Sodo-ma e Gomorra, dove la moglie di Lot fu tra-sformata in una statua di sale, o nel mitodella discesa di Orfeo agli inferi per ripor-tare in superficie Euridice. Imprese votate

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al fallimento a causa della debolezza accu-sata nell’atto di volgersi indietro, vuoi perconstatare gli effettidell’opera, vuoi perscorgere l’amata. ADeucalione e Pirrainvece il rito va abuon fine. Ma qual èil rito? È ancora l’o-racolo a scandirlo:Procedete senza vol-tarvi e scagliate allespalle le ossa di vostramadre. Al dubbio suquali possano esserele ossa la risposta appare scontata: I sassi, ei due, procedendo, li scagliano alle propriespalle, generando, quelli di Deucalione,uomini della nuova generazione, quelli diPirra, donne della nuova generazione.Come ben vedete la “pietra” costituisce lacentralità di un mito ovunque presente.

Parvati, consorte di Shiva, uno degliaspetti della Trimurti, che immedesima ilruolo del “dissolutore”, ma il cui nomeeufemisticamente significa “il benefico”,Parvati significa semplicemente Dea Monta-gna, e questo perché tutte le montagnenascondono, e potrei dire rivelano, dei cul-ti al femminile, intendendo per femminilela potenza generatrice dell’essere, quelloche i greci chiamavano la physis.

E là dove le montagne non sono presen-ti, dei rilievi artificiali le sostituiscono sim-bolicamente, come per esempio accade perle piramidi in Egitto.

Bene, ed è giusto saperlo, molti ritengo-no che le piramidi siano immediatamente

collegate ai grandi culti solari famosi inEgitto. Non è propriamente così. Sino alla

fine della terza dina-stia faraonica, il reera semplicementefratello del sole, poidiventerà figlio delsole, impersonandoOrus incarnato interra. Ma prima l’i-deologia prevalente,ancora nei famositesti delle piramidi,è l’ideologia stellare,tant’è che le famose

piramidi di Sakkara sono orientate versol’Alfa Draconis, la stella che costituiva ilcentro del sistema di quelle stelle che gliegizi chiamavano circumpolari e la stessapiramide di Cheope era orientata verso lestelle circumpolari.

Le piramidi in egiziano si chiamavanoasket pet, cioè scala rituale, la scala quindiche doveva consentire al defunto faraonedi salire e di raggiungere queste stelle pertrasformarsi egli stesso in una stella.

In molte culture del mondo antico si èpensato che l’anima umana fosse costitui-ta da finissima essenza stellare. Xwar™nah,luce di gloria. Le frawashi che sono polvere distelle e corrispondono al melammu accadicodi Babilonia, all’augo eidés neoplatonico, ilcorpo di gloria e così via una serie di figureconsimili.

Quando parliamo di stelle dobbiamoricordarci che il termine che ha dato vita aquesto nome, di matrice indoeuropea, haun significato ben preciso, ster – sper. Per

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esempio pochi sanno che c’è un’affinitàlinguistica precisa tra stelle e sperma, per-ché l’idea degli antichi èche le stelle avesseroinseminato il mondocreando la vita. Questofaceva parte centrale diun grande mito che lascienza moderna haassolutamente confer-mato. Mito che noiritroviamo, per esem-pio, in terra calabrese,mi riferisco alle cosid-dette laminette orfiche che erano una sor-ta di passaporto per l’aldilà. Come il BardoThödol, il libro dello stato intermedio delTibet, il libro dei morti dell’antico Egitto, illibro dei morti dei Maya con una serie diraccomandazioni per l’anima del defuntoda osservare scrupolosamente una voltadiscesi nell’Ade.

E pensiamo alla laminetta di Petelia delIV° secolo a.C., dove si dice espressamente:

Quando ti troverai laggiù, a sinistradelle case dell’Ade, troverai una sor-gente, ed attorno ad essa un cipressobianco, è la sorgente del Lete, guardatida quella fonte, non ti accostare, vaiinvece a destra [allusione alla famosa Ypitagorica], troverai anche lì una sor-gente con un cipresso, una sorgente dacui sgorga la fresca acqua di Mnemòsi-ne, cioè la memoria, presentati aicustodi e dì loro: Io sono figlio di Terra e diCielo stellato.

Cioè, l’idea che l’uomo stesso sia il frut-

to di una ierogamia cosmica fra la terra e ilcielo. E ritroviamo in Egitto, tra Geb e Nut,

la vacca celeste tutta tra-puntata di stelle, temache poi ricorre in altrelaminette come quelledi Turi dove è detto:“capretto caddi nel lat-te”. Dove il capretto èun’epifania animale diDioniso, il latte è unsimbolo di candore e dipurezza. Vi è dunquequesta idea che l’uomo

sia figlio delle stelle, e noi abbiamo conti-nuato, soprattutto negli ultimi decenni acoltivare il mito della vita aliena venutadall’alto. Pensiamo per esempio al grandeimpatto che hanno avuto certi racconticome la celebre trasmissione radiofonicadi Orson Welles che seminò panico in mez-za America. Gli americani erano convintiche i marziani fossero atterrati sulla terra.Ci credettero sul serio. Pensiamo dopo allafortuna di certe saghe come Star Wars, oall’impatto che hanno sui ragazzini tanticartoons di matrice spaziale come Mazingadai pugni d’acciaio, a cui si era rivolto inmodo commovente il piccolo AlfredinoRampi nel tragico pozzo artesiano di Ver-micino. Ma anche Goldrake e tanti altri per-sonaggi. Tutto questo ci rivela, come anchecerte insistenze su temi ufologici, una sor-ta di acuta se pur oscura nostalgia versol’alto, l’idea che la vita venga dall’alto. Cosìè, ci dice la scienza.

Noi dunque siamo l’ultimo frutto di unsacrificio, del sacrificio dei giganti, lo dico-

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no i miti. Chi sono questi giganti? In realtàsi chiamano “supernove”. Le supernovesono delle stelle di antica generazione, lequali nella fase finaledella loro combu-stione, dopo avertotalmente esauritotutte le loro riservedi idrogeno e di elio,cominciano a libera-re i materiali pesanticome il ferro, l’azotoe il carbonio chesono i mattoni dellavita. Vedete, ognigiorno piovono sullaterra decine e decine di meteoriti, se viprendete la briga di aprirne uno, spaccan-dolo, troverete che è pieno zeppo di cellu-le prebiotiche, che non sono ancora vita,ma ne hanno tutte le caratteristiche,attendono solo le condizioni favorevoli peressere fecondate e divenire vita. Esse ven-gono dalle cosiddette nubi cosmiche, nubigalattiche piene zeppe di questo materialeche è stato liberato dalle supernove. In talsenso potremmo dire, insistendo su un lin-guaggio, di tipo astrale da un lato e religio-so dall’altro, che si possa parlare di passio-ne astrale. Noi siamo frutto di questa pas-sione astrale. È assolutamente vero che noisiamo figli delle stelle e che non ci ferme-remo mai, perché noi facciamo parte dellastoria del cosmo.

Tramite l’uomo, la materia è in gradofinalmente di riflettere su se stessa. L’uni-verso scruta se stesso tramite questa fun-zione matura che è la vita. Ma poi, checos’è la vita? Potremo anche definirla

come amore, cioè capacità di crescita incomplessità, organizzazione. Ma la vita èsoprattutto pensiero.

Ma se anche, perassurdo, la vita intelli-gente fosse presentesolo nel nostro minu-scolo ed insignificantepianetino, essa sareb-be pur sempre indicedi una verità di fondo,presente nel codice diquesto grande sistemageroglifico che è l’uni-verso, che richiede

semplicemente di esse-re decifrato tramite gli strumenti del pen-siero simbolico. La vita è dunque una fun-zione prevista lungo la scala evolutiva.

E allora possiamo dirlo, sì, siamo davve-ro figli delle stelle, così come ritenevanogli antichi, i pitagorici di Crotone, che era-no convinti che le stelle fossero degli Dei e,per Dei, quegli uomini, saggi e colti, inten-devano gli stati sovraindividuali dell’esse-re, come delle epifanie funzionali dellanatura, da riguardare dunque sotto ilsegno del simbolo e non letteralmente.

Il popolino prendeva tutto alla lettera,un po’ come avviene ancora oggi con legrandi religioni monoteiste e confessiona-li, dove tutto viene preso alla lettera, ma diogni cosa si può dare una lettura simbolicadecisamente più elevata. Del sistema dellozodiaco, dell’astrologia, si è parlato e sicontinua a parlare male perlopiù. Certo,chi crede davvero che l’oroscopo quotidia-no abbia una qualche efficacia è in assolu-to errore, ma non bisogna dimenticare che

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l’astrologia è un venerabile reperto dellamistica simbolica. È un’antica scienza tra-dizionale come lo èl’ermetismo. Biso-gna soltanto legger-lo dal punto di vistasimbolico, potere ecaratteristiche chesono definitivamen-te venuti meno nelmondo moderno,ma che erano giàvenuti meno con ilcollasso del mondoantico.

I misteri di Eleusi, che furono conserva-ti così bene, si rivelarono, per cenni, con iprimi Padri della Chiesa: pensiamo peresempio ad un passo di Clemente Alessan-drino il quale scrive: Ma lo sapete qual è ilsegreto di Eleusi? - Ti mostrano una spiga! -apposta per riderci su, come sempre suc-cede quando si perde di vista il senso sim-bolico delle cose. Così, quando gli iniziatidi Eleusi invocavano il dio Cielo con un: Fapiovere, feconda!, l’invocazione, non letta daun punto di vista simbolico ma piuttostointerpretata da un punto di vista letterale,può indurre al sorriso.

Ma molte cose si sono perdute per que-sta intervenuta incapacità di saper inten-dere il senso reale, ormai “celato”, dellecose.

Vedete, non esiste un oggetto che abbiavalenza esclusiva per ciò che appare. Leapparenze sono e non sono. Hanno unaloro capacità di rappresentanza soltantoper il limitato periodo in cui appaiono in

un certo modo. Ma ogni oggetto può esse-re letto in forma simbolica secondo un

sistema scalare di signifi-cati che non si contrad-dicono tra di loro, mapiuttosto si incasellano,l’uno celando l’altro diordine superiore.

Questo è il grandecompito cui noi siamochiamati. In fondo,conoscere significa pro-prio questo.

La conoscenza non èun apprendimento.

Vedete, parlando dell’iniziazione, per-ché di iniziazione si deve parlare, seppurin senso lato, ampio, Aristotele scrisse: L’i-niziazione non è una forma di apprendimento,meno che mai libresca. È un’emozione. Lacapacità di emozionarsi.

Non è suscettibile di iniziazione chi nonè in grado di emozionarsi di fronte adun’alba, ad un bel tramonto, di fronte alcinguettio degli uccelli, di fronte allo stor-mire delle foglie, alla visione di una mon-tagna maestosa, di fronte alla natura.

Chi perde il contatto ed il rapportodiretto con la natura, è ormai sordo.

E noi siamo diventati sordi, poiché unemisfero del nostro cervello si è andato viavia atrofizzando, ed è l’emisfero destro.Quello sinistro è preposto alle funzionianalitiche, fortemente razionale. Quellodestro era l’emisfero dei poeti dei cantori,dei rapsodi. Quell’emisfero che ci consen-tiva di captare pitagoricamente l’armoniadelle sfere, di ascoltare il richiamo profon-

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do delle cose, il senso radicale della realtà.Questo si è perduto col tempo. Con il crol-lo della mente bicamerale, come è statochiamato più recentemente.

Voi sapete che noi siamoesseri duali come manifesta-zione. Abbiamo infatti dueocchi, due mani, due piedi,due valve polmonari, duevalve cardiache. Tutto èdue, ma in realtà è uno! Equesto è il grande mistero.

La stessa idea che si celadietro quell’esortazionerivolta ai Fratelli Maestri:Radunare ciò che è sparso, ripristinare l’unità!

Vedete, il nostro grande problema ècostituito dalla crisi del linguaggio. Tuttivoi conoscete il mito biblico di Nembrod,quel re che osò sfidare il cielo costruendouna torre di Babele altissima, si chiamava-no ziggurat, da una radice sumera zakr,“rendere alto, elevato”, e Nembrod fupunito con la confusione delle lingue. Benequesta confusione delle lingue che seguìall’unica lingua con cui potevamo inten-derci con gli uccelli, con tutte le creature,continua ancor oggi ed è probabilmentealle radici delle turbolenze del cieco caosche governa la nostra società. Una societàin cui la vita è diventata essa stessa unoggetto di consumo usa e getta, in cuimamme uccidono i propri bimbi in fasce,in cui i figli uccidono i genitori, in cui l’u-nico valore è costituito dalla dea mammo-na, dall’economia selvaggia del mercato, incui i valori sono stati messi pericolosa-mente in ombra.

Si obietterà che il rimedio possa esserenel trovare valori condivisi, di cui spesso siparla in Massoneria, ma io credo che nonci siano valori condivisi se non ci sono

significati condivisi.A ragione di quelmito biblico dellaconfusione dellelingue, non si tro-vano due o tre per-sone che allo stes-so termine dianolo stesso identicosignificato. Si dicecomunemente equasi per scherzo,

che non ci sono due o tre italiani che pen-sino la stessa cosa. Siamo divisi su tutto. Esiamo divisi su tutto perché abbiamo per-so di vista l’etimologia, parola che sembre-rebbe turbare le nostre coscienze. Cheparola difficile! In realtà la semantica èsemplicemente lo studio del significatooriginario ed esatto dei termini. Bastereb-be prenderne qualcuno, per esempio,quando parliamo di coscienza, cos’è laCoscienza? cum- scire, “sapere insieme”;Comprendere: cum-prendere, “prendereinsieme, abbracciare in una totalità”; Uni-verso, Uni-versus, “rivolto verso l’unità”; ilcosmo, kosmos, “ordine”.

La sapienza, latinamente intesa, invece,non vuol dire altro che “avere sapore”, unaemozione quasi palatale, mentre sofia ingreco ha ben altro significato: sa phaos, cioèquello di “molta luce”, identificando dun-que la conoscenza nella “illuminazione” equesto a confermare ciò che affermano imisteri di tutti i tempi.

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Quando si dice: Promettiamo la luce aibussanti liberi di buoni costumi, di che luceparliamo? Certo non quella della lampadi-na elettrica cheaccendiamo pronta-mente all’appositocomando del vene-rabile, ma di unaltro tipo di luce,probabilmente quel-la stessa che i bud-dhisti tibetani chia-mano la chiara luce,o quella che un altroiniziato, il poveroLucio, nelle Metamor-fosi dell’Asino d’oro,dopo essere statoappunto trasforma-to in asino, che è l’e-pifania animale diSet, il dio malvagioche uccise il fratello Osiride, graziato daIside, e che, lustrato, purificato, viene con-dotto nel tempio, esclamando: ho visto ilsole a mezzanotte. Come si fa a vedere il solea mezzanotte quando più profonde regna-no le tenebre? Sempre grazie a quella lucedi cui si parlava prima. Quel sa phaos, dasaphés, chiaro, trasparente, che troviamonei misteri di Eleusi per esempio, dove, seil primo grado era quello del mystes, l’ulti-mo grado era quello dell’epopteia.

Il termine significa letteralmente il“contemplante, colui che contempla”. Laconoscenza allora si identifica con la visio-

ne. In sanscrito, da samskrita,“perfetto, compiuto”, che èl’idioma padre del bloccoindoeuropeo, “conoscenza,sapienza” si dice vydia, ed èfin troppo facile vedere inquel vydia non soltanto lasapienza comunementeintesa, ma la visione, video,“vedere”.

E dei rishi che per primicodificarono i Veda, il piùantico corpus religioso del-l’India, si dice che non solohanno udito, ma hannovisto, e fu scritto che biso-gna avere orecchie pervedere ed occhi per sentire,

per ascoltare. Vorrei conclu-dere raccontando un celebre aneddoto,quello di un mandarino cinese che un gior-no incontrò un vecchio saggio male inarnese, con vesti dimesse e quasi con suffi-cienza gli si rivolse chiedendogli: E tu chefaresti se per un momento potessi diventare ilpadrone del mondo? Egli rispose: Comincereidalla ridefinizione del senso delle parole.

E se non ridefiniamo il senso delle paro-le su scala universale, come mai potremmoavere dei valori condivisi?

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Le ceneri del diritto: a proposito di un libro di Morris L. Ghezzi

di Giulio GiorelloUniversità Statale di Milano

The present contribution deals with the subject of the free society, in order to create areal democracy in the industrial and post-industrial era. The Author starts from thecritical analysis of Morris Ghezzi about the incompleteness and decomposition of theItalian democracy, and also about the public image of the Italian Magistracy. Thenihilistic dissolution seems to be a constant that sociological researches cannot ignore.

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MMi pare opportuno l’accosta-mento dell’ideale di una soci-età libera con la realtà di una

vita associata in città, regioni, stati. A mioparere, la questione della libertà, o megliodelle libertà (al plurale!) si declina proprioin questa gerarchia di contesti. Per nondire che non si può ormai fare a meno diriflettere anche su rilevanti strutturemetastatali – per esempio, la stessa UnioneEuropea. Insisto su tale “logica della situa-zione” (per ricorrere a una locuzione cheha avuto una certa fortuna nella metodolo-gia delle scienze sociali, e non solo) perchéritengo che poco importi, invece, romper-si la testa a un livello astrattamente reli-

gioso o filosofico sulla questione del liberoarbitrio: se sia Dio, la fisica o la biologiache determinano il nostro corso di azioni ose ci sia una sorta di “pilota immateriale”dentro il nostro corpo che ci proietta in unpiano altro rispetto a tutto questo. Il teolo-go Vito Mancuso ha scritto una volta chelui cercava la libertà dal mondo; a meinteressa, invece, la libertà nel mondo. Enon c’è forse miglior definizione della li-bertà di quella data a suo tempo da JohnStuart Mill nel suo celebre Saggio (1859),un testo che è bene citare soprattutto neimomenti di grave crisi, come fece Gobettiai tempi dell’oppressione fascista o Bobbionel 1956 al tempo della coraggiosa e demo-

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cratica insurrezione del popolo ungheresecontro la tirannide comunista. Oggi valeancora la pena di rifarsi a quel passo in cuiMill ci ammoniva che: Ogni vincolo, in quan-to vincolo, è male.Qui l’autore ave-va in mentesoprattutto lalibera iniziativain campo eco-nomico, e mani-festava la suainsofferenza peri vincoli di natu-ra protezionisti-ca; ma il nucleodella sua argo-mentazione funzionava su un doppio livel-lo: quello della ricerca intellettualeindipendente (di cui è espressamente unprototipo la libertà scientifica) e quellodella completa fioritura dei più vari esperi-menti di vita. Mill non era però un idea-lista romantico: conosceva benissimo lalezione di tutti quei pensatori – da ThomasHobbes a Baruch Spinoza, da David Hume aJohn Mitchel – che avevano ricordatocome l’essere umano, animale tra altri ani-mali, nascesse come creatura più debole dimolti suoi competitori nella lotta per lavita, e come fosse necessario intrecciareuna rete di relazioni che in qualche modovincolasse l’azione del singolo a quella deimembri di una qualche collettività. Lestrutture che abbiamo menzionato – città,regione, stato ecc. – esercitano tali vincolinel quadro di norme e di regole, e proprioquesto ci porta al tema della giustizia cosìcaro a Morris Ghezzi (del quale mi riferisco

al volume scritto con Marco Quiroz Vitale,L’immagine pubblica della Magistratura ita-liana, Milano, 2007). Il punto è che queiparticolari vincoli, pur restando sempre un

“male” da un punto divista incondizionata-mente libertario, pos-sono rivelarsi utili perimpedire che la socie-tà libera collassi. Essa,come Mill stesso sape-va, è infatti forte-mente instabile; sitratta, quindi, diattenuare quelle per-turbazioni che potreb-bero altrimenti tra-

mutare un conflitto democratico in unalotta meramente distruttiva. Un altromodo di dire tutto questo è che il nucleodel libertarismo milliano, come abbiamopiù volte scritto insieme Marco Mondadorie io in anni passati, si può prospettarecome: a) l’asserzione per cui ogni indivi-duo deve avere eguale accesso al sistema dilibertà compatibile con le esigenze di tuttigli agenti sociali coinvolti e come b) il prin-cipio per cui la libertà può essere ristrettasolo a vantaggio della libertà stessa. Sottotale profilo – va detto subito – le stesse“questioni di giustizia” vanno prospettatecome strumentali all’articolazione diquesto nucleo libertario.

