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BERGOMUM Bollettino annuale della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo Anno CIV-CV ; 2009-2010

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BERGOMUMBollettino annuale della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo

Anno CIV-CV ; 2009-2010

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BERGOMUMBollettino annuale della Civica Biblioteca Angelo Mai di BergamoAnno CIV-CV ; 2009-2010

Direttore: Sandro BuzzettiPubblicazione annuale: ISSN 0005-8955Stampa: Artigrafiche Mariani & Monti srl - Ponteranica(Bg)

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Bergamo e la montagna nel Medioevo Il territorio orobico fra città e poteri locali

a cura di Riccardo Rao

Riccardo Rao, Presentazione

Gian Maria Varanini, Considerazioni introduttive

Aldo A. Settia, Insediamenti geminati nella Bergamasca altomedievale

Gianmarco De Angelis, Esordi e caratteri della presenza vescovile in area montana (secoli X-XII). Le modalità di costituzione del patrimonio fra dise-gni egemonici e concorrenze locali

Riccardo Rao, Il Monte di Bergamo e gli incolti collettivi della città (secoli XII-XIII)

Paolo G. Nobili, Comuni montani e istituzioni urbane a Bergamo nel Duecento. Alcuni esempi di un rapporto dal difficile equilibrio

Paolo Bianchi, Fra Bergamo e Brescia: poteri signorili tra Sebino e Valca-monica (XI-primi XIV sec.)

Gian Paolo G. Scharf, La difesa della proprietà negli statuti medievali della montagna bergamasca

Hitomi Sato, Fazioni e microfazioni: guelfi e ghibellini nella montagna ber-gamasca del Trecento

Alma Poloni, Comuni senza comunità. Villaggi scomparsi, iniziative co-munitarie e progetti imprenditoriali in Val Seriana superiore nel XIV e XV secolo

Giulia Belletti, Il peso della Dominante: Bergamo, la Val Seriana Superio-re e la Repubblica di Venezia nel XV secolo

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PRESENtAzIONE

Al tema delle relazioni fra Bergamo e la montagna è dedicato questo nu-mero monografico di Bergomum, che raccoglie, con le integrazioni costituite dai saggi di Giulia Belletti e Hitomi Sato, le relazioni presentate alla giornata di studi del 22 gennaio 2010. tale iniziativa è stata resa possibile grazie al sostegno del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università degli Studi di Bergamo e della Civica Biblioteca Angelo Mai, a cui va la mia viva riconoscenza. Esprimo inoltre un cordiale ringraziamento agli autori del volume e a Patrizia Mainoni, che ha partecipato all’incontro.

Come è stato sottolineato qualche anno fa da Gauro Coppola, le presenze urbane nelle valli “non sono fenomeni incistati in un modello ad essi estra-neo”: la relazione tra città e montagna è caratterizzata da elementi di organi-cità che, pur in una grande varietà di soluzioni che variano da centro a centro, non si limitano alle ambizioni di controllo politico e di coercizione delle po-polazioni contadine, ma affondano le radici nella società. A Bergamo, dove finisce la montagna e inizia la pianura, dove Val Brembana e Val Seriana si congiungono, si realizzano numerosi processi economici, sociali e ammini-strativi che regolano la vita nelle Orobie, differenti a seconda delle epoche. Qui si può concludere la filiera della produzione tessile. Qui possono trovare compimento i destini di molti uomini protagonisti nelle vicende delle Orobie: siano essi potenti (i cittadini titolari di signorie rurali nelle località d’altura e i maggiori lignaggi originari di queste ultime che decisero di inurbarsi) o miserabili (le numerose famiglie contadine che per sfuggire alla fame scelse-ro di emigrare a Bergamo, prima che tale meta divenisse meno attraente ri-spetto ad altre città venete e lombarde). Qui furono elaborati alcuni strumenti amministrativi, quali le calcationes, penetrati nel corso del Duecento nella cultura del governo locale per regolare la gestione dei beni comuni, risorse fondamentali per le comunità orobiche.

Per ricostruire dinamiche così complesse si è reso necessario prestare un’attenzione privilegiata alla ricchissima documentazione inedita sulla mon-tagna bergamasca, conservata per lo più nei maggiori archivi cittadini (ecco un altro riflesso delle notevoli interazioni tra città e montagna): le esplorazio-ni compiute con pazienza dagli autori del volume nei cospicui fondi della Bi-blioteca Civica Angelo Mai, dell’Archivio Diocesano e dell’Archivio di Stato – che si auspica possano continuare e intensificarsi in futuro – contribuiscono a disegnare in maniera nitida un territorio montano vivace, dove la città è

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protagonista attiva, ma non riesce a fare valere le stesse regole applicate con disinvoltura in pianura. La capacità urbana di plasmare il distretto nelle valli si affievolisce e si disperde di fronte al dinamismo locale.

Naturalmente il bilanciamento di questo rapporto, così mutevole, varia a seconda delle epoche. Nel caso bergamasco, gli sviluppi tre e quattrocente-schi appaiono addirittura dissonanti rispetto alle politiche cittadine sul terri-torio montano della piena età comunale. Mano a mano che si procede verso la fine del medioevo, l’iniziativa della città perde vigore. Pur con risultati contraddittori, il comune podestarile aveva dispiegato potenti forme di go-verno del territorio, costringendo in più occasioni le comunità montane ad adeguarsi alle forme urbane: per una breve stagione era parso persino pos-sibile imporre a pendii scoscesi e boschi la geometria regolare della griglia amministrativa cittadina. A tale periodo segue quello dello stato regionale, altrettanto innovativo sul piano della sperimentazione territoriale, ma meno interessato a ribadire i vincoli di subordinazione del contado alla civitas. In mezzo, a cavallo tra Due e trecento, l’esplosione del conflitto fazionario e la crisi del comune sembrano segnare il tramonto di qualsiasi progetto di organizzare con efficacia le valli e l’irriducibilità degli spazi montani nel si-stema distrettuale cittadino. Coltivato attraverso forme meno nette sul piano istituzionale, grazie all’iniziativa delle famiglie e delle fazioni, e complicato dalla mediazione della dominante, non venne, però, a meno l’intenso scambio tra città e montagna.

Riccardo Rao (Università degli Studi di Bergamo)

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Gian Maria Varanini

CONSIDERAzIONI INtRODUttIVE*

1. Propongo qualche riflessione preliminare a questa giornata di studi de-dicata a Bergamo e alla sua montagna senza avere nessuna competenza nel campo specifico, e anzi senza essermi mai occupato espressamente di storia bergamasca, con una sola eccezione. Una quindicina di anni scrissi infatti un saggio introduttivo agli statuti quattrocenteschi della Val Brembana editi da Mariarosa Cortesi, inserendo quel testo nel rapporto complesso tra la città e il suo territorio e nel quadro ancor più complesso del rapporto triangolare con Venezia, all’interno dello stato territoriale veneziano1.

Da allora la ricerca su Bergamo e sul suo territorio, e sulle relazioni tra Bergamo e il suo territorio, ha fatto molti passi avanti, sia per l’età medievale che per la prima età moderna, sotto diversi profili: avvalendosi anche – a monte – della solidissima premessa costituita dalle ricerche di storia comu-nale di François Menant2. Verso la fine degli anni Novanta, è stata pubblicata una importante storia economica e sociale di Bergamo e del territorio berga-masco3; le ricerche di Patrizia Mainoni hanno fatto della storia del sistema fiscale bergamasco, sapientemente intrecciata con la storia politica e sociale, un punto di riferimento significativo per chi indaga questo aspetto cruciale della transizione dal comune allo ‘stato regionale’4. Anche per l’esistenza di queste solide premesse, negli ultimissimi anni pure il Quattrocento ‘venezia-

* Ripropongo, ampliate, le considerazioni svolte all’apertura della giornata di studio te-nutasi a Bergamo il 22 gennaio 2010. Sono corredate da un apparato di note molto sommario (e sbilanciato, per la parte dedicata al Veneto, da una autoreferenzialità della quale voglio scusarmi). Ringrazio Edoardo Demo, Patrizia Mainoni e Riccardo Rao per alcune osserva-zioni importanti.

(1) G.M. Varanini, La tradizione statutaria della Val Brembana nel Trecento e Quattro-cento e lo statuto della Val Brembana superiore del 1468, in Gli statuti della val Brembana superiore del 1468, a cura di M. Cortesi, Bergamo 1994, pp. 13-62.

(2) F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen Age. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xème au XIIIème siècle, Rome 1993.

(3) Tra i contributi utili nella prospettiva che qui interessa, cfr. L. PezzoLo, Finanza e fi-scalità a Bergamo (1450-1630), in Storia Economica e Sociale di Bergamo, 3, a cura di a. De MaDDaLena, M. Cattini, Bergamo 1994, t. II; i. PeDerzani, L’organizzazione amministrativa del territorio: Venezia e la Bergamasca, ivi, 2, t. II, Bergamo 1995, pp. 145-174.

(4) P. Mainoni, Economia e politica nella Lombardia medievale. Da Bergamo a Milano fra XIII e XV secolo, Cavallermaggiore (Cn) 1994; eaD., Le radici della discordia: ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XV Secolo, Milano 1997.

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no’ ha potuto essere egregiamente approfondito5. Da queste ricerche quattro-centesche, e in particolare dalla monografia di Paolo Cavalieri, è uscita con-fermata una volta di più la natura estremamente composita di quell’aggregato di contadi e di territori, tra di loro difficilmente comparabili, che convenzio-nalmente si definisce “stato di terraferma”: ma che per lungo tempo (per certi aspetti, per sempre: né il discorso vale soltanto per la Lombardia veneta, ma a fortiori riguarda il territorio al di qua del Mincio) non ha un’anima, una ragion d’essere unitaria che non sia la comune, ma differenziatissima nelle forme e nella sostanza, soggezione a Venezia6.

In anni recenti, si è però consolidata anche un’altra prospettiva di ricerca. Le indagini che ho appena menzionato mantengono in effetti al centro del loro interesse (e si tratta, è bene ribadirlo, di una linea d’indagine tutt’altro che esaurita) il rapporto tra centro e periferia nello stato tardomedievale ita-liano, milanese o veneziano che sia: anche se si tratta nella valutazione storio-grafica attuale di formazioni politiche tra di loro molto diverse, diversamente deboli, caratterizzate – potremmo dire – da forme di statualità pallida e ane-mica; formazioni politiche che si reggono su una contrattazione continua tra le istanze del centro politico (la corte sforzesca, o la Dominante veneziana) e i diversi soggetti assisi sul territorio. Altri studiosi invece, rielaborando quest’ultima prospettiva e coordinandola con la tematica del ‘comunitari-smo’ che si è sviluppata nella storiografia (soprattutto di lingua tedesca) sui territori transalpini tra medioevo ed età moderna7, hanno per certi versi ro-vesciato l’ottica, ponendo al centro le istituzioni alpine osservate per così dire iuxta propria principia. Si è superato l’approccio dualistico città-contado, per assumere una visione di sistema. E di questo sistema si è studiato il forte dinamismo economico; si sono approfondite le relazioni (migratorie, cultura-li) intra-alpine, in direzione est-ovest e ovest-est (e non solo il saldo negativo, in termini di uomini e di risorse, nei confronti della pianura); si è sottolineata fortemente la ‘novità’ dei linguaggi politici che queste comunità hanno elabo-rato, la varietà e la forza delle loro istituzioni comunitarie e rappresentative. Per quello che riguarda il versante meridionale delle Alpi, nella prospettiva

(5) P. CaVaLieri, “Qui sunt guelfi et partiales nostri”: comunità, patriziato e fazioni a Bergamo fra il XV e XVI secolo, Milano 2008.

(6) G.M. Varanini, La Terraferma veneta nel Quattrocento e le tendenze recenti della storiografia, in L’ombra di Agnadello. Venezia e la Terraferma, Atti del Convegno, Ateneo Veneto, 14-16 maggio 2009, a cura di M. GottarDi, in corso di stampa; G.M. Varanini, La Terraferma di fronte alla sconfitta di Agnadello (1509), in Nel V centenario della battaglia di Agnadello, Atti del Convegno, Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, 15-16 ottobre 2009, in corso di stampa.

(7) Mi limito a citare P. BLiCkLe, Kommunalismus. Skizzen einer gesellschaftlichen Or-ganisationform, München 2000.

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ora indicata costituiscono un punto di riferimento imprescindibile le indagini complesse e suggestive di Massimo Della Misericordia, in particolare la mo-nografia (dedicata alla Valtellina) Divenire comunità (2006) e una più recente indagine sulla comunità di Dalegno ma in realtà sull’intera Valcamonica8. In tali lavori lo studioso valtellinese ha assunto – andando alla ricerca di ‘model-li’ diversificati di rapporto tra demografia, insediamento, territorio – diversi termini di riferimento comparativo: alla Valtellina (fortemente policentrica) e alla Val Camonica (caratterizzata da una molto maggiore unità istituzionale, politica, economica e culturale) specularmente presenti nelle due indagini ha aggiunto in particolare la Val d’Ossola (egemonizzata da un centro egemone come Domodossola). Ma anche le vallate e le montagne bergamasche sono parte integrante del sistema integrato costituito dal versante meridionale del-le Alpi, in particolare per quanto riguarda le reti economiche e commerciali, con Lovere, Gandino e Clusone che si pongono nel Quattrocento come “vere e proprie metropoli commerciali della montagna bergamasca”.

Sono ricerche che hanno bisogno assoluto anche di una notevole attitudi-ne comparativa, nel primo caso incentrata piuttosto sulla dinamica politica e sociale interna di quella articolatissima ‘comunità di diversificate comunità’ che è la Valtellina tardomedievale. Ed è ovvio che in questo caso la città resti sullo sfondo, o per meglio dire sia ricacciata sullo sfondo quando il dialogo politico da bipolare diventa tripolare. Nel secondo caso, come suggerisce il titolo stesso (“I nodi della rete”), ciò si manifesta con una maggiore attenzio-ne al sistema economico e sociale costituito dal versante meridionale della catena alpina e prealpina lombarda e veneta, alla rete della quale anche l’alta Val Camonica è una maglia; e anche in questo caso è comprensibile che la città (Brescia, innanzitutto, ma anche Bergamo e in misura minore il siste-ma urbano veneto) siano degli interlocutori nel dialogo, dialogo nel quale il terzo interlocutore, cioè la autorità politica sovracittadina (Venezia) è debole o lontana.

Orbene, il programma di questo convegno non ignora le relazioni che le comunità montane bergamasche stringono con i poteri sovracittadini nel corso del trecento e del Quattrocento, e i loro destini nello stato regionale; a questa tematica rinvia in particolare l’intervento di Alma Poloni9. tuttavia, il

(8) M. DeLLa MiseriCorDia, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano 2006; iD., I nodi della rete. Paesaggio, società e istituzioni a Dalegno e in Valcamonica nel tardo medioevo, in La magnifica comunità di Dalegno. Dalle origini al XVIII secolo, a cura di E. Bressan, Ponte di Legno-Temù (Bs) 2009, pp. 113-352.

(9) Che si è soffermata su queste tematiche anche in altre ricerche: a. PoLoni, “Ista fa-milia de Fine audacissima presumptuosa et litigiosa ac rixosa”. La lite tra la comunità e i da Fino nella val Seriana superiore degli anni ’60 del Quattrocento, Clusone (Bg) 2009;

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focus è posto sulla fase cronologicamente precedente. Si indagano infatti in via preferenziale le relazioni binarie tra la città e la montagna nel Duecento e primo trecento: dunque in età comunale (con qualche risalita anche all’età precedente), prima che il potere visconteo scombini un rapporto che forse si avviava a un assestamento, soffiando – ad esempio – sul fuoco delle fazioni. Si approfondisce il momento costitutivo di quel sistema, che si inserisce poi – con esiti peculiari – nella reticolarità quattrocentesca. Mi è sembrato dun-que utile richiamare in apertura gli elementi strutturali, di carattere geogra-fico e demografico che caratterizzano questo rapporto. Riprenderò in parte le categorie assunte dal Della Misericordia, ma allargherò anche il quadro comparativo al diverso ‘modello’ di organizzazione sociale ed economica della società prealpina, e dalle diverse modalità di inserimento delle comuni-tà montane nella compagine del distretto cittadino, che si riscontra nelle città venete (in primis Verona e Vicenza).

Ancora un’ultima considerazione preliminare, per certi aspetti scontata. L’adozione di una prospettiva che privilegia la visione dall’interno alla storia del territorio, delle istituzioni, della società, della cultura montana non è un fatto improvviso, e non è iniziata ieri. Se volessimo recuperare le vecchie formulazioni di un grande studioso di storia alpina recentemente scomparso, Jean-François Bergier, si è andati in direzione delle Alpi vissute, piuttosto che delle Alpi traversate. Indicativa è per esempio la titolatura di un paio di volumi dedicati alle Alpi e promossi dal GISEM, il Gruppo Interuniversitario per la Storia dell’Europa Mediterranea coordinato da Gabriella Rossetti, con-cepiti tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta: la nozione di ‘area di civiltà’ si è affiancata a quella di ‘regione cerniera’, conferendo dunque in qualche modo autonomia a un’entità che precedentemente non la aveva10. La trasformazione si coglie anche all’interno dell’inesauribile e tradizionale filone di ricerche sulla mobilità alpina. Alla prospettiva nord-sud sulla quale si imperniò ad esempio il volume Comunicazioni nel medioevo a cura di Siegfrid de Ra-chewiltz e Josef Riedmann ancora alla metà degli anni Novanta11, si affianca così la prospettiva ‘di sistema’, e la molta maggior attenzione alle relazioni intra-alpine in direzione longitudinale, in direzione ovest est piuttosto che est-ovest. Nella stessa direzione, e sempre come ‘derivato’ dell’attenzione

Storie di famiglia. I Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo, Songavazzo (Bg) 2010.

