Gusto Per Lantico Nel 400

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    Passione e gusto

    per lanticonei pittori italianidel Quattrocento

    di Salvatore Settis, Vincenzo Farinella,Giovanni Agosti

    Storia dellarte Einaudi 1

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    Edizione di riferimento:

    in La pittura in Italia, Il Quattrocento, vol. II, Electa,

    Milano 1986 e 1987

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    Cruciale in quel serrato dipanarsi depoche che vuoleil Rinascimento successore, piuttosto che erede, di unospodestato Medioevo, il Quattrocento italiano pu benessere apparso come unavanguardia: tutta tesa a pian-tare sulla linea di confine con let nuova un vessillo, senon greco, romano. Ed spesso intorno a quel vessilloche si sono immaginate e descritte ardue e per vitto-riose battaglie, dove le armi pi taglienti e audaci fos-sero prelevate senza intermediari dallimmenso arsena-

    le degli Antichi. Gettato come dun colpo sulla bilanciadel rinnovamento epocale, lo studio dei marmi di Romasubito vi appariva come fattore non certo esclusivo madeterminante, assumendo per proprio interno vigorelimpatto e lo statuto di un programma. Non viatico, madura e cruda svolta; non lievito, ma piuttosto delibera-ta rottura; non tanto innesto, ma trapianto che mutaforma e nome allalbero, ai frutti. Il programma di quel-

    lavanguardia veniva costruendosi cosi ex post, a partiredalla centralit della pittura italiana nellEuropa delCinque e del Seicento e del ruolo che essa vi aveva gio-cato non solo in prima persona, ma producendosi insie-me come rappresentante e sostituto dellautorit, nondiscutibile, degli Antichi. A una situazione ormai asse-stata, a un primato cronologico nello studio dellarteclassica che faceva degli Italiani il motore immobile diun pi generale rinnovamento, doveva ben corrispon-

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    dere la schiera compatta dei precursori che avevanomutato le regole del gioco dispiegando sul tavolo carte

    inusitate. Per questa via lo studio degli Antichi diventasse e snodo centrale di un modello storiografico vin-cente, che tuttavia fin col proiettare quasi inevitabil-mente allindietro quel carattere onnipervasivo cheaveva animato (non solo prima di Winckelmann, maanche ben oltre le soglie della sua Storia) antiquari earcheologi: e ai pittori del Quattrocento si cominci achiedere a una voce, se volevano valicare a testa alta lafrontiera verso una nuova et, il lasciapassare dei dise-gni, delle deduzioni dallantico.

    Scatenando come ha fatto unassidua caccia allefonti antiche di questo e di quellartista, un tal model-lo storiografico ha senza dubbio stimolato la ricerca eprodotto, accanto a mille deboli congetture, pi dunaacquisizione duratura; tuttavia e forse almeno in parteperch entrava in opera proprio mentre la ricerca stret-tamente storica andava abbandonando lantica fiducia in

    una Quellenforschungastrattamente combinatoria essoha finito col produrre una sorta di reductio ad unum edellantico e delle sue molteplici letture quattrocente-sche, allineandole negli scaffali di una classificazionetroppo precocemente antiquaria proprio per esaltarle (onon diremo invece: ridurle?) a unitario e consapevoleprogramma, teso tutto verso una Ri-nascita gi intera-mente compiuta. su questa linea che doveva fatal-

    mente innescarsi il gioco semplificatorio, ma a primavista chiarificante, di una storiografia in cerca di prio-rit, di avanzatissime pattuglie che trascinassero, pitardi, i riluttanti in una diffusissima passione per gliAntichi. Si riducevano cos a pochi hautslieux, pi cre-dibili perch gi altrimenti caratterizzati per pi avan-zate situazioni (la presenza o lapprodo di antichit:Roma, Venezia; la tensione verso una rilettura dellefonti classiche: Padova, Firenze), i luoghi dellavan-

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    guardia, innalzando quasi ad accademia la bottega di unoSquarcione, a manifesto le cure archeologiche di un

    papa Sisto. E pareva, il nostro, un tempo in cui gi fos-simo arrivati in chiusura di conti, quando i giochi sonofatti e si tratta semmai solo di stilare o completare gliinventari. La rigida separazione disciplinare fra storicidellarte antica e post-antica ha favorito (da una parte edallaltra) troppi lavori di tavolino che, giustapponendoal catalogo di un artista i repertori degli archeologi,hanno cercato fonti, derivazioni, modelli. Unu-niforme antichit, convogliata entro il corpus edificatoper secoli dagli studi antiquari, pare cos offrirsi in ordi-nata sequenza pi alle nostre trouvailles che allocchioinquieto di un pittore del Quattrocento.

    Per pi erti sentieri si mossero, in quella che puapparirci unalba ma certo non ne portava il nome, gliartisti. A ripercorrere, come pur vorremmo, le loro trac-ce non basta certo enumerare, a fronte di quegli schemisemplificatori e delle connesse linee di ricerca, gli evi-

    denti svantaggi e le insoddisfazioni diffuse: e occorrerforse piuttosto avventurarsi su strade pi incerte e pivuote. Cercare, piuttosto, dintendere e di descrivere per approssimazione le linee di tensione che poteronocondurre a guardare lantico ogni volta con occhio nuovo;proponendone non una, ma tante e discordanti immagi-ni, trascrizioni, reimpieghi. In primo luogo, dunque,unipotesi di lavoro, la disseminata presenza dellantico

    alla quale corrispondano (nellocchio dellartista) filtri diselezione e modi del riuso di volta in volta assai vari eda misurarsi, sempre, col metro del presente. In secon-do luogo, una delimitazione del campo, che principii colsegnalarne alcuni cippi di confine; e sindustri a figurar-si il centro del campo come un luogo vuoto, per collocarvipoi ogni singola tappa di ogni singolo pittore, e valutar-ne scelte e scarti in relazione a una determinata (ma divolta in volta ben differenziata) maglia di attese.

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    Da un lato, e prima di tutto, la linea ferma e stabiledi una pratica pittorica nutrita, per lunghissimo spazio

    danni, di tradizione e dinvenzione: misurate, questa equella, sul gusto e le richieste del committente, ma anchesulle aspettative di un pubblico che muta non solo dicitt in citt, ma anche a seconda del luogo di destina-zione del dipinto (una chiesa, un palazzo), in un assaiinstabile equilibrio talora bruscamente animato, dal-linterno, dalle visioni e dalle ambizioni del pittore.Quanto poi la norma e gli empiti dellinvenzione doves-sero appoggiarsi a un prefissato repertorio di schemi eper quali vie vi entrassero, sommandosi a quelle dellatradizione medievale, figure tratte dallantico, un capi-tolo essenziale di questa storia.

    Il ruolo del committente (la cui definizione si compli-ca e sintreccia quanto pi vi concorrano figure altre, maa lui vicine e spesso decisive: lambiente di una corte,un consigliere-umanista) appare determinante nonsolo per la scelta stessa di questo piuttosto che di quel

    pittore ma anche quale indizio o sigillo di approvazio-ne, e graduale consacrazione, della via che lartista avevapreso. Assolutamente centrale qui, com ovvio, lascelta e lindicazione del soggetto: dove muta e sarticolaassai variamente la bilancia fra il sacro e il profano:inteso lungamente, questo, come obbligata proiezionenelle tappezzerie e negli affreschi di una tutta cavalle-resca topografia di fatti e di luoghi, che fa da filtro indi-

    spensabile allirruzione delle nuove storie tolte da unan-tichit condensata in exempla. Proprio lo spazio che lestorie degli eroi romanzi ivi inclusi, sintende, Cesaree Alessandro si erano conquistate nella decorazioneprofana, e il taglio narrativo per episodi offerti allemoralits di una lettura esemplare diventeranno cor-nice e norma per nuove storie, per nuovi eroi: e perquanto pi Tito Livio o Valerio Massimo a fornire latrama, e non lHistoire ancienne jusqu Csar, tanto pi

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    sorger dalla storia stessa lo stimolo a cercarne, guar-dando lantico, una rappresentazione pi legittimata

    perch pi vera. Prosecuzione del genere profanoed estensione del repertorio portano cos fatalmente auna nuova attenzione per lantico. Con altro spirito sipoteva guardare alle storie sempre ripetute di Cristo edei Santi: dove la collocazione nelle chiese, e la desti-nazione allo sguardo di tutti, certo obbligavano a ungrado altissimo di fedelt alla tradizione, di riconosci-bilit del soggetto, chiunque ne fosse il committente. Maquante di quelle storie chiamavano dentro di s impe-ratori e consoli romani, soldati e insegne! Corre percifra storie profane e storie sacre uno stesso ordito: luso,cos poco studiato, di quadri di soggetto sacro nellecase, per gli occhi di pochi e la loro privata piet, potreb-be aver fatto da ponte.

    Il catalogo delle antichit che si offrivano alla vista aRoma e altrove potrebbe essere di per se stesso un polodi riferimento, il punto estremo di una linea di tensio-

    ne. Da un lato, infatti, esso va inteso come un reperto-rio in continuo movimento: alle presenze antiche, espesso inascoltate per secoli, si sommano infatti nuovescoperte, sculture dimenticate acquistano nuovo presti-gio dopo lingresso in una collezione o una lode di Dona-tello. Dallaltro lato, si tratta qui di un repertorio poten-ziale, entro il quale prima locchio di ogni artista, e soloper gradi un generale consenso operano, con filtri tutti

    da indagare, una selezione che ci appare sempre piavara. Poich proprio questa selezione che si riveladeterminante nella storia dellarte, n si pu giudicarnese non la si considera per quello che , una scelta appun-to frammezzo alle tante offerte del generoso repositoriumdei marmi antichi, palese che il catalogo delle antichitvisibili agli artisti del Quattrocento, proprio perchassai pi vasto di quello delle antichit che essi hannousato, va stilato seguendo altre strade (testi, epigra-