In un suo recentissimo ed eleganteintervento (Le ceneri del diritto, Milano,2007) Ghezzi cita in esergo una direttiva diMichael Collins, l’eroe della lotta d’indi-pendenza irlandese che all’inizio deglianni Venti del secolo scorso dichiarava:

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• 55 •Le ceneri del diritto, G. Giorello

Il nostro governo deve essere democraticonon solo di nome. Deve essere l’espressionedella volontà del popolo.Deve compiere solo ciòche è necessario fareper il popolo nel suocomplesso. non deveinterferire con ciò che lagente può fare da sé inpiena autonomia. Nondobbiamo avere mini-steri diretti da un politi-co la cui unica qualificasia di essere salito fino aun certo gradino dellascala gerarchica.

In queste parole sono definiti lucida-mente i requisiti del controllo democrati-co, del rispetto dell’autonomia individua-le, del criterio meritocratico come garan-zia di rispetto all’usurpazione di carichepubbliche per mere ragioni partitiche.Esula ovviamente dall’ambito di questomio intervento verificare se l’Irish Free Sta-te di Collins e la successiva Repubblicad’Irlanda (per altro ridotta a solo ventiseicontee sulle trentadue originariamentepreviste dai “fondatori” della Repubblicadurante l’insurrezione del 1916) si siano omeno conformati a siffatti intenti. L’attua-le benessere di quel Paese farebbe pensaredi sì – per contrasto, la storia passata del-le sei contee occupate dell’Ulster (la cosid-detta Irlanda del Nord) indica chiaramen-te che colà tutto ciò è stato invece siste-maticamente violato.

Ma facciamo adesso l’esperimento diapplicare le “direttive” di Collins al nostroPaese. Ghezzi ha buon gioco nel mostrare

che sono state ampiamente disattese! Perquanto, in particolare, riguarda il caratte-

re subordinato degliapparati di giustizia aquello che abbiamochiamato sopra ilnucleo libertario, Ghez-zi sottolinea giusta-mente quattro lacunedi base: i) i gravissimiritardi che hannosegnato “la realizza-zione ancora solo par-ziale della carta costi-tuzionale italiana” (si

pensi, per esempio, alcaso delle regioni); ii) lo scadimento delrapporto cittadino-pubblica amministra-zione (quella che io chiamerei la “casta deiburosauri” – il termine “burosauro” è delmatematico Bruno de Finetti che, nel seco-lo scorso, non aveva lesinato critiche alcarattere arretrato e al tempo stessooppressivo della nostra burocrazia); iii) ilcosiddetto “diniego di giustizia”, dramma-ticamente illustrato dalla lentezza delleprocedure (si ricordi che il detto inglese Nojustice no peace vale non solo per le grandioppressioni, ma anche per le vessazionipiccole e quotidiane); iv) l’esorbitantepressione fiscale (non si dimentichi chesistemi di tassazione iniqui sono stati piùvolte, nella storia europea e americana, trale cause scatenanti di questa o quella rivo-luzione). Disfunzioni di questo tipo, sostie-ne ancora Ghezzi, sono spia di una pesantecontinuità delle attuali istituzioni italianecon il passato. Si pensi alla natura com-plessa e contraddittoria del processo di

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unificazione del Paese, al carattere sostan-zialmente autocratico del Regno d’Italia,all’ulteriore involuzione – pressoché dinatura criminale – col regime fascista (tut-t’altro che unamera parentesinella storia italia-na!), alle ambigui-tà del secondodopoguerra, allacrisi della PrimaRepubblica, aglielementi di cre-scente disagio del-la Seconda. Tuttociò fa sì che la tipi-ca instabilità delcompromesso italiano venga esasperata, enon a caso Ghezzi parla di “dissoluzionedello Stato democratico” nel nostro Paese.

Conclusioni troppo pessimistiche? Noncredo proprio. Aggiungerei, di mio, il pro-liferare di norme talvolta inutili, talvoltacontraddittorie circa l’ecologia del Paese. Èfin troppo noto che l’ambiente è una natu-ra ostile che va controllata da un’azionecoordinata – fra i cittadini appunto di unoStato democratico. Oggi abbiamo la consa-pevolezza scientifica che persino unanatura indifferente alle esigenze degliesseri umani è un insieme di beni preziosiche vanno impiegati con cura, in vista del-l’avvenire delle generazioni future. È que-sto, secondo me, il nucleo di ogni seria poli-tica ambientalista: domandarsi quantodobbiamo ridurre il consumo personaledelle risorse perché possano avere una pie-nezza di vita anche coloro che verrannodopo di noi. Negli anni Venti del secolo

scorso il matematico, logico e filosofoFrank Plumpton Ramsey, amico e collabo-ratore di Bertrand Russell e di LudwigWittgenstein, escogitava una formula che

diceva che, in qualunqueunità di valore i beni dis-ponibili fossero misurati, il50% + 1 doveva essere sal-vaguardato per le genera-zioni a venire. Questocurioso “teorema”, ovvia-mente, non andava presoalla lettera, bensì intesocome un ammonimento dilungo periodo. Esso bene siinseriva nell’ambito di

quella tradizione “utilitari-sta” che aveva avuto in Inghilterra i suoimigliori rappresentanti in Jeremy Ben-tham, nei due Mill e nella femminista erivoluzionaria Harriet Taylor. (Si noti che,contro uno stereotipo assai diffuso nelnostro Paese – specie in certa cultura cat-tolica – utilitarista non vuol dire egoista,poiché il benessere cercato è quello per ilmaggior numero di individui). L’utilitari-smo non è semplicemente una “dottrinamorale” per l’agire dell’individuo, ma unaguida politica per rimodellare le istituzioni:lo sapevano bene, per altro, gli illuministilombardi, dai fratelli Verri a Beccaria, pernon dire di Cattaneo, che cercavano dimigliorare razionalmente il nostroambiente mirando all’efficacia delle leggi,alla corretta proporzione fra le offese e lesanzioni, al controllo delle conseguenze,almeno sul breve e sul medio periodo.Anche i critici più sottili di questo schema– da Pareto a von Hayek – hanno dovuto

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• 57 •Le ceneri del diritto, G. Giorello

riconoscere che la prospettiva utilitaristaha un po’ la stessa caratteristica dellademocrazia secondo Churchill: può rive-larsi talvolta pessima, ma è comunquemeglio di tutte le suealternative. Sarà infi-ne pertinente sotto-lineare che oggi l’uti-litarismo non è quel-lo “ingenuo” e un po’“centralistico” diBentham o di JamesMill: le funzioni diutilità individualiche vengono aggre-gate nella somma ponderata che costitui-sce l’utilità sociale sono ricavate dallapesatura probabilistica degli esiti a cui por-terebbero le eventuali linee di condotta,secondo lo schema potentemente delinea-to da John Harsanyi e Reinhard Selten(entrambi Nobel per l’economia nel 1994);si tratta dunque non di una programma-zione fondata su certezze, ma di un insie-me di scelte modellate da una sorta di logi-ca dell’incerto – se facciamo nostra la bellalocuzione del matematico de Finetti ripre-sa negli anni Ottanta del secolo scorso dallogico Marco Mondadori.

Sappiamo che questo schema restaqualcosa di ideale, e che nel caso reale ifattori emotivi possono avere effetti assairilevanti. Ma anche sotto tale profilo, ladecisione razionale costituisce un caso

limite che è sempre bene aver presente, senon altro come modello di comportamen-to atto a insegnarci a controllare le nostreemozioni. Ciò dovrebbe valere anche per

un ulteriore aspetto delpaese Italia, emerso conrumorosa drammaticitàin questi ultimi anni, cioèl’esigenza della sicurezza– a non pochi livelli, daquello economico a quel-lo della salute e dell’inte-grità fisica. L’ideale diStato efficiente e rispet-toso delle autonomie

individuali abbozzato nelle parole di Col-lins mi appare come l’opposto dello Statodei Securocrats (così sono stati definiti, inun articolo comparso in The Guardian nel2003, i maniaci della sicurezza, che sonodisposti a sacrificare qualunque libertà,anche la più elementare, in nome appuntodi una sicurezza che, più che totale, è tota-litaria, come ha mostrato David Lyon inMassima sicurezza, tr. it. Milano, 2005). Mipare abbastanza ovvio che, se i Securocratsavessero la meglio, non avremmo più sicu-rezza, ma degrado ambientale e insiemeperdita delle libertà. Qui deve mostraretutta la sua forza quel senso del “pattoliberamente sottoscritto” da parte dei cit-tadini che per Ghezzi dovrebbe sottenderela stessa riforma della giustizia. Altrimen-ti, restano i metodi di Michael Collins.

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massonica

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1 Da ora CIC.2 Cfr. Mola, 2001: 985.3 Suchecki, 1997: 27.

Il diritto canonico contro la Massoneria.Legislazione e interpretazioni dal 1917 ad oggi.

di Luca Irwin FragaleGiurista

In the following article, the Author describes the position of Freemasons in front of thelaw of the Catholic Church. As a matter of fact, its old 1917 code explicitly punishedFreemasons with excommunication while the new 1983 code omitted any evident refe-rence to Freemasonry. This omission was the reason for some optimistic interpretationof the latter. Indeed, some parts of the ecclesiastic hierarchy appear to be involved, sincethe middle of the 20th century, in the process in order to soften dislike for Freemasonry.Yet, the highest Vatican organ - the Congregazione per la Dottrina della Fede, guid-ed by Joseph Ratzinger at that time, and once Sant’Uffizio of the notorius Inquisition -returned a denial, through the authentic interpretation on lacunose 1983’s rules. Infacts, these rules would punish Freemasons as well as the former code did, since the inte-rior conviction of Church didn’t notice any change. So, what about Catholic Brothers?Obviously, no restriction is provided by Masonic rules in terms of possibility for Chris-tian believers to affiliate. Nonetheless, the single believer should choose with coherencywhich of the two paths he intends to go on.

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AMRRibadita da Prospero Lambertini

(papa Benedetto XIV) il 18 mag-gio 1751 e da altri pontefici nel

corso del tempo, la “scomunica” commina-ta ai massoni venne confermata nei canoni684 e 2335 del Codex Juris Canonici1 promul-gato da Giacomo Della Chiesa (papaBenedetto XV) il 27 maggio 1917.

Tale disciplina rimase immutata sinoalla promulgazione del nuovo CIC (26novembre 1983) nel quale il termine “mas-soneria” non compare in alcun modo.2

È bene analizzare attentamente lo svi-luppo della legislazione vaticana in meritoalla questione massonica: il CIC del 1917“[…] nel libro II «Delle persone», […] parteterza […] «Dei Laici», […] titolo XVIII «Leassociazioni dei fedeli in genere», al c[an.]684 stabilisce definitivamente la norma: ifedeli sono degni di lode se danno il nome alleassociazioni erette o almeno raccomandate dal-la Chiesa; si astengano dalle associazioni segre-te, condannate, sediziose o che si studiano disottrarsi alla legittima vigilanza della Chiesa”.3

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Nello stesso codice era stabilito, al can.2335, che Nomen dantes sectae massonicaealiisve eiusdem generis associationibus quaecontra Ecclesiam vel legit-imas civiles potestatesmachinantur, contrahuntipso facto excommunica-tionem Sedi Apostolicaesimpliciter reservatam e,al can. 2336 §2, Insuperclerici et religio si nomendantes sectae massonicaealiisque similibus associa-tionibus denuntiari debentSacrae Congregationi S. Officii.

Dunque, secondo il CIC del 1917, ichierici e i religiosi delinquenti iscritti allaMassoneria devono essere «colpiti con lapena della sospensione e privazione delbeneficio, ufficio, dignità, pensione oincarico, che avessero eventualmente nel-la Chiesa» nonché «con la privazione del-l’ufficio e della voce attiva e passiva e conaltre pene ai sensi delle costituzioni».

La censura comporta vari ed insepara-bili effetti, tra i quali il divieto di ammini-strare lecitamente sacramenti e sacramen-tali e, dopo la sentenza giudiziale, di rice-verli (can. 2261); il divieto, se non vi sonosegni di pentimento, di essere sepolto conil rito ecclesiastico (can. 2260).4

La Commissione antepreparatoria delConcilio Vaticano II aveva raccolto in sei

punti la documentazione e le proposte deivescovi che riguardavano esplicitamentela Massoneria, De secta Francomurariorum, e

infatti “i vescovi chie-devano esplicitamenteche fosse confermatala condanna della Mas-soneria:

1. Secta francomurario-rum damnetur2. c[an.] 2335 C.I.C. nondistinguit inter massonesqui vero sectae associan-

tur rei causa oeconomicae tantum, benignisrespici viderentur

3. Poena, de qua in canone 2335 C.I.C., sit tan-tum pro ‘pertinaciter adhaerentibus’

4. Unus sit modus agendi relate ad sectammassonicam

5. Ordo ‘Massonicus’ absolute opponitur ordi-ni cattolico. Periculum est actualissimum

(NB. Attulit studium valde accuratum)6. Desideratur commutatio poenarum socio-

rum sectae massonicae vel revisio statusquaestionis.5

In risposta alla domanda dell’Ordinariodi Trento circa «un certo ramo della Mas-soneria che non solo permetterebbe ai suoiadepti di praticare liberamente la religio-ne cattolica, ma inculcherebbe la fedeltàad essa»6, il Cardinale F. Selvaggini, prefet-to della Sacra Congregazione del S. Uffizio,

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4 Suchecki, 1997: 38-39.5 Suchecki, 1997: 41-43.6 S.C. S. Officii, Decl., 20 Apr. 1949, Confirmantur normae Codicis Iuris Canonici circa sectae massoni-cae et ipsarum fautores in Xav. Ochoa, Leges Ecclesiae, post Codicem Iuris Canonici editae, Roma 1969, vol. 2,p. 2044, coll. 2595-2596, citato in Suchecki, 1997: 29.

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7 Cordovani, La Chiesa e la Massoneria ne l’Osservatore Romano, 19 gennaio 1950, p. 1, citato daSuchecki, 1997: 29.8 Paolo VI, Const. Mirificus Eventus, 7 dicembre 1965, in AAS 57, 1965, pp. 945-951, citato daSuchecki, 1997: 45-46. È doveroso un generico rimando a Suchecki, 2000, edizione contenente anche letraduzioni in lingua italiana.9 Dichiarazione del cardinale F. ?eper, 19 luglio 1974, così citata da Mola, 2001: 992. Un tempo cono-sciuta come Sant’Uffizio dell’Inquisizione, quella per la Dottrina della Fede è una delle nove congrega-zioni del Vaticano e ha il compito di promuovere e salvaguardare la fede e la morale. In certe occasio-ni può anche operare come tribunale religioso, e ha giurisdizione anche sui casi che comportano abusisessuali da parte dei preti. Il cardinale Joseph Ratzinger è stato alla testa di questa Congregazione pergran parte del pontificato di Karol Wojtyla, vedi Berry e Renner, 2006: 324.

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il 20 aprile 1949, emanò la Dichiarazionenella quale confermò la di- sposizione delCIC circa le sette massoniche:nulla è avvenuto da potercambiare, in questa materia, ledecisioni della S. Sede e perciòpermangono sempre nel lorovalore, per qualsiasi forma diMassoneria. Dal canto suo, P.Mariano Cordovani, soste-neva che fra le cose che risor-gono e riprendono vigore c’è laMassoneria con la sua ostilitàsempre rinnovata contro laReligione Cattolica. Egli rile-vava un fatto che apparivanuovo ovvero la voce che sisparge, nei diversi ceti sociali, che la Massone-ria di un certo rito non sia più in contrasto conla Chiesa, che anzi sia avvenuto un accordo trala Massoneria e la Chiesa, in forza del qualeanche i cattolici possono tranquillamente iscri-versi alla setta senza pericolo di scomuniche edi riprovazione.7

Il 7 dicembre 1965, Paolo VI emanava laCostituzione Apostolica Mirificus Eventus,nella quale concedeva la facoltà ad ogniconfessore di assolvere dalle censure gliappartenenti alla Massoneria, durante

l’anno giubilare del 1966 indotto alla finedel Concilio Vaticano II: absolvere a censuris

set poenis ecclesiasticis eos quinomen dederint sectae masonicaealiisque eiusdem generis consocia-tionibus, quae contra Ecclesiam vellegitimas civiles potestates machi-nantur; dummodo a sua secta velconsociatione omnino se separentet scandala vel damna, pro viribus,se sarturos [sic] et precauturosesse promittant; iniuncta, promodo culparum, gravi paenitentiasalutari.8

Un ulteriore smussamentoera nell’aria già dieci anni pri-ma della promulgazione del

nuovo CIC, quando, interpellato da nume-rosi vescovi circa l’interpretazione e laportata del can. 2335 del CIC, il CardinaleFranjo ∏eper, prefetto della Sacra Congre-gazione per la Dottrina della Fede, sottoli-neò come bisognasse tener presente chelegge penale va interpretata in senso restritti-vo. Per tal motivo si può sicuramente insegnareed applicare l’opinione di quegli autori qualiritengono che il suddetto can. 2335 tocchi sol-tanto quei cattolici iscritti ad associazioni cheveramente cospirino contro la Chiesa.9 Dopo 57

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anni dall’entrata in vigore del CIC del 1917molti vescovi hanno posto il quesito a questa S.Congregazione [per la Dottrinadella Fede] circa il valore e l’in-terpretazione del can. 2335 delCIC che sotto pena di scomunicavieta ai cattolici d’iscriversi alleassociazioni massoniche o adaltre dello stesso tipo.

La Santa Sede, nel corso diun lungo esame di questo pro-blema, molte volte ha consultatole conferenze episcopali partico-larmente interessate al caso perconoscere meglio la natura el’attività attuale di codeste asso-ciazioni nonché il pensiero dei vescovi.

Ora, la grande disparità delle risposte, cheesprime le diverse situazioni in ciascuna nazio-ne, non permette alla Santa Sede di mutare lalegislazione generale vigente, che pertantorimane in vigore fino a quando la nuova leggecanonica sarà resa di diritto pubblico alla com-petente pontificia commissione per la revisionedel codice.10

Il 18 luglio 1974, il Cardinale Franjo∏eper, prefetto della Sacra Congregazioneper la Dottrina della Fede, manderà unalettera riservata, Complures episcopi, adalcune conferenze episcopali particolar-mente interessate al caso, per comprende-

re e conoscere meglio la natura e l’attivitàdelle associazioni e il pensiero dei vescovi

in proposito. Dal documen-to emerge chiaramente losforzo compiuto da partedella Chiesa, e in modo par-ticolare dalle diverse con-ferenze episcopali, dopol’apertura del Concilio, percomprendere diverse real-tà concrete nel mondomoderno.

Un’inversione di ten-denza fu però registrataall’indomani della promul-

gazione – da quel Vaticanoin cui da poco s’era insediato Karol Wojty-la – del nuovo testo di legge. Così, il CIC del1983 disponeva al can. 1374: qui nomen datconsociationi [sic], quae contra Ecclesiammachinatur, iusta poena puniatur; qui autemeiusmodi consociationem promovet vel moder-atur, interdicto puniatur.11

Un graduale approfondimento dellanatura e dei fini della Massoneria svolto daparte della Chiesa, prima dell’emanazionedella dichiarazione Quaesitum Est sullaMassoneria del 26 novembre 1983, permi-se alla Congregazione di accertare le posi-zioni dottrinali, filosofiche e morali dell’I-stituzione.12

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10 S.C. Pro Doctrina Fidei, Litt., Complures episcopi, ad praesides conferentiarum episcopalium decatholicis qui nomen dant associationibus massonicis, Prot. 272/74, (18 iulii 1974), Notiziario CEI, 1974,in Suchecki, 1997: 30-32.11 Declaratio de associationibus massonicis da S.C. pro Doctrina Fidei, Decl. Quaesitum est: de associa-tionibus massonicis, (26 Nov.1983) in Acta Apostolicae Sedis, 76 (1984), p. 300; Apollinaris 57 (1984), p. 38, inSuchecki, 1997: 74.12 Suchecki, 1997: 28.