(10) Lo spazio alpino. Area di civiltà, regione cerniera, a cura di G. CoPPoLa, P. sChiera, Napoli 1991; Le Alpi medievali nello sviluppo delle regioni contermini, a cura di G.M. Va-ranini, Napoli 2002.

(11) Comunicazioni e mobilità nel medioevo. Incontri fa il Sud e il Centro dell’Europa (secoli XI-XIV), a cura di s. De raChewiLtz, J. rieDMann, Bologna 1997 (ediz. orig. 1995).

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al mondo alpino in sé, si colloca il tema dell’autocoscienza – anche su que-sto piano! – delle comunità alpine. Lo prova il recente (2007) Vie di terra e d’acqua. Infrastrutture viarie e sistemi di relazioni in area alpina curato da Gauro Coppola e dal vecchio Bergier12: fino a qualche anno fa, sarebbe stato difficile leggere, trattando di comunità rurali e del controllo e della manuten-zione delle strade montane, che questo tipo di ricerche “nasce all’interno di una ricerca sulle culture politiche espresse dalle comunità rurali nei secoli centrali del medioevo”13.

2. tra gli elementi strutturali che concorrono a sagomare il rapporto fra Bergamo e il territorio montano, differenziando in modo sostanziale questo specifico caso dagli altri termini di riferimento lombardi e veneti, e irrobu-stendo le maglie bergamasche della rete alpina, va considerata in primo luogo la demografia e la struttura degli insediamenti. Sulla popolazione di Ber-gamo sino al Quattrocento non sappiamo nulla, e anche per quel secolo – a parte la stima di circa 7.500 abitanti attorno al 1430 – non vi sono dati, sicché resta una mera ancorché fondata ipotesi l’aumento della popolazione a partire dalla seconda metà del Quattrocento (secondo una tendenza generalissima, valida largamente in Italia e in Europa) sino a raggiungere i 25.000 abitanti nella seconda metà del Cinquecento. Il dato è decisivo, se rapportato alle dimensioni dei centri minori del territorio prealpino, come ha mostrato Della Misericordia14. La taglia demografica di Bergamo è 3 o 4 volte superiore a quella di Gandino, o di Clusone. Al contrario Brescia ha una popolazione enormemente superiore in termini assoluti (sfiora o supera i 50.000 abitan-ti, alla fine del Quattrocento), ed è collettore di una cospicua immigrazione montanara. In termini relativi, poi, è tra 5 e 7 volte superiore ai centri minori del suo territorio, come potrebbero essere Orzinuovi o Rovato, e addirittura 19 volte superiore al centro montano più popolato (si tratta di Bagolino) e 27 volte superiore al maggior centro della Val Camonica. Se il numero è forza, e se l’egemonia politica è funzione anche della dimensione demografica, il confronto allora neppure si pone tra la grande metropoli della Lombardia orientale e altre città della fascia prealpina e Novara (che è appena il doppio di Domodossola, o non molto più), o Como, che ha dimensioni quadruple rispetto a Morbegno ma forse soltanto doppie rispetto a tirano e Sondrio (i

(12) Vie di terra e d’acqua. Infrastrutture viarie e sistemi di relazioni in area alpina (Secoli XIII-XVI), a cura di J.-F. BerGier, G. CoPPoLa, Bologna 2007.

(13) L. ProVero, Comunità montane e percorsi stradali nelle Alpi occidentali nel Due-cento, in Vie di terra e d’acqua, p. 123.

(14) Al quale rinvio anche per le referenze e per la discussione dei dati.

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centri principali di quella realtà giurisdizionalmente, politicamente e social-mente complicatissima che è la Valtellina tardomedievale).

Su questo piano risulta interessante anche il confronto con Verona e con Vicenza, che ho proposto sommariamente alcuni anni fa e che in questa sede riprendo15: un paragone proponibile, perché l’una e l’altra città ricomprende nel proprio territorio altipiani e massicci montuosi alquanto estesi – i monti Lessini e il monte Baldo, l’altipiano dei Sette Comuni – che superano o sfio-rano i 2.000 m di quota. Si può ben capire che non è privo di conseguenze per il rapporto fra città atesina e la montagna prealpina il fatto alla metà del Duecento il centro urbano abbia una popolazione fra i 30 e i 35.000 abitanti, e che nella forte ripresa demografica della seconda metà del Quattrocento sfiori o forse superi i 40.000 abitanti, quando Vicenza sfiora appena i 20.000. Quanto poi alla comparazione con i centri minori del distretto, è facile con-statare come Verona si accosti allo schema bresciano, e Vicenza piuttosto a quello bergamasco o comasco. Nel Duecento, i castelli o terre della pianura o della collina veronese che hanno una maggior consistenza demografica sono probabilmente Cerea (in pianura) e Grezzana (in collina), che non superano verosimilmente (adottando – per un calcolo grossolano ma in questa sede sufficiente – il consueto coefficiente di 4,5 teste per unità familiare) i 1.500 o 2.000 abitanti16: a parte ogni considerazione sulla dipendenza politica, la proporzione con la città capoluogo è al massimo di 1:17. E analoghi parametri riscontriamo nel Quattrocento, quando la terra più popolosa del distretto ve-ronese è con tutta verosimiglianza Legnago: col suo migliaio circa di abitan-ti, o poco più, la proporzione non si discosta molto da quella ora citata per la prima metà del Quattrocento (quando Verona non supera le 25.000 unità) ed è probabilmente alquanto più bassa alla fine del secolo, dopo la notevolissima impennata della seconda metà del Quattrocento (che secondo Herlihy portò quasi a un raddoppio della popolazione urbana, sino a superare o a raggiun-gere i 40.000 abitanti agli inizi del Cinquecento)17.

(15) G.M. Varanini, Le relazioni istituzionali ed economiche fra città e montagna sul versante meridionale delle Alpi orientali nel tardo medioevo: alcuni esempi, in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, n. 5, 2000, numero monografico Ville et montagne – Stadt und Gebirge, a cura di T. Busset e L. Lorenzetti, pp. 125-138. Per una di-scussione più analitica dei dati demografici, con rinvio alla bibliografia precedente, cfr. G.M. Varanini, La popolazione di Verona, Vicenza e Padova nel Duecento e Trecento: fonti e problemi, in Demografia e società nell’Italia medievale (secoli IX-XIV), a cura di r. CoMBa, i. naso, Cuneo 1994, pp. 165-202.

(16) G.M. Varanini, Le relazioni istituzionali… cit. (17) G.M. Varanini, B. ChiaPPa, s. DaLLa riVa, L’ anagrafe e le denunce fiscali di Legna-

go del 1430-32. Economia e società di un centro minore della pianura veneta nel Quattro-

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3. Del resto, senza indulgere semplicisticamente a banali determinismi geografici, proprio i casi veneti appena menzionato suggeriscono di ricordare quanto pesantemente l’estensione e la morfologia dei territori cittadini (assu-mendone convenzionalmente l’appartenenza diocesana e civile), nonché le caratteristiche geo-pedologiche, influenzino il rapporto tra città e montagna e orientino alla fin fine le dinamiche politico-istituzionali che caratterizzano le valli. Vediamo rapidamente i due esempi, sempre tenendo d’occhio la com-parazione con la Lombardia.

Per giungere a una quota altimetrica di 1.000-1.500 metri slm nei Lessini veronesi, percorrendo i solchi vallivi della Valpolicella e della Valpantena (che sboccano in pianura praticamente nel suburbio della città medievale), sono sufficienti 20 km circa; mentre da Brescia o da Como, e dalla stessa Bergamo, occorre percorrere distanze enormemente superiori. E un rilievo non minore ha l’estrema povertà di acque superficiali, dovuta al carsismo, che caratterizza le montagne veronesi e le vallate pedemontane (le citate Val-policella e Valpantena, ma anche la valle d’Illasi a est del centro urbano). Non a caso le cospicue risorgive che fanno da collettore alle acque provenienti dai Lessini e alimentano Fibbio (lat. – significativamente – Fluvius, che diede nome a una sculdascia nell’alto medioevo), che sgorgano a Montorio a pochi km dalla città, sono soggette allo stretto controllo delle istituzioni ecclesiasti-che e civili urbane e diventano dal secolo XII uno dei perni del notevolissimo sviluppo manifatturiero di Verona (soprattutto tessile, ma non solo).18 Non vi sono, nel pedemonte veronese, le condizioni perché si determini quel for-midabile sviluppo tessile (e minerario-metallurgico) che è facile riscontrare nelle prealpi bergamasche e bresciane; e la stessa risorsa legname, per gli alti costi di trasporto che l’impossibilità di fluitare determina, non può essere valorizzata. In sostanza, quel titolo-slogan “Una montagna per la città”, che proposi in una ricerca d’una ventina d’anni fa per caratterizzare il rapporto tra Verona e i monti Lessini (un rapporto che ha come perno l’allevamento e l’alpeggio), risulta ancora efficace19. Il popolamento scarso e tardo della montagna veronese (ove un insediamento stabile e fitto non è anteriore alla fine del Duecento, ed è in buona sostanza dovuto all’immigrazione dei coloni tedeschi provenienti dal Vicentino e/o dal territorio trentino; e per giunta si

cento, Verona 1997.(18) G.M. Varanini, Energia idraulica e sviluppo urbano nella Verona comunale: l’Adige,

il Fiumicello, il Fibbio (secoli XII-XIII), in Paesaggi urbani dell’Italia padana nei sec. VIII-XIV, Bologna 1988, pp. 331-372.

(19) G.M. Varanini, Una montagna per la città. L’alpeggio nei Lessini veronesi nel Me-dioevo (sec. IX-XV), in Gli alti pascoli dei Lessini veronesi. Natura storia cultura, a cura di P. Berni e u. sauro, Verona 1991, pp. 1-75.

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struttura in una miriade di minimi insediamenti contradali, di scarsissima consistenza)20, conseguenza e causa ad un tempo dello stato di cose sopra menzionato, è l’elemento che sigilla il quadro. E la porzione occidentale del territorio veronese (monte Baldo, Gardesana) ripresenta le medesime carat-teristiche (poca popolazione, poche risorse idriche e ubicate solo al piede dei monti, nella zona di Caprino Veronese)21.

Quanto al caso di Vicenza e delle sue montagne, la realtà più importante e più conosciuta è sicuramente l’altipiano di Asiago (che appartiene ecclesia-sticamente alla diocesi di Padova, un elemento distorsivo che esercita una certa influenza). Le caratteristiche geologiche di questo comprensorio (che copre la limitata superficie di 500 kmq) anche in questo caso condizionano in modo estremamente pesante la dinamica insediativa ed economica. Il car-sismo domina, e le acque si inabissano per ricomparire ai piedi della scarpata montana22. Fu soltanto nel XII-XIII secolo, per conseguenza, che si verifi-cò un progressivo “accerchiamento colonizzante” da parte delle istituzioni ecclesiastiche e delle famiglie signorili insediate nella zona pedemontana e nelle vallate collinari (ma anche dalle forze signorili trentine a ovest, e dal-le comunità del canale di Brenta ad est), integrata dalla strisciante (ma non esclusiva) immigrazione dei coloni tedeschi23. “Di questa semina”, di questi fitti rapporti che legavano tra di loro queste forze, il comune di Vicenza “fu pronto a raccogliere i frutti” nella seconda metà del Duecento, “rivendicando con vigore al proprio stato territoriale una montagna rimasta a lungo sfug-gente”, e impostando un rapporto che mantenne poi sempre l’altipiano all’in-terno del distretto (ad esempio dal punto di vista fiscale), anche se l’integra-zione non fu mai totale. La città era demograficamente modesta anche se non modestissima (come si è accennato arrivò forse attorno ai 18-20.000 abitanti

(20) Per questi aspetti cfr. in particolare G.M. Varanini, Note sull’insediamento nella montagna veronese nel Trecento, in Settecento anni di storia cimbra veronese, a cura di G. VoLPato (= “Terra cimbra”, n.s., n. 66-67, maggio-dicembre 1987), Verona 1988, pp. 31-57.

(21) Qualche spunto in G.M. Varanini, Allevamento ovino e produzione di panni di lana nel territorio gardesano ai primi del Quattrocento. I folloni di Caprino, in “Quaderni capri-nesi”, n. 5, 2010, pp. 9-19.

(22) u. sauro, Paesaggi scolpiti: fiumi, processi carsici e ghiacciai, in L’Altopiano dei Sette Comuni, a cura di P. riGoni, M. Varotto, Caselle di Sommacampagna (Verona) 2009, pp. 24-57.

(23) s. BortoLaMi, P. BarBierato, Storia e geografia della colonizzazione germanica me-dievale, in L’Altopiano dei sette comuni... cit., pp. 144-181 (citazioni – anche le successive – a pp. 160-161). Il contributo amplia e integra un’altra precedente, e altrettanto fondamentale, ricerca dello stesso autore: s. BortoLaMi, L’altipiano nei secoli XI-XIII: ambiente, popola-mento, poteri, in Storia dell’altipiano dei Sette Comuni, I, Territorio e istituzioni, Vicenza 1994, pp. 259-311.

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alla fine del Quattrocento24), e il distretto vicentino comprendeva molti co-spicui centri pedemontani e di pianura, alcuni dei quali alla fine sfuggirono al controllo urbano (in primis Bassano, che in qualche momento raggiunse una popolazione pari forse a un quinto della città). E dal Quattrocento (ma non prima) si sviluppò il classico rapporto triangolare tra capoluogo provin-ciale comunità montane e Dominante (poi esaltato da una sproporzionata capacità mitopoietica, che sviluppò la leggenda dell’autonomia montanara: ma anche sorretto oggettivamente da un certo ruolo strategico e di confine, anti-asburgico, che ebbe una sua concretezza).

Ma anche la consistenza demografica dei Sette Comuni vicentini è dav-vero piuttosto modesta (raggiungendo i 5.000 abitanti complessivi a metà Cinquecento)25, e dunque alla fin fine la montagna vicentina resta una realtà in qualche misura marginale, non troppo incisiva. Nel territorio vicentino, a partire dal Quattrocento saranno piuttosto i centri dislocati nelle vallate collinari a ‘crescere’ demograficamente ed economicamente in modo notevo-le, costituendo via via un tessuto produttivo di notevole importanza. Il caso più significativo è forse Arzignano, nella valle del Chiampo, che raggiunge i 2.000 abitanti alla fine del Quattrocento (e supera i 5.000 alla metà del secolo successivo); la sua cospicua produzione di pannilana trova sbocchi sul mer-cato veneziano26. Schio (oltre 2.000 abitanti alla fine del Quattrocento, come Marostica e Lonigo) è dal canto suo in grado di contestare il monopolio urba-no nella follatura dei panni27. È la disponibilità di energia idraulica, tutt’altro che trascurabile nei torrenti che solcano le vallate del Chiampo, dell’Agno, del Leogra, a ‘fare la differenza’ in termini di pre-condizioni strutturali, ri-spetto al territorio veronese. Qui del resto la città è così forte da impedire ai centri del distretto, nel Quattrocento, i modesti tentativi di introdurre la la-vorazione dei panni, distruggendo i folloni, oltre che sull’Adige (a Legnago), anche laddove nella fascia pedemontana le acque del tasso (per Caprino, alle pendici del monte Baldo) e del tramigna (per Soave) ne rendevano possibile l’installazione28.

(24) Marin Sanudo nel 1483 parla di 19.000 anime.(25) Il dato è fornito da un saggio importante, pur se centrato soprattutto sul momento

successivo: F. BianChi, Una società di montagna in una terra di confine: l’altopiano dei Sette Comuni vicentini, in Questioni di confine e terre di frontiera in area veneta. Secoli XVI-XVIII, a cura di w. PanCiera, Milano 2009, pp. 19-88 (p. 43 per il dato demografico).

(26) F. BauCe, Un caso di pluriattività economica in un centro minore nell’Italia set-tentrionale del Quattrocento, in “Studi storici Luigi Simeoni”, n. 57, 2007, pp. 41-71. Ad Arzignano si importa e si lavora anche lana spagnola e balcanica.

(27) È sufficiente in questa sede rinviare all’ampio quadro offerto da e. DeMo, L’“anima della città”. L’industria tessile a Verona e Vicenza (1400-1550), Milano 2001.