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    fi, documenti...). Diventa qui specialmente chiaro unfilo, sottile ma vitale, di continuit con la tradizione arti-

    stica medievale: che a quel deposito di temi e schemiaveva pur attinto, leggendolo talora come il dispiegarsidi una norma costruita, una volta per tutte, per inten-dere e rappresentare la verit di natura. Proprio, e solo,dal confronto fra luso dellantico nellarte, poniamo,ottoniana o nel Duecento e quello del Quattrocentopotr evidenziarsi come quella continuit non sia piat-ta prosecuzione, ma conosca, anzi, sbalzi e cambiamen-ti radicali, traducendo per gradi, e con consapevolez-za assai mutevole lintangibile auctoritas del modelloantico, che gi invitava a citarlo, in pi articolata e pimossa immagine, profondamente marcata dalla coscien-za della sua frammentariet e perci vista, con semprepi acuto sentimento di distanza storica, come quella diun mondo concluso. Catalogo delle presenze e catalogodelle scelte: la spola fra luno e laltro, condotta per taglisincronici, potrebbe tracciare preziose coordinate di

    gusto, tanto pi quanto meglio si sapr distinguere fradiversi e non coincidenti livelli di accesso alle antichit,dallo studio diretto del marmo romano a quello del dise-gno che altri ne ha tratto. qui che prende posto li-naccessibile Grecia di Ciriaco, e con essa la stabile pro-mozione del disegno dallantico a suo sostituto, che putrasfigurare, per lartista e pi tardi per lantiquario, la-nalisi di un taccuino in immaginario ma spesso fecon-

    dissimo viaggio a Roma.Infine, lo spazio e il ruolo della teoria artistica, chetraeva alimento dalla lettura dei testi antichi dondeecheggiava la fama di Zeusi e di Parrasio, ed emergevaper anche il principio di una distinzione dei generi,dominati ciascuno da uno scelto manipolo diprotoi heu-retai che impressero allarte loro nuovissime svolte; quel-lo di un susseguirsi di blocchi epocali, allineati secondouna successione di progresso, pienezza e decadere del-

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    larte; il riferimento a una norma non costante, ma anzimodificata e accresciuta negli anni da esperimenti e da

    successi, nel confronto non tanto con la natura visibile,ma piuttosto con una natura misurata sul metro delli-dea, e perci perfettibile nella sua traduzione in figura.Era, come dai nostri studi risulta ancora troppo pocoevidente, lincerta eppur indubitabile proiezione (in Pli-nio, in Cicerone, in Quintiliano) di quellassiduo sforzo(di classificazione per categorie e narrazione secondo unfilo storico) che, nato dal tronco aristotelico, aveva fon-dato nei secoli dellellenismo la primissima storiografiaartistica dellOccidente, affidandone almeno al principiola competenza e il compito agli artisti e stabilendone gliassi portanti nellidea di sviluppo storico (o di progres-so), nella suddivisione per scuole, nel modello biografi-co tagliato sul singolo artista, nel vocabolario del giudi-zio darte, e infine nella sua estensione dallartista alconoscitore. Da questa visione, che per sparsi brandel-li pur emergeva dalla lettura degli Antichi, usciva esal-

    tato il ruolo dellartista come motore centrale del pro-gresso artistico attraverso la pratica dellinvenzione e le-laborazione di uno stile personale, ma anche la rifles-sione teorica e il riepilogo storico dei raggiungimentipropri e altrui: condotti, luna e laltro, mediante laredazione di opere scritte che avevano innalzato pitto-ri e scultori al rango di letterati, mettendo in forse laloro rigida esclusione gerarchica dal sistema delle arti

    liberali. Cos il precetto di Vitruvio, che voleva larchi-tetto erudito in ogni genere di scienza, poteva comgi in Pomponio Gaurico essere esteso al pittore e alloscultore: e limmagine dellartista antico cominciava aprender forma, e a proporsi a modello possibile, sugge-rendo ai suoi eredi inedite conquiste. La stessa inclu-sione di pittura e scultura nello spazio potenziale dellanarrazione storica, dominata comera dal lessico (toltodalla retorica) del giudizio darte e dalla categoria di pro-

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    gresso finiva con lo spostare su un altro piano ogni con-sapevole scarto dalla tradizione, consegnandolo anzi ai

    coetanei e ai posteri come un passo, possibile, su unastrada in crescendo e alimentando di una forza inaudi-ta lautoconsapevolezza dellartista e limpulso alla suapromozione intellettuale e sociale.

    Pratica pittorica, ruolo del committente, catalogodelle antichit visibili e di quelle viste, storia e teo-ria artistica: fra questi quattro poli (e, certo, non solofra questi) corrono multiple e non sempre esplorate lineedi tensione, che passano attraverso il concreto operaredi scultori e pittori e architetti cercando di fondare suprincipi di distinzione la classificazione e la gerarchiadelle arti, e per al tempo stesso, esprimendosi in scrit-ti letterari e in dotte epistole, permeano il gusto e tra-sformano profondamente il sistema delle attese dei com-mittenti e del pubblico. A ciascuno di essi e in que-sto quadro a ciascuna delle arti potrebbe esser dedi-cata una fresca attenzione: a tentare per ciascuno (ricer-

    cando) di recuperare una mappa con propri interni espesso contraddittori percorsi. E sar solo sovrappo-nendo, in trasparenza, luna allaltra mappa che potrvedersi almeno a tratti quella trama fittissima di pensierie di ambizioni, sperimentazioni e fallimenti, dove tro-vino posto distintamente e insieme, trascrizioni scola-stiche o visioni vertiginose, tutti gli sguardi sullantico.

    Che solo a Firenze, Padova, Roma e Venezia i pitto-ri nel Quattrocento si interessassero alle antichit quanto si evince dalla bibliografia accumulatasi in circaun secolo su questo argomento. La fortuna dellanti-chit si muoveva, in ricerche di questo tipo, entro ungenerale orizzonte iconologico, sotto un cielo di schiet-ta marca neoplatonica, ma il quadro storico di riferi-mento rimaneva invariabilmente arcaico, e sfocate lepersone prime degli artisti; basterebbe pensare a quan-

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    to poco sia stata recepita e discussa in questa correntedi studi la polemica 1926 , ancor oggi fondamentale

    per una corretta comprensione storica del Quattrocen-to pittorico italiano, tra Roberto Longhi e GiuseppeFiocco, a proposito della formazione del Mantegna.

    Al contrario, discussioni e contributi si sono inte-starditi proprio l dove non era necessario: ad esempiosu Masaccio, quasi che la sua umanit nuova, soda e sba-lorditiva, potesse ritrovare avi e modelli nelle statueantiche di Roma o della bottega del Ghiberti, quasi cheprospettiva dovesse significare, a tutti i costi, recu-pero dellantico. Si son viste sfilare quindi le Veneripi diverse per fecondare la mente di Masaccio a crearlEva dolorante del Carmine; rilievi di sarcofagi e pit-ture tardoantiche a stringer nessi che era solo la filolo-gia euristica, ed ingenuamente strenua, dei ricercatoridel giorno doggi a figurarsi.

    La misura monumentale di Masaccio, invece, nonrichiede affatto il ricorso a modelli antichi; dietro ai suoi

    personaggi stanno la forza di Giotto, la lezione del Bru-nelleschi, le impressioni delle sculture di Donatello eNanni di Banco, loro due s davvero anticheggianti, edunosservazione implacabile della realt di cui era benconsapevole gi Leonardo: ...Tommaso fiorentino, sco-gnominato Masaccio, mostr con opera perfetta comequegli che pigliavano per altore altro che la natura, mae-stra de maestri, saffaticavano invano.

    Insomma si cercata, da pi parti e con pi o menoconsapevolezza, una banale equivalenza tra la pittura diMasaccio e le ricerche degli umanisti fiorentini con-temporanei: le indagini sui testi antichi di quelli dove-vano avere un contrappeso nello studio dei ruderi odelle statue antiche da parte del pittore ventenne;venne, allaprirsi del decennio passato, il libro di Baxan-dall a dire che non era certo Masaccio il pittore di Coluc-cio Salutati, di Leonardo Bruni o di Poggio Bracciolini.

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    chiaro, e non va dimenticato, che il discorso nonpotrebbe essere lo stesso, se al posto dei pittori si par-

    lasse qui degli scultori o degli architetti fiorentini di que-gli anni: negare, infatti, che larte antica sia stata impor-tante per Donatello sarebbe uninsensatezza; bisognerforse, anche l, riveder come: non certo squadernandoconfronti a dismisura, svarianti tra le classi monumentalipi disparate dellarte antica, ma evidenziando gli episodireali e sottolineando la precoce consapevolezza ed ampli-ficazione retorica di questo tema nella storiografia. Cheil quadro dei gusti e delle preferenze fosse pi complicatodi quanto viene per solito alla mente, basterebbe ad indi-carlo il fatto che Ciriaco dAncona, viaggiatore instan-cabile, appassionato epigrafista, che apprezzava Rogiervan der Weyden e il Pisanello, che chiamava Parrasio ilsenese Maccagnino, quando andava a visitare gli studi diGhiberti e Donatello, lodava, senza distinzioni, le scul-ture antiche e nuove l presenti.

    Nel linguaggio internazionale del tramonto delMedioevo hanno modo di comparire, tra le curiositparziali ed infinite di quei pittori, motivi tratti dalleopere darte dellantichit. In quella cultura cortese esontuosa, non fu eccessivamente difficile che nelle rac-colte di disegni degli artisti penetrassero, accanto aifigurini della moda, alle piante e alle bestie ritratti concura implacabile, le figure dei rilievi antichi.

    Siano o non siano (come , molto pi probabile) diGentile da Fabriano, i disegni riuniti da Degenhart edalla Schmitt, attorno ad una data che essi vorrebbe-ro fatidica, 1427, stanno a testimoniare il nascere e losvilupparsi di questo interesse per le opere darte anti-che tra artisti che non hanno nulla a che spartire conla rivoluzione figurativa, inaugurata, tra innumerevo-li incomprensioni, da Brunelleschi, Donatello e Masac-cio.

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    Masolino piuttosto che potr essere sensibile adesperienze di questo tipo, impiegandole forse per aggior-

    nare la sua strumentazione figurativa di personaggi e dicostumi, in vista della commissione per la sala theatridel palazzo di Montegiordano a Roma. Il ciclo degliuomini famosi per il cardinal Giordano Orsini, finitoprima del 1432, con tutti i principali eroi del mito e dellastoria antica, non esit a diventare normativo per que-sto genere di decorazioni: lo testimonia almeno laltonumero di descrizioni e riproduzioni grafiche (italiane estraniere) di questo complesso perduto, in una dellequali, il cosiddetto Libro di Giusto, accanto alle ripre-se dai 300 eroi rosa e biondi di Masolino non man-cano delle copie da un rilievo neoattico e da una lastradel fregio traianeo dellArco di Costantino, una dellesculture antiche che gli artisti del secolo XV pi apprez-zarono.