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• 63 •Il diritto canonico contro la Massoneria, L.I. Fragale

Il giorno prima dell’entrata in vigoredel CIC, infatti, la Sacra Congregazione perla Dottrina della Fede emanò taledichiarazione sulla Massoneria, in cui sisegnalava, con un linguaggiomolto chiaro, come restasse«immutato il giudizio negativodella Chiesa» sull’appartenen-za di cattolici ad associazionimassoniche13: in occasione del-la domanda sull’ipotesi di unmutamento del giudizio daparte della Chiesa nei confron-ti della Massoneria – per il fat-to che nel nuovo codice nonvenisse espressamente men-zionata, a differenza di quantoaccadeva in quello anteriore –la Congregazione per la Dottrinadella Fede risponde in tal modo, per vocedell’allora prefetto Joseph Ratzinger, conla Declaratio de associationibus massonicis14:

QUAESITUM EST an mutata sit Ecclesiaesententia circa associationes massonicaspropterea quod in novo Codice iuris canonici deipsis non fit mentio expressa sicut in veterocodice.

Sacra haec Congregatio repondere valettalem circumstantiam tribuendam esse criterioin redactione adhibito, quod servatum est eti-am quod alias associationes pariter silentiopraetermissas eo quod in categoriis latiuspatentibus includebantur. Perstat igitur immu-tata sententia negativa Ecclesiae circa associa-tiones massonicas, quia earum principia sem-

per inconciliabilia habita sunt cum Ecclesiaedoctrina ideoque eisdem adscriptio ab Ecclesiaprohibita remanet. Christifideles qui associa-tionibus massonicis nomen dant in peccato

gravi versantur et ad sacramcommunionem accedere nonpossunt.

Auctoritatibus ecclesiasticislocalibus facultas non est pro-ferendi iudicium circa naturamassociationum masonicarumquod secumferat supradictaesententiae derogationem admentem declarationis sacraehuius congregationis, die 17februarii 1981 factae.

Hanc declarationem in con-ventu ordinario huius s. congre-

gationis deliberatam, summuspontifex Ioannes Paulus pp. II, in audentiainfrascripto cardinali praefecto concessa,adprobavit et publici iuris fieri iussit.

Romae, ex aedibus S. Congregationis proDoctrina Fidei, die 26 novembris 1983

IOSEPH CARD. RATZINGERpraefectus

fr. HIERONYMUS HAMER o.p.,archiep. Tit. Loriensis

secretarius

Vale a dire che “tale circostanza èdovuta ad un criterio redazionale seguitoanche per altre associazioni ugualmentenon menzionate in quanto comprese incategorie più ampie […]” e resta perciò

13 Suchecki, 1997: 64-65.14 Suchecki, 1997: 110.

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“immutato il giudizio della Chiesa neiriguardi delle associazioni massoniche,poiché i loro princìpisono sempre stati con-siderati inconciliabilicon la dottrina dellaChiesa, perciò l’iscrizio-ne a esse rimane proi-bita. I fedeli che appar-tengono alle associa-zioni massoniche sonoin stato di peccato gra-ve e non possono acce-dere alla Santa Comu-nione […]”15.

Pertanto è difficile stabilire un qualsi-voglia dialogo, data la posizione della Chie-sa, che continua ad apparire tanto refrat-taria e intollerante. Quali conseguenzepotesse avere una situazione di tal guisa ècomprensibile se si pensa che ai massoninotori era comminato “il divieto di parte-cipare attivamente a uffici divini” [sic],nonché il divieto di “far da padrino perbattesimi e cresime e accostarsi ai sacra-menti”; e si aggiunge che dovevano poiessere interdetti la sepoltura ecclesiasticae il suffragio di messe a loro salvazione(estendendo la punizione dai singoli mas-soni ai loro familiari) nonché – a chiosa ditutto ciò – che venivano sconsigliati imatrimoni con essi.16

Riguardo al CIC del 1983, a parziale

argine del divieto, c’è da dire che «i canonidi questo Codice riguardano la sola Chiesa

latina» (can. 1). E, diconseguenza, «alleleggi puramenteecclesiastiche sonotenuti i battezzatinella Chiesa cattolicao in essa accolti, chegodono di sufficienteuso della ragione, ameno che non sia di-sposto espressamen-te altro dal diritto, e

che hanno compiuto ilsettimo anno di età» (can. 11). E poichénella nostra materia entriamo nel campodelle sanzioni penali, il Codice disponeespressamente, al 1° comma del can. 1323:«non è passibile di alcuna pena chi, quan-do violò la legge o il precetto, non avevaancora compiuto i 16 anni di età».

Le affermazioni e i motivi dell’inconci-liabilità circa l’appartenenza di cattolicialla Massoneria trovano le loro profonderadici nella Dichiarazione della Conferen-za Episcopale Tedesca, la quale dopo seianni di dialogo et diligentis investigationis èarrivata alla conclusione che la Massoneria«nella sua mentalità, nelle sue convinzionifondamentali e nel suo ‘lavorare nel tem-pio’, è rimasta pienamente uguale a sestessa […]».17

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15 Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede sull’incompatibilità tra Chiesa e mas-soneria, 26 novembre 1983, ne La civiltà Cattolica, quad. 3208, 18 febbraio 1984, in Mola, 2001: 1000-1001.16 Mola, 2001: 669.17 Suchecki, 1997: 61 e 67.

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• 65 •Il diritto canonico contro la Massoneria, L.I. Fragale

Passati secoli, dunque, dalle prime sco-muniche, di fronte alla proverbiale tolle-ranza – anche e in primoluogo religiosa – dei prin-cipî massonici, la Chiesaresta chiusa a riccio nellasua intransigenza. Nériesce a spiegarsi in qualemodo si siano perpetratetali “investigazioni” nellaMassoneria, se tramitedelatori o se, più semplice-mente, non si tratti dimemorie frutto di espe-rienze dei tanti prelati affi-liati ad essa, che continue-rebbero perciò a ordinare isacramenti in manieraquantomeno ambigua: ilproblema di fondo, certo, èil deismo di cui è pregnal’ideologia massonica. E unpunto del genere resta un ostacolo invali-cabile affinché le due istituzioni possanoentrare in simpatia. Ma questo fattore nonsembra, da solo, in grado di causare la rin-novata sfiducia accordata nei confrontidell’Ordine massonico: tanto più che neltesto appena citato si parla di “diligenteinvestigazione” riguardo tre precisi punti,ovvero la mentalità massonica, le convinzio-ni fondamentali della Massoneria, e il suolavorare nel tempio.

È pacifico che i primi due punti atten-gano a qualcosa di immanente alla stessaideologia liberomuratoria e, perciò solo,sarebbe vano attendere un cambiamentodi rotta. Tanto vano quanto pure è super-flua una “diligente investigazione” in

merito: ragion per cui appare più correttosottolineare quest’ultima – se non circo-

scriverla del tutto – inordine al terzo dei pun-ti, che attiene invece aduna sfera assolutamenteinterna e preclusa almondo “profano”.

Non è affatto raroche ex massoni, allonta-natisi dalla vita associa-tiva per le più svariateragioni, abbiano inseguito operato – tantoin buona quanto in malafede – una propagandaavversa all’Istituzioneda cui provenivano, ed èverosimile che da talecanale informativo laChiesa abbia potuto

attingere. Ma questo pas-saggio in più – dalla sfera civile a quellaecclesiastica – può essere più comodamen-te evitato, qualora si valuti che a compierelo stesso gesto possano essere stati Fratelli– tanto appartenenti ancora all’Ordinequanto non più attivi – già facenti partepure del clero. Non per questo i Fratelliprelati devono essere considerati delatoritout court. Parimenti, il contrario non puònemmeno essere escluso a priori. Ma che sitratti di delazione o meno, poco rileva,mentre rileva un altro dato da esaminarecon puntualità: è pienamente nelle facoltàdegli appartenenti al clero avvicinare – intutto o in parte – le idee massoniche. Lo è,però, da un punto di vista civile, laico, enon da quello ecclesiastico.

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Concludendo, il problema è se sia accet-tabile o meno – senza sindacare sull’accet-tabilità “morale” – che un prelato contrav-venga alle disposizio-ni canoniche perfar parte delle asso-ciazioni liberomu-ratorie e che utiliz-zi poi le conoscenzeconseguite in loggiaper attuare propa-ganda antimassoni-ca in costanza diaffiliazione o suc-cessivamente adessa. La legge dello Stato non vieta alcunodei suddetti casi; quella massonica viete-rebbe, al più, il boicottaggio in costanza diaffiliazione – sia a compierlo un prelato oun laico – mentre, al solito, a vietare qual-cosa sarebbe soltanto la normativa canoni-ca, alla cui luce l’intera questione appareviziata ab origine. Tale comportamentodeve essere, dunque, censurato dal solo

punto di vista della Chiesa, così come deveesserlo pure la conseguente utilizzazione,da parte della stessa, di informazioni otte-

nute fraudolentemente.Il problema, in fin dei

conti, è dei cattolici: allacoscienza di costoro toccarealizzare l’inaccettabili-tà della propria posizioneda parte dei vertici gerar-chici del proprio culto. Inbreve, la Chiesa cattolicasancisce lo stato di pecca-to grave in capo al fedeleche militi nelle associa-

zioni massoniche. La Massoneria, al con-trario, accoglie il fedele cattolico comechiunque altro. C’è da pensare che sia que-sta situazione a poter pesare sulla prossi-ma storia massonica (più che su quella cat-tolica), specie davanti a sentori di integra-lismi e radicalismi confessionali talvoltaavvertibili tanto nelle pronunce del cleroquanto tra la società civile.

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Riferimenti bibliografici essenziali

Berry, J. e Renner, G. (2006) I legionari di Cristo. Abusi di potere nel papato di Giovanni Paolo II,Roma.

Mola, A.A. (2001) Storia della Massoneria italiana. Dalle origini ai giorni nostri, IV ed., Milano.Suchecki, Z. (1997) La Massoneria nelle disposizioni del «Codex Iuris Canonici» del 1917 e del 1983,

Città del Vaticano.Suchecki, Z. (2000) Chiesa e Massoneria: Congregazione plenaria della pontificia commissione per

la revisione del codice di diritto canonico tenuta nei giorni 20-29 ottobre 1981 riguardante quin-ta questione speciale dedicata alla riassunzione del can. 2335 del codice di diritto canonico 1917,Città del Vaticano.

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Su viaggiatori massoni d’Europasensibili alle grazie di Bologna

di Davide MondaUniversità di Bologna

The Author describes Bologna from a “masonic” point of view; in particular He quotesthe experiences of some important European Freemason who were in Bologna duringthe XVIII° century.

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1. Preludio intorno a un fervido milieu

LLa decisione di Leopold Mozart diportare in Italia il giovanissimofiglio Wolfgang, che qualche lu-

stro dopo - riprendendo il titolo del felice,esemplare volume di Lidia Bramani - saràmassone e rivoluzionario d’ingegno super-bo, si colloca nella tradizione dei viaggi

“artistici”, che non avevano soltanto loscopo di conoscere e farsi conoscere, mapure quello di percorrere le strade delPaese dell’Arte per eccellenza. Leopold,tuttavia, affrontò un viaggio tanto lungo ecostoso anche per un’altra importanteragione: mai come nel Settecento, in tut-t’Europa, si era diffusa la passione per lamusica e i musicisti italiani, e Bologna era

Vado quasi ogni mattina a Casalecchio, passeggiata pittoresca alle cascate del Reno: è ilBois de Boulogne di Bologna; oppure alla Montagnola: lì si tiene il “corso” della città.

Stendhal, Roma, Napoli, Firenze, 1817

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nota, inter alia, come la patria del dottissi-mo Padre Martini e del celeberrimo castra-to Carlo Broschi, detto Farinelli.

Erano preceduti, nei paesi di linguatedesca, da giudizi lusinghieri sulla città,come questo del Keyssler:

Bologna vaconsiderata perla sua estensione,per la quantità dinobiltà, il nume-ro degli abitantie la sua operosi-tà, la migliore ela più ricca delloStato Pontificiodopo Roma. Lagrandezza è dicirca cinque-seimiglia italiane. E siccome è più lunga che lar-ga, assomiglia a un bastimento il cui pennoneè la Torre degli Asinelli. Si calcola che il nume-ro degli abitanti si aggiri attorno agli ottanta-novantamila… Gli abitanti hanno fama diessere teste sveglie, che brillano in società pervia delle loro idee spiritose, nonché dei bonmot uniti a frecciate satiriche. Verso il fore-stiero sono gentilissimi e, da quanto si puògiudicare esteriormente, sono alacri e diligen-ti nelle loro manifatture e come artigiani.

In un’epistola alla moglie, Leopold rac-conta il suo arrivo a Bologna - la sera del 24marzo 1770 - e la breve sosta presso l’Al-bergo del Pellegrino in via de’ Vetturini(l’attuale via Ugo Bassi), uno dei migliori epiù costosi della città, che i Mozart trova-no sovraffollata (Leopold scrive che vi sierano rifugiati più di mille Gesuiti) e conprezzi alle stelle.

La descrizione che ne dava il framasso-ne Giacomo Casanova, più volte ospite del-la seconda città dello Stato Pontificio, bencoglieva l’aspetto scenografico e pittoricodella settecentesca Bologna dei portici,degli immensi complessi conventuali, degli

imponenti palazzisenatori e dellafitta rete di canali,costellati di innu-merevoli opifici,quale appare nelgrande Disegno del-l’Alma Città di Bolo-gna di Filippo de’Gnudi che, nel1702, volle rap-presentare la cittàprecisamente come

sta, ossia in maniera quasi miniaturistica. La cura del disegno è rivolta soprattut-

to a rappresentarne la forma, l’organizza-zione degli spazi pubblici: vi sono raffigu-rati, fra l’altro, i grandi complessi conven-tuali in tutte le articolazioni di chiostri,cortili e pertinenze, i volumi delle chiese eaddirittura i palazzi più importanti, spessocon le relative corti interne.

Fino a tutto il XVI secolo sono oltremo-do utili, onde ricostruire la storia di Bolo-gna, gli scritti di eruditi locali e, forseancor più, quelli di stranieri che hannostudiato o insegnato nella sua Università.Disgraziatamente, tali fonti vanno sce-mando dalla metà del Seicento, in conse-guenza della ridotta funzione internazio-nale dello Studio, ma sono comunquesostituiti da una varia e copiosa letteratu-ra di viaggio.

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Il viaggiatore di puro diletto è la verafigura nuova di questo periodo, anticipatanel ‘500 da rarissimi casi: bastiqui citare il fortunato Journalde voyage di Michel de Mon-taigne. È stato autorevolmen-te osservato come questaimprovvisa e, per tanti aspet-ti, virtuosa “mania” del viag-giare rappresenti uno dei sin-tomi più vistosi della “crisidella coscienza europea”(riprendendo il titolo elo-quente del fondamentale,splendido libro di PaulHazard), ovverosia di quel-l’insofferenza sovente radi-cale verso le tradizioni e, nelcontempo, di quell’ardentedesiderio di mutamenti enovità sostanziali che predo-minano, in Europa, al tra-monto del Seicento.

Nel 1769, l’anno precedentel’arrivo dei Mozart a Bologna, uscì a Parigila seconda edizione della Description histori-que et critique de l’Italie dell’Abbé Richard, insei volumi. È la narrazione del viaggio chel’Abate aveva compiuto nel 1764, girandoper l’Italia un anno intero; questa cronacatoccava argomenti che altri avevano deltutto o quasi trascurati: i governi dei sin-goli Stati, le notizie storiche più importan-ti, il commercio, gli aspetti naturali, lapopolazione e, soprattutto, la vita quoti-diana e i costumi del popolo italiano, pas-sando magari dal gabinetto del ministro - dice-va - alla bottega del negoziante, al campo delcontadino.

Nel secondo volume dell’opera, l’eccle-siastico tratteggia la città e il territorio di

Bologna: con la sua col-locazione precisa nellapianura padana (longi-tudine e latitudine deiterritori delle cittàconfinanti) ci conducead una delle dodici por-te che fanno capo a stra-de lunghe, larghe, ornatedalle due parti da porticileggermente elevati sullivello della strada: rico-struiti da poco in manie-ra uniforme e di buonaarchitettura, sono digran comodità per poterpercorrere la città alriparo dal sole e dallapioggia, dalle vetture edalla polvere e dal fango.I portici impediscono

talora la veduta dei beipalazzi che adornano la città e le conferisconoun’aria uniforme. Ma la comodità ch’essi offro-no prevale su ogni altra considerazione; e conun poco di attenzione si nota che questa è unadelle meglio costruite città d’Italia.

L’occhio squisitamente veneziano delCasanova era attratto dal “colore” bolo-gnese, laddove l’abate parigino non potevanon soffermarsi sulle “forme” architetto-niche della città felsinea. Una definizione,comunque, non esclude certo l’altra. IlRichard accenna alla famosa forma urbisalbertiana della nave oneraria romana are-natasi nella pianura padana, i cui pennonisarebbero costituiti dalle due torri, e fa poi

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notare come la città sia circondata da murain mattoni, solide ed alte, senza fossati né forti-ficazioni. Ponendo menteal passato della città,l’ecclesiastico osservache questa è una dellecondizioni per cui s’è dataalla Santa Sede. In effet-ti, essa non ha permessoche, col pretesto di sicu-rezza, il Sovrano da leiriconosciuto avesse unposto fortificato in mododa dominare la città, e cheavrebbe potuto dar luogoad un governo arbitrarioanche contro quei privilegiche i cittadini si riservarono.

La prima sintetica ma significativadescrizione degli aspetti urbanistici (e nonsolo) della seconda città dello Stato Ponti-ficio si conclude con l’indicazione delcanale di Reno, che entra fra le mura occi-dentali, il quale è di grande utilità per prepa-rare la seta e tingerla, dato che quest’acqua hauna qualità particolare in ciò. A nord, infine,le mura sono bagnate dal piccolo torrente delSavena.

Come ben si può vedere, sono già statemenzionate alcune parole chiave che rias-sumono la storia e il modo di vivere diBologna: la “comodità” dei portici, l’im-portanza dell’“industria delle acque” con-vogliate e sapientemente sfruttate persecoli dai cittadini, la menzione dei “privi-legi” che rivendicavano continuamentequell’autonomia delle magistrature petro-niane dall’autorità espressa nel CardinalLegato. Il Richard, inoltre, fa menzione

delle circa duecento chiese, tutte arricchite diqualche quadro prezioso; molte di esse sono

ben costruite e riccamentedecorate e addirittura vi sitrova pure qualche buonascultura. La città possiedepoi diversi palazzi di bellacostruzione con preziosecollezioni della Scuolabolognese per cui, a ragio-ne, è considerata “le cabi-net des peintures d’Italie”.

2. Quattro liberi mentorid’Europa osservano e

dipingono Bologna

Diversi dei numerosi viaggiatori che,fra il Cinque e l’Ottocento, percorsero l’Eu-ropa, e specialmente l’Italia da nord a sud,diversamente dai viatores medievali dellaVia Francigena, si riproponevano di com-piere un vero e proprio pellegrinaggio cul-turale alla volta dei luoghi resi famosi dagliauctores della tradizione classica e del Rina-scimento, oltre che dall’incomparabile bel-lezza e varietà dei paesaggi.

Ma spesso quell’itinerario - come forseaccade ancor oggi ai turisti meno disat-tenti - rappresentava altresì una sorta dimetafora della vita, che inevitabilmentediveniva pure un percorso “di formazio-ne”, a tal segno che molti di quei perso-naggi, i quali (non dimentichiamolo) sisottoponevano a fatiche e disagi non indif-ferenti, sentirono il bisogno di fermaresulla carta - in diari, appunti, memorie,riflessioni et similia - le tappe salienti dei

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loro viaggi, dando così origine a un fortu-nato quanto atipico e fluttuante genereletterario.