(28) Per i casi di Legnago (1436) e Caprino (inizi Quattrocento) cfr. rispettivamente G.M. Varanini, B. ChiaPPa, s. DaLLa riVa, L’ anagrafe... cit., pp. 80-81, e G.M. Varanini, Alle-

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4. Due conseguenze possono essere tratte da questa schematica analisi, prima di tornare alla situazione delle prealpi lombarde (che s’illuminano re-ciprocamente con le prealpi venete). La complessità delle relazioni economi-che e sociali che si intrecciano sul versante meridionale delle Alpi lombarde nel trecento e nel Quattrocento è tale da rendere inservibile un ‘modello’ elementare, binario, imperniato meccanicamente ed esclusivamente sul rap-porto città / contado che una tradizione storiografica antica ha per lungo tempo proposto, e che oggi ci appare superato nel quadro del depotenzia-mento complessivo del concetto di ‘stato’ che trent’anni di ricerche sul tardo medioevo italiano hanno prodotto29. Orbene, come i pochi schematici cenni che abbiamo dato suggeriscono, il modello ‘semplice’ del rapporto binario città-contado regge sostanzialmente per il territorio veronese, e in misura al-quanto minore per il territorio vicentino nel suo insieme. Questo non esclude, ovviamente, che almeno in parte anche l’opposto ‘modello’ della reticolarità, della spontanea vitalità delle relazioni economiche e sociali intra-montane, possa valere pure per questo ‘sistema’ montano: così ben individuato geogra-ficamente da importanti solchi vallivi (Valsugana e Canale di Brenta a nord e ad est, e Valdadige a ovest). In effetti la montagna veronese e quella vicentina sono un continuum all’interno del quale uomini e risorse possono circolare autonomamente, per forza propria. Su di esse gravitano in modo incisivo, per esempio, anche le forze signorili della Val Lagarina, come i Castelbarco e i da Beseno, insediate ai margini occidentali e settentrionali del comprensorio montano, che a loro volta (insieme con l’unico peraltro modesto centro semi-urbano della Val Lagarina in sviluppo nel Quattrocento, cioè Rovereto) eser-citano attrazione e influenza sulla porzione occidentale di questi comprensori montani (la Vallarsa, Folgaria)30. Ma è una circolazione tendenzialmente cir-coscritta, certo non chiusa ad influssi esterni ma severamente condizionata

vamento ovino... cit., pp. 9 ss. Per Soave, a fine Quattrocento, G.M. Varanini, Soave: note di storia medievale (IX-XV sec.), in Soave “terra amenissima, villa suavissima”, a cura di G. VoLPato, Verona 2002, p. 68 (la controparte sono in questo caso i veneziani Tron).

(29) Riguardo agli stati italiani del Tre-Quattrocento, mi limito a rinviare alla sintesi di I. Lazzarini, L’Italia degli stati territoriali. Secoli XIV e XV, Bari-Roma 2004. Per suggerire la diversità di orientamento e di ‘atmosfera’ maturata nell’arco di pochi anni rispetto a problemi contigui, mi limito ad una suggestione, contrapponendo il titolo di un mio saggio del 1994 (L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana nei secoli XIII-XIV. Marca Trevi-giana, Lombardia, Emilia, in L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania nel bas-so medioevo, a cura di G. ChittoLini e D. wiLLoweit, Bologna 1994, pp. 33-133) e l’approccio più morbido e sfumato, sin dal titolo, del volume Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura di L. ChiaPPa Mauri, Bologna 2003.

(30) Cenni in G.M. Varanini, Una valle prealpina nel basso medioevo. Linee di storia della Vallarsa (secoli XIII- XV), in Le valli del Leno. Vallarsa e valle di Terragnolo, Verona 1989, pp. 61-74.

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e attutita dall’influsso del potere cittadino perché almeno rispetto ai Lessini veronesi la calamita della metropoli atesina attrae fortemente gli uomini e le risorse31. Nulla di paragonabile, quanto a intensità e potenza dei flussi di uomini e di risorse, a quella realtà, appunto, reticolare, che nella sue diverse polarizzazioni (comasca, bresciana, ma anche bergamasca) Della Misericor-dia ha efficacemente ricostruito per la Lombardia.

Il vero problema interpretativo, e un nodo che resta parzialmente ancora da sciogliere (in parte, per la mancanza o l’insufficienza di ricerche analiti-che), è quello del ruolo delle montagne trentine nel ‘sistema’ economico e so-ciale che si viene disegnando nel tardo medioevo. Come è ben noto, e come io stesso ho richiamato in alcune ricerche, il rapporto tra la città di trento, de-mograficamente insignificante per i parametri padani anche se non per quelli alpini e transalpini (la città raggiunge forse i 5.000 abitanti solo nel Cinque-cento), è del tutto irrilevante: il comune cittadino in quanto tale controlla solo la ‘sua’ montagna, il contiguo comprensorio del monte Bondone, che ancor oggi fa parte del territorio comunale di trento, ma nulla più32. Più incisivo certo è il potere politico del principe vescovo, che controlla ad esempio le risorse minerarie. In un contesto di poteri alpini deboli, il territorio trentino aveva costituito nei secoli centrali del medioevo il retroterra dell’economia urbana veronese, un serbatoio di risorse umane e materiali, senza che queste relazioni si trasformassero mai, peraltro, in vera integrazione. Questo proces-so non s’interrompe del tutto nel tardo medioevo: anzi per quanto concerne Rovereto e con l’area lagarina si consolida, e qualche traccia si vede ancora bene nelle relazioni con la Val di Fiemme. Ma in linea generale, le vaste aree montane della destra orografica dell’Adige (le valli del Chiese e del Noce in particolare, ma con proiezioni significative anche verso Bolzano e il suo importante sviluppo commerciale) sono il partner ideale delle vitalissime società ed economie della montagna lombarda, e Della Misericordia ha avuto buon gioco a dimostrarlo sistematizzando una miriade di indizi eruditi. Si pensi, per non ricordare che un episodio, al ruolo che i Federici, la casata ari-stocratica che svolge un ruolo in qualche modo ‘egemone’ in Val Camonica, vengono ad esercitare in Val di Sole, al di qua del passo del tonale.

(31) Per i vari aspetti di questo insieme di fenomeni, cfr. alcuni miei interventi, purtrop-po tutti occasionali: Dal territorio vicentino a Trento, attraverso le Prealpi (da un registro di bollette del 1468-74), in “Cimbri-Tzimbar. Vita e cultura delle comunità cimbre”, n. 16, 2005, fasc. 34, pp. 11-22; Argento vicentino e preti veronesi. Una scheda d’archivio (1435), in Per Vittorio Castagna. Scritti di geografia e di economia, Verona 2000, pp. 405-413; Note sull’emigrazione dalla montagna veronese nel Quattrocento, in “Cimbri-Tzimbar. Vita e cultura delle comunità cimbre”, n. 4, 1994, fasc. 7 pp. 31-54 (con riferimenti sia alla città di Verona, sia alla Vallagarina).

(32) G.M. Varanini, Le relazioni istituzionali... cit., pp. 134-136.

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5. tenendo conto di queste considerazioni, si può ora ritornare al caso bergamasco. Gli esiti del processo sono indubitabili, e non privi di riscontri e di termini di paragone in altri contesti del versante meridionale delle Alpi. Ci troviamo di fronte un distretto cittadino per il quale è del tutto impropo-nibile, alla fine del medioevo, il ‘modello semplice’ e binario (città/contado: un modello del resto accertato e funzionante in pochi casi, anche se questo non significa che i ceti dirigenti di XII e XIII secolo non abbiano elabora-to progetti altamente significativi) dell’organizzazione territoriale di alcune città padane e toscane. Constatiamo l’esistenza di borghi popolosi e di isti-tuzioni di valle che sono in grado d’essere un interlocutore autonomo della Dominante veneziana, e che sanno giocare nella crisi delle guerre d’Italia tutte le loro carte. Constatiamo l’importanza formidabile della emigrazione dalla montagna bergamasca, che segna profondamente la composizione delle società urbana del Veneto al di qua del Mincio e genera famiglie che si illu-streranno come patrizie in seconda o terza generazione a Rovereto e nell’area trentina (i Rosmini-Serbati, i Giovannelli da Gandino, i Someda), a Verona (i Miniscalchi, i Serenelli da Gandino, i Carminati da Brembilla, i Cossali da Parre, e ancora i Gazzaniga, i Vertua, gli Algarotti), a Rovigo (i Roncale), a Venezia, per ogni dove. Rileviamo l’esistenza di famiglie e di gruppi sociali e professionali che si muovono con perfetto agio nel complesso, reticolare sistema delle relazioni economiche, sociali, politiche della montagna lombar-da (elaborando – anche – ‘linguaggi’ politici imperniati sul discorso della comunità e del bene comune). Naturalmente molti approfondimenti possono essere ancora fatti, e occorrerà un ripensamento complessivo, un ragiona-mento di sintesi; ma per il Quattrocento, a partire delle ricerche della Albini di una ventina d’anni fa33, validi studiosi locali come Silini e altri hanno già fornito una ricca messe di dati e di edizioni di fonti34, e Della Misericordia un convincente quadro interpretativo d’insieme.

Sulla forza complessiva dell’economia montana bergamasca, rispetto an-che a quanto accade a Brescia, lo studioso ora citato segnala del resto un dato eloquente, citando gli accessi alle fiere di Bolzano, tra il 1468 e il 1474. I cittadini bergamaschi che giungevano nella città tirolese erano infatti as-sai meno numerosi non solo dei distrettuali nel loro insieme, ma addirittura di alcune delle terre (come Gandino o Clusone) singolarmente considerate;

(33) G. aLBini, Contadini artigiani in una comunità bergamasca: Gandino sulla base di un estimo della seconda metà del Quattrocento, in “Studi di storia medioevale e di diploma-tica”, n. 14, 1993, pp. 111-192.

(34) Tra i vari contributi di questo autore, usciti a partire dagli anni Ottanta, mi limito a rinviare a G. siLini, E viva Sancto Marcho! Lovere al tempo delle guerre d’Italia, Bergamo 1992.

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mentre rovesciato è il dato concernente Brescia. E senza forzare troppo i parallelismi, è il caso di ricordare che a proposito delle due città venete che nelle pagine precedenti abbiamo soprattutto considerato la stessa fonte for-nisce una conferma di solare evidenza: i numerosi centri manifatturieri del distretto vicentino – ‘modello policentrico’ e diffuso – inviano a a Bolzano molti più mercatores di quanti non ne invii Vicenza, analogamente a quanto accade nella Bergamasca; mentre nel caso di Verona – ‘modello metropoli’ – la predominanza di chi proviene dalla città è schiacciante, come a Brescia35.

6. In conclusione, le domande da porsi, o meglio le domande alle quali fornire nuove risposte in questo incontro di studi, e in altri che auspicabil-mente seguiranno, sono dunque le seguenti: come si pongono i rapporti tra Bergamo e le montagne del territori bergamasco nel Duecento e nel primo trecento, prima che il dominio visconteo scombini le carte, alimenti le fazio-ni, riconosca come interlocutori e come soggetti politici (con ciò stesso dando loro forza e legittimità) quelle valli che poi nel Quattrocento troveranno spazi di autodeterminazione e di rafforzamento identitario (si pensi alle varie re-dazioni statutarie) nella lasca e indolente concezione veneziana dell’organiz-zazione territoriale? In qual misura si possono comparare la Val Brembana e la Val Seriana con la Valtellina dalla incerta unità e dal complesso assetto giurisdizionale? E con la Val Camonica dalla forte unità comunitaria, priva di una capitale (perché il ruolo di mercato, di sede giurisdizionale, di centro religioso sono equamente distribuiti tra i vari centri: “disseminazione delle eccellenze”36), caratterizzata da una parabola storica piuttosto lineare, con-dizionata nella sua economia dalla metropoli bresciana, e la Val Brembana o la Val Seriana, per menzionare soltanto le due realtà più complesse e più cospicue? Iniziano già a questa altezza cronologica i flussi migratori?

Su alcuni di questi temi, o su temi vicini e tangenti, non mancano per la Lombardia del Duecento e inizi trecento contributi recenti che aprono a una valutazione d’insieme37, e ricerche non ancora edite38. In questa sede, ritengo

(35) Per questi dati cfr. e. DeMo, Le fiere di Bolzano tra basso medioevo ed età moderna, in Fiere e mercati nella integrazione delle economie europee secc. 13.-18., Atti della trenta-duesima Settimana di studi, 8-12 maggio 2000, a cura di s. CaVaCioCChi, Firenze 2001, pp. 707-722; G.M. Varanini, Dal territorio vicentino... cit.

(36) L’efficace espressione è di M. DeLLa MiseriCorDia, I nodi... cit., p. 116.(37) P. Mainoni, La fisionomia economica delle città lombarde dalla fine del Duecen-

to alla prima metà del Trecento. Materiali per un confronto, in Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali, Atti del diciottesimo Con-vegno Internazionale di Studi tenuto a Pistoia nei giorni 18-21 maggio 2001, Pistoia 2003, pp. 141-221 (disponibile anche in www.retimedievali.it); Contado e città... cit.

(38) Mi riferisco alle indagini di Paolo G. Nobili, che interviene anche in questa occasio-ne. Cfr. P.G. noBiLi, Il secondo Duecento come soglia. La parabola del contado di Bergamo

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che forniranno elementi per la costruzione di una risposta tanto i contributi tendenzialmente centripeti, che promettono un riferimento più specifico e diretto ai poteri cittadini (il potere vescovile, i beni comuni ubicati nelle im-mediate vicinanze della città, il difficile disciplinamento dei comuni rurali), quanto i contributi che assumono un’ottica tendenzialmente centrifuga o che prescinde comunque dalla prospettiva urbana (il popolamento montano, i po-teri signorili nell’area lacustre, la società e le istituzioni della Val Seriana e le “origini dei comuni rurali” della montagna bergamasca).

tra l’apice dello sviluppo e l’inizio della crisi (1250-1296), Dottorato in Storia medievale, Università statale di Milano, XXII ciclo (2006-2009); iD., Vertova. Una comunità rurale del medioevo. Vita del territorio, economia agricola e governo locale in un villaggio lombardo nella seconda metà del Duecento (1279-1282), Firenze 2009.

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Aldo A. Settia

INSEDIAMENtI GEMINAtI NELLA BERGAMASCA ALtOMEDIEVALE

La crescita complessiva della popolazione italiana fra IX e XI secolo si rivela, anche nel territorio bergamasco, non solo con l’intensificarsi dei lavo-ri di bonifica e l’aumento dei fratelli viventi nella medesima famiglia1, ma anche attraverso altri indizi, sinora non considerati, come lo sdoppiamento di insediamenti, fenomeno certo diffuso anche nel resto dell’Italia settentrio-nale ma che, dalla metà del secolo IX in poi, sembra aver trovato particolare sviluppo proprio nell’area bergamasca, dove esso presenta effetti che durano ancora ai nostri giorni.

In realtà la geminazione di abitati, per lo più rilevabile solo attraverso la toponomastica, sembra fosse in atto già prima del secolo VIII: nel 774 tra i beni fondiari del gasindio taido si annovera infatti una porzione di casa massaricia “in fundo Curnascus”, toponimo che – come rilevò a suo tempo Angelo Mazzi – “per via del suffisso derivativo -asco”, si connette diretta-mente al nome dell’odierno luogo di Curno, attestato come sede di una curtis almeno dall’anno 8572, ma che, per aver dato origine al toponimo precedente, doveva essere alquanto più antico; lo stesso fenomeno è del resto ben attesta-

Abbreviazioni utilizzate:Pergamene 1 = Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 740-1000, a cura di M. Cortesi (edd. M.L. BosCo, P. CanCian, D. FrioLi, G. MantoVani), Bergamo 1988;Pergamene 2 = Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 1002-1058, a cura di M. Cortesi e A. Pratesi (edd. C. CarBonetti VenDitteLLi, R. CosMa, M. VenDitteLLi), Bergamo 1995;Pergamene 3 = Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 1059(?)-1100, a cura di M. Corte-si e A. Pratesi (edd. G. anCiDei, C. CarBonetti VenDitteLLi, R. CosMa), Bergamo 2000.

(1) J. Jarnut, Bergamo, 568-1098. Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nell’alto medioevo, Bergamo 1980 (edizione originale Wiesbaden 1979), pp. 170-171; cfr. anche, per i tempi successivi, F. Menant, Campagnes lombardes du moyen âge. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, pp. 70-72; sul fenomeno in generale L. reinharD, A. arMenGauD, J. DuPaquier, Storia della popolazione mondiale, Bari 1971, pp. 92-104.

(2) Rispettivamente: A. Mazzi, Corografia bergomense nei secoli VIII, IX e X, Bergamo 1880, pp. 207-208; Pergamene 1, doc. 19 (dicembre 857), p. 31; cfr. anche S. DeL BeLLo, In-dice toponomastico altomedievale del territorio di Bergamo. Secoli VII-IX, Bergamo 1986, pp. 68-70.

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to anche altrove3.Altrettanto e meglio documentato si presenta il caso di Bonate. Sin dal

745 il vir magnificus Rotoperto de Agrate aveva acquistato terra “in fundo Bonate” dove nell’ultimo quarto del secolo VIII il gasindio taido possedeva alquante case masserizie pertinenti a una sua corte, sommariamente descritta in quello che risulta, nello stesso tempo, il documento più antico conservato a Bergamo e il più completo nel caratterizzare una struttura curtense: vi si parla infatti di “domoras et singulas edificias simul et cases habitationis” per massari e aldioni con cortili, orti, aie e terreni recintati circondati da coltivi e incolti, tutti beni che il nostro gasindio intende, almeno in parte, lasciare in eredità alla locale chiesa di S. Giuliano, anch’essa dotata di casa e orto4.

Benché il luogo non sia qualificato come villaggio, l’insieme di abitazioni afferente alla corte e la presenza di una chiesa indicano il fundus di Bonate come luogo di una certa importanza abitativa ancora aumentata dal fatto che, come sembra accertato, proprio là, lungo il Brembo, la regina teodolinda aveva fatto costruire una seconda chiesa in onore di S. Giulia. Dal momento che chiese dedicate a S. Giuliano e a S. Giulia sorgono ancora oggi a Bonate Sotto si è giustamente ritenuto che ivi si trovasse la corte di taido; di là dove-va perciò provenire anche un “Deusdedit de Bonnate” menzionato nell’anno 8065.