    Pisanello, e non Masaccio, lartista che gli umani-sti per tutte le corti di Italia nella prima met del Quat-

    trocento prediligono; a lui vengono destinate numerosecomposizioni poetiche volte a paragonarlo agli artistidellantichit classica. Accanto ai suoi disegni dallanti-co, con pezzi di prevalente provenienza romana, allemonete da lui collezionate, al ritratto di Giulio Cesaredipinto nel 1435, come dono di nozze, per Lionello dE-ste, dovranno essere accostate, in questa specie di scor-reria tra una predilezione che non tarder a farsi per

    taluni dei suoi interpreti una vera e propria ossessione,le medaglie dove il pictor Pisanus scendeva diretta-mente a gara con le testimonianze antiche.

    Ricaschi figurativi, di ben altro peso, sulla produzio-ne pittorica dovettero avere le predilezioni antiquarie diJacopo Bellini.

    Decurtata della gran parte del suo catalogo, la car-riera di Jacopo Bellini, nei suoi rapporti con lantico, sipu verificare solo nei libri di disegni di Parigi e di Lon-

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    dra, che andranno collocati, grossomodo coevi, nellul-tima fase della sua attivit, e quindi sulla met del seco-

    lo: qui lallievo veneziano di Gentile da Fabriano hamodo di dispiegare le proprie passioni, senza, o quasi,scivolate rinascimentali. Architetture dalle prospettivescombinate descrivono una Venezia da palcoscenico,tutta praticabili e pedane, che accoglie nei suoi campiellile scene sacre pi disparate, mentre da sotto le grondaieocchieggiano teste di Cesari o sui muri si spiaccicanoconii monetali ingranditi a figurare rilievi preziosi. Inquei teatrini veneziani e in quei dirupi di cartapesta siedifica il rinascimento dellantichit, i cui meriti, nellasolerzia degli storici, andranno invece perlopi ai fio-rentini.

    Qui pi che la simpatia generica e un poco indif-ferente nel suo essere curiosa un po di tutto dei pit-tori tardogotici: Jacopo poteva risalire, in Veneto, allatradizione di Altichiero e di Avanzo che avevano nar-rato per figure, seguendo Flavio Giuseppe tramite li-

    neliminabile umanista di turno, sulle pareti della Log-gia di Cansignorio a Verona la presa di Gerusalemme eil trionfo di Tito e Vespasiano: ed anche se di quelladecorazione restano solo le teste imperiali dei sottarchibisogna farne di continuo debito conto, visto che, astare col Vasari, ci fu anche Mantegna ad apprezzarequelle pitture.

    Il mondo figurativo di Jacopo Bellini fu uninven-

    zione di lungo getto: a lui devono essere fatte risalire lediversioni antiquarie che compaiono da un certo puntoin poi nellattivit della bottega di Antonio Vivarini eGiovanni dAlemagna.

    I Cesari dipinti da Vincenzo Foppa ventenne, pro-babilmente nel 1456, sullarco trionfale dei Tre Croce-fissi di Bergamo devono trovare una spiegazione nonsulle pareti degli Eremitani, di tanto diversa tempera-tura morale, oltre che artistica, ma tra i fogli del Belli-

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    ni pi vecchio: al Pittore bresciano continuer a spetta-re in ogni modo linvenzione della luce che allaga lan-

    cor esile scenografia classica.Quei profili imperiali per non sono pi della stessamarca tardogotica di quelli che, poniamo, decorano tragirali gli strombi delle finestre della Cappella Rusconinel Duomo di Parma, inaugurano, invece, la dinastia diquelli che, scolpiti o miniati, sui portali o sui libri, dila-gheranno nella Lombardia della seconda met del seco-lo, fino a trovare tra i sussulti della mente di Leonardonuove possibilit di contorte trascrizioni.

    A neanche ventanni di distanza dalla follia cortigia-na della cappella del Duomo di Monza, dove gli Zavat-tari davano vita allepica profana e longobarda dellaregina Teodolinda, la decorazione del Banco Mediceo aMilano richiedeva nuovi soggetti: ed il Foppa dipinge-va gli imperatori di Roma, tra cui, apprezzatissimo,Traiano nellatto di render giustizia alla vedova. E, percolmo daffetto, rappresentava sulla loggia, senza paral-

    leli nella pittura di tutto il Rinascimento dItalia, unbambino intento a studiare Cicerone: lunico frammen-to superstite di quella decorazione, che non si stenta afigurare come memorabile.

    Elementi del repertorio anticheggiante (le solite testedi Cesari, le monete ingrandite a far da rilievi, i fregi dibestie mai viste) non mancheranno in altre opere del pit-tore lombardo, e forse, come ha suggerito Gianni Roma-

    no, al suo giro che andr avvicinato un gruppo di dise-gni dallantico della Biblioteca Ambrosiana, ritenuto aitempi del Padre Resta una specie di abbecedario di Leo-nardo da Vinci, quando hera putto, tutto ripieno distatue di Roma.

    Dalle costole di Jacopo Bellini trasse qualcosa ancheFrancesco Squarcione, grandissimo impresario ed intel-ligente pittore, che, se anche si rec in Grecia, comescrisse nei suoi Ricordi, non mostr nelle sue opere echi

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    di quel viaggio. Ci sar stato, ma non avr trascritto conla passione di Ciriaco le epigrafi o ritratto il Partenone.

    E chi sa se davvero di opere antiche saranno stati i cal-chi in gesso ammassati nella camera a relevis della suaincredibile bottega padovana? Non saranno stati piut-tosto frammenti di corpi umani, piedi o teste, quasi deimanichini? Oppure repliche dei rilievi dellaltare delSanto? Ordinare del gesso, come fece in grande quan-tit lo Squarcione, non vuol dire, se non nei rendicontidi unAccademia ottocentesca, procacciarsi necessaria-mente calchi di statue antiche: e di quali poi nel 1450?

    I calchi dello Squarcione dovranno quindi trovarposto accanto a quelli, ugualmente documentati, nellebotteghe di Gentile da Fabriano o di Niccol di Ale-magna; resta, ed una differenza capitale, che allievodello Squarcione fu il Mantegna.

    un crocevia quello padovano di met Quattrocen-to in cui campeggia la complessa psicologia dello Squar-cione, che la manica di discoli che gli gravitava attorno

    teneva soggiogato in legami di contorta paternit; e selinterno del suo studio continuiamo a figurarcelo, dopola pagina memorabile di Longhi, un po come un qua-dro di De Chirico, per descrivere quei ragazzini, litigiosie un po teppisti, ci sarebbe voluta Elsa Morante: tra diloro cera quindicenne Andrea Mantegna.

    Pur tenendo conto dellesperienza di Jacopo Bellini,degli stimoli dello Squarcione, dellinfuriare di Dona-

    tello e dei suoi compagni, della lezione delle Battaglie diPiero della Francesca a Ferrara e dei Giganti monocro-mi di Paolo Uccello in Casa Vitaliani, quanto resta affi-dato al genio di Mantegna per giungere agli affreschidegli Eremitani davvero moltissimo.

    Sia pur tarata da fatti personali (la gelosia perchAndrea aveva sposato Nicolosia Bellini), la violenta rea-zione dello Squarcione di fronte agli affreschi degli Ere-mitani, testimoniata, in fondo credibilmente, dal Vasa-

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    ri, pu dire qualcosa sullo sconquasso che quel ciclo pro-voc nelle menti e nei cuori dei pittori di educazione,

    tutto sommato, tardogotica: lanziano impresario pado-vano andava dicendo infatti che quegli affreschi nonerano cosa buona, perch [Mantegna] aveva nel farliimitato le cose di marmo antiche, dalle quali non si puimparare la pittura perfettamente; perciocch i sassihanno sempre la durezza con esso loro, e non mai quel-la tenera dolcezza che hanno le carni e le cose naturali,che si piegano e fanno diversi movimenti; aggiungendoche Andrea avrebbe fatto molto meglio quelle figure, esarebbero state pi perfette, se avesse fattole di color dimarmo, e non di que tanti colori; perciocch non ave-vano quelle pitture somiglianza di vivi, ma di statue anti-che di marmo o daltre cose simili.

    Senza esperienze romane, attraverso qualche rac-conto, molta fantasia individuale, cacce epigrafiche perlentroterra veneto che Andrea mette su lattrezzeriacomplessa e appassionata dei suoi affreschi.

    Oggi il mondo perduto degli Eremitani non ci appa-re pi impigliato in una tagliola antiquaria, un po fasci-sta nella sua romanit, quale dovette parere nei clamo-ri del dopoguerra, e ne possiamo cogliere la severa tem-peratura monumentale, che non rinuncia a dettaglistraordinari: come quello del bambino, presente allin-terrogatorio di San Giacomo, che indossa un elmo e unoscudo troppo grandi per lui, tolti per gioco a qualcuna

    di quelle prestanti comparse, vestite da antichi romani,sulla cui genesi si interrog persino Marcel Proust.Sono i letterati antiquari, gli amici umanisti a sco-

    prire il giovane pittore, Andrea Squarcione, e adinstradare le sue doti verso una ricostruzione figuratadellantichit, come di certo pi semplice credere,oppure si d il caso che, dopo lo scoprimento della Cap-pella Ovetari, si instauri una convergenza di intenti trai letterati e lartista? Le testimonianze infatti delle fre-

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    quentazioni erudite del Mantegna (la dedica della sillo-ge del Feliciano 1463, la gita archeologica sul Lago di

    Garda 1464, le poesie con le lodi sconfinate...) sonotutte posteriori allinaugurazione degli affreschi; pro-blema questo, la genesi dello stile lapidario del Mante-gna, che viene ad occupare un posto non marginale neibilanci dei rapporti tra artisti e committenti nel Quat-trocento.

    Eppure, per noi che siamo cresciuti con Piero dellaFrancesca al centro e al vertice della pittura del Quat-trocento, il ristabilimento della reale posizione storicadel Mantegna e la comprensione del suo classicismosono ancora in parte da compiere: di certo sappiamoinvece che le fonti antiche di Piero della Francesca sonoun mito novecentesco, per la genesi del quale il volumelonghiano del 1927 ebbe unimportanza incalcolabile. Lastraordinaria curialit del mondo di Piero della France-sca, in cui gravitano inserti di realismo e di violenza checontinuano a sbigottire, trova ragione di quel suo aspet-

    to classico pensando ad una falsariga del sistema cheandava edificando per iscritto e coi mattoni Leon Bat-tista Alberti.