Il Viaggio in Italia diMichel de Montaigne - ilgrande pensatore da piùparti stimato non solocome uno dei fautori del-la libertà di coscienza, maanche come uno dei piùoriginali e coinvolgentiprecursori della Masso-neria - dovrebbe venirconsiderato per molteragioni un classico toutcourt: quest’opera, infatti,rappresenta un arricchi-mento e un potenziamen-to dei Saggi, nonché unachiave di lettura di rara pregnanza con cuiaffrontare l’essenza complessiva dell’au-tunno del Rinascimento europeo. È notodel resto che letterati, filosofi e filologicontemporanei di respiro internazionalehanno sottolineato l’universalità e, di con-seguenza, l’attualità dell’avventura intel-lettuale e morale di Montaigne, conside-randolo fra i “padri nobili” indiscussi nonsolo della libertà del foro interno, maanche della tolleranza e dell’apertura alladiversità.

Le pagine distillate da quella mentelucidissima e vivace, che ha saputo narrar-si e discutersi con perspicacia e brillantez-za, hanno pochissimi termini di paragonenella produzione letteraria mondiale, esono state proficuamente soppesate daparecchi tra i filosofi e gli scrittori chehanno contribuito in maniera decisiva al

sorgere e all’affermarsi della riflessione edell’arte contemporanee. In verità, come

negare che Descartes, Pascal,La Fontaine, Shakespeare,Francis Bacon, Montes-quieu, Voltaire, Alfieri,Goethe, Stendhal, Cuoco,Giusti, ma altresì che - fra i“classici”, per diversi moti-vi, più vicini alla nostraStimmung - Leopardi, Scho-penhauer, Emerson, Nietz-sche, France, Gide, Butor,Tomasi di Lampedusa, Cec-chi, De Benedetti, Sciasciaet alii, debbano molto omoltissimo a quel saggiodei Saggi che, peraltro, nonsi reputava affatto saggio?

Intorno al 1580, questo geniale quantoinafferrabile maître à penser, che molte vociavvertono oggi prossimo all’inquieta con-dizione postmoderna, soffriva sì di un insi-dioso “mal della pietra”, ma trovava purenelle indubbie ragioni terapeutiche unottimo pretesto onde intraprendere unviaggio europeo intensamente desiderato:lo vediamo così spostarsi fra le più rino-mate stazioni termali dell’epoca, attraver-so la Francia, la Germania e infine l’Italia, esottoporsi con pur scettica diligenza allediverse cure allora possibili.

Il suo diario di viaggio, ora noto comeViaggio in Italia, non era destinato alla pub-blicazione: è redatto in buona parte - pocomeno della metà - da un accompagnatore(famiglio o segretario che fosse) di Montai-gne, di cui non conosciamo neppure ilnome, ma che indubbiamente non manca-

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va di adeguati strumenti culturali. A ciòs’aggiunga che lo stesso Montaigne, daLucca in poi, tenta di cimen-tarsi nell’uso della linguaitaliana, che dimostra disaper impiegare con unacerta, studiata familiarità.

Lo scrittore francesepossiede quella ch’è forsela dote principale del viag-giatore autentico, vale adire la consapevolezza dinon esser superiore a nes-suno: ama infatti adeguarsialle varie peculiarità terri-toriali, senza preconcettid’alcun tipo. Non a casoegli è stato definito da Gio-vanni Macchia “il maestrodel dubbio”, del dubbiointeso come antidoto per giungere allaverità circa il presente e il passato, deldubbio, ancora, che pervade le ombre e icontorni del futuro.

Montaigne, mentre viaggia, valuta evaglia tutto in libertà, non accettando giu-dizi schematici, stereotipi e luoghi comuni,nonché dimostrando una rara capacità dilettura della realtà sociale, politica e cultu-rale dei territori visitati, come quando, adesempio, si sofferma sulle discordie politi-che ch’erano sorte a Bologna fra chi par-teggiava per i Francesi e chi sosteneva gliSpagnoli. I suoi appunti di viaggio spazia-no dalla storia politica a quella delle men-talità, dalle vicende sociali all’ordine pub-blico, dai costumi alle idee, forse pure neltentativo, per dirla con Tzvetan Todorov,di comprendere per conquistare. Precor-

rendo i tempi, il Nostro parrebbe operaretalune ibridazioni che costituiscono ancor

oggi una sfida alla validitàmetodologica delle scienzeumane, e patrocinare, fral’altro, la coesistenzanecessaria della storia poli-tica e di quella sociale.

Nelle diverse città visi-tate, Montaigne ammirafontane e monumentimagnifici: a Bologna, la fon-tana del Nettuno e l’Archi-ginnasio - la scuola di scien-ze: il più bell’edificio che abbiamai visto adibito a quest’uso-,a Pistoia i giardini, a Fos-sombrone il parco del car-dinale d’Urbino. Apprezzaaltresì i portici di Ferrara e

di Padova, ma soprattutto quelli di Bolo-gna, che costituiscono una grande comoditàper poter passeggiare, con qualunque tempo, alcoperto e senza fango. A Roma ascolta lamessa di Natale prima in latino e poi ingreco, ed assiste con qualche curiosità adun esorcismo. Si reca poi presso numerosealtre basiliche e famosi santuari, comequello di Loreto, e a Verona incontra lacomunità ebraica, di cui visita la sinagoga.

Ma non mancano le osservazioni sulocande e pernottamenti - che, in diverselocalità italiane, non sono a suo parereall’altezza di quelle tedesche -, nonché suicomportamenti delle popolazioni; in parti-colare, i bolognesi, sempre attenti a salicarportici e strade, gli paiono ottimi teatranti,nell’ottica di una città che da tempo consi-derava il teatro come quel luogo di cresci-

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ta culturale ove manifestare anche il pro-prio engagement civile e sociale. Nel testo,ritroviamo altresì numerosi riferimentialle organizzazioni malavitose - i brigantispecialmente - presentiin Italia, che suscitanoin lui non poca appren-sione e preoccupazio-ne, così come vi si sco-prono curiose osserva-zioni sulle attrattivedelle donne italiane,che peraltro, in genera-le, non l’entusiasmanotroppo.

Come che sia, leesperienze italiane diMontaigne in quest’am-bito appaiono bendiverse da quelle rac-contate, nel notevolediario di viaggio, dal suo illustre concitta-dino Montesquieu, un secolo e mezzo piùtardi: il geniale politologo, in effetti, nondisdegnò davvero le grazie e le seduzionitanto delle nobildonne quanto delle corti-giane nelle città della nostra penisola.

Allorquando Montesquieu, signore diLa Brède e alto magistrato a Bordeaux,intraprende il grand tour che lo condurràattraverso l’Europa e l’Italia, ha trentano-ve anni ed è già assai noto per quelle Let-tres persanes (1721) che tanto interesse escalpore avevano provocato nei migliorimilieux intellettuali parigini.

L’occasione propizia per il viaggio gli siè presentata con l’invito dell’amico LordWaldegrave, diretto a Vienna in qualità diambasciatore di Giorgio II d’Inghilterra.

Ma la capitale degli Asburgo non lo entu-siasma, così come, peraltro, gli altri terri-tori del Regno, e decide perciò di ripartire.Verosimilmente, il Président è più attratto

da altri paesi - l’Italiainnanzitutto - ove lo gui-deranno non solo lememorie e i miti dellacultura classica, a lui bennota, ma pure il deside-rio di conoscerne de visule istituzioni ed i costumicontemporanei.

Durante tutto il viag-gio, Montesquieu è favo-rito dalle naturali capaci-tà d’adattamento, oltreche da quella sua spicca-ta “seduttività” che col-pisce positivamente lepersone che ha modo

d’incontrare. In tutti i luoghi del propriopercorso, raccoglie appunti su notizie dicarattere politico, finanziario, agricolo,industriale e commerciale, non disdegnan-do tuttavia le osservazioni di caratteresquisitamente “turistico”.

I viaggi d’Europa di Montesquieu - hascritto Giovanni Macchia - rispondono aquesto scopo: affermare il regno illuministicodel concreto, del vedere, dell’esperienza perrisalire al senso della causa: le cose, i fatti, leimprese, gli esempi, la concatenazione tra lecause e gli effetti che forma il flusso della sto-ria; e verificare con lo spirito del naturalista edello scienziato la geografia, il clima, l’econo-mia, il commercio, le famiglie, il carattere del-l’uomo e della società, tutte le esigenze di unmoderno sociologo.

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Il 16 agosto 1728, in compagnia di Hil-debrand Jacob, amico di Lord Waldegrave,egli giunge da Graz a Venezia, e per quellacittà straordinaria avverte subito senti-menti ambivalenti:c’è la fascinazione,ma insieme ancheil disprezzo neiconfronti di unoStato ove libertà edissolutezza ven-gono spesso acoincidere. Intro-dotto nella buonasocietà dall’abatepadovano AntonioConti, visita imonumenti e le isoledella laguna, ma è specialmente colpito dalgran numero delle prostitute e dalla liber-tà con cui le si frequenta, o addirittura le sisposa.

A Venezia, però, Montesquieu è toccatopure da una specie di “rivelazione” delcosmo dell’arte, di quella particolarissimaarte veneziana che per un attimo lo di-sorienta, tradendo forse, come ha osserva-to una volta Jean Ehrard, lo smarrimento diun occidentale trasportato bruscamente in pie-na Bisanzio.

È diretto a Roma, ma, paventando il cal-do della lunga estate romana, stabilisce dipassare prima per Milano, ove giunge il 24settembre ed ha subito accesso ai salottidell’alta società, colta e sovente illuminata,a cominciare da quello di Clelia Grillo,moglie del Conte Borromeo, la quale parladiverse lingue, è versata nelle scienze, enon manca di farlo accompagnare alla

Biblioteca Ambrosiana. Nel suo palazzos’incontrano non soltanto aristocratici edintellettuali dediti alle scienze, ma purerappresentanti della “fronda” antiaustria-

ca (e filospagnola).Conosce, fra gli altri,

i prìncipi Trivulzio:Montesquieu s’invaghi-sce ben presto della bel-la principessa, com’èattestato da due lettereappassionate: Milano èdavvero la “sua” città,tanto che, appena arri-vato, si sentì, come acca-drà a Stendhal, già del tut-to lombardo, ha scritto

da par suo Giovanni Mac-chia. A Milano, poi, comincia ad appassio-narsi alla musica italiana, che trova meno“rigida” e artificiosa, e di gran lunga piùcommovente, di quella francese.

Lasciato il capoluogo lombardo, giungea Torino il 23 ottobre, ma l’atmosfera cupae poliziesca che si respira a corte e in tuttoil piccolo stato subalpino (qui anche i muriparlano) non aggrada al signore di La Brè-de, che presto si sposta a Genova, e di lì aPisa, dove visita i cantieri navali e manife-sta un’impressione complessivamentebuona circa l’amministrazione del Grandu-cato di Toscana.

Di Firenze ammira poi le straordinarieopere d’arte, ma apprezza altresì la sobrie-tà e la misura della vita quotidiana degliabitanti, uomini e donne, e di queste ulti-me sottolinea la bellezza e la semplicitàdelle acconciature, anche nelle occasionimondane.

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Da Firenze passa a Roma: vi giunge il 19gennaio 1729; da appassionato studiosodella storia romana qual è, non può nonrilevare la decadenza, lemeschinità e, general-mente, le gravi piaghesociali e morali che afflig-gono l’Urbe nei suoi gior-ni. Frequenta nobili e car-dinali, ma si reca assidua-mente anche a teatro edall’opera, dove può ascol-tare i virtuosismi difamosi castrati. I circa seimesi che Montesquieutrascorre nella città eter-na rappresentano unperiodo tutto sommatofelice, ma anche assaiproficuo per le sue cono-scenze storiche ed artistiche: visita rovine,palazzi, chiese, e legge assiduamente testidi storia dell’arte per meglio comprenderel’opera di Raffaello, ma anche di GuidoReni (“il Guido”) e dei Carracci.

Per qualche tempo, poi, si trasferisce aNapoli, che ammira per le bellezze natura-li e monumentali, né manca di assisterealla famosa liquefazione del sangue di SanGennaro, dinanzi alla quale mostra una tol-lerante e perspicace saggezza, compren-dendone l’ineffabile, efficacissimo signifi-cato consolatorio per la popolazione.

Rientrato a Roma verso l’11 maggio, etrascorse alcune settimane ai Castelli, il 4luglio decide di ripartire, questa volta ver-so nord: attraverso l’Umbria e le Marche,raggiunge Rimini. La Romagna gli apparebellissima, con le sue città ordinate e ben

edificate sul tracciato voluto e realizzatodagli antichi Romani. Proseguendo poiverso occidente, il 9 luglio il Président è a

Bologna. Reca con sé impor-tanti credenziali per ilCavalier Pecci, maestro dicamera del Legato pontifi-cio della “seconda” cittàdello Stato della Chiesa,Giorgio Spinola, presso ilquale pranzerà il giorno 13.

Secondo il suo solito,visita monumenti e palazzigentilizi, dei quali ammiranon di rado le scalinate e gliscaloni d’onore: lo colpisco-no oltremodo le scale ardi-tamente scenografiche dicasa Legnani e di palazzo

Ranuzzi, nonché quelle deipalazzi Caprara e Pepoli. A Bologna, inve-ro, il philosophe si trova dinanzi a strutturearchitettoniche che disegnano stupefacen-ti spirali nell’aria, a meraviglie strabiliantid’invenzione e di sorpresa, di calcolo e d’e-quilibrio, come ha sottilmente indicatoGiovanni Macchia. Montesquieu ammirainoltre famosi dipinti dei Carracci, legge lafortunata Felsina pittrice (1678) di CarloCesare Malvasia e, visitando con Monsi-gnor Lante l’Istituto delle Scienze, rivelauno spiccato interesse per le sezioni con-sacrate all’arte militare, all’astronomia ealla storia naturale.

Successivamente, dopo brevi soggiornia Modena e a Parma, prosegue per Manto-va, Verona, Rovereto, raggiungendo infineTrento, ove si conclude il suo itinerario ita-liano, durante il quale egli ha acquisito - è

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indubbio - una varia e vasta messe d’infor-mazioni e stimoli culturali, di cui saprà fartesoro nelle grandi opereposteriori: si allude, ça vasans dire, alle Considerazio-ni sui Romani (1734) e alloSpirito delle leggi (1748).

Il 31 luglio 1729, lasciadunque l’Italia e, nei tremesi seguenti, percorrela Germania e i Paesi Bas-si. Il 31 ottobre parte dal-l’Aja alla volta dell’Inghil-terra sullo yacht dell’am-basciatore Lord Chester-field: il viaggio e il suc-cessivo lungo soggiornoinglese, peraltro, sonodocumentati soltanto dauna dozzina di pagine delle sue Note sull’In-ghilterra.

Giunto a Londra il 3 novembre, vieneben presto introdotto a corte dagli amiciWaldegrave e Chesterfield, e principia afrequentare i milieux intellettuali e politicidella capitale. Stringe amicizie special-mente fra i Tories ed assiste a qualche sedu-ta del Parlamento. Per Montesquieu, quel-lo londinese è, in generale, un ambientestraordinariamente fervido e stimolante,tanto da giustificare il suo lungo soggior-no. Il 12 febbraio 1730 diviene membrodella gloriosa, strapotente Royal Society, edil successivo 16 marzo il British Journal dànotizia dell’avvenuta sua affiliazione allaMassoneria, nel corso di una sessione diLoggia presso la Horn Tavern di Westmin-ster, alla presenza del Gran Maestro, ilDuca di Norfolk. Tale affiliazione sembra

ben rappresentare, anzi coronare la natu-rale evoluzione di talune sue idee predo-

minanti, specie a seguitodel suo pieno inserimentonel serrato dibattito cultu-rale e politico d’Inghilter-ra. Montesquieu farà ritor-no in Francia solo nellaprimavera del 1731, dopoun grand tour durato quasiquattro anni.

Prima di ragionare sul-le acute ed ancora coinvol-genti osservazioni cheGoethe consacrò a Bolo-gna, giova forse citarequalche riga - generalequanto esemplare - di

Albano Sorbelli, tolta dal suomemorabile, pionieristico lavoro su Bolo-gna negli scrittori stranieri (1927-33):

Di Giovanni Volfango Goethe, il più grandepoeta tedesco e uno dei maggiori di tutti itempi, non è certo il caso di parlare qui. Cilimitiamo a dire qualche parola del suo viag-gio in Italia, che ci interessa direttamente, e amettere in rilievo il grande amore che ebbeper questa terra della luce e del sole, dallaquale trasse la ispirazione per le maggiori sueopere.

Consideriamo allora il celebre Viaggio inItalia (1786) di Johann Wolfgang Goethe,che costituisce senz’altro il magnifico e,per certi versi, toccante distillato di unadelle esperienze che più incideranno sullasua lunga quanto prodigiosa parabolacreativa ed esistenziale. Dopo esser passa-to per Ferrara, che trova grande e bella, ma

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spopolata, ed aver visitato Cento, patriadell’amatissimo Guercino, il grande poetatedesco giunge infine a Bologna, ove si fer-ma solo un paio di giorni,ma ha comunque modod’estasiarsi dinanzi allaSanta Cecilia di Raffaello,così come d’osservarecompiaciuto la vita cit-tadina che ferve intornoa lui.

Verso sera - annotanon senza vivido tra-sporto - finalmente misottrassi a questa vecchia,rispettabile e dotta città, alle sue folle di genteche, protette dal sole e dal maltempo grazie aiportici fiancheggianti quasi tutte le vie, pos-sono andar su e giù, attardarsi a curiosare, farcompere e badare agli affari. Salii sulla torre,chiedendo ristoro all’aria pura. Che meravi-glioso panorama! A nord si vedono i colli pres-so Padova, più in là le Alpi svizzere, tirolesi efriulane, insomma l’intera catena settentrio-nale, che oggi però era coperta di nebbia. Ver-so ponente un orizzonte sconfinato, ove spic-cano solo le torri di Modena. Verso levanteuna pianura uniforme fino all’Adriatico, che,al levar del sole, diventa visibile. Verso sud lecolline preappenniniche, coltivate e coperte diverde fino alle cime, popolate di chiese, dipalazzi, di ville, come i colli vicentini. Il cieloera purissimo, senza la più piccola nube; soloal suo ultimo confine saliva un velo di foschia.

Incuriosito dal singolare fenomeno,continua poi così:

Il torriere m’assicurò che ormai da sei anniquella nebbia non scompariva dall’orizzonte;

prima, col cannocchiale, egli poteva distin-guere benissimo le colline di Vicenza con leloro case e chiese, mentre adesso, anche nelle

giornate più limpide, vi riuscivararamente. È questa nebbiache, fermandosi di preferenzasul versante settentrionale del-la catena, fa della nostra carapatria la vera terra dei Cimme-ri. Mi fece pure notare, a provadella buona posizione e dell’a-ria salùbre della città, che i tet-ti sembravano ancora nuovi,con le tegole senza la minimatraccia di muschio o di umidi-tà. Va riconosciuto che i tetti

sono davvero puliti e belli, maforse vi contribuisce in parte anche la bontàdei laterizi, che in questa regione, almeno neitempi antichi, venivano prodotti con eccellen-ti metodi di cottura.

Goethe, sempre più innamorato dellaclassica regolarità, non apprezza affatto,inter alia, le torri pendenti, ed esprime orerotundo un certo suo disappunto estetico:

La torre pendente è bruttissima da vedere,e tuttavia è molto probabile che sia statacostruita così a bella posta. Mi spiego questastravaganza nel modo seguente: ai tempi deitorbidi cittadini, ogni grande costruzione eracome una fortezza, sulla quale ogni famigliapotente erigeva una torre. Con l’andar deltempo l’usanza prese un significato di lusso edi prestigio; ciascuno voleva far pompa anchedi una torre, e quando le torri diritte diventa-rono troppo comuni, se ne costruì una inclina-ta. E in verità l’architetto e il proprietariohanno raggiunto il loro scopo: l’occhio sorvolasulle molte torri diritte e slanciate e cercaquella storta.

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Conclude poi così:

Più tardi saliianche su questa. Glistrati di mattonisono collocati oriz-zontalmente. Con uncalcestruzzo che fac-cia ben presa e conchiavarde di ferro, siposson fare anchedelle strampalerie.

Interessato moresolito pure alle novità mineralogiche ebotaniche che la diversità di ogni paese glipuò offrire, trova persino il tempo di com-piere una cavalcata a Paderno, ove si trovala cosiddetta pietra di Bologna o spato pesante,che serve a preparare quelle piccole forme che,calcinate e messe in precedenza alla luce,diventano brillanti al buio, e che qui vengonochiamate semplicemente fosfori.