Sino ai primi anni del secolo IX è quindi attestata l’esistenza di un solo villaggio così denominato, ma ecco una donazione di beni stipulata a Berga-mo il 16 giugno 856 e sottoscritta, fra altri, da un Anscauso “de Bonnate Su-periore”, lo stesso individuo che compare come estimatore di terre in un per-muta avvenuta, sempre in Bergamo, nel marzo dell’8676: in tale data dunque il Bonate attestato in precedenza non è più il solo abitato di questo nome, ma poco a nord di esso, e più in alto di qualche metro, era sorto un altro villaggio omonimo che, per distinguersi dal più antico, viene definito Superiore.

Nei decenni seguenti le attestazioni di persone che si denominano “de Bonate Superiore” si moltiplicano: eccone comparire nell’896, nel 929 e nel 9767; nel 919 sappiamo inoltre che nella “villa que dicitur Bonate Superiori”

(3) Cfr., ad esempio, A.A. settia, Chiese, strade e fortezze nell’Italia medievale, Roma 1991, p. 170: Cimenasco da Cimena; Quarlasco (Quadratulasco) da Quadratula.

(4) Rispettivamente: Codice diplomatico longobardo, a cura di L. sChiaPareLLi, I, Roma 1929, doc. 82 (aprile 745), p. 239; Pergamene 1, doc, 193 (maggio 774), p. 323; cfr. anche Jarnut, cit., p. 237; A. CastaGnetti, In margine all’edizione delle pergamene bergamasche. Economia e società, in Bergamo e il suo territorio nei documenti medievali. Atti del conve-gno, a cura di M. Cortesi, Bergamo 1991, p. 31.

(5) Rispettivamente: A. Mazzi, cit., pp. 104-105; S. DeL BeLLo, cit., pp. 38-41.(6) Pergamene 1, rispettivamente doc. 17 (15 giugno 856), p. 28 e 21 (marzo 867), p. 34.(7) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 33 (aprile 896), p. 53 (cfr. anche S. DeL BeLLo,

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si trova una chiesa di S. Maria in cui viene celebrato un placito vescovile: si tratta evidentemente della stessa basilica di S. Maria dove nel dicembre 870 era stata rogata una permuta, e nel 923 si terrà un altro placito presieduto dal conte di Bergamo; nel 976, infine, a un atto riguardante beni “in vico et fun-do” di Bonate Superiore vediamo sottoscritte più persone provenienti dallo stesso luogo8. Il fatto che la località venga ripetutamente scelta come sede di sedute giudiziarie e che sin da 962 ivi possedessero beni re Berengario II e sua moglie Villa9, può spiegare l’importanza che il nuovo villaggio aveva rapidamente acquistato rispetto al primitivo Bonate.

Dal 955 in poi le persone che di là provengono si definiscono ormai come “de vico Bonate Subteriore”10, ma altre che, negli anni 870, 898, 979 e 995 continuano a dirsi semplicemente “de Bonate” o “de vico Bonate”, non neces-sariamente sono da mettere in relazione con il villaggio primitivo: la mancata distinzione fra Bonate Superiore e Inferiore si giustifica perché alcuni dei do-cumenti menzionati sono rogati a Milano, a Pavia e a Imbersago, in territorio milanese, dove certo essa perdeva di significato11.

Nel 919 Bonate Superior viene definito esplicitamente villa, e Bonate Subterior è, a sua volta, detto vicus nel 95512: nel X secolo ciascuno dei due villaggi consta dunque di una propria organizzazione e fra di essi non esiste più alcun legame che non sia l’identità del nome. Come spiegare la ripetizione di quest’ultimo? Nessuna giustificazione esplicita si trova nei documenti, ed è perciò giocoforza procedere per semplici ipotesi.

La costruzione di una seconda chiesa accanto alla prima in tempi in cui gli edifici ecclesiastici erano ancora alquanto rari13, suggerisce che nel pri-mitivo Bonate fosse da tempo in atto un consistente aumento di popolazione. Nel mezzo secolo trascorso tra l’806 (ultima menzione di un unico Bonate) e l’856 (prima menzione di Bonate Superiore) gli abitanti del villaggio non cessarono probabilmente di moltiplicarsi e Bonate si potè così trovare nel-

cit., pp. 41-43); 77 (agosto 929), p. 125; 137 (marzo 976), pp. 226-227.(8) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 63 (novembre 919), p. 102; 22 (dicembre 870), p.

36; 65 (gennaio 923), p. 105, e 137 (marzo 976), pp. 226-227. (9) Ottonis I. diplomata, in Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, München

1980, doc. 272 (s.d., ma post 1° novembre 964), p. 387; cfr. anche A. Mazzi, cit., pp. 106-107.

(10) Pergamene 1, doc. 95 (maggio 954), p. 155.(11) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 22 (dicembre 870), p. 36; 35 (marzo 898), p.

57; 36 (marzo 898), p. 59; 128 ( 30 luglio 972), p. 206 (rogato a Milano); 143 (19 febbraio 979), p. 237 (rogato a Pavia); 167 (aprile 995), p. 273, 175 (29 gennaio 997), p. 286 (rogato a Imbersago).

(12) Pergamene 1, rispettivamente: doc. 63 (novembre 919), p. 102: “villa qui dicitur Bo-nate Superiori”; doc. 96 (luglio 955), p. 157: tale “de vico Bonate Subteriore”.

(13) Cfr. in proposito A.A. settia, Chiese... cit., pp. 9-11.

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la situazione di “isolotto sovrappopolato” constatabile in altri insediamenti dell’Occidente europeo dove la crescita biologica, stimolata dalla prosperità agraria, determinava l’accalcarsi di uomini ai limiti della povertà, mentre a breve distanza erano a disposizione spazi, se non del tutto vuoti, certo ancora scarsamente sfruttati14.

Si creavano così le premesse per il trasferimento della popolazione in soprannumero mediante una migrazione a breve raggio probabilmente as-secondata, se non sollecitata, organizzata e guidata, dall’iniziativa di grandi proprietari che possedevano aziende rurali fra loro vicine. I coloni usciti dal primitivo Bonate avrebbero così formato un nuovo centro abitato che, ripro-ducendo l’organizzazione e le istituzioni del villaggio di partenza, li indusse a conservare il suo nome.

Simili sdoppiamenti di abitati risultano alquanto diffusi in tutta l’Italia settentrionale, ma nell’area bergamasca, più spesso che altrove, essi sono contrassegnati dalla ripetizione pura e semplice del toponimo. La redupli-cazione di Bonate in Bonate Superiore è infatti solo il primo di numerosi altri casi analoghi che vengono via via addensandosi dapprima nella media pianura tra Adda e Serio.

Dopo Bonate ecco Osio. Il grande proprietario di nome Stabile, redigendo prima del’830 il proprio testamento, aveva lasciato al vescovo di Bergamo beni in un luogo denominato semplicemente Osio; l’11 settembre 875 sotto-scrive poi come teste ad altro testamento, un Benedetto de Osio15. Sino a quel momento si contava dunque una sola località di tale nome, ma già nell’aprile dell’896 ecco comparire in Bergamo come estimatore di terre un Garivaldo “de Osio Subteriore” località in cui, prima del 909, risiedeva anche un mas-saro del vescovo16.

Nell’aprile di quell’anno, sempre “in fundo Osio Subteriore”, lo stesso vescovo permuta beni con un sedime abitativo detto “sorte de Leonace”, atto cui presenzia, fra altri, un Garivaldo “de Osio Superiore”17. Non si può es-sere certi che si tratti dello stesso Garivaldo che pochi anni prima era in-dicato come “de Osio Subteriore”18, ma se così fosse avremmo, in questo caso, esplicita menzione di un uomo appunto migrato dal primo al secondo insediamento.

(14) Così G. DuBy, L’économie rurale et la vie des campagnes dans l’Occident médiéval, I, Paris 1962, p. 69.

(15) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 12 (1° agosto 830), p. 21; 24 (11 settembre 875), p. 39; cfr. anche S. DeL BeLLo, cit. pp. 109-110.

(16) Pergamene 2, doc. 285 (ante 909), p. 482.(17) Pergamene 1, doc. 47 (aprile 909), p. 75.(18) Vedi sopra testo corrispondente alla nota 16.

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Di fronte a un Aribaldo che negli anni 909-910 viene semplicemente designato come “abitator in Osio”19 si moltiplicano d’allora in poi i casi in cui Osio Superiore e Inferiore appaiono ormai due entità definitivamente separa-te20 come sono ancora oggi Osio Sopra e Osio Sotto, seppure divisi da scarso dislivello e da breve distanza.

Il fenomeno che vede due centri omonimi, differenziati da aggettivi indi-canti diversa posizione altimetrica, si riscontra nei decenni successivi anche per Alzano Superior e Subterior, distanti meno di un chilometro l’uno dall’al-tro e oggi unificati sotto l’ unico nome di Alzano Lombardo. In questo caso mancano attestazioni di un centro originario detto semplicemente Alesanum, e troviamo subito documentato nel 919 un Paolo “de Alesano Superiori” e poi, circa cinquant’anni dopo, un Pietro “de vico Alsano Subteriori”21, deno-minazioni che da allora si ripetono benché negli anni e nei secoli successivi compaiano sporadicamente anche attestazioni indistinte22.

Di poco più tarda sarebbe la suddivisione di Brembate. Negli anni 854 e 85623 si conoscono individui indicati semplicemente come de Brembate, ma ecco nel 959 altri che si definiscono “de Brembate Superiore”24 mentre nel 962 certi mansi appartenenti a re Berengario II risultano collocati in Brem-bate “di S. Vittore”, santo cui è ancora oggi dedicata la chiesa di Brembate un tempo detto Inferiore perché separato da Brembate Sopra non solo da un cen-tinaio di metri di dislivello, ma da una distanza di ben tredici chilometri25.

Il gioco dello sdoppiamento tuttavia non sempre riesce, come capita nel caso di Levate. L’esistenza di questo luogo è documentata per la prima volta nel testamento redatto dal diacono Stefano l’11 settembre 875 e continua dal 908 al 978 a essere indicato come vicus di Lavate26, ma in una permuta rogata in Bergamo nell’aprile del 975 compaiono un sedime abitativo, un campo e

(19) Pergamene 1, doc. 48 (febbraio 909-gennaio 910), p. 77.(20) Pergamene 1, docc.: 53 (1° ottobre 911), p. 86; 58 (aprile 915), p. 95; 71 (922-926), p.

115; 82 (marzo 941), p. 134; Pergamene 3, doc. 101 (maggio 1081), p. 169.(21) Pergamene 1, rispettivamente doc. 63 (novembre 919), p. 103 e doc. 116 (marzo 966),

p. 189.(22) Pergamene 1, docc.: 183 (21 maggio 998-21 maggio 999), p. 301: “in soprascripto

loco et fundo Alsano”; 188 (28 dicembre 1000), p. 310: “in Alesano Subteriore”; Pergamene 2, docc.: 18 (aprile 1010), p. 31: “de vico Alsano Superiore”; 57 (17 marzo 1021), p. 104: “de loco Alsano Subteriore”; 144 (24 luglio 1037), p. 251: “de loco Alesano Superiore”.

(23) Pergamene 1, doc. 16 (maggio 854), p. 27, e 17 (16 giugno 856), p. 29; cfr. S. DeL BeLLo, cit., p. 44.

(24) Pergamene 1, doc. 105 (maggio 959), p. 174.(25) Doc. citato sopra alla nota 9, e A. Mazzi, cit. pp. 106-107.(26) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 24 (11 settembre 875), p. 39; 44 (giugno 908), p.

70; 76 (aprile 929), p. 124: “de villa co clamatur Lavate”; 82 (marzo 941), p. 134: “in supra-scripto vico Lavate”; 136 (novembre 975), p. 225; 142 (maggio 978), p. 235.

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una silva castanea ciascuno dei quali ”dicitur Lavate Subteriore”27.tale denominazione, limitata a un solo sedime connesso a coltivi, sem-

bra dunque indicare che questa volta il progettato sdoppiamento non si era realizzato e che il sito destinato ad accogliere il nuovo insediamento era ri-masto deserto. Nei decenni successivi continuano infatti le attestazioni di un solo “locus et fundus” denominato Lavate28 e nel 1010 ritroviamo la dizione Lavate Subteriore applicata a un appezzamento di terra, probabilmente lo stesso di cui nel 1043 si dice che “fuit cortesicio” in “loco et fundo Lavate de Suto”29, confermando così che il tentativo era definitivamente abortito e di esso si conservava soltanto il ricordo toponimico.

In compenso verso la fine del secolo XI il locus di Lavate denuncia la tendenza, non attestata altrove, a suddividersi in diversi “cantoni”, ciascuno dei quali contrassegnato da un proprio nome: nel 1080 si ha infatti notizia “de canto dicitur Bualingo”, e nel 1091 “de cantone dicitur Summovico”30.

Occorre nondimeno guardarsi dal moltiplicare indebitamente i luoghi di nome Lavate: si è infatti scritto che non può trovare corrispondenza con l’odierno Levate il villaggio da cui proviene nel 929 teopaldo del fu Giovan-ni “de villa co clamatur Lavate super fluvio Addua”31. In realtà il documento in cui compare tale espressione risulta rogato a Gorgonzola, nel territorio milanese a destra dell’Adda e quindi, per il notaio Odelberto che lo redasse, il Levate bergamasco si trovava al di là del corso d’acqua: l’espressione “super fluvio X” (come si rileva senza difficoltà da un gran numero di attestazioni riguardanti il Po) significa infatti non già, come si potrebbe credere, “sulle sponde del fiume”, ma oltre di esso32. Non c’è dubbio quindi che si tratti sem-pre del medesimo Lavate e non di altra località omonima.

(27) Pergamene 1, doc. 135 (aprile 975), p. 222: sedime con un noce, otto appezzamenti arabili e una selva di castagni “quo habere visus est in vico et fundo Lavate. Suprascripto sedimen dicitur Lavate Subteriore (…), quinto campo dicitur Lavate Subteriore (…), supra-scripta silva castanea dicitur Lavate Subteriore”.

(28) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 142 (maggio 978), p. 235; 143 (9 febbraio 979), p. 236; 148 (gennaio 982), p. 244; 212 (ottobre 997), p. 358.

(29) Pergamene 2, rispettivamente doc. 20 (maggio 1010), p. 35: 4 appezzamenti di terra “in eodem loco et fundo Lavate, prima pecia est curtiva, dicitur Lavate Subteriore”; 278 (luglio 1043), p. 471: “pecia de terra que fuit curtesicio suprascripto loco et fundo Lavate de Suto”.

(30) Pergamene 3, rispettivamente doc. 239 (ottobre 1080), p. 377 e 261 (novembre 1091), p. 411.

(31) Così ha affermato L. PaGani, Problemi di identificazione toponomastica, in Bergamo e il suo territorio... cit., p. 113 e ivi, nota 39; per l’attestazione del 929 vedi sopra la nota 26.

(32) Basti qui rinviare ai casi relativi al Po riportati in A.A. settia, Il distretto pavese nell’età comunale: la creazione di un territorio, in Storia di Pavia, III, Dal libero comune alla fine del principato indipendente, 1024-1535, 1, Società, istituzioni, religione nell’età del comune e della signoria, Milano 1992, pp. 121-122.

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Nel secolo XI non mancano altre suddivisioni di insediamenti in Superior e Subterior ma che, per ragioni diverse, non trovano più riscontro in seguito. Uno di questi è Calusco, documentato almeno dagli ultimi decenni del IX se-colo in poi33 e qualificato nel secolo successivo come vicus o villa34; occorre nondimeno giungere all’ottobre del 1028 per trovare cinque abitanti “in vico Calusco Subteriore”, distinzione che si precisa nel 1068 quando compaiono persone “de loco Calusco Superiore”, e nel giugno dello stesso anno quando un gruppo di uomini concorda con i signori di stabilirsi “prope castro quod dicitur Calusco Supteriore”35.

L’avvenuto sdoppiamento continua a essere esplicitamente attestato, sep-pure con scarsa continuità, sin oltre la metà del trecento36, ed esiste tuttora per quanto celato da un cambio di toponimo: Calusco Inferior o Subterior ha infatti assunto, in epoca imprecisata, il nuovo nome di Baccanello37.

Fra tutti i documenti bergamaschi del secolo XI il “patto di insediamen-to” del 1068 relativo a Calusco è particolarmente importante perché è l’unico che ponga in primo piano un fenomeno probabilmente assai frequente anche se scarsamente documentato: uomini di diversa provenienza convengono con i signori di un certo luogo di spostare, entro un dato tempo, la loro residenza concentrandosi per formare un nuovo abitato.

Nel momento in cui il patto avviene la partizione di Calusco in Superior e Subterior è già un fatto compiuto, ma esso ci offre un raro esempio documen-tato di quegli spostamenti di popolazione a breve raggio che sono all’origine degli sdoppiamenti di cui ci occupiamo, normalmente avvenuti senza lascia-re alcuna traccia scritta; essi differiscono dal caso di Calusco soltanto perché gli uomini migranti provengono in maggioranza dal luogo che, dando origine al nuovo abitato, ne ripete il nome.

(33) Pergamene 1, docc.: 23 (28 febbraio 871), p. 37; 31 (luglio 886), p. 50; 33 (aprile 896), p. 53; 60 (aprile 917), p. 97; cfr. S. DeL BeLLo, cit., pp. 48-49.

(34) Pergamene 1, doc. 66 (gennaio-febbraio 924, p. 107: “de vico Calusco”; 69 (luglio 924), p. 112: “de eadem villa Calusco”, 82 (novembre 941), p. 133: “de Calusco”; 90 (luglio 952), p. 147: “de Calusco”.

(35) Rispettivamente Pergamene 2, doc. 83 (ottobre 1028), p. 147; Pergamene 3, doc. 36 (aprile 1068), p. 66; 37 (13 giugno 1068), pp. 68-69.

