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numero 0 • giugno 2012 • 4,50€
A Q U A T T R ’ O C C H I CO NT E R R Y R I C H A R D S O N
F U K U S H I M A : U N A N N O D O P OL’esplosione, i veleni e lo tsunami:
viaggio tra i ricordi e ritorno
G AY P R I D E A B O LO G N A :Ridimensionato, deve tener fronte
ai danni del terremoto
B E A T L ES , I L M I T O I N T R A M O N T A B I L E
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S OMM A R I O
SOMMARIO
FUKUSHIMA, un anno dopo | p. 8L’esplosione, i veleni e lo tsunami:
viaggio tra i ricordi e ritorno.
BOLOGNA, gay-pride 2012 | p. 18Ridimensiona la parata
e sostiene i terremotati
L’OPINIONISTA | p. 6I giovani sono i nuovi schiavi
E. Brancato
L’EDITORIALE | p. 5Un nuovo sguardo sul mondo
G. Macrì
numero 0 • giugno 2012 in copertina: photo by S i m o n L o u f l e t
5HeadUP
S OMM A R I O
RUBRICHE
THE PHOTO ISSUE | p. 24A Terry Richardson experience
Intervista col discusso fotografo
Terry Richardson
THE MUSIC CORNER | p. 27Beatles, impossibi le non amarli
Mezzo secolo dopo è ancora
passione per i Fab Four
6 HeadUP
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7HeadUP
Giulia MacrìEditor In Chief
Dounglas LloydCreative Director
Elisa RuggieriVice-Editor In Chief
Jason EvansArt Director
Marta GalliEditorial Coordinator
Features Editor
Fedra MalaraSenior Graphic Designer
Erika BasilioGraphic Assistant
Katia di BenedettoAdministration
Giorgio FresiaOffice Coordinator
numero 0 • giugno 2012
8 HeadUP
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L’EDITORIALEUn nuovo sguardo sul mondo
È febbraio, fuori si gela e la mia scrivania è
peggio di un campo di battaglia: ci sono appunti
dappertutto, fogli sparsi, fotografie, vecchi
dischi, riviste aperte a metà.
Non sono mai stata famosa per l’ordine, questo
è certo. Ma in quel caos ho pensato, perchè no,
proviamoci. E il giorno dopo, in ufficio, eravamo
seduti attorno ad un tavolo, a discutere del
progetto HeadUP.
L’idea portante è una: parlare ai giovani da
giovani. Avvicinarci al loro mondo con il loro
tono. Da qui allora nasce la necessità di una
grafica particolare, che si staccasse dalle solite
riviste del settore attualità e si accostasse di
più a quelle di musica o di moda o di fotografia
e architettura. Anche la scelta degli argomenti
è stata ponderata e attenta: certo bisognava
informare, pensavamo, rimane comunque
una rivista d’informazione, un mensile che
raccoglie i fatti importanti e restituisce al lettore
uno sguardo sul mondo. Ma il punto era che
volevamo guardare a quello che ci succedeva
attorno con occhi nuovi, occhi giovani. E così,
oltre alle news, c’era bisogno di spazio per la
moda, la fotografia, la musica.
HeadUP è questo: è novità, è informazione, è
tendenza. È il nostro nuovo concetto di rivista.
Giulia Macrì
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L’OPIN IONISTAI giovani sono i nuov i schiav i
Sulle trasformazioni dell’organizzazione e della
composizione del lavoro e sulla fine dell’epoca
“fordista” circolano da decenni biblioteche di
studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad
nauseam. Non occorre essere esperti per capire
che l’eroico tempo della grande concentrazione
operaia e industriale, dei grandi conflitti tra
capitale e lavoro, è tramontata per sempre.
almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme,
in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per
le nostre metropoli.
Quel tempo è diventato archeologia. Ma l’inerzia
delle organizzazioni sindacali e politiche è pari
soltanto a quella delle nostre lingue: le loro
strategie mutano con fatica e lentezza anche
maggiori.
Tutto l’attuale dibattito in materia di occupazione
e diritti del lavoro ha l’aria di un nostalgico
revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse
che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti
di massa in questi anni, o possono frenare,
non dico arrestare, i mutamenti del processo
produttivo, della composizione dell’occupazione,
la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa
medaglia fuori corso, le apologie più o meno
mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse
che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali
materie perché si decida di investire? Come se
tale disponibilità non si manifestasse già, piena,
a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti
di lavoro. Forse che investire, oggi, significa
automaticamente aumentare la domanda di
lavoro?