Ma le mète agognate e sognate da que-sto protagonista inconcusso delle lettered’Europa sono innanzitutto Roma e l’Italiamediterranea, in specie per le infinitememorie e suggestioni classiche cheriescono a suscitare in lui: il rimpianto del-l’antico costituisce una sorta di fil rouge ditutto il suo Viaggio in Italia, non diversa-mente, peraltro, da buona parte della piùinteressante produzione di tal genere ver-gata nel periodo neoclassico.

Fra le tappe del suo lungo, ponderatoitinerarium mentis et cordis, durato quasi dueanni, è la Sicilia - probabilmente - la terraove crede di scoprire quella connessioneinscindibile fra il mondo naturale e quellospirituale, che aveva ipotizzato a sèguito

dei suoi studi sulla Kabbalah, risalenti giàagli anni di Francoforte e di Strasburgo, ed

ai tempi della propria ade-sione alla Massoneria spi-ritualista di Boheme.

Ad avviso di Goethe,l’ingenuità pagana, lanaturalezza della vita deipopoli del Sud rappre-sentano la felicità, l’inte-grità effettiva. D’altron-de, come ha magistral-

mente osservato ThomasMann in un saggio per più ragioni memo-rabile (Goethe. Una fantasia), l’esperienza e ilrisultato del suo soggiorno in Italia fu […]appunto il fondersi e l’unificarsi dei concetti di“classicità” e “natura”, per cui, come ebbe adire più tardi, «il fanciullo sino a quel tempoimpacciato e impaurito poté in completa liber-tà riprendere fiato».

Non si può invece parlare semplice-mente di “viaggio in Italia” a proposito diStendhal, il quale, circa una settantinad’anni dopo il Président Montesquieu, scesein un primo tempo nella nostra penisolacon le armate napoleoniche - prima comeufficiale della Repubblica, quindi comedragone dell’esercito imperiale - e delibe-rò poi di stabilirvisi, ricoprendo diversiincarichi istituzionali per gran parte dellasua vita.

Affiliato alla Massoneria del GrandeOriente di Francia (fondato nel 1772) comemolti degli ufficiali napoleonici, con l’av-vento della Restaurazione Stendhal vienecollocato dai Borboni a Milano, in una sor-ta di riposo forzato. Egli la conosce commeil faut, ne ama la vita mondana, l’atmosfera

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culturale, le donne, sin da quando, ai primidel secolo vi è giunto con l’armata france-se trionfante; Milano, delresto, rimarrà - è noto-rio - la sua patria d’ele-zione per tutta la vita,pure quando verrànominato Console diFrancia a Civitavecchia.

D’altro canto, con-viene precisare che ilsuo amore assoluto perl’Italia non è affatto cie-co, e neppure idealiz-zante: nelle sue opere -da Roma, Napoli e Firenzealle Cronache italiane edai grandi, immortali romanzi - lo scrittorene evidenzia, fra l’altro, la ben scarsa incli-nazione verso le istituzioni civili e politi-che; questo fatto, nondimeno, pare quasigarantirgli una sorta di verginità di ritor-no: l’Italia, difatti, viene da lui veduta e vis-suta come un luogo insieme materiale edell’anima in cui ritornare dopo l’insucces-so della grande illusione napoleonica,come un rifugio ristoratore e vivificanteove cercare quell’autenticità così irrime-diabilmente compromessa dai ciechi, ine-sorabili meccanismi della storia contem-poranea.

Al viaggiatore di Grenoble, peraltro,non sfuggiva certo come tale natura liberae incondizionata dello spirito italico, inassenza di un preciso progetto politico,rischiasse di degenerare in una condizioned’irrazionalità e d’anarchia oltremodopericolosa.

Le considerazioni e osservazioni - ha scrit-to Carlo Levi in una memorabile, intensa

prefazione alla miglioreedizione italiana diRoma, Napoli, Firenze - sul-le arti, sulla musica, l’ar-chitettura, la pittura, la let-teratura di allora, collegatecome sono a un senso com-plessivo della vita, delcostume, e del valore deter-minante delle condizionipolitiche, ci toccano ancoraoggi, come problemi vivi.

A Bologna - ove sitrattiene dalla fine deldicembre 1816 al 18 gen-

naio 1817 - Stendhal èimmediatamente - e, vorremmo dire, qua-si inevitabilmente - colpito dagli aspettipeculiari e, forse, più suggestivi della città:dalla collina di Villa Aldini ai portici e alletorri (in primis, ancora, la pendente, curio-sa Garisenda); da San Domenico alle prin-cipali collezioni d’arte, ove ammira le ope-re dei Carracci e di Guido Reni; dalla Certo-sa alla basilica di San Luca, col suo lunghis-simo, intrigante porticato.

Posta nel punto d’intersezione degli itine-rari del viaggio in Italia - nota Attilio Brillinello splendido e, per certi versi, illumi-nante ultimo suo volume sul Viaggio inItalia (2006) -, rinomata ovunque per l’uni-versità, le raccolte scientifiche, le accademie ela tradizione artistica, Bologna è una cittàamata e goduta, più che esaltata, dagli stra-nieri. I motivi del suo fascino discreto maduraturo sono diversi da quelli che caratteriz-zano altri centri famosi. Anzi, la mancanza

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delle fatidiche Ruinen, così care agli amantidella classicità, fa risaltare con maggiore evi-denza la città nella sua for-ma più vivace e confor-tevole. […] Non è uncaso, d’altronde, che neicarnets de voyage dimoltissimi viaggiatori,come in quello dei Gon-court, Bologna abbiauna sua familiare ricor-renza nell’immagine disintesi, o skyline, delledue torri sghembe.

Ma la curiosità el’interesse di Stendhalsono rivolti, in partico-lare, alla società bolognese. Le lusinghierelettere di presentazione fornitegli dagliamici di Milano lo introducono agevol-mente nei salotti dell’aristocrazia locale,nei quali ha modo di osservare e registrarecostumi e consuetudini di nobili e nobil-donne, e specialmente atmosfere e atteg-giamenti che trova, per lo più, assai diffe-renti da quelli milanesi. Stendhal attribui-sce siffatta diversità in gran parte alla pre-sente moderazione del governo pontificio,che consente una discreta indipendenza,libertà di parola e di maniere, almeno incerti ambiti, talché giunge ad osservareche Bologna è una delle città dove più difficileè l’ipocrisia.

Tale libertà d’espressione è, per lo scrit-tore di Grenoble, analoga a quella di Lon-dra, ma dotata di un brio ben più spiccato!Gli paiono poi meno marcate le differenzesociali rispetto ad altre realtà italiane, secorrisponde al vero, fra l’altro, che la mas-

sima autorità dello Stato pontificio, Pio VII,era figlio di un ciabattino. Trova altresì che

i caratteri delle personesiano in genere piùaperti, quantunque evo-chi sempre con strug-gente nostalgia la dol-cezza e la naturalezzadei milanesi, e in specialmodo delle donne diquella Milano che fin dasubito, quasi per singo-lare magia, era divenutala sua città d’elezione.

Stendhal osserva chea Bologna le pompe

ecclesiastiche risultanoalquanto noiose e che, nei salotti, occorresuperare una certa diffidenza e resistenza,evitando soprattutto di “fare dello spirito”alla francese, e di mostrare affettazione neimodi. Pure nel far la corte a una signora èindispensabile rispettare alcune usanzeche gli paiono alquanto curiose, come, adesempio, quella di mostrare particolareattenzione, per alcuni giorni, soprattuttoverso l’amante di lei... Ma, sopra ogni altracosa, bisogna assolutamente evitare lanoia: non a caso Stendhal si stupisce chenella città petroniana nessuno si sentaobbligato a fare “visite di dovere”.

Egli incontra, fra gli altri, anche il Car-dinal Legato Lante, col quale disquisisceamabilmente di donne e di costumi, in uncontesto che gli risulta meno “francesizza-to” rispetto a quello di Milano: in ognicaso, l’alta società bolognese gli appare piùlegata al governo di quella milanese. È purvero che, per far fortuna nello Stato della

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Orientamenti bibliografici essenziali

Testide Montaigne, M. (2003) Viaggio in Italia. Introduzione di G. Greco. Traduzione e note di E.

Camesasca, Milano, BUR.Montesquieu, (2008) Viaggio in Italia, a cura di G. Macchia e M. Colesanti, Roma-Bari, Laterza.Goethe, J.W. (2007) Viaggio in Italia. Traduzione di E. Castellani. Commento di H. von

Einem, adattato da E. Castellani. Prefazione di R. Fertonani. Con uno scritto di H. Hes-se, Milano, A. Mondadori.

Stendhal, (1990) Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria. Prefazio-ne di C. Levi. Traduzione di B. Schacherl. Illustrazioni a cura di E. e G. Crea, Roma-Bari,Laterza.

Chiesa, occorre avere il favore di qualcheprelato, o comunque diuno dei numerosissimiecclesiastici, sempreusando, tuttavia, lamisura e la discrezionepiù accorte.

Fra i cittadini più illu-minati, quali il signorDegli Antonj, egli puòriscontrare il tentativodi ottenere dal governolibertà e rappresentativi-tà maggiori, ma non glisembra, realisticamente,che se ne possano scor-gere le premesse nel-l’ambiente, ove il poteretende al tradizionalissi-mo quieta non movere.Raggiunta Civitavecchia nel 1831, Stendhalcerca di soggiornarvi il meno possibile,soffocato com’è dal governo reazionario

del Papa, e fa spesso ritorno in Francia. L’I-talia l’aveva conquistato

con la sua storia, l’artee soprattutto la musi-ca: de facto, soltantodopo il crollo di Napo-leone e il ritorno deiBorboni, nonché dopoil disastro finanziarioda lui patito, il nostroPaese aveva assunto -ai suoi occhi - quelruolo consolatorio econfortante che unica-mente la sua indoleaffatto incondizionatapoteva assicurargli. Ilperiodo 1814-21 avevarappresentato, per lui,l’estrema possibilità di

realizzazione personale, e il milieu roman-tico milanese l’ultimo possibile catalizza-tore di tale processo virtuoso.

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Stendhal, (2007) Cronache italiane. Introduzione di L. Binni. Traduzioni di L. Binni, S. Mar-tini Vigezzi, L. Prato Caruso, Milano, Garzanti.

Studi Bramani, L. (2005) Mozart massone e rivoluzionario, Milano, Bruno Mondadori.Brilli, A. (2008) Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (2006), Bologna, il

Mulino.Chiusano, I.A. (1994) Vita di Goethe (1981), Milano, Rusconi.Del Litto, V. (1974) Stendhal vivente (1965), a cura di C. Cordié, Milano, Mursia. Desgraves, L. (1994) Montesquieu, Napoli, Liguori.Ferri, A. e Roversi, G. (2005) (a cura di), Storia di Bologna, Bologna, Bononia University

Press.Greco, G. (2007) Montaigne. Un umanista sui generis per il terzo millennio, Napoli, Liguori.Hazard, P. (2007) La crisi della coscienza europea (1935). Introduzione di G. Ricuperati. Tra-

duzione di P. Serini, Torino, UTET.Mann, T. (1997) Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di A. Landolfi. Con un saggio di C.

Magris, Milano, A. Mondadori, “I Meridiani”.Matteucci, A.M. (1969) Carlo Francesco Dotti e l’architettura bolognese del Settecento. Prefazio-

ne di F. Arcangeli. Foto di P. Monti, Bologna, Alfa.Petroni, L. et alii (1976) (a cura di), Stendhal e Bologna, Bologna, Graficoop, 2 voll. Sorbelli, A. (2007) Bologna negli scrittori stranieri (1927-1933), a cura di S. Ritrovato, Bolo-

gna, Bononia University Press.Starobinski, J. (2002) Montesquieu (1953-94), Torino, Einaudi.

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* Per gli “Incontri Internazionali del Servizio Biblioteca del Grande Oriente d’Italia” sabato 27settembre 2008 presso Villa “Il Vascello”, la Direttrice della Biblioteca e del Museo della Gran LoggiaUnita d’Inghilterra, Diane Clements, ha tenuto, per la prima volta in Italia, la conferenza dal titolo LaMassoneria e l’impresa del Music Hall, a cui sono intervenuti lo storico Lucio Villari, il musicista Bruno Bat-tisti D’Amario, gli attori Gianluca Guidi e Achille Brugnini, e il Gran Maestro Gustavo Raffi. Siamo gratialla relatrice per aver acconsentito alla pubblicazione della conferenza sulla Rivista Hiram.La Dot.ssa Laura Cespa ha curato, per conto del Servizio Biblioteca del Grande Oriente d’Italia, latraduzione della presente relazione. © Diane Clements. Nessuna parte di questo testo può essereriprodotta senza l’autorizzazione dell’Autrice.1 The Freemason’s Chronicle, 11 gennaio 1896.2 Peter Bailey, “Holland, William (1837-1895)”, Oxford Dictionary of National Biography, Oxford Uni-versity Press, Sett. 2004; edizione online, maggio 2006 [http://www.oxforddnb.com/view/article/56194,visitato il 26 marzo 2007].

“AGITE SULLA SQUADRA, RAGAZZI! SIATE RETTI!” La Massoneria e l’Impresa del Music Hall*

di Diane ClementsDirettrice della Biblioteca e del Museo della Gran Loggia Unita d’Inghilterra

Music hall was the most popular theatre form of the nineteenth century. The involve-ment of the theatrical profession with freemasonry dates back to the earliest years ofthe Grand Lodge system in the eighteenth century and the tradition continued amongstthe performers, managers and proprietors of the music halls. Music hall has beendescribed as a “socially intensive industry” (Peter Bailey) and this paper will explore therole that freemasonry played in the social networks and careers of a number of musichall entrepreneurs, its importance in the development of their business and in thegrowth of music hall itself.

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NNel gennaio del 1896, a Black-pool, una folla di diverse migli-aia di persone partecipò al

funerale del General Manager del com-plesso ricreativo di Winter Gardens. Alcorteo si unirono personaggi locali dispicco, il sindaco e la corporazione,nonché una nutrita rappresentanza dimassoni del luogo, e la cerimonia al cam-

posanto si svolse con i riti massonici alcompleto1. Si pensò addirittura di erigereun monumento alla sua memoria. Fu unafine spettacolare, quale si meritava, quel-la di William Holland, uno dei primiuomini di spettacolo ed impresari delmusic hall, che amava definirsi “l’Impera-tore di Lambeth” e “l’uomo che si prendecura della gente”2.

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Sono stati gli esecutori e le loro rappre-sentazioni l’oggetto principale degli studisull’evoluzione delmusic hall britannico,ovvero di ciò che inAmerica verrebbe defi-nito vaudeville. WilliamHolland svolse un ruo-lo importante nel darforma allo star systemche rese famosi questiesecutori. Nel 1868 sot-toscrisse un contrattocon George Leybourneper costruire il suopersonaggio: Champa-gne Charlie, un uomo dimondo, sicuro di sé, più che mai avido dichampagne e donne ammiccanti. In base alcontratto, egli doveva “ogni giorno e inqualsiasi momento e in ogni luogo, quandogli fosse richiesto, fare la sua comparsa suuna carrozza trainata da quattro cavalli,guidata da due postiglioni, ed in compa-gnia dei suoi stallieri3”. Ma, come osservaAndrew Crowhurst, “la creatività artisticadegli esecutori risalta molto meglio delcontesto e dei limiti in cui essi operavano,anche se, ovviamente, la tipologia deglispettacoli del music hall dipendeva in egualmisura tanto dalle capacità organizzative e

dagli interessi commerciali di coloro che ligestivano, quanto dal talento creativo

degli artisti”4.

L’origine del musichall va ricercata nell’in-trattenimento offertonei bar saloon dei localipubblici negli anni ’30,che avevano a loro vol-ta preso il posto deglispettacoli campestri acui si assisteva durantele fiere tradizionali e diquelli che si svolgevanoall’aperto intorno alle

città, la cui popolaritàscemò con lo sviluppo urbano e con ilmutare del gusto.

Il saloon era una sala in cui, con unbiglietto d’ingresso o una maggiorazionedella consumazione al bar, si assisteva aspettacoli di canto, danza, tragedie o com-medie. Il saloon di Londra più rinomato delprimo periodo fu il Grecian Saloon a TheEagle, City Road (menzionato nella fila-strocca Pop Goes the Weasel)5. Fra le altresale dove si cenava con intrattenimentomusicale vanno ricordate Evan’s a CoventGarden e il Coal Hole nello Strand.

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3 Andrew Crowhurst Big Men and Big Business: The Transition from “Caterers” to “Magnates”,in British Music Hall Entrepreneurship 1850-1914, Nineteenth Century Theatre Vol. 25 (1997), p. 33-59.4 Crowhurst, op. cit.5 Freemasons’ Quarterly Review (1853) (pag. 702) riferisce l’esito di una serata di beneficenza falli-ta, tenuta presso il Grecian Saloon, City Road, gestito da “Brother Conquest”, presumibilmente OliverConquest, manager dal 1851 al 1872. “Bro Keast” della Star Tavern, City Road, consentì all’associazionebenefica di usare quella sala.

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Sulla scia di questa tradizione, il musichall si diffuse a partire dal 1850 nei localipubblici. Il pubblico del musichall si sedeva al tavolo, dovepoteva bere (e mangiare)durante lo spettacolo, a diffe-renza di quanto succedevanel teatro, dove il pubblicosedeva in platea ed il bar eraubicato in una sala separata.Benché il ruolo di CharlesMorton quale “padre” delmusic hall ed il predominio diLondra nello sviluppo delconcetto stesso di music hallsiano stati rimessi in discus-sione dalle ultime ricerche6,l’inizio della carriera di Char-les Morton ci aiuta a capirel’evoluzione del music hall.Morton fece il cameriere, epoi l’oste e il locandiere pres-so diverse taverne, prima di acquista-re, nel 1848, il Canterbury Arms, che si tro-vava oltre il distretto tradizionale dei tea-tri, all’angolo fra Upper Marsh e Westmin-ster Bridge Road, a Lambeth, riva sud delTamigi. Qui, accanto alla pista dei birilli,aprì un nuovo locale - che inaugurò nelmaggio del 1852 - dove si esibiva una dellestar del momento, Sam Cowell, con la suapopolare canzone The Ratcatcher’s Daughter.Negli intervalli fra un artista e l’altro, Mor-ton serviva agli spettatori patate arrostite.

Nei 30 anni successivi, Morton ed altri“osti impresari”, come furono definiti, par-

teciparono attivamente allagestione del music hall in tuttii suoi aspetti. Poi la strutturadell’attività iniziò a cambiare.Si cominciarono a costruirelocali più ampi, ed i compensidegli artisti più famosi lievi-tarono. Le compagnie deimusic hall si diedero lo statusdi società a responsabilitàlimitata per poter avereaccesso a quote di capitalesempre maggiori, necessarieper metter su i locali. Le com-pagnie si riunirono poi inconsorzi, che acquistaronoun gran numero di teatri, siaa Londra che in provincia, ilpiù conosciuto dei quali era ilMoss’ Empires Limited, fon-

dato da Oswald Stoll ed EdwardMoss, che nel 1905 arrivò ad essere pro-prietario di trentacinque teatri.

Peter Bailey ha così individuato le carat-teristiche dei pionieri del music hall: spessoacquistavano la proprietà dei locali chegestivano dopo aver fatto esperienza nelmondo del teatro o, più spesso, in quellodel commercio7. Elemento fondamentaledel loro successo erano la promozione per-sonale ed il lusso del locale. Quando arredò

6 Dagmar Kift, The Victorian Music Hall: culture, class and conflict, Cambridge, 1996, p. 21.7 Peter Bailey, Business and Good Fellowship in the London Music Hall in Popular Culture and Perfor-mance in the Victorian City, Cambridge, 1998, p. 82 (qui di seguito citato come Good Fellowship).

Charles Morton

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uno dei suoi locali con un costoso tappeto,William Holland così invitò il pubblico:“Venite a sputare sul tap-peto di Billy Holland, chevale mille guinee”8. Nellocale di Canterbury,Morton allestì una galle-ria d’arte, con quadri sti-mati £ 10,000. I pub ed imusic hall di questoperiodo attiravano ancheperché rappresentavanoun’alternativa a condi-zioni di vita povere dispazio e di piaceri.