(36) Pergamene 3, docc.: 131 (maggio 1084), p. 213: “de loco Calusco Subteriore”, 207 (24 maggio 1099), pp. 324-325: “de loco Calusco”; 209 (5 maggio 1099), p. 329: “de loco Calusco”; 269 (febbraio 1096), p. 421: “de loco Calusco”; F. Menant, Fra Milano e Berga-mo: una famiglia dell’aristocrazia rurale nel XII secolo, in iD., Lombardia feudale. Studi sull’aristocrazia padana nei secoli X-XII, Milano 1992, Appendice documentaria, pp. 200-202, 205, 207, 210-211, 217; Lo statuto di Bergamo del 1331, a cura di C. storti storChi, Milano 1986, pp. 58 e 67; Lo statuto di Bergamo del 1353, a cura di G. ForGiarini, Spoleto 1996, pp. 379 e 384.

(37) F. Menant, Fra Milano... cit., pp. 134-135, nota 9.

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Secondo il consueto schema ebbe fortuna in Valseriana anche lo sdop-piamento di Cene: sino al 1035 non si conosce che un solo luogo così chia-mato, ma in tale anno Auberto del fu Raimondo da Mozzo dona ai canonici di Bergamo una sors con casa e massaricio posta “in loco et fundo Ceno Subteriore”38; designazioni analoghe si ripetono nel 1044 e 104539 e hanno ancora oggi riscontro nella bipartizione in Cene di Sopra e Cene di Sotto.

Se, in generale, il fenomeno della geminazione appare più precoce e più frequente nella media pianura, esso si ripropone poi, con esiti differenziati, anche nelle zone collinari e nelle valli alpine dove infatti si colloca, piuttosto tardivamente, il caso di Cenate in Val Cavallina. Benché il luogo sia docu-mentato sin dall’830, quando il grande proprietario Stabile possedeva, fra al-tro, una “casa sua de Cenate”, e non manchino le attestazioni in quel secolo e nei successivi40, non prima del secolo XIV – come scrive Angelo Mazzi – “fu smembrato il Superiore dall’Inferiore Cenate”. Nello stesso periodo gli statu-ti di Bergamo del 1331 ci mostrano in atto un’analoga divisione dell’odierno Chignolo d’Isola in Cuniolum Superior e Inferior della quale pure non si hanno notizie più antiche41.

Nella maggioranza dei casi sinora esaminati è attestato lo sdoppiamento di un abitato in due centri omonimi contraddistinti da aggettivi che ne indica-no la differenza sul piano altimetrico (Superior, Subterior); lo stesso fenome-no può però riguardare, anziché diversa altimetria, diverse dimensioni, come si constata nel caso di Verdello.

Il luogo, documentato dall’829 attraverso Valdone Alemanno “de Verdel-lo”, continua a essere attestato come tale numerose volte dal 955 al 108542; sin dall’896 figura però presente a una permuta in Bergamo “Rodevertus de Verdello Minore”, denominazione anch’essa frequente nei secoli X e XI cui,

(38) Rispettivamente Pergamene 1, doc. 119 (maggio 968), p. 193; Pergamene 2, doc., 127 (17 marzo 1035), p. 224; 133 (aprile 1035), p. 233.

(39) Pergamene 2, doc. 193 (13 marzo 1044), p. 331, e doc. 198 (24 gennaio 1045), p. 338.

(40) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 12 (1° agosto 830), p. 22; 35 (marzo 898), p. 57; 36 (marzo 898), p. 59; 71 (922-926), p. 115; S. DeL BeLLo, cit., pp. 57-60, s.v. Casco; Perga-mene 3, doc. 182 (10 agosto 1092), p. 287; 256 (gennaio 1088), p. 404.

(41) Rispettivamente A. Mazzi, cit., pp. 165-166; Lo statuto di Bergamo del 1331... cit., p. 58.

(42) Pergamene 1, rispettivamente doc. 11 (marzo 829), p.20 (cfr. S. DeL BeLLo, cit., n. 145); 96 (luglio 955), p. 157; 98 (luglio 956), p. 161; 100 (giugno 957), p. 164; 101 (giugno 958), p. 165; 112 (maggio 962), p. 184; 115 (settembre 965), p. 188; 135 (aprile 975), p. 222; 136 (novembre 975), p. 224; 142 (maggio 978), p. 235; 172 (marzo 996), p. 282; Pergamene 2,, doc. 46 (novembre 1017), p. 83; Pergamene 3, doc. 147 (ottobre 1085), p. 236.

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soltanto nel marzo del 1065, si contrappone quella “de Verdello Magiore”43.Lo sdoppiamento avvenuto nel secolo IX sussiste tuttora, ma nessuna del-

le due definizioni originarie ha avuto seguito: Verdello Maggiore, come già avveniva in origine e in gran parte dei secoli X e XI, è tornato ad assumere la semplice denominazione di Verdello, mentre per indicare Verdello Minore è prevalsa, in età moderna, la forma Verdellino44; essa si allinea così all’uso, più comune nel resto d’Italia, di designare lo sdoppiamento mediante un di-minutivo del primitivo toponimo.

Di tale modalità non mancano tuttavia esempi precoci anche nella nostra zona: nel settembre del 998 il vescovo di Bergamo permuta beni con Marino figlio del fu Anfredo “de vico Cave”, oggi Covo; degli otto appezzamenti di terra allora scambiati l’ultimo “est ad locum qui dicitur Cauvello”, e fra colo-ro che sottoscrivono l’atto vi sono tanto persone “de ipso vico Cave” quanto “de vico Cauvello”45. Lo sdoppiamento del luogo era però assai più antico poiché case e sedimi posti in Cauvello sono attestati sin dal 91546 così che si può, anche qui, pensare a una geminazione avvenuta almeno nel corso del secolo IX. Covo e Covello vissero con pari dignità sino a tutto il secolo XIII sinché il secondo entrò in crisi e si ridusse, come è ancora oggidì, a semplice cascina posta tra Romano e Covo47.

Nella Bergamasca il caso di Covo-Covello non è rimasto isolato ma gli al-tri sdoppiamenti segnalati da diminutivo, forse solo per mancanza di un’ade-guata documentazione, appaiono di antichità e di importanza alquanto mi-nore. Dal villaggio di Brinianum, corrispondente all’odierno Brignano Gera d’Adda, attestato sin dall’860, è ragionevole credere sia derivato il nome del vicus Brinianellum documentato un’unica volta nel 102048 e del quale igno-riamo la sorte.

A sua volta Paternum, cioè Paderno oggi frazione di Seriate, attestato come locus e vicus a sé dal 979 in poi, partorisce prima del 1061 il luogo di Paternellum che potrebbe corrispondere al luogo di Paderno Secco menzio-

(43) Pergamene 1, rispettivamente docc.: 33 (aprile 896), p. 53; 82 (maggio 941), p. 134; 95 (maggio 954), p. 155; 127 (maggio 971), p. 205; Pergamene 2, docc. 20 (maggio 1010), p. 35; 140 (febbraio 1036), p. 244; Pergamene 3, docc.: 10 (22 giugno 1063), p. 23; 13 (1° agosto 1064), p. 29; 24 (maggio 1066), p. 46; 18 (marzo 1065), p. 38: “in loco et fundo Virdello Magiore”.

(44) S. DeL BeLLo, cit., p. 144.(45) Pergamene 1, doc. 181 (settembre 998), pp. 297-299.(46) A. Mazzi, cit., p. 197.(47) F. Menant, Campagnes... cit., p. 120 e ivi nota 328.(48) Pergamene 1, doc. 20 (aprile 860), p. 33; Pergamene 2, doc. 285 (ante 969), p. 483;

cfr. A. Mazzi, cit., pp. 112-113; S. DeL BeLLo, cit., pp. 45-46; Pergamene 2, doc, 54 (29 mag-gio 1020), p. 99: “actum vico Brinianello”.

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nato nel 103149; né basta poiché, probabilmente sul territorio stesso di Pader-nello, troviamo nel 1092 due sortes poste in Brisiana; da questa già nel 1032 si era formato un “locus et fundus Brisianella” che però nel 1061 vediamo regredito a semplice “locus qui dicitur”50. Sul territorio di Paderno il suc-cedersi dei diminutivi testimonierebbe dunque, nel corso del secolo XI, una notevole vivacità del popolamento, destinata a non durare poiché Padernello scomparve dopo il secolo XII, e lo stesso Paderno è oggi rappresentato solo da poche case51.

Il ricorso al diminutivo può avvenire anche per distinguere due luoghi omonimi posti nello stesso territorio, per quanto a notevole distanza fra loro, in sostituzione di espedienti identificativi più antichi. Nel corso del secolo X esistono infatti nella Bergamasca due villaggi entrambi denominati Tri-vilium: il primo a sei chilometri a sud ovest di Bergamo52 e l’altro nella pia-na a sinistra dell’Adda; sin dal 964 quest’ultimo viene però contrassegnato dall’aggettivo Grasso53, denominazione che perdura sino al XIV secolo, ben-chè per indicare il primo fosse ormai invalso, almeno dal 1092, il diminutivo Triviliolum54, oggi treviolo.

Vi sono, è vero, toponimi che si ripetono accidentalmente perché derivati da nomi comuni o da nomi propri molto diffusi55, ma non sembra questo il caso dei nostri due Trivilium; l’etimologia tres ville, che si vuole loro tradizio-nalmente attribuire56, è da considerarsi improbabile poiché il termine villa, nel senso di “villaggio”, si afferma nella Bergamasca alquanto tardivamen-te57. Non è da escludere perciò che anche qui si sia in presenza di una gemi-

(49) Rispettivamente Pergamene 1, docc.: 145 (novembre 979), p. 239; 184 (maggio 1000), p. 303; Pergamene 2, docc.: 62 (marzo 1022), p. 112; 105 (8 marzo 1032), p. 183; Pergamene 3, doc. 4 (gennaio 1061), p. 12: “in loco et fundo Paternello loco qui dicitur Brisianella”; per Paderno Secco vedi A. Mazzi, cit., p. 351.

(50) Rispettivamente Pergamene 3, doc. 177 (marzo 1092), p. 280; Pergamene 2, doc. 105 (8 marzo 1032), p. 184; Pergamene 3, doc. 4 (gennaio 1061), p. 12, citato alla nota pre-cedente.

(51) F. Menant, Campagnes... cit., p. 120, nota 326.(52) Pergamene 1, docc.: 50 (novembre 910), p. 82; 51 (maggio 911), p. 83; 53 (1° ottobre

911), p. 186, ecc.(53) Pergamene 1, doc. 114 (novembre 964), p. 186.(54) Pergamene 3, doc. 183 (novembre 1092), p. 288; cfr. inoltre A. Mazzi, cit., pp. 444-

446.(55) Cfr. A.A. settia, Tracce di medioevo. Toponomastica, archeologia e antichi inse-

diamenti nell’Italia del nord, Torino 1996, pp. 120-130.(56) Come inclina a credere D. oLiVieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano

1961, p. 549, secondo una tradizione che assai probabilmente è però “soltanto apparente”: cfr. C. MarCato, Treviglio, in Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1991, p. 667. Vedi anche la nota seguente.

(57) Il vocabolo villa non ha ancora il significato di “villaggio” in Pergamene 1, doc. 18 (luglio 856), p. 30: “in vila qui regitur per Gaidolfo”, e doc. 19 (dicembre 857), p. 31, in cui

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nazione di centri abitati analoga a quelle prima esaminate, che diede luogo ai due centri omonimi, sia pure a considerevole distanza fra loro.

Analoghi casi di toponimi ripetuti troviamo anche in Almenno, Almè e Villa d’Almè, tutti fra loro contermini, ma qui, come si è da tempo consta-tato, essi certo derivano dalla dissoluzione in diversi centri dell’unica, ori-ginaria e amplissima corte regia di Lemennis58. E’ invece difficile, per non dire francamente impossibile, che la stessa dissoluzione abbia dato vita anche all’odierno Dalmine, detto nel secolo X Almene, Almine59; si è invero ritenuto che, insieme ai precedenti, esso facesse parte di “un’unica località distesa lungo il Brembo” recando a sostegno di tale ipotesi che “sia ad Almenno che a Dalmine si trovano chiese dedicate a S. Giorgio, particolarmente legato ai Longobardi”60.

Il valore probante di tale circostanza appare però ben scarso di fronte alla presenza, fra Almenno e Dalmine, di numerosi altri luoghi diversamente de-nominati che negano di fatto ogni possibile continuità territoriale; ammesso che i toponimi in origine fossero identici sembrerebbe perciò più ragionevole pensare, anche qui, a una reduplicazione a distanza simile a quella prospet-tata per i due Trivilium.

Il grande proprietario di nome Stabile, che abbiamo già avuto modo di incontrare, sin dall’830 lasciava in eredità allo xenodochio di S. Carpoforo “casa sua a Summo Vico de Hermolone” collocabile nei pressi di torre di trescore Balneario61. toponimi generici come Summus Vicus (poi general-mente ridotto a Sumvicus), che vediamo fiorire in diverse zone della Berga-masca dal IX secolo in poi, si possono considerare indizi della conquista di nuovi spazi coltivi e abitativi condotta nel tempo dal basso verso l’alto.

Nel 1040 in territorio di Levate la terra curtiba “ad locus qui dicitur Sum-

appare come nome proprio (“in suprascripto vico Vila”). Il primo caso utile ricorre nel doc. 41 (dicembre 905), p. 66: “non longe de villa Petrorio”, cui seguono: doc. 65 (gennaio 923), p. 105: “villa Bonate”; doc. 68 (giugno 924), p. 112: “villa Calusco”; doc. 70 (marzo 926), p. 114: “villa Pandino” e “villa Bonate”; doc. 76 (aprile 929), p. 124: “in villa et fundo Truliano”; nello stesso tempo Trivilium è detto vicus (doc. 78, agosto 929, p. 127), termine che, insieme con locus, continua a predominare per tutto il resto del secolo con la sola esclusione di “in villa Faverciano” (doc. 166, 25 febbraio 994, p. 272). Cfr. anche A.A. settia, L’età carolingia e ottoniana, in Storia di Cremona, II, Dall’alto medioevo all’età comunale, Cremona 2004, p. 193, nota 274.

(58) A. Mazzi, cit., pp. 14-19; D. oLiVieri, cit., p. 53; S. DeL BeLLo, cit., pp. 24-29; C. MarCato, s.v. in Dizionario di toponomastica... cit., p. 21.

(59) Pergamene 1, docc. 136 (novembre 975), p. 24; 142 (maggio 978), p. 235; 184 (maggio 1000), p. 304.

(60) Così M.G. arCaMone, Riflessioni sulla toponomastica con particolare riferimento alle forme di origine germanica, in Bergamo e il suo territorio... cit., pp. 101-102.

(61) Pergamene 1, doc. 12 (1° agosto 830), p. 22; A. Mazzi, cit., pp. 440-441; S. DeL BeLLo, cit., p. 137.

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vico”, certamente abitata negli anni successivi, passa poi a designare, come si è già visto, un “cantone” di Levate62. tra Grumello in Piano e Lallio vi era nel 1085 un campo chiamato Sumvico63, la cui seconda componente è certo indizio che era ivi esistito un centro di popolamento (vicus), fosse o no ancora in atto al momento della documentazione. Nella seconda metà del XII seco-lo un altro Sumvicus, costituito da una serie di sedimi, era posto sulla riva destra del rio Grandone presso il castello di Carvico64, e luoghi di analoga denominazione, non facili da collocare sul terreno, sono attestati nel 1088 e nel 115365.

In un certo numero di casi però, tutti riscontrabili in area montana, l’ag-gettivo summus (volgarmente ridotto a Son) si coniuga, non con un generico vicus, ma con toponimi indicanti un centro di fondo valle che tende a sdop-piarsi verso l’alto: per quanto il fenomeno non disponga di una documen-tazione adeguata, si può postulare che, proprio mediante tale meccanismo, partendo dai preesistenti Gavazzo, zogno, Andenna e Breno, siano in seguito nati gli attuali Songavazzo, Sonzogna, Somendenna e Sombreno.

Essi dovrebbero quindi far parte di quella serie di insediamenti che – come ha accertato a suo tempo François Menant – apparivano ormai sta-bilizzati “verso il 1200” e che, per la maggior parte, possono ancora essere identificati ai nostri giorni66. Si tratterebbe quindi di un’ultima generazione di abitati nati attraverso il riproporsi del medesimo fenomeno di geminazione che, prendendo avvio nel primo medioevo, fu particolarmente attivo nella Bergamasca per lo spazio di più secoli.

(62) Pergamene 2, docc. 273 (maggio 1040), p. 463 e 280 (ottobre 1049), p. 473; Perga-mene 3, docc. 165 (maggio 1088), p. 263; 239 (ottobre 1080), p. 377; 262 (novembre 1091), p. 411; 267 (marzo 1095), p. 419, ecc.

(63) Pergamene 3, doc. 255 (dicembre 1085), p. 402.(64) F. Menant, Fra Milano... cit., p. 182, nota 124.(65) Rispettivamente Pergamene 3, doc. 165 (maggio 1088), p. 263; A. Mazzi, cit., p.

440.(66) F. Menant, Campagnes... cit., pp. 140-141.

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Gianmarco De Angelis

ESORDI E CARAttERI DELLA PRESENzA VESCOVILE IN AREA MONtANA (SECOLI X-XII).

