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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FOGGIA Direzione Amministrativa Relatore: Guido Croci Giornate didattico-formative per responsabili della gestione delle strutture universitarie Venezia, 19 settembre 2005 LA VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE UMANE TRA CLIMA ORGANIZZATIVO E MOTIVAZIONE

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FOGGIA

Direzione Amministrativa

Relatore: Guido Croci Giornate didattico-formative per responsabili della gestione delle strutture universitarie Venezia, 19 settembre 2005

LA VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE UMANE TRA CLIMA

ORGANIZZATIVO E MOTIVAZIONE

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Introduzione: il contesto e i problemi

Sono ormai anni che parliamo di gestione e valorizzazione delle risorse umane

all’interno delle imprese e delle organizzazioni pubbliche. La nuova e diversa attenzione

prestata a questo tema si deve, in larga misura, all’affermazione (o riaffermazione) della

centralità del capitale umano nei contesti organizzativi, quale vero motore dei processi di

cambiamento e innovazione. Non c’è dubbio che l’accelerazione delle trasformazioni

industriali e la conseguente esigenza di innovazione continua dei sistemi produttivi, una

tecnologia in costante mutamento, l’avvento della società della conoscenza e

dell’informazione, tutto il lungo processo che ha portato all’avvento di una società

postindustriale, implica una rivisitazione strutturale dei sistemi professionali, delle modalità di

organizzazione del lavoro, delle prassi di governo e sviluppo delle persone. Se non altro

perché le professionalità e le pratiche lavorative si trasformano incessantemente, in rapporto

all’evoluzione del sistema, implicando nuove e diverse conoscenze e abilità.

Se il quadro di riferimento è questo, diviene quanto mai urgente e necessario

delineare uno scenario in grado di leggere i mutamenti in atto e di individuare tematiche,

linguaggi, ipotesi progettuali e metodologie comuni. Uno scenario che deve gioco forza

attraversare e legare i molteplici stadi professionali, produrre e inviare stimoli costanti,

promuovere e rinforzare sistematicamente la crescita professionale e culturale delle

persone. Ciò implica, in modo non secondario, l’abbandono di una concezione dell’esistenza

quale percorso a fasi successive ben scandite tra loro, basata, in ultima analisi, sulla

concezione del progresso individuale come itinerario definito, stabile e sull’approccio

cumulativo ai saperi (la vita come processo lineare che va da “a” a “z”, senza soluzioni di

continuità). Nella società del futuro dovremo abituarci ad alcune evidenze: necessità di

cambiare spesso lavoro o aree lavorative; opportunità di conseguire, in relativa alternanza,

nuove specializzazioni, altri titoli di studio e diverse esperienze sul campo; evidenze, tutte,

che legittimano una forte esigenza di prestare grande attenzione alle tematiche del clima

organizzativo e della motivazione al lavoro, per la messa a punto di efficaci politiche di

gestione e valorizzazione delle risorse umane all’interno delle organizzazioni.

Prima di stendere alcune brevi riflessioni intorno alle parole chiave “clima

organizzativo”, “motivazione” e “soddisfazione nel lavoro” (Capitolo primo), crediamo utile

rammentare alcuni punti nodali che caratterizzano l’attuale assetto generale degli equilibri

sociali, economici e politici. Si tratta di abbozzare un contenitore di contesto, peraltro,

ovviamente, non esaustivo.

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1. La fine del lavoro? (Rifkin, 1995), con due schieramenti: gli apocalittici e gli

integrati. Per i primi, la società futura ci riserva disoccupazione su vasta scala e

ampliamento dei spazi di diseguaglianza e disagio sociale, con conseguente aumento dei

livelli di conflittualità. Un benessere, in sostanza, feudo di pochi privilegiati cittadini. Gli

integrati sostengono, invece, che stiamo assistendo all’avvento della società del benessere

generalizzato, alla fine del lavoro e del tempo di lavoro classici, alla possibilità di rispondere

in modo plurimo e diffuso ai bisogni individuali. E’ stata teorizzata una terza strada, che

intende superare l’ipotesi comunque duale dei due schieramenti, che passa attraverso una

riconcettualizzazione dell’attuale senso del lavoro, l’attribuzione di un ruolo centrale ai

soggetti agenti in una riscoperta capacità propositiva e propulsiva della società civile, a

danno dello Stato e del mercato intesi come istituzioni codificate. Tutto il settore non profit

ne costituisce rilevante esempio, anche se il problema dell’affermazione di un terzo settore

autonomo in grado di portare nuova linfa e nuove regole del gioco è ancora tutta da

verificare.

2. La globalizzazione dei mercati e, nel contempo, la regionalizzazione dell’economia,

fenomeni affatto nuovi e peculiari della società postindustriale; e la finanziarizzazione

dell’economia che contribuisce, a suo modo, all’avvento della società del non lavoro: nel

duplice senso della perdita di valore di una tradizionale visione/immagine del lavoro, e della

perdita di spazi/opportunità lavorative tout court (Zamagni, 1996).

3. La definitiva morte dei grandi numeri, che attiene non solo l’impresa, ma

qualsivoglia organizzazione, profit e non profit, pubblica e privata (unitamente al fatto che

queste, per non pochi altri aspetti stanno divenendo sempre più uguali); non è, forse, un

caso che, all’interno dei stessi luoghi della produzione, si punta molto, oggi più di ieri, sulla

vitalità e l’efficacia operativa dei gruppi di lavoro e di progetto, e sull’empowerment come

leva strategica di sviluppo organizzativo centrata sulla persona (Piccardo, 1995; Benozzo,

Piccardo, 1995);

4. Il lungo processo di secolarizzazione che ha portato alla fine della credenza in un

ideale di verità assoluta, in un modello di sapere fondato totalmente che, ai nostri fini, ha

comportato e sta sempre più comportando, la messa in mora di un’idea organizzativa o di un

sistema di regolazione quale sistema razionale in sé compiuto, con il recupero, al contrario,

della logica dei sentimenti, dei vissuti, della storia degli attori sociali (Quaglino, 1996).

5. L’avvento di una società visibile, dove, se si vuole paradossalmente, le

organizzazioni si trovano a produrre e gestire non più prodotti materiali, bensì beni

immateriali, servizi (informazioni, relazioni, idee), caratterizzati da massima intangibilità. A

questo aspetto deve essenzialmente ricollegarsi la questione relativa alla ricorrente e

diversa attenzione oggi prestata nella vita organizzativa alla dimensione estetica. Sembra,

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infatti, che progressivamente sempre più liberata dall’onere dei bisogni primari, la società del

futuro darà sempre più peso alle componenti simboliche e relazionali (Carmagnola, 1991/a).

6. La forbice lavorativa. Da una parte stiamo assistendo alla fuoriuscita dal mondo

del lavoro di forze neutralizzate dall’incipiente progresso tecnologico, e dall’altra,

contemporaneamente, constatiamo la necessità di un sensibile aumento del livello di

preparazione culturale e professionale. Sussiste il rischio del consolidamento di una sorta di

vuoto formativo che privilegia pochi ed esclude o emargina i molti. La questione, peraltro,

evidenzia l’ulteriore pericolo di un possibile conflitto generazionale.

7. Le nuove opportunità tecnologiche da un lato, e l’arcipelago contrattuale e dei

lavori atipici dall’altro, che sembrano stravolgere i luoghi della produzione: le ipotesi di

telelavoro, le innumerevoli previsioni delle più diverse prestazioni e collaborazioni

professionali (da noi etichettate come coordinate e continuative), il part-time, il lavoro

interinale, ecc. In tutti questi casi e seppure con intenti e modalità differenti, il lavoro esce

dall’organizzazione.