“Luce, calore, pasti cal-di, arredo, giornali e socievolezza … spessoerano alla portata dei poveri solo nei loca-li dove si andava a bere”9. Se è vero che lacondizione delle abitazioni conobbe unsignificativo miglioramento nel corso deldiciannovesimo secolo, il critico JohnRuskin nel 1877 poteva ancora dire aglioperai: “se fossi al vostro posto, berrei finoa farmi morire nel giro di sei mesi, nonavendo nulla che mi diverta”10.

Disporre di un arredo lussuoso voleva

dire dover investire ingenti capitali peravviare un locale di music hall. “Chiunque

prenda un locale”, ammonivaun giornale per commercianti“dovrà essere dotato di un belpo’ di quattrini”11. Tracy Davisha calcolato che l’investimentomedio necessario ammontavaa circa £ 22,00012, e in un dibat-tito della Camera dei Lord del1875 si legge che gli investi-menti in teatri e music hall ave-vano raggiunto la cifra com-plessiva di £ 1,000,00013. Ventianni prima, Morton avevaampliato il Canterbury Music

Hall, che poteva ora ospitare1.500 persone, spendendo £ 25,000 senzaconsiderare il valore dei quadri della pina-coteca. Un altro dei primi proprietari dimusic hall, John Wilton, rinnovò il suo loca-le (che esiste tuttora) nel 1859, per unacifra pari a £ 20,00014.

Finanziare programmi di intratteni-mento con la partecipazione di uomini dispettacolo spesso molto esigenti e, in talu-ni casi, retribuiti al pari degli impiegatistatali15 e provvedere allo stipendio del

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8 Bailey, DNB op. cit.9 Brian Harrison, Drink and the Victorians, Keele, 1994, p. 47 in merito agli anni ’20 del 1800.10 Citato da Fors Clavigera di Ruskin in Harrison, op. cit., p. 312.11 Bailey, Good Fellowship, p. 87 a proposito di Entr’ acte.12 Tracy C. Davis, The Economics of the British Stage 1800-1914, Cambridge, 2000, p. 164.13 Davis, op. cit. p. 59.14 Jim Davis, ‘Wilton, Frederick Charles (1802-1889)’, Oxford Dictionary of National Biography, OxfordUniversity Press, 2004 [http://www.oxforddnb.com/view/article/60242, visitato l’11 aprile 2007].15 Davis, op. cit. p. 59.

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personale del palcoscenico, alla pubblicitàed al costo di viveri e bevande per il pub-blico richiedeva un ingentecapitale di esercizio o ilricorso ad un sostanziosocredito commerciale.

Come afferma Davis, “ingenere è difficile capire dadove provenissero i capi-tali”16. Dalla biografia diMorton non si deduce checi fossero beni di famigliada cui attingere. Mortoniniziò a lavorare comecameriere. Il padre di WilliamHolland era un negoziante di tessuti. PeterBailey sostiene che il livello di investimen-ti necessario o rientrava nelle possibilitàdel singolo, oppure si poteva ottenere tra-mite un sistema creditizio informale, comela famiglia, la comunità dei commerciantilocali, o dei rivenditori di prodotti affini,come le fabbriche di birra17, ma descrive ilfinanziamento un affare “assolutamenteprivato, informale (e dunque malaugurata-mente oscuro)”18. Pur riconoscendo l’affi-liazione di Holland alla massoneria, Baileynon si spinge oltre come Tracy Davis che,nella sua opera sul finanziamento del tea-tro inglese del diciannovesimo secolo, par-

la di ciò che definisce capitalismo da gent-leman, “che consente agli uomini di racco-

gliere fondi o trovarsigaranti fra i conoscen-ti” in club, società econfraternite19. “Orga-nizzazioni come laMassoneria”, asserisce,“mettono in contattodebitori e creditori”.Nel presente lavoro misoffermerò sulle car-riere di due importantiosti-impresari masso-ni, William Holland e

Charles Morton che, lega-ti fra loro più strettamente di quanto nonsi pensi, mostrano come la massoneriaconferma l’esistenza di un legame fra pro-prietari di music hall e il mondo del com-mercio, il che induce a credere che l’affi-liazione alla loggia favorisse il contatto conaltri commercianti, in grado di offrire cre-dito al commercio.

Lo smercio di alcool fu un fattore deter-minante per la capacità di sviluppo deimusic hall e gli incassi del bar costituivanouna quota sostanziosa dei proventi20.All’Oxford Music Hall di Charles Morton, ilprimo locale costruito come tale, nel 1863

16 Davis, op. cit. p. 291.17 Bailey, Good Fellowship, p. 86 n. l5 porta l’esempio di Charles Morton, che ipotecò i suoi locali afavore dei birrai, Combe e Delafield, per £ 600 nel 1854.18 Bailey, Good Fellowship, p. 86.19 Davis.20 Davis, op. cit., afferma che gli introiti dei bar costituivano circa un terzo del reddito, p. 61.

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i proventi del bar ammontavano a più £11,50021 l’anno. Music hall, pub e taverneavevano in genere unaprecisa collocazioneterritoriale: il West Enddi Londra ne rappre-senta un esempio ovvioe importante, ed il rap-porto fra i locali potevaessere competitivo, maanche complementare.Chi frequentava ilmusic hall non dovevaandare necessariamen-te al pub, ma osti e com-mercianti di vino potevano rifornirli dialcolici. Vi erano sovente stretti legami frai pub, l’industria del teatro in genere ed imassoni. Le logge si riunivano in sale pri-vate presso locande e taverne, dove i socisi fermavano a cenare al termine delleriunioni. Il quotidiano The Era, pubblicatonel 1838 come giornale per rivenditori dialcolici, si trasformò poi in giornale per ilmondo del teatro, fino a proclamare sullasua stessa testata di essere un giornale pergli amanti del teatro, del musical, dellosport, per i rivenditori di alcolici, le fami-glie ed i massoni [sottolineatura dell’auto-re] in quanto pubblicava i resoconti delleriunioni delle logge. Come vedremo, gliarchivi delle logge massoniche ci fornisco-no la prova dell’esistenza di stretti contat-ti personali fra i proprietari di music hall edi personaggi che ruotavano intorno allavendita di alcool.

William Holland, figlio di un negoziantedi tessuti e tappezziere all’ingrosso di Lon-

dra, abbandonò l’aziendafamiliare per il teatrodopo aver partecipato,per un periodo, agli spet-tacoli dei menestrelli e,nel 1866, in società conun suo zio oste, JohnSweasey, rilevò e rilan-ciò con un certo succes-so il Weston’s Music Halla Holborn, un localeimportante aperto diecianni prima. Due anni

dopo, prese in subaffitto da Charles Mor-ton il Canterbury Music Hall a Lambeth, lorinnovò e lo rilanciò con una campagnapubblicitaria di cui faceva parte l’accordocon Champagne Charlie.

Poco dopo aver rilevato il Weston’s,nell’aprile del 1867, Holland fu propostoda John Smith, mercante di vini di BowStreet, per l’affiliazione alla Loggia N. 157di Bedford. Tanto la sua azienda quanto ilWeston’s erano vicini alla Freemasons’Hall di Great Queen Street, dove si riunivala loggia.

La Loggia di Bedford fu istituita nel 1766e, come le altre dell’epoca, si riuniva nelletaverne, dapprima intorno a Westminstere poi più vicino a Covent Garden e alloStrand. Quando le due Grandi Logge ingle-si si unirono, nel 1813, gli incontri si svol-gevano presso la Freemasons’ Tavern di

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21 Davis, op. cit., p. 61. 428.442 clienti pagavano da 6 a 7d a testa per le bibite.

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Great Queen Street. Quando i 56 membriorganizzarono la prima riunione annualedopo l’unificazione, circa lametà di essi dichiarò ilproprio status di gentle-man, mentre gli altrimembri dichiararono disvolgere attività varie, fracui pescivendoli, incisori,mercanti di legname edebanisti. Solo J. Pike, avvo-cato, dichiarò un’attivitàprofessionale, anche sealcuni dei “gentlemen”avevano probabilmenteoccupazioni analoghe. Dagli indirizzidichiarati si desume che i membri abitava-no nel West End di Londra, intorno a May-fair e Piccadilly. La loggia godeva a quantopare di un moderato successo: vi si iscrive-vano quattro o cinque soci l’anno, in gene-re iniziati che non provenivano da altrelogge, impiegati in occupazioni analoghe.Dal 1830 al 1838, tuttavia, il numero degliiscritti scese a 22 circa22.

Nel 1839 la Loggia si trasferì dalla Free-masons’ Tavern verso ovest, presso la Bri-tish Coffee House di Cockspur Street, pocoa sud di Haymarket. Ben presto il trasferi-mento nel distretto del teatro nel cuore di

Londra modificò la composizione e l’orga-nizzazione della loggia. Nel 1840 fu inizia-

to Benjamin Webster,l’attore-manager delTeatro di Haymarket, emembro della professio-ne molto rispettato. Nonv’è dubbio che abbiaincoraggiato ad iscriver-si alla loggia i colleghi,fra cui il commediografoGeorge Wyld, JohnPovey del Lyceum Thea-tre e, in seguito, il suocollaboratore e successo-

re nella gestione di Haymarket, John Bald-win Buckstone23. Nel febbraio del 1843 ilFratello Kittrick propose alla Loggia di spo-stare il giorno e l’ora delle riunioni da mer-coledì alle 5 pomeridiane a martedì alle 3,adducendo a motivo il fatto che “l’impe-gno professionale di molti fratelli richiedeassolutamente la loro presenza altrove[dopo la riunione delle 5] e di conseguenza[la Loggia] deve privarsi del piacere dellaloro compagnia al Festive Board”24. La Log-gia si riuniva ogni mese da novembre agiugno. Nel 1845 essa si era ritrasferita allaFreemasons’ Tavern, ma il legame con ilmondo del teatro nel senso più ampio deltermine proseguì.

22 Un elenco dettagliato degli iscritti si trova in un’Appendice storica alle Norme e Regolamenti dellaloggia pubblicati nel 1844, conservati nella Biblioteca e Museo della Libera Massoneria.23 I dettagli sugli iscritti alla loggia di Bedford e sugli ospiti provengono dagli archivi della log-gia. Esiste una serie completa di verbali dal 1791 al marzo 1860 e dall’agosto del 1866 al 1933. I registricon le firme, che si riferiscono al periodo 1839-1921, hanno diversi formati, e tuttavia fino al 1870 col-legano ospiti e iscritti. Sono grata alla loggia, che mi ha consentito di usare tali registri.24 Bedford Lodge (attuale), Verbale No 157, febbraio 1843.

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La Loggia di Bedford conobbe poi unrevival nel 1845, con 22 nuovi iscritti. Inuovi soci o comunque i neo-iscrittidichiaravano sempre più spesso di esseremercanti di vini; fra i membri del 1856figurano John Thomas Jones e CharlesMorton - quest’ultimo Mercante di Vinicon sede in Westminster Bridge Road.

I nuovi soci provenivano ora da diversezone di Londra. Dei cinque mercanti divino che si iscrissero nel 1857, solo JohnCooper di Berners Street era del West Enddi Londra, mentre gli altri venivano da piùlontano - Deptford, Greenwich, Lambeth eShadwell. Altri mercanti di vini di Edgwa-re Road, Notting Hill e Aldersgate Street siiscrissero nel 1860 e nel 1861. La prove-nienza di nuovi membri da diverse areegeografiche è in parte dovuta al più effi-ciente sistema di trasporti di Londra, madimostra anche l’esistenza di rapporti per-sonali con gli impresari del music hall,

come vado ad illustrare.

Dei 218 uomini che si iscrissero alla Log-gia di Bedford nei cinquanta anni successi-vi al 1836, da iniziati oppure provenendoda altre logge, è possibile identificare l’oc-cupazione di 209 persone: si trattava, per il28%, di mercanti di vino o champagne,rivenditori di alcolici o tavernieri. Inassenza di un’analoga analisi delle centi-naia di altre logge londinesi, è impossibilecapire se la percentuale è insolitamentealta o meno. Forse non c’è da stupirsi cheuna loggia con sede al centro del distrettodi Londra con il maggior numero di localifosse tanto popolata. Fino alla fine deldiciannovesimo secolo, bere era social-mente importante per tutte le classi; allo-ra, quando il movimento dei moderatidivenne più influente, si riteneva che aLondra ci fossero più mercanti di vino chenegozi di alimentari25. Eppure ciò contrastacon la storia dei primi tempi della loggia,

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25 Brian Harrison, Drink and the Victorians, Keele, 1994 p. 58 afferma che negli anni ‘50 del 1800 aLondra c’erano più vinai che pescivendoli, commercianti di latticini, di formaggi, salumieri, macellai,panifici ed empori messi insieme.

Grafico che riproduce un’analisi delle professioni più praticate nella storia della Loggia di Bedford dal 1836 al 1886

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ed un’analisi dei rapporti fra membri, nuo-vi iscritti e ospiti avvalora l’ipotesi chequesti avessero legamicon i mercanti di vini egli impresari del mondodello spettacolo.

Undici anni primache William Holland siiscrivesse alla Loggia diBedford, durante unariunione tenutasi il gior-no 8 febbraio 1856, ilMaestro Robert Jones,un mercante di vini edalcolici di Union Street, Borough, avanzò lacandidatura di Charles Morton. La propo-sta fu appoggiata da Horatio Mohamed,figlio di Deen Mohamed, che gestiva lo sta-bilimento di Little Ryder Street. Morton fuiniziato durante la riunione successiva,quella del 14 marzo, alla quale il Maestroinvitò il suo ospite Sam Cowell, membrodella Loggia St Mary’s Chapel N. l di Edim-burgo, il cantante comico che si era esibitoa Canterbury per Morton. All’epoca Cowellera un ospite assiduo ed a maggio avevaanche partecipato al Banchetto Estivo del-la Loggia alla locanda New Ship di Green-wich, dove gli spettatori “furono entusiastidel [suo] canto comico”26. L’ospite di Mor-ton fu Patrick Anthony Corri, uno dellanumerosa famiglia di musici Corri27 e mas-

sone della Loggia della Prosperità N. 65 dal1851.

La supremazia di Mor-ton a Canterbury vacillòper la prima volta a causadi Edward Weston, cheportò il music hall nell’areadei teatri più tradizionaledi Londra: il West Enddove, nel 1857, trasformòla Six Tankards e PunchBowl Tavern, che confina-va con la National Hall

School di High Holborn, nelWeston’s Music Hall. Nel febbraio del 1858si iscrisse inoltre alla Loggia di Bedford,mentre prima era membro della LoggiaStrong Man (l’attuale N. 45)28. La sua candi-datura fu patrocinata da due mercanti divino, James Greenwood di CaledonianRoad e William Drew di Shadwell. Westonfrequentò la Loggia di Bedford circa unavolta l’anno, portando con sé ospiti delcalibro di George Edward Sewell della Log-gia Enoch (l’attuale N. 11). In almeno unaoccasione, nel novembre 1861, lui e Mor-ton (acerrimi rivali, al punto da essereritratti come contendenti di boxe nellevignette dell’epoca) parteciparono allastessa riunione. La partecipazione attivaalla Loggia da parte di Morton cessò pocodopo.

26 Verbali della Loggia di Bedford, maggio 1856.27 Patrick Anthony Corri (1820-1876), cantante, direttore d’orchestra e compositore, figlio diHaydn Corri (1785-1860).28 Iniziato nel novembre 1854, dichiarò di abitare a High Holborn e di essere un fornitore di vet-tovaglie autorizzato.

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William Holland era un assiduo alleriunioni della Loggia di Bedford e in quel-l’ambito si fece strada, fino adiventarne Maestro nel1872. Fra gli ospiti che fre-quentemente portava alleriunioni, William HarlingBayliss, probabilmente iltitolare della licenza dellaRailway Tavern di Islington,John James Horner, mer-cante di vini di Hackney,John Hammond, rivenditoredi alcolici di Woolwich, Wil-liam Carter, mercante divini di Tooley Street e Wil-liam Smeed, oste di HighHolborn, membro della Loggia N. 946,Strawberry Hill, che si riuniva nella Taver-na Pope’s Grotto di Twickenham. Fu forsegrazie a questi contatti che lo zio di Hol-land, John Sweasey, che continuò a gestireWeston fino al 1881, diventò un massonedella loggia. Uno degli ospiti più assidui diHolland negli anni ’70 del 1800, non a caso,fu il suo socio in affari, Joseph John Pope,noto ai contemporanei come “Fat Joe”Pope. Anche Pope si iscrisse alla Loggia diStrawberry Hill nel 1873, dichiarando diessere un chirurgo – era un ex chirurgodell’esercito – menzionando la sua lungamilitanza nella Loggia N. 292 di Liverpool,Sincerity, a cui si era iscritto per la primavolta nel 1859. Più tardi, nel 1880, lo stessoHolland si iscrisse alla Strawberry Hill.

La presenza di Holland nella Loggia diBedford denota inoltre la presenza di pro-

babili contatti con professio-nisti che, come Bailey sug-gerisce, potevano offriresovvenzioni “iniettando illoro entusiasmo da studen-ti”29. Holland introdussenella Loggia di Bedford uncerto numero di nuovimembri, diversi dei qualirivestivano il ruolo di pro-fessionisti. William Liddell,un ragioniere di UnionCourt, Old Broad Street,divenuto più tardi segreta-rio della loggia, fu presenta-

to da Holland nel 1875 e, alla fine delmedesimo anno, Holland propose l’inizia-zione di John Pellet Waterstone, agente dicambio. Il 14% dei membri della Loggia diBedford, nel periodo in esame, dichiarò diappartenere alla categoria dei professioni-sti e un ulteriore 14% viene descritto comegentlemen. Un contemporaneo raccontache Holland appariva a proprio agio conquesto genere di conoscenti: “immancabil-mente si presentava, sfingeo, irreprensi-bilmente azzimato e impomatato, conqualche fiduciosa creatura pronta a sov-venzionarlo”30.

Morton, Weston e Holland erano dun-que tutti membri della stessa loggia. Ladata della loro frequentazione non è però

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29 Bailey, Good Fellowship, p. 86 n.30 Donald Shaw, One of the Old Brigade, London in the Sixties (1908), p. 78 citato in Bailey, Good Fel-lowship p. 87.

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del tutto coincidente. Morton e Weston,come abbiamo visto, erano contempora-nei. Holland potrebbenon aver incontratoWeston nella loggia,in quanto l’iscrizionedi quest’ultimo fusospesa nel 1869 permancato pagamento,ma appare chiaro cheHolland avesse conlui rapporti di affari(come del resto conMorton). Holland eramembro della loggiaquando, nel febbraio 1873, Edward Westonpresentò una petizione per chiedere unaiuto in beneficenza.

All’acquisto della proprietà di Westonda parte di Holland ed al sub-affitto di Can-terbury (che durò fino al 1871) seguì, nel1869, l’acquisizione del Royal PavilionHotel e dei Giardini di Greenwich Nord, giàdi proprietà di Morton. Si trattava di unampio spazio, ubicato sulla riva nord delTamigi, accessibile via treno o piroscafo eche nei mesi estivi organizzava ascese inmongolfiera, spettacoli pirotecnici e con-certi musicali. Nei Verbali della Loggia diBedford si afferma che gli ospiti frequenta-rono il posto, meta di escursioni estive,durante tutto il periodo in cui Holland fumembro della Loggia. L’Hotel ed i Giardinierano in sostanza un ritrovo estivo, e con ilbel tempo si potevano sfruttare al megliole limitate capacità di trasporto e le attra-zioni che essi offrivano. Nel corso deglianni nell’area si impiantarono zuccherifici

ed altre industrie, che ne ridussero ulte-riormente attrattiva e redditività.

Alla ricerca di uninvestimento meno con-dizionato dall’andamen-to stagionale, nel dicem-bre 1873 Holland preseinoltre in affitto il SurreyTheatre, a 124 Black-friars Road, Pimlico,gestendo entrambe leaziende contemporanea-mente. Forse mantenneanche una partecipazio-

ne a Weston, ora in gestione allo zio.