Le modalità di costituzione del patrimonio fra disegni egemonici e concorrenze locali

Nel suo celebre saggio del 1944 intorno alle origini del potere dei vescovi sul territorio esterno alle città, Cesare Manaresi dedicò solo qualche rapida considerazione al falso diploma di Ottone II per l’episcopato di Bergamo1. Fin troppo scoperto (comunque inequivocabilmente dimostrato e da tempo pacificamente accolto) il carattere spurio di quel testo perché ci si potesse attardare nel discuterne i caratteri formali e sostanziali2: bastava citarlo come esempio di una spregiudicata attività falsificatoria indubbiamente comune per ispirazione di fondo (ma non certo per ricchezza di episodi e per pro-blematicità interpretativa) ad altre sedi vescovili dell’Italia settentrionale nei loro progetti di potenziamento extra urbano3. Il falso privilegio, affermava Manaresi, “ha soltanto interesse perché dimostra che anche la Chiesa di Ber-gamo, la quale fin dai tempi di Berengario I […] aveva la ‘districtio’ nell’in-terno della città, ritenne opportuno in un certo momento dimostrare che Ot-

(1) C. Manaresi, Alle origini del potere dei vescovi sul territorio esterno alle città, in “Bullettino dell’Archivio Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano”, n. 68, 1944, pp. 221-334, qui alle pp. 313-3 14. Il falso privilegio citato si legge in Ottonis II diplo-mata, ed. th. siCkeL, Hannoverae 1888 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II/1), n. *319, pp. 375-376 (968 -, Ravenna).

(2) Il primo svelamento dell’impostura si deve a Mario LuPo (Codex diplomaticus civi-tatis et ecclesiae Bergomatis, Bergamo 1784-1799, II, coll. 315-318), che attraverso una im-peccabile analisi testuale e paleografica aprì la strada a ulteriori approfondimenti su autori e modelli del falso (si veda in particolare, oltre naturalmente alla sua introduzione all’edizione MGH, il saggio di th. siCkeL, Excurse zu Ottonischen Diplomen. I-IV, in “Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung. Ergänzungsband”, n. 1, 1885, pp. 129-162, alle pp. 141-142).

(3) Casi emblematici, ricostruiti attraverso una lettura altrettanto esemplificativa dei rap-porti fra concessioni sovrane e potenziamenti vescovili, sono quelli parmense e vercellese, su cui si vedano, rispettivamente, o. GuyotJeannin, Les pouvoirs publics de l’évêque de Parme au miroir des diplômes royaux et impériaux (fin IXe-début XIe siècle), in Liber Largitorius. Etudes d’histoire médiévale offertes à Pierre Toubert par ses élèves, dir. D. BarthéLeMy et J.-M. Martin, Genève 2003, pp. 15-34, e F. Panero, Una signoria vescovile nel cuore dell’Impero. Funzioni pubbliche, diritti signorili e proprietà della Chiesa di Vercelli dall’età tardocarolingia all’età sveva, Vercelli 2004.

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tone II aveva allargato quella ‘districtio’ fino alle ville e ai castelli compresi nel giro di tre miglia fuori” di essa4, nonché, si deve aggiungere, all’intera Val Seriana, “usque ad terminum eius quo a Valle Camonica dividitur”.

Così posto, è evidente, il tema lasciava sul campo non poche questioni irrisolte: si trattava, in primo luogo, di chiarire quale fosse il “momento” in cui “la Chiesa di Bergamo ritenne opportuno” commissionare l’operazione fraudolenta, in risposta a che tipo di esigenze e perché si decidesse di legarla proprio al nome del secondo Ottone. Le riprese molti anni dopo – e in parte vi rispose – Jörg Jarnut, nella sua monografia su Bergamo altomedievale5, sug-gerendo un termine post quem dell’impostura diplomatistica di particolare rilievo per gli argomenti che qui interessano. “La falsificazione”, concludeva Jarnut, “dev’essere stata fatta dopo il 1026, perché solo allora la Chiesa per-mutò ampi possedimenti nella Valle Seriana che potevano formare il fonda-mento per la districtio di questo territorio”. Da allora il richiamo a quell’epi-sodio è divenuto, a ragione, una costante nella ricostruzione delle dinamiche che accompagnarono la crescita della potenza patrimoniale dell’episcopato bergamasco. Se Menant si è spinto oltre, facendone quasi il momento fondati-vo6, bisogna tuttavia ricordare che non erano mancati, fin dalla seconda metà del secolo X, fruttuosi tentativi di penetrazione nelle Prealpi orobiche.

La confezione dello spurium s’innestava dunque su un terreno già ampia-mente dissodato, dove l’iniziativa dei vescovi di Bergamo aveva trovato spazi e modi di esercizio che prescindevano da ufficiali deleghe di autorità. Di qui la necessità di estendere al complesso della documentazione conservata le intuizioni di Jarnut, nonché di provare ad arricchire il piano di lettura offerto da Manaresi.

Certo è che nell’articolazione della presenza fondiaria e giurisdizionale dell’episcopato bergamasco in zone montane della diocesi (specie, come ve-

(4) C. Manaresi, cit., p. 314. Per la concessione berengariana dei poteri di districtio sulla città richiamata nel testo si veda l’edizione del privilegio (tràdito in originale) ne I diplomi di Berengario I, a cura di L. sChiaPareLLi, Roma 1903 (Fonti per la Storia d’Italia, 35), n. 47, pp. 134-139 (904 giugno 23, Monza), ora anche in Le pergamene degli archivi di Bergamo aa. 740-1000 [da qui in avanti Le pergamene, I], a cura di M. Cortesi, edizione critica di M.L. BosCo, P. CanCian, D. FrioLi, G. MantoVani, Bergamo 1988 (Fonti per lo studio del territorio bergamasco, VIII), n. 204, pp. 345-347.

(5) J. Jarnut, Bergamo 568-1098. Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nel medioevo, Supplemento al n. 1 di “Archivio storico bergamasco”, Bergamo 1981 (ed. or. Wiesbaden 1979), p. 55 e p. 142.

(6) “Il doit attendre 1026 pour accroître son patrimoine; cette année-là, il acquiert les domaines autrefois taillés par Charlemagne pour Saint-Martin de Tours dans les vallées alpi-nes”: cfr. F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen Age. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, p. 581.

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dremo, in talune località della media e dell’alta Val Seriana) non sono meno riconoscibili le fasi che la scandirono delle iniziative documentarie dispiega-te a suo supporto. tempi e dinamiche del processo appaiono anzi così intima-mente legati da non potersi leggere, per più versi, gli uni indipendentemente dalle altre: consentono di cogliere ritmi e intensità di una vicenda di grande portata in quanto ad accorta e qualificata dislocazione dei nuclei di potenza patrimoniale e all’esplicarsi di una vocazione egemonica che, nelle sue mani-festazioni più significative, attraversa tutto l’XI e buona parte del XII secolo. A valle di quest’arco temporale si collocano i primi segni d’incrinatura di un progetto di costruzione territoriale7 costretto comunque, fin dagli esordi, a confrontarsi con un complicato intrico di concorrenze locali (precocemente assurte a posizioni di grande rilievo nei confronti del publicum) e, in seguito, con l’interferenza di inediti, più potenti soggetti concorrenti. Il riferimento, in questo secondo caso, è al comune cittadino, decisamente proiettato, alme-no dagli anni Venti del Duecento, a subentrare al vescovo nello sfruttamento economico e nel controllo politico di vaste porzioni dei territori extra urbani. Argomento, questo del confronto vescovo/comune, che qui sarà soltanto sfio-rato8, essendo mia intenzione proporre una lettura non già del progressivo depotenziamento, ma degli spunti iniziali dei progetti vescovili e delle loro prime attuazioni, attraverso una messa a fuoco delle modalità di costituzione del patrimonio fondiario relativo all’area collinare e montana.

Le pagine che seguono potrebbero essere considerate un piccolo contri-buto a una storia in gran parte ancora da scrivere: se per quanto riguarda le forme di gestione della proprietà terriera e i contenuti della signoria – anche vescovile – le ricerche di François Menant rappresentano un solido, impre-scindibile punto di riferimento, resta moltissimo lavoro da compiere sulla documentazione conservata negli archivi ecclesiastici cittadini (inedita per

(7) L’espressione è indubbiamente iperbolica se si confronta la nostra ad altre realtà dio-cesane alpine o subalpine in cui gli esiti dei potenziamenti vescovili nel territorio esterno alle città consistettero in formazioni di ben maggiore robustezza strutturale (come nel caso di Sabiona-Bressanone studiato da Giuseppe aLBertoni in Le terre del vescovo. Potere e so-cietà nel Tirolo medievale (secoli IX-XI), Torino 1996) o di carattere quasi principesco (anche se “effimero”, secondo un’osservazione di Giuseppe Sergi a proposito del dominio dei presuli torinesi fra XI e XII secolo – cfr. G. serGi, Un principato vescovile effimero: basi fondiarie e signorili, in Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, a cura di G. serGi, Torino 1997, pp. 536-550): mi sembra che possieda tuttavia una sua giustificazione se si tiene conto del grado di progettualità espresso (e riflesso) dalle dinamiche di produzione e conser-vazione della documentazione vescovile fino almeno alla metà del Duecento.

(8) Per un primo inquadramento del problema si può ricorrere con profitto a F. Menant, Bergamo comunale: storia, economia e società, in Storia economica e sociale di Bergamo. I primi millenni: Il comune e la signoria, a cura di G. ChittoLini, Bergamo 1999, pp. 15-181, alle pp. 88-91.

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ampi tratti dopo il 1100), sulla sua tradizione e le sue tipologie, sui protago-nisti delle vicende trasmesse e sui canali storici della trasmissione. Restano da indagarne concentrazioni e rarefazioni quantitative nel corso del tempo, spesso capaci, al di là dei “problemi della rappresentatività e deformazione della trasmissione storica” posti dai capricci della tradizione archivistica9, di adombrare dati di qualità, riflettendo congiunture economiche, moventi ide-ali e strategie politico-sociali10; ed è interamente da pianificare (non solo per Bergamo), attraverso un censimento delle annotazioni riportate nel verso del-le pergamene, uno studio degli atteggiamenti dimostrati dall’ente ecclesiasti-co conservatore nei confronti della propria documentazione medievale11.

(9) a. esCh, Chance et hasard de transmission. Le problème de la représentativité et de la déformation de la transmission historique, in Les tendances actuelles de l’histoire de moyen âge en France et en Allemagne. Actes du colloque de Sèvres (1997) et Göttingen (1998), Paris 2002, pp. 15-29.

(10) Secondo un orientamento di fondo comune a molte ricerche soprattutto di ambito altomedievale. Basti qui citare le relazioni presentate alla Tavola rotonda dell’École française di Roma del 6-8 maggio 1999 su Les transferts patrimoniaux en Europe occidentale, VIIIe-Xe siècle, i cui atti si leggono in “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge”, n. 111-2, 1999. Riguardano più da vicino temi e aree geopolitiche di nostro interesse gli inter-venti di F. BouGarD, Actes privés et transferts patrimoniaux en Italie centro-septentrionale (VIIIe-Xe siècle), pp. 539-562, di B.h. rosenwein, Property transfers and the Church, eight to eleventh centuries. An overview, pp. 563-575, di a. MaiLLoux, Modalités de constitution du patrimoine épiscopal de Lucques, VIIIe-Xe siècle, pp. 701-723, di r. BaLzaretti, The politics of property in ninth-century Milan. Familial motives and monastic strategies in the village of Inzago, pp. 747-770, di M. Lenzi, Forme e funzioni dei trasferimenti patrimoniali dei beni della Chiesa in area romana, pp. 771-859. Osservazioni metodologiche di grande interesse (tutt’altro che limitate alla ristretta area geografica presa in esame) sono formulate in w. kurze, Lo storico e i fondi diplomatici medievali. Problemi di metodo – analisi storiche, in Monasteri e nobiltà nel senese e nella Toscana medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989, pp. 1-22, che insiste a più riprese sull’importanza delle valutazioni quantitative come strumento per cogliere i “punti nevralgici nello svilup-po di un’istituzione” e verificare, nelle analisi comparate di folti complessi documentari, l’esistenza di analogie o discordanze di giacenze archivistiche in dipendenza da specifici inquadramenti politici o religiosi.

(11) “Una ricerca raramente intrapresa, eppure preziosa, è quella che tenti di capire, di fronte a una certa tradizione documentaria, l’atteggiamento del principale ente ecclesiastico conservatore, sempre nel periodo medievale, nei confronti della propria documentazione più antica. È una ricerca che si dovrebbe condurre attraverso la critica delle annotazioni antiche sul verso delle pergamene. Si tende difatti a pensare gli enti ecclesiastici come tramiti, se non scrupolosi, almeno neutri, della propria documentazione; e si tende a pensare la tradizione all’interno dei loro archivi, se non disturbata da rotture della loro integrità dall’esterno, al-meno inerziale. Meno di frequente gli enti ecclesiastici vengono pensati come elaboratori, preparatori, sistematori della documentazione che hanno ricevuto, se non in epoche molto tarde, fra Sei e Ottocento. Invece quella loro azione anche in antico deve essere stata de-terminante [...]”. Così a. GhiGnoLi, Repromissionis pagina. Pratiche di documentazione a Pisa nel secolo XI, in “Scrineum – Rivista”, n. 4, 2006-2007, <http://scrineum.unipv.it/>, p. 42 (nota 15), presentando i primi risultati della campagna di studio condotta nell’archivio arcivescovile pisano.

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È quasi superfluo dire che simili ambizioni non sono di questa breve nota. Non si potrà che offrire una visione d’insieme, limitandosi a presentare i ter-mini salienti della questione attraverso una prima ricognizione delle fonti uti-li alla ricerca e una discussione degli episodi più caratteristici di una vicenda complessa, distesa su un arco di circa due secoli e tutta giocata sul rapporto, tipico e strettissimo, di potere e possesso.

*** Nel grande inventario dei possedimenti vescovili allestito intorno alla

metà del Duecento e noto come Rotulus Episcopatus12, gli instrumenta re-lativi ai territori della fascia prealpina rappresentano oltre la metà del totale: 465 su 882. Il semplice dato numerico è sufficiente, di per sé, a restituire l’immagine di una forte concentrazione di interessi territoriali, e potrebbe facilmente essere incrementato: basterebbe includervi, oltre alla mappa dei compatti e ravvicinati dominî imperniati sulle curie della media e alta Val Seriana (Albino, Vertova, Ardesio)13, la documentazione di quelle località che, pur non classificabili come montane, presentano tuttavia elementi carat-teristici delle zone d’altura specie per quanto riguarda l’organizzazione delle attività produttive e lo sfruttamento del suolo14. Includendo nel computo la documentazione relativa ad Almenno (94 carte), Sorisole (18) e Chiuduno (14), non resterebbe che la curia de Fara, sulla riva sinistra dell’Adda15, a rap-

(12) Nel foglio cartaceo di guardia, in scrittura di grande modulo di mano del XVII secolo, il cartulario è definito “ Rotulum <sic> Episcop(atus) Bergomi. 1258 ”, e una ulteriore anno-tazione, a rigo inferiore, ne ricorda il reperimento presso i locali dell’Archivio vescovile (“in-ventum die 26 aprilis 1694”). La sua compilazione, come osserva Andrea Zonca, va ascritta senz’altro a un’iniziativa del vescovo Algisio (1251-1259) e “inquadrata negli ultimi tentativi di resistenza alla pressione politica” esercitata in quegli anni dal comune cittadino “a danno principalmente delle signorie episcopali, le sole ad aver conservato sino ad allora una sfera di concreta autonomia” (cfr. a. zonCa, Gli uomini e le terre dell’abbazia di San Benedetto di Vallalta (secoli XII-XIV), Bergamo 1998, p. 27).

(13) Per la documentazione riguardante le tre località citate nel testo cfr. Rotulus Episco-patus, rispettivamente cc. 65r-76v, 55r-64r, 82r-115r. Sembra che l’organizzazione dei pos-sedimenti del contado in curie, “affidate al reggimento di gastaldi e comprendenti ciascuna più nuclei abitati soggetti al districtus vescovile”, sia andata precisandosi nell’ultimo scorcio del XII secolo, durante l’episcopato di Lanfranco (1187-1211), in concomitanza con (e come reazione a) l’avvio di una prepotente espansione della giurisdizione comunale sui territori rurali: così A. zonCa, Gli uomini... cit., p. 25.

(14) Mi riferisco in particolare alle curiae de Lemine (ff. 37r-44v) e di Sorisole (ff. 78r-81v), poste tra la Valle Imagna e l’imbocco della Val Brembana, e, in misura minore, alla curia di Chiuduno, sulle pendici meridionali del monte di S. Stefano, dove la pianura berga-masca orientale cede il passo ai morbidi rilievi della Valcalepio: tutte incluse da F. Menant, Campagnes... cit., pp. 132-147 e pp. 251-273, nella trattazione su habitat e strutture econo-miche dei territori montani.

(15) Cfr. Rotulus Episcopatus, ff. 106r-115v (per un totale di 53 carte). La restante quota dei possedimenti vescovili documentati nel cartulario duecentesco si colloca in città (Porte de foris, S. Andrea, S. Alessandro), nel villaggio suburbano di Gorle, sulla vicina collina

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presentare il principale nucleo di presenza vescovile nel territorio pianeggiante esterno alla città. Si tratterebbe comunque di cifre a dir poco malferme, con-siderato lo stato frammentario del registro, la più consistente (e non quan-tificabile) mutilazione del quale riguarda proprio la curia più abbondante-mente documentata e che qui particolarmente interessa: quella di Ardesio16.