    Trovare in questa storia, che si va tracciando, unposto per il De pictura una delle difficolt pi grandi:nel 1435 lAlberti descrive infatti un pittore di storia,che si dedica alla rappresentazione di temi antichi (laCalunnia, le tre Grazie), che tiene conto dellesperien-

    za anatomica e compositiva della plastica antica, median-te un singolare rimando ad un sarcofago romano conMeleagro (uno dei miti pi presto decifrati allerme-neutica rinascimentale), che rinuncia, per rendere laluce, al fascino degli ori in nome del bianco, che si sot-trae al miniaturismo per il monumentale, che, valutan-do la Navicella di Giotto come lIfigenia di Timante,supera volontaristicamente il problema increscioso dellaperdita della pittura antica.

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    Ma ritrovare tra i pittori italiani operosi prima del1435 un artista che risponda a questo identikit fatica

    non da poco, e forse la dedica1436 della versioneitaliana del trattato al Brunelleschi, con la lista degli arti-sti fiorentini, servita a fuorviare non poco gli studi.Bisogner provare a ripensare alleducazione nellItaliasettentrionale, allapertura cosmopolita, alle frequenta-zioni internazionali, al viaggio nelle Fiandre, per trova-re plausibili radici alla profetica indicazione dellAlber-ti; Piero della Francesca resta in ogni modo il portato pistraordinario di quei suggerimenti. insomma il criti-co ad elaborare unidea di pittura prima che essa venganei fatti realizzata.

    Mantegna sfondava a Padova con linedito mondodegli Eremitani, e quelle soluzioni, sia pur senza ilmedesimo rigore, venivano pi volte riproposte: la fre-nesia del Mantegna si era fatta gusto e sigla in numero-se testimonianze pittoriche. Fra Padova e Venezia, alloscadere del settimo decennio del secolo, le botteghe dei

    miniatori allestivano una complessa antologia di motivianticheggianti per decorare bordi e iniziali di mano-scritti ed incunaboli: lungo le pagine dei testi della let-teratura classica veniva squadernato un repertorio diantichit che, superando il raggio di fonti utilizzate dalMantegna e nella bottega dei Bellini, cercava ineditisuggerimenti in riconoscibili monumenti romani (sarco-fagi, per lo pi) o nelle Battaglie di nudi escogitate dal

    Pollaiolo.Il ruolo degli affreschi Ovetari a Verona lo recit iltrittico di San Zeno, 1456-59, dove la Madonna e iSanti e i putti stanno in una gabbia della ditta di Dona-tello, addobbata dal Mantegna trentenne con meda-glioni circolari di marmo (con cavalieri, tritoni, nereidi,centauri, e uno dei Dioscuri di Montecavallo), che, lungidal rappresentare specifici e dotti rimandi a un qualsi-voglia programma iconografico, servono, in linea con i

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    gusti del pittore, a dare maggiore solennit alla scena:prendono il posto insomma di stoffe preziose, tappeti,

    cuscini, coralli o, per rammentarci che siamo a Verona,roseti.Naturalmente anche a Verona miniatura e pittura

    devono barcamenarsi rispetto alle soluzioni cogenti eimpositive del Mantegna. Un pezzo come laltare di SanZeno si prestava ad infinite variazioni sul tema: si scor-rano per prova le pale e gli affreschi del Benaglio, dovevariano gli addobbi archeologizzanti della gabbia, ma lamarca dellinsieme rimane sempre quella.

    Parallela allossessione epigrafica del Parenzano aPadova, costruita sulle frequentazioni delle antichitdellIstria e su ricordi grafici di Roma, correva, ben pistentata nella qualit figurativa dei risultati, larcheolo-gia del veronese Giovanni Maria Falconetto, che si con-quist il primato tra i pittori del Quattrocento per il pilungo soggiorno di studio a Roma: dodici anni, secondoil Vasari. Alla fine del secolo tornava a Verona, dando

    vita ad unondata di antichismo locale, infinitamente pimeccanica di quella del Mantegna, ma abbastanza per-vasiva. Gli stessi cartoni, tratti da famosi rilievi diRoma, venivano riciclati, senza fare una piega, nei pen-nacchi di una cappella o lungo le pareti del salone di unpalazzo o sulla facciata di una casa.

    Prima del 1461, Benedetto Bonfigli aveva dipinto,

    nella Cappella dei Priori del Palazzo pubblico di Peru-gia, sul fondale di un miracolo di San Ludovico, che lefonti agiografiche ricordano essersi svolto a Roma, unaspecie di istantanea dellArco di Costantino, dove tuttii rilievi del complesso monumento stanno al posto giu-sto, dove lepigrafe ripete, con lievi imprecisioni, quel-la antica, dove solo i barbuti barbari prigioni sono diven-tati quasi degli angeli nimbati. Paralleli ad una cos lumi-nosa fedelt al vero, nella resa di un monumento anti-

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    co, a questo livello cronologico, noi non ne conosciamo.La scena intera, come presto spiegher Andrea De Mar-

    chi, costruita su una trama di ricordi figurativi, traFirenze Venezia e Padova, dove forse anche il Bonfigli,come il Boccati e Girolamo di Giovanni, si sar recato.Oltre al possibile choc degli Eremitani si sente la lezio-ne di Roma tra Eugenio IV e Niccol V, sotto il qualeil Bonfigli era stato a lavorare e dove da pi parti si ten-tava una restituzione del mondo antico: lAlberti a scri-vere la sua Descriptio Urbis Romae, il Filarete a fondereper San Pietro la sua porta, sgangherata, ma fonda-mentale per lo sviluppo del gusto per lantico, lAngeli-co a farsi classico e monumentale nelle storie della Cap-pella Niccolina, mentre gli ambienti della BibliotecaGreca nei Palazzi Vaticani ricevevano decorazioni allepareti, che si fatica a non trovar reminiscenti di qualchepartito ornamentale antico. Qualche anno pi tardi,prima del 1469, Lorenzo da Viterbo inseriva dei mono-cromi anticheggianti, di ascendenza in qualche modo

    squarcionesca, nei bordi degli affreschi della CappellaMazzatosta in Santa Maria della Verit a Viterbo.A Firenze, intanto, dove alla met del secolo i temi

    della mitologia e della storia greco-romana erano confi-nati in produzioni per la gran parte artigianali comecassoni nuziali o deschi da parto, con una continua ripro-posizione cortese delle favole antiche, le tre tele dipin-te, al posto di pi consueti arazzi, da Antonio e Piero

    Pollaiolo intorno al 1460 per una camera del palazzomediceo dovettero suonare nuove ed inattese: tre epi-sodi della saga di Ercole (le lotte contro Anteo, il leoneNemeo, lidra) proponevano su scala monumentale ilvirtuosismo anatomico, e violentemente espressivo, del-lorafo Antonio, istituendo un paragone immodesto conle figure dei sarcofagi antichi. Pollaiolo, con la firmataBattaglia dei nudi, cercava di imporre, in quegli stessianni, il proprio primato nella raffigurazione del corpo

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    umano colto in atti estremi, dove la nudit suonavacome un esplicito riferimento ai grandi esempi della pla-

    stica antica: e la composizione, nella versione incisa o inquella scolpita, rimase canonica fino, ed oltre, le batta-glie di Cascina e di Anghiari.

    Non menzionata dalle fonti, riscoperta solo alla finedellOttocento, presto letta in chiave lineare sulla fal-sariga della ceramica antica, greca o italica, la danza dinudi affrescata su una parete della villa La Gallina diArcetri ripropone gli stessi motivi della Battaglia nudit dei corpi e movimento sfrenato abbinandoli aduna complessa idea architettonica, che sembra trovaretangenze con il nascente interesse, da parte dei lettoridi Vitruvio e degli indagatori delle rovine, per gliambienti termali e per i bagni antichi: se questa ipotesitrover una conferma, sar possibile intravedere in que-sto ambiente della famiglia fiorentina Lanfredini unincunabolo delle stufe allantica che tanta fortuna avran-no a cominciare dalla Roma dei primi decenni del Cin-

    quecento.I tabelloni con le storie della Genesi che dalla finedegli anni sessanta cominciavano a coprire la paretesettentrionale del Camposanto di Pisa, Benozzo Goz-zoli li dipinse senza lasciarsi in alcun modo impressio-nare dai sarcofagi antichi reimpiegati in massa sottoquei loggiati o, immediatamente fuori, tra i miracolidella Piazza. Si potrebbe credere di essere a Montefal-

    co o a San Gimignano, se non fosse che nella Maledi-zione di Cam un dettaglio tradisce il soggiorno pisano:la vasca a cui si abbevera una pantera, alla destra dellascena, ripete letteralmente uno dei sarcofagi romanidel Camposanto.

    Vien da pensare, e non un esercizio banale diimmaginazione storica, se quella parete (per di pi oggidistrutta) lavesse dipinta un pittore diverso dal Gozzoli;infatti la Rinascenza toscana, nel 1466, rischi grosso:

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    il 3 di luglio di quellanno, gli operai della Fabbrica delDuomo invitavano per colazione Andrea Mantegna,

    lo quale d avere a finire di dipingere al Camposanto.Con tutti quei rilievi antichi a disposizione, con le col-lezioni medicee a portata di mano, avrebbe creato ilMantegna, gi cortigiano gonzaghesco, qualcosa a mezzavia tra la severit degli Eremitani e la curialit dellaCamera degli Sposi. Ma quel giro di vite non avvenne,e fu preferito il Gozzoli.

    Nel 1469 giungeva in ritardo allOpera del Duomopisana una lettera di Vincenzo Foppa, che, reduce daisuccessi di Milano e di Pavia, chiedeva di dipingere ilCamposanto: e qui neanche limmaginazione soccorrenel pensare ad una Cappella Portinari srotolata su unaparete lunga decine di metri. Ce ne sarebbe stato abba-stanza da risollevare dalla decadenza una delle pi impi-grite province artistiche di Italia? A Pisa, infatti, sirecheranno quasi solo, nelle ricostruzioni forzate deglistorici, tutti quegli artisti in cui si vuol ritrovare qual-

    che traccia di antico, senza ricorrere al pi consuetoviaggio a Roma: i sarcofagi del Camposanto giocanoquindi nella storiografia un ruolo per pi versi paralle-lo a quello degli intoccabili disegni di Ciriaco con le anti-chit della Grecia nella biblioteca di Pesaro.

    Tra gli Operai pisani dovette sorgere qualche per-plessit sul Gozzoli, perch nel 1474 fu chiamato il Bot-ticelli a vedere dove avea a dipingere in Camposanto:

    ma anche questa volta non se ne fece nulla.Neanche dieci anni dopo il Botticelli aveva dipintotre degli affreschi della Cappella Sistina; in quella adu-nata di quasi tutti i pittori umbri e toscani del momen-to le intrusioni anticheggianti sono ben poche: si ridu-cono, sostanzialmente, agli Archi di Costantino intro-dotti da Botticelli e Perugino, per motivi probabilmen-te anche politici, legati al programma iconografico dellaCappella, sui fondali di due scene che si fronteggiano,

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    la Punizione di Corah e la Consegna delle chiavi. Si trat-ta di rese scrupolose e un po pedanti di un monumen-

    to che si avviava a diventare una quinta impiegatissimapersino nella pittura da cassone.I capifila, almeno a livello contrattuale, dellquipe

    sistina, Botticelli Ghirlandaio Perugino, si ritrovavano,con in pi il giovane Filippino Lippi e in meno CosimoRosselli, a decorare qualche anno dopo, per Lorenzo ilMagnifico, la villa di Spedaletto, nei pressi delle termedi Morba, frequentate annualmente dal signore medi-ceo. Questa volta si trattava di un grande ciclo mitolo-gico, oggi perduto, di cui si conosce solo un soggetto, laFucina di Vulcano dipinta da Ghirlandaio, ma di cuiper non si stenta ad immaginare limportanza. Lim-presa di Spedaletto si inserisce perfettamente in una cul-tura cortigiana come quella di Lorenzo il Magnifico,dove il ricorso ai miti del mondo antico accomunava arti-sti, letterati e filosofi, senza che si possano o si debba-no tracciare linee troppo nette di convergenza. Accom-

    pagnava questi interessi un vivace collezionismo di anti-chit, che vedeva il signore mediceo in prima fila con leraccolte del palazzo di Via Larga e del giardino di SanMarco; non si trattava solo di adunate di sculture digrandi dimensioni, spesso restaurate da scultori di primoordine: spiccavano, per quantit e pregio, gemme e vasiin pietra dura. Questo tipo di interessi interferiva ine-vitabilmente con la produzione artistica contempora-

    nea: si pensi, per esempio, alle innumerevoli miniaturefiorentine dellultimo quarto del secolo in cui vengonoriprodotte le pi celebri gemme della collezione diLorenzo, senza per toccare mai i vertici di esaltazioneanticheggiante raggiunti dalle produzioni analoghe del-lItalia settentrionale: Monte o Attavante non valgono,sia chiaro, il Maestro delle Sette Virt o il Maestro deiPutti o lincredibile Marmitta.

    Alla cerchia medicea Botticelli destinava la Venere, la

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    Primavera, la Pallade; a Lorenzo de Medici Signorellidedicava il suo Regno di Pan, ripresa svagata, mitologi-

    ca e cortigiana degli Adamiti di Arezzo; nella villa diLorenzo a Poggio a Caiano Filippino Lippi cominciavaa dipingere, sotto la loggia, un affresco con la tragediadel Laocoonte, in cui, ignorando liconografia del grup-po antico, si dava ad una ricostruzione fantasiosa edumorale delle architetture antiche; nella Sala dei Giglidi Palazzo Vecchio Ghirlandaio arricchiva la presenta-zione canonica degli uomini illustri con alcune scrupo-lose riproduzioni di monete antiche.

    La passione per lantichit era diventata un fatto digusto, proposto con disinvoltura dagli artisti e richiestodai committenti. La bottega di Ghirlandaio inseriva, apiene mani, monocromi riproducenti rilievi e moneteantiche negli affreschi per le famiglie Sassetti o Torna-buoni, ma anche in prodotti minori, come la Giuditta diBerlino, sul cui fondo compare uno dei rilievi traianeidellArco di Costantino. Da un altro di quei rilievi deri-

    vavano, senza lalibi del monocromo, come spieg AbyWarburg, le figure centrali dei soldati crudeli che com-pivano la strage degli innocenti in uno degli affreschiTornabuoni; da una scena della Colonna Traiana, comesugger Hermann Egger, uno dei soldati della Resurre-zione della pala daltare Tornabuoni. Nella tarda pala perRimini, invece, i monocromi presenti non si lascianoricondurre, con la stessa meccanicit di quelli della cap-

    pella Tornabuoni, a nessun rilievo antico.Tramiti per operazioni di questo tipo dovevano esse-re delle raccolte di disegni di antichit, sul tipo di quelCodice Escurialense, che un tempo si riconduceva pro-prio alla bottega di Ghirlandaio e che oggi viene avvi-cinato invece alla cerchia di Giuliano da Sangallo: queifogli, o i loro prototipi, dovettero passare tra le mani dimolti pittori a Firenze, inclusi Fra Bartolomeo e il gio-vane Raffaello.

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    Una camera della casa di Guidantonio Vespucci veni-va decorata con pannelli dedicati a illustri eroine del-

    lantichit, sfornate dalla bottega del Botticelli; AntonioSegni riceveva dal medesimo pittore il quadro con laCalunnia, ricostruzione di una perduta pittura di Apel-le, descritta in un opuscolo di Luciano, tradotto da Gua-rino Veronese, raccomandata dallAlberti, disegnataanche dal Mantegna: il soggetto antico era ambientatodentro unarchitettura, aperta sul mare, stracolma dirilievi e statue di soggetto biblico e mitologico. Allostesso committente Leonardo da Vinci dedicava, qual-che anno dopo, uno dei suoi rari disegni di presenta-zione, Nettuno su una quadriga di cavalli marini scalpi-tanti. Le nozze fra due rampolli di casa Tornabuoni eAlbizzi fornivano lo spunto 1487 a Bartolomeo diGiovanni, Biagio dAntonio e Pietro del Donzello pernarrare, su scenari aggiornati alle nuove mode romane,la favola antica e cortese degli Argonauti.

    Francesco del Pugliese e Giovanni Vespucci avevano

    la fortuna di vedere alcune stanze delle loro case decora-te dalle mitologie di Piero di Cosimo, strapiene di animalitondi e panciuti, come nel migliori Walt Disney, mentreil pistrice che cerca di assalire Andromeda, nei pi tardipannelli per Filippo Strozzi il giovane, sembra gi pron-to a farsi orca e ad entrare nellOrlando Furioso.

    Superato il cordone sanitario che Roberto Longhi

    aveva rizzato attorno al nome e alle opere di Leonardoda Vinci, lanti-Renoir corruttore della pittura lombar-da, e in attesa di riscattarlo dalle mani forse troppoavide dei leonardisti, si pu solo accennare qui al sin-golare rapporto che Leonardo intrattenne con larte delmondo antico: un percorso continuamente anticanoni-co, che lasciava da parte ogni richiamo al monocromo oallattrezzeria, in nome di una pi complicata compren-sione del senso e della natura dei tempi.

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    Avviato allarte nella tentacolare bottega del Ver-rocchio, giovane di molte letture (anche di classici, tra

    cui Vitruvio), tramutava le effigi dei Cesari antichi,tanto care al signore di Milano, presso cui era andato alavorare dal 1482, in pretesti di caricature.

    Scriveva che limitazione delle cose antiche pilaudabile che quella delle moderne, e studiava a Paviail Regisole, a Tivoli le rovine della villa di Adriano, aCivitavecchia i resti del porto di Traiano, ma si esita unpoco a pensare che avrebbe dovuto dipingere nel castel-lo del foro della Vigevano sforzesca un ciclo di storieromane.

    Non gli mancavano competenze specifiche nel trat-tare gli oggetti antichi: a lui, in quanto esperto ricono-sciuto, veniva infatti richiesto, nel 1501, un parere daIsabella dEste su alcuni vasi antichi provenienti daltesoro mediceo.

    Aggiornava ad una lettura fulminante dei testi anti-chi il proprio inesauribile desiderio di sperimentazione:

    e cos la tecnica strana e disastrosa con cui inizi adipingere la Battaglia di Anghiari pot sembrare agli occhidei contemporanei una restituzione dellencausto, tantoapprezzato nelle pagine della Naturalis Historia.

    Con un soggetto mitologico per eccellenza, sia purancora non troppo battuto, la Leda, rinunciava alleser-citazione archeologica, per tentare una spiegazione arti-stica dei misteri della generazione.

    Confinato nel Belvedere vaticano, da vecchio, conti-nuava a studiare gli amati animali, mentre sembravaridurre a giocattoli di corte i risultati delle sue riflessio-ni, senza uscire a dare uno sguardo alle statue antichedelle raccolte papali o ai mondi clamorosi e insostenibi-li delle Stanze e della Sistina; i ragazzacci che si porta-va appresso andavano tra i ruderi a tirare di fionda agliuccelli, non a misurare e a far rilievi come gli scrupolo-si impiegati della ditta di Raffaello.

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    Quanto stava avvenendo a Firenze intorno a Loren-zo il Magnifico era comune, sia pur senza i medesimi

    successi storiografici, ad altri centri dItalia. La culturacortigiana prevedeva infatti un discreto, ma costante,appello a motivi e a temi antichi, nelle produzioni let-terarie e figurative. Agli artisti sempre pi spesso erarichiesta la decorazione di ambienti di dimore private olallestimento di complicate occasioni festive: ed inentrambi i casi il mondo antico offriva un repertorio ine-sauribile di spunti, sollecitati o, comunque, bene accol-ti dalla committenza. Se poi in queste manifestazioni sidava prova di correttezza o di fedelt archeologica, que-sto era qualcosa di pi e che non stonava. Erano com-piti che toccavano sia ai pittori sia agli scultori, chenegli ornati anticheggianti avevano il modo di revisio-nare la grande tradizione della decorazione antica. Que-sto gusto per il mondo antico, dilagato almeno daglianni ottanta e valido circa un trentennio, era fiancheg-giato dallo sviluppo di innumerevoli collezioni di ogget-

    ti antichi, di tutti i tipi, dalle epigrafi alle sculture.Sarebbe una fatica di Sisifo stilare un inventario ditutte le Nativit o i Martiri di San Sebastiano, sui cuifondali compaiono edifici in rovina: vale in ogni modoinvece la pena di cercare di capire come mai in certesituazioni, in cui esistono corti, umanisti, antichit,embrioni di collezionismo, la pittura resti sostanzial-mente impermeabile agli interessi per lantico: il caso,

    ad esempio, del regno di Napoli, dove ben poco si putrovare da inserire in questo profilo, oltre allanta dor-gano dipinta da Francesco Pagano per SantEfremNuovo di Napoli, alla fine degli anni ottanta, dove, die-tro ai due santi e allarmigero carnefice, sul canonico edi-ficio in rovina, svetta un monocromo che giunta ardi-tamente pi di uno dei rilievi traianei dellArco diCostantino con la fronte di un sarcofago di Oreste.

    La decorazione degli studioli, gli ambienti dove pi

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    spesso il signore o lumanista si ritirava a riflettere sullastoria o ad emendare un testo antico, dove si accumu-

    lavano sulle scansie gli oggetti preziosi provenienti dalpassato erano luoghi privilegiati per accogliere pitture disoggetto antico. Lo studiolo del palazzo ferrarese di Bel-fiore, allestito per volere di Lionello dEste, tra 1447 e1463, con la collaborazione di intellettuali ed artisti (daGuarino Veronese a Teodoro Gaza, dal Maccagnino alPannonio e al Tura), si pu mettere, buon primo, in que-sta serie. Liconografia delle Muse fissata a Ferrara, nelciclo di Belfiore e in altre serie, ebbe modo di dilagareper lItalia, tramite anche i maneggiatissimi Tarocchidel Mantegna, che un po dopo la met del secolo ren-devano conoscibili e disponibili le iconografie di moltipersonaggi antichi: da quelle carte risultano dipenderele stentate Muse del Tempietto del Palazzo Ducale diUrbino, tra Giovanni Santi e Timoteo Viti, e, persino,qualche ricordo si trova tra quelle romane della Villadella Magliana, inserite da Filippo Todini nel percorso

    del riscoperto Gerino da Pistoia.Le propensioni ferraresi ad una pittura prospettica,pietrificata ed iperornata, non prevedevano richiamiprecisi allarte del mondo antico: sui ricordi di Pierodella Francesca e di Rogier van der Weyden, le lezioniapprese alla scuola dello Squarcione esortavano adaccrocchi cromatici di oggetti mai visti, in cui era pifruttuoso il ricorso ad epigrafi ebraiche che a composte

    capitali latine o a lettere greche, di un umanesimo, tuttosommato, pi banale. Per i programmi di studio dei pit-tori ferraresi andava meglio un Ebrei e Oriente cheun ginnasiale Grecia e Roma. Pellegrino Prisciani, li-deatore del programma iconografico del salone di Schi-fanoia, si comportava diversamente da Feliciano o Mar-canova: preferiva rivisitare le fonti dellastrologia chesuggerire epigrafi da copiare, tra trionfi di dei, lettinegliAstronomica di Manilio ma pensati come alla corte

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    di Borgogna, tra i decani zodiacali, dove i personaggidella mitologia antica sono cos travestiti da risultare

    irriconoscibili, tra le scene della vita di Borso, dovetutto compare, dal lavoro alle umiliazioni degli uomini,dalle feste alle cacce del signore.

    Una carrellata sui monocromi introdotti di frequen-te da Ercole de Roberti nelle sue pale e nei suoi affre-schi potrebbe cominciare con lo sforbiciare lunico det-taglio di Schifanoia che potrebbe figurare in questa sto-ria: un bicromo, se si potesse dire, dallincomprensibileiconografia, che sovrasta, simulante pietre rosse e grige,un arco sotto cui il duca Borso accoglie un ambasciato-re. I monocromi di Ercole, sempre dinvenzione, apro-no strade a Ferrara e a Bologna: da essi si pu correrdritti fino a quelli, che appaiono pi banali, sul soffittodellAula Costabiliana dipinta dal giovane Garofalo, allamet del primo decennio del Cinquecento, dove sidispongono precise e letterali riproduzioni di famosirilievi di Roma; ma sulla pista ertissima di Ercole stan-

    no ancora quelli, dipinti a grigio su bianco, nelle tavo-lette del Mazzolino, quasi sigla di fabbrica, di ossessivainsistenza.

    Quando Lorenzo il Magnifico si era recato a Manto-va nel 1483, non aveva rinunciato ad andare a trovareil Mantegna: ...se drici a casa de Andrea Mantegnadove la vide, cum grande appiacere, alcune picture des-so Andrea et certe teste de relevo cum moltaltre cose

    antique che pare molto se ne deletti, come scrivevaFrancesco a Federico Gonzaga.Mantegna, a Mantova, era diventato nelle gerarchie

    artistiche dei contemporanei il primo pittore dItalia: lescelte geniali per una pittura allantica al tempo degliEremitani si erano rivelate lungimiranti ed in grado diappassionare i committenti pi vari, in Italia e fuori,spesso tenaci collezionisti di oggetti antichi. Lui stessosi era fatto collezionista, ed oltre alla sempre ricordata

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    Faustina, varr la pena di rammentare almeno un altroritratto antico, forse acquistato sul mercato romano,

    che, dietro le insistenze di Isabella dEste, fu costrettoa cedere nel 1498 ad Isabella dAragona, signora, sullacarta, del ducato di Milano, perch li era stato refertoche la se asimiliava a lei. Nel chiuso del Castello Sfor-zesco, di fronte ad uomini e donne, con il consigliodeterminante di uno specchio, la gentildonna verificavala veridicit di quella diceria, confrontando il proprioprofilo con quello dellimperatrice antica, che il Mante-gna, professore di antiquit, aveva stimato essere disuprema bont.

    Nellimpresa della Camera degli Sposi, conclusa nel1474, ai ricordi del mondo antico era lasciato il soffitto,con le teste imperiali e gli episodi della mitologia, su unfondo dorato che mimava il mosaico: sulle pareti sidistendevano i gruppi di famiglia della corte (ma gi nel1475 il marchese Ludovico trovava privi di gratia iritratti dei famigliari che il pittore archeologo aveva

    disposto sulle pareti della stanza). Ancora doveva veni-re limpresa colossale dei Trionfi di Cesare, che si snodaal di qua e al di l del viaggio romano del 1489, senza chequelle nuove visioni, tuttavia, vengano a mutare sostan-zialmente il quadro e le impressioni che del mondo anti-co sera fatto ventenne nella campagna padovana. Pipompa, pi lusso, pi ori: ma quelli poteva ben averlivisti alla corte dei Gonzaga. Sulle nove tele passa una

    folla di comparse da cinema epico, con i prigionieri, inegri con gli orecchini, i senatori, i nani, limperatore, lestatue degli dei e gli elefanti su cui majorettes mai vistesi danno ad esibizioni spericolate; sul fondo scorrono,come su un panorama o in un trasparente, integri imonumenti di Roma: a tratti per sorgono i ruderi tra lerogge e allora i pastori, con le pecore i cani ed i buoi,sgranano gli occhi per vedere da lontano passare unaspecie di sfilata da circo nei campi della bassa padana.

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    Su fondi marmorizzati dei colori pi diversi il Man-tegna e la sua bottega sfornavano tavolette con episodi

    di storia biblica o grecoromana, pitture che i signori diMantova potevano regalare, per rappresentanza, con lasicurezza che sarebbero state gradite alla stregua, e forsepi, che veri rilievi antichi.

    Le stampe del Mantegna, con le baruffe degli deiacquatici o le cervellotiche allegorie della virt o i bac-canali di ragazzi e satiri, e quelle che riproducevano lesue invenzioni pi famose, permettevano lappropria-zione divulgata di tematiche e di soluzioni figurative,altrimenti confinate nelle camere private dei signori:era cos possibile un loro riuso, al di qua e al di l delleAlpi, per ambienti o committenti di rango inferiore.

    Su un altro registro ancora, meno rischiatamentemonumentale, si provava il Mantegna da vecchio nellecomposizioni mitologiche per lo studiolo di Isabella dE-ste, luogo tra i pi battuti dalla storiografia artistica pirecente, dove le sue tavole preziose trovavano presto

    come compagne composizioni analoghe del Perugino odi Lorenzo Costa, in una assennata esaltazione dellA-more celeste, tutta ripiena di mitologici travestimenti,ideata dalla marchesa e da Paride da Ceresara, prestosconfessata per da differenti spiegazioni della fenome-nologia dei sentimenti.

    Quando Pandolfo Petrucci, signore di Siena, in vistadelle nozze di suo figlio con una delle ragazze della

    migliore societ, decideva di allestire nel suo palazzo ungabinetto allantica, prima del 1509, replicava in qual-che modo limpresa mantovana di Isabella: i tempierano per velocemente cambiati, ed i pittori coinvol-ti erano ancora quelli, in sostanza, dellimpresa dellaCappella Sistina, su cui cominciava a gravare la voltamichelangiolesca. Signorelli e Pintoricchio, con colla-boratori pi giovani, tra cui sicuramente il Genga, sidavano, tra candelabre intagliate, mattonelle istoriate,

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    aquile con cartigli e motti latini, alla raffigurazione diepisodi antichi della storia e del mito, sotto un soffit-

    to che riproduceva, grondante di ori e di mitologia, lepartiture ornamentali della ritrovata Domus Aurea diNerone. Quel nuovo modo di decorazione era statobattezzato da poco: nel contratto di allogagione dellaLibreria Piccolomini il Pintoricchio si impegnava adipingere il soffitto a la forgia et disegni che hoggichiamano grottesche.

    Una storia del gusto per lantico a Siena, tra Quat-tro e Cinquecento, sarebbe avvincente da leggere e dascrivere e dovrebbe ricominciare da molto prima: supe-rati i personaggi antichi di Taddeo di Bartolo e quelli delPalazzo di Lucignano, costeggiare quella specie di squar-cionismo senese a seguito della presenza di Donatello,indagare i monocromi del Vecchietta e, ancor pi , quel-li del felicemente riscoperto Pietro Orioli, rivedere,come in un test, le varianti delle decorazioni che com-paiono nelle Stragi degli Innocenti di Matteo di Giovan-

    ni, menzionare, per forza, le spigolose soluzioni anti-cheggianti dello scultore Antonio Federighi, indicarelincidenza sugli artisti delle serrate competenze archeo-logiche di Francesco di Giorgio Martini, srotolare laserie degli eroi e delle eroine antiche per il matrimoniodei fratelli Spannocchi del 1493, a cui parteciparonoquasi tutti i pittori operosi in citt (Signorelli, France-sco di Giorgio, lOrioli, Neroccio de Landi, il Maestro

    di Griselda), ricordando che non si tratt dellunicadecorazione di questo tipo, valutare le conseguenze del-lapprodo senese, tra 1498 e 1503, del gruppo con le TreGrazie, proveniente dalla collezione Piccolomini diRoma, e alla fine ritornare nel Palazzo del MagnificoPandolfo a scrutare, con altri occhi, le divinit degli altriambienti, pronti per uscire sotto i soffitti quadraturistidel Beccafumi, dove ancora una volta gli episodi di sto-ria antica, tratti da Valerio Massimo, stanno come esem-

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    pi di virt: buona guida per questo giro saranno Rober-to Guerrini e Sandro Angelini.

    Da risarcire sar il posto di Milano, che, dopo leimprese del Foppa, non potr non brillare in questamappa: la citt infatti in cui, tra regime sforzesco edominazione francese, presero forma, in nessi ancora dadistricare tra pittura, scultura, arti suntuarie e appas-sionate interferenze di intellettuali, i gusti e le compe-tenze antiquarie del Caradosso, o le architetture delBramantino, o i trofei del Bambaia, ma anche, e non poco, la ferrea epigrafia storica di Andrea Alciati, perfare solo degli esempi.

    Nel quadro che andr costruito, si sa gi fin da orache si tratta di una disposizione romantica a riguardarela grandezza di Roma, che precede in Lombardia gli arri-vi di Filarete e di Bramante; ma chiaro altres che ilbramantismo costituisce la variante lombarda dellanti-chismo che pervade la pittura italiana verso la fine delsecolo. Formatosi in un ambiente da cui erano emerse

    le Tavole Barberini di Fra Carnevale, dove in luminosecostruzioni spaziali i monocromi riproducono solo par-zialmente motivi antichi, la carriera di Bramante nellI-talia settentrionale annoverava dapprincipio i filosofipresocratici immortalati in prospettiva sulla facciata delPalazzo del Podest di Bergamo nel 1477, a cui siaggiungeva poi, capitale, la comparsa, 1481, dellinci-sione Prevedari, con quel tempio antico in rovina ricon-

    sacrato e colmo di fregi e di decorazioni, tali da impres-sionare non pochi dei contemporanei, vicini e lontani:e poi su queste piste, e con queste soluzioni, decorazio-ni di interni, come quella di Casa Panigarola, o faccia-te dipinte, come quella di Casa Fontana Silvestri. Chanzi la decorazione di queste ultime sar specialit lom-barda: il grande Polidoro dovr perdere, prima o poi,qualche grumo di raffaellismo per trovare pi spiega-zione di quel da Caravaggio, centro esportatore di

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    decoratori di facciate. Si assisteva insomma, con il bra-mantismo, allinvenzione di un linguaggio e di un modo

    di decorazione che dilagava per la Val Padana, per qual-che decina danni: ad esempio, a Parma, con gli affre-schi del Cesariano nella sagrestia di San Giovanni Evan-gelista, da accostare a quelli milanesi di Palazzo Lan-driani, o a Biella con il voltone della chiesa di San Seba-stiano, o in molte localit dellentroterra veneto; saran-no da collocare a questo punto infatti, le decorazioni tre-vigiane, tra cui spiccano quelle del monumento Onigo,e il fregio della Casa di Giorgione a Castelfranco, dovetra gli strumenti del pittore sono riprodotte alcune pla-chette, tramiti importantissimi per le decorazioni digusto anticheggiante.

    Anche la geniale trascrizione pi guizzante, piastratta, pi dialogante con Leonardo di quelle solu-zioni operata dal giovane Bramantino, per esempionellArgo del Castello Sforzesco, prima del 1493, pote-va trovare conferme precoci nel resto della regione,

    come a Cremona con le decorazioni coi Cesari nella-trio di Palazzo Fodri o con il soffitto con Apollo e leMuse da Casa Maffi; mischiando Bramante a Bra-mantino, si poteva arrivare fino al Friuli con le solu-zioni rovinistiche e affascinanti del giovane Pellegrinoda San Daniele.

    Alcuni di questi fanatici lombardi non si acconten-tavano dei fregi effigiati sullincisione Prevedari, dei

    miti raccontati per scorcio sulle placchette del Moder-no, del Regisole da studiare a Pavia, di San lorenzo aMilano guardata come se fosse ancora il Tempio adErcole di Massimiano: volevano andare a vedere Romadal vero; calavano chi per restarci a vita, chi per rima-ner folgorato, chi per far su e gi e trafficare. Pi chemai eloquente testimonianza di quel che essi pensasse-ro nellandare a Roma sono le terzine intorcinate delleAntiquarie prospettiche romane composte per prospectivo

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    melanese depictore, che, datate correttamente al 1496-98,rendono ancora pi implausibile la troppo fortunata

    attribuzione a Bramante, per rischiare quella, molto sol-lecitante, allo Zenale, che prospectivo di certo fu,melanese lo si pu ben dire (anche se veniva da Tre-viglio), e la cui cronologia presenta un vuoto proprio inquegli anni l. Se poi si riuscisse sul serio a riconoscerela sua mano tra gli affreschi lombardi di Palazzo Vene-zia, lattribuzione allo Zenale del poemetto sarebbe ipo-tesi da prender pi sul serio di quando lavanz, allini-zio di questo secolo, Christian Hlsen. Da ricordaresar anche che proprio a Bernardo Zenale, cos parco dirimandi anticheggianti nella sua pittura complicata, sirivolgeva il giovane Alciati per un parere ed un disegnodi unurna antica conservata in un oratorio della cam-pagna lombarda. Lautore del poemetto scruta tutte leprincipali raccolte della Roma di Alessandro VI, visitai monumenti antichi, ma non si dimentica mai delDuomo di Milano, ed anche se menziona Pollaiolo e

    Verrocchio e dimostra reale familiarit con Leonardo ela sua cerchia, ha in testa saldi i valori di Jacopino daTradate.

    Il riassunto di questa disposizione danimo, allap-prossimarsi della sua conclusione, si trover nel 1521nello sterminato commento allArchitettura di Vitruvio,fatica di una vita del pittore-architetto Cesare Cesaria-no: si legger l la lista dei lombardi, tra cui non man-

    cava Bernardo da Treviglio, calati a Roma a studiare leantichit e tornati in patria pasciutti di contentezzaspeculativa.

    I lombardi si erano aggiunti ad artisti provenienti daaltre regioni dItalia nellappassionata scoperta dellegrotte romane, condotta al lume delle torce sotto levolte affrescate della favolosa Domus Aurea di Nerone.I preziosi appunti, trascritti a pancia per aria nelle stan-ze sotterranee, presto divulgati da copie grafiche e a

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    stampa, consentono una diffusione rapidissima di nuovesoluzioni decorative. Il registro delle grottesche, stilato

    tenendo conto delle decorazioni moderne e delle firmenelle grotte romane, comprender almeno qualche par-ticolare degli affreschi Tornabuoni del versatile Ghir-landaio, il fondo del mondo ornamentale ed inquieto diFilippino Lippi, di certo fra i pi assidui a trascriverequei partiti antichi, le cascate di mostri, uccelli e mono-cromi negli zoccoli della Cappella di San Brizio di Signo-relli ad Orvieto, laggiornamento tempista ed impren-ditoriale del Perugino nel soffitto del Collegio del Cam-bio, il grande cantiere della rocca borgiana di CivitaCastellana, Pintoricchio e la sua bottega a Roma, Sienae Spello, fino ai piemontesi fattisi, per vie da districa-re, centroitaliani come il Sodoma a SantAnna in Cam-prena e a Monteoliveto o tornati su nelle terre lorocome Macrino dAlba e Eusebio Ferrari o il gran Gau-denzio a Varallo; ci staranno anche, ma con una nota dibiasimo, le tonte e tarde grottesche dellAraldi a Parma.

    Questo nuovo linguaggio ornamentale, in grado didiffondersi in contesti culturali e tra personalit artisti-che profondamente diverse e di costituire una unit lin-guistica che trova un precedente forse solo nei fastidecorativi del gotico internazionale, trae spunto daRoma e proprio a Roma conosce le pi precoci applica-zioni. Accanto alle soluzioni complesse e monumentalidi Filippino Lippi alla Cappella Carafa, coeve allincur-

    sione romana del Mantegna, soprattutto nei numero-si cicli appaltati alla bottega del Pintoricchio, a partiredagli anni ottanta, che si assiste allesplosione della grot-tesca, a decorare i soffitti delle dimore cardinalizie piin vista del momento o a colmare, in unesibizione sfre-nata di ori, stucchi e pietre preziose, la celebrazionearcheologica e cortigiana dellAppartamento Borgia.

    Un esempio soltanto di quei committenti: Domenicodella Rovere, vescovo di Torino e cardinale di San Cle-

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    mente, abitava a Roma in un palazzo, dove in una salasi celebravano astrologicamente i mesi dellanno, in

    unaltra il soffitto era ricolmo di formelle dorate con ani-mali e personaggi della mitologia, nel cortile erano graf-fiti volti di personaggi antichi, tra cui larchitetto Vitru-vio; la sua cappella a Santa Maria del Popolo non rinun-ciava a soluzioni paganeggianti e illusionistiche; posse-deva libri dore con alcune delle miniature pi belle delsecolo: il parmigiano Francesco Marmitta nel messale diTorino rifaceva cammei e ornati antichi, coniugandoFiandre, Ercole de Roberti e classicismo prematuro,il veronese Francesco di Bettino nel messale della Pier-pont Morgan Library si dava ad uno squarcionismoretrospettivo ed esaltato, non indenne, naturalmente, dasimpatie anticheggianti. Le soluzioni adottate nei cicliromani potevano diventare dei modelli per decorazioniin sedi periferiche: ad esempio, il salone con i mesi delPintoricchio per Domenico della Rovere veniva replica-to dal Falconetto in Palazzo dArco a Mantova, lim-

    pianto della mastodontica Sala Regia di Palazzo Vene-zia, con qualche variante e complicazione, nella Saladei Mori di Giovanni del Sega a Carpi.

    Dalla folla dei pittori della Roma del Pintoricchioemergono, nellultimo decennio del secolo, figure comeMorto da Feltre, un personaggio ancora tutto da rico-struire, ma capace comunque di incidere per ben trevolte, in un caso persino a lettere greche, il proprio

    nome sulle volte della Domus Aurea e di meritarsi, perle sue competenze archeologiche, una prestigiosa men-zione vasariana.

    Anche Amico Aspertini, giunto a Roma al seguito delpadre, trae dalla cultura pinturicchiesca lo stimolo perescogitare una eccentrica traduzione dei rilievi antichiin un linguaggio memore ancora delle inquietudini diGiovanni da Modena. Le passioni del giovane Asperti-ni, occupato a riempire una pagina via laltra del suo tac-

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    cuino mescolando i miti dei sarcofagi con i rilievi degliarchi trionfali, le storie della Colonna Traiana con le pit-

    ture della Domus Aurea, lo spingono a realizzare primadel 1500, opere come il San Sebastiano, dove sul fondonero si staglia dietro a questo compagno equivoco deitrasognati martiri perugineschi una balaustrata che rior-ganizza motivi frementi di diversi rilievi antichi. Diven-tava presto inevitabile quindi lincontro con quel Jaco-po Ripanda, anche lui bolognese, impegnato gi primadel 1503 nella prestigiosa commissione capitolina, unadelle pi importanti imprese pittoriche della Roma di-nizio secolo. Si trattava di svolgere, in quattro sale delpalazzo dei Conservatori, un ciclo di inedita complessitin cui fossero raffigurati i principali eventi della storiadi Roma antica nel periodo regio e repubblicano: unadisciplina lungamente esercitata sui testi e sui monu-menti della classicit, messa a punto attraverso indagi-ni a tappeto per la prima volta condotte con tale rigoreantiquario, consentivano a Ripanda di provarsi, con

    eccessiva fiducia nei propri mezzi, nella grande compo-sizione storica, con uneloquenza illustrativa che spostae dispone grandi masse di attori su scenari vari e spet-tacolari. La bottega di Ripanda, impegnata nel primodecennio del Cinquecento non solo in Campidoglio,sotto gli auspici di Raffaele Riario, ma anche nel ciclodi Traiano e di Cesare voluto da Fazio Santoro per cele-brare le virt di Giulio II, si dedicava inoltre alla deco-

    razione di facciate di case di privati cittadini e alla pro-duzione di cassoni nuziali: le invenzioni del pittore bolo-gnese, giocate su virtuose decalcomanie di figure tratteda rilievi antichi, venivano realizzate dagli artisti dellasua cerchia.

    LAspertini intanto era tornato in patria e avevaimmesso nella Bologna dei Bentivoglio, attestata anco-ra sulle mitologie cortesi ed umbratili del Francia e delCosta, il flusso delle sue conoscenze conquistate a Roma

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    a contatto diretto con i monumenti antichi. I versi delViridario dellAchillini, 1504, sanno cogliere, con gran-

    de precocit, lumore bizzarro e lappassionata filologiadellAspertini, che gli consentono di accaparrarsi untemporaneo primato culturale in direzione romana eanticheggiante.

    NellOpusculum di Francesco Albertini, concluso nelgiugno del 1509, veniva teorizzata la superiorit diRoma antica, in via di ricostruzione nella galleria dicapolavori del Belvedere vaticano, sulla Roma degli arti-sti moderni: e poco importava allerudito fiorentino cheMichelangelo stesse gi decorando, pulcherrimis pie-turis et auro, la Cappella Sistina o che Raffaello comin-ciasse a distinguersi fra gli excellentissimi pictores con-certantes nelle Stanze vaticane, in cui non mancavanon il Sodoma n il Bramantino n Lorenzo Lotto.

    Nei registri nazionali dei grandi pittori italiani nonmancavano i due fratelli Bellini, veneziani: e Giovanni

    fu di certo uomo che sarebbe stato capace di reggere allesconvolgenti novit romane di quegli anni, lui che delrinnovarsi incessante fece la propria divisa mentale emorale.

    Jacopo Bellini era morto, probabilmente nel 1470,lasciando a suo figlio Gentile i libri di disegni, le anti-chit, i calchi. Raffaele Zovenzoni, il letterato che cele-brava luva squarcionesca di Marco Zoppo come se fosse

    quella di Zeusi, rammentava in una poesia una Venereantica di Gentile, che possedeva anche un busto di Pla-tone, celebrato in versi da Pietro Valeriano. Lerudi-zione antiquaria del Seicento favoleggi che il pittoreveneziano, nel corso del suo soggiorno a Costantinopo-li, alla corte di Maometto II, avesse ritratto le colonnecoclidi degli imperatori tardoantichi. Ma nella pittura diGentile, nei suoi disegni, la costante attenzione per ilcostume e per la grande scena curiale, mista alle preoc-

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    cupazioni ritrattistiche risolte certo pi in senso araldi-co che psicologico, prevedeva il richiamo a scenari molto

    diversi da quelli battuti con insistenza ossessiva dalcognato Mantegna. Il suo un Oriente senza rovine, unpo come quello del Carpaccio, che solo nei quadri pimistici allenta la presa della sua imperturbabilit, e lasciacomparire inserti di are spezzate, ruderi e epigrafi nellacampagna del Veneto.

    Anche a Venezia, come nelle corti dellItalia delNord, si tratta di sbrogliare i legami tra i letterati, i col-lezionisti-committenti, i pittori e gli scultori, che, inquesto caso, sono, prima di tutti, Tullio e Antonio Lom-bardo con le loro soluzioni classicistiche, pronti a risen-tire dei pezzi antichi che giungevano dalla Grecia o dal-lAsia Minore, oppure Cristoforo Solari, le cui figureparevano ai contemporanei antiquo scemate. Per fareun esempio solamente, in un paesaggio di cui si vannorimontando episodi maggiori e minori ed anche minimi,dovr riprendere il suo posto Ambrogio Leone, medico

    nolano trasferitosi a Venezia: lui infatti a descriverein versi un busto marmoreo di Beatrice dEste, a parte-cipare pesantemente alla disputa sulle arti con un passodel suo De nobilitate rerum, a commettere ad un artistamultiforme della bottega belliniana, Girolamo Mocetto,una serie di piante di Nola antica e dei suoi monumen-ti, realizzate sul luogo, che verranno pubblicate a cor-redo illustrativo del suo De Nola, vera e propria mono-

    grafia sulla sua patria.Nel corso della sua carriera lunghissima e spettacolosaGiovanni Bellini ebbe modo di provare, fornendo rispo-ste sempre personali e inconfondibili, diversi dei modidi approccio allarte del mondo antico sperimentati daipittori suoi contemporanei: da giovane sfuggiva allesi-lit delle soluzioni paterne, ricorrendo al robusto anti-chismo del Donatello padovano e fiancheggiava, indi-pendente, le avventure della banda degli squarcione-

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    schi, come si pu vedere in un disegno degli Uffizi; dia-logava, con differenti soluzioni, sui problemi che affa-

    scinavano Andrea Mantegna, in quadri come il Sanguedel Redentore, dove la balaustrata con scene di sacrificipagani si innalza su un pavimento piastrellato bianco enero, da rammentare il ben pi tardo ring dellAllegoriaSacra degli Uffizi, con tuttintorno una campagna e unpatetismo che mai il cognato terribile avrebbe contem-plato; nella Piet di Brera poteva correre il rischio diinserire, per volont di uno sconosciuto committente, unverso oscuro di Properzio, pi lontano che mai dallelapidi degli Eremitani; nella pala di Pesaro aveva mododi ritornare sulle soluzioni decorative inventate da quel-laltro genio che era stato suo padre, senza pi paura dirischiare limitazione: il trono codussiano su cui Cristoincorona la Madonna, ed entro cui si staglia lucente larocca di Gradara, sovrastato da un fregio a figuretteche rammenta quelli dei libri di Jacopo, allora nelle manidistratte di Gentile, che presto se ne sbarazzava di uno,

    regalandolo ai Turchi, e in una delle formelle di questachiave di volta della storia artistica nazionale, dipintaper la citt della propria madre, Giovanni rappresenta-va una piazza dei suoi tempi, coi comignoli di Venezia,con un San Terenzio stante come una statua, unepigrafeantica reimpiegata nella muratura di un palazzo, anchequi una risposta sommessa ed atmosferica alle ricostru-zioni lapidee ed implacabili della Cappella Ovetari,

    come gi qualche anno prima aveva tentato in uno scom-parto della predella del polittico di San Vincenzo Fer-rer; pi avanti cogli anni, faceva qualche concessione ailettori dellHypnerotomachia Poliphili con pezzi di sog-getto profano, allegorico e mitologico, destinati a deco-rare la mobilia di quei colti personaggi, che volevanospecchi, cassoni o strumenti da musica impreziositi darimandi al mondo antico (qualcosa del genere produce-va in quegli anni anche un altro grande pittore veneto,

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    Cima da Conegliano); per amicizia e stima, Giovannipoteva anche prestarsi, ormai anziano, a dare una mano

    per completare la decorazione di un ambiente di casaCornaro, per cui Andrea Mantegna, poco prima di mori-re, aveva progettato una serie di tavole monocrome epreziose illustranti le virt delle donne, tramite alcunestorie degli antichi Cornelii, antenati pretestuosi deiCornaro. Ma il mondo antico a cui era giunto Giovan-ni Bellini da vecchio lasciava da parte monocromi emarmi preziosi: nel quadro per il camerino dalabastrodi Alfonso I dEste, lapprodo pi avanzato della pittu-ra del secolo, dipingeva gli dei della mitologia allariaaperta, in una specie di mascherata, dove a servire ilpranzo sono centauri e canefore: Giove trinca con la-quila sulle ginocchia, Nettuno, il bello della compagnia,infila una mano tra le gambe della sua vicina, qualcunodorme, un bambino, che sembra un nano, Bacco cheversa il vino da una botte in una caraffa argentata, Mer-curio ha una scodella in testa, che luccica al sole: sono

    tutti sbracati sotto gli alberi di Tiziano, naturalmenteubriachi.

    Per ragioni di spazio, questo saggio compare qui informa ridotta; la versione completa, provvista delle notebibliografiche, potr presto leggersi sugli Annali dellaScuola Normale Superiore di Pisa.

    La divisione delle parti tra i tre autori la seguente:Salvatore Settis pagine 524-525; Vincenzo Farinellapagine 525-533; Giovanni Agosti pagine 533-537.

    La stesura del testo stata accompagnata da lunghediscussioni con Andrea De Marchi, Filippo Todini eBruno Zanardi.

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