8. La contaminazione dei linguaggi. Questione non recente che, tuttavia, sembra

persistere: il gioco di squadra nell’impresa e nell’organizzazione pubblica; il management

scolastico; l’imprenditore skipper (Diaz, 1993); navigare in internet; la tematica della

dimensione estetica nelle organizzazioni e della bellezza nel/del lavoro, prima relegata in altri

mondi: dalla natura all’opera d’arte (Carmagnola, 1991/b); le stesse metafore organizzative:

le organizzazioni come macchine, organismi, cervelli, prigioni psichiche, culture (Morgan,

1989; Gagliardi, 1986; Carmagnola, 1996).

9. L’accentuazione di alcune parole chiave in sempre più diversi contesti: flessibilità

professionale e organizzativa, ma anche nella vita quotidiana, nei rapporti, nelle relazioni;

l’impresa corta, snella, ma, in fondo, anche la stessa famiglia, non solo più soltanto

nucleare, ma pure non tradizionale, snella in quanto a libertà di intenti e movimenti; il just in

time dei grandi dell’automobile, che sembra valere pure per i frigoriferi domestici.

10. L’ampliamento a dismisura di nuove professionalità, legate alla salvaguardia

dell’ambiente ed alla produzione energetica (Diaz, Butera, 1993), ed all’igiene e salute nei

luoghi di lavoro, che presuppongono rivisitazioni strutturali e rinnovamento dei percorsi

professionali;

11. Gli ormai storici squilibri territoriali, per parlare specificamente del nostro paese,

nella presenza della società civile, dello Stato, dell’impresa e del mercato del lavoro in

generale;

12. Le fasce deboli del mondo del lavoro, qui intese in un’accezione ampia: dai

disoccupati di lunga permanenza ai lavoratori in mobilità, dai disabili agli immigrati,

includendo anche la debolezza del mercato al femminile. Se, infatti, la presenza delle donne

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nel mondo del lavoro è ormai un’evidenza, altre questioni sono le concrete opportunità di

mobilità, e l’effettivo inserimento qualificato in professionalità di alto profilo.

13. La questione della formazione continua, ovverosia la tematica, la concezione del

momento formativo come processo costante che accompagna la persona lungo tutto l’arco

dell’esistenza, che è problema centrale rispetto al futuro assetto economico e sociale del

paese. L’Italia sconta, in merito, alcuni ritardi, dovuti, anche se non soprattutto, al persistere

di un’idea di sistema formativo fortemente centrato sul momento prettamente scolastico.

La serie di fenomeni riportati pone non pochi problemi sia per le persone, sia per le

organizzazioni, che devono individuare e promuovere di soluzioni in larga misura nuove e

originali, tali da coniugare elementi compositi e non necessariamente confluenti.

Dal punto di vista del soggetto, si chiede essenzialmente:

a) acquisizione di sempre maggiori conoscenze e informazioni e capacità di lettura dei

mutamenti in atto, e volontà di partecipare e indirizzare i mutamenti stessi;

b) capacità di auto-orientarsi e di auto-valutarsi, di costruirsi un proprio itinerario lavorativo.

Dal punto di vista delle organizzazioni:

a) risposte efficaci ai mutamenti dei contesti lavorativi, che evolvono oggi con una continuità

e rapidità prima sconosciute, dovendo fare i conti con una turbolenza ambientale

sofisticata e di difficile lettura;

b) sperimentazione di nuove idee e regole, per assicurare efficienza e benessere

organizzativo.

Se questo è il contesto di riferimento, delicato sotto molti punti di vista, il processo di

mutamento della vita dell’organizzazione e della vita lavorativa del soggetto rischia di

sclerotizzarsi, perde quanto meno in equilibrio e continuità; viene meno, ad esempio, l’idea

di un bagaglio culturale e professionale acquisito una volta per tutte, e il concetto di carriera

lavorativa lineare, dal momento dell’entrata sino alla pensione. L’attuale livello di evoluzione

tecnologica e sociale degli assetti organizzativi rimette tutto in gioco, forse in modo

eccessivo, poiché rischia di perpetuare un circolo vizioso (ma anche virtuoso, dipende dal

punto di vista assunto) dove i soggetti agenti sono sempre un poco in ritardo, un poco

inadeguati alla situazione, costretti a rincorrere e a rincorrersi un con l’altro.

Comunque sia, la situazione prospettata richiede ai soggetti lo sviluppo e

l’affinamento di capacità particolari, non del tutto inedite, ma mai come oggi da individuarsi,

elaborarsi e applicarsi con tale intensità e diffusione ai più diversi ruoli organizzativi.

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L’immagine più efficace di questa attenzione generalizzata all’acquisizione di capacità

multiple nella gestione dei ruoli è, forse, quella della piramide rovesciata, che

nell’evidenziare la strategicità per l’impresa della vicinanza al cliente, in un sistema

socioeconomico dove il prodotto principale è costituito da beni intangibili, pone

simbolicamente fine al lavoro fordista, alla divisione tra pensare e agire, tra momento

progettuale e momento operativo, tra elaborazione concettuale e mera esecuzione. Una

delle capacità la cui acquisizione si ritiene fondamentale è quella di continuare ad

apprendere e di imparare ad apprendere: imparare ad imparare (Amovilli, 1994). Se c’è

sempre da apprendere; se ciò che ho imparato è sempre meno importante rispetto a quanto

ancora non so e devo apprendere; se, in sostanza, le conoscenze e competenze via via

acquisite non garantiscono più automaticamente una piena rispondenza al contesto

lavorativo, che in qualche modo sorprende continuamente il soggetto agente, il nodo critico

si sposta inevitabilmente dai luoghi tradizionali dell’istruzione e della formazione, al contesto

lavorativo stesso, alla capacità di apprendere nell’azione e di capitalizzare l’esperienza, di

immaginare scenari e contesti futuri.

La questione non sta solo nei termini di puntare su attori organizzativi chiamati ad

affrontare e gestire compiti e ruoli dal contenuto più intellettuale e creativo, poiché è l’assetto

generale che sta mutando. Cambia il sistema di potere, di relazione, di comunicazione, di

regole comportamentali e, conseguentemente, è necessario rinnovare profondamente

metodi e obiettivi dell’azione organizzativa. La vera novità non sta più nella necessità di

risolvere i problemi, ma di imparare a porli; non si tratta di adattarsi a ruoli prestabiliti o alle

professionalità emergenti dalla grande trasformazione, si tratta di apprendere, di acquisire la

capacità di suddividere questi ruoli professionali, di orientarli, quand’anche, addirittura, di

crearli (Crozier, 1990, 116).

1. Motivazione, clima organizzativo, soddisfazione nel lavoro

Nella stesura di questa prima parte seguirò fedelmente alcune delle indicazioni

formulate da Gian Piero Quaglino in un suo recente, importante contributo (Quaglino, 2002).

La motivazione è l’insieme degli stimoli, delle energie, delle risorse che le persone si

sentono di rendere disponibili nella relazione con l’organizzazione. Una disponibilità,

comunque, non assoluta, che, peraltro, assume tonalità e valenze soggettivamente

differenti.

Al tema della motivazione si lega anche un altro dei temi oggi ricorrenti nelle realtà

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organizzative sia private che pubbliche, ossia il tema, non particolarmente comodo,

dell’orgoglio aziendale (in altri termini, il tema del senso di appartenenza); un elemento

seccante poiché ci costringe a domandarci dove sia finito l’orgoglio di appartenere ad una

determinata organizzazione. Orgoglio che è contemporaneamente: fiducia, piacere,

motivazione, riconoscimento e forte ragione di appartenenza. Ben sapendo che, per una

complessa serie di ragioni, le persone non rendono immediatamente disponibili tutte le loro

risorse per condividere le scelte e i progetti dell’organizzazione.

Quando si parla di motivazione, la questione centrale non è tanto quella se le persone

sono soddisfatte (o meno) del proprio lavoro, tematica pure di straordinaria importanza,

quanto piuttosto:

1. di quante risorse le persone possono rendere disponibili e qual è la direzione e

la qualità di queste energie;

2. del loro senso di appartenenza all’organizzazione;

3. del desiderio di cambiare;

4. della voglia di apprendere.

La voglia di apprendere è tematica centrale, poiché coltivare, alimentare il desiderio di

apprendere e l’energia investita dalle persone nell’apprendimento, non potrà che giovare

all’efficacia complessiva dei sistemi organizzativi. La volontà di apprendere sarà decisiva nei

prossimi anni, anche se al momento sembra mancare. Ciò implica che occorre costruire

tutte le occasioni possibili per far diventare sfidante, entusiasmante, divertente il dialogo e

l’apprendimento, perché è ormai chiaro che queste sapranno fare la differenza. Vinceranno

le persone che avranno fatto dell’apprendimento il loro esercizio quotidiano, il loro piacere

quotidiano.

Il clima è la qualità della rete di tensione collettiva che lega o non lega gli uomini e le

donne dell’organizzazione; è lo stare insieme, il lavorare insieme; è il piacere di ritrovarsi

oppure no, l’eccessiva freddezza che circola nelle relazioni interpersonali, la distanza,

oppure anche l’eccessiva informalità o l’eccessivo calore che forse nasconde il bisogno di

compensare una qualche mancanza. In sostanza, il clima organizzativo è una (la)

dimensione di misura della relazione all’interno di un’organizzazione; una dimensione

peraltro molto difficile da rinvenire. Il clima organizzativo, infatti, è talvolta così aleatorio, così

impalpabile e anche così affidato agli equivoci del linguaggio, da far sì che un giorno sia

sufficiente una parola piuttosto di un’altra a modificare radicalmente l’andamento delle

attività e delle relazioni.

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La soddisfazione è l’indicatore di appagamento e anche di apprezzamento che le

persone utilizzano per segnalare la qualità della loro relazione con l’organizzazione. Essi si

sentono soddisfatti, appagati per moltissimi aspetti e per moltissime questioni. Il panorama

degli indicatori può certo variare, ma le ricerche di settore effettuate da Gian Piero Quaglino

suggeriscono che gli ambiti su cui la soddisfazione si declina sono piuttosto limitati: il

contenuto professionale, il contesto organizzativo, la dimensione della relazione, la

dimensione della crescita professionale. Senza dimenticare che etimologicamente

‘soddisfazione’ non significa ‘completo appagamento’ o ‘compiuta realizzazione’, bensì

corrisponde ad ‘abbastanza’ (non a ‘pienamente’).

Queste tre dimensioni hanno ciascuna una propria natura di fatti organizzativi, ma

hanno prima di tutto un più ampio respiro di culture organizzative, di linguaggi organizzativi.

L’obiettivo è ascoltare (e non controllare, anche perché, di fatto, incontrollabili, legati così

come sono alle specificità delle singole persone) questi fatti organizzativi, al fine di investire

positivamente nella relazione con gli attori protagonisti della vita organizzativa.

Un’organizzazione che voglia disporsi all’ascolto delle dimensioni della soddisfazione, della

motivazione e del clima, per poter seguire il loro andamento e la loro dinamica, dovrà

riuscire a lavorare in condizioni di apparente grande imprevedibilità, di costruzione passo

passo, senza certezze di metodo, senza una strada precisa, disponendosi ad affrontare tutti

i possibili incontri che sempre un percorso comprende, inclusi gli errori che normalmente si

possono fare. Non esiste una metodologia che sia in assoluto migliore di un’altra, pertanto è

buona regola affidarsi a quella che convince gli attori organizzativi in quel momento e che

corrisponde alle loro intenzioni, ovvero al loro modo di intendere dimensioni e aspetti

incontrati.

2. Le persone fanno la differenza

Le organizzazioni tendono sempre più ad aprirsi al contesto e, nel contempo, a

guardarsi dentro, per percepire ogni più piccolo stimolo proveniente dall’esterno e

dall’interno: ogni indicazione può divenire fonte di miglioramento dei processi, dei prodotti,

dei servizi. Occorre grande capacità nel rendere sempre più flessibili le proprie strategie

aziendali, per reagire ed armonizzare queste, in tempi sempre più rapidi, con i cambiamenti

in atto.

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La necessità di aprirsi sempre più al mondo esterno spinge le organizzazioni

pubbliche a utilizzare strumenti e metodologie inusuali in tali contesti, dopo una loro efficace

rivisitazione e messa a punto ai fini operativi: assessment center (Majer, 1991), career

counseling (Rastelli, 1995), affiancamento, stage all’estero. Questa tendenza potrebbe forse

ravvivare la concezione dell’organizzazione pubblica (ma anche privata) come spazio aperto

ai fini educativi/formativi, come luogo istruttivo e pure orientativo, per la conoscenza e la

sperimentazione diretta di un lavoro che piace, o per decidere di cambiare mestiere.

Una consapevolezza sembra ormai radicarsi anche nei contesti organizzativi pubblici:

l’idea che il capitale umano costituisca il vero e proprio motore dell’innovazione. Le persone,

e non la tecnologia, fanno la differenza. Un capitale intangibile, costituito da

professionalità, conoscenze e capacità organizzative, cultura imprenditoriale che si

sedimenta e si rinnova. Il trend deve naturalmente riconnettersi alla necessità di operare con

modelli organizzativi flessibili, in continuo ascolto esterno/interno, di elaborare ed

implementare continuamente conoscenze spendibili immediatamente o nel medio termine.

Nella società postindustriale centrata sulla conoscenza, diviene essenziale il

collegamento tra dimensione cognitiva e dimensione comportamentale, tra momento

conoscitivo e momento operativo, nell’intesa che l’azione stessa è fonte di conoscenza. Ci si

allontana sempre più dalla filosofia tayloristico-fordiana della divisione tra progettazione ed

esecuzione (nella società della conoscenza, siamo tutti pagati per pensare), e il costrutto di

apprendimento che nasce dall’agire è centrale nel concetto di learning allargato. Gli attori

organizzativi, nel loro quotidiano agire, forniscono all’organizzazione dati, informazioni,

riflessioni, scoperte, valutazioni, esperienze preziose, che si possono capitalizzare,

codificare, divenendo patrimonio comune sino a ricomporsi in mappe valoriali (ma anche in

metafore organizzative) che possono dare non poco impulso e indirizzo all’azione

organizzativa (Alessandrini, 1995; Tomassini, 1993; Merlino, Del Santo, 1996; Vino, 1996;

Storlazzi, 1995).

Questo significa spendere energie per integrare aspetti hard (strutturali) e soft

(culturali), per tenere in equilibrio, da un lato la sperimentazione di (nuovi) assetti

organizzativi, di modelli di organizzazione del lavoro, di gestione e valorizzazione delle

risorse umane, l’acquisizione strutturata di competenze tecnico-professionali, con, dall’altro

lato, gli aspetti più strettamente culturali e relazionali. Equilibrio tra i momenti del sapere, del

saper fare e del saper essere, rivalutando il campo delle esperienze e dei sentimenti. Questo

significa pure riscoprire, per non sottovalutare la complessità della questione, il significato

semantico più profondo del termine “valutazione”, che non è affatto sinonimo di misurazione,

richiamando piuttosto il concetto, l’idea di dare, appunto, valore, ossia attribuire significato a

fatti, dati, informazioni. Così inteso, il termine valutazione non è concettualmente molto

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lontano dal termine “valorizzazione”, di cui abbiamo brevemente discusso nella parte

introduttiva). Il valore, evidentemente, non è dato individuabile a tempo indeterminato,

poiché è sempre un rapporto: è l’insieme delle qualità di una persona o di una cosa in

relazione con la misura dell’apprezzamento che se ne fa. In questo senso, un’azione ha

valore solo e in quanto strettamente connessa ai risultati attesi.

Il riferimento proposto di necessaria armonia e integrazione tra aspetti hard e aspetti

soft, rischia di sottolineare troppo l’aspetto funzionale di inserimento/adattamento degli attori

e dei gruppi nell’organizzazione: fondendo, omogeneizzando credenze, valori, miti;

sollecitando senso di appartenenza e identificazione con l’entità sovraindividuale; riducendo

e contenendo il peso e la misura delle identità e delle differenze in nome, appunto,

dell’integrazione organizzativa (Avallone, 1994, 25). Ciò può essere vero, tuttavia se da un

lato sembra almeno in parte inevitabile, per non dire assolutamente da condividere, che gli

attori partecipino attivamente ai destini dell’organizzazione (se non altro perché da questi

derivano i propri, di destini, come uomini dell’organizzazione); dall’altro è pur vero che il

riferimento proposto tende comunque ad incrementare l’elaborazione soggettiva, aiutando

l’individuo ad ampliare le possibilità d’azione, di scelta, di crescita, e dunque può

considerarsi coerente con la nuova società ad alta intensità di intelligenza e di conoscenza

(D’Egidio, 1996, 56). Si è anche parlato nei termini di processo di socializzazione, anche se

in un’accezione che travalica i confini dell’organizzazione, intendendolo come il percorso in

forza del quale le persone acquisiscono saperi, competenze, disposizioni comuni, tali da

renderli a pieno titolo individui, cittadini, lavoratori, nelle diverse aggregazioni sociali e nella

società tutta (Depolo, 1988, 11).

La vita postmoderna sembra esplicitarsi proprio nel ritorno alla centralità

dell’individuo; valorizziamo la soggettività e la volontà, il gesto non meccanico, non di

routine, in ogni campo del sapere e dell’azione. Volere è potere, diceva Machiavelli.

L’immaginario kafkiano è obsoleto. Le organizzazioni sono fatte di persone che pensano,

desiderano, sperano, lottano, soffrono e, così facendo, costruiscono i destini aziendali, a tutti

i livelli. Così come desiderano e lottano in tutti gli altri spazi del sociale. Chi costruisce il

proprio destino nell’organizzazione, lo costruisce in famiglia e in tutti gli altri luoghi della vita

quotidiana.

Ciò detto, vorrei ricordare che in tema di gestione e valorizzazione delle risorse

umane c’è sempre la tentazione di dare “ricette”. La domanda, più o meno, è sempre la

stessa: qual è il modo migliore per gestire e valorizzare le persone? La risposta è immediata

quanto facile: non c’è, in assoluto, un modo migliore di gestire e valorizzare le persone; così

come non c’è un modello organizzativo buono per tutte le stagioni. Non esistono ricette. Di

fronte ad una domanda di tal genere, non possiamo che rispondere: dipende...

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Dipende da dove siamo, da qual è il nostro contesto organizzativo, da quali sono i

nostri obiettivi, le nostre strategie e le modalità di azione per raggiungerli; dipende da dove

vogliamo andare, da quale futuro prefiguriamo per la nostra organizzazione, e con chi

intendiamo procedere verso nuove mete. Non c’è un’organizzazione migliore di un’altra: le

organizzazioni devono semplicemente essere adeguate agli ambienti. Ripeto, non ci sono

ricette e l’unica ricetta possibile è proprio che non esistono ricette.

3. La valorizzazione delle persone tra motivazione, clima e necessità di gestione

Proverò a dare alcuni spunti di riflessione, che sicuramente, in larga misura, sono già

oggetto di vostra attenta osservazione. Quindi, non dirò cose originali, bensì vi proporrò un

percorso personale, che nasce anche dalle mie esperienze professionali.

Nella prima parte presenterò alcune idee e concetti (tre coppie-teorie), ampiamente

diffusi nel mondo delle organizzazioni. Con un’avvertenza: quando parlo di idee e concetti e

quindi, di teorie, ne ho, e dunque intendo darne, una visione concreta: non esiste niente di

più pratico di una buona teoria!

Nella seconda parte del mio intervento riporterò, invece, alcune osservazioni frutto

della riflessione sulle logiche concrete d’azione nella vita organizzativa, con particolare

riferimento al ruolo del capo come snodo fondamentale per assicurare un buon clima

organizzativo e livelli accettabili di motivazione nei propri collaboratori. Anche in questo caso,

sono certo, saremo in sintonia, poiché le esperienze lavorative non sono poi così differenti

una dall’altra.

Anche le organizzazioni sono sempre più uguali, nel senso che hanno in comune

alcune ragioni. Ne accenno qualcuna. Le organizzazioni sono sempre più uguali una all’altra

perché tutte sono alle prese con la scarsità delle risorse (materiali, umane, tecnologiche),

con la produzione che da materiale diviene sempre più immateriale (la società dei servizi));

tutte hanno bisogno di un efficiente sistema informativo (la società dell’informazione), tutte

sono attraversate da una dinamica più o meno turbolenta di cambiamento (la società

dell’innovazione), tutte si trovano nella necessità di dare peso e senso alle persone che

lavorano attraverso la valorizzazione delle competenze professionali (la società della

conoscenza), come di un’idea portante, una visione d’insieme, qualcosa che leghi insieme

funzioni, attività, processi e ruoli diversi (la società dell’integrazione). Tutte le organizzazioni

devono poi immancabilmente presidiare la competenza distintiva delle persone e la loro

qualità professionale, e la capacità dell’organizzazione di esprimere un’identità, di esprimere

valori, e di indirizzare i comportamenti e le prestazioni delle persone intorno a questi valori.

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(Di fatto le organizzazioni sono comunque diverse una dall’altra, in quanto i fattori, le

componenti e gli elementi sopra richiamati nella realtà si intrecciano e si compongono in mix

organizzativi sempre differenti, in mix unici, irriducibili, di fatto, uno all’altro).

Le difficoltà che derivano dalle mutate condizioni ambientali, unitamente, alla crescita

quantitativa e qualitativa della domanda di servizi pubblici, stanno spingendo ormai da tempo

le organizzazioni pubbliche (OP) alla ricerca di modelli di gestione che permettano di

coniugare l’efficacia dell’azione sociale con accettabili livelli di efficienza. Si tratta, in

sostanza, di un processo di transizione verso assetti più evoluti e meno tradizionali o

spontanei rispetto al passato.

Le discipline aziendali rappresentano una fonte preziosa di conoscenza ed

esperienza per favorire questo processo, a patto che il loro impiego sia mediato da una

puntuale, attenta considerazione delle specificità delle OP. Dati i caratteri distintivi, la

soluzione ai problemi di gestione delle OP non deve passare automaticamente dalla pura

imitazione di modelli manageriali del mondo delle imprese, ma può altresì svilupparsi

secondo percorsi originali, più vicini alla propria cultura. Ciò non toglie che l’esperienza

maturata nel privato costituisca, di fatto, un riferimento importante per il pubblico.

Vorrei dunque proporvi un’ulteriore percorso di lettura per la gestione e la

valorizzazione delle persone nel pubblico, utilizzando alcune considerazioni ben noto nel

campo delle organizzazioni senza scopo di lucro (OSSL): associazioni di volontariato,

organizzazioni non governative, ecc.

E’ opinione dominante che nelle OSSL, in quanto a modelli di gestione e

valorizzazione delle persone, prevalga nettamente il modello del controllo normativo. Il

modello del controllo normativo non ha a che fare con i sistemi e le strutture, ma con le

persone. Il controllo è normativo quando è radicato nei valori e nelle convinzioni delle

persone: sono gli atteggiamenti che contano, non i numeri.

Il modello normativo è caratterizzato da cinque elementi chiave:

• selezione: le persone vengono scelte in base ai valori e agli atteggiamenti;

• socializzazione: le persone si sentono parte di un sistema sociale integrato;

• orientamento: avviene per principi accettati piuttosto che mediante piani imposti,

attraverso visioni piuttosto che per obiettivi;

• responsabilità: le responsabilità sono condivise da tutti. Le persone ricevono fiducia e

sostegno dai capi, i quali praticano uno stile di gestione che attinge soprattutto

dall’esperienza.

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• valutazione: le prestazioni e i risultati vengono valutati da persone esperte, inclusi i

fruitori dei servizi.

Il motto del modello del controllo normativo sembrerebbe a prima vista quello di:

selezionare, socializzare, valutare. Ma l’elemento chiave è la dedizione e il senso di

appartenenza e il controllo si basa principalmente sul rispetto dei valori condivisi. Il modello

poggia sulla condivisione della missione istituzionale e dunque l’organizzazione del lavoro

che ne risulta è poco gerarchica e molto flessibile.

Il consenso dei collaboratori sulla strategia, che nelle OOSSL è dato più o meno per

acquisito, per le imprese, ad esempio, è spesso questione assai problematica. L’attivazione

del consenso e della partecipazione dei dipendenti attorno agli obiettivi aziendali, così ardua

nel mondo delle imprese, nelle OSSL è invece fattore costitutivo e determinante che precede

(e non segue) la strategia. Facilmente, anzi, la strategia stessa è l’espressione formale di

questo comune impegno, piuttosto che il risultato finale di un processo decisionale guidato

dal vertice.

Queste osservazioni spingono a ritenere che, ripeto, i sistemi di gestione delle OSSL

debbano essere sviluppati a partire dalle peculiarità culturali e organizzative proprie, anziché

dalla semplice trasposizione di modelli e soluzioni nati altrove. La cultura organizzativa delle

OSSL riguarda i valori condivisi e dominanti che connotano l’agire dei suoi componenti, a

partire dai capi. Tali valori nelle OSSL sono di norma più espliciti e formalizzati che in molte

imprese e vengono enunciati sia negli statuti che nei documenti ufficiali. Tra questi, un ruolo

fondamentale è rivestito dai valori guida che improntano la cultura e lo stile di gestione

dell’organizzazione.

Anche la cultura organizzativa è molto differente da quella dominante nelle imprese:

nelle OSSL, infatti, la cultura dell’impegno predomina nettamente su qualsiasi forma di

cultura della prestazione. Questo fatto, se da un lato favorisce e premia l’impegno dei

componenti sugli obiettivi, dall’altro rende decisamente più vischioso il processo di

determinazione degli obiettivi stessi, ma soprattutto non agevola il sistema di

programmazione e controllo. Questi ultimi fattori sono invece molto importanti nel caso delle

OP e invito perciò ad una accorta riflessione sul come, se del caso, utilizzare il modello

proposto.

Sotto il profilo organizzativo, poi, le OSSL presentano caratteristiche di complessità

difficilmente comparabili con quelle connaturate sia nelle imprese (di più), sia nelle OP (ma

qui le analogie sono superiori). E’ possibile infatti rilevare che le OSSL:

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• presentano il problema del mantenimento di un clima efficace in particolare per il

coinvolgimento dei volontari; è necessario creare e mantenere un ambiente di lavoro

amichevole, fondato su un clima di socievolezza, motivante, capace di rinnovare

continuamente i motivi ideali che legano il singolo individuo all’organizzazione;

• si giovano del contributo di un complesso di risorse umane alquanto articolato, con tipi

differenti di rapporto con la struttura e con gradi diversi di coinvolgimento nelle sue

attività: dipendenti, professionisti esterni, volontari con diversa intensità di impegno,

sostenitori a vario titolo, persone che vivono e lavorano sia all’interno che all’esterno

dell’ente;

• richiedono in ogni caso un alto grado di motivazione personale agli operatori e

collaboratori, in quanto si basano essenzialmente su incentivi impliciti: la condivisione

degli obiettivi organizzativi, la positività del lavorare insieme, in un clima informale e

amicale; mentre hanno generalmente difficoltà ad attivare incentivi di tipo esplicito

(materiale);

• implicano una forte collaborazione e interazione reciproca, che non può essere prodotta

attraverso rapporti gerarchici di tipo tradizionale.

Se ci pensate, le OSSL sono oggi più che mai attraversate da un paradosso di fondo:

per raggiungere i propri obiettivi, devono adottare gradi più elevati di formalizzazione, ma,

quanto più si formalizzano, tanto più perdono quelle connotazioni relazionali che ne

assicurano lo spirito, la missione, le motivazioni ultime.

In questa situazione, raggiungere un equilibrio dinamico non è semplice, né agevole poiché

un eccesso di informalità può provocare un deficit di competenza professionale, mentre un

eccesso di formalizzazione comporta rigidità, spersonalizzazione, perdite motivazionali e di

senso da parte delle persone. Problematiche, queste, come sapete meglio di me, molto

sentite nelle OP.

Concludendo, il problema rilevante della capacità di far convivere partecipazione e

motivazione da un lato, e gestione efficiente dall’altro, come condizione di successo

organizzativo, rimane. Così come la questione della crescita dimensionale, che può essere

vista come fattore che da un lato favorisce l’autonomia, l’efficienza e l’affidabilità delle

organizzazioni, ma che dall’altro rischia di deprimere il radicamento sociale, il senso di

appartenenza e la fluidità delle relazioni interne.

Veniamo dunque alle tre coppie-teorie. Prima di far questo, segnalo brevemente tre

teorie classiche, che costituiscono ancora oggi delle felici intuizioni. Queste teorie, esplicitate

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negli anni ’40 e ‘50 dalla psicologia umanistica nordamericana, possono ben costituire una

sorta di cornice di senso entro la quale muoversi.

3.1 Le teorie della psicologia umanistica nordamericana

Secondo il primo modello oramai storico, le persone chiedono all’organizzazione la

soddisfazione di una serie di bisogni che qualificano variamente i singoli individui anche in

relazione alla situazione ambientale contingente (Riprendo qui un lavoro elaborato dal

Network per la Qualità in Università).

In dettaglio, le persone chiedono soddisfazione rispetto ai bisogni di:

Bisogni delle persone Possibili risposte organizzative

nell’organizzazione

sussistenza (alimentazione, livelli di retribuzione sufficienti a

abbigliamento, abitazione, hobby, consentire l’acquisto dei beni e dei

vacanze) servizi necessari; miglioramento delle

condizioni di lavoro; più tempo libero

sicurezza (sul posto di lavoro, del adozione dei sistemi più avanzati

posto di lavoro, sicurezza sociale per garantire la sicurezza sul posto

durante il lavoro) di lavoro; investimenti capaci di

assicurare la competitività prospettica

dell’organizzazione; conoscenza delle

scelte aziendali, trasparenza, sincerità,

franchezza, costanza; benefici

supplementari in termini di servizi quali,

ad esempio, baby sitting

socialità (necessità di sentirsi parte di stile direzionale di tipo partecipativo,

un gruppo, cioè legati ad altri individui ricorso a gruppi di lavoro,

da interessi, sentimenti, credenze comuni) condivisione dei valori aziendali, lealtà

nella competizione, ascolto delle

esigenze, diritto di sbagliare,

considerazione del ruolo e della persona,

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umanità, aiuto, sviluppo della personalità,

rigore, clima organizzativo affidabile

stima e affermazione (aspirazione a coerenza, valutazione delle

riscuotere la stima di altri e a collocarsi in performance, adeguamento delle

posizione di preminenza nella classe sociale competenze, riconoscimenti e

di appartenenza) premi, attenzione alle esigenze,

partecipazione, disponibilità

autorealizzazione (desiderio di vedere competenze per la ridefinizione del

realizzate le proprie capacità professionali lavoro, responsabilità, cambiamenti

e personali) nel lavoro (flessibilità), condizioni per

l’apprendimento organizzativo e la

creatività, riconoscimento della

personalità, clima aziendale stimolante,

partecipazione ai risultati

Veniamo ai principi della seconda teoria classica, per i quali:

• il lavoro per l’uomo è importante, è un fatto naturale quanto lo svago o il riposo;

• l’uomo può esercitare l’autodisciplina, quindi per lavorare non deve essere né

controllato né minacciato;

• l’uomo è disposto ad accettare le responsabilità per autorealizzarsi;

• l’immaginazione, la fantasia, la creatività e la capacità innovativa sono ampiamente

diffuse tra i lavoratori e possono essere utilmente convogliate in un processo di

miglioramento continuo;

• le potenzialità medie delle persone nell’organizzazione sono utilizzate solo per una

minima parte.

La terza teoria prevede la distinzione tra fattori igienici e fattori motivanti:

• fattori igienici sono quelli la cui assenza genera insoddisfazione, ma la cui presenza non

genera soddisfazione (ad esempio: il livello salariale, l’ambiente, la sicurezza del posto di

lavoro);

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• fattori motivanti sono quelli che, invece, creano soddisfazione (ad esempio: il contenuto

delle mansioni, il riconoscimento del lavoro svolto, il senso di crescita professionale, il

senso del successo).

3.2 Le teorie: oggettivazione e soggettivazione, ovvero organizzazione concepita e

organizzazione percepita

L’assunto contenuto nel termine a destra fa riferimento ad un’organizzazione che

schiaccia le persone. Un’organizzazione dura e oggettiva che determina il comportamento

umano, gli ambiti del fare, le carriere, i rapporti e le relazioni sociali all’interno

dell’organizzazione stessa. La razionalità sta tutta nell’obiettivo del massimo rendimento

come asservimento delle persone alle esigenze strutturali e tecnologiche.

Un’organizzazione, al fine, insensibile ai bisogni umani. Un’organizzazione concepita come

data, che preesiste alle persone e a cui non è concesso apportare alcuna modifica.

Un’organizzazione dove il senso e i significati dell’agire sono già pre-confezionati e alle

persone non resta che farli propri, come quando si indossa l’abito di un lontano (e ricco)

parente.

Spostandomi sul versante opposto, della soggettivazione e del mondo percepito,

voglio riconoscere e sottolineare che il senso e i significati dell’agire organizzativo non

dipendono da una realtà esterna, dura e immodificabile, se non per alcuni trascurabili

dettagli, ma che, al contrario, il senso e i significati vengono continuamente attribuiti,

arricchiti, addirittura modificati dai soggetti. Voglio riconoscere e affermare che le strutture, i

processi, i rapporti all’interno dell’organizzazione vengono plasmati dall’azione umana: le

strutture, i processi e le relazioni riflettono le intenzionalità dei soggetti!

Le persone non possono fare a meno di pensare, di leggere e interpretare la realtà,

di tendere verso qualcosa per loro più congeniale, più vicino, più soddisfacente. Il soggetto,

in questo senso, per ragioni intrinseche e costitutive, è sempre e comunque (in ogni

situazione sociale) un produttore di conoscenza. Le persone tendono a creare la realtà nella

quale agiscono. La realtà non è altro che un flusso di esperienze a cui le persone danno di

volta in volta senso attraverso scansioni, differenze, raffronti, selezioni, interpretazioni.

Ciascuno di noi attiva il proprio ambiente, non lo subisce quale realtà immanente.

Ruolo del capo nell’organizzazione concepita: se l’organizzazione non esiste al di là

del conferimento di senso da parte dei soggetti che ne fanno parte; se dunque nulla è

oggettivato, nulla è reificato, bensì tutto si ridefinisce continuamente, allora il primo e

fondamentale ruolo del capo diviene quello di creatore di senso e di significati nel quotidiano

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agire organizzativo. Assunto che le persone, sempre e comunque, interpretano e

costruiscono la propria realtà, che la loro presenza e il loro fare non sono mai asettici

rispetto ai fini, ai rapporti, ai processi e alle modalità d’azione, tanto vale che sia il capo, che

siate voi, a proporre e a dare senso e significato a tutto questo.

E’ un ruolo chiave, che voi dovete giocare, a vantaggio vostro in quanto capi, a

vantaggio dei vostri collaboratori e dell’organizzazione nel suo complesso. In questo ruolo

non siete necessariamente soli. Anche i vostri collaboratori, naturalmente, possono e

debbono contribuire al processo di scambio di idee ed esperienze, sino a prefigurare una

sorta di mente collettiva, di territorio in comune, di senso condiviso da dare alle intenzionalità

e alle azioni concrete, che costituisce peraltro, questione di non poco conto, un formidabile e

miracoloso farmaco contro il rischio sempre in agguato di un collasso organizzativo. Voi

siete dunque dei creatori di senso in prima persona e parimenti avete il compito di facilitare e

agevolare la creazione di senso da parte dei vostri collaboratori.

Dare senso e significato all’azione organizzativa delle persone significa recepire,

diffondere e consolidare valori, obiettivi, comportamenti, buone pratiche; significa valorizzare

l’apporto dei vostri collaboratori, favorire la loro crescita in termini di conoscenze, capacità e

qualità personali. Un ruolo e un lavoro duro e difficile, ma importante. Una sfida sicura per

voi e per tutti noi.

3.3 Le teorie: individuo e organizzazione

Il rapporto tra individuo e organizzazione è un rapporto dinamico, un rapporto in

continua evoluzione, che non può essere mai dato per scontato. Il rapporto individuo-

organizzazione si fonda sulla relazione sempre mutevole tra due fattori essenziali: la

relazione contributi-incentivi; contributi del singolo che, a fronte dei quali, si aspetta

(legittimamente) da parte dell’organizzazione, altrettanti incentivi. Incentivi sia materiali, sia

immateriali.

Questo rapporto, evidentemente, muta profondamente da organizzazione a

organizzazione, da persona a persona, da momento a momento: proprio per questo non è

possibile darlo per scontato una volta per tutte. Da parte del capo l’equilibrio e una buona

relazione tra i due fattori è, in verità, una conquista quotidiana.

Dalla centralità della relazione individuo-organizzazione, dalla percezione che di quel

rapporto ogni singolo individuo ha all’interno dell’organizzazione, nasce la centralità del

fattore equità. Equità nel dare e nel ricevere, si potrebbe dire semplificando al massimo.

Fattore equità come ago della bilancia rispetto allo scambio incentivi e contributi.

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L’equità all’interno dell’organizzazione può assumere tre dimensioni:

• distributiva: a parità di contributi distribuisco pari incentivi, in genere economici;

• procedurale: le regole, scritte e non scritte, devono valere per tutti; le decisioni devono

essere trasparenti. I nostri collaboratori ci guardano e ci giudicano su questo. La

leadership ci viene data dagli altri; c’è un leader solo se c’è qualcuno che lo segue;

• seriale: lo scambio incentivi-contributi non è necessario che sia equo in ogni momento,

ma è necessario che lo sia in un intervallo di tempo. Oggi ti chiedo questo, anche se non

posso darti niente in cambio immediatamente; e tu lo fai ugualmente perché sai che

domani potrai ricevere qualcosa, hai fiducia, sai che questo è il sistema e sai che viene

rispettato…

Connesso all’equità seriale, il concetto di equità di gruppo. Quando sono in un gruppo,

non mi interessa sempre sapere se avrò un vantaggio diretto, perché so che se da una certa

azione deriva un vantaggio al gruppo, prima o poi qualcuno del gruppo darà un contributo

che sarà di vantaggio a me. Salta, anche in questo caso, il concetto di temporalità tra

incentivi e contributi; salta il concetto del tornaconto diretto tra il mio contributo e il mio

vantaggio diretto.

3.4 Le teorie: risultati e valori

Questa dei risultati-valori è una coppia imperfetta, nel senso che i due termini

costituiscono i due poli di uno stesso continuum solo in senso lato. Anche il mondo delle

imprese è oggi particolarmente sensibile e attento a coniugare i due termini: non basta

raggiungere i risultati concordati, occorre raggiungerli all’interno di alcune regole culturali

proprie dell’organizzazione.

Un buon capo, in FIAT, non solo deve perseguire con tenacia gli obiettivi, ma deve

giocare le sue carte nel rispetto di alcuni valori fondamentali che costituiscono limiti

inderogabili per chiunque voglia rimanere e fare carriera nell’azienda. In FIAT, come in molte

altre grandi imprese, è stata elaborata una carta dei valori della leadership, che comprende

fattori-guida quali l’integrità, la ricerca del confronto, la propositività, la competenza, la

tempestività, la volontà di superarsi. I fattori-guida sono regole comportamentali che devono

“illuminare” la vita lavorativa.

Puntare sui valori significa giudicare i collaboratori sulla base del fatto che i

comportamenti posti in essere siano compatibili con le regole condivise, e non sulla base dei

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risultati ottenuti. Molte organizzazioni, al limite, non accettano ottimi risultati raggiunti in

modo non compatibile con il sistema di valori condiviso...

I valori costituiscono uno dei strumenti chiave per la gestione e la valorizzazione delle

persone. Nel continuo processo di differenziazione e integrazione caratteristico di ogni

organizzazione, il sistema dei valori costituisce, forse, il più raffinato meccanismo di

coordinamento.

Per ricomporre e integrare le differenti azioni all’interno dell’organizzazione, il

meccanismo di integrazione più antico del mondo è la gerarchia, il sistema dei ruoli, la figura

del capo. Cosa fa un capo se non coordinare gli sforzi dei suoi collaboratori e raccordare

questi con gli sforzi complessivi dell’organizzazione? Altri usuali meccanismi di

coordinamento sono costituiti dalle norme, dalle procedure, dalla stessa tecnologia, che oggi

è divenuta sistema di integrazione per antonomasia.

Spesso comunque capi, norme, procedure, tecnologie non bastano a garantire una

sufficiente integrazione e questo avviene normalmente quando l’organizzazione opera in un

ambiente fortemente mutevole. Se diviene difficile o addirittura impossibile ipotizzare con

buona approssimazione come si comporteranno gli altri (l’ambiente esterno, i concorrenti, i

clienti), allora sarà altrettanto difficile o impossibile simulare in anticipo come ci

comporteremo noi stessi. In questi casi diviene essenziale puntare sulle strategie.

Le strategie organizzative sono linee di comportamento che definiscono obiettivi

operativi e criteri di comportamento che indirizzano l’azione di ciascun attore organizzativo

per il raggiungimento dei risultati attesi. Per funzionare al meglio come meccanismi di

integrazione, le strategie devono però essere conosciute, anche se non necessariamente

condivise da tutti, e ciò perché l’attenersi alle strategie presuppone un comportamento attivo

da parte degli attori. Nel caso della gerarchia, delle norme, delle procedure e della stessa

tecnologia è, invece, sufficiente un comportamento passivo per garantire comunque

l’integrazione. Come è facile immaginare, la differenza è tutt’altro che secondaria, tant’è che

per molte organizzazioni solo programmi e strategie sono in grado di garantire un valido

sistema di coordinamento.

L’ultimo, ma non meno importante, meccanismo di integrazione è rappresentato

proprio dai valori e dalla condivisione, all’interno dell’organizzazione, di un determinato

sistema di valori. La rilevanza del sistema dei valori generalmente si esprime in due modi:

• il sistema fa leva sui valori finali, sugli ideali e le prospettive ultime dell’organizzazione;

• il sistema fa leva sui valori più propriamente professionali, che hanno a che fare con

l’insieme delle conoscenze, capacità, modalità d’azione apprese attraverso l’esperienza

e il fare professionale. Il giocatore di calcio sa che non è opportuno trattenere la palla più

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di tanto; la sua professionalità gli dice che è il gioco di squadra il valore aggiunto per il

successo della squadra.

Se mettiamo insieme le due modalità con le quali si presenta e agisce un sistema di

valori come meccanismo di integrazione, ossia la modalità più generale e macro e la

modalità professionale, diviene evidente che tutte le organizzazioni in qualche misura

devono e fanno ricorso ai valori come meccanismo di coordinamento e di integrazione. Per

le osservazioni già riportate, non c’è dubbio che quest’ultima considerazione assume

particolare valore nel caso delle organizzazioni senza scopo di lucro, ma io penso anche e

non poco per le organizzazioni pubbliche.

Rispetto al ruolo del capo, al ruolo di gestore delle risorse umane, non c’è altrettanto

dubbio che esso assuma particolari connotati proprio in ragione del sistema di valori

dominante. Se all’interno di un’organizzazione è fondamentale il ruolo dei valori come

efficace meccanismo di integrazione, il ruolo del capo si caratterizza per lo sforzo continuo

di:

• alimentare e consolidare il sistema dei valori;

• creare senso e significati per i propri collaboratori;

• costituire un ruolo-ponte tra i bisogni e i valori dell’organizzazione e i bisogni e i valori

delle singole persone;

• in ultima analisi, promuovere e mantenere un buon clima organizzativo e facilitare la

sedimentazione di processi motivazionali.

C’è peraltro una relazione inversamente proporzionale tra struttura e sistema dei

valori: se possiamo contare su un’organizzazione ben strutturata, possiamo permetterci il

lusso di non dare troppa importanza ai valori; se, al contrario, operiamo in un’organizzazione

che si regge su legami di tipo informale, allora dobbiamo puntare sulla creazione di senso e

significato per le persone.

Anche lo stile di leadership ne risente non poco: il capo deve dare una visione del

futuro dell’organizzazione fondata su valori condivisi. Il problema non sta più nel premiare i

comportamenti buoni e nello stigmatizzare quelli cattivi, ma nella condivisione di un terreno

comune di senso e significato.

3.5. Le pratiche. Motivare e gestire: il ruolo del capo

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Fare il capo non è facile. Fare il capo è difficile. Il capo non ha amici sul lavoro. Il

capo è comunque solo. Sono forse luoghi comuni, ma chi è capo, con questi luoghi comuni,

convive tutti i giorni.

Un capo non è un terapeuta, non è un analista clinico. Il capo non è un genitore, un

padre, una madre, un fratello. Voi non siete né genitori, né psicologi clinici e dovete

ricordarvelo nelle relazioni di lavoro. Potete e dovete essere certamente comprensivi e

aiutare e motivare i vostri collaboratori, ma non scordatevi che dai vostri collaboratori sarete

giudicati anche e soprattutto per la vostra capacità di realizzazione. Per la tenacia con la

quale perseguite gli obiettivi, per la capacità di creare visioni sul futuro dell’organizzazione e

di prefigurare percorsi stimolanti verso mete significative.

Sarete giudicati, in modo implacabile, sul rispetto da parte vostra, e per primi, del

sistema dei valori; sarete giudicati sul rispetto delle regole condivise, se date o meno il buon

esempio, si diceva una volta, ma l’affermazione non è mai tramontata. Per questo fare il

capo è difficile e comporta sforzo e attenzione quotidiani. Non siete capi una volta per tutte,

ma tutti i giorni; tutti i giorni il vostro ruolo può essere messo in discussione, se non

formalmente, certo informalmente. Non è (non è mai) una questione di autorità, ma di

autorevolezza; non è questione di potere, ma di considerazione.

Badate bene di non dare per scontato che tutti i vostri collaboratori siano a

conoscenza degli obiettivi e delle strategie organizzative. Come a dire: ci sono degli obiettivi

e dunque le persone naturalmente opereranno per raggiungerli, nel rispetto delle procedure

previste, utilizzando al meglio e in modo appropriato le tecnologie e il gioco di squadra,

individuando pure le strategie migliori, aderendo in pieno ai valori e alla cultura

dell’organizzazione… Può essere, ma non è automatico. Gli obiettivi vanno comunicati,

vanno dichiarati, magari più volte nel corso del tempo, affinché i vostri collaboratori sappiano

con precisione dove si vuole andare, quali azioni e verso quali direzioni è opportuno

muoversi.

Corollario: questo significa che non dovete dare parimenti per scontato che tutti i

diversi elementi dell’organizzazione (persone, obiettivi, struttura, meccanismi di integrazione,

ambiente) abbiano una coerenza interna tale da permettere il loro fluido ed efficace

combinarsi. Il mix va invece gestito in modo attento; siete voi che dovete coordinare i diversi

elementi, da voi dipende una loro soddisfacente integrazione.

Badate ancora a non dare altrettanto per scontato che tutti i vostri collaboratori siano

d’accordo su tutto e che quindi facciano gioco di squadra, si impegnino a fondo per il futuro

dell’organizzazione (ipotesi consensuale). Le organizzazioni, al contrario, sono sempre luogo

di (possibili) conflitti; i vostri collaboratori hanno le loro idee ed è meglio saperle e

confrontarsi, per trovare un comune terreno d’azione.

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Più in generale, diamo troppe cose per scontato. Che il nostro ruolo e il nostro potere

è indiscusso, che gli obiettivi siano pienamente condivisi, che le informazioni siano diffuse,

che tutti sappiano tutto quel che c’è da sapere, che il contesto muta, sì, ma poi non così

tanto rapidamente, ecc. Ebbene, ricordate che le organizzazioni sono delle astrazioni; le

organizzazioni non esistono al di fuori delle persone che quotidianamente le incarnano. E

dove ci sono persone, regnano sovrane le incongruenze, le incertezze, i comportamenti

imprevedibili. C’è, per così dire, una buona dose di imperfezione. Le organizzazioni non

sono costrutti perfetti, e a parte il detto popolare che afferma che la perfezione è nemica del

bene, una teoria più che accreditata ci ricorda, se ce ne fossimo dimenticati, che la nostra è

una razionalità limitata e non assoluta. Gli uomini sono imperfetti e le organizzazioni pure.

Continuiamo con le pratiche.

Dovete, dobbiamo, creare un clima di fiducia tra i nostri collaboratori. Se dobbiamo

fare un lavoro tutti insieme, la prima cosa che ci interessa sapere è che cosa sanno fare le

persone. Se cominciamo a pensare che i nostri collaboratori non sono abbastanza bravi o

tendono a lavorare di meno, rischiamo di instaurare sin da subito un clima di sfiducia. Inoltre,

è inutile concentrarsi sui vincoli: dati i vincoli che ciascuno di noi ha, è opportuno

concentrarsi su ciò che si può fare con le persone che abbiamo in questo momento.

Mettiamole alla prova, diamogli delle responsabilità, magari in modo diversificato: più

responsabilità a chi ritenete più bravo. Le persone vogliono essere messe alla prova,

vogliono capire chi sa fare le cose e qual è il modo migliore per farle. Assegnate compiti e

responsabilità in modo trasparente, sulla base delle competenze e dell’esperienza.

Esplicitate chiaramente cosa volete e, dunque, vi aspettate dai vostri collaboratori. Discutete

con loro delle azioni non andate a buon fine, sosteneteli nei momenti difficili. Dategli la

possibilità di sbagliare, ma non nascondete gli errori, fatene tesoro. Sbagliando s’impara!

Badate a non dare per acquisito il fatto che tutti i vostri collaboratori siano disponibili

in eguale misura ad usare e mettere a frutto le proprie capacità. Ciò va verificato, e può

essere oggetto di negoziazione tra voi e i collaboratori. Ricordate che le persone tendono a

mettere in gioco volentieri le loro competenze quando il capo se ne accorge! Quando il capo

si accorge della bontà del mio operato e del mio apporto alla causa comune. Non abbiate

timore di dire bravo! Può essere molto importante.

Le regole sono comuni e vanno rispettate da tutti, ma non tutti i vostri collaboratori

sono uguali; ciò significa che dovete attivare una pluralità di politiche del personale. Tra i

vostri collaboratori ci sarà chi apprezza soprattutto incentivi di tipo economico, altri di tipo

simbolico, altri ancora hanno bisogno e dunque prediligono rapporti improntati alla

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socievolezza, ecc. Non è possibile gestire al meglio persone diverse con azioni omogenee

sempre uguali a se stesse: il rischio è che, alla fine, scontentiate tutti. Certo, la teoria e la

pratica dell’equità organizzativa è un dato essenziale e assume valenza generale; tuttavia

dobbiamo prestare particolare attenzione alla diversità (e poi noi non siamo dei santi, siamo

uomini dell’organizzazione che hanno degli obiettivi da raggiungere); è dunque possibile che

anche un’azione poco equa sia altresì efficace, tenuto conto delle persone, dei loro diversi

bisogni.

Importante anche dare il senso del lavorare insieme, del lavoro di gruppo, dei risultati

come frutto del lavoro in comune, e non come proprietà di pochi o di qualcuno. Il segnale è:

l’apporto del singolo è importante, ma fondamentale è il risultato del gruppo. Si vince

insieme, non da soli.

Non potete creare motivazioni negli altri con la sola forza di volontà. La motivazione

non è un fatto di volontà, ma qualcosa che nasce dentro di noi, una porta che si spalanca

nel nostro cuore, piuttosto che nella nostra mente. Potete invece aiutare i vostri collaboratori

a trovare dentro di loro le motivazioni necessarie. Le motivazioni non si creano, si possono

cercare e al fine trovare. Dovete migliorare i vostri collaboratori, non soltanto utilizzarli.

Dovete contribuire alla loro crescita professionale e personale; dovete dargli il senso di un

percorso da fare, che si può essere, se si vuole, migliori. Dovete dirgli qual è il loro ruolo

attuale, quali possibilità possono aprirsi in prospettiva; dovete parlare e comunicare con i

vostri collaboratori. Dategli visibilità, fateli sentire utili e importanti. Voi siete il loro capo ed

hanno fiducia in voi: non trascurateli…

Insomma: avete il compito e la responsabilità di fare un patto con i vostri

collaboratori. Un patto non scritto, ma ugualmente importante e cogente. Un contratto legato

anche all’emotività: siete in grado di creare un’esperienza emotiva sul lavoro? Siete in grado

di far percepire che il contributo di un vostro collaboratore può modificare la situazione? Che

tipo di ricompense simboliche siete disposti a dare in cambio del contributo del vostro

collaboratore? Siete disposti a cercare e a dare qualcosa che sia di soddisfazione per le

persone che lavorano con voi? E per quanto tempo?

Il cambiamento è la grande scommessa di tutte le organizzazioni. Il cambiamento è

un processo lungo, doloroso, difficile, ma necessario, anche se molte persone tendono a

resistergli. Le organizzazioni non cambiano spontaneamente per la semplice, se volete ovvia

ragione, che sono state disegnate appositamente per garantire la stabilità.

Il cambiamento, a volte, ha bisogno di strappi. Strappi soprattutto di tipo simbolico,

che devono fare leva, per essere davvero efficaci, sul gruppo. La coesione del gruppo non è

una sciocchezza, può generare energia emotiva vitale. Per il cambiamento occorre

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assicurare un coinvolgimento adeguato; sono necessari tempo e attenzione per coinvolgere

attivamente le persone. E’ necessario esercitare una guida determinata e appassionata, per

tracciare il percorso del cambiamento. Le persone devono essere informate sul futuro. E’ un

compito duro e importante. Ed è un compito di tutti i capi, quindi anche vostro!

Grazie dell’attenzione.

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