La documentazione su Ardesio, suddivisa “in membranae ad fodinas spectantes” (nn. 22-47) e “in membranae circa possessum” (nn. 48-92), è numericamente maggioritaria (e contenutisticamente più rilevante) rispetto a quella riguardante altri nuclei di presenza vescovile anche tra le pergamene sciolte della Mensa, raggruppate per località e disposte in ordine cronologico nei due volumi dei Diplomata seu iura Episcopatus al tempo del riordina-mento effettuato sotto l’episcopato di Luigi Speranza, durante la seconda metà del XIX secolo17.

Informazioni preziose circa i dominî episcopali di una zona di profondo radicamento patrimoniale come la Vallalta (o Valle del Luio, una laterale sinistra della Val Seriana, delimitata a nord dalle ripide pendici del Monte Altino) provengono dalla documentazione dell’abbazia di S. Benedetto, fon-data nell’aprile 1136 dal vescovo di Bergamo Gregorio e riccamente dotata a più riprese nel corso del secolo XII dai suoi successori18. Allo stesso modo che per i possedimenti della media Val Brembana, anche per quelli di Vallal-ta ignoriamo tuttavia in quale periodo e attraverso quali canali siano entrati nella disponibilità della Mensa vescovile. Ne veniamo a conoscenza, per lo più, solo grazie alle numerose refute documentate a cavaliere dei secoli XII/XIII19, ovvero nel momento in cui vengono ceduti per disposizione parate-

di Gavarno, e solo una manciata di attestazioni (3) si riferisce a Paderno, oggi frazione del comune di Seriate.

(16) Dell’attuale incompletezza delle registrazioni relative agli iura di tale località, d’im-portanza strategica per il vescovado a causa innanzitutto delle sue ricche miniere di ferro e di argento, è chiaro segnale l’assenza, al termine dell’elenco, della frase formulare (“summa omnium instrumentorum...”) con cui l’anomino archivista vescovile sistematicamente sigil-lava il lavoro di regestazione condotto per ciascuna curia.

(17) Si è largamente servito del materiale documentario in oggetto l’ottimo studio di G. BaraChetti, Possedimenti del vescovo di Bergamo nella valle di Ardesio. Documenti dei secc. XI-XIV, in “Bergomum”, n. 74, 1980, pp. 3-208. Su storia, riordinamenti e attuale com-posizione dell’archivio vescovile di Bergamo è d’obbligo il riferimento a M. Cortesi, Le vicende dei fondi archivistici di Bergamo, in Le pergamene, I, pp. XVII-XXIV, in particolare pp. XXII-XXIV, parzialmente ripreso in eaD., I fondi archivistici di Bergamo attraverso inventari e segnature, in Bergamo e il suo territorio nei documenti altomedievali, Atti del Convegno (Bergamo, 7-8 aprile 1989), a cura di M. Cortesi, Bergamo 1991 (Contributi allo studio del territorio bergamasco, VIII), pp. 169-176, alle pp. 169-170.

(18) Sulle vicende della fondazione e sul patrimonio documentario dell’abbazia si rinvia naturalmente allo studio di a. zonCa, Gli uomini... cit.

(19) Vd. infra, testo corrispondente alle note 52 e 54.

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stamentaria (così per lo iudicatum di Gregorio in favore di S. Benedetto) o dati in investitura perpetua ad altre istituzioni ecclesiastiche20: in questi casi, laddove i rispettivi archivi (che consentono unicamente di fotografare una situazione con scarso valore di retroattività) non abbiano incamerato o conservato i munimina relativi ai beni trasmessi, risulta impossibile ricostru-irne le più antiche attestazioni e le dinamiche politico-documentarie che ne furono alla base.

Per un’operazione di questo tipo è necessario rivolgersi ai ricchissimi de-positi del Capitolo cattedrale, dove si conservano alcuni manipoli di carte giunte a seguito di trasmigrazioni dall’antico tabularium vescovile avvenute in epoca e per tramiti spesso imprecisabili. Si tratta di alcune permute dei secoli X e XI da cui conviene senz’altro prendere le mosse, rappresentan-do esse episodi caratteristici della prima fase di penetrazione del vescovado nelle basse Prealpi bergamasche. Fatta eccezione per una cospicua conces-sione del luglio 972 con cui Rodaldo di Aquileia trasmetteva a titolo di livello ventinovennale tutte le terre di proprietà del Patriarcato site, tra l’altro, in Val Camonica, al di qua dell’Oglio21, si può anzi affermare che gli scambi di beni immobili costituiscano lo strumento privilegiato nella dinamica di accumulo patrimoniale da parte dell’episcopio. Sottolineato nella sua inci-denza quantitativa in relazione al complesso dei fondi ecclesiastici dell’Italia padana22, il ricorso alla permute (o perlomeno l’accorta conservazione nel tempo dei documenti relativi) è particolarmente evidente nel caso bergama-sco (e naturalmente non limitato alle acquisizioni in territorio montano da parte della chiesa vescovile, che nel vantaggio ottenibile dalla commutatio, secondo termini fissati già nella normativa longobarda, si vedeva garantiti un cospicuo ampliamento delle proprie dotazioni fondiarie e la formazione di nuclei compatti, più agevolmente gestibili)23.

(20) Si pensi all’investitura “usque in perpetuum” del monte Saxianum (fianco setten-trionale del Canto Alto), con i relativi diritti di taglio e di pascolo, effettuata in favore del monastero di Astino nel febbraio 1125 da parte del vescovo Ambrogio e confermata dai suoi successori Gregorio e Gerardo: cfr. Le carte del monastero di S. Seplocro di Astino, II (1118-1145), a cura di G. CossanDi, in Codice diplomatico della Lombardia medievale, Università di Pavia 2007, n. 49, <http://cdlm.unipv.it/edizioni/bg/bergamo-ssepolcro2/carte/ssepolcro1125-02-00d>.

(21) Codex Diplomaticus Langobardiae, a cura di G. Porro LaMBertenGhi, Augustae Taurinorum 1873 (Historiae Patriae Monumenta, XIII), n. DCCxxxViii, coll. 1285-1286.

(22) Secondo le stime di F. BouGarD, cit., p. 544, le commutaciones rappresentano oltre il 40% del totale della documentazione ecclesiastica conservata nell’Italia settentrionale fino alla fine del X secolo.

(23) Su lessico e struttura delle cartule commutacionis e sulla loro centralità nei disegni di razionalizzazione del patrimonio vescovile altomedievale sia consentito rinviare a G. De anGeLis, Poteri cittadini e intellettuali di potere. Scrittura, documentazione, politica a Ber-

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Notizie sparse di possedimenti vescovili situati nel medio e alto bacino idrografico del Serio si rinvengono tra le pergamene dell’Archivio Capitolare fin dall’età carolingia. Solo dalla seconda metà del secolo X, tuttavia, il pro-cesso di costruzione della potenza fondiaria in area prealpina inizia ad assu-mere una riconoscibile fisionomia, e può essere seguito nella documentazio-ne con qualche continuità e rilevanza di attestazioni: precisamente al maggio 959 risale la più antica permuta con cui il vescovo Odelrico, acquisendo due appezzamenti di terreno in Sovere24, estendeva i possedimenti della Mensa e avviava in quella zona un processo di radicamento dietro al quale non si fa fatica a scorgere i contorni di una dinamica di potere ispirata non solo a cri-teri di valorizzazione economica. Potendo contare sul privilegio d’immunità di cui la Chiesa di Bergamo era stata beneficiata dall’imperatore Carlo III nell’88325, difatti, non doveva certo sfuggire la possibilità d’innescare poten-ziamenti politici a partire dall’abbondanza di disponibilità fondiaria26, specie laddove i consolidamenti patrimoniali seguissero la direttrice di presenze dislocate in punti del territorio nevralgici per loro stessa ubicazione e per l’esistenza di isole giurisdizionali potenzialmente concorrenti. Era questo, per l’appunto, il caso di Sovere: qui, lungo il corso del torrente Borlezza, quasi all’imbocco della Val Camonica – confine naturale ma tutt’altro che pacifico tra le diocesi di Bergamo e di Brescia – si era costituita fin dall’anno 837 (a seguito di donazione imperiale) una curtis del monastero benedetti-no di S. Giulia27, menzionato proprio tra le confinazioni dei terreni ottenuti dall’episcopio bergamasco attraverso la permuta di cui si è appena parlato. E se la lettura è corretta, non stupisce che, dopo Sovere, gli interessi dei vescovi s’indirizzassero verso la confinante località di Endine, posta tra le

gamo nei secoli IX-XII, Milano 2009, pp. 118-135. Circa la normativa in materia basti qui il riferimento a G. VisMara, Ricerche sulla permuta nell’Alto Medioevo, in iD., Scritti di storia giuridica, II, La vita del diritto negli atti privati medievali, Milano 1987, pp. 79-141.

(24) Cfr. Le pergamene, I, n. 103, pp. 167-169 (959 maggio, Bergamo). (25) Karoli III diplomata, ed. P. kehr, Berlin 1936-1937, rist. anast. München 1984 (Mo-

numenta Germaniae Historica. Diplomata Regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, II), n. 89 (883 luglio 30, Bergamo, presso la corte Murgula); ora anche in Le pergamene, I, n. 196. Sul testo del privilegio cfr. J. Jarnut, Bergamo… cit., pp. 136-138, e De anGeLis, cit., in particolare pp. 57-59.

(26) Sulle concessioni carolingie dell’immunità agli enti ecclesiastici come modelli di funzionamento signorile del potere politico, si vedano le osservazioni di G. serGi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995, pp. 269-271.

(27) Lotharii I et Lotharii II diplomata, ed. t. sChieFFer, Berlin-Zürich 1966 (Monumen-ta Germaniae Historica. Diplomata Regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, II), n. 35, pp. 112-114 (Marengo, 837 dicembre 15); ora anche in Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I (759-1170), a cura di e. BarBieri e G. CossanDi, in Codice diplomatico della Lom-bardia medievale, Università di Pavia 2008, n. 26, <http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/carte/sgiulia0837-12-15B>.

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valli Cavallina e Camonica, e soprattutto verso Clusone, il centro demico di maggior consistenza dell’alta Val Seriana e anch’esso nucleo organizzatore di una curtis donata in piena proprietà al monastero bresciano di S. Giulia dall’imperatore Lotario28.

La permuta con cui il vescovo di Bergamo Reginfredo incorporò nel pa-trimonio vescovile due tenute e mezza con case, torchio e tutti i terreni loro spettanti in Endine e Clusone, siti sia fuori sia dentro il castrum, reca la data del luglio 101229. Ma un’iniziativa di ben più ampia portata, da lì a poco, avrebbe visto come protagonista il vescovo di Bergamo nella porzione nord-orientale della sua diocesi. Mi riferisco all’atto più volte citato con cui, il 30 luglio 1026, Ambrogio cedette alla canonica e xenodochium di S. Martino di tours numerose proprietà dell’episcopato bergamasco variamente disloca-te fra il Po, nella iuditiaria Taurinensis, e il Lambro, in comitato milanese, nonché – e soprattutto – a Pavia, nel luogo detto Faramannia, e nel suo ter-ritorio, da Marzano a S. Alessio, ricevendo in cambio numerose case, beni immobili, pascoli e diritti relativi in Val di Scalve e in Val Seriana, segna-tamente nelle località di Vilmaggiore, Vilminiore, Molinacione, Bondione, Gandellino, Ardesio, Clusone e Gorno30: e dunque subentrando al potente

(28) Descrizione delle due curtes nel breve de terris compreso entro gli anni 879–906: già edito da Gianfranco Pasquali in Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, a cura di a cura di a. CastaGnetti e M. Luzzati, Roma 1979 (Fonti per la Storia d’Italia, 104), pp. 41-94, alle pp. 72-73, lo si può consultare ora anche in versione digitale ne Le carte di S. Giulia cit., I, n. 46, Sui possedimenti di S. Giulia in comitato bergamasco si veda G. PasquaLi, Gestione economica e controllo sociale di S. Salvatore-S. Giulia dall’epoca longobarda all’età comu-nale, in S. Giulia di Brescia. Archeologia, arte, storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, Atti del convegno internazionale di studi (Brescia, 4-5 maggio 1990), a cura di C. steLLa e G. BrenteGani, Brescia 1992, pp. 131-145, alle pp. 136-137.

(29) Cfr. Le pergamene, I, n. 27, pp. 45-47 (1012 luglio 15, Cerete). (30) La permuta in oggetto è stata pubblicata separatamente, con proprio numero di edi-

zione (il 256), ne Le pergamene degli archivi di Bergamo, aa. 1002-1058 [d’ora in avanti Le pergamene, II/1], a cura di M. Cortesi e a. Pratesi, edizione critica di C. CarBonetti VenDitteLLi, r. CosMa, M. VenDitteLLi, Bergamo 1995 (Fonti per lo studio del territorio bergamasco, XII), alle pp. 430-433. Di essa, tuttavia, non si conserva la relativa cartula, ma solo il testo inserto in un verbale di placito giudiziario (edito al n. 257), celebrato lo stesso giorno in cui lo scambio fra l’episcopato di Bergamo e i canonici di Tours sarebbe avvenuto (cfr. anche I Placiti del “Regnum Italiae”, a cura di C. Manaresi, III/1, Roma 1960 (Fonti per la Storia d’Italia, 97), n. 324, pp. 2-9. A correzione di quanto affermato nella nota introduttiva alla più recente edizione (Le pergamene, II/1, p. 434), va detto che della notitia iudicati, oltre a un testimone in originale (Diplomata seu iura Episcopatus, II, n. 49), l’Archivio vescovile conserva anche una copia autentica (Diplomata seu iura Episcopatus, II, n. 48) che andrà giudicata come parzialmente imitativa (delle grafie e, soprattutto, dei signa dei sei giudici intervenienti al placito; la sottoscrizione del comes Ardoinus, preceduta da un signum a croce greca potenziata e vergata autograficamente nell’originale in una minuscola elementare, a lettere staccate e ingrandita – “di prestigio”, come direbbe Armando Petrucci – è resa invece nella copia con una elegante minuscola documentaria di base carolina). La redazione della

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monastero transalpino nel controllo di tutto ciò che a esso era stato donato “in giro Bergamasci” da parte di Carlo Magno all’indomani della conquista del regnum Langobardorum, come recita il testo di un diploma dato in Pavia, nel luglio 77431.

trattandosi di un rapporto sinallagmatico intercorso fra istituzioni eccle-siastiche, nessuna delle due parti in causa doveva, a norma, trarne una me-lioratio della propria situazione patrimoniale: e in effetti la somma dei beni in oggetto ammontava in entrambi i casi a 568 iugeri e 30 tavole, cosicché agli extimatores parve senz’altro “quod equales et iuste ambas partes ab ipse ecclesie hec fieri potuisset”.

Due circostanze, tuttavia, inducono a ritenere che l’episcopato bergama-sco avesse tratto, nell’occasione, maggiori vantaggi, e sia in definitiva da considerare l’autentico promotore dell’iniziativa.

Distraendo i propri possedimenti pavesi, innanzitutto, Ambrogio rinun-ciava a una fetta di patrimonio considerata ormai, a due anni dalla distruzione del palatium regio, poco appetibile e forse non più facilmente controllabile. E basti qui, per converso, richiamare con quanta energia, nel 915, il prede-cessore forse più noto di Ambrogio – Adalberto vescovo – si fosse speso per ottenere da re Berengario il permesso di riedificare una sua domus pavese sita nello stesso luogo di Faramannia alienato invece senza troppi indugi nel 1026, nonché di costruire qualsiasi edificio avesse ritenuto utile sulle mura dell’antica capitale longobarda32.

Come già ricordato, inoltre33, dell’atto di permuta non è giunta a noi la relativa cartula, ma solo il testo (completo e provvisto di sottoscrizione nota-rile) inserto in una notitia di placito giudiziario tenuto a Grumello del Piano lo stesso giorno in cui lo scambio avrebbe avuto luogo e riunitosi proprio su

copia, inoltre, deve essere collocata entro il 1156 (e non alla metà del secolo XIII, come lì proposto): ne fa fede la sottoscrizione di uno dei tre notai autenticatori (Iohannes, attestato nella documentazione locale fra il 1147 e il 1176), che nella circostanza, come in altre carte risalenti ai primi nove di carriera, esibisce una titolatura palatina, abbandonata dopo il 1156 per un diretto riferimento all’autorità di Federico imperatore. Sulla figura di Giovanni e la sua produzione professionale, consumata per oltre un ventennio alle dipendenze della neona-ta istituzione comunale, si veda G. De anGeLis, cit., pp. 317-337.

(31) Caroli Magni diplomata, in Pippini, Carlomanni, Caroli Magni diplomata, ed. e. MühLBaCher, Hannover 1906 rist. anast. München 1979 (Monumenta Germaniae Historica. Diplomata Karolinorum, I), n. 81, pp. 115-117 (Pavia, 774 luglio 16).

(32) Cfr. I diplomi di Berengario I... cit., n. 100, pp. 262-264; ora anche in Le pergame-ne, I, n. 205, pp. 347-348. Su motivazioni e contenuti della concessione di re Berengario al vescovo Adalberto si veda a.a. settia, Il primo incastellamento nella Bergamasca, in iD., Proteggere e dominare. Fortificazioni e popolamento nell’Italia medievale, Roma 1999, pp. 238-239.

(33) Supra, nota 30.

