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Guerra e governo delle risorse Il caso ferrarese 1935-1943 Roberto Parisini Il governo dell’agricoltura da parte del fascismo, a seguito della grande crisi e in vista dello sforzo bellico, è l’argomento principale del saggio, in- centrato sull’analisi di un caso specifico, che sembra però avere tutte le caratteristiche, nel- l’ambito dell’agricoltura capitalistica padana, per costituire una sorta di modello. Passaggio fondamentale perché si arrivi al delinearsi di questo modello è l’occupazione da parte delle éli- tes agrarie degli enti periferici dello stato dirigi- sta, enti che divennero concreta alternativa al partito anche come canale privilegiato dalla peri- feria al centro. Inoltre, fattore altrettanto impor- tante, la libertà di manovra dei grandi agrari ri- mase intatta. Accanto ai privilegi consolidati, i possidenti ferraresi poterono conservare il con- trollo dei consorzi e assumere quello degli am- massi. La discrezionalità con cui gli agrari pote- rono manovrare anche nell’infittirsi delle maglie organizzative dello stato corporativo divenne, negli anni di guerra, parziale elusione dei piani colturali connessa al regime dei prezzi e al pro- sperare del mercato clandestino, senza tuttavia rappresentare mai una messa in discussione del tessuto corporativo. Anzi alle insufficienze della regolamentazione del settore, a prescindere dalla disastrosa ricaduta sulla gestione del problema alimentare, sembra infatti corrispondere, nell'in- tera Padania, una certa funzionalità alla tenuta stessa del sistema. Funzionalità che allargava i suoi benefici anche ai piccoli e medi ceti rurali, mentre la città veniva vieppiù abbandonata a se stessa. Anche cosi si spiega lo scarso rilievo che ebbero progetti di governo unificanti e razio- nalizzatori provenienti da importanti settori tec- nico-corporativi del regime. Anche così si spiega il lento e incerto distacco dal fascismo di ampie zone delle campagne padane. The fascist government of agriculture from the De- pression years to the preparation for the coming war is the main topic of this essay, centred on a sin- gle case study, the Ferrara countryside, which seems yet to possess all the features o f a sort o f model as regards capitalist agriculture in the Po Valley: a model directly connected both to the functions and compromises marking the rise to power o f Fascism and to the subsequent changes brought about in the wake o f the autarchic and war-oriented effort. A crucial passage for the shaping o f this model was the occupation o f the periferic State agencies by the agrarian élites, thus provided with a viable alter- native to the Party in their quest for a privileged channel o f communication with the central power. Besides their vested interests, the Ferrara land- owners were able to mantain their grip over the con- sortia while gaining control o f government pools. The freedom of movement enjoyed by the land- owners even within the thickening meshes o f the cor- porative State resulted later in a partial elusion of cultural schemes during the war years an elusion connected with the trend ofprices and theflourishing o f the black market, which however was not meant to undermine the foundations o f the corporative State. On the contrary, it seems reasonable to think that the stability o f the system itself depended to a certain extent on the defective regulations and con- trols governing agriculture in the whole o f the Po Valley, regardless o f the ruinous effects on the ad- ministration o ffood supply. Most likely, small and middle peasant landowners and tenants also bene- fited from this situation, while the urban centres were being abandoned to their own destiny what helps explain both the poor incidence o f government schemes devised by important technical-corporative sectors o f the regime, and the slow and uncertain process o f estrangement from Fascism which chara- terized large rural areas o f the Po Valley. Italia contemporanea”, giugno 1997, n. 207

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Guerra e governo delle risorseIl caso ferrarese 1935-1943

Roberto Parisini

Il governo dell’agricoltura da parte del fascismo, a seguito della grande crisi e in vista dello sforzo bellico, è l’argomento principale del saggio, in­centrato sull’analisi di un caso specifico, che sembra però avere tutte le caratteristiche, nel­l’ambito dell’agricoltura capitalistica padana, per costituire una sorta di modello. Passaggio fondamentale perché si arrivi al delinearsi di questo modello è l’occupazione da parte delle éli- tes agrarie degli enti periferici dello stato dirigi­sta, enti che divennero concreta alternativa al partito anche come canale privilegiato dalla peri­feria al centro. Inoltre, fattore altrettanto impor­tante, la libertà di manovra dei grandi agrari ri­mase intatta. Accanto ai privilegi consolidati, i possidenti ferraresi poterono conservare il con­trollo dei consorzi e assumere quello degli am­massi. La discrezionalità con cui gli agrari pote­rono manovrare anche nell’infittirsi delle maglie organizzative dello stato corporativo divenne, negli anni di guerra, parziale elusione dei piani colturali connessa al regime dei prezzi e al pro­sperare del mercato clandestino, senza tuttavia rappresentare mai una messa in discussione del tessuto corporativo. Anzi alle insufficienze della regolamentazione del settore, a prescindere dalla disastrosa ricaduta sulla gestione del problema alimentare, sembra infatti corrispondere, nell'in­tera Padania, una certa funzionalità alla tenuta stessa del sistema. Funzionalità che allargava i suoi benefici anche ai piccoli e medi ceti rurali, mentre la città veniva vieppiù abbandonata a se stessa. Anche cosi si spiega lo scarso rilievo che ebbero progetti di governo unificanti e razio- nalizzatori provenienti da importanti settori tec­nico-corporativi del regime. Anche così si spiega il lento e incerto distacco dal fascismo di ampie zone delle campagne padane.

The fascist government of agriculture from the De­pression years to the preparation for the coming war is the main topic of this essay, centred on a sin­gle case study, the Ferrara countryside, which seems yet to possess all the features o f a sort o f model as regards capitalist agriculture in the Po Valley: a model directly connected both to the functions and compromises marking the rise to power o f Fascism and to the subsequent changes brought about in the wake o f the autarchic and war-oriented effort. A crucial passage for the shaping o f this model was the occupation o f the periferic State agencies by the agrarian élites, thus provided with a viable alter­native to the Party in their quest for a privileged channel o f communication with the central power. Besides their vested interests, the Ferrara land- owners were able to mantain their grip over the con­sortia while gaining control o f government pools. The freedom o f movement enjoyed by the land- owners even within the thickening meshes o f the cor­porative State resulted later in a partial elusion of cultural schemes during the war years — an elusion connected with the trend ofprices and the flourishing o f the black market, which however was not meant to undermine the foundations o f the corporative State. On the contrary, it seems reasonable to think that the stability o f the system itself depended to a certain extent on the defective regulations and con­trols governing agriculture in the whole o f the Po Valley, regardless o f the ruinous effects on the ad­ministration o f food supply. Most likely, small and middle peasant landowners and tenants also bene­fited from this situation, while the urban centres were being abandoned to their own destiny — what helps explain both the poor incidence o f government schemes devised by important technical-corporative sectors o f the regime, and the slow and uncertain process o f estrangement from Fascism which chara- terized large rural areas of the Po Valley.

Italia contemporanea”, giugno 1997, n. 207

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Le premesse

Il fiorire degli studi sulle città in guerra ha portato di recente abbondante materiale a un percorso di ricerca fino a pochi anni or sono scarsamente frequentato dalla storio­grafia italiana: lo studio dell’impatto del conflitto, e degli squilibri da esso generati, sui profili economici, sociali e culturali sedi­mentatisi in particolare nel corso degli anni trenta. Si è avviato perciò il superamento di una sostanziale sottovalutazione relativa a un periodo a lungo considerato privo di una propria tensione problematica, destina­to più alla descrizione che alla comprensio­ne, fatta eccezione, evidentemente, per gli anni 1943-1945, da sempre deputati alla in­terpretazione delle più dense e incisive tra­sformazioni dell’Italia contem poranea1. Il confronto delle ricerche sinora prodotte of­fre l’impressione che la guerra, nonostante gli elementi comuni di crisi e di emergenza, abbia sostanzialmente evidenziato la varietà e le peculiarità con cui le diverse realtà af­frontano quella congiuntura, confermando vocazioni antiche, o comunque facendo emergere processi strutturali e dinamiche di più lungo periodo — in ogni caso indi­spensabili per la comprensione del “dopo” —, su cui il conflitto incide solo superficial­

mente o che contribuisce semmai ad accen­tuare2. D ’altra parte, su un piano più con­giunturale, la guerra sembra innescare mo­dificazioni anche profonde, strettamente le­gate al progressivo autonomizzarsi delle province dal centro e delle campagne dalle città, fenomeni direttamente proporzionali da una parte all’insufficienza degli apparati destinati alla mobilitazione delle risorse, al- l’aumentare della precarietà delle condizioni di vita e alla frantumazione dei mercati, dal­l’altra alla progressiva erosione delle possi­bilità effettive di controllo da parte delle autorità centrali e periferiche.

Va subito detto che anche per il Ferrarese, come per altre aree della Bassa Padana ad analoga struttura economica e sociale, pare problematico alludere a profonde e decisive fratture3. Pur prendendo con tutte le cautele le affermazioni delle autorità fasciste che non fanno che ribadire, sin quasi all’inverno 1944, lo stato soddisfacente dell’economia lo­cale e dell’ordine pubblico, è in primo luogo la stabilità delle élites tradizionali, per tutto il periodo considerato e oltre, a testimoniare una concreta continuità. Continuità radicata nei meccanismi di una modernizzazione tut- t’altro che uniforme — o “passiva” — a vo­cazione rigidamente agricola, che ha come proprio termine a quo l’età delle grandi boni-

Questo saggio è parte di un più ampio e articolato lavoro collettaneo sul Ferrarese tra fascismo e conflitto mondiale. Il mio ringraziamento per averne consentito l’anticipazione va ai curatori della ricerca, dottoressa Anna Maria Quarzi dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara, professor Angelo Varai dell’Università di Bologna e dottor Gian Paolo Borghi del Servizio di documentazione storica e centro etnografico del comune di Ferrara.1 Massimo Legnani, Guerra e governo delle risorse. Strategie economiche e soggetti sociali nell’Italia 1940-1943, “Annali della Fondazione Luigi Micheletti” , L ’Italia in guerra 1940-1943, a cura di Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio, 5 (1990-1991); si veda anche Renzo De Felice, Mussolini l ’alleato 1940-1945, 2 tomi, II, Crisi e agonia del regime, Torino, Einaudi, 1990; M. Legnani, Sistema di potere fascista, blocco dominante, alleanze sociali. Contributo ad una discussione, “Italia contemporanea”, 1994, n. 194.2 Brunella Dalla Casa, Alberto Preti, Introduzione, in B. Dalla Casa e A. Preti (a cura di), Bologna in guerra 1940-1945, Milano, Angeli, 1995 (collana Insmli), e raggiornata bibliografia ivi contenuta. Utili considerazioni anche in Fabio Gobbo, Angelo Varai, Dalla terra alla macchina. Uno sviluppo nella tradizione, in F. Gobbo (a cura di), Bologna 1937-1987. Cinquantanni di vita economica, Bologna, Cassa di risparmio, 1987; Dianella Gagliani, Vita quotidiana, guer­ra, Resistenza. Contributo alla discussione sul caso bolognese, “Padania”, 1991, n. 10.3 Luigi Cavazzoli, L'agricoltura mantovana nell’economia di guerra, “Annali della Fondazione Luigi Micheletti” , L ’Ita­lia in guerra 1940-1943, cit.; Pier Paolo D’Attorre, I tempi lunghi della modernizzazione. Trasformazioni sociali e identità politiche, in P.P. D’Attorre, Pier Luigi Errani, Paola Morigi, La "città del silenzio". Ravenna tra democrazia e fascismo, Milano, Angeli, 1988.

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fiche e la diffusione delle grandi imprese capi­talistiche da queste innescata — specular­mente riflessa nella nascita di un forte movi­mento bracciantile — che resero relativamen­te omogenee le condizioni economiche e so­ciali di base della provincia4.

Va anche detto che il caso ferrarese, dove negli anni del regime più compiutamente si era realizzata l’incontrastata egemonia eco­nomica degli interessi agrari, delinea un mo­dello di governo dell’agricoltura direttamen­te connesso alle funzioni e ai compromessi che avevano caratterizzato la presa del potere da parte del fascismo, e alle successive modi­ficazioni maturate nello sforzo autarchico e di acclimatazione bellica.

Lo stesso Pnf ferrarese non pare, in questo periodo, andare infatti molto oltre il certo non trascurabile ruolo di organizzatore delle masse e di garante dell’ordine sociale assolto in età balbiana, confermandosi “un circuito minore, che definisce una classe politica pa­rallela rispetto alla classe dirigente fascista presa nel suo complesso”5. L’assunzione del­la segreteria federale da parte di Olao Gag- gioli, a seguito del disastro di Tobruk, non sembra infatti modificare granché gli equili­bri interni ed esterni al partito. Gaggioli, sansepolcrista messo in disparte da Balbo, si trovò a governare, dal luglio 1940, il mas­simo sforzo di attivazione del partito nell’in­tento, promosso a livello nazionale, di ricon­

ferirgli il ruolo guida che esso aveva sempre rivendicato nei momenti di grave crisi facen­do soprattutto leva sugli intransigenti della prima ora; ma, sia il diffuso consenso che ac­colse la sua nomina sia le irrilevanti modifi­cazioni che egli apportò alle gerarchie locali6 sembrano ricondurre alla sostanza del fasci­smo ferrarese, fondata sulle aspirazioni dei ceti medi ma soprattutto sulle esigenze forte­mente classiste della grande proprietà ter­riera.

L’egemonia fascista sulla gracile borghesia ferrarese si arrestava di fatto alle soglie delle élites tradizionali, che mantennero sempre, senza escludere tuttavia casi di aperta adesio­ne, una propria distinta fisionomia. Se il fa­scismo aveva aperto alla piccola e media bor­ghesia l’accesso ai centri del potere economi­co locale in rappresentanza del partito e delle sue organizzazioni, e se un’approfondita ri- costruzione di questi intrecci resta ancora da fare, certo questi non misero mai in di­scussione il predominio del blocco impernia­to sulla possidenza agraria e su un ceto di no­tabili essenzialmente urbani, di matrice libe- ral-cattolica, legati alla prima da stretti vin­coli professionali e, non di rado, da interessi connessi al loro essere medi proprietari fon­diari7. La trasmissione senza eccezioni di questo sistema agli enti periferici dello stato dirigista sembra poi confermarlo quale con­creta alternativa al partito anche come canale

4 Alessandro Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capitalismo agrario e socialismo nel Ferrarese ( 1870- 1920), Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 1-42. Sulla modernizzazione, si veda Luciano Cafagna, Modernizzazione at­tiva e modernizzazione passiva, “Meridiana”, 1988, n. 2; Tim Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montag­gio, “Movimento operaio e socialista”, 1987, n. 1-2.5 Cfr. Nicola Gallerano, Le ricerche locali sul fascismo, “Italia contemporanea”, 1991, n. 184, p. 393; Maria Serena Pi- retti, La classe politica dell’Emilia Romagna durante il ventennio fascista, in Maurizio Degl’Innocenti, Paolo Pombeni, A. Roveri (a cura di), // Pnf in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, Angeli, 1988 (che per la verità trascura alquanto il Ferrarese), ma soprattutto Giorgio Rochat, Italo Balbo, Torino, Utet, 1986, pp. 151-198.6 In questo senso si veda la relazione del questore al capo della polizia, 31 luglio 1940, in Archivio di Stato di Ferrara (d’ora in poi AS Ferrara), Prefettura (d’ora in poi Prefi), Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni sulla situazione della provincia, 1940-1943, periodo di guerra”, nonché Le nuove gerarchie del Fascismo Ferrarese, “Corriere padano”, 26 luglio 1940.7 Esemplare a questo proposito l’elenco dei soci del Consorzio agrario contenuto in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 53, b. 153, fase. “Consorzio agrario provinciale” .