E mentre ci si balocca a difendere trincee
sulle quali il “nemico” è già passato coi carri
armati, tutta una generazione aspetta di essere
riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi
e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60
per cento di giovani “fortunati” che un lavoro
ce l’hanno? Inventandoselo, nella maggior
parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola
o piccolissima impresa; lavoro autonomo di
servizio, anche ad alta intensità di “conoscenza”;
free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione
che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori
tradizionali. Vuol dire più autonomia e “libertà”?
Non scherziamo.
Nella maggioranza dei casi, queste nuove
imprese, di dimensioni quasi individuali,
senza alcun sostegno finanziario, con tassi di
mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor
più dipendente di quello salariato di una volta.
Non solo perché “servono” a imprese pubbliche
o private più strutturate e politicamente e
sindacalmente più influenti, non solo perché
ne sono in larga misura l’effetto del processo
di “esternalizzazione”, ma perché costrette
a una competizione “mortale” tra loro per
ottenere commesse, che si vedono poi pagate
con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che
precari! E ciò che fa schifo è appunto questo:
Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E’ a loro, oggi, che bisogna guardare.
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che il lavoro giovane, che aspira certamente a
essere autonomo, che è certamente più ricco
culturalmente di quello antico, debba pregare
per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che
il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al
servizio del passato: questo condanna un paese,
una nazione, una civiltà.
Quanti giovani lavorano “dispersi” in questa
galassia? Senza alcun sostegno dal sistema
bancario, ignorati dalla cosiddetta politica.
Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di
disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l’altro,
che sono i più bassi di Europa. E non certo di
semplici “ammortizzatori” vi sarebbe bisogno ma
di una politica del lavoro capace di strutturare
queste nuove forme di impresa, di puntare sulla
loro crescita. O pensiamo di poter aumentare
l’occupazione nel lavoro pubblico dipendente
a tempo indeterminato? Una politica attiva del
lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela,
sostegno strategico, organizzazione sindacale
delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi
ordini e del loro decrepito corporativismo, si
vanno formando nella “rete” dei servizi alle
imprese globali, nell’informazione, nella cultura
(patrimoni artistici, paesaggistici, turismo).
Sarebbe ora di metter mano all’aratro e cessare di
volgere indietro lo sguardo.
Elena Brancato
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U N A N N O D O P O :L’esplosione, i veleni e lo tsunami:
viaggio nei luoghi del disastro. Tra ricordi e risvegl io.
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Ogni terra ha la sua storia. Ogni storia ha la sua memoria. Quella del Giappone ha una memoria foto-grafica universale. Hiroshima, Nagasaki, il Gran terremoto del nord orientale dell’11 Marzo 2011, lo tsunami e l’incidente nucleare di Fukushima. E’ un destino crudele quello del Giappone che convive con una Natura ostile, minacciosa ma che ha reso ogni volta il suo popolo forte, unito e guerriero.
Questa volta il gran terremoto del Nord orientale
ha lasciato tutto il mondo senza parole e il popolo
giapponese senza fiato.
Non si era mai abbattuta una catastrofe naturale
cosi’ grande, di dimensioni inimmaginabili inizi-
ata con una scossa potentissima di 9 gradi della
scala ricther, seguita da un maremoto feroce e ve-
locissimo che si e’ abbattuto sulle coste piu’ fragili
del Giappone e ha colpito a morte i vecchi reattori
della centrale di Fukushima, costruita nel 1971 vi-
cino al mare.
Ventimila vittime, oltre 470 mila sfollati, tutto
distrutto, tonnellate e tonnellate di detriti da
smaltire, veleni fuoriusciti dalle centrali. Quasi un
anno per raffreddare i reattori della centrale Dai-
ichi della Tepco.
Incalcolabili danni e altrettanto rischi ed incog-
nite per il futuro.
Il Giappone sembra si sia appena risvegliato da un
trauma colossale senza precedenti storici.
Il primo impatto con Tokyo e’ morbido. Tut-
to e’ silenzioso, ordinato, pulito come prima.
A tratti surreale, sorprendente ed estraniante.
La vita sembra scorrere veloce ed ordinata come
prima, anche se quell’11 marzo poteva finire tut-
to. Anche a Tokyo, la metropoli che fino ad allora
viveva con l’energia fornita dalle centrali di Fuku-
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shima costruite a 263 chilometri di distanza. Ad
Iwate, la costa nord orientale, cosi’ incontamina-
ta, bella e accogliente dopo questa tragedia e’ di-
ventata una costa solitaria, svuotata e rimossa con
le radici degli alberi emerse
dalla sabbia. Eppure al
risveglio, un anno dopo, i
testimoni sopravvissuti a
questa tragedia hanno tro-
vato la forza e la volonta’ di andare avanti, hanno
iniziato a lentamente a ricordare.
Il capitano Masuo Murayama, pilota della polizia
di Iwate e’ stato tra i primi a partire in ricognizione
di emergenza l’11 marzo di un anno fa.
«La terra tremava ancora. Ricordo di aver vis-
to l’onda arrivare e portarsi via tutto, ho visto il
mare sommergere tutto. Ma non potevo fare nulla.
Potevo solo guardare dall’alto».
A Rikuzentakada la natura ha scritto la sua ultima frase. Non ci sono piu’ segni riconoscibi-
li. Quello che e’ rimasto e’ tutto storto. Silenzioso.
Ma terribilmente calmo. L’onda qui ha superato 15
metri, forse 20, forse di più; qui ci ha messo solo 9
minuti ad arrivare.
«Quest’onda ha distrutto
tutta la pineta dei pini sulla
spiaggia - racconta Yoshi-
hisa Suzuki, il guardiano
dell’ultimo pino rimasto in
piedi. Lo chiamano Ippon-matsu - il pino dei mi-
racoli. Quest’albero ha 260 anni ed è il simbolo
per la nostra resistenza, la nostra ricostruzione»
dice il signor Suzuki, in mezzo al suo ricordo di
una pineta e tra le radici emerse sulla spiaggia.
Minamisanriku è un’altra citta’ spazzata via dall’onda. Il signor Setsuo Sato, fa il giardiniere
e sembra si sia appena svegliato da un incubo.
Ci porta ad immaginare l’onda dalle onsen - i bag-
ni termali - famosi in questa regione del Tohoku.
Lo fa con una dignità e una calma interna che
«Ma non potevo fare nul la.Potevo solo guardare dal l ’alto»
Lo tsunami di Fukushima:uno strano effetto sull’acqua
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raramente si incontra nelle vie del mondo. Deve
essere questa la saggezza orientale. Deve essere
questo lo spirito del Tohoku.
Shiogama è un’altra città del mare. Al mer-
cato del pesce di Shiogama non c’e’ nessun odore.
Tutto si svolge come prima. La paura del cibo con-
taminato dal mare che ha accolto i veleni della
centrale e’ andata via. Il signor Shirahata e’ un
cuoco stimato. Il suo ristorante e’ stato allagato.
Ha perso amici e conoscenti nella tragedia ma
come tutti non ha altra scelta: deve andare avanti
con le proprie forze.
“Ce la stiamo facendo perché pensiamo a noi, al
gruppo” dice Shirahata.
Pensare agli altri per non pensare al proprio do-
lore?
Funziona così anche per Akio Shoji, un ragazzo
che soffriva di una sindrome che porta un nome
giapponese: come lo tsunami. Akio Shoji e’ un
ex-ikikomori. Ex programmatore informatico, ha
passato un periodo molto difficile al lavoro, e si e’
chiuso in se stesso. Ha costruito piano piano un
muro di isolamento tra lui e il mondo.
Sempre meno amici, sempre meno contatti, sem-
pre piu’ mondo virtuale. Per lui lo tsunami e’ sta-
to un vero risveglio. Una rinascita. Adesso aiuta
grazie ad un ‘associazione di volontari, le vittime
dello tsunami, trova la sua nuova ragion d’essere
attraverso una missione sociale.
A Zao, una stazione sciistica, c’e’ sempre la sper-
anza del futuro.
Si ricomincia il nuovo anno con lo spettacolo dei
fuochi d’artificio. E’ bene che ci sia sempre il cor-
aggio di andare avanti, lasciarsi in qualche modo
quel ricordo di esplosioni nucleari alle spalle.
Senza negare. Il viaggio continua verso Soma e
Mimanisoma; vicini alla zona interdetta dei 20
chilometri. Da qui sono state evacuate 128 mila
persone. A Soma ci sono donne e uomini che
Gli effetti del terremoto
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hanno paura. Siamo nella zona dei 40 chilometri,
quindi sulla carta vivibile. Ma il problema e’ che il
nemico invisibile, le particelle radioattive ancora
circolano nell’aria, si spostano con il vento, con la
pioggia.