Gli archivi della Loggia di Bedford con-fermano gli assidui contatti personali cheintercorrevano fra i tre impresari di musichall ed altri mercanti di vino, osti e taver-nieri membri della loggia o che la frequen-tavano insieme a loro. Come usava in quelperiodo, Morton e Holland gestivano leloro aziende come fossero “sodalizi” rela-tivamente informali. Non mi consta ci sia-no atti finanziari negli archivi, per cui nonsi può stabilire se i loro rapporti fosseroanche di natura finanziaria. Si tratta di unatipologia di transazioni che non figura neiverbali della loggia, né negli atti istitutivi.Le transazioni finanziarie informali si rile-vano forse solo al momento dell’interru-zione dei rapporti.

Descritto come proprietario di teatri etitolare di una licenza per la rivendita dialcolici del Surrey Theatre e dei NorthWoolwich Gardens, William Holland com-

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pare dinanzi al Tribunale Fallimentare nel-l’ottobre del 1876 con£ 14,000 di passivo, esolo £ 1,100 di attivo.Uno dei creditori eraun tale Charles Hol-land, a cui doveva £1,36631. Nonostanteavessero lo stessocognome, non sem-bra fossero parenti,ma erano entrambimembri della Loggiadi Bedford, e in piùera stato WilliamHolland a proporre lacandidatura di Char-les Holland, mercan-te, all’inizio delmedesimo anno, conl’appoggio di William Henry Waghorn,membro sia della Loggia di Bedford che diquella di Strawberry Hill. Sembra che ilprocesso per bancarotta non abbia intac-cato il rapporto personale fra i due uomini,che continuarono a partecipare alle stesseriunioni della loggia e addirittura, ma fuforse una coincidenza, presentarono ledimissioni nel corso della stessa riunione,nel gennaio 1879. Ulteriore prova dei vin-coli finanziari fra osti-impresari e mercan-ti di vino si evidenzia nel processo per ban-carotta di Charles Morton, svoltosi neldicembre del 1875 su istanza di tale Joseph

Hirschmann, mercante di vini di High-bury32 che tuttavia,per quanto ioabbia potuto veri-ficare, non eramassone.

In un giorno dipioggia del giugno1885 fu inauguratoun edificio in vetroe ferro presso Bat-tersea Park. Dis-messo nella suaubicazione origi-nale a Dublino, oveospitò l’esposizio-ne del 1863, talelocale nel Sud-

Ovest di Londraavrebbe dovuto fungere da polo di attra-zione per il tempo libero, in concorrenzacon il Crystal Palace a Sydenham (e dell’A-lexandra Palace a North London). Nel girodi sei mesi la società di gestione fallì, e Wil-liam Holland fu chiamato a rilanciare illocale, anche se, sembra, da impiegatopiuttosto che da impresario, in quantodovette affrontare un altro processo perbancarotta nel 188133. Holland organizzòfuochi d’artificio, spettacoli con fenomenida baraccone ed una sfilata di cavalli dacorsa lunga tre miglia, in concomitanzacon la RSPCA (Royal Society for the Preven-

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31 The Times, 30 settembre 1876.32 The Times, 1 dicembre 1875.33 The Times, 29 settembre 1881.

Corrispondenza massonica di Charles Morton

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tion of Cruelty to Animals). Un’altra iniziati-va volta a richiamare pubblico fu quella diospitarvi la riunione della Loggia massoni-ca locale n. 1963, Duke ofAlbany. Fondata nel 1882 daimembri della Loggia n. 1641Crichton di Camberwell e conuna presenza, fra gli iscritti, diinsegnanti di Battersea e com-mercianti locali, la loggia siriuniva all’inizio in una salaall’uopo progettata nella pro-prietà di Shaftesbury Avenue.Tale appezzamento era statoprogettato da una cooperativaedile - la Artisans, Labourersand General Dwelling Com-pany - allo scopo di costruirealloggi popolari di buona qua-lità e, con l’intenzione di evitare i proble-mi sociali derivanti dalla vendita di alcoli-ci a buon mercato, la proprietà era “a sec-co” – non c’erano pubs – il che rendevameno attraente il Festive Board. QuandoWilliam Holland arrivò alla loggia nelluglio 1886, questa stava probabilmentecercando un locale alternativo. Holland liconvinse a trasferire la sede delle riunioniad Albert Palace, dove i membri della log-gia potevano entrare gratuitamente, sem-plicemente presentando la convocazione.Il resoconto delle riunioni si trova nel gior-nale The Freemason.

“Al piacere ed al sollazzo dei fratelli hanotevolmente contribuito l’encomiabile

catering di Brother Todman del Refresh-ment Department, che ha offerto un ban-chetto sontuoso e ricercato”34.

Dopo un tentativo fallitodi fare dell’Albert Palace diBattersea un concorrentevalido del Crystal Palace,anche esibendo fenomeni dabaraccone ed una sfilata dicavalli da corsa lunga tremiglia, Holland deve esserestato grato a chi gli offrì unanuova occasione nel nordovest dell’Inghilterra. Nel-l’ultimo quarto del dician-novesimo secolo Blackpoolera diventata la più richiesta

meta delle vacanze della clas-se lavoratrice media, grazie ai buoni colle-gamenti con le città tessili del Lancashire,dove le vacanze al mare divennero per laprima volta un fenomeno di massa. Erainevitabile che ci fosse rivalità fra i locali diBlackpool. Nel 1887 la Winter GardensCompany si trovò a dover affrontare laconcorrenza del nuovo Grand Theatre edell’Opera House, proposte dall’impresariolocale Thomas Sergenson. Per tutta rispo-sta, i direttori del Winter Gardens ingag-giarono Holland, che individuò immedia-tamente le inefficienze del vecchio WinterGardens Pavilion e convinse la società adaffidare a Frank Matcham la progettazionedi una Opera House, inaugurata nel giugno1889. Poiché i più importanti cittadini di

34 The Freemason, maggio1886.

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Blackpool, come pure i consiglieri comu-nali e gli impresari locali, erano massoni,non stupisce il fatto che Holland,nel maggio del 1891, si iscri-vesse alla Loggia di Blackpooln. 1974, la più recente delledue logge della città. L’impre-sario concorrente, ThomasSergenson, propose la suacandidatura, che fu appoggia-ta da Henry Gardiner, il diret-tore della banca locale35.

Quando Holland morì, aLondra c’erano più di centomusic halls autorizzati, rispet-to ai 3 del 185036. Le canzonidel music hall e gli artisti che lecantavano esercitarono sulla cultura popo-lare britannica una enorme influenza, cheproseguì anche per gran parte del secolosuccessivo, e si potrebbe sostenere cheperduri tuttora. Una delle ultime star del

music hall, Sir Harry Lauder, scozzese emassone, nel 1919 fu nominato cavaliere,

segno estremo del fatto che ilmusic hall si era guadagnatouna veste di rispettabilità.All’epoca il music hall avevainfatti una struttura socie-taria, con società a parteci-pazione azionaria e mana-ger professionisti. L’aspettofinanziario dello sviluppodel music hall dei primi tem-pi deve ancora essere stu-diato appieno. L’apparte-nenza ad una loggia masso-nica costituì probabilmenteuna rete tramite la quale iprimi impresari, quali Mor-

ton e Holland, ricevettero i necessarifinanziamenti. Spero di poter continuarele mie ricerche su altre logge e music hallsdi Londra e di altre località, per corrobora-re la mia tesi con ulteriori prove.

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35 Holland partecipò alle riunioni circa una volta l’anno.36 Davis, op. cit. p. 59.

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Con il mio comportamento giusto,diretto, equo e retto,cerco di alleviare i miei problemi,e poco mi do pena;vivo felice come un re,solo di quel poco che ho,perciò vi dico, siate retti.

Siate onesti, ragazzi, siate retti, Leali e giusti, ragazzi, siate retti,Agite sulla squadra, ragazzi, siate retti,Leali e giusti, ragazzi, siate retti.

Ora, se in strada - qualcosa di brutto, che spesso accade -un balordo pallone gonfiatoinsegue una brava ragazza;circondatelo, e fategli vedere, se osa infastidirla,dategli una sonora lezione per mostrarglicome ci si comporta.

Se una sera una rumorosa compagniache Haymarket rende vivo,il Sergente X con gusci di ostrichea raffica vuole colpire,quasi cadendo in disgrazia,una lezione di onestà può servireal poliziotto il volto fa illuminareperché a lui piace vedere tutto a posto.

Mai mi son piaciuti i girotondi,non sopporto i tavoli rotondi;non posso vedere un circo,e per questo vivo in un quadrato.Fratelli tutti, e anche massoni,facciamo la nostra parte di bene;e quando si presenta un’occasione,dobbiamo agire rettamente.

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Frontespizio della canzone per Music Hall di ispirazione massonica Act on thesquare, boys!

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Segnalazioni editoriali

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[...] La storia della Massoneria russa è ricca di dram-matici incidenti che resero impossibile il suoradicamento e la sua crescita, nonostante il fattoche tutta l’élite della società russa del Diciottesimoe dell’inizio del Diciannovesimo secolo fosse stataeducata nelle logge massoniche. In periodi diffe-renti, personalità come A.V. Suvorov, M.I. Kutuzov,M.M. Speransky, A.S. Pushkin fecero parte di logge massoniche. A parte questi per-sonaggi, le cui attività massoniche erano ben riconosciute, molte generazioni del-la nobiltà russa furono inserite con successo nelle liste della Massoneria, come peresempio, la famiglia dei Golitsyn, Turgenev, Tatishchev, Razumovsky, Rimskiy-Korsakov, Gagarin.Le attività dei massoni furono interrotte dalla legge di Augusto I nel 1822 epoterono riprendere soltanto all’inizio del Ventesimo secolo. Comunque, per unaragione o per l’altra, la Massoneria era rappresentata a quel tempo più da gruppiseparati che da un solo movimento organizzato. Il capitolo più interessante delle vicende massoniche è legato ai nomi di G.O. Möbese B.V. Astromov, che lavorarono alacremente fino al 1926.Il Museo di Stato di Storia delle Religioni di San Pietroburgo ha raccolto i pezzi del-la collezione massonica per molto tempo. L’esposizione contiene documentid’archivio, manoscritti, libri, oggetti di vario genere datati dalla fine del XVIII agliinizi del XX secolo.

La collezione massonica del Museo di Stato di Storia delleReligioniSan Pietroburgo, 2006, pp. 59

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A un secolo dalla nascita, il tempo è maturo per una rifles-sione sulle matrici culturali e sui principi ispiratori delRotary. Il volume ricostruisce la storia e la fisionomia diquesto movimento attraverso una specifica griglia di let-tura che ne analizza lo sfondo concettuale, sociale, filosofi-co e ideologico; il Rotary che ne emerge è un’espressionesignificativa della cultura del Novecento.

La prima parte radica nell’associazione rotariana fra tradizione e innovazione,proietta il suo avvenire nella dimensione internazionale, la interfaccia con i fer-menti del pensiero novecentesco. Sviluppa in particolare la storia del Rotary inItalia, nei suoi rapporti con la cultura cattolica, con quella fascista e con quellamarxista. La seconda parte tratta dei fondamenti teorici del Rotary e della loro inte-razione con grandi sistemi di pensiero: il concetto di élite e di eccellenza nellaprofessione, il valore dell’amicizia come forma etica dell’amore, la categoria eti-ca quale specificità umana, la filosofia del servizio e la diversità rispetto allabeneficenza, la vocazione planetaria e la globalizzazione di idee e progetti.

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Indice del volume:

Premessa ad un sogno rinnovato, di Gustavo RaffiSaluti e ringraziamenti, di Giovanni RambelliIntroduzione, di Roberto Balzani

Appunti sulle origini della Massoneria a Ravenna, di Gaetano Ravaldini“Sic Virtus Risurgit”. La Pigneta, una loggia nella Ravenna napoleonica, di Daniele ToniniRiproduzione del Quadro del G∴O∴ d’ItaliaCome una postfazione, di Antonio Panaino

R∴L∴ LA PIGNETAQuarantennale della rifondazione 1968-2008La PignetaUna Loggia Napoleonica a Ravenna nel suo rapporto con il territorio

CLAUDIO WIDMANNRotary Ideale. Un secolo di idee, concetti, valori e cultura.Prefazione di Italo Giorgio MinguzziLongo Editore, Ravenna, 2006, pp. 272, € 20,00

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La terza parte prospetta scenari di impegno prossimo venturo e traccia linee dirimeditazione su temi di urgente attualità: la relazione con l’ambiente, la riabi-litazione collettiva del femminile, la mutata fisionomia delle famiglie, la trasfor-mazione dell’identità giovanile.Ne scaturisce il ritratto di un movimento creativamente e fattivamente iscrittoin una filosofia umanistica tesa a promuovere i tratti più qualificanti dell’Uomo.

[...]Il pensiero di affrontare questo impegno da solo mi parvesubito difficile e di una lunghezza estenuante per uno comeme abituato soprattutto alla scrittura di carattere giuridico,spinto più al ragionamento sillogistico e matematico che nonad inanellare considerazioni facilmente comprensibili e capacidi suscitare l’interesse del lettore.[...]Ora che questo lavoro è compiuto, con grande reciproco impegno, e che viene licen-ziato alla lettura dei Fratelli, mi viene naturale pensare che, comunque vengaaccolto, era una fatica che era giusto fare. Esporre una somma di esperienze noncomuni, una visione della Massoneria meditata e sicuramente non banale, è unesperimento che può servire a far crescere nella nostra Istituzione la consapevolez-za del suo essere oggi e del suo possibile divenire, senza infingimenti, ma anche al difuori delle aspre polemiche che attualmente la agitano e che dobbiamo saperaffrontare con consapevole serenità.

FERNANDO FERRARILa Massoneria verso il futuro. I problemi, i compiti, le sfide.Una conversazione con Michele MoramarcoBastogi Editrice Italiana, Foggia, 2008. pp. 103, € 10,00

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Il 28 novembre 1757 nasceva a Londra William Blake, il piùgrande poeta visionario dell’Era Moderna. Negletto dai con-temporanei, è ricomparso prepotentemente nel Novecento,

influenzando poeti come William Butler Yeats, Hart Crane e il nostro Ungaretti (chene fu il primo traduttore italiano), e pensatori come Gaston Bachelard, Carl GustavJung e Gregory Bateson. Innumerevoli le trasposizioni in musica delle sue opere, daBenjamin Britten al jazzista Mike Westbrook, passando per le delicate interpretazionidei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza ad opera del poeta Allen Ginsberg, che di Blakefu devoto ammiratore.Vala, or the Four Zoas occupa un posto speciale nell’opera e nella vita di Blake. Unlavoro lungo almeno dieci anni, in un tempo fitto di eventi nella vita privata del poetae nel mondo in cui viveva, eventi che continuamente si fanno strada nel poema,diventando visioni. Fu per Blake un periodo di affanni, che lo condussero probabil-mente sull’orlo di un tracollo psichico: di questo processo, e della rigenerazione chene seguì, il poema è anche testimonianza per immagini. Ma ancora di più è “SublimeAllegoria” dei patimenti dell’uomo diviso, cioè di ciascuno di noi, e della gloria dellasua integrazione psichica e spirituale. Raccontarlo non è né lineare né facile: dopo laprima stesura “sotto dettatura”, Blake vi continuò a lavorare per almeno altri quat-tro anni, con un continuo processo di revisione (o sarebbe meglio dire re-visione),consistente in interpolazioni, aggiunte a margine, cancellazioni, sostituzioni di ver-si, sequenze o addirittura di interi canti. Quello che ne risulta è un testo complesso,che demolisce ogni tentativo di spiegazione lineare; ma è insieme un testo che sfidail lettore ad un’ordalia mentale che lo trasformerà intimamente.Blake non portò il poema a compimento, o almeno non lo stampò mai. Prima dimorire, lo consegnò a un suo discepolo, con la preghiera di conservarlo. Segue quasiun secolo di oblio, dopo il quale il poema riappare, e si manifesta come un’opera discandalosa modernità, nel linguaggio, nella struttura e nei contenuti, che tende al-l’opera aperta più di qualsiasi altra cosa scritta in quel periodo.Dopo più di un altro secolo dalla prima edizione a stampa (curata nel 1893 da Yeats,che fu l’artefice della riscoperta di Blake nel Novecento), quella che presentiamo è laprima traduzione integrale dell’opera.

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WILLIAM BLAKEI Quattro ZoaI tormenti dell’amore e della gelosia nella morte e nel giudizio finale diAlbione, l’antico uomo.Introduzione, traduzione e note di Salvo PitruzzellaFondazione Famiglia Piccolo di Calanovella Capo d’Orlando, iQuaderni dell’Almagesto, V, Palermo, pp. 223

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Le torri campanarie cilindriche costituiscono uno dei tratti di-stintivi nel panorama della città di Ravenna e del territorio del-l’Esarcato. La particolare forma le pose al centro dell’atten-zione degli studiosi, che si sono interrogati sulla loro origine.L’allarme suscitato dal repentino crollo del campanile di SanMarco a Venezia sollecitò, nei primi anni del novecento, nonsolo l’allestimento di cantieri di restauro, ma anche gli studi diinsigni storici, da cui scaturirono ipotesi differenti e spesso contrastanti.I campanili di Ravenna offre al lettore un quadro sinottico delle diverse teorie e unexcursus fra le torri altomedioevali della città e del forese, corredato da una ricca do-cumentazione fotografica.Il volume fornisce un aggiornato quadro degli studi, un approfondimento delle fasi diedificazione e delle campagne di restauro novecentesche, e nuove chiavi interpreta-tive legate all’osservazione di particolarità costruttive e di impiego dei materiali,estese anche alle pievi del territorio.

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Dei due saggi su cui si apre il libro il primo intende fare il pun-to su alcune delle vexatae quaestiones che hanno condizionatofino a non molti anni fa la critica goldoniana, riprendendole inesame alla luce degli strumenti critici oggi a nostra dispo-sizione. Il secondo è dedicato a uno degli aspetti più nuovi estraordinari del teatro di Goldoni, la viva, estesa presenza inesso del mondo delle professioni e del lavoro. I capitoli seguen-ti analizzano testi di solito poco studiati (come ad esempio Ilcavaliere di spirito o La donna forte) nel contesto della carriera teatrale e della culturadell’autore, proponendo in qualche caso dei «ricuperi» che meriterebbero forse laprova del palcoscenico, cioè una moderna messa in scena. Chiude il volume un altropossibile «ricupero», che estendendo la storia del «goldonismo» italiano a quello cheè spesso considerato il maggiore epigono di Goldoni, Giovanni Gherardo De Rossi, sot-tolinea la vitalità di alcune sue commedie.

FRANCO FIDOL’avvocato di buon gusto. Nuovi studi goldonianiLongo Editore, L’Interprete n. 95, Ravenna, 2008, pp. 184, € 18.00

GIANLUCA BATTISTINI, LARA BISSI, LUCA ROCCHII campanili di Ravenna. Storia e restauriA cura di Rita FabbriLongo Editore, Arte e cataloghi, Ravenna, 2008, pp. 416, € 45.00

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È opportuno riassumere, prima di presentare questa nuovaattribuzione del Fiore e del Detto d’Amore, i risultati che RemoFasani ha già ottenuto con gli altri saggi su questo argomento.La metrica del Fiore è affatto diversa da quella di Dante. Nel Fioresi osserva un massiccio influsso dello stile dei cantari, chedunque dovevano esistere prima del Boccaccio. Anche le operedi Lippo Pasci de’ Bardi (Corona di casistica amorosa e Canzoni), diBrunetto Latini (Tesoretto e Tresor) e di altri poeti delle origini

lasciano nel Fiore tracce vistose, il cui autore è come un enciclopedista della poesiaitaliana.A tutto questo, si aggiunge ora una nuova prospettiva: quella della poesia persiana,ben nota alla comunità ebraica di Roma, e confermata, oltre che dai sonetti diImmanuel Romano, dalla prima scena del Fiore. Basta vedere la concordanza «Amor èuna pura signoria» da un lato e «presi Amor a signoria» con «farvi pura... fedeltate»dall’altro, che è una chiara allusione all’Enciclopedia dei Fratelli della purità, da cui deri-va in gran parte la gnosi ebraica. E si veda infine il verso «per lo vento a Provenza cheventava», dove il mistral si fa metafora di un decreto ostile del papato avignonese:quasi certamente quello del 1321, con il quale gli ebrei venivano espulsi da Roma. Ciòsignifica anche che il poeta del Fiore conosceva la Divina Commedia.

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REMO FASANIIl Fiore e il Detto d’Amore attribuiti a Immanuel RomanoLongo Editore, L’Interprete n. 97, Ravenna, 2008, pp. 80, € 12.00

È un vero e proprio “ritratto d’artista” quello che vienededicato con questo volume a Giulio Ruffini a dieci annidalla grande mostra antologica promossa dal Comune di

Ravenna e curata da Giulio Guberti. Nel segno della più stretta attualità di vita e dilavoro del grande pittore e disegnatore si rinnova, dunque, l’interesse per la figura el’opera di un protagonista indiscusso della vicenda figurativa romagnola a partire dal-la metà del secolo scorso, noto largamente anche sulla scena artistica nazionale. L’in-contro con Giulio Ruffini viene qui scandito dalla presentazione di una ricca serie di

Ritratto d’artista. Giulio Ruffini. L’occhio del poetaA cura di Orlando PiracciniFotografie di Costantino FerlautoLongo Editore, Contemporanea n. 30, Ravenna, 2007, pp.208, € 28.00

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opere “identificative” del sentire umano e del pensiero dell’artista. Si tratta di dipin-ti e disegni facenti parte della raccolta privata di Ruffini (si potrebbe dire: i “Ruffinidi Giulio Ruffini”) la cui importanza supera di gran lunga il loro valore squisitamentefigurativo, rivelandosi in questo contesto come silenziosi e discreti “compagni divita” del loro stesso autore, ma anche “testimoni” e “specchi riflessi” della condizioneesistenziale di Ruffini nel proprio procedere creativo. In questo percorso rappresen-tativo incentrato sulla figura del “pittore poeta” un capitolo determinante è quellocostituito dal più recente ciclo inventivo di Giulio Ruffini, con opere inedite dell’ulti-mo periodo di lavoro dell’artista, talmente colme di significati da rendere attualissi-mo il giudizio espresso oltre quarant’anni fa dal celebre critico d’arte FrancescoArcangeli a proposito del non mai arrendersi dell’artista “col suo talento alto di grafi-co e con le sue doti di pittore, a dir l’ultima parola alla propria storia”, come dimostrala serie dei disegni appositamente riprodotti nell’“appendice” del volume. Il lettorepuò vedere, infine, le immagini della casa studio di Mezzano: per la prima volta lamacchina fotografica fa il suo ingresso nella dimensione di vita e di lavoro di Ruffinile cui parole qui raccolte sono anch’esse preziosa testimonianza d’inesausta vitalitàe d’ininterrotta fede nell’arte.

Pane e lavoro non è solo uno slogan d’epoca. Dietro quella figu-ra retorica sta il grado zero della cultura: la tensione verso ibisogni vitali diviene il luogo di una produzione simbolica,svela il senso storico della vicenda vissuta dal manipolo dibraccianti romagnoli che alla fine del secolo scorso giunge ad Ostia Antica, alle portedella capitale, per prosciugare le paludi del litorale di Roma. La bonifica dell’agroromano è l’evento da cui scaturiscono gli argomenti affrontati in questo libro: dal-l’annoso problema igienico-sanitario di Roma capitale alla lotta contro la malaria ealla realizzazione dell’impresa idraulica; dalla storia dell’Associazione generale operaibraccianti di Ravenna alla costituzione a Ostia della Colonia agricola ravennate; dal-

PAOLO ISAJA, GIUSEPPE LATTANZI, VITO LATTANZIPane e lavoroStoria di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e la bonificadi OstiaPrefazione di Lorenzo CottignoliIntroduzione di Fabio FabbriLongo Editore, Contemporanea n. 32, Ravenna, pp. 536, € 35.00

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la questione sociale romagnola ai rapporti tra socialismo e cooperazione; dallerelazioni culturali fiorite fra gli immigrati dell’Agro romano fino agli sviluppi dellacooperazione ravennate ostiense e alla successiva crisi degli istituti cooperativi. Nel-la ricostruzione dei cento anni di vita comunitaria locale (1884-1984) gli autori per-corrono le frontiere della storia come dell’antropologia e aprono la ricerca docu-mentaria sia all’indagine sul campo sia alla raccolta delle fonti orali, in modo daricomporre – accanto alle sequenze degli avvenimenti – i «discorsi» oggi attivati dal-la memoria individuale e collettiva. La ricca ed eterogenea documentazione (accom-pagnata da un’ampia rassegna iconografica) crea un unico quadro d’insieme, cheintende riguadagnare alla storia le tracce epiche ed emblematiche della secolaretrasformazione dell’agro romano.

La prima ricerca organica sull’associazionismo femminilefascista della provincia di Ravenna.Ricostruendo il panorama delle organizzazioni di massa delregime, l’autrice ne delinea la vicenda storica e il diversoradicamento nel territorio ravennate, esaminando il ruolo inesse ricoperto dalle donne e soffermandosi in particolare sulleassociazioni femminili, Massaie rurali, Sold e Fasci femminili,

analizzate sulla scorta di fonti in gran parte inedite.Dai dati sul reclutamento a quelli sul profilo sociale e culturale sia delle iscritte chedelle dirigenti, si ricompone il quadro delle donne fasciste attive in provinciadurante il ventennio: un universo composito, tra le cui file, accanto ad espressionidi rigido allineamento al conformismo di regime, maturarono anche processi di con-sapevolezza del ruolo femminile che non erano nelle previsioni né nelle intenzionidel fascismo.Un fenomeno di significative proporzioni, che coinvolse categorie di donne rimasteai margini del vasto movimento di emancipazione femminile avviato nel Ravennatetra Otto e Novecento e che non si sarebbe esaurito con la fine della dittatura.

CLAUDIA BASSI ANGELINILe “signore del fascio”. L’associazionismo femminile fascista nelRavennate (1919-1945)Longo Editore, Storia, Ravenna, 2008, pp. 136, € 15.00

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Questo libro di Niccolò Pasolini dall’Onda si iscrive coerente-mente nella grande tradizione storiografica alimentata dagliillustri esponenti di Casa Pasolini da ormai qualche secolo ed è interessante e meri-torio per vari motivi, fra i quali i molti aspetti, anche inediti, per la storia di Ravennae della Romagna e l’ampio respiro che collega le esperienze di partecipazione alla vitacivile e pubblica dei Pasolini, ovviamente da inserire nei vari contesti storici nei qualihanno vissuto gli esponenti di questa grande famiglia che è sempre stata moltopartecipe delle più aggiornate sensibilità culturali italiane ed anche europee. Il suc-cesso della prima edizione del volume ha portato a questa seconda edizione che è si-gnificativamente ampliata, in particolare con l’avvicinamento ai giorni nostri dei“Ricordi della famiglia Pasolini” e con l’importante diario di Caterina Pasolini Borghe-se (la madre dell’Autore) sui cruciali anni fra il 1943 ed il 1945.Completa la seconda edizione l’interessante saggio di Elisabetta Marchetti, che evi-denzia i profili coerenti della difficile salvaguardia del patrimonio storico-artistico,in particolare ravennate, durante le distruzioni della seconda guerra mondiale.Questa seconda edizione del volume di Niccolò Pasolini arricchisce così ulteriormentela storiografia non solo romagnola.

NICCOLÒ PASOLINI DALL’ONDARicordi della famiglia Pasolini tra due secoli 1844-2008Longo Editore, Storia, seconda edizione ampliata e corretta,2008, pp. 272, € 18.00Appendice prima: Caterina Pasolini Borghese, Appunti e ricordidi Caterina Pasolini Borghese dall’agosto del 1943 all’inizio del 1945scritti per Mons. Giovanni MesiniAppendice seconda: Elisabetta Marchetti, Ravenna e la difesa delpatrimonio storico-artistico durante il Secondo conflitto

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Un Thriller investigativo moderno, ambientato in un’abbaziabenedettina in epoca attuale, tra le cui mura si nasconde unsegreto pericoloso per la Chiesa e per custodire tale segretoqualcuno non esita ad uccidere. [...]Nel romanzo sono trattati temi teologici in modo semplice,senza cadere nel banale, e sono poste questioni religiose d’at-tualità nell’intento di comprendere le ragioni che hanno ori-ginato tali temi.

DANIELE GASPARETTILa loggia del conventoGiraldi Editore, Bologna, 2008, pp. 434, € 17.00

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Nei Paesi sviluppati, il settore primario, ridotto di peso dalprocesso di industrializzazione e di terziarizzazione dell’e-conomia, ha richiesto un costoso sistema di aiuti, modificandonel tempo non tanto gli obiettivi quanto gli strumenti dell’in-tervento pubblico. D’altro canto, nei Paesi in via di sviluppo,esso ha richiesto politiche diverse, portando a risultati talvoltaopposti a quelli previsti. Di un tale intreccio di questioni - che

ha generato un sistema di relazioni governate da organismi internazionali e comuni-tari, con importanti ricadute anche sul piano locale - il volume presenta unaricostruzione sistematica, analizzando attori, strumenti ed effetti delle politiche perlo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare.

ANDREA SEGRÈPolitiche per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentareCarocci, Roma, 2008, pp. 244, € 24,30

Se i nonni faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena, iloro nipoti sono alle prese con diete dimagranti e malattie car-diovascolari da cattiva alimentazione. Dalla fame alla sazietà diAndrea Segrè e Alberto Grossi (Sellerio, Palermo 2007) -trascrizione della trasmissione di Rai Radio 2 “Alle otto dellasera” andata in onda nell’ottobre 2006 - prende spunto dall’ali-mentazione collettiva di un paese come l’Italia dove, nell’arco

di pochi decenni del Novecento, si è passati dal soffrire di malattie da denutrizione apatologie da iperalimentazione. Il modello di sviluppo passava allora attraverso l’in-dustrializzazione del cibo, un cibo diventato sempre meno buono per il palato, tal-volta poco sano, tendente ad una omologazione dei gusti. Così facendo sono andateperse tradizioni alimentari, tipicità e biodiversità, saperi pratici e cultura contadina.Ciononostante da una ventina d’anni esiste in Italia un vasto movimento compostoda associazioni, università, enti locali, mondo agricolo che lavorano per invertire larotta, per fare sì che agricoltura, alimentazione, ambiente siano affrontate comeun’unica questione a partire da un modello di sviluppo sostenibile ed eco-compati-bile. Per rimettere al centro l’uomo, il suo diritto al cibo e ad una piena sovranità ali-mentare.

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ANDREA SEGRÈ E ALBERTO GROSSIDalla fame alla sazietàSellerio, Palermo, 2007, pp. 188, € 12,00

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Architetto prolifico nei molti ambiti della proget-tazione, il medicinese Angelo Venturoli (1749-1821) tro-vò un settore d’applicazione provilegiato nell’ideazionedi palazzi, ville e casini di campagna riscuotendo grandefavore presso la committenza felsinea nei decenni chesi pongono tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.In un periodo cruciale per la storia sociale e artistica le sue opere contribuirono inmisura decisiva a connotare il paesaggio bolognese con un linguaggio costantementee fedelmente improntato a quei principi di armonica simmetria e nobile decoro chedecretarono in tutto l’Occidente il successo di Andrea Palladio.Grazie alla presenza di saggi che contestualizzano la figura e l’attività di Venturolicome progettista di ville e schede di approfondimento sui più importanti edifici del-l’epoca - venturoliani e non - il volume offre un contributo rilevante non solo allaconoscenza di una figura di spicco dell’arcitettura italiana di età neoclassica e di unpatrimonio edilizio ragguardevole e ancora troppo poco conosciuto (qui do- cumen-tato anche in un atlante fotografico a colori), ma anche all’approfondimento di unambito culturale ricco e fertile, quello della Bologna napoleonica, che negli ultimianni è stato oggetto di un interesse crescente da parte degli studi storici.

Il testo è una lezione che ruota attorno ai termini spreco e suf-ficienza. Lo spreco da atto negativo può diventare occasionepositiva, da cui l’elogio, per uscire dalla crisi e dalle paure cheanimano il nostro tempo. È necessario però comprendere inquesta direzione anche la logica della sufficienza. Per sup-portare la formula del titolo, il professore Segrè, riporta unaserie di immagini, esperienze, letture interdisciplinari, giochidi parole che conducono sulla via della cooperazione e dellosviluppo, dell’economia del dono, della sobrietà e della semplicità.L’Elogio dello -spr+eco vuole essere una guida per l’economia della sufficienza, unostile di vita alla portata di tutti.

ANDREA SEGRÈElogio dello -SPR+ECO. Formule per una società sufficiente.Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 2008, pp. 112, € 12,00

A CURA DI ANNA MARIA MATTEUCCI E FRANCESCO CECCARELLICON LA COLLABORAIZONE DI SILVIA MEDDENel segno di PalladioAngelo Venturoli e l’architettura di villa nel Bolognese tra Settee Ottocento.Bononia University Press, Bologna, 2008, pp. 270, € 40,00

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Suscitò interesse la tematizzazione della questione laica suggerita dall’intitola-zione della tavola rotonda conclusiva del XV Convegno della Massoneria Toscana(Pisa, 26 gennaio 2008), ora trasferita nella copertina del libro che ne raccogli gli atti:Lo Stato laico in una società multiconfessionale. A essere discusso non era più il rapporto,conflittuale o pacificato, tra Stato e Chiesa, ma la complicata relazione da stabilire traStato e confessioni religiose, Chiese se si vuole, e obbedienze di vario segno. Lo sot-tolinea con provocatorio vigore Gian Mario Cazzaniga: in questo momento gli islamicisono la seconda religione in Italia, ma non credo lo saranno ancora per molti anni. Tra poco laseconda religione in Italia sarà il cristianesimo ortodosso. Dunque il problema è come con-cepire e declinare un corretto rapporto tra la laicità dello Stato in ogni sua articola-zione e il pluralismo religioso che caratterizza sempre più marcatamente le nostresocietà. Pluralismo religioso è preferibile a multiconfessionalità, perché configura lavarietà delle appartenenze in una società che pur deve reggersi su una consapevo-lezza unitaria di destino.

Sappiamo perché il tema della laicità ha acquistato un così assillante rilievo: perla globalizzazione/secolarizzazione e il crollo delle ideologie che l’accompagna, per

Recensioni

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AA.VV.Lo Stato laico in una società multiconfessionaleProtagon Editori Toscani, Siena, 2008, pp. 152, € 18,00

di Roberto Barzanti

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RECENSIONI

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l’invadenza della politica e delle leggi in campi coscienziali (bioetica, diritto di fami-glia), per l’angosciata ricerca di senso e il conseguente nuovo slancio della religione,della fede, dell’appartenenza identitaria. Non si è davanti, dunque, a due poteri o adue ordini contrapposti o alleati, in presenza di mondi, di individui/persone e digruppi/comunità che convivono in spazi costituiti da regole comuni e bisognosi dicomportamenti pubblici condivisi e solidali. Detta in termini assai generali la discus-sione in atto verte sul rapporto da calibrare tra universalità della cittadinanza ediversità delle appartenenze.

Alle politiche di cittadinanza spetta promuovere i diritti e contribuire alla lororealizzazione: e la laicità non può che esprimersi e attuarsi attraverso la garanzia pertutti di condivisi diritti ai quali corrispondano speculari doveri nella prospettiva diuna laicità dell’ascolto, del confronto.

Prima che essere un indirizzo statuale la nuova laicità deve essere un atteggia-mento da acquisire, una cultura da radicare. Dovrà essere una “laicità positiva”, nonarroccata nell’indifferenza. E investirà chi professa una religione e chi non ne pro-fessa alcuna o crede di non professarla: una neutralità aperta e comprensiva dello Statoche dà un pubblico spazio anche alla diversità (Ernst Wolfgang Böckenförde). SottolineaMario Montorzi: laicismo è in primo luogo accettazione del dubbio: La società delle compre-senze – aggiunge – riuscirà a fissare il suo patto regolatore, solo se porrà a proprio comune epartecipato fondamento tale lucida consapevolezza.

La laicità autentica è una dimensione spirituale, non un’ideologia laicista. Bene-detto XVI ha parlato di “sana laicità”: “a ogni Confessione religiosa (purché non siain contrasto con l’ordine morale e non pericolosa per l’ordine pubblico) sia garanti-to il libero esercizio della attività di culto – spirituali, culturali, educative e caritative– della comunità dei credenti” (Udienza ai giuristi cattolici, 9 dicembre 2008).

Le enormi difficoltà nascono da una constatazione molto semplice. È come se dauna partita giocata a due ma nello stesso terreno di gioco si passasse a un gioco conregole ancora da chiarire su un terreno a estensione variabile se non indefinibile. Ilfatto è che – osserva Raimondo Cubeddu – il laicismo tradizionale poteva contare sulla cir-costanza che i valori della società non erano molto diversi da quelli che davano forma alle scel-te pubbliche. Che lo Stato potesse legiferare ignorando completamente quelle che erano le cre-denze ed i valori religiosi diffusi nella società italiana, e da essa condivisi, era un’eventualitàche tutto sommato, poteva essere riassorbita.

Nessuno può negare o contrastare la dimensione pubblica delle religioni, dell’at-tività e della testimonianza della Chiesa cattolica, o delle posizioni che i cattolici-lai-ci impegnati in politica intendano far valere. Ciò che preme è riaffermare, in presen-za di questo vario panorama, di un comune denominatore di cittadinanza, qualeessenziale patrimonio di tutti.

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4/2008HIRAM

Occorre acquisire e praticare lo stesso senso della laicità: di una laicità non impositi-va e agguerrita o ostile, ma accogliente e dialogante. Habermas ha insistito su questo pun-to: la cittadinanza è frutto di “mutuo riconoscimento”. Dunque i laici non devono escluderea priori la possibilità di scoprire nei contributi religiosi, dei contenuti semantici – in qualche casopersino proprie intuizioni inespresse – che sono suscettibili di essere utilmente tradotti sul pia-no dell’argomentazione pubblica, in vista di una “convivenza riflessivamente illuminata”.

Ma coloro che non si riconoscono nell’ottica cristiana e nella visione europea delladuplicità dei piani come si inseriscono in questo duro confronto?

L’appello ad una razionalità universale può essere una soluzione accettata? Essa è inrealtà una costruzione storica. Torna allora in primo piano il punto cruciale che animò laconversazione pisana ed è destinato a durare riproponendosi in varie guise: come assi-curare che il piano laico della cittadinanza non confligga con la pluralità delle dichiarateappartenenze, chiamate a dialogare e collaborare in nome della solidarietà e della pace,ricercando quelle intese e quei compromessi che esaltino con “ragionevolezza” conver-genze ritenute e accettate da tutti come utili e positive.

Integrazione è l’obiettivo, non assimilazione: laica condivisione di metodi, proceduree compromessi. In Italia secondo Gaetano Quagliarello la realizzazione di un pluralismoconfessionale effettivo è cominciata con la revisione del Concordato firmata nel 1984 edè a buono punto. Non è questa la sede per tracciare un bilancio di quanto fatto al propo-sito e di quanto resta da fare, ma io sarei molto meno ottimista. D’accordo con StefanoRodotà (La laicità dopo il caso Sapienza, “la Repubblica”, 22 gennaio 2008).

Anche dall’animato confronto pisano venne fuori un no deciso alla formula delle “reli-gione civile”: versione edulcorata e americanizzante di un approccio di taglio clericale,che riduce la religione a instrumentum regni. E del pari suscita fondatissime preoccupa-zioni una Chiesa che coltivi o avalli posizioni neotemporalistiche di privilegio: il problema[…] è come rendere compatibile – ha affermato Vincenzo Ferrone – il compito costituzionale dicreare in Italia i presupposti per l’esercizio della libertà religiosa per tutti, senza pretese egemoni-che giustificate al numero dei fedeli, in presenza di una chiesa bellarminiana e di un concordatointerpretato univocamente alla luce della ‘potestas indirecta’. Come ogni altra religione il cri-stianesimo – sostiene con pacatezza Enzo Bianchi nel suo limpido “pamphlet” su “La dif-ferenza cristiana” – non può essere confinato nella sfera privata, ma è anche consapevole di nonpoter essere ridotto a politica, né imposto come fede o come etica in una società plurale, né puòrivendicare un posto centrale nella società. Esso è offerto come testimonianza e in quanto taleconvive dialogando in umiltà con le idee e le passioni del tempo, non giovandosi di alcunpotere che non sia quello dell'esperienza e della parola.