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istanza dell’avvocato episcopale e dello stesso vescovo Ambrogio. Ora, è noto come il ricorso alla ostensio chartae nei placiti del regnum

avviasse una standardizzata procedura di accertamento di diritti su cose e persone in tutto favorevole a chi avesse prodotto il documento in giudizio34. Credo tuttavia che, nella circostanza, non possa essere sottovalutata la po-sizione di forza goduta in quella particolare fase storica dall’episcopio ber-gamasco nei confronti della massima istanza del potere centrale e del suo rappresentante locale: grande sostenitore dell’imperatore Corrado II, da cui avrebbe ottenuto numerose conferme di beni, diritti e privilegi, Ambrogio era imparentato con il conte Arduino35, presidente del tribunale incaricato di conferire il massimo possibile di pubblicità all’evento giuridico e di accertar-ne i contenuti, gli iura, rendendoli inattaccabili per il futuro e prevenendo (o chiudendo) ogni eventuale contenzioso. Secondo una tipica procedura i cui primi esempi rimontano al tardo secolo IX, Ambrogio dichiara di ostendere la carta affinché non resti “silens aut oculta vel conludiosa” e, dopo aver sol-lecitato Raginardo, prete e preposito della canonica di tours, a riconoscerla come “bona et vera”, ottiene dalla controparte l’impegno di non avanzare rivalse e dai giudici una sentenza in tutto conforme alle sue richieste.

Che fosse l’episcopato di Bergamo, dunque, la parte maggiormente inte-ressata a non venire disturbata nei suoi possessi, è certo (non si trova un cor-rispettivo tra i cartulari di tours, mentre la notitia iudicati del 1026 inaugura la serie delle “membranae circa possessum” della Mensa). Ed è altamente probabile, da un confronto con altri placiti più o meno coevi36, che anche nella stipula della permuta portata in giudizio vada rintracciata una precisa e coerente scelta del vescovo Ambrogio, sicuro della sponda istituzionale

(34) Sulla procedura della ostensio chartae nei placiti del regno cfr. G. niCoLaJ, Formula-ri e nuovo formalismo nei processi del “Regnum Italiae”, in La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli IX-XI), Spoleto 1997 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Me-dioevo, XLIV), pp. 347-379, pp. 353-359.

(35) J. Jarnut, Bergamo… cit., pp. 62-63 (con elenco di fonti e relativa bibliografia). Sul conte Arduino dei Martinengo, ramo collaterale dei Gisalbertini, cfr. anche la scheda proso-pografica a pp. 271-272, e F. Menant, I Giselbertini, conti della contea di Bergamo e conti palatini, in iD., Lombardia feudale. Studi sull’aristocrazia padana nei secoli X-XIII, Milano 1992, in particolare pp. 44-45, 59-63, 89-92. La contemporanea presenza, al vertice della diocesi e del comitato, di due individui appartenenti alla medesima famiglia, è evento del tutto isolato, privo di precedenti e di seguito, nella storia altomedievale di Bergamo, concre-tizzatasi in una singolare sinergia di azione politica. Ben diversa la situazione nel prosieguo dell’XI secolo, allorché i successori di Ambrogio (i vescovi Attone da Vimercate e Arnolfo da Landriano) ispireranno una strategia di potere apertamente indirizzata a colpire i nuclei di più rilevante presenza fondiaria delle stirpi di rango comitale.

(36) Si vedano, a titolo di esempio, I Placiti del “Regnum Italiae”, a cura di C. Manaresi, II/1, Roma 1957 (Fonti per la Storia d’Italia, 96.1), nn. 145-146, 173, 203, 205, 217 e II/2, Roma 1958 (Fonti per la Storia d’Italia, 96.2), nn. 288, 299-300.

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e fortemente intenzionato ad appianare mediante pacifica transazione una vicenda che si trascinava forse da anni, come latente contenzioso tra i pro-getti vescovili di compattazione del territorio e le resistenze di un dominus lontano.

L’iniziativa del presule bergamasco assume infatti tanto più valore in quanto si consideri l’atteggiamento tutt’altro che inerte di S. Martino di fron-te alle pressioni cui, allora, venivano sottoposti i propri possedimenti nel re-gnum Italiae: apprendiamo da Muratori la notizia che nel 1025, a pochi mesi dal placito bergamasco, i canonici di tours avevano attraversato le Alpi per dirimere una controversia sorta con i marchesi Bonifacio, Azzone, Oberto e Ugo, “propter terras Beati Martini (...) quas iniuste tenebant”37. Quanto ai possedimenti seriani e scalvini, solo qualche anno prima della loro cessione in integrum essi ne avevano ricercato (e ottenuto) conferma da parte dell’im-peratore Ottone III38.

La permuta del 1026, in ultima analisi, sembra rappresentare l’esito di un’operazione vincente condotta dall’episcopato bergamasco, chiara nei suoi preannunci e coerente negli sviluppi, la cui lettura non può prescindere da una più generale considerazione del quadro politico e istituzionale che ne fa da sfondo. Per ampiezza di contenuti e dinamiche concrete di produzione, essa suggella nella maniera più eclatante possibile un progetto di rafforza-mento accuratamente predisposto e, al tempo stesso, offre gli spunti necessa-ri per un decisivo salto di qualità nella strategia vescovile. È qui che il nostro percorso di analisi può agganciarsi a quello di Manaresi, una volta che sia stato verificato come il potenziamento di fatto della mensa vescovile sul ter-ritorio esterno alla città precedette (e seguirà) di molto la ricerca di un’espli-cita sanzione dall’alto, attraverso un progressivo arricchimento dell’arsenale documentario che svela un notevole grado di progettualità.

Di poco posteriore agli eventi sopra descritti – e pianificata proprio per puntellarli, giusta l’osservazione di Jarnut – fu la falsificazione del citato diploma ascritto a Ottone II con cui si pretendeva di retrodatare al 968 la concessione all’episcopato bergamasco, oltre che delle “publicas functiones” sul territorio compreso nel giro di tre miglia fuori della città, dell’“omnem totius Seriane vallis districtum et potestatem (…) usque ad terminum eius

(37) L.a. Muratori, Annali d’Italia ed altre opere varie, vol. III. Dall’anno 998 all’anno 1357, Milano 1838, p. 1318.

(38) Il diploma di Ottone III, dato in Roma, reca la data del 998 maggio1 (Ottonis III diplomata, ed. t. siCkeL, Hannover 1893 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata re-gum et imperatorum Germaniae, II/2), doc. 289, pp. 713-714). Seguiva quello, assai lontano nel tempo, di Carlo il Grosso (Karoli III diplomata cit., n. 160, pp. 259-261, dell’887), e la conferma, di soli 8 anni precedente, fatta dal padre Ottone II (Ottonis II diplomata cit., n. 233, pp. 261-262).

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quo a valle Camonica dividitur”39. Sull’amplissima base fondiaria costituita attraverso la permuta del 1026 (e pubblicamente riconosciuta dalla sentenza placitaria) si mirava dunque a sostanziare di contenuti nuovi, mutandoli di segno, il complesso di privilegi immunitari ‘negativi’ riconosciuti ab antiquo alla Chiesa di Bergamo: il presule, per questa via, veniva dunque a trovarsi non solo nella favorevole condizione di totale autonomia nei confronti delle ingerenze di fisco e giustizia regi, ma era formalmente delegato all’esercizio di un pieno potere di districtio su cose e persone.

Dall’operazione fraudolenta messa in atto nello scrinium vescovile risulta fin troppo evidente, a fortunata conferma di quanto detto fin qui, un precipuo interesse di quell’ambiente per la Val Seriana, unica porzione della diocesi espressamente menzionata nel diploma spurio di Ottone II. Al contempo è as-sai interessante rilevare come la pretesa legittimazione dello ius distringendi si estendesse, pur se attraverso una formulazione del dettato meno perentoria e non priva di qualche ambiguità interpretativa, alla restante quota di terri-torio prealpino in cui insistevano altri beni e diritti d’uso ugualmente entrati nella piena disponibilità dei vescovi bergamaschi a seguito dello scambio con la canonica di tours: riguardo alla Val di Scalve, evidentemente, una serie di ragioni esterne imponevano maggiori cautele all’operosità del falsa-rio. Ben difficilmente, ad esempio, poteva essere ignorata la presenza nella zona di due forti e temibili concorrenti come il conte palatino e il vescovo di Brescia, che proprio agli esordi dell’XI secolo erano riusciti a far valere i propri diritti sui valichi d’accesso alla Val Camonica: è del 1018 la promessa ricevuta da Landolfo di Brescia e dal comes Lanfranco, congiuntamente al presule bergamasco Alcherio, di non essere molestati nel loro pacifico pos-sesso del monte Negrino da parte degli homines de Scalve40. Ma forse, al di là di quest’episodio isolato e dello specifico oggetto della contesa (in cui già a fine XI secolo subentreranno nuovi protagonisti e che conoscerà alterne vicende, trascinandosi fin nella piena età moderna), era la crescita stessa della vicinantia degli Scalvini a rappresentare il più serio ostacolo al dispiegarsi di una compiuta egemonia vescovile bergamasca nell’area. Nel 1047 la loro intraprendenza politica ed economica trovò piena consacrazione in un diplo-ma di Enrico III con il quale veniva riconosciuta “omnibus hominibus habi-tantibus in monte Scalfi facultatem et largitionem negociandi et eorum ferri vel quicquid voluerint per vastitudinem (…) imperii vendendi usque montem Cruciam et montem Bardonem”, senza alcun obbligo nei confronti di autorità ecclesiastiche o di funzionari pubblici, eccettuato il versamento di 1000 lib-

(39) Cfr. supra, testo corrispondente alle note 1 e 4. (40) Cfr. M. LuPo, cit., II, coll. 491-492.

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bre di ferro da consegnare annualmente presso la corte regia di Darfo41. D’altronde anche nella seconda metà dell’XI secolo, dopo aver accampato

con un nuovo falso diploma, ascrivendola a un’elargizione dello stesso Enrico III, la delega di poteri comitali su tutta la diocesi, dall’Oglio all’Adda e dalla Valtellina a Casalbuttano42, non si concentreranno sulla Val di Scalve, ma, ancora una volta, sulla vicina Val Seriana, le mire dei vescovi bergamaschi e i loro propositi di accaparramento delle ricche miniere delle Prealpi Oro-biche.

Rimaste escluse, fino agli anni Settanta dell’XI secolo, dal patrimonio vescovile, vi entreranno a mezzo di acquisti perfezionati grazie a cospicue somme di denaro durante l’episcopato di Arnolfo da Landriano, il potente vescovo filo imperiale scomunicato a più riprese da papa Gregorio VII con l’accusa di simonia e definitivamente deposto da Urbano II nel 109843. Certo, stabilire un’automatica connessione fra la compravendita di ingenti beni e diritti sulle miniere d’argento di Ardesio e la disponibilità di risorse mone-tarie accumulate grazie ai traffici di cariche ecclesiastiche è senz’altro ridut-tivo, e l’approfondimento del tema richiederebbe ben altro spazio di quello a disposizione: tuttavia non può essere taciuto che le cartule venditionis di cui dobbiamo occuparci presentino indiscutibili peculiarità proprio laddove le cifre pattuite corrispondono esattamente alle somme di denaro percepite dalla curia in occasione della vendita della carica arcidiaconale44. Ciò che qui maggiormente interessa, ad ogni modo, è che gli acquisti inaugurino (e quasi esauriscano) una nuova fase nelle dinamiche di consolidamento patrimoniale da parte del vescovo, dopo un primo periodo di accumulo fondiario conse-guito, come si è visto, soprattutto a mezzo delle permute. D’inedito, a fine XI secolo, vi è anche la totale assenza di attività falsificatorie con cui tentare un

(41) Heinrici III diplomata, edd. h. BressLau, P. kehr, Berlin 1931, rist. anast. München-Hanover 1980 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germa-niae, V), n. 199, pp. 255-257 (Mantova, 1047 maggio 1). Sulla precoce e robusta affermazione della vicinantia degli Scalvini cfr. F. Menant, Dai Longobardi agli esordi del Comune, in Storia economica e sociale di Bergamo. I primi millenni: dalla preistoria al medioevo, vol. II, a cura di M. Fortunati e R. PoGGiani keLLer, Bergamo 2007, pp. 709-771, qui alle pp. 769-770.

(42) Heinrici III diplomata... cit., n. *387, pp. 531-533 (Mainz, 1041 [?] aprile 5); ora an-che in Le pergamene, II/1, n. *274, pp. 463-466.

(43) Sulla carismatica e controversa figura del vescovo Arnolfo, della famiglia capitaneale milanese dei de Landriano, si veda ora G. De anGeLis, cit., pp. 189-206.

(44) L’accusa di simonia, mossa ad Arnolfo per aver venduto la carica di arcidiacono della cattedrale a Reginfredo per cinquanta lire, pendeva sulla testa del presule bergamasco fin da-gli esordi del suo episcopato, come risulta da una epistola del 1079 inviata da papa Gregorio VII a Rainaldo vescovo di Como: cfr. GreGorii PaPae Vii Registrum, ed. e. CasPar, Berolini 1920-1923, rist. anast. München 1990 (Monumenta Germaniae Historica, Epistolae selectae, II/II), liber VI, 39, pp. 455-457.

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potenziamento de iure, oltre che de facto: assenza tutt’altro che casuale per un episcopato tra i più saldamente installati nel campo imperiale, che certo avrebbe trovato in Enrico IV una sponda sicura per eventuali conferme di precedenti concessioni sovrane.

Dal punto di vista del radicamento in alta Val Seriana, la strategia di Arnolfo vescovo non potrebbe essere più chiara: se scopo degli acquisti è ottenere piena disponibilità, “proprietario iure”, delle miniere d’argento di Ardesio, la ricercata, definitiva estromissione da quella zona del ramo Mar-tinengo dei Gisalbertini (poi duramente colpiti nelle loro basi fondiarie e signorili anche in altre zone del comitato), svela i profondi contenuti politici dell’iniziativa.

Il 31 dicembre 1077 furono Otta vedova di Alberico, da Martinengo, con il consenso dei figli Lanfranco e Ottone suoi mundoaldi, a vendere per cin-quanta lire di denari d’argento a Landolfo del fu Leone, prete e camerarius, tutto ciò che a loro spettava “de vene argenti que sunt in montibus de val-le Ardexie de ipsa villa Ardexie in supra”45. Landolfo non viene qualificato come camerario vescovile, e neppure, nella carta, si dice che egli agisca per conto dell’episcopato. Che sia il vescovo Arnolfo, comunque, il destinatario (che sia lui l’ispiratore della transazione e della curia il denaro) è più che suf-ficientemente chiarito dalla successiva promessa degli autori di non avanzare rivendicazioni in futuro sull’oggetto della vendita. Lanfranco e Ottone figli del fu Alberico, da Martinengo, con le rispettive mogli, nel dichiarare che rinunciano a ogni diritto sulle miniere, si rivolgono direttamente “Arnulfo electo episcopo Sancte Bergomensis Eclesie”46, e sempre nelle mani del ve-scovo, due giorni dopo, il camerario Leone rimette tutto ciò di cui era entrato in possesso “in montibus de valle Ardexie da ipsa valle insuper”47.

Uno stesso acquisto fittizio (compiuto cioè, pur tacendo la cosa, per conto del vescovo) di altre quote di diritti sempre sulle miniere della Valle di Ar-desio, sarà perfezionato circa un anno dopo, il 23 dicembre 1080, da Olrico da Lallio, suddiacono della Chiesa di Bergamo, per venti lire di denari d’ar-gento48. In questo caso non possediamo né la relativa promessa dei venditori (Ottone e suo figlio Guala, da Martinengo), né la carta di donazione di Olrico che dovette seguire alla vendita: ma il fatto che nessuno, a eccezione del

(45) Le pergamene degli archivi di Bergamo, aa. 1059 (?)-1100, a cura di M. Cortesi e a. Pratesi, edizione critica di G. anCiDei, C. CarBonetti VenDitteLLi, r. CosMa, Bergamo 2000 (Fonti per lo studio del territorio bergamasco, XVI), n. 214, pp. 340-341 (1077 dicembre 31, Paterniaha).

(46) Ivi, n. 215, pp. 341-342 (1077 dicembre 31, Martinengo). (47) Ivi, n. 216, pp. 343-344 (1078 gennaio 2, Bergamo, nell’episcopio).(48) Ivi, n. 217, pp. 344-346 (1080 dicembre 23, Albano S. Alessandro).

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vescovo, risulterà poi titolare di diritti sulle vene argenti della zona, ci rende sicuri della lettura. Quanto al silenzio circa la diretta responsabilità vesco-vile negli acquisti relativi alle miniere di Ardesio ed effettuati dalle mani dei Martinengo, una probabile spiegazione, a mio avviso, sta proprio nella giusta considerazione dell’oggetto del negozio e degli autori: basti rilevare come in altri acquisti aventi a oggetto terre e annessi iura in Val Seriana, la dichiarazione di agire “ex parte episcopatui” non venga mai omessa. Così, ad esempio, in due diversi atti del 1091, per i preti Giovanni e Ambrogio, che acquistarono (appunto, non da membri della famiglia Martinengo) cospicui possedimenti fondiari in Clusone49.

Alla storiografia, specie se di ambito non locale, il vescovo Ar-nolfo è sicuramente meno noto per le iniziative prese in esame fin qui che per quelle di cui, avviandomi a concludere, mette conto parlare.

Accanto – spesso in parallelo – agli incameramenti di beni fondiari e di diritti giurisdizionali, colui che il concilio di Guastalla del 1106 chiamerà “invasor Pergamensis Ecclesie” procedette a un’ampia distribuzione di be-nefici a cives cospicui e a esponenti di famiglie aristocratiche del territorio, membri attivi della sua curia e in seguito, quasi senza soluzione di continuità, protagonisti della transizione verso il regