Hans Keilson, "La morte dell'avversario"

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romanzo hans keilson la morte dell’avversario

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Il primo capitolo del romanzo "La morte dell'avversario", ancora inedito in Italia, dello scrittore ebreo nato a Berlino, Hans Keilson.

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CARTA: Patinata Lucida - Garda Gloss - gr 130 - PROFILO DI STAMPA: COATED FROGA39 - DIMENSIONE: 145x223 mm - RIFILATO: 140x215 mm CARTONATO

UFF. TECNICODIR. EDITORIALE EDITOR GRAFICO REDAZIONEART DIRECTOR

4 M M D I A B B O N D A N Z A P E R L A P I E G A 4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I E G A

La pubblicazione di questo libro segna la sco-perta di uno scrittore ancora inedito in Italia, ma altrove considerato uno dei più grandi del Novecento. Un autore che il “New York Times”, appena un anno fa, non ha esitato a definire un “genio”. E di cui il “Time” ha scritto: “Ciò che fa di Keilson un autore unico fra quanti si sono occupati del nazismo è la profondità con cui riesce a penetrare sia nella mente del persecu-tore che in quella del perseguitato”. Niente di più vero. Dopo aver letto questo libro, chiun-que si renderà conto di essersi confrontato con una pietra miliare della letteratura mondiale, e di non aver mai letto prima un romanzo capace di raccontare con tanta lucidità e tanto vigore narrativo la duplice, contraddittoria, ambigua reazione degli ebrei all’avvento del nazismo.

Scritto da Keilson mentre viveva in clande-stinità in Olanda e pubblicato per la prima vol-ta nel 1947, La morte dell’avvversario è l’autori-tratto di un giovane che sente di non potersi sottrarre al fascino di un anonimo avversario che sta conquistando il potere nella Germania degli anni Trenta. È un sentimento che avverte nascere dentro di sé dal momento in cui, bam-bino, ascolta di nascosto le preoccupate con-versazioni dei genitori su un controverso lea-der politico chiamato B. che ha iniziato la sua scalata al potere. Giunto alla convinzione che avere un nemico è indispensabile alla propria sopravvivenza, quando finalmente ascolta i discorsi di B. il protagonista, ormai adulto, ri-mane abbagliato da quelle parole e comincia a capire chi è davvero il suo avversario. Capi-sce soprattutto che B. ha bisogno di lui tanto quanto lui ha bisogno di B. Ci sono odio e di-sprezzo, nel suo animo, ma anche un forte sen-so di superiorità e una sinistra fascinazione.

Da questa profonda, spaventosamente lu-cida riflessione, mossa da un bisogno insazia-bile di verità, nasce un racconto sconvolgente non tanto per l’evocazione dei crimini com-messi da Hitler, quanto per la capacità di com-prendere, da parte del perseguitato, le ragio-ni che animano il suo persecutore e le proprie reazioni, cercando una logica anche dove essa sembra non esistere.I N s O v R A C C O P E R TA :

J A N N I s K O U N E L L I s , s E N Z A T I T O L O ( R o s a n e R a ) , 19 6 6

M I L A N O , M U s E O D E L N O v E C E N T O

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romanzo

A R T D I R E C T O R : G I A C O M O C A L L OG R A P h I C D E s I G N E R : N A D I A M O R E L L I

Ebreo tedesco nato a Berlino nel 1909, Hans Keilson ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1934. Fuggito in Olanda, durante la Seconda guerra mondiale ha partecipato alla resistenza. Successivamente si è dedicato alla psicoanali-si, impegnando l’intera sua vita nella cura dei bambini colpiti dal trauma della guerra e del-la deportazione. Nel 2008 ha ricevuto il Welt-Literatur Preis. Vive, centunenne, con sua mo-glie a Bussum, nei dintorni di Amsterdam.

d 19,00

Racconterò tutto e non tacerò nulla, di quel che riguarda il mio nemico e me. Quando penso alla sua morte, ricordo la mia vita. Da quando è diventato il mio, comprendo il suo destino in modo più profondo, più grande di quanto avessi mai pensato.Non racconterò nulla del dolore che a causa sua è disceso su di noi. L’ora della morte non è quella della resa dei conti.

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Hans Keilson

La morte deLL’avverSario

romanzo

traduzione di margherita Carbonaro

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La morte dell’avversariodi Hans Keilson

Collezione Scrittori italiani e stranieri

iSBN 978-88-04-61022-9

First published 1959 by verlag Georg Westermann, Braunschweig© 2005 S. Fischer verlag GmbH, Frankfurt am main© 2011 arnoldo mondadori editore S.p.a., milano

titolo dell’opera originaleDer Tod des Widersachers

i edizione aprile 2011

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La morte dell’avversario

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Gli appunti qui pubblicati mi furono consegnati qual-che tempo fa ad amsterdam, al termine della guer-ra, da un avvocato olandese. Lui stesso, così mi disse, li aveva ricevuti due anni e mezzo all’incirca dopo lo scoppio della guerra da un suo cliente, un uomo sulla trentina che gli aveva chiesto talvolta qualche consi-glio in merito a semplici questioni professionali, come avviene nella pratica quotidiana di un avvocato. Fra loro non si era mai instaurata una particolare confiden-za che avrebbe potuto spiegare perché l’uomo aves-se consegnato a lui, il suo consulente legale, un fascio di fogli scritti prima di scomparire per qualche tem-po dalla scena e di mettersi al sicuro, non senza aver precedentemente dichiarato che quei fogli non avreb-bero costituito un pericolo per l’attuale proprietario e che avrebbero potuto essere conservati ovunque. tut-tavia l’avvocato aveva ritenuto meglio seppellirli in-sieme a oggetti propri e a quelli di altri clienti sotto la sua casa, dove avevano superato la guerra. ma se la maggior parte degli scritti seppelliti aveva potuto esse-re recuperata dai rispettivi proprietari, quegli appunti erano rimasti invece nel suo scrittoio.

«ecco» disse porgendomi il fascio di carte. erano piene di macchie, sgualcite, la scrittura parzialmente sbiadita, come se fossero rimaste a lungo nell’acqua.

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«Sono scritti in tedesco» dissi sorpreso.«Legga» rispose lui brevemente.«Quindi non sono di un olandese» dissi.«No. Legga e mi dica che cosa ne pensa.»Cominciai a chiedere informazioni sull’autore, ma

lui scansava ogni risposta. Sapevo che parlava un ot-timo tedesco e mi chiesi se non fosse stato lui a scri-verli. Feci qualche cauta domanda. Lui rise e si limitò a dire: «Legga, se vuole».

«e poi?» chiesi ancora.«Non lo so. Forse le viene in mente qualcosa.»«Non è un falso?»«No, no» si affrettò a rispondere, «controlli lei. Queste

carte contengono appunti che vanno interpretati di cer-to come un tentativo da parte dell’autore di far chiarez-za su questioni molto personali riguardanti il suo de-stino. ma innanzitutto legga, poi potremo parlarne. era un perseguitato.»

«Lo eravamo tutti.»«me li riporterà?»Chiuse il cassetto dal quale li aveva presi. Lo guar-

dai, avrei voluto fare ancora qualche domanda. ma era impaziente. Lasciai stare.

«C’è fretta?» chiesi soltanto.«No» rispose. «Può trovarmi qui nel mio ufficio.»Ci salutammo. Qualche giorno dopo mi chiamò per avere l’indi-

rizzo di un conoscente comune che si era rifatto vivo all’improvviso. Glielo diedi.

«e allora?» chiese.«Non ho ancora avuto tempo» risposi.«Non c’è fretta. Ci vediamo?»«Glieli riporto!» dissi.«va bene» rispose, e rise.Nei giorni seguenti li lessi.

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da giorni e settimane non penso ormai ad altro che alla morte. ogni mattina mi alzo presto dopo una not-te senza sogni, sebbene in genere io dorma con piace-re e a lungo. Percepisco le mie forze, vigorose e pron-te dentro di me, come non mi succedeva da tempo. Saluto il giorno che mi riporta il pensiero della mor-te. a ogni respiro penetra in me, sempre più a fondo, fin nel punto più segreto del mio corpo, e lo pervade completamente. È la morte a guidare la mia penna, la morte! dio solo sa quale esperienza vissuta ha depo-sto i pensieri della morte come piccole uova nel mio cervello, dove hanno covato inavvertiti e sono matu-rati finché un giorno si sono schiusi presentandosi alla mia coscienza. aha, ho pensato quando il pensiero è affiorato in me per la prima volta, eccolo, e l’ho salu-tato come si saluta un vecchio conoscente che ha preso il treno successivo rispetto a quello previsto. in realtà non l’avevo aspettato poi tanto, arrivava comunque troppo presto, e a sorpresa. Non l’avevo neppure in-vocato. Un tempo, sentendo altri parlare dei loro pen-sieri di morte – e la gente ama soffermarsi più di tutto su ciò che chiama il suo momento estremo – balenò in me: e tu, come te la vedi con la morte, dimmi, come ti regoli con lei? e fumavo la mia sigaretta con l’animo in pace, bevevo il mio tè zuccherato, ascoltavo i rac-

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conti degli altri e mi sentivo bene. Non mi veniva in mente nient’altro. in ogni caso ero quel che si dice un osservatore neutrale. La morte – benvenuta, pensavo, oppure al diavolo –, mio dio, non so proprio che farci. Sono ancora sano, facendo gli scongiuri, sono giova-ne e mi sento bene e non spero di essere in qualche modo già destinato. tutto ciò è cambiato da quando penso alla morte. e non faccio altro che starmene se-duto e pensare alla morte. Ne sono così ricolmo che se mi mozzassero la testa dal tronco, il mio stomaco o l’articolazione del ginocchio destro si assumerebbe il compito di pensare a lei e, ci scommetto, la porte-rebbe felicemente a termine. tanto sono ricolmo del-la morte, tanto ne sono sazio.

raccontare com’è entrata nella mia mente, in me? Non me lo ricordo e preferisco non districare la ma-tassa, lasciare i fili là dove si sono annodati. Sarebbe lo stesso che voler rispondere secondo scienza e coscien-za alla domanda del medico, quando si è presentato per la prima volta il dolore al braccio: un martedì, me lo ricordo bene, stavo attraversando il mercato dei ca-valli e ho incontrato un conoscente. mi raccontò di av-vertire ogni tanto una fitta lieve al braccio, in alto, vi-cino all’articolazione. dolore reumatico, forse, dico io. Chi sa mai cosa sarà. e continuando a camminare av-verto anch’io ogni tanto una fitta sottile e lieve lungo il braccio, fino alla spalla, eccola di nuovo, lieve come dev’esserlo forse il primo sobbalzo del bambino che la madre percepisce nel suo ventre. e invece no, non lo sa nessuno, e chi venisse a raccontarmelo sarebbe un folle, o uno stupido chi ci credesse.

Non so dire come la morte è penetrata in me, so dire però com’è stato quando l’ho avvertita. Come quando dolori atroci ti guastano di notte il sonno che ristora. Solo che non era un dolore. Qualcosa di completamen-te diverso mi colmava, molto più inebriante di quanto possa esserlo un dolore. Quasi da cadere in deliquio.

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Qui devo specificare quale fosse il genere di pensiero della morte che mi assaliva. Non era il pensiero della mia stessa morte ad afferrarmi, il pensiero che un gior-no, presto o in un futuro più distante, sarei morto. Sotto il cielo eterno della notte è lontano da me un pensiero così sciocco, e spero di non dover mai lasciarmene gra-vare. il pensiero della propria morte – mi lascia freddo, impassibile, per il momento non può scuotermi. Non credo che un uomo serio si soffermerà mai sul pen-siero della propria morte. Non è affar mio, dirà, la mia morte non è affar mio, e pensarci significa sminuire la propria vita, che può essere grande se si desidera con forza che lo sia, significa segnare i limiti ai quali deve piegarsi volontariamente. Un uomo come me – e non sono l’unico, lo so e questo mi consola – vive e lavo-ra e incomincia la sua quotidiana opera pensando che così andrà avanti, eterna e ininterrotta, in nome di dio e di tutti i giusti, fino alla fine dei tempi.

È stato il pensiero della morte del mio nemico ad at-traversarmi e a farmi rabbrividire come in una gelida notte. La morte del mio nemico – la penso con tutta la beatitudine che un pensiero può avere per chi lo per-cepisce come qualcosa di vivo. La morte del mio ne-mico – io la penso e la vivo con la gravità e la solenni-tà che può avere il pensiero rivolto a un nemico a cui fortemente teniamo. La morte del mio nemico – in ogni ora del giorno una parte dei miei pensieri vi è consa-crata. Sono i momenti più belli durante il giorno, senza contare le serate e le notti in cui nessun altro pensiero mi domina se non questo. La morte del mio nemico – benedetto sia il pensiero della morte del mio nemi-co. Bisogna rivolgere lentamente alla sua morte il pro-prio desiderio, come la sposa allo sposo, così dicono gli uomini che traggono un singolare piacere nell’as-sociare le questioni della morte e quelle dell’amore. Bi-sogna abituarsi a essa lentamente, per dimostrarsene all’altezza e degni. Solo chi l’ha imparato può preten-

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dere di aver dato compiutamente forma alla propria vita. ma ho visti molti che si erano abituati lentamen-te e con dolore alla propria morte, e la morte del loro nemico li ha tuttavia sconvolti.

Ho visto poche persone capaci di affrontare la mor-te del proprio nemico. da quando il pensiero mi ha af-ferrato, la mia vita ha spiccato il volo verso una meta. Non l’avevo mai cercata, né pensavo che potesse esser-mi riservata. ah, quant’è stata meschina la mia vita, fin quando ho scoperto quale meta possa essere riserva-ta a un uomo sulla terra. Cosa significano tutti gli al-tri obiettivi che gli uomini si scelgono illudendosi che la felicità, l’amore, l’odio possano mascherare loro lo scialbo residuo di un corpo senza vita. Nessuna men-zogna, per quanto nobile, può spegnere l’incendio che la morte scatena negli animi veramente festosi nell’ora del riconoscimento. Un fragore nell’aria, come quan-do un albero vecchio e forte viene abbattuto, una frec-cia lanciata nell’azzurro scintillante dell’inverno – il mio animo è in festa, il mio nemico entra nella regione bianca della sua morte.

Lui che in vita sapeva di essere il mio nemico, come io ero il suo, voglio che nell’ora della sua morte sap-pia che il mio pensiero riguardo alla sua morte è de-gno della nostra ostilità. a essa non rinuncio, neppu-re un poco. rimane il nostro indistruttibile possesso, fin nell’ultima sua ora su questa terra. Ha colmato la nostra vita e perfino nella morte io le resto debitore.

È stato un lungo cammino, quello che ha portato il mio nemico alla sua fine. Un cammino di vittoria in vit-toria, verso i trionfi, l’orbita di un immortale. Ha attra-versato anche bassure, paludi e acquitrini, dove cova-no e germogliano brame nascoste, in un tanfo di muffa gravido di malattia e perfidia – la vita di un mortale, come la mia. oggi ha patito il suo trionfo più grande: è entrato nella regione bianca della sua morte. ma un tragitto ancora più lungo è stato per me quello che ha

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condotto al momento in cui, libero da tutti i motivi meschini di cui odio e vendetta fin troppo volentieri si servono, io l’ho incontrato sul suo ultimo cammino. Una scintilla di odio e di vendetta vive ancora ades-so nei miei pensieri, una traccia di malignità li solca. avrei voluto saper estirpare anche quest’ultima trac-cia dai miei pensieri, le diramazioni e le radici più vo-luttuose di una rabbia e di un piacere maligno: io sono quello che sta seduto e aspetta, e lui incede nella sua morte, lo sentite?, incede nella sua morte! Non si pos-sono scavare via le rughe dal viso, come si tagliano le parti marce di una mela, bisogna portarle e sapere che si portano, visibili ogni giorno come in uno spec-chio quando ci si lava, non si possono tagliare via con il coltello, appartengono al viso. ma nonostante tutto è un’attesa festosa, piena di gioia e di tristezza e di ri-cordo e di congedo e di un definitivo addio.

Non auspicavo a lui la morte così come si deside-ra qualcosa di male per qualcuno, o come quando si cerca di levarsi di dosso i propri avversari, auguran-dogli la morte.

ma quanto sbagliano gli uomini che credono di vede-re nella morte una specie di punizione. anch’io, devo confessarlo, sono caduto a lungo in questo errore. Pari al mio odio era la forza con cui desideravo vendicarmi. vendicare non solo me stesso, la mia personale sventu-ra, allora, quando la sentivo ancora grande e un pos-sesso esclusivo che lui mi aveva imposto, ma vendica-re anche gli altri del mio popolo che avevano sofferto quanto me. Per fortuna riconobbi in tempo l’insensa-tezza di questo pensiero. e che lo riconoscessi, anche questo lo devo al mio nemico.

il mio nemico – lo chiamerò B. – entrò nella mia vita, me lo ricordo, sono passati circa vent’anni da allora. a quel tempo sapevo solo oscuramente cosa significas-se essere nemico, e ancora meno cosa significasse ave-

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re un nemico. Bisogna crescere incontro al proprio ne-mico, come al migliore amico.

Spesso sentivo mio padre parlarne con mia madre, per lo più in quel tono sussurrante e pieno di mistero che hanno gli adulti quando non vogliono farsi senti-re da noi bambini. C’era una nuova specie di intimità nelle loro parole. Parlavano per nascondere qualcosa. ma con l’orecchio così affinato, i bambini imparano i segreti e le paure dei grandi, e a contatto con questi crescono. mio padre diceva:

«Se mai B. arriverà al potere, dio abbia misericordia di noi! allora sì che ne vedremo.»

mia madre rispondeva, più pacata: «Chissà, forse an-drà diversamente. Non è poi un così grand’uomo».

Ho ancora negli occhi l’immagine di loro due sedu-ti a parlare.

mio padre sta su uno sgabello basso in cucina, un uomo piccolo e tarchiato, un po’ pingue, e appoggia i gomiti sul bordo della credenza che riempie l’intera parete. La testa rotonda è china di lato, le dita aperte ne sostengono il peso. Ha parlato, ma la testa abbassata di lato fa pensare che stia tendendo ancora l’orecchio per cogliere un qualche messaggio. ascolta con atten-zione. ma il messaggio che ha udito dev’essere sgra-devole. mentre parla e ascolta il suo viso esprime affli-zione, tormento, come se al suo interno fosse disceso profondamente un velo nero che lo ricopre e insieme fa da sfondo a ogni cosa, e sopra e davanti è teso l’al-tro viso, quello esteriore, muscoli, pelle, peli, sul quale scorre il movimento, a tratti ancora un sorriso, e però ogni volta che lo si osserva si sa che dietro, sul fondo dove si è formato, proveniente dal suo interno c’è af-flizione, tormento.

Sua moglie, mia madre, appoggiata al tavolo di fronte a lui si china leggermente in avanti nello stret-to spazio vuoto che lascia aperto un varco fra di loro e che una mosca riempie con il suo ronzio errabon-

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do, e lo guarda dall’alto, lui così piccolo sul suo sga-bello, più piccolo di un bambino perché è un adulto. Così si è chinata innumerevoli volte su tutto quel che è più piccolo e debole, e senza che lei se ne accorga il suo corpo cade da sé in questo inclinarsi, sebbene appaia ancora dritto e giovane. Sa che lui non ascolta quel che le parole di lei gli comunicano, nulla di ciò che dall’esterno vi rimbalza penetra questa cortina, e però sa che il suo chinarsi nello spazio vuoto lo rag-giunge. Lui che con il suo lavoro frantuma il tempo in molti piccoli segmenti e fa sì che il movimento si coaguli in una pausa senza respiro, fino ad arrestar-si, come un campo a maggese, e però in questo rag-gelarsi cerca ancora di catturare qualcosa di ciò che si muove, lui vuole animare il movimento nella sua so-spensione, sente il movimento verso di sé e vi legge e coglie ciò che gli altri colgono dalle parole.

era salito dalla sua camera oscura, dove le lastre vengono lavate in grandi recipienti di vetro fino a far-vi sorgere l’immagine, e si era diretto a spron battuto in cucina, che aveva trovato vuota. Si era seduto sul-lo sgabello più basso, sua moglie l’aveva sentito sali-re ed entrare. Lo raggiunse.

La cucina è il posto più disadorno di tutta la casa, piena di mobili dipinti di verde, levigati e lucidi per il tanto strofinare. Sopra il portasciugamani è appesa una tendina bianca con ricami azzurri, e intorno al bor-do dell’asta c’è una guarnizione di pizzi bianchi. tut-to è freddo, come se fosse stato leccato. Un paralume bianco pende basso al centro, sospeso a un filo mar-rone. dietro la schiena dell’uomo una lunga tenda co-lor giallo sbiadito nasconde due assi di legno, stipate di scarpe, e vecchi giornali sono posati sul pavimen-to in un angolo.

in quell’istante il bambino, che aveva sentito le voci attraverso la porta chiusa, entrò nella stanza. Sono voci che esprimono ancora qualcosa di ciò che sta dietro

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alle parole e il bambino, curioso, viene attratto da loro in cucina.

Per un bambino la cucina è un luogo di piacere e di dolci segreti, di sorprese gradevoli in cui ama infila-re le dita per potersele leccare, ma non è un luogo per discorsi seri.

dell’inizio del loro discorso non so nulla, e non sono soltanto le parole che ricordo poiché in esse, per la prima volta a quanto io ne sappia, venne pronunciato il nome che non avrei più dimenticato. ma spesso le parole sono del tutto irrilevanti. anche quando le si è dimenticate ci si ricorda dell’intera scena, due persone in una cucina nuda e tirata a lucido, l’una seduta col capo appoggiato alla mano aperta, l’altra in piedi, e in mezzo a loro uno spazio stretto e vuoto in cui è sospeso un corpo di don-na. e ci si ricorda anche di ciò che li accomuna, che ine-sorabilmente li invade, l’uno già tutto teso ad attender-lo, proteso, come se gli fuggisse incontro per cercarvi un riparo, e l’altro che vi si oppone, ancora ribelle, pronto ad accoglierlo: l’inarrestabile sciagura. essa è in tutta la scena, come si offre nella sua compattezza ma anche in ogni dettaglio, nella piega della tenda sbiadita davan-ti alla quale è seduto il padre, nella mosca che gira in-torno alla lampada e con il suo volo ronzante misura lo spazio vuoto fra i due. È anche nel pavimento di legno lucido e levigato, e nelle porte chiuse della credenza e nell’interruttore accanto alla porta. La sciagura inarre-stabile è in tutto e di qualunque cosa ci si ricordi sin-golarmente, di questa o di quella, l’una suscita insieme a sé l’altra e si addensa nel tutto, entrato in profondi-tà nel ricordo e che ancora vi resta. Non è angoscia, ma qualcosa di più forte e controllato dell’angoscia, quan-do si accende dentro di te. Puoi sentirlo infatti avvici-narsi a te lentamente e gravarti sulle spalle. Puoi oppor-re resistenza, morderlo e puntellarti per contrastarlo. È reale quanto l’interruttore e la mosca e i vecchi giorna-li nell’angolo dietro la tenda.

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tutto ciò fu un’impressione di pochi secondi, nel momento in cui entrai. il discorso proseguì ancora con qualche frase. mio padre mi guardò con aria indaga-trice, come se riflettesse seriamente su di me. L’oscu-rità scomparve dai suoi occhi. La mamma si appoggiò all’indietro e mi guardò ridendo.

«Non siamo ancora a questo punto» disse. «e chissà.»Lui prese di tasca un flessibile per lo scatto e comin-

ciò a giocarci.«oggi ho fotografato un cane e un gatto» disse.«Sì» esclamai allegro. «andavano d’accordo?»«No» rispose lui, divertito.«e allora come hai fatto a fotografarli?» chiesi.«adesso te lo racconto. Una donna viene nel mio stu-

dio. tiene al guinzaglio un alano, bello e grande, e ap-peso all’altro braccio ha un cestino col manico e dentro c’è un gatto cincillà. “Questi sono Bützi e Hützi” dice. “Glieli porto per farli fotografare. Sono gli animali più bravi del mondo, vivono insieme già da un anno. Sono i nostri bambini, ma vanno d’accordo più di due fra-telli. mio marito desidera per il suo compleanno una foto di entrambi, sdraiati pacificamente l’uno accan-to all’altro. voglio regalargliela per ricordo, capisce.»

«Quale ricordo?» lo interruppi.«Be’, del fatto che cani e gatti vivono pacifici in quel-

la casa.»«tu e le tue storie» disse ridendo mia madre e sol-

levò minacciosamente il dito.«ma è una storia vera» si difese lui.«vera o no» proseguì lei divertita.«ma in realtà non andavano d’accordo» dissi intro-

mettendomi all’improvviso, «o almeno l’hai afferma-to all’inizio, e allora…»

«Non mi avete lasciato finire di parlare.» e continuò: «La donna tira fuori il gatto dal cestino e lo posa a terra. il cane si mette seduto sulle zampe posteriori, si rialza e vaga lemme lemme per lo studio. il gattino scivola di

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soppiatto sotto il tavolo e incomincia a leccarsi. intan-to io tratto con la signora, discutiamo la grandezza e il numero delle stampe. Lei ne ordina tantissime, come se volesse regalarne una copia per ricordo all’intera famiglia e a tutti i suoi amici. Ci accordiamo sul prez-zo. dentro di me penso alla composizione dell’imma-gine. dev’essere una foto semplice. “magari un tavo-lino con dietro dei fiori?” chiedo. “ma sì” risponde la donna, e subito dopo: “anzi no, meglio di no, devono esserci solo loro due nella foto, e i fiori non farebbero che disturbare”. io avvicino una sedia bassa, vi sten-do sopra una stoffa giallognola, la donna fa uscire il gattino da sotto il tavolo, lo solleva e lo piazza sulla sedia, questo si mette a far le fusa, il cane arriva trot-terellando e a un suo comando si siede di nuovo sulle zampe posteriori. io aggiusto le mie lampade, accendo l’illuminazione sul soffitto, sistemo due piccoli riflet-tori per mettere il gruppo nella luce giusta. La donna sta accanto agli animali e gli parla per farli star buoni. intanto il gattino è saltato giù, il cane sta fermo al suo posto e guarda con aria interessata. “Bützi, qui” chiama la donna. Bützi si avvicina guardingo e viene solleva-to di nuovo e deposto sulla sedia, resta tranquillo un istante, tende il piccolo collo, guarda verso l’alto e sem-bra che stia reggendo in equilibrio i baffi tra il naso e il labbro superiore, socchiude gli occhi, guarda irre-quieto a destra e a sinistra, poi salta giù un’altra vol-ta. in quell’istante la donna esclama: “ah, dimentica-vo il collarino”, e fruga nella borsa. “Sempre che non l’abbia scordato” mormora. “No, eccolo, Bützi vieni qui, qui, che ti metto il tuo collarino, devi essere bella adesso che ti fanno la fotografia.” il gattino è seduto di nuovo sotto il tavolo e sguscia fuori con sussiego, con quel suo passo esitante e guardingo. La donna si china e allaccia il collare. Poi solleva di nuovo il gat-tino sulla sedia e nel preciso istante in cui le sue mani lasciano il corpo dell’animale questo dà segno di vo-

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ler saltare giù un’altra volta. “ma Bützi” esclama la donna un po’ irritata, e bloccandolo leggermente con le mani sulla sedia si gira e mi chiede se ci vuole an-cora molto, visibilmente nervosa e ormai non più tan-to sicura del buon esito di quella messa in scena che si era ripromessa di ottenere. “io sono pronto” ho detto. “Solo questo cavo, ecco.” “tutta questa luce la inner-vosisce” esclama la donna.»

mio padre interruppe il racconto e mi guardò con aria beffarda. «anche le madri devono sempre mini-mizzare il comportamento dei figli che prima hanno dipinto come un concentrato di virtù, quando questi fanno un po’ i capricci – non è così?»

teneva il capo rotondo chino di lato, gli occhi semi-chiusi guardavano intorno a sé. taceva, quasi si aspet-tasse un applauso. amava compiacersi ogni tanto di simili considerazioni generali che mascherava come constatazioni oggettivamente valide, mentre a noi era chiara la sua allusione. ma con il passare degli anni mia madre aveva imparato a lasciar correre. anche lei taceva, come stregata dalla sua storia, e aspettava il proseguimento.

«allora» continuò riprendendo la postura di prima, «mentre la donna difende il suo gattino io vedo che è arrossita, e vedo poi che si è messa tutta in ghingheri, come se dovesse entrare pure lei nell’immagine. “Non vuole prendere in braccio il gattino?” chiedo. Lei in-dugia a rispondere e dice soltanto: “Lei pensa? e cosa costerebbe?” “Certo” dico io, “così suo marito ha tutto quel che ama in un’immagine sola, e non le costerebbe un centesimo di più.” La donna esita ancora, si allon-tana lentamente dalla sedia, riflette, guarda gli anima-li, mi guarda e tace. intanto Bützi è sempre sulla se-dia, io controllo la prima messa a fuoco. “eh no” dice, “solo gli animali, com’è nella realtà.” a quel punto ci si mette l’alano – per tutto il tempo era rimasto sedu-to, comodo e tranquillo, guardando il gattino che fa-

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ceva le bizze –, spalanca le fauci e sbadiglia, si alza, fa qualche giro in tondo e si riaccovaccia, ma volgendo stavolta il dorso alla macchina. Bützi osserva stupita. “Hützi” esclama la donna dall’angolo dove ha preso posto rassegnata e corre furibonda verso gli animali, afferra il cane per il collare e con uno strattone lo gira verso l’obiettivo. il suo nervosismo è tale che pure gli animali sembrano esserne contagiati. Bützi è saltata di nuovo sotto il tavolo e Hützi si è avvolto nelle pieghe di una tenda. Quando Bützi salta sopra un riflettore in disuso, Hützi si piazza davanti alla grande finestra e guarda fuori, mentre la padrona cerca invano di ricon-quistarsi con lusinghe e minacce la benevolenza degli animali. È tutto uno strisciare e un trottare, un salta-re e un correre per lo studio, una protesta muta e di-gnitosa degli animali che non vogliono esibire quella loro pace domestica contro natura. e in mezzo c’è la donna concitata e smarrita che suda in preda all’offe-sa e alla delusione, accaldata per via delle lampade da migliaia di candele, e che continua a rompere il silen-zio con le sue esclamazioni: “oh, Hützi”, “vieni qui, Bützi”, “ah no”, “vieni qui al tuo posto”, “vieni dalla tua mamma”, e poi l’assicurazione che a casa vivono così pacificamente insieme. “devono essere le lampade a metterli in agitazione, non ci sono abituati, e adesso mi tocca pensare a un altro regalo per mio marito!”»

«Se avessi dato del latte al gattino» dissi, «avresti potuto fotografarli, ma così… che peccato!»

«e invece li ho fotografati» disse mio padre con sguardo eloquente.

«Sì?» esclamai esultante. «racconta come ci sei riu-scito.»

«vieni» disse. «ti faccio vedere cosa ho fatto.»«dopo puoi farlo vedere anche a me» disse mia ma-

dre e scomparve.attraversammo lo studio, dove c’erano ancora la se-

dia e gli strumenti. La luce era spenta.

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Come la luce artificiale è diversa dalla luce del gior-no, così l’oscurità della camera oscura è diversa da quel-la della notte. Sei appena passato per una stanza lumi-nosa, dove la luce si riversa da ogni lato, e adesso sei in una camera oscura, ma fuori è giorno. Quant’è buio qui dentro, ti dici, forse per farti anche un po’ di corag-gio nell’oscurità. Chissà quali pensieri sorgono dentro di te in una simile stanza chiusa, al buio, mentre non ti abbandona la consapevolezza che fuori c’è il chiarore, la luce, il giorno. Se però alla sera passi da un locale il-luminato in un’altra stanza dove regna l’oscurità, allo-ra è completamente diverso, e alla sera tu sei un altro. ma adesso dal nero puoi ritornare in ogni istante di là, nel chiarore, se solo lo vuoi. e invece no, l’hai deciso tu spontaneamente e rimani. Fuori è giorno. Sei entra-to e i tuoi occhi sono accecati da tanta oscurità. entra profondamente nei nuclei pigmentali dei tuoi occhi, fa male, un istante appena, poi li serri e aspetti che fra i coni e i bastoncelli all’interno si stabilisca un diver-so accordo. entrambi sono in te, l’oscurità e il chiaro-re, nel profondo della retina li possiedi e puoi trasce-glierli dallo stesso pozzo, a seconda di dove ti trovi, nel chiarore o nell’oscurità. Quando poi li riapri nel-la camera oscura, i tuoi occhi vedono un puntino ar-dente in un angolo della stanza, è rosso. all’inizio non l’avevi visto in tutta quell’oscurità, ma adesso lo vedi. È lì, tranquillamente sospeso nel nero ed emana solo un piccolo bagliore opaco. Non è luce che illumina, rende soltanto più profonda e visibile l’oscurità, e tu la afferri col buio nei tuoi occhi e te la porti dietro, nel corpo e nelle mani, così come lei ti porta con sé e ti av-verte che in ogni istante può essere pronunciata la pa-rola creatrice. Silenzio e oscurità, e il battito del cuore.

«vieni qui» dice mio padre, e nelle miti tenebre lo vedo tirar fuori una lastra scura da una grossa baci-nella con del liquido, dove le gocce ricadono scivolan-do dalla lastra che lui tiene contro la lampadina ros-

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sa. vedo anche la sua sagoma distaccarsi leggermente dall’oscurità, quasi ritagliata, tanto che posso ricono-scere i suoi movimenti mentre lava la lastra. dopo un lungo silenzio sento la sua voce, mi sembra più pro-fonda e piena. Una paura colma di attesa monta in me ogni volta che sono qui solo con lui, solo in una ma-niera diversa rispetto a quando siedo insieme a lui in una stanza inondata dalla luce del giorno. Poiché nell’oscurità si genera l’azione di ciascuno, puoi portar-la al chiarore e poi di nuovo nell’oscurità, ma nell’oscu-rità viene generata.

«Questo è un cane» dico con voce smorzata.«Questo è Hützi» dice lui.«e questo?» mi mostra un’altra lastra.«Bützi!» esclamo. «allora sei riuscito a fotografarli!»«ma ognuno per sé.»«Non andavano d’accordo» dico. «e adesso?»«Li metto tutti e due su una lastra e ne faccio una stam-

pa. e sulla foto Hützi e Bützi siedono insieme pacifici, come fanno a casa. Questo è il regalo di compleanno.»

Le due lastre fotografiche sono di nuovo nella gran-de bacinella di vetro. Guardo mio padre e mi sembra che nell’oscurità sia divenuto più chiaro. riconosco i tratti del suo viso carnoso, sul quale aleggia un legge-ro trionfo. Non è più un’ombra, è ritornato una figura.

e dico: «in realtà non è affatto vero, perché qui non sono rimasti seduti accanto». Nel contempo sento sor-gere in me un senso di ammirazione per lui, benché le mie parole sembrino contenere solo critica.

«Com’è possibile?» dice lui con stupore. «Si chiama ef fetto speciale.»

«ma non è vero» ripeto io testardamente. «tu lo fai e ti pare molto divertente, ma in realtà è un imbroglio!»

«macché!» È indispettito. «Proprio questo è l’effetto. ancora non capisci.» Nello stanzino è tornata l’oscu-rità. Ha spento la lampadina rossa.

«vieni!»

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mi sento afferrato per le spalle e vengo sospinto bran-colante nell’oscurità, lungo pareti immerse nel buio, at-traverso corridoi tortuosi dove un pulviscolo di luce ricade dall’esterno. Poi una tenda nera viene spinta di lato, gli anelli scivolano chiari sulla sbarra di ferro e noi ci ritroviamo esposti alla luce piena e chiara del giorno.

Sento di dover riparare a qualcosa e chiedo con voce spenta: «Posso esserci anch’io quando lo fai?».

Lui non mi guarda, lancia un’occhiata oltre la gran-de finestra dello studio nel giardinetto davanti all’edi-ficio e dice con rabbia: «No!».

«allora dio abbia misericordia di noi.» Le parole di mio padre mi accompagnarono ancora a lungo. «allora dio abbia misericordia di noi…» Chi era quell’uomo che rendeva necessaria per noi la misericordia di dio e di cui mio padre parlava solo con voce tremante?

Un giorno volli chiedergli spiegazioni e lo interro-gai senza tanti preamboli. Questa volta lui accolse con calma la mia domanda.

«B. è il nostro nemico» disse e mi guardò pensieroso. «il nostro nemico» dissi incredulo.«ma che storie ti metti sempre a raccontare!» esclamò

mia madre dalla stanza accanto. La sua voce tremava.«Lui me l’ha chiesto e io rispondo» esclamò mio pa-

dre di rimando.«Non dimenticarti che è ancora un bambino!»«ma lo capirà» disse. «Non è vero?»mia madre tacque.«il nostro nemico?» ripetei incredulo.«Sì, il nemico tuo, il mio e anche quello di tanti al-

tri!» rise forte e pensai che stesse ridendo di me. Gli angoli della sua bocca pendevano all’ingiù. mi guar-dò sprezzante.

«adesso basta!» risuonò nuovamente la voce dal-la stanza accanto.

«Perché?»

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«Non devi rispondere per forza a ogni sua doman-da! e tu vai giù in strada a giocare» aggiunse.

Continuai a fissarlo.«anche il mio?» chiesi. «ma non lo conosco, e inve-

ce lui mi conosce?»«Certo, è anche il tuo nemico. Ho paura che impa-

reremo a conoscerlo.»«ma perché?» chiesi ancora. «Che cosa abbiamo

fatto?»«Noi siamo…» rispose mio padre.Silenzio.mia madre entrò nella stanza.Cosa avesse a che fare quella risposta con la mia do-

manda a quel tempo in sostanza non lo capii mai, per quanto profonde e ragionate fossero le spiegazioni che in seguito mi capitò di sentire. tutto mi sembrava piut-tosto un vaneggiamento.

Non chiesi mai conto a mio padre sulla questione della misericordia di dio. anche nelle sue parole av-vertivo infatti la sua rabbia e tutta l’amarezza con cui cercava di minimizzare un grande pericolo. inutilmen-te. Che B. fosse un nemico potente e potesse diventar-lo ancora di più, tanto che solo dio con la sua miseri-cordia poteva contrastarlo, l’avevo capito già allora. ma una cosa non capivo. Proprio come non sapevo chi fosse colui di cui mio padre parlava come del nostro nemico, non sapevo nemmeno chi fosse dio, della cui misericordia mio padre ugualmente parlava. Non co-noscevo nessuno dei due. eppure tutti e due c’erano.

«ma non siamo ancora arrivati a questo punto» ag-giunse mio padre con un sorriso più dolce, per cal-marmi, interpretando correttamente il mio mutismo. e però a me sembrava che con le sue parole volesse più che altro placare se stesso.

Questo accadde quando avevo dieci anni e da allora una doppia ombra fu sospesa sulla mia giovinezza, che le parole di mio padre avevano evocato. allora non po-

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tevo presagire fin dove si sarebbe innalzata. Percepivo solo l’elemento estraneo che era entrato all’improvvi-so nella mia vita, senza che potessi descriverlo con le parole. La mia innocenza infantile era intaccata. Una leggera incrinatura che con gli anni si aprì e divenne una ferita che penetrava in profondo nella carne, sen-za più richiudersi.

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