Queste signore con la dignità e la compostezza
venute da un altro pianeta raccontano che hanno
paura per i loro figli, che si son dovute organizzare
per controllare il cibo e che non hanno fiducia.
Questa paura e’ comprensibile. A 30 chilometri dalla centrale e 10 chilometri da
loro sono andati tutti via. E per i prossimi cinque
anni non potranno tornare a casa. Perche’ loro no?
Sulla strada dello tsunami verso Fukushima city
arriviamo a Iidate. Mentre passiamo stanno facen-
do la decontaminazione di un “hot-spot”= mini
zona rossa , allontanarsi prego! Qui i valori sono
alti. Le squadre di operai della Tepco lavorano.
Spostano terra contaminata da un punto all’altro.
Ad Iwaki il signor Endo combatte con il nemico
invisibile ogni giorno; sembra un eroe di un film
d’azione. Lui ha perso tutto, casa, lavoro e si e’ do-
vuto separare dalla sua famiglia. Aveva un ryokan
all’interno della zona rossa, sua moglie e’ andata
con le figlie a Tokyo, ma lui non ha potuto abban-
donare la sua terra.
Ogni giorno prepara i pranzi per gli operai della
centrale e gli ospedali e li consegna a domicilio.
«Io non ho paura di entrare nella zona rossa - rac-
conta - ogni giorno misuro le radiazioni sul mio
corpo con un dosimetro e finora non ho superato
la soglia. Entro solo per due ore , non mi dilungo
certo a parlare».
In Giappone adesso piu’ che mai non c’e’ tempo da perdere. Se prima si doveva convi-
vere con una natura ostile, adesso c’e’ il nemico
radioattivo da combattere.
Difficile quando è così compatto ed insidioso.
L’11 marzo 2011 lo tsunami devastava le coste gi-
apponesi e alla centrale nucleare di Fukushima
Daiichi il sistema di raffreddamento smetteva di
funzionare portando all’incidente nucleare.
I dottori controllano che i bambini non abbiano subito troppi danni
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Lo tsunami di Fukushima,un’onda che travolge qualsiasi cosa
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Mentre l’anniversario si avvicina siamo an-dati a parlare con Massimo Scalia esperto di nucleare, ordinario di Fisica all’Università La Sapienza di Roma e tra i personaggi più attivi della battaglia italiana contro l’atomo dagli anni ‘80 ad oggi.
Si può tentare un bilancio dei danni dell’incidente di Fukushima?Sono ancora in corso operazioni di decontamina-
zione per cui è ancora difficile fare una stima.
Considerando solo la parte ingegneristica
dell’impianto, ricordiamo che l’incidente di Three
Miles Island è costato 2 miliardi di dollari e si
trattava di un solo reattore, qui ce ne sono 4 che
sono andati tutti in fusione. Credo che nemmeno
la Tepco abbia un bilancio attuale. Ma i danni ov-
viamente vanno ben oltre l’impianto: basti pen-
sare che sono state evacuate 200mila persone e un
milione sono state interessate direttamente dalla
contaminazione.
Quali sono stati i settori dell’economia più colpiti nella regione?La domanda è ottimista: l’incidente ha avuto rile-
vanza nazionale per quel che riguarda l’economia
giapponese e mondiale per quel che riguarda il
danno ambientale, tracce di radioattività da Fuku-
shima sono state infatti rilevate fino alla costa
occidentale americana. A livello di economia gi-
apponese credo che nemmeno il Governo gi-
apponese abbia ancora calcolato i danni. Si pensi
al grosso buco energetico lasciato dal nucleare,
dato che ora sono in funzione solo 2-3 centrali
su 52. Si pensi poi all’agricoltura e alla pesca: per
mesi le acque sono state contaminate e c’è stato
anche un allarme sui pesci pescati in quella zona.
Ma il danno più grave è quello sulle persone.
Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum
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Un danno anche questo le cui dimensioni si potranno conoscere solo tra qualche decen-nio. Ci sono delle stime indicative?Già poco dopo l’incidente
fummo facili profeti nel dire
che, nell’arco di 30 anni, le
vittime da radioattività dovuta all’incidente nucle-
are avrebbero superato quelle dello tsunami.
Le circa 20mila morti provocate dallo tsunami
fanno impressione perché sono arrivate tutte as-
sieme ma, sulla base dei quantitativi di radioat-
tività emessi, si può dire che certo negli anni a
venire qualche migliaio di morti in più rispetto
alla mortalità media del Paese saranno dovuti
all’incidente. E non solo nell’area di Fukushima:
molti hanno dimenticato che è stato ritrovato io-
dio radioattivo anche negli acquedotti di Tokio e
verdura radioattiva a più di 200 chilometri dalla
centrale.
A freddo come si può valutare la gestione dell’incidente da parte di Tepco?È stata semplicemente vergognosa. La Tepco è
stata reticente quando non ha mentito spudor-
atamente. Ad esempio, si è ritardato al massimo
il raffreddamento con l’acqua di mare dei reattori,
per paura di mettere a rischio una futura opera-
tività degli stessi. Inoltre in continuazione sono
stati forniti dati molto più ottimistici rispetto a
quello che stava realmente succedendo: per esem-
pio si negava il fatto che i reattori stessero fond-
endo. Questo ha di conseguenza ritardato le pro-
cedure di evacuazione. C’è
stata una gestione pessima
dell’informazione, ma ques-
to in materia di incidenti
nucleari non è certo una no-
vità, basti ricordare che ai tempi di Chernobyl la
stampa francese ignorò per più di una settimana
l’incidente. Segretezza e verticismo sono caratter-
istiche intrinseche dell’industria nucleare.
L’incidente è stato un duro colpo per la rep-utazione del nucleare.La stessa IAEA, l’agenzia internazionale per
l’energia atomica, ha definito l’incidente di Fuku-
shima una catastrofe globale al pari di Chernobyl,
utilizzando la scala INES, creata se non ricordo
male nell’89. C’è da chiedersi se, qualora si fosse
ammessa la possibilità di una catastrofe di scala
globale fin dagli esordi della tecnologia, il nucle-
are avrebbe avuto lo sviluppo che ha avuto negli
anni 60-70, da un megatep nel ‘60 a 146 megatep
nel ‘73. Sembrerebbe difficile. Lo sviluppo ci fu
perché vigeva il dogma della sicurezza nucleare:
si pensava che neanche un briciolo di radioattività
potesse uscire dalla centrale.
Le nuove generazioni di reattori potran-no colmare le lacune sulla sicurezza che l’incidente ha reso evidenti?
«I l danno più grave è quel lo sul le persone»
Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum
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Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum
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La quarta generazione è ancora in una fase di
ricerca e sviluppo. La stessa cosiddetta ‘terza
generazione’ avanzata è praticamente allo stadio
di prototipi, dato che sono solo 3 al mondo i re-
attori che si stanno costruendo con questa tec-
nologia, quella francese dell’EPR. Questi reattori
non portano miglioramenti significativi a livello
di sicurezza; non è stato raggiunto il livello della
sicurezza intrinseca, che si era promesso già negli
anni ‘80 nel dibattito sul nucleare, cioè il fatto che
il reattore sia progettato in modo che, per leggi
fisiche, in caso di incidente sia in grado di speg-
nersi da solo, senza bisogno di interventi esterni,
per quanto automatizzati.
L’incidente ha fatto rivedere a diversi Sta-ti, tra cui il nostro, i propri programmi sull’atomo. Come vede il futuro del nucle-are ora?La IEA (Internation Energy Agency, ndr) già nel
2001 stimava un declino per il decennio, visto che
nel 2000 solo il 3% della nuova potenza installata
era venuta dall’atomo. In realtà questo declino è
stato peggiore del previsto dato che negli anni suc-
cessivi si è installato meno nucleare che nel 2000.
La previsione è che il nucleare si vada a spegnere
tra il 2050 e il 2060. Fra 3 anni, nel 2015, 91 re-
attori su un parco di circa 440 avranno superato
l’età critica di 40 anni e di sicuro nei prossimi 3
anni non entreranno in funzione 91 nuovi reattori.
Dopo Fukushima la propensione dei Governi ad
assumersi la responsabilità di allungare la vita dei
reattori oltre i 40 anni è cambiata, si veda il caso
della Germania. Si tenga conto che la vita media
dei 123 reattori chiusi fino al 2009 è stata di 22
anni.
• Raffaela Scaglietta
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Prevale i l compromesso: ridotto i l percorso, el iminati i carri e predisposto
un fondo per le vitt ime del terremoto
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Una parte del mondo omosessuale, a partire dal vicepresidente Pd Scalfarotto, chiedeva di cancellare la parata. Al la fine prevale una soluzione di compromesso: ridotto i l percorso,
el iminati i carri, e viene predisposto un fondo per le vitt ime.
Niente carri allegorici, un percorso più breve e la
creazione di un fondo per aiutare le vittime del
terremoto. Il Gay pride nazionale, previsto per
il prossimo 9 giugno a Bologna, rimane confer-
mato, ma terrà inevitabilmente conto degli eventi
drammatici che hanno scosso, nelle ultime ore, le
popolazioni dell’Emilia. La decisione è stata presa
stamattina, dopo che, da più parti, si erano levati
appelli a ripensare la sfilata che vedrà arrivare
da tutta Italia decine di migliaia di omosessuali,
per rivendicare pari diritti. Anche in questo caso,
però, il movimento omosessuale si è diviso: se,
ieri sera, Ivan Scalfarotto, vicepresidente del Pd,
aveva suggerito, supportato da diversi militanti, di
“annullare la parata”, altri hanno invece difeso la
necessità di continuare a sfilare.
Alla fine ha prevalso la linea “moderata”,come si evince dall’e-mail inviata, in queste ore,
dal Comitato Bologna Pride alle associazioni che
avevano già versato la quota di iscrizione e prov-
veduto a prenotare i carri allegorici. “Gentili as-
sociazioni, vi scrivo per comunicarvi importanti
decisioni relative alla parata del 9 Giugno - spie-
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ga il messaggio a firma di Federico Sassoli, della
direzione tecnica del Bologna Pride - Gli eventi
drammatici che hanno colpito l’Emilia negli ul-
timi giorni hanno costretto il comitato Pride a una
doverosa riflessione sull’impianto generale della
parata, che non può più essere quello ipotizzato in
partenza. La decisione presa è quella di eliminare
i carri allegorici e destinare
i soldi destinati ai noleggi
ad un fondo destinato alla
ricostruzione. Anche il per-
corso della parata sarà ri-
dotto, mentre il party finale
sarà l’occasione per stimolare la raccolta di fondi
per le vittime del sisma”.
Alle associazioni che hanno già versato quote di
partecipazione viene data la possibilità di sceg-
liere “se farsi restituire il versato ed eventual-
mente provvedere autonomamente ad azioni di
solidarietà o se aderire alla raccolta promossa dal
comitato”.
“Anche le associazioni che non hanno ancora rego-
lato le quote di partecipazione - spiega ancora
Sassoli - hanno la libertà di scegliere se versare
lo stesso la quota al comitato o se provvedere au-
tonomamente a individuare modalità alternative
di supporto alle popolazioni colpite”.
“Il Pride ci sarà: perché il Pride è innanzitutto la
denuncia di un vuoto nei diritti e di conseguenza
nelle vite delle persone gay,
lesbiche e trans del nostro
Paese. Questo vuoto non si
sospende, non conosce tre-
gua, e miete vittime nel si-
lenzio.
Ma soprattutto la denuncia di questo vuoto e le riv-
endicazioni che da anni la comunità lgbt sostiene
non hanno nulla di offensivo né di incompatibile
con il tragico momento che l’Emilia sta attraver-
sando”, osservano gli organizzatori.
Durante tutta la manifestazione alcune associazio-
ni del circuito Arci delle cittadine colpite dal terre-
moto gestiranno direttamente una raccolta fondi.
«Cerchiamo di fare le cose senza fregarcene degl i altri e di ciò che avviene intorno a noi»
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Lo stesso Bologna Pride destinerà i fondi del carro
di apertura alle popolazioni colpite dal sisma.
Non sarà comunque un corteo silenzioso:alcune bande cittadine, guidate dalla Banda Ron-
cati, offriranno ai manifestanti le musiche della
tradizione emiliana. In piazza Maggiore, punto
d’arrivo della manifestazione, sarà allestito un
mercato agroalimentare che metterà in vendita i
prodotti delle aziende danneggiate dall’evento tel-
lurico. Infine, la festa di finanziamento al parco
Nord con cui si conclude il programma del Pride
devolverà una parte dell’utile alle popolazioni ter-
remotate. “Queste iniziative sono state messe in
campo previo confronto con le istituzioni, prima
fra tutte l’amministrazione comunale, che ringra-
ziamo per il sostegno e la fiducia”, fanno notare
dal Comitato.
Mentre sui social network, il popolo Glbt continua
ancora ad interrogarsi sulla valenza e il significato
di questo corteo, in una terra martoriata dal sisma,
Aurelio Mancuso, presidente di Equality accoglie
favorevolmente il messaggio che arriva da Bolo-
gna. “Sono assolutamente d’accordo con questa
decisione - osserva - Gli organizzatori hanno fat-
to molto bene, anche perché molti gay chiedono di
essere in sintonia con il momento drammatico che
sta vivendo il Paese. Il Pride può essere fatto in
molti modi: e questo è anche un modo per far ca-
pire che non siamo egoisti, e che cerchiamo di fare
le cose senza fregarcene degli altri e di ciò che av-
viene intorno a noi. Le nostre rivendicazioni sono
all’interno di questo Paese”.
Paola Concia, deputata del Pd, che ha anche vis-
suto in prima persona il dramma del terremoto de
l’Aquila (essendo originaria di Avezzano), si dice
in “sintonia con la decisione del comitato. Sarà un
Pride di solidarietà, in cui si chiama a raccolta la
comunità omosessuale e transessuale italiana, in-
vitandola a fare un gesto concreto per le popolazi-
oni colpite dal terremoto. Gli omosessuali e le per-
sone transessuali sono cittadini come tutti gli altri
ed è positivo che si facciano carico dei problemi
del Paese e che utilizzino questo evento, come un
momento per la solidarietà e la raccolta fondi. Per
questo mi auguro che la partecipazione sia ancora
più ampia e che coinvolga anche gli eterosessuali”.
Soddisfazione viene espressa anche dagli organiz-
zatori del “Padova Pride Village”, che avrebbero
Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum
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dovuto prendere parte, con un carro allegorico,
alla parata del 9 giugno: “In un momento così
difficile per il nostro Paese, nel rispetto delle
popolazioni colpite dal terremoto, ci è sembrato
doveroso compiere una scelta di pacatezza e rac-
coglierci intorno al dolore delle famiglie che han-
no subito ingenti perdite umane e materiali”.
Rimane diversa la posizione di Scalfarotto, che,
proprio ieri, aveva suggerito agli organizzatori di
annullare l’appuntamento bolognese, mantenen-
do però tutte le manifestazioni culturali: “Il Pride,
come è giusto che sia, deve essere una festa, un
momento di celebrazione
gioiosa: farlo composto e
sobrio non ha senso - dice
l’esponente del Pd e mili-
tante Glbt - Ritengo che un
Gay pride sobrio rappresenti una contraddizione
in termini. Come si fa a fare un Pride senza mu-
sica? E’ una soluzione ipocrita. Si tratta di snatu-
rare una manifestazione che è, invece, un corteo
di vita e di voglia di farsi vedere. E’ inutile fare le
cose a metà: è una soluzione all’italiana. Sarebbe
più giusto dire che siamo fieri di essere vicini alle
popolazioni colpite e che ci mettiamo a loro dispo-
sizione”. Un Gay Pride ridotto, senza carri né im-
pianti per la musica, in modo da devolvere i soldi
risparmiati alle vittime del terremoto in Emilia.
Lo ha deciso il comitato che organizza la sfilata
annuale dell’orgoglio omosessuale, in programma
sabato 9 giugno a Bologna. Non era mai successo
prima. L’iniziativa è partita dalle associazioni lgbt
del territorio. «Siamo parte integrante del Paese,
non possiamo non sentirci chiamati in causa di
fronte a quello che è successo», spiega Paolo Pa-
tané, presidente nazionale di Arcigay.
«La nostra comunità conosce il valore della soli-
darietà: durante il corteo, oltre a chiedere parità
di diritti per tutti, daremo anche qualcosa: il nos-
tro contributo alla ricostru-
zione», aggiunge Patané. Lo
stesso Bologna Pride, an-
nuncia il Comitato organ-
izzatore, destinerà i fondi
del carro di apertura alle popolazioni colpite dal
sisma. E in piazza Maggiore, punto d’arrivo della
manifestazione, sarà allestito un piccolo mercato
agroalimentare che metterà in vendita i prodotti
delle aziende danneggiate dal terremoto.
• Giorgio Rossi
«È inuti le fare le cose a metà: è una soluzione al l ’ ital iana.»
Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum
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C R O N A C A
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C R O N A C A
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R U B R I C H E - F o t o g r a f i a
THE PHOTO ISSUEA Terry Richardson experience
Eccessivo e trasgressivo, spesso il lavoro di Terry Richardson si muove sulla linea di confine che delimita ciò che normalmente è considerato di “buon gusto” e ciò che non lo è. Abbiamo incontrato il fotografo newyor-chese all’apertura della sua mostra person-ale presso L’Inde Le Palais.
Mi chiedevo perché un libro come Kibosh e perché a questo punto della sua carriera?In realtà è un progetto che avevo in mente da mol-
to. Quando ho incontrato le persone giuste con cui
farlo, la casa editrice Damiani, allora il progetto è
scaturito in maniera naturale. Sai, è come quando
incontri qualcuno di cui ti innamori, tutto può
nascere grazie a questo amore. La motivazione
principale per cui ho deciso di produrre un lavoro
di questo tipo nasce dal desiderio di cambiare reg-
istro e fare cose diverse, di passare oltre, rappre-
senta la fine di un periodo e l’inizio di un altro. Il
libro registra quello che sono stato fino ad ora, ho
voluto pubblicarlo ora prima di diventare vecchio
e brutto, prima di mettere la testa a posto e pen-
sare magari ad una famiglia!
Jared Leto fotografatoda Richardson
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F o t o g r a f i a - R U B R I C H E
Non siamo abituati a vedere un fotografo davanti alla macchina fotografica e, per di più, vederlo posare nudo. Viene da pensare che ci sia una bella dose di egocentrismo.C’è sicuramente una componente narcisistica,
non lo nego, l’essere artisti comprende spesso una
forma di narcisismo. Ma è iniziato come un es-
perimento, spesso ho fotografato persone che non
erano a loro agio nude davanti all’obiettivo e per
facilitare le cose decidevo di spogliarmi anch’io e
farlo diventare uno scambio: “io ti fotografo e tu
fotografi me!” Alla fine il progetto ha preso questa
forma, è stato un modo per documentare me stes-
so, ma, forse, non era così programmato all’inizio.
Al di là di una possibile forma di narcisismo, il li-
bro è il risultato di uno studio sul concetto di di-
ventare oggetti di un obiettivo, dove il fotografo
diventa in tal senso protagonista, un cambio di
prospettiva.
Le è mai capitato di subire delle pressioni? Può essere capitato, ma è anche comprensibile,
se ti vengono chieste delle immagini, devi con-
segnare qualcosa che possa essere pubblicato, in-
evitabile che qualche barriera ci sia, ma non che
io l’abbia sentita come eccessivamente riduttiva
del mio operato. Certo è che tendo a lavorare con
chi crede in quello che faccio, con chi mi capisce
e mi permette di fare quello che sento e, quindi, sa
bene quale tipo di foto posso dargli.
• Stefano Guerrini
Charlotte Free fotografatada Richardson
Richardson e L. Lohan
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C R O N A C A
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Mu s i c a - R U B R I C H E
THE MUSIC CORNERBeatles, impossibi le non amarli
Chi li rimpiange. Chi da quegli anni non si è mai svegliato. Chi ne rinnova il mito. Mezzo secolo dopo è ancora passione per i Fab Four.
Nessuno immaginava che John, Paul, George e
Ringo, quattro ragazzi di Liverpool che avreb-
bero presto chiamato i Fab Four, avessero il po-
tere di scatenare quel finimondo. Neppure George
Martin, il responsabile artistico della Emi/Par-
lophone, che riuscì a tradurre in forma musicale
compiuta le loro idee geniali. Lo stesso Martin in
“The Summer of Love”, racconta che la prima vol-
ta pensò che la loro musica non fosse un granché.
Ma intuì che quei tipi erano diversi da ogni altra
band avesse mai incontrato: avevano carisma, tal-
ento da vendere, erano sfrontati ma mai volgari e
soprattutto possedevano la qualità di piacere.
C’è ancora gente che non riesce a svegliarsi da quel
sogno. E milioni di altri, i loro figli e nipoti, che lo
rimpiangono con nostalgia. Del resto come dargli
torto? Si dice che la musica che ascoltiamo tra i 14
e i 16 anni lasci un imprinting indelebile. Un tatu-
aggio emotivo che ci si porta dentro per sempre.
Per questo certe canzoni, continuano a evocare gli
spiriti dell’adolescenza. E’ lecito immaginare che
nell’età della formazione svegliarsi ascoltando i
Beatles piuttosto che i Nirvana o i Tokio Hotel non
sia la stessa cosa. E questo sebbene Kurt Cobain e
gli altri abbiano entrambi ammesso di essersi ispi-
rati a piene mani ai Fab Four. Del resto potrebbe
essere altrimenti? Certo che no!
• Alberto Genovesi
Aquo occus, sita nonse serspist la si blam, site velit imus earchicipsum