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privilegiato dalla periferia al centro8. Del re­sto, nella seconda metà degli anni trenta, la permeabilità dei circuiti statali e parastatali agli interessi periferici risulta strettamente le­gata al fenomeno, ancora tutto da studiare, delle lobby regionali che ne occupavano i ver­tici, e che nel caso dell’agricoltura contava, per limitarci ai soli ferraresi, uomini come Rossoni e Pareschi9.

Le cifre confermano chiaramente che nella provincia di Ferrara “come in poche altre l’e­conomia agricola costituisce la base fonda- mentale della vita della popolazione” . Nel 1938 essa contava 382.324 abitanti (122.940 nel capoluogo e relativo forese), di cui circa il 48 per cento costituiva la popolazione atti­va, dedita per oltre tue terzi all’agricoltura — incentrata essenzialmente su grano, canapa e barbabietola — e per poco più di un sesto al­l’industria. Commercio, credito ed assicura­zione, libere professioni e addetti al culto, am­ministrazioni pubblica e privata impiegavano complessivamente l’11,1 per cento del totale, massimamente concentrato nel capoluogo10. Il comparto industriale contava 7.348 aziende, di cui 6.273 artigiane, con 20.697 dipendenti, ma appena 77 occupavano da sole 17.288 ad­detti. Si trattava di 14 tra zuccherifici e distil­lerie (8.821 addetti), 16 tessili e maglierie (2.466), 14 di costruzioni edili (2.197), 10 mec­caniche (1.440), 2 calzaturifici (1.440), 4 muli­ni (317), 8 di laterizi (679) e alcune altre mino­ri. Maglierie e calzaturifici occupavano anche qualche centinaio di lavoranti a domicilio. “Trattasi in genere di industrie tipicamente

autarchiche, le quali traggono le materie pri­me dal suolo nazionale, e che all’agricoltura destinano i loro prodotti o sottoprodotti” , quasi tutte prive di un indotto significativo, incapaci di varcare le soglie del mercato locale o integrate in strutture nazionali che avevano altrove i propri centri direzionali11. Caratteri­stica principale di queste attività, in maggio­ranza concentrate nel capoluogo, era la sta­gionalità delle lavorazioni, con momenti di forte disoccupazione (il 70 per cento degli ope­rai realizzava da 90 a 180 giornate lavorative all’anno) che non poteva però trovare sbocco nelle campagne già in eccedenza demografica. Né uno sviluppo tanto limitato poteva stimo­lare processi di inurbamento: quelli della ma­nodopera industriale — a forte incidenza arti­gianale e di sottoproletariato urbano — e ru­rale rimanevano mondi tendenzialmente sepa­rati, secondo gli orientamenti del resto im­pressi dal regime. Ancora nell’ottobre 1942, secondo i dati sindacali, le due categorie se­gnavano una tendenziale crescita parallela di circa 5.000 unità la prima, e di oltre 15.000 la seconda; se per l’agricoltura si trattava so­prattutto della conferma di una forte pressio­ne demografica in atto per tutto il periodo tra le due guerre, nel caso dell’industria essa è da attribuirsi principalmente all’entrata in fun­zione di alcuni stabilimenti della nuova zona industriale sorta alle porte del capoluogo, le cui maestranze vennero interamente reclutate “nei quartieri urbani più depressi, esuberanti di piccolo artigianato e di manodopera edile, e negli agglomerati agricoli dell’immediata pe­riferia” 12. In tutti i casi, risorse sovrane per la

8 Non mi pare casuale che la morte di Balbo desti la preoccupazione del questore, nella relazione citata, unicamente per le eventuali conseguenze sulla realizzazione di un progetto cosi distante dagli interessi della possidenza terriera come quello della zona industriale di Ferrara.9 P.P. D’Attorre, Aspetti economici e territoriali del rapporto centro/periferia, “Italia contemporanea”, 1991, n. 184.10 Camera di commercio, industria e agricoltura di Ferrara, Aspetti economici e demografici della provincia di Ferrara negli anni 1938 e 1949, Ferrara, Sate, 1950, p. 27.11 II prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 2 novembre 1938, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “ Relazioni mensili e situazione politica”.12 II prefetto Villa Santa al ministero dell’Interno, 4 ottobre 1942, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Varia e situazione politica” ; Renato Sitti, La Capillare. Rapporto su un’organizzazione fascista di base, Ferrara,

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ricorrente disoccupazione restavano l’emigra­zione, ma soprattutto i lavori pubblici che, proprio nel 1938, intorno all’erigenda zona in­dustriale di Ferrara, legata soprattutto alla mediazione del partito, comportarono spese per ottantatré milioni13.

In quegli anni l’indice di ruralità era mas­simo nella zona di bonifica sinistra del canale Volano (comuni di Berrà, Codigoro, Coppa- ro, Formignana, Jolanda di Savoia, Ro) dove toccava il 48 per cento, cioè la totalità della popolazione attiva; di poco inferiore risulta­va nel Centese (Bondeno, Cento, Poggiore- natico, S. Agostino) e nella zona di bonifica destra del Volano (Lagosanto, Massafisca- glia, Migliarino, Ostellato); raggiungeva il 26 per cento nella zona marittima (Comac- chio, Mesola) dove era diffusa anche la pesca nelle valli, mentre in posizione mediana si collocava il Ferrarese centrale (Ferrara, Ar­genta, Portomaggiore, Vigarano Mainar- da)14. La conduzione diretta familiare in pro­prietà o in affitto (49.700 ha complessivi per circa 20.000 addetti), e mezzadria e colonia (26800 ha per 11.457 addetti) prevalevano nelle Terre vecchie, cioè nel Centese (ma lar­gamente rappresentata dalle minuscole “par- tecipanze” che originavano regolarmente mi­grazioni stagionali verso il Piemonte) e nel Ferrarese centrale. Nelle zone di bonifica si estendeva la maggior parte delle grandi e me­die imprese capitalistiche (circa 130.000 ha) condotte in economia e compartecipazione con 83.935 braccianti, costretti a lunghi pe­riodi di disoccupazione, e 5.494 salariati fissi. Su tutte spiccavano le proprietà controllate da grandi società legate a influenti gruppi del capitalismo finanziario nazionale e com­plessivamente estese su diverse migliaia di et­tari: la Società bonifiche terreni ferraresi; la

Società immobiliare lodigiana e la Società anonima Le Gallare, controllate dall’Erida- nia insieme a cinque zuccherifici; la Società fondiaria romagnola legata agli Anfossi di Genova; la Società immobiliare La Vittoria e la Società anonima Zenzalino. Accanto a queste, stavano le aziende di alcune decine di grandi imprenditori locali, e di qualche centinaio di medio-grandi. In pratica poco più di cinquecento aziende controllavano i due quinti dei circa duecentomila ettari di su­perficie agraria della provincia, 4.300 aziende la metà, 11.500 appena un decimo.

Mettendo a confronto i dati citati da Gior­gio Rochat relativi al 1930, e quelli forniti dalla Banca d’Italia nell’agosto 1945 sulle ci­fre della proprietà agraria, il Ferrarese sem­bra comunque sottrarsi, a partire dalla prima data, al diffuso processo di disgregazione del­la proprietà contadina (i conduttori in pro­prio, ad esempio, risultano 10.615 nel 1931 e 10.612 nel 1936) da più parti messo in evi­denza per quegli anni. Risalta infatti una cer­ta stabilità sul medio periodo nella distribu­zione delle aziende e semmai, a conflitto or­mai concluso, una tendenza alla concentra­zione e in qualche zona alla parziale erosione delle grandi e grandissime. I due totali di 16.400 e di 16.923 aziende risultano infatti così frazionati: estensione fino a 10 ettari, 11.550 e 12.184 (di cui circa seimila unità sot­to l’ettaro in ambedue le statistiche); da 10 a 50 ettari, 4.300 e 4.299; da 50 a 200 ettari, 500 e 422; oltre i 200 ettari, 65 e 18. Pur non di­sponendo di un’ulteriore disaggregazione dei dati e del corrispettivo numero dei pro­prietari, ma tenendo conto che si è in presen­za, almeno fino al 1943, di un cospicuo af­flusso del risparmio ai depositi bancari e po­stali, di fronte a un mercato fondiario frenato

Cartografica artigiana, 1983, p. 36; Id., Un programma autarchico dì industrializzazione nel Ferrarese, “Quaderni emi­liani”, 1979, n. 3, p. 138.13 Camera di commercio, industria e agricoltura di Ferrara, Aspetti economici, cit., p. 65.14 Consorzio agrario provinciale di Ferrara (a cura di), Consorzio agrario di Ferrara 1929-1989, Ferrara, Sate, 1989, p. 81.

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da molteplici provvedimenti fiscali, Faumen­to di qualche centinaio di unità tra le piccole aziende può essere ragionevolmente attribui­to in una certa misura al rituale lancio degli appoderamenti, l’ultimo dei quali, sull’onda della spinta inflattiva dell’ottobre 1936, por­tò alla inaugurazione, nel dicembre 1939, di 257 poderi (avrebbero dovuto essere 4.000 su cui sistemare 50.000 persone) che furono appannaggio per la quasi totalità di società o agricoltori “che dispongono di mezzi pro­pri” e che poterono avvalersi della copertura del Consorzio per il miglioramento agrario15.

Al centro della provincia, Ferrara manteneva ancora sostanzialmente inalterata la sua fi­sionomia di capoluogo amministrativo e commerciale che forniva servizi all’entroterra agricolo, caratterizzata da una concentrazio­ne di sottoproletariato e di piccola e media borghesia artigianale, commerciale, impiega­tizia e intellettuale . Si trattava, in ultima analisi, della “città media italiana” , che vive­va in rapporto dialettico con le proprie cam­pagne16. Nei primi anni del secolo la perce­zione di questo scambio era stata radical­mente distorta dall’avvento delle bonifiche, e dei processi di sfruttamento capitalistico e di polarizzazione sociale ad esse connessi; la distinzione si era fatta anzitutto fisica, tra le

antiche bellezze della “città del silenzio” e il dilatarsi dei centri di insediamento, a oriente del capoluogo, in grigi agglomerati scarsa­mente distinguibili tra loro. Ferrara, all’in­verso, manteneva e rinnovava i suoi connota­ti di centro articolato di mediazioni economi­che, di affermazioni politiche, di integrazione nazionale e nazionalista, di sede di un’univer­sità, di operazioni culturali e assistenziali che, oltre ad aggregare la limitata borghesia urba­na e provinciale, ne rimarcavano il distacco dalle campagne, teatro della lotta proletaria e del più feroce scontro di classe. Frutti diret­ti sul piano culturale furono il rafforzarsi de­gli stereotipi incentrati appunto sulla “città del silenzio” , sulle associazioni in difesa del patrimonio artistico e culturale cittadino. Si avviarono studi, pubblicazioni e iniziative lo­cali alla ricerca — come ebbe a scrivere un editorialista ferrarese nel 1908 — “di un cu­scinetto imbottito di buone intenzioni e di buone maniere per ammorbidire Fattrito pre­sente e futuro [...] Ci rugge intanto alle spalle anche la rivoluzione agraria” 17.

Benché quasi tutta la vita economica citta­dina ruotasse intorno all’agricoltura, sotto il profilo politico, culturale e sociale, città e campagna risultavano dunque scarsamente comunicanti. La borghesia cittadina era inte­ressata principalmente allo sfruttamento del-

15 I dati relativi a mezzadri, braccianti e salariati fissi sono quelli della Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura che, nel 1938, organizzava circa il 90 per cento degli addetti ufficiali (Rapporto del segretario provinciale al prefetto, 7 ottobre 1938, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 146, fase. “Sindacati, associazioni minori. 1926- 1945”). I dati del 1930 sono in G. Rochat, Rapporti di potere nella Ferrara fascista, “Rivista di storia contemporanea”, 1982, n. 4, p. 607; quelli della Banca d’Italia nella relazione del direttore della Banca d’Italia di Ferrara al prefetto, 31 agosto 1945, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. 9/1; si veda anche F. Privitera, R. Tonioli, La politica agraria fascista. Alcune considerazioni sui rapporti di classe nelle campagne ferraresi, “Quaderni emiliani”, 1979, n. 3. La citazione è nella relazione del prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 4 novembre 1939, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni mensili e situazione politica” .16 Silvio Lanaro, La campagna organizza la città?, “Meridiana”, 1989, n. 5.17 Patrizia Fracchia, Gli agrari ferraresi: un’imprenditoria mutilata, “Padania”, 1987, n. 1, p. 121; Andrea Gardi, Linea­menti per una storia della Società "Benvenuto Tisi da Garofalo" (1868-1959), in Lucio Scardino, Antonio P. Torresi (a cura di), Neo-estense. Pittura e restauro a Ferrara nel XIXsecolo, Ferrara, Liberty House, 1994. Sul fervore intellettuale della Ferrara degli anni trenta e sul valore nazionale della facoltà di Giurisprudenza della locale università, si veda Wal­ter Moretti (a cura di), La cultura ferrarese tra le due guerre mondiali. Dalla Scuola Metafisica ad Ossessione, Bologna, Cappelli, 1980; S. Lanaro, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1989, pp. 224-227; Antonella Guamieri, Gli studi corporativi a Ferrara (1927-1941), “Padania”, 1992, n. 12, pp. 192-221.

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la terra; per i suoi interessi politici e culturali guardava al livello nazionale. Così risultava­no essenzialmente urbani — o al massimo estendibili a porzioni definite di ceto medio rurale — il movimento cattolico, il liberali­smo e il riformismo socialista, mentre tra i braccianti, agli occhi dei quali la città rappre­sentava un esoso parassita, “potenti per nu­mero e forza della disperazione, tenaci nei lo­ro scioperi, ma fondamentalmente privi di una linea politica coerente” , dominava il sin­dacalismo rivoluzionario18.

L’avvento del fascismo aveva ripristinato gli equilibri, riportando l’ordine nelle campa­gne riottose: “La costruzione di Biagio Ros­setti — poteva scrivere il “Corriere padano”, in ossequio al ruralismo dilagante — fa pen­sare ad una reggia; le strade lunghe e solita­rie, i pioppi, e un odore di colture diffuso nel­l’aria fanno sentire, invece, la santa campa­gna ferrarese che, anche non invitata, entra in città e si armonizza, si fonde così bene coi monumenti” 19.

In città, si sviluppò la presenza delle ap­pendici periferiche del potere centrale, dello stato corporativo, degli enti economici e assi­stenziali varati dal regime, la cui pervasiva capillarità amplificava, come s’è detto, il ruo­lo degli esigui ceti medi ferraresi, tradizional­mente sensibili a strategie di stabilizzazione politica e di gerarchizzazione sociale.

Dirigismo statale e agricoltura

E proprio nella messa in funzione dello stato dirigista, a ridosso dell’impostazione autar­chica e delle imminenti scelte belliche, che profilano tendenze e assetti rimasti sostan­zialmente stabili anche nel corso del conflit­

to, che si pone il punto di partenza del per­corso in questione (e in prospettiva di possi­bili comparazioni con realtà in qualche modo omologhe), cioè nel momento in cui il fasci­smo sembra evocare una modernizzazione, imperniata sul diretto trasferimento degli in­teressi privati entro la struttura pubblica, poi inibita dagli stessi equilibri su cui il regime si reggeva20. L’inasprimento, dopo il 1935, del­la politica autarchica in agricoltura si inqua­drava necessariamente — secondo VEnciclo­pedia agraria italiana — “in un sistema rigido di piani, di autorizzazioni, di conferimenti, di ammassi, di contingentamenti e di prezzi re­golati preoccupato fondamentalmente dei consumi e delle esigenze dei consumatori, più che delle colture e degli interessi dei colti­vatori”21. A coronamento di questo trasferi­mento di competenze venivano creati, con 1. 16 giugno 1938 n. 1008, i consorzi provinciali tra produttori dell’agricoltura — organizzati in sei sezioni (cerealicoltura, viticoltura, oli­vicoltura, ortofrutticoltura, fibre tessili e zootecnia) poi divenute dieci e inquadrate in una federazione nazionale — in cui furono fatte confluire tutte le preesistenti organizza­zioni consortili volontarie di difesa, incre­mento e miglioramento delle coltivazioni. Gli organi direttivi dei consorzi provinciali “sono tutta una cosa con le gerarchie sinda­cali della provincia, come nel caso del presi­dente e vicepresidente, o sono di nomina del ministero dell’Agricoltura, soggetto all’ap­provazione del partito, o comprendono, in ogni caso, un rappresentante del partito tra gli eletti alle funzioni direttive. Una organiz­zazione obbligatoria e totalitaria quindi, ge­neralizzata a tutte le province, sotto la dire­zione e il controllo insindacabile del partito e delle gerarchie sindacali”22. Infine, con la

18 Paul Corner, Il fascismo a Ferrara, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 8-14 (la citazione è a p. 13).19 V. Gino Tibalducci, Un castello e una cattedrale. Sintesi ingiusta di Ferrara, “Corriere padano”, 3 gennaio 1941.

M. Legnani, Guerra e governo delle risorse, cit., p. 336.Dario Guzzini, Consorzio dei produttori, in Enciclopedia agricola italiana, Roma, Reda, 1954, voi. I, p. 1018.D. Guzzini, Consorzio dei produttori, cit., p. 1019.

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legge Rossoni del febbraio 1939, i consorzi agrari provinciali venivano eretti a enti mo­rali con l’esclusione della gestione diretta da parte degli agricoltori, giustificata soprattut­to con le necessità dell’economia di guerra.

In realtà, a dispetto della creazione di que­sto macchinosissimo apparato, la sostanza di un più diretto rapporto tra Stato e privati stava altrove, e cioè nella determinazione in sede pubblica di una generalizzata estensione di compiti e funzioni, cui corrispondeva, sul piano locale, un’occupazione privatistica del­le nuove articolazioni pubbliche di governo delle risorse23. Pur con riferimento al limitato orizzonte ferrarese, è facile riscontrare come consigli provinciali corporativi, consorzi agrari e di bonifica, sezioni dei consorzi tra i produttori rimasero, o vennero, occupati dai più cospicui rappresentanti dell’agraria locale. Le istituzioni più direttamente legate alle burocrazie tecniche (ispettorato agrario, direzioni consortili), al partito o al sindacato, negli anni critici del conflitto avrebbero evi­denziato tutta la loro subordinazione agli in­teressi agrari, impotenti a svolgere un effetti­vo ruolo di controllo e di efficace pianifica­zione nel governo delle risorse agricole della provincia.

Uomini di punta del blocco di potere loca­le erano alcuni grandi tecnici come Pietro Carli, dirigente della Lodigiana, vicepresi­dente del Consiglio provinciale delle corpo- razioni, vicepresidente, dal 1928, della Cassa di risparmio, amministratore in diversi con­sorzi di bonifica; Nino Fiorini, della Zenzali- no, presidente della sezione Fibre tessili, po­destà di Copparo; Vincenzo Boldrini, della Romagnola, membro del Comitato provin­ciale dell’agricoltura, presidente del Consor­zio di bonifica del Forcello, podestà di Porto­

maggiore; Natale Prampolini, amministrato­re della Sbtf, senatore e presidente del con­sorzio della Grande bonificazione ferrarese. Ad essi vanno aggiunti alcuni grandi possi­denti o affittuari locali, presenti sovente an­che nel tessuto assistenziale che costituiva tradizionalmente un altro dei punti forti di aggregazione borghese. Si tratta ad esempio di personaggi come Alfredo Mari, presidente dell’Unione provinciale degli agricoltori e perciò del Consorzio provinciale tra i produt­tori, del Consorzio agrario tra il 1944 e il 1945, membro del Direttorio provinciale del- l’Ond; Giuseppe Covezzi, presidente, dal 1929 al 1944, del Consorzio agrario; Giovan­ni Bragliani, stimato medico argentano, pre­sidente della sezione viticoltura e della sezio­ne agricola del Consiglio provinciale delle corporazioni, nonché presidente dell’Onmi provinciale, della Croce rossa, dell’Associa­zione orfani contadini morti in guerra, depu­tato provinciale; Egidio Micheli, presidente della sezione cerealicoltura, già presidente del Consorzio di bonifica argentana e della Congregazione di carità di quel comune; Giovanni Argazzi, amministratore della te­nuta Duchi Denti di Piraino a Mizzana, pre­sidente del Sindacato dirigenti aziende e della Congregazione di carità di Ferrara, patrono dell’Arcispedale S. Anna; Alghisio Campa- nati, presidente di Consorzio di bonifica e della sezione fibre tessili, podestà di Migliari­no e deputato provinciale.

Questa occupazione dei circuiti parastatali e delle burocrazie corporative assicurava ga­ranzie cospicue nella nuova configurazione istituzionale dell’agricoltura, soprattutto sot­to il profilo della contrattazione di un ruolo del settore ora più subordinato ma non corri­vamente subalterno all’industria e al capitale

23 Emilio Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino, Einaudi, 1975, parti II e III; Carlo Fu- mian, Il governo dell’agricoltura in Italia e in Francia, 1914-1940, “Italia contemporanea”, 1983, n. 151-152; Id., I tecnici tra agricoltura e Stato. 1930-1950, “Italia contemporanea”, 1983, n. 153; Lea D’Antone, La modernizzazione dell'agri­coltura italiana negli anni Trenta, “Studi storici” , 1981, n. 3; Gianluigi Della Valentina, Enti economici e controllo po­litico dell’agricoltura, “Storia in Lombardia”, 1989, n. 1-2.

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finanziario e, al tempo stesso, assistito dallo Stato. Si consolidava intanto quel rapporto privilegiato tra agrari padani e finanza pubbli­ca fondato largamente sull’erogazione di flus­si assistenziali — tesi in primo luogo a mani­polare il consenso e a stabilizzare il controllo sociale — che per il Ferrarese continuarono a filtrare con discreta continuità pur attraver­so il blocco sancito dalla canalizzazione delle risorse in direzione dello sforzo bellico. Se non erano più i sessanta milioni annui che era­no giunti dal 1927-1928 e che avevano assicu­rato 65 giorni di lavoro a 24.000 braccianti24, le assegnazioni per opere pubbliche destinate alla provincia furono comunque di23.425.000, pari circa a 504.000 giornate-ope­raio, perii biennio 1937-1938, e di 11.000.000 per i due bienni successivi25. Infine, nel 1941- 1942 e nel 1942-1943, i consorzi di bonifica calcolavano lavori di competenza statale per l’ammontare rispettivamente di circa dodici e di oltre sessanta milioni26.

Inoltre, fattore altrettanto rilevante, la li­bertà di manovra dei grandi agrari rimase in­tatta, nonostante gli sforzi di Rossoni, anche nell’infittirsi delle maglie organizzative dello stato corporativo. Accanto ai vantaggi con­nessi all’ascesa e al sostegno dei prezzi, al basso costo del lavoro, alla protezione di gra­no, canapa e barbabietola27, i possidenti fer­raresi conservarono di fatto il controllo dei consorzi e parteciparono a quello degli am­massi. Un esempio di questa discrezionalità, nel caso della politica di controllo dei prezzi inaugurata dal regime, viene fornito da un rapporto ispettoriale, indirizzato da Milano al ministero dell’Agricoltura, del 18 febbraio 1936:

Il giorno 3 febbraio sulla piazza di Ferrara, date le ripetute disposizioni severissime della Segreteria Federale di denunciare immediatamente tutti gli offerenti di grano a prezzo superiore di quello fis­sato per la vendita dei Consorzi nella misura di lire 112,70, non fu possibile ai mugnai, stante le resi­stenze nelle vendite da parte dei pochi detentori privati a scopo di investimento e la impossibilità di avere dal Consorzio locale merce, non fu possi­bile che trattare partite modeste [...] Al pomeriggio [del giorno seguente] contro ogni precisa assicura­zione precedente di mantenere il prezzo finalità politiche [s/'c] e contro le rigide direttive preceden­temente segnate, per cui era fatto obbligo di de­nuncia a chi avesse osato chiedere prezzi superiori al prezzo stabilito, veniva diramato dai Consorzi un telegramma di S.E. Rossoni cosi concepito: “Presi ordini superiori dispongo aumento lire 3 grani ammassi da oggi” . Naturalmente la notizia ha provocato i vivi risentimenti da parte dei mu­gnai i quali, forti delle precedenti assicurazioni date dagli organi politici, si trovano di non avere merci immagazzinate anche per le vendite razio­nate dei Consorzi fatte in precedenza e per le esi­gue offerte dei privati ormai ridotti a detentori di speculazione o di investimento, di aver coperture di vendite per circa due mesi allo scoperto di ac­quisto per le ragioni sopra esposte, di avere quin­di a loro peso un ingentissimo danno causato, se­condo le loro affermazioni, nell’aver creduto alle Superiori assicurazioni ed alle direttive stabilite dagli organismi politici [...] Mi viene riferito [...] che nei giorni successivi la speculazione privata, che sia pure in misura molto dosata vendeva una parte delle esistenze visto l’autorizzazione su­periore ad aumentare, si è ritirata intieramente nella speranza di possibili realizzi a prezzi supe­riori delle 115,70.1 mugnai sono senza grani, han­no una buona copertura a prezzi bassi e dovranno probabilmente, per non rimanere senza merce, ac­quistare dai consorzi lontani dalle loro basi e dal­la speculazione a prezzi ancora maggiorati. E il

~4 G. Rochat, Italo Balbo, cit., p. 193."5 Rapporto dell’Intendenza di Finanza di Ferrara, 23 novembre 1938, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 102, fase. “Rapporto al Duce”; La grande bonifica del Ferrarese, “Corriere padano”, 28 marzo 1941.~6 Vari rapporti dei presidenti dei consorzi di bonifica al prefetto, fine settembre 1942, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Consorzi di bonifica” ."7 N. Gallerano, Luigi Ganapini, M. Legnani, Mariuccia Salvati, Crisi di regime e crisi sociale, in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944 (collana Insmli), Mi­lano, Feltrinelli, 1974, pp. 27-38.

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prezzo del pane? Questi i commenti sulle piazze di Ferrara e Rovigo e su quella di Milano di questa settimana.

Il prefetto Festa invece, alla fine del 1935, aveva già rilevato come in quell’autunno “ la superficie seminata a grano [...] [fosse] attualmente risultata inferiore a quella del­l’anno scorso” e si era chiesto: “Che vuol di­re ciò? [...] Che si voglia tornare ai vecchi amori per la canapa, oppure che si speri di coltivare una maggiore quantità di bietole? Nulla di male potrebbe trovarsi in tale deter­minazione se non fossimo in presenza delle sanzioni”28.

D ’altronde questa discrezionalità faceva diretto riferimento a consuetudini già speri­mentate nei momenti di crisi, quando le estensioni colturali venivano manovrate da­gli agrari padani in rapporto alle provviden­ze protettive ottenute e ai prezzi di mercato dei prodotti; a questi meccanismi si deve ad esempio nel Ferrarese la riemersione della risicoltura29. Negli anni di guerra questa tendenza trovò nuovo alimento nella parzia­le elusione dei piani colturali — un diretto controllo del ministero dell’Agricoltura era peraltro in atto per la canapa già dal 1937 — connessa allo sfavorevole regime dei prezzi e al prosperare del mercato clandesti­no, senza tuttavia rappresentare mai una messa in discussione del tessuto corporati­vo. Alle insufficienze della regolamentazio­ne del settore da parte del regime, e a pre­scindere dalla loro ricaduta sulla disastrosa gestione del problema alimentare, sembra

infatti corrispondere, per quanto riguarda la Pianura Padana, una certa funzionalità alla tenuta stessa del sistema. Analogamente a quanto avvenne per Mantova, Brescia, Cremona, Rovigo, Bologna e Ravenna30, anche il Ferrarese conobbe ad esempio indi­ci produttivi esemplari per il grano: ad una produttività media di 26 q. per ha su una su­perficie di oltre 59.000 ettari nel 1936-1939, si arrivò, pur attraverso una sensibile fles­sione degli investimenti nel 1941 legata alle elusioni accennate (51.812 ettari, ma 32 q. per ha), ma recuperata già nel 1942 (54.000 ettari), ai 30 q. per ha su una super­ficie di circa 60.000 ettari nel 1942-1943, ri­spetto a una resa media dell’Italia setten­trionale di 20 q. per ha nel 1940-194231. Lo stesso prefetto rilevava, impotente, la duplicità del fenomeno. Nella relazione del­l’ottobre 1941 egli segnalava la riduzione delle superfici a grano che

gli agricoltori tendono a giustificare [...] colle dif­ficoltà di approvvigionamento del carburante per le arature meccaniche e con la deficienza di mano d’opera in qualche zona di bonifica. A concorde avviso degli organi tecnici, invece, il fenomeno è da attribuirsi alla ricerca di più cospicui redditi mediante investimenti dei terreni a colture di cana­pa, patate, cipolle ed altre ancora. Non manca l’assidua vigilanza da parte di tutti gli Organi pub­blici e la Federazione Fascista è pronta ad adotta­re provvedimenti di natura politica a carico degli agricoltori iscritti al partito che antepongono il lo­ro interesse personale a quello nazionale, peraltro la deficienza di altri mezzi coercitivi impedisce di risolvere totalitariamente il problema.

28 II rapporto ispettoriale di cui abbiamo riportato un ampio brano è in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Archivi fascisti, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario (d’ora in poi Spd, ord.), b. 783, fase. 500.003/1; la citazione del prefetto Festa è tratta dalla sua circolare alle gerarchie sindacali, 17 dicembre 1938, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 53, b. 196, fase. “Concorso vittoria grano” .29 Caterina Zanella, Indirizzi produttivi dell'agricoltura ferrarese tra le due guerre mondiali, in Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione in Emilia Romagna, Le campagne emiliane in periodo fascista. Ma­teriali e ricerche sulla battaglia del grano, a cura di M. Legnani, D. Preti, G. Rochat, Bologna, Clueb, 1982, p. 261. Si veda anche P. Corner, Considerazioni sull’agricoltura capitalistica durante il fascismo, “Quaderni storici” , 1975, n. 29-30.30 L. Cavazzoli, L ’agricoltura mantovana, cit., p. 543.31 Vincenzo Montanari, Mario Zucchini, Relazioni dei progetti di massima per il prosciugamento e la trasformazione fon­diaria della laguna comacchiese, Firenze, Vallecchi, 1952, pp. 65-67.

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Nella relazione di dicembre tuttavia egli af­fermava:

Reputo, peraltro, opportuno segnalare che aven­do gli agricoltori generalmente e con spontaneità conferito il grano alfammasso fino dall’epoca del raccolto non può presumersi che, dalla pur so­lerte attività dei Comuni e degli altri Organi inte­ressati, siano stati apportati alfammasso ulteriori quantitativi di grano di importo largamente giove­vole per il consumo nazionale. In proposito può tenersi presente che in base alle rilevazioni dell’I­stituto nazionale di statistica, già nel mese di set­tembre u.s., la provincia di Ferrara aveva raggiun­to il più alto livello nel compartimento di riduzio­ne delle carte annonarie attraverso un rigido e mi­nuzioso controllo dei quantitativi di grano trattenuto dai produttori32.

Sebbene gli “organi interessati” fossero ben lontani, come si vedrà, dal fornire controlli ef­ficaci, e una certa quota di evasione agli am­massi da parte delle grandi e piccole aziende sia riscontrabile33, il dato rimane significativo e viene più volte, negli anni successivi, confer­mato. Ancora il 10 settembre 1943, rammasso di grano risultava di 1.147.084 q. a confronto dei 964.651 q. del Mantovano, provincia dove pure le consegne si verificavano con grande re­golarità34, e alla fine del 1944, quando ormai tutti i consumi gravitavano intorno al mercato nero, le quote erano di 1.800.000 q. per il gra­no e di 50.000 q. per il granoturco35. Va co­munque rilevato che la tendenza indicata non può essere ritenuta sorprendente, visto che le grandi aziende continuarono a control­lare di fatto tutto l’apparato organizzativo e

distributivo delfammasso. L’Unione agricol­tori mantenne infatti il controllo del Consor­zio agrario provinciale, ormai uno dei più consistenti a livello nazionale, attraverso la ri­conferma di Bozzoli (proprietario di oltre 200 ettari nel Bondenese) e soprattutto di Aldo Ravaglioli, anch’egli bondenese, alla direzione (che mantenne ininterrottamente dal 1929 al 1945). All’ombra del dirigismo statalista si rinnovava nel Ferrarese la ben nota “compe­netrazione delle forze della grande proprietà terriera con quelle del capitale finanziario” che, se non era stata in passato esente da con­trasti, faceva ora seguito al crollo dell’impero grosoliano da un lato, e al generale ridimen­sionamento del ruolo politico del settore agri­colo maturato nella crisi del 1929 dall’altro. L’entrata degli interessi privati nel pubblico acquistava perciò un duplice valore: da una parte rappresentava per le élites tradizionali la conservazione del dominio locale, dall’altra la stabilizzazione di equilibri, alfintemo e al­l’esterno del settore, assicurati, nel senso già indicato, dal ruolo crescente dello Stato con­nesso allo sviluppo della ramificazione corpo­rativa. Da questo punto di vista, come è stato scritto, “per chi non era in qualche modo par­tecipe della ripartizione degli utili del Consor­zio canapicoltori o dell’Ente nazionale orto- frutticolo o agrumario, vi erano pur sempre i vantaggi garantiti dal controllo sociale, dalle produzioni protette dai dazi e dalle scelte au­tarchiche”36.

Nell’ambito di queste strategie, se il Con­sorzio agrario, a partire dal 1935, potè spun-

32 AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni sulla situazione della provincia, 1940-1943, periodo di guerra” .33 Cosi, il 23 ottobre 1942, il ministro dell’Agricoltura segnalava al prefetto evasioni in più parti all’ammasso del risone e svendite dirette di piccole partite da parte dei produttori. La stessa cosa era avvenuta sei giorni prima a proposito del granoturco. Cfr. Pareschi a Villa Santa, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 53, b. 182, fase. c.

L. Cavazzoli, L ’agricoltura mantovana, cit., p. 549.35 Cfr. promemoria dei ministro del Lavoro al duce, 15 aprile XXIII (1945), in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 53, b. 182, fase. d. La seconda cifra appare sorprendentemenete elevata; la riportiamo con il beneficio del dubbio che il do­cumento non scioglie.36 P.P. D’Attorre, Le organizzazioni padronali, in Piero Bevilacqua (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età con­temporanea, 3 voi., Venezia, Marsilio, 1989-1992, voi. Ili, Mercati e istituzioni, p. 701. Il Consorzio agrario provinciale

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tare un deciso incremento nel consumo dei concimi chimici e la conferma di una lenta ma ascendente meccanizzazione, ad assume­re grande rilievo fu soprattutto il ruolo della Cassa di risparmio di Ferrara, presieduta dal senatore Pietro Niccolini, uomo strettamente legato agli ambienti agrari nazionali37. La Cassa era rimasta la principale banca ad azionariato essenzialmente locale dopo il ve­nir meno del monopolio della finanza cattoli­ca col fallimento del Piccolo credito di Gio­vanni Grosoli, e fassorbimento della Banca popolare — presieduta da un esponente di punta dell’agraria ferrarese come Vico Man­tovani, coinvolto anche nel tracollo del pri­mo Consorzio agrario provinciale — da par­te della Banca nazionale deH’agricoltura nel 1930-1931, in concomitanza col riordino cre­ditizio destinato a realizzare una più marcata partecipazione dello Stato al finanziamento dell’agricoltura. Ambedue gli istituti, presen­ti con diverse filiali nel tessuto provinciale, colpiti dalla stretta deflattiva, pagavano in primo luogo l’aggressività speculativa con cui avevano sorretto la politica di espansione delle grandi aziende capitalistiche38.

Alla legge sul credito agrario del 1927, si accompagnò quella sul riordino delle casse di risparmio che, pur conservando la loro na­tura localistica, vennero numericamente di­mezzate con assorbimenti e fusioni. Scopo

principale della manovra era che le casse, po­ste alle dipendenze del ministero dell’Agricol­tura, divenissero “vere vene capillari per la distribuzione locale del credito agrario” . Da collettore essenzialmente urbano di medio e piccolo risparmio soprattutto rurale, la Cas­sa di risparmio di Ferrara avviava la propria trasformazione partecipando all’organizza­zione degli ammassi volontari in collabora­zione con il Consorzio agrario, aprendo so­stanziosi crediti ai consorzi di bonifica di Bu- rana e Polesine (cui era legato lo stesso Nic­colini) per lavori di bonificazione in corso e, soprattutto, a seguito dei successivi assorbi­menti, acquisendo una crescente partecipa­zione nell’Istituto federale di credito agrario della provincia di Ferrara, creato dagli istitu­ti locali nel 1926, in cui, a partire dal 1930, fe­ce il suo ingresso una larga rappresentanza degli agricoltori. Dal 1935 le casse poterono esercitare ampie funzioni di controllo sulle banche rurali e, nel 1937, i disagi dei contadi­ni e le pressioni degli agrari indussero il mini­stero a sollecitarle nell’esercizio del credito agrario e a prestare agli agricoltori a basso interesse su pegno di grano39. Con il rdl. 24 giugno 1935, furono poi istituiti i centri am­massi compartimentali e provinciali alle di­rette dipendenze del ministero dell’Agricoltu­ra e con sede amministrativa presso le casse di risparmio.

era stato rifondato nel 1929 e, nel 1933, con l’intervento personale di Pareschi, aveva completato l’assorbimento della vecchia associazione ponendosi definitivamente nell’orbita dell’Unione fascista degli agricoltori. Sui consorzi agrari si veda Angelo Ventura, La Federconsorzi dall'età liberale al fascismo: ascesa e capitolazione della borghesia agraria, “Qua­derni storici” , 1977, n. 36; Alessandra Staderini, La Federazione italiana dei Consorzi Agrari, “Storia contemporanea”, 1978, n. 5-6.37 Per Pietro Niccolini, sindaco di Ferrara, deputato e senatore liberale, presidente del Consorzio di bonifica, della Fe­derazione interprovinciale agraria, della Confederazione nazionale agraria, membro del Consiglio superiore dell’agricol­tura e di quello del lavoro, vicepresidente del Consiglio superiore dell’economia nazionale, occorre ancora fare riferi­mento a Edoardo Savino, La nazione operante, Milano, Archetipografia, 1934 [2* ed.], p. 309.38 La Banca nazionale dell’agricoltura diviene presumibilmente, nella prima metà degli anni trenta, il centro finanziario dell’agricoltura locale, infatti la sede ferrarese “dopo quella di Milano, è quella che procura i redditi più cospicui e si­curi” . Cfr. Vico Mantovani al duce, 9 marzo 1937, in ACS, Spd, ris. (1922-1943), b. 102, fase. “Mantovani” . Sulle vi­cende del Piccolo credito, cfr. G. Rochat, Italo Balbo e gli agrari ferraresi, in Istituto regionale per la storia della resi­stenza e della guerra di liberazione in Emilia Romagna, Le campagne emiliane in periodo fascista, cit., pp. 307-345.39 Giuliano Muzzioli, Banche e agricoltura. // credito all’agricoltura italiana dal 1861 al 1940, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 207-241.

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Il Centro ammasso di Ferrara, unico ente ammassatore della provincia, si serviva, in accordo col Consorzio agrario, di 75 locali di città e provincia controllati dalla Cassa, e di due nuovi silos fatti erigere, proprio nel 1935, dalla Cassa di risparmio a Bondeno e Migliarino in collaborazione con lo stesso consorzio40. Nel 1936 la Cassa rilevava poi le quote azionarie del consorzio e della Banca nazionale dell’agricoltura nell’Istituto fede­rale di credito agrario, divenendone l’azioni­sta principale con quasi la metà del capitale sociale; infine, nel 1939 cominciava a svolge­re direttamente operazioni di credito agrario di esercizio (la cui cospicua entità, in media circa 50.000 lire, lascia pochi dubbi sui bene­ficiari) e otteneva di finanziare l’ammasso grano al 30 per cento e della canapa al 15 per cento (al 28 e al 20 per cento rispettiva­mente nel 1942)41. Alla luce di quanto sin qui detto, di fronte alla concreta necessità di una ridefinizione delle proprie strutture fi­nanziarie locali, tutt’altro che casuale appare allora l’ingresso, a partire dal 1937, tra i soci azionisti della banca, da una parte di una nu­trita pattuglia di grandi agrari (Boldrini, Ma­ri, Micheli, Prampolini, Fiorini, Campanati, Ilario Canè, Orfeo Marchetti della Sbtf, Ar­mando De Rham, proprietario con beni affit­tati, legato a Le Gallare), dall’altra di perso­naggi come Carlo Pareschi e Vittorio Cini. Parallelamente cresceva il livello dei depositi, pur vincolato ai cicli dell’agricoltura, che a partire dal 1938 moltiplicava il proprio indi­ce: dai 118.173.000 del 1937 (erano114.554.000 l’anno precedente) si passò ai129.376.000 del 1938, ai 139.430.000 del 1939, ai 152.676.000 del 1940, ai203.251.000 del 1941, per arrivare ai274.544.000 del 1942 — anno in cui la Cassa registrò un incremento del 35 per cento di fronte al 22 per cento di tutte le casse regio­nali — e procedere poi quasi senza flessioni,

con l’eccezione di una crisi di tesaurizzazione nell’agosto-novembre 1943, sino a tutto il 1944. Tendenza del tutto simile presentano gli investimenti in titoli di stato che ci rinvia­no a un’area più larga, quella “dorsale vene­to-toscano-emiliana” per cui analoghi indi­catori mostrano una significativa acclimata­zione all’atmosfera bellica e un lento, non ge­neralizzato distacco dal regime, con evidenti implicazioni sul successivo periodo della Re­pubblica sociale. I titoli di stato sulla piazza ferrarese, secondo i rendiconti della Cassa di risparmio, conobbero una vera impennata a partire dal 1940 — si quintuplicarono nel 1941 senza perdere la tendenza ascendente anche negli anni successivi —

dovuta anche alla disponibilità di capitali liquidi che, negli attuali momenti di economia sconvolta, restano automaticamente sottratti all’ordinario giro degli affari e sono in attesa di reimpiego. E ciò si desume dal fatto che l’accrescimento dei no­stri depositi, più che soddisfacente per noi, non è che modica cosa se posto a raffronto con la massa di liquidità la quale, oltre che agli istituti di credito della piazza, è affluita, notoriamente, nel decorso esercizio per importi cospicui, all’impiego in buoni postali e ancora di più in buoni del Tesoro ordina­ri. In ogni modo è confortante constatare, quale segno della serena tranquillità dei risparmiatori, che il denaro non si imbosca, come fu ai tempi di altre guerre, e viene affidato con fiducia agli enti che ne sono i naturali custodi.

La paralisi dei capitali, che provocava

l’aumento eccezionale avutosi nell’anno in ogni categoria dei depositi, divenne costante, una vera e propria disoccupazione [...] determinata sia dal ristagno di imprese e commerci, sia dai realizzi di quelle scorte di materie prime, merci e prodotti che vanno al consumo e che non possono subito essere ricostituite. L’aumento dei depositi però at­testa anche la perseverante capacità di risparmio del pubblico, quale prova di previdente e sicura fe­

40 Cassa di risparmio di Ferrara (d’ora in poi Carife), Rendiconto 1935, Ferrara, Industrie grafiche, 1936, p. 14.41 Carife, Rendiconto 1936, Ferrara, Industrie grafiche, 1937, p. 18.

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de nell’esito degli avvenimenti e nei compiti rico­struttivi che, a guerra vinta, saranno riservati al ri­sparmio nazionale42.

D ’altro canto, la permeabilità dello stato corporativo provoca, a contatto coi fenome­ni innescati più direttamente dalla guerra, l’emersione di radicate tendenze. La concen­trazione della ricchezza, legata anche ai pro­fitti realizzati sul mercato nero, si trovò a ri­stagnare nelle campagne, in buona quantità disponibile, come si è visto, a rientrare nel circuito finanziario statale attraverso le sem­pre più frequenti emissioni di titoli, senza imboccare possibili alternative. La scarsa propensione agli investimenti extra agricoli sembra del resto rappresentare un elemento consistente alfinterno del blocco agrario fer­rarese, da un lato per i robusti privilegi di cui esso godeva, dall’altro per l’influenza esercitata dai gruppi monopolistici (come l’Eridania e gli Anfossi) di livello naziona­le43. Davanti alle scelte economiche di fondo operate dal fascismo erano infatti sostanzial­mente naufragati i tentativi di Rossoni di collegare imprese agricole e sviluppo indu­striale della provincia in concreta alternativa agli appoderamenti, “poiché — come lo stesso ministro scrisse a Mussolini nel no­vembre 1935 — mentre l’appoderamento ag­graverebbe il problema del bracciantato — in quanto una parte dei braccianti resterebbe in condizioni disperate senza più una giorna­ta di lavoro — con l’industrializzazione tutti troverebbero il loro posto”44 45. Egli cercò a più riprese di far leva sui contrasti tra agri­coltori e industriali, soprattutto zuccherieri, e di stimolare lo spirito imprenditoriale di questi ultimi provvedendo alla costruzione

di uno zuccherificio e di una distilleria d’al­cool dalla barbabietola gestiti dall’Anb nella zona industriale da lui creata a Tresigallo42. Se contrasto ci fu all’interno del blocco agrario ferrarese, l’ordine delle priorità ven­ne certamente ribadito dall’alto. Significati­vamente, alla morte di Niccolini nell’ottobre 1939, venne indicato a succedergli, alla pre­sidenza della Cassa di risparmio, Emilio Ar­lotti, presidente della Federazione nazionale della industria dello zucchero e gerente della Società anonima zuccherificio e raffineria Bonora di Ferrara. In questa luce si potreb­bero leggere anche le difficoltà cui andò in­contro il grande stabilimento per la fabbri­cazione di cellulosa — altro settore verso cui si erano indirizzati i progetti rossoniani — con la paglia di grano e di riso, i canapoli e il legno di pioppo, costruito nella zona in­dustriale di Ferrara. Nell’Archivio di Stato di Ferrara è depositato un fitto carteggio, datato tra il novembre 1937 e il marzo 1938, concernente il finanziamento della So­cietà cellulosa italiana anonima a cui parte­cipavano un forte gruppo di cartieri con otto milioni e l’Ente nazionale cellulosa e carta (presieduto da Caradonna) con quattro. Al­la richiesta di una partecipazione ferrarese (con 1 milione sceso poi a 600.000 lire) rivol­ta ai principali agricoltori locali “come frui­tori in quanto produttori della materia pri­ma” , e segnatamente alle sei grandi imprese legate al capitale finanziario nazionale, il prefetto e il podestà si trovarono di fronte alle resistenze di alcune di esse (Fondiaria romagnola e Immobiliare Vittoria); proba­bilmente le risposte non furono comunque soddisfacenti visto che, nelle successive ri-

42 Caritè, Rendiconto 1940, Ferrara, Industrie grafiche, 1941, p. 16; Caritè, Rendiconto 1941, Ferrara, Industrie grafi­che, 1942, p. 12.43 P. Corner, Il fascismo, cit., p. 6; E. Sereni, La questione agraria nella rinascita, cit., pp. 194-204.44 Questo documento, di cui non mi è stato possibile ricostruire la collocazione, mi è stato cortesemente segnalato, in­sieme ad altri depositati presso l’ACS, da Antonella Guarnieri che qui ringrazio.45 Cfr. il prefetto Di Suni al ministro deH’Intemo, 1 luglio 1938, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 146, fase. 1/g.

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chieste di aumenti di capitale, degli agrari ferraresi non viene più nemmeno fatta men­zione46. Certamente le più grandi società e le persone in possesso dei terreni destinati alla nuova zona industriale (Bonora, Eridania, gli Zanardi, l’Opera pia Braghini Rossetti, ecc.) non rinunciarono a corpose operazioni speculative, e nessuna integrazione si stabilì mai tra le imprese industriali importate e l’imprenditoria locale47.

Guerra e agricoltura

Zone industriali e appoderamenti avrebbero dovuto costituire, come è noto, le risposte of­ferte dal regime alla pesante compressione di consumi e salari e alla endemica disoccupa­zione imposte all’enorme massa dei braccian­ti (170.000 compresi i familiari), tra le più mi­sere dell’intera Padania. Ma il drenaggio del­le risorse in atto e il consolidamento dei con­dizionamenti sociali in vista dello sforzo bel­lico non possono che sottolineare tutta la portata demagogica di quelle scelte. Secondo i dati trasmessi alla fine del 1938 al prefetto dal sindacato dei lavoratori agricoli, il reddi­to medio familiare annuo di braccianti-com- partecipanti, coloni e mezzadri risultava di

3.700 lire, già in peggioramento rispetto al 1935, per i primi (numero medio componenti famiglia 5,3), e di 15.750 lire per coloni e mez­zadri (9,9); per i salariati e gli impiegati il red­dito medio individuale risultava rispettiva­mente di 3.140 e 7.200 lire, mentre lo stesso prefetto calcolava in 1.106 lire per ettaro l’in­troito lordo di un podere di 30 ettari48. Se at­tribuiamo qualche attendibilità a questi dati, la situazione si presentava quindi già larga­mente deficitaria solo per gli operai agricoli — su cui gravava comunque pesantemente anche la contrazione dei lavori pubblici e che già periodicamente, anche se sempre lo­calmente, esplodevano in manifestazioni di disagio —, mentre per i salariati fissi lo sareb­be divenuta con i peggioramenti imposti dal conflitto. Ancora nel 1941, nell’Argentano, un bracciante impiegato per 7 mesi percepiva 17 lire al giorno, per 3 mesi 19 lire, per 2 mesi 20,5 lire; le donne rispettivamente 10,5, 11,5 e 13 lire al giorno49. La disoccupazione tocca­va poi, alla fine del 1939, punte di 50-60.000 unità nei mesi da febbraio a maggio. Per farvi fronte, il prefetto comunicava: “ho elaborato un progetto di spostamento di una notevole massa di lavori pubblici [undici milioni a carico della bonifica integrale di cui il 60 per cento in salari e quattro milioni a ca-

46 Lo stabilimento conobbe poi ripetuti abbandoni, sia dell’Ente cellulosa (che passò tutto all’Iri) sia di diversi azionisti. Nell’aprile 1941, il presidente della Scia Caradonna e il podestà di Ferrara Verdi, consigliere di amministrazione, si tro­vavano un impianto pronto dal dicembre ma fermo, un aumento di capitale ancora da votare e molti azionisti recalci­tranti in attesa di uniformarsi all’atteggiamento dell’Ente cellulosa. “Intanto le maestranze sono ridotte allo stretto ne­cessario per l’ordinaria manutenzione delle macchine, avendo esaurito tutte le possibilità di credito”. L’impianto fu finalmente attivato, come la Saigs e la Sa. Lavorazione leghe leggere, nel 1942. Cfr. il carteggio in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30,. b. 149, fase. “Fabbrica cellulosa nella zona industriale (finanziamento)” .47 Sulla zona industriale di Ferrara, cfr. Rolf Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano, Angeli, 1990, pp. 161-190. Si veda anche Marcello Bruzzo, “La ricostru­zione a Ferrara” , tesi di laurea, rei. Alberto De Bernardi, Università di Bologna, facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 1992- 1993. Un’ulteriore conferma del sostanziale disinteresse dei circuiti locali all’operazione mi pare possa venire dall’unico intervento effettuato in questa direzione dalla Cassa di risparmio: l’apertura di un credito di cinque milioni al Comune “che forse non utilizzerà nemmeno più che in misura ridottissima, essendogli già cominciato l’abbondante gettito dei contributi che la nostra apertura di credito doveva servire ad anticipargli per far fronte a taluni grossi pagamenti di espropri od altro per la nascente Zona industriale di Ferrara” . Cfr. Carife, Rendiconto 1937, Ferrara, Industrie grafiche, 1938, p. 9.48 II prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 2 novembre 1938, loc. cit. a nota 11.49 II federale di Consandolo al duce, 7 aprile 1941, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 146, fase. “Sindacati, associazioni minori. 1926-1945”.

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rico dei Lavori pubblici] verso il periodo feb­braio-giugno [...] Anche gli Eca riserveranno a quel periodo la loro maggiore attività” 50 51. Furono rispolverati gli appoderamenti e in­coraggiata l’emigrazione verso l’Africa orientale — che toccò le 1.184 unità a fronte di un incremento demografico annuo di circa3.000 unità — da cui giunsero peraltro, nel triennio 1937-1939, consistenti rimesse31; con­cretamente si provvide ad allargare la com­partecipazione, come reclamava a gran voce il “Corriere padano” ancora nell’ottobre 194052. Ma era lo stesso prefetto, a conclusio­ne del rapporto citato, a tirare realisticamente le somme prospettando le uniche alternative percorribili: “Malgrado queste provvidenze, e se non intervengono fatti nuovi (richiami al­le armi, migrazioni interne, etc.), la situazione nella prossima primavera sarà tale da destare legittime preoccupazioni” .

Gli faceva eco il commissario all’Ente co­munale di assistenza di Ferrara osservando:

i bisogni nel nostro Comune sono infiniti. Abbia­mo i reduci dalle campagne d’Africa e di Spagna che si aggiungono alla falange già troppo numero­sa dei disoccupati abituali e che costituiscono una piaga dolorosa da sanare. Mentre ferve l’opera per valorizzare in Ferrara la zona industriale, da cui tutti speriamo venga attenuata la disoccupazione urbana, vi sono molti giovani validi e attivi, giova­ni che hanno combattuto per la difesa e per le for­tune della Patria, che quasi desiderano una nuova guerra per trovarvi rimunerazione, e intanto si af­follano agli sportelli della pubblica assistenza53.

Furono in effetti i richiami alle armi, secon­do moduli ben noti ed evidentemente ben presenti nella mentalità dei funzionari locali, la più concreta risposta elaborata dalle auto­rità fasciste. “ Terminata vittoriosamente questa guerra di liberazione e di affermazio­ne imperiale — declamava il ‘Corriere pada­no’ ricalcando modelli sperimentati nella grande guerra —, anche la posizione morale e materiale dei contadini dovrà avere la sua giusta revisione” 54. Tuttavia i richiami, da cui come è noto né compartecipanti né sala­riati fissi vennero esentati, non sembrano co­noscere all’inizio ritmi particolarmente acce­lerati: secondo i dati della mutua di malattia per i lavoratori agricoli essi, al 31 dicembre 1941, avevano riguardato 13.439 salariati- braccianti e appena 721 mezzadri, a fronte di una crescita degli iscritti (compresi i ri­chiamati ed esclusi i familiari), calcolata sul 1942, a 116.419 unità per i primi, e a 17.366 per i secondi55. Essi ebbero quindi ef­fetti “rallentati” , pur cumulandosi alle par­tenze per la Germania che nel 1940 toccaro­no le 3.000 unità, ridotte poi d’imperio a me­no di 2.000 l’anno successivo. Se già nel giu­gno 1940 si riscontrava una carenza di trat­toristi, che rallentò le operazioni di aratura dei terreni, e esattamente un anno dopo si cominciava l’assunzione degli ultrasessanta- cinquenni, ancora nel giugno 1942 la situa­zione alimentare dei braccianti rimaneva la peggiore, ed è solo alla fine dell’anno che la manodopera risulterà pienamente occupa-

50 Cfr. il prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 4 novembre 1939, loc. cit a nota 15.51 Si veda l’importo complessivo dei vaglia spediti dagli operai residenti in Aoi, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 34, b. 79, fase. “Disoccupazione. Operai in A.O.I.” .52 Fanterie rurali in linea. Importante riunione del Direttorio dell'Unione Lavoratori dell’Agricoltura, “Corriere padano”, 9 ottobre 1940. Sulla compartecipazione come tradizionale sistema di aggiramento del problema bracciantile cfr. Guido Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994, pp. 200 sg.53 Si veda la relazione alla commissione amministrativa del commissario Enzo Muratori del 14 luglio 1939 sull’opera dell’Ente dall’l luglio 1938 al 30 giugno 1939, in Archivio ECA Ferrara (d’ora in poi ECA Ferrara), sez. “Protocollo”, cart. 3, fase. “Programmi assistenziali 1937-1950”. Ringrazio il dottor Samaritani per la libertà concessami nella con­sultazione di questo archivio, peraltro ancora in attesa di una adeguata organizzazione.54 Cfr. Diciottomila rurali a rapporto e una sola volontà: Vincerei, “Corriere padano”, 5 aprile 1941.55 AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 146, fase. “Cassa mutua lavoratori agricoltura” .

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ta, tanto che i lavoratori cominciarono ad ottenere aumenti in natura appoggiati dal sindacato e, successivamente, ingaggi al di fuori del collocamento. A questo punto l’in­cidenza dei richiami doveva aver avuto defi­nitivamente ragione del pur considerevole numero dei braccianti ferraresi: nel febbraio 1943 infatti, il questore riferiva che “ nel gennaio si ebbero 18.226 disoccupati, di cui 5.189 donne. Tale aliquota di disoccupa­ti è leggermente diminuita nel mese di feb­braio”56. Nel luglio infine, era il prefetto a parlare di gravi difficoltà di manodopera, riferendo di essere stato costretto alla pre­cettazione di donne per la mondatura del ri­so. Tutto sommato quindi, gli agricoltori ferraresi beneficiarono a lungo di una so­stanziale tenuta del mercato del lavoro che rimase vincolato alle stagionalità colturali — alla fine del 1944 erano di nuovo circa130.000 i lavoratori dell’agricoltura ed era ricomparsa una massiccia disoccupazione —, consentendo loro di aggirare l’aumento dei costi industriali legati alle macchine, mentre la carenza di fertilizzanti nelle mo­derne aziende capitalistiche non poteva, sul breve periodo, avere significativa inci­denza. Questi dati vengono indirettamente confermati, oltre che dalla costante crescita produttiva, anche dalla quasi totale stasi, negli anni di guerra, della meccanizzazione agricola. Se nel 1938 Ferrara era la provin­cia dotata del più cospicuo parco macchine dell’Emilia Romagna, entro il 1943 essa aveva realizzato, in termini d’incremento, gli indici più bassi di tutta la Padania, e nel 1945, in termini assoluti, era già stata superata da Bologna e Ravenna, e quasi raggiunta da Parma e Piacenza57.

Analogamente a quanto avvenne per l’indu­stria, anche il settore agricolo fu investito, a partire dal marzo 1941 — dopo un esordio improntato “ al principio dominante di di­sturbare il meno possibile le aziende agra­rie” —, dal maggiore sforzo compiuto dal regime nella razionalizzazione del governo delle risorse in relazione alla gestione del problema alimentare58. AH’intensificarsi della propaganda e dei premi speciali con­cessi agli agricoltori, venne fatta seguire — e ripetuta nel gennaio 1942 e ancora nel marzo 1943 — l’organizzazione della cam­pagna di acceleramento per l’ammasso dei cereali, affidata a Ettore Frattari, direttore della Federazione nazionale dei consorzi provinciali tra i produttori dell’agricoltura (e dal gennaio 1942 presidente della Confe­derazione nazionale fascista degli agricolto­ri). Questi, nominato commissario ministe­riale e dotato di poteri di comando sulle va­rie organizzazioni nazionali agricole, sinda­cali, economiche e commerciali, impostò ef­ficacemente la propria azione aggirando le organizzazioni locali con l’utilizzo di alcune centinaia di funzionari dei consorzi produt­tori trasferiti provvisoriamente da altre pro­vince, “che solleticavo con varie promesse, non ultima quella relativa alle loro promo­zioni e al loro avvenire professionale” 59. In attesa di studi mirati che portino risposte più concrete ai molti quesiti possibili, è co­munque difficile sfuggire all’impressione di occasionalità e di pura emergenza suscitata da questi provvedimenti, varati peraltro sempre in sensibile ritardo rispetto alle ne­cessità organizzative e stagionali. Commen­tando, nel novembre 1941, in un promemo­ria riservato, i “poco confortevoli” risultati

56 II questore al capo della polizia, 28 febbraio 1943, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Rela­zioni sulla situazione della provincia, 1940-1943, periodo di guerra” .57 G. Crainz, I mutamenti del lavoro agricolo nelle aree bracciantili tra il 1940 e il 1960. Guerra, conflitto sociale, esodo, “Padania”, 1988, n. 3.58 L. Cavazzoli, L ’agricoltura mantovana, cit., p. 525.59 Cfr. il rapporto di Frattari al ministro dell’Agricoltura, 7 dicembre 1941, in ACS, Spd, ord., b. 2439, fase. 552802.

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del nuovo ammasso in corso, lo stesso Frat- tari osservava:

La verità è che, generalmente, i produttori agricoli sono sordi al loro dovere di consegnare i quantita­tivi eccedenti il loro fabbisogno stabilito per legge. Bisogna riconoscere che le provincie dell’Italia set­tentrionale hanno risposto abbastanza bene, men­tre altrettanto non si può dire della grande mag­gioranza delle provincie dell’Italia meridionale ed insulare. In molte provincie i produttori hanno alimentato un vergognoso commercio clandestino per il quale si è venduto e si vende il frumento a prezzi che superano anche le 500-600 lire il quinta­le e raggiungono anche le 1.000 lire il quintale. La disciplina nella macinazione lascia molto a deside­rare e gli ordini precisi del Ministero dell’Agricol­tura non sono eseguiti dai molini industriali ed ar­tigiani: e ciò contribuisce a favorire grandemente il lamentato commercio clandestino. Spesso le tesse­re di macinazione sono di fatto rilasciate ai deten­tori di grano non produttori e non aventi diritto. In molti casi si è riscontrato che i molini artigiani macinano grano senza la presentazione della pre­scritta tessera di macinazione e che i molini indu­striali non tengono regolarmente aggiornato il li­bro di carico e scarico reso obbligatorio per legge. Per la dure esperienza da me fatta in occasione del- racceleramento degli ammassi dei cereali della pri­mavera scorsa e per la conoscenza che ho dei vari ambienti agricoli del nostro Paese, da me fatta in venturi anni di organizzazione agricola-sindacale, economica e commerciale, sono fermamente con­vinto che occorra trovare al più presto una radica­le e razionale sistemazione dei servizi di ammasso f~.j II segreto della soluzione risiede nell’unità di comando e di organizzazione. Troppi Enti e trop­pe autorità si occupano di questi ammassi per cui la responsabilità del mancato successo si diluisce e si disperde. Il compito è molto duro e chi vi sarà preposto dovrà operare senza preoccuparsi troppo delle numerose antipatie che questo lavoro gli pro­curerà. Bisognerà difendere la persona che vi sarà preposta perché la sua azione, per riuscire, dovrà superare interessi privati e soprattutto dovrà urta­re la mentalità provinciale, purtroppo diffusa più di quanto non si creda, la quale in sostanza tende a favorire l’evasione agli ammassi perché si pensa

di poter migliorare cosi di fatto la situazione ali­mentare della provincia. Siamo in guerra ed il se­greto della riuscita del delicatissimo e grave pro­blema alimentare risiede soltanto nella più rigida disciplina che deve essere intesa da tutti60.

La proposta di Frattari mi pare possa rap­presentare, per quel poco che se ne sa, se non altro l’autorevole espressione di una ten­denza “alla razionalizzazione e alla totalità” , presente all’interno delle burocrazie tecniche, di matrice essenzialmente padana, allevate dal regime, tendenza presumibilmente matu­rata nel quadro del tentativo di rilancio dello sforzo bellico, venute meno le illusioni di un conflitto breve e trionfale. Ad essa vennero tuttavia ritagliati spazi quasi esclusivamente esclusivamente legati all’emergenza. Accan­tonando per ora il discorso sulla disastrosa gestione dei razionamenti e senza tralasciare le deficienze degli apparati, le ipotesi sul per­ché finì per prevalere una risposta “parziale” come la riforma di Pareschi — che implicava un certo decentramento esecutivo, non a caso avversato da Frattari, affidato all’ordina- mento sindacale e alla Federconsorzi — pos­sono essere qui indagate solo al livello di pri­ma approssimazione, e solo cedendo alla ten­tazione di dilatare all’intera area padana i li­mitati orizzonti documentari ed interpretati­vi di questo lavoro. Suggerendo prospettive non molto dissimili a quelle avanzate per i comparti industriale e finanziario, la messa in mora del Consorzio tra i produttori, ope­rata da Pareschi sin dalla fine del 1941, sem­bra rimandare da una parte al fitto intreccio tra pubblico e privato che era la sostanza del corporativismo (in cui si era calata quasi sen­za eccezione l’agraria padana) eretto a cardi­ne del sistema di gestione dell’economia di guerra, dall’altra alla progressiva erosione delle capacità di mediazione di Mussolini. A ben vedere perciò, le condizioni di fondo non sembrano essersi modificate.

«o Promemoria riservato, 23 novembre 1941, in ACS, Spd, ord., b. 2439, fase. 552802.

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Intrecciandosi con le misure di mobilita­zione del partito e di allargamento delle sue funzioni, la direzione intrapresa, soprattutto sul versante della regolamentazione del pro­blema alimentare, risultò in effetti essere suf­ficientemente distante dalla proposta caldeg­giata da Frattari. Alla fine del 1941 furono create infatti le commissioni di controllo co­munali per il conferimento dei cereali, com­poste da podestà, segretario del Fascio, co­mandante della stazione dei carabinieri e dai fiduciari di zona dell’Unione agricoltori e del Sindacato lavoratori agricoli.

L’organizzazione predisposta — fu il commento di Frattari in un rapporto al ministro dell’Agricoltura — non è aderente alla realtà della situazione: le Commissioni Comunali porteranno sicuramente a risultati inadeguati perché l’azione dura verso gli agricoltori non sarà di massima mai svolta dalle persone locali [...] La verità è che gli agricoltori in­tendono trattenere quantitativi di cereali superiori a quelli fissati dalla legge. Il Segretario del Fascio ed il Podestà dei paesi di campagna — e sono [rie] in questi paesi che si deve operare — sono quasi sempre agricoltori; il graduato dei RR. CC., in ge­nere, è sempre molto ben ambientato ed è difficile che si metta contro l’ambiente rurale presso il quale deve vivere. Lo stesso può dirsi dei rappresentanti locali delle Organizzazioni Sindacali Agricole61.

Anche nel Ferrarese i lavoratori rurali vennero fatti oggetto di una vera e propria mobilitazio­ne interna: nei primi tre mesi del 1941 vennero tenute 49 assemblee, di cui 12 comunali. Ma l’istituzione delle commissioni fu alquanto tar­diva. Il podestà di Jolanda di Savoia comuni­cava infatti al prefetto, nel febbraio 1942, co­me essa fosse avvenuta dopo la trebbiatura e la distribuzione ai compartecipanti del cereale, “quando cioè, ad opera degli stessi comparte­cipanti, diverse partite di granturco avevano già preso il volo dal territorio comunale”62.

Senza dubbio la realtà dell’evasione agli ammassi risulta subito articolata e comples­sa: le speculazioni colturali in rapporto ai prezzi (e come compensazione alla forbice coi prodotti industriali) si succedono quasi senza soluzione di continuità, senza tuttavia superare mai, nel periodo considerato, un certo livello “ fisiologico” . Nel novembre 1941 il “ Corriere padano” denunciava che “presso troppe aziende di varia ampiezza non si è sempre osservata la ripartizione del seminato [...] [a scopi speculativi] nella misu­ra consueta. Dal 1939 al 1941 la contrazione è stata in media per tutta la provincia del 15 per cento”63. Certo si tratta di misure diver­se. I compartecipanti, privati della tessera an­nonaria e costretti a versare all’ammasso, ot­tenevano legalmente 1,5 o 2 quintali di grano con cui, finché non sopraggiunse la piena oc­cupazione, non arrivavano a primavera. La parte più consistente dei piccoli ceti rurali po­tè invece incentivare le proprie quote di ri­sparmio. Nel 1941 la Cassa di risparmio rea­lizzò quasi cinque milioni in libretti di piccolo risparmio.

In ogni caso la portata di misure come il varo, nell’agosto 1942, dei piani colturali ob­bligatori, o il fiorire di commissioni (per la re­visione delle denunce di produzione del gra­no, per la disciplina della manodopera agri­cola e dei piani di produzione, per il recupero dei cereali all’ammasso) affidate ai vari fasci locali, va anche connessa allo snodarsi di quelle robuste spinte centrifughe che si svi­lupparono parallelamente alla progressiva disgregazione del regime, e che si collegavano a innefficienze e inadeguatezze (quando non a connivenze). Così nella zona di S. Agosti­no, nella primavera del 1943, parecchi agri­coltori non rispettavano i piani colturali per le bietole, accordandosi con gli zuccherifici

61 Cfr. il rapporto di Frattari al ministro dell’Agricoltura, 7 dicembre 1941, loc. cit. a nota 59.62 II podestà di Jolanda di Savoia al prefetto, 19 febbraio 1942, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 53, b. 182, fase. “Ammasso cereali 1941-1942”.63 Speculazioni, “Corriere padano“, 7 novembre 1941.

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per quote più basse. “È da richiedersi — rile­vava un rapporto dell’ispettore agrario del marzo — che gli agricoltori siano energica­mente richiamati a mantenersi nei limiti fissa­ti per le colture secondarie per cui era richie­sta la licenza di coltivazione (cipolle, zucche, meloni, ecc.), e che siano disposti immediati accertamenti onde frenare le evasioni e pren­dere i previsti provvedimenti contro gli ina­dempienti” . In conclusione l’ispettore invita­va ad utilizzare nell’opera di controllo delle colture, oltre all’Unione agricoltori, anche “le commissioni di Fascio, colle quali sareb­be occorso però conservare stretto contatto onde la loro azione non debordasse minima­mente dalle disposizioni a suo tempo impar­tite nelle apposite riunioni di zona volute e predisposte dal federale”64. Più che mai tar­diva doveva risultare la nuova campagna per l’ammasso cerealicolo del marzo 1943, in cui Frattari potè creare il Servizio confede­rale per il controllo per le discipline agricole e per gli ammassi, posto agli ordini diretti del partito e fondato sul libero uso di tutte le strutture burocratiche confederali e ministe­riali, non ultimi i prefetti.

Lo scollamento tra città e campagna

A partire dagli anni centrali del conflitto, cre­do si possa cominciare a parlare, per il Ferra­rese, di un vero e proprio scollamento tra città e campagna, del proliferare di centri e periferie segnato da ridislocazioni che crescevano pro­porzionalmente all’urgenza delle pressioni a cui venivano sottoposti gli organi politici e amministrativi, non di rado ormai incapaci di controlli puntuali sulle proprie gerarchie

periferiche. Nell’agosto del 1942 il commissa­rio prefettizio di Codigoro, subito rimosso, acconsentiva alla richiesta di alcune decine di donne di macinare un quantitativo di grano superiore a quello prescritto, e nello stesso me­se il prefetto denunciava una tendenza a livel­lo periferico del sindacato dei lavoratori agri­coli “a livellare l’attribuzione della quota di 2 quintali di prodotto anche agli operai che non ne avessero strettamente diritto” . Ancora nel dicembre 1942, un’inchiesta dei carabinieri a Massafiscaglia rilevava in effetti un solo caso di frode, ma affermava:

l’Arma, attraverso contatti avuti coi segretari co­munali e con gli addetti agli uffici annonari di Massafiscaglia, Codigoro, Lagosanto e Comac- chio, ha potuto stabilire che gli organi comunali di quei centri danno di regola alle disposizioni vi­genti in materia di rilascio di schede di macinazio­ne, interpretazione estensiva, concedendo l’ap­provvigionamento di quintali 2 di grano non solo ai singoli agricoltori e lavoratori dell’agricoltura, ma anche a coloro che con essi formano un unico nucleo familiare a condizione che siano conviven­ti, anche se per conto proprio esercitano attività diversa da quella agricola, e se pure non siano a lo­ro carico65.

Ancora una volta è la Cassa di risparmio a costituire un preciso termometro della situa­zione. Nel febbraio 1943, commentando l’a­pertura di tre nuove filiali in provincia a Co­rnacchie, Migliarino e Argenta tra il 1941 e il 1942 (fino a quel momento erano solo quat­tro, aperte tra il 1927 e il 1939), il direttore dell’istituto Luigi Calzolari osservava:

non possiamo non denunziare la insufficienza già manifestatasi nel numero delle suddette filiali. I tempi sono profondamente mutati anche in con-

64 Cfr. il rapporto dell’Ispettorato agrario provinciale al prefetto, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 53, b. 182, fase. “Comitato provinciale per l’agricoltura. Verbali delle riunioni. 1943”. Giova comunque ribadire che il livello pro­duttivo rimase tale da consentire al diffondersi delle evasioni una incidenza relativa; se il 29 aprile 1943 Gaggioli comu­nicava che l’ammasso cereali era andato molto vicino ai quantitativi massimi assegnati alla provincia, ancora il 5 luglio il prefetto poteva ribadire in proposito la propria soddisfazione.65 Inchiesta dei carabinieri a Massafiscaglia, 18 dicembre 1942, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 53, b. 182, fase. c.

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fronto del più recente passato. Superati sono i tempi in cui la popolazione rurale faceva indero­gabilmente capo alla città. Lo sviluppo dell’econo- mia agricola provinciale, la politica stessa del Re­gime nel campo del credito agrario, degli ammassi, della raccolta del risparmio o delle sottoscrizioni alle non infrequenti emissioni dei Prestiti dello Stato, comportano la necessità per un istituto di credito quale il nostro, che ha visto rapidamente aumentare le sue proporzioni di pari passo con le accresciute esigenze creditizie delle popolazioni, di essere presente con le proprie dipendenze in al­cune altre zone provinciali nelle quali già esso irra­dia la sua sfera d’azione66.

Risorse e assistenza urbana

Per molti aspetti più difficile è dunque il per­corso a cui andò incontro la popolazione del­la città. Se la gestione e la distribuzione dei consumi urbani fu ovunque disastrosa67, non meno decisiva e complementare risultò, a livello della pianificazione economica e so­ciale, la bancarotta del regime sul piano assi­stenziale che si avviò, almeno nel Ferrarese, al collasso in anticipo rispetto al dilatarsi del­le emergenze belliche, in conseguenza di spin­te e contraddizioni interne all’intero appara­to fascista. Si tratta di un contrasto assai si­gnificativo se si pensa allo sforzo di mobilita­zione cui questo fu chiamato soprattutto a partire dalla fine del 194168.

Nel giugno 1937 la creazione degli Eca (en­ti comunali di assistenza, che subentravano agli Eoa, enti opere assistenziali gestiti diret­tamente dal partito) sanciva l’accorpamento

in unico organismo di tutte le forme di assi­stenza pubblica a cui venne dato un assetto permanente, a coronamento di tutti quei provvedimenti “coi quali il legislatore si av­via a dotare la pubblica assistenza di mezzi stabili e consoni alle condizioni economiche e finanziarie del momento, evidentemente preferibili agli incerti, vari, casuali, evane­scenti cespiti offerti dalla liberalità priva­ta”69. Di tutte le molteplici forme d’interven­to gravanti sugli Eoa, al partito rimasero solo le colonie climatiche. Di fatto se ne allargava però l’influenza attraverso l’azione dei grup­pi rionali e dei fasci femminili, e una sostan­ziosa ingerenza nel comitato amministrativo del nuovo ente. Le funzioni principali degli Eca erano la cura della refezione scolastica (successivamente passata alla Gii), la distri­buzione di generi commestibili per la confe­zione di vivande a domicilio, di latte e pane, di “ ranci isolati” , combustibili, indumenti e sussidi in denaro per cure, affitti, medicinali, ecc.

Parlare di una maggiore razionalizzazio­ne, professionalità ed impersonalità delle pratiche di assistenza risulta tuttavia, nel ca­so ferrarese, del tutto fuorviante. A prescin­dere dal persistere delle richieste di ortodos­sia politica e di forme clientelari, va anzitut­to rilevato che 11 dei 20 comuni della pro­vincia si trovavano, nel 1938, commissariati, mentre il comune capoluogo registrava un deficit di bilancio di quasi dieci milioni, e la stessa provincia di una somma pari a circa la metà. L’Eca di Ferrara poi, vista la man­canza o la deficienza di istituzioni specifi-

66 Carife, Rendiconto 1942, Ferrara, Industrie grafiche, 1943, pp. 6-7.67 Per indagini in questa direzione, qui appena sfiorata, utili indicazioni si trovano in Giacomo Becattini, Nicolò Bel- lanca, Economia di guerra e mercato nero. Note e riflessioni sulla Toscana, “Italia contemporanea”, 1986, n. 165; Mario Pinotti, Pesaro tra la Linea Gotica e il pane difficile, in G. Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, Milano, Angeli (collana Insmli), 1986.68 Cfr. Renzo Martinelli, Il Partito nazionale fascista in Toscana, “Italia contemporanea”, 1985, n. 158; Id., Il P n f come organismo burocratico-amministrativo, “Passato e presente”, 1984, n. 6; Dario Mattiussi, Il P n f a Trieste 1938-1943: la fine del partito? La crisi del partito fascista come organismo burocratico-amministrativo, in Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, i quaderni di Qualestoria, Trieste, tip. Sciarada; 1992; R. Sitti, La Capillare, cit.69 Cfr. la relazione di Enzo Muratori al comitato amministrativo sul periodo 1 luglio 1937-30 giugno 1938, 14 luglio 1938, in ECA Ferrara, sez. “Protocollo”, cart. 3, fase. “Programmi assistenziali dal 1937 al 1950”.

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che, continuava a provvedere anche ai biso­gnosi in modo continuativo (vecchi, inabili, orfani, abbandonati). Inoltre, sotto il profi­lo gestionale, la continuità con le tradizio­nali pratiche caritative venne garantita, ol­tre che dalle pressoché immediate difficoltà economiche, dalla continuità dei responsa­bili. Se formalmente l’ente era sottoposto al podestà (un esponente di punta del parti­to come Alberto Verdi), venne in realtà ret­to fino all’estate del 1941 da un commissa­rio, Enzo Muratori (che a quella data diven­ne ispettore federale del partito). Al Mura­tori vennero subito affiancati l’ex presidente della Congregazione di carità, Argazzi, no­minato subcommissario, e Giulio Borgon- zoni, segretario dal 1914 della congregazio­ne e sindaco revisore della Cassa di rispar­mio. All’estate 1941 seguì, stante anche l’in­certezza normativa, di fatto un vuoto di po­tere a cui supplì, fino alla fine del 1942, lo stesso Borgonzoni70.

L’assistenza veniva divisa in due fasi prin­cipali: quella estiva (18 aprile-19 dicembre) con latte, pane e interventi in denaro, rivolta ai malati, ai vecchi e ai bambini; quella inver­nale (20 dicembre-17 aprile, ma dai primi di gennaio per gli altri comuni) con tutti gli in­terventi già descritti, rivolta alle famiglie e al­le persone in condizioni di particolare e com­provata necessità. I principali referenti di questa assistenza erano braccianti e compar­tecipanti, le cui necessità stagionali giustifica­vano il quadruplicarsi dei bilanci invernali. Infatti

i mesi angosciosi per la disoccupazione e la miseria non sono quelli che a termine di calendario sono

quelli invernali propriamente detti, ma sono quelli della primavera, cui la povera gente perviene dopo di aver dato fondo ad ogni sorta di economia e di previdenza, dopo le sofferte privazioni invernali, e quando le opere assistenziali cessano di funzionare per mancanza di mezzi.

Così l’Eca di Ferrara veniva invitato dal pre­fetto ad impiegare per “l’inverno” 1937-1938 l’intera quota di contributo statale concessa e ammontante a 1.200.000 lire; invece, nello stesso periodo, l’Eca di Comacchio, comune dove “su 1.000 operai inscritti al sindacato dell’agricoltura, solo 200 sono occupati e nessuno dispone di scorte granarie o di altro genere” , si vedeva assegnare, per assistere6.000 persone, 80.000 lire71.

L’apparente larghezza di cui veniva bene­ficiato l’ente del capoluogo non deve tutta­via trarre in inganno. Ben oltre le connota­zioni di prestigio politico di cui si volle rive­stita l’istituzione degli Eca, essa assunse in realtà il profilo di centro di compensazione, peraltro insufficiente, della crisi delle altre istituzioni locali. Alla fine degli anni trenta, l’organizzazione della federazione fascista comprendeva 129 fasci di combattimento e con le organizzazioni di massa superava i144.000 iscritti72. Pubblicava un periodico, il “Corriere padano”, e una nutrita serie di periodici settoriali; a queste attività in cam­po editoriale se ne aggiunsero altre come il rilancio della “Capillare” e la realizzazione di un’imponente mostra delle attività di Fer­rara fascista per il ventesimo della fondazio­ne dei fasci. Essa era poi articolata in una ventina di uffici in cui lavoravano 43 perso­ne (a Trieste erano 46 con un costo fisso an-

70 R. Sitti, La Capillare, cit., p. 78; David H. Horn, L'Ente opere assistenziali: strategie politiche e pratiche di assistenza, “Storia in Lombardia”, 1989, n. 1-2; Tullia Catalan, Fascismo e politica assistenziale a Trieste. Fondazione e attività del­l'Ente Comunale di Assistenza (1937-1943), in Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra, cit.71 Cfr. il rapporto dei carabinieri al prefetto, 5 gennaio 1938, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 142,. fase. “Ente Opere Assistenziali”, s.fasc. “Comacchio”.72 II numero dei fasci di combattimento e il totale degli iscritti è desunto da dati tratti in parte da G. Rochat, Italo Bal­bo, cit., p. 178, e in parte dalla relazione del prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 2 novembre 1938, loc. cit. a nota 11.

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nuo di 346.000 lire73). Al 30 giugno 1942, con una dilatazione per molti aspetti “mini­steriale” , il personale era salito a 107 ele­menti (erano 59 a Venezia, 53 a Brescia, 65 a Verona e Alessandria, 67 a Bari e 72 a Catania) con un costo di 1.121.000 lire, e veniva avanzata richiesta per altri 15 in sostituzione di 16 richiamati74. Si trattava con tutta evidenza di un esteso e costoso apparato a cui il partito, fin dagli ultimi an­ni prebellici, stentava a far fronte. E in que­sto quadro che, a Ferrara, va opportuna­mente collocata l’istituzione dell’Eca. Il partito poté infatti, senza incrinare la sua base piccolo borghese, scaricare sull’ente tutto il numeroso personale dell’Eoa, che fu liquidato solo nel corso di alcuni anni con il ricorso a prolungati sussidi, e tutta una serie di onerose incombenze: l’assisten­za alle famiglie che venivano avviate all’e­migrazione o rientravano dalla Francia e dall’Africa senza alcuna prospettiva occu­pazionale e quella alle famiglie dei “gloriosi caduti della Rivoluzione” e dei richiamati alle armi. In particolare quest’ultima rima­se, fatto significativo, in carico all’Eca al­meno fino al 1942, cumulandosi alla re­sponsabilità dei sussidi alle famiglie dei ca­duti, dei prigionieri e dei dispersi. A fronte di questo carico, il partito avocava a sé ogni forma di finanziamento a fini assistenziali proveniente da enti (Cassa di risparmio, consorzi, ecc.), e una circolare prefettizia del febbraio 1938 gli conferiva di diritto an­che tutte le offerte di privati cittadini che, per quell’anno, toccarono le 850.000 lire75.

Dall’altra parte, si lamentava Muratori,

il Comune non solo non contribuisce, ma ci scarica tutto quello che può. Preoccupato di sistemare il suo bilancio con la riduzione del gravissimo onere dell’assistenza sanitaria, ha ridotto l’elenco dei po­veri e ha studiato tutti i metodi per sfollare l’Arci­spedale [...] Inoltre il Comune (e noi abbiamo con­sentito per deferenza verso il Podestà nostro Presi­dente) ha desiderato che l’Eca si accollasse la spesa di lire 12.000 per l’adattamento di una chiesa ab­bandonata ad abitazione provvisoria di sfrattati, e si impegnasse a stanziare lire 15.000 annue per sus­sidi agli inquilini inadempienti delle case popolari [...] Di fronte a tante cause perturbatrici, a tanti ele­menti che vengono inopinatamente a gravare sul bilancio Eca, ci si può proprio chiedere che valore serio abbiano un programma ed un bilancio che poi non si possono osservare, a meno di non ricor­rere ad atti di durezza che non sono compatibili con la genesi e con l’indole della nostra Istituzione76.

Le uniche entrate erano le rendite patrimo­niali (circa centomila lire annue) e il contri­buto statale, mediato dal prefetto, sempre in­sufficiente, viste le pressioni subite, nono­stante le considerevoli restrizioni che mano a mano vennero apportate all’entità degli in­terventi. Esso rimase di 1.200.000 lire (con sporadiche integrazioni) fino al 1940, per ar­rivare, nel 1941-1942, a 1.429.571 di fronte a una richiesta da parte dell’ente di 2.137.610,45 lire. D ’altro canto, i mutamenti nei flussi assistenziali erogati, se non forni­scono dettagli sulla loro distribuzione socia­le, indicano come, fin dal principio, il conflit­to inneschi nel centro urbano dinamiche di crisi, nonostante la concessione di quindici milioni di contributo statale per opere di risa­namento confluiti nell’ambigua operazione dello sventramento della zona di S. Romano.

73 Utili raffronti con R. Martinelli, Il Partito nazionale fascista in Toscana, cit.; B. Dalla Casa, Il P nf e la mobilitazione bellica, in A. Preti, B. Dalla Casa (a cura di), Bologna in guerra, cit.74 La risposta del Direttorio nazionale sottolinea l’eccesso di personale, in quanto l’integrazione riguarderebbe l’ufficio stampa e l’ufficio tecnico che sarebbero inesistenti: evidentemente, è la conclusione, “tanta gente lavora poco e male” . Archivio di Stato, Partito nazionale fascista, Direttorio nazionale (d’ora in poi ACS, Pnf, Direttorio) ser. V, s. II, b. 1023, fase. “Liquidazione per Fascio Ferrara”.75 Due anni dopo toccavano ancora le 300.000 lire per poi scomparire quasi del tutto.76 Cfr. la già citata relazione del 14 luglio 1939, loc. cit. a nota 68.

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Dopo che i cattivi raccolti avevano fatto se­gnare, nell’inverno 1938, un formidabile sbalzo nell’assistenza al forese (804.150 lire contro le 226.085,65 dell’inverno preceden­te), superando abbondantemente quella alla città e ai sobborghi (634.150 lire) che si era mantenuta stazionaria, dall’autunno 1940 la tendenza si invertiva radicalmente e definiti­vamente, mentre veniva di fatto abbandona­ta la suddivisione stagionale. Il comparto in­dustriale fu rapidamente messo in crisi dal blocco delle materie prime e di combustibili per le forniture belliche, colpendo settori già parzialmente usurati da un livello salari che variava dalle 12 alle 15,80 lire per la ma­nodopera non qualificata. Così l’edilizia e l’industria tessile. “Le industrie della zona in­dustriale di Ferrara — riferiva il prefetto il 4 novembre — (gomma sintetica, cellulosa, Montecatini) trovano difficoltà per i macchi­nari, la cui consegna subisce notevoli ritar­di”77. Cosi l’officina F.lli Santini (circa tre­cento operai) lavorava a turni ridotti perché diffidata “dalla III Delfag di Bologna dal- l’impiegare latta e ritagli di latta nella fabbri­cazione di articoli non destinati ad aver con­tatto con i cibi, dovendo in tal caso usare il lamierino nero o piombato” , mentre la Sa. Vetreria di Ferrara sospendeva 80 dipendenti perché “il Fabbriguerra ha vietato contem­poraneamente l’assegnazione di nafta e di carbonato sodico alle vetrerie che non abbia­no forni a combustibile solido”78.

La situazione raggiunse rapidamente livel­li preoccupanti, tanto che lo stesso prefetto si sentì in dovere, il 10 ottobre, di sollecitare ed indirizzare personalmente l’Eca:

L’annata 1940-1941 è caratterizzata da una situa­zione speciale e nuova determinatasi in conseguen­za dell’attuale stato di eccezione. Intendo alludere

a due nuove categorie di assistiti: alle famiglie dei nostri soldati richiamati e ai disoccupati in seguito alla cessazione di alcune attività industriali conse­guenti allo stato di guerra. Speciali cure e attenzio­ni devono porsi per l’assistenza di queste catego­rie. È indispensabile che nessuno di costoro, tran­ne il caso di evidente richiesta ingiustificata, abbia a rivolgersi infruttuosamente all’Eca. Che anzi il doveroso aiuto da apportarsi vada considerato con precedenza sugli altri assistiti79.

Appare evidente l’intento di non aprire incri­nature in uno spirito pubblico che aveva ac­colto di buon grado o comunque disciplina­tamente subito l’ingresso in guerra. Nello stesso tempo, il cattivo raccolto del frumento impediva ai compartecipanti di far fronte agli usuali debiti accumulati nei mesi invernali con pesanti ripercussioni sull’intera rete com­merciale della provincia, a cominciare dai dettaglianti, su cui contemporaneamente ve­nivano a cadere le misure restrittive imposte dallo stato di guerra. L’ascesa dei prezzi dei generi di largo consumo, già pesantemente segnalata dalle istituzioni assistenziali e da settori dell’industria locale a partire dal 1939, raggiungeva, nell’ottobre 1940, livelli “ non sempre proporzionati alle possibilità economiche del medio consumatore” , intac­cando le posizioni a reddito fisso che, appena sei mesi dopo, apparivano in netta difficoltà come sembra confermare il sensibile aumento delle cessioni di stipendio (75 casi per 642.656,75 lire) concesse dalla Cassa di ri­sparmio agli impiegati degli enti locali.

Complementare alle insufficienze della pianificazione nel governo delle risorse, e al fiorire del mercato clandestino, è la frantu­mazione del mercato nazionale che trasforma le città in nuovi “centri” destinati però, in breve, a perdere ogni concreta forma di con­

77 Cfr. il prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 4 novembre 1940, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “ Relazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943” .78 Cfr. il prefetto Di Suni al ministero deH’Interno, 4 novembre 1940, loc. cit a nota 76.79 Cfr. la circolare del prefetto Di Suni alla commissione amministratrice Eca Ferrara, in ECA Ferrara, sez. “Protocol­lo”. cart. 1. fase. 1.

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trollo su una periferia che andava minuta­mente frammentandosi. Sin dal luglio 1940 il questore segnalava:

la provincia di Ferrara è largamente importatrice di legna e totalmente di carbone vegetale [...] La deficienza e la saltuaria mancanza del carbone ve­getale, che hanno tenuto e continuano a tenere in grave preoccupazione la popolazione, specialmen­te quella del capoluogo, sono determinate, oltre che dalla scarsezza dei mezzi di trasporto, dal fatto che i Prefetti di alcune provincie di produzione, quali quelli di Lucca, Trieste e Gorizia, ne vietano o contingentano le esportazioni fuori provincia. I prezzi, poi, sono cosi alti che non consentono ai locali commercianti di acquistare la merce per ri­venderla ai prezzi massimi fissati dal Consiglio provinciale delle corporazioni senza una notevole perdita80.

E il prefetto, nell’aprile 1941, registrava: “Aumenta l’esodo merce verso province do­ve sono consentiti aumenti dei prezzi ed eva­sioni delle norme” 81. La multiformità del mercato clandestino si delineò poi subito in misura direttamente proporzionale alla rare­fazione delle varie merci, a un razionamento tardivo e ad una regolamentazione rimasta comunque a lungo vaga nel determinare i prezzi degli innumerevoli tipi e qualità delle merci. Si cominciò con l’abbigliamento, scar­pe, caffè, grassi e carni bovine, anche se solo dal 1942 le autorità ne danno apertamente notizia, in parallelo alle già esasperate lamen­tele dei ceti meno abbienti e a reddito fisso. Nel sottolineare l’accentuarsi dei fenomeni speculativi da parte di commercianti e pro­

duttori, lo stesso prefetto finiva poi per deli­neare una rete di complicità che coinvolgeva gerarchi e settori dei ceti più abbienti “in re­lazioni di affari e di interessi con speculatori colpiti o perché soliti ad approvvigionarsi a borse nere” e “professionisti legali” che, “al fine di trarre più ingenti lucri” , accreditava­no voci per cui i provvedimenti repressivi “sono destinati ad inasprire gli ambienti pro­duttivi e commerciali rendendo invise le pub­bliche autorità”82. Pubbliche autorità che, nella persona del podestà, arrivarono a no­minare, il 16 ottobre 1942, delegato comuna­le per la divisione annonaria il presidente del­l’Unione commercianti Umberto Barbè83.

Un’occhiata alle erogazioni dell’Eca com­pleta il quadro sommariamente tracciato: se nella ricordata pesantissima annata 1938- 1939 le famiglie assistite erano arrivate al nu­mero di 6.316 (con un notevole contributo del forese) e nel 1939-1940 erano scese a 5.095, già nel 1941 esse erano 6.041 e nel 1942 6.160 (ri­spettivamente 23.910 e 24.370 individui), qua­si tutte collocate nel centro urbano e in mini­ma percentuale sfollate o rimpatriate (164 e 248). I rapporti prefettizi inoltre non lasciano dubbi sulla loro estensione ai ceti medi. D’al­tra parte, in seguito al razionamento, risulta progressivamente evidente il peggioramento della qualità dell’assistenza incentrata sulla di­stribuzione di pane e latte (i pacchi-viveri scomparvero dal 1941-1942), soprattutto at­traverso buoni che, se consentivano di limitare l’esborso finanziario, ne riducevano drastica­mente l’efficacia vista la rarefazione di questi generi sul mercato legale.

80 Cfr. il questore al capo della polizia, 31 luglio 1940, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. ’’Re­lazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943” .81 Cfr. il prefetto Villa Santa al ministero dell’Interno, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. ’’Re­lazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943” .82 Cfr. il prefetto Villa Santa al ministero dell’Interno, 3 giugno 1942, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943”.83 Solo il 28 febbraio successivo, il nuovo prefetto appena insediato, Dolfin, avrebbe invitato Verdi a sostituire Barbè in quanto “avendo tale ufficio il compito di controllare precipuamente i commercianti, è ovvia la incompatibilità che tale funzione venga presieduta e controllata da chi rappresenta la categoria interessata” Cfr. nota riservata del prefetto al podestà, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 53, b. 193, fase. “Ferrara: sorveglianza divisione annonaria”.

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La crisi dell’assistenzialismo finisce dun­que per rappresentare un aspetto (e non cer­to il meno grave) del fallimento più generale delle istituzioni fasciste, dei limiti e delle im­previdenze di un sistema che, posto di fronte ad un evento dalla portata assolutamente inaspettata, rivela, tanto a livello locale che nazionale, la precarietà dei propri equilibri. Valga però un’ulteriore considerazione a ri­prova della scarsa linearità di certi percorsi. Alla luce di quanto sostenuto in precedenza, la precarietà degli equilibri, se da una parte è destinata ad esplodere drammaticamente nel centro urbano sottolineando tutti i limiti del dirigismo fascista, dall’altra pare porre in evidenza come quei limiti, così come erano andati profilandosi fin dagli anni trenta, ri­sultino difficilmente scindibili dalla sostan­ziale tenuta di quel medesimo sistema nelle campagne. Era lo stesso prefetto, alla vigilia del crollo e pur servendosi di collaudati ste­reotipi, a delineare la sostanza di questo rap­porto contrapponendo “una notevole atonia nei riguardi dei supremi interessi nazionali” delle masse operaie e la diffusa circolazione di “voci allarmistiche e disfattistiche nella città, particolarmente nelle cosiddette cate­gorie intellettuali e in quelle abbienti” , alla “più sana provincia, nella quale, pur sussi­stendo ovvie preoccupazioni per la durata e l’esito della guerra, l’attaccamento al regime è vivo”84.

Problemi aperti

A corredo dei percorsi indicati, e sul versante più propriamente sociale del quadro di fram­mentazioni innescato dalla crisi del regime —

e specularmente riflesso nell’edificio di Salò di cui ancora troppo poco è dato sapere —, vale la pena di delineare almeno sommaria­mente alcuni aspetti che possono essere indi­cati qui solo come cenni problematici, an- ch’essi da sviluppare sullo spettro di contesti omologhi. Negli anni bellici si consuma, nel Ferrarese, una nuova e più profonda frattura tra città e campagna. In particolare il 1942 rappresenta un tornante per molti aspetti si­gnificativo, in parallelo al dispiegarsi di una netta divaricazione nella disponibilità delle risorse. Rivive, sotto il profilo sociale, l’anti­ca incomunicabilità ma di segno questa volta rovesciato. “ La tendenza all’aumento delle retribuzioni dei lavoratori appartenenti all’a­gricoltura — rilevava il prefetto nel dicembre 1942 — è comunemente stigmatizzata da tut­te le altre categorie in quanto ritenuta causa di ulteriori maggiorazioni nel costo della vi­ta”85. Lo stesso filo della memoria ripropone questi temi con nitida crudezza:

I ricordi dei più anziani, di quelli che durante la guerra avevano già una famiglia sulle spalle, evi­denziano un forte risentimento nei confronti di quegli abitanti della campagna incapaci di provare pietà per chi, in quei tragici momenti, aveva diffi­coltà a procurarsi il minimo indispensabile per vi­vere. Spesso certe famiglie di campagna vengono descritte come delle vere e proprie industrie che cercavano, attraverso il mercato nero e l’affitto agli sfollati, di procurarsi in quel frangente tanto drammatico il massimo del profitto86.

Certo, generalizzare queste tendenze sarebbe per lo meno incauto, quando non ingeneroso. Restano comunque come segnali dell’incro- ciarsi di percezioni, di logiche che attendono ancora di essere adeguatamente indagate.

84 Cfr. relazioni del prefetto Dolfin al ministero dell’Interno, rispettivamente 2 maggio e 3 luglio 1943, in AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943” .85 Cfr. il prefetto Di Suni al ministero dell’Interno, 4 dicembre 1942, in AS Ferrara, Pref., Gabinetto ris., cat. 30, b. 139, fase. “Relazioni sulla situazione della provincia, periodo di guerra, 1940-1943” .86 A. Guarnieri, “Popolazione e lotta di liberazione: Ferrara e Argenta. Due realtà a confronto” , Atti del convegno di studi “Guerra, guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna”, Reggio Emilia, 15-16 dicembre 1995, dattiloscrit­to, p. 17.

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Con il crollo del regime, è nel disagio della città che si ricostituiscono i partiti, che rical­cano a loro volta la tradizionale incomunica­bilità con le campagne, collegandosi alla crisi dei ceti medi e impegnandosi, con l’evidente eccezione comunista, a contrattare spazi con le autorità locali (prefettura, questura) — che attraversano le crisi del 25 luglio e dell’8 settembre in solida continuità —, ma pronti a ripiegare in un cauto attendismo. Nelle campagne le masse bracciantili restano tutto sommato affidate al sindacalismo fasci­sta — erede per più versi di quello socialista87

— che nella frantumazione periferica degli anni di guerra diluisce la sua connotazione di appendice di un rigido potere di classe, re­cuperando vieppiù il profilo di individui lega­ti, attraverso il problema primario della ge­stione della sopravvivenza, alla singola co­munità88. L’unico collante che rimaneva, e sarebbe rimasto alla svolta del dopoguerra, tra città e campagna consisteva ancora nella fitta rete di interessi che collegava stretta- mente il blocco delle élites tradizionali.

Roberto Parisini

87 Su questi aspetti cfr. G. Crainz, Padania, cit., pp. 196-217; Spero Ghedini, Uno dei centoventimila, Milano, La Pietra, 1983, pp. 53-54; e, più in generale, Ivano Granata, Classe operaia e sindacati fascisti, in Storia della società italiana, di­retta da Giovanni Cherubini e al., coordinata da Idoraeneo Barbadoro, 25 voi., Milano, Teti, 1980-1990, parte V, voi. XXII, Emilio Agazzi e al., La dittatura fascista, 1983.88 Valga, solo a titolo d’esempio, la relazione spedita dalla prefettura all’Unione provinciale lavoratori dell’agricoltura il 30 ottobre 1943: “ In S. Maria in Bosco esiste un sindacato di lavoratori dell’agricoltura il cui segretario, Ferrarese Giovanni di Alessandro di anni 27, mutilato della guerra di Spagna, esplica la sua attività con zelo, volontà ed impar­zialità verso i lavoratori. Durante il regime fascista esisteva, presso detto sindacato, un consiglio di cinque persone, no­toriamente fascisti, i quali in seguito al cambiamento di Governo, furono invitati dallo stesso segretario a dimettersi, al fine di lasciare il posto ad altri elementi; infatti, il consiglio si dimise, nulla avendo da obiettare, ed il Ferrarese scelse — in sostituzione dei dimissionari — cinque individui del luogo, i quali, pur professando idee non fasciste, tuttavia garan­tiscono, per assennatezza ed operosità, il miglior andamento di quella organizzazione sindacale” (AS Ferrara, Pref, Gabinetto ris., cat. 30, b. 146, fase. “Bosco Mesóla situazione sindacale”).

Roberto Parisini collabora con articoli e recensioni a “Italia contemporanea” , “Società e storia” e “Pa­dania” . A Ferrara svolge attività di ricerca e didattica presso l’istituto di Storia contemporanea e il di­partimento di Studi storici e geografici dell’Università.

IL PENSIERO ECONOMICO MODERNOSommario del n 1-2, 1997

ArticoliA. Sen, Sovrappopolazione e povertà: una critica ai timori di una bomba demografica', R. Molesti, Bioeconomia e sviluppi della storia del pensiero economico-, L. Iraci Fedeli, / presupposti del keynesismo', C. Moritesi, La ricchezza di un'altra chiave di lettura del mondo: F. Ramiccia, Note sulla teoria della distribuzione del reddito e sullo sviluppo economico (parte I); M.G. Lucia, Globalizzazione dei mercati finanziari: nuove funzioni delle economie regionali?', G. Querini. L'“Eco-audit" come strumento di efficienza per l'impresa.

OsservatorioM. Bonaiuti, Moneta e credito in Europa alle soglie del 2000; H.P., La XXIX settimana di studi all'Istituto Datini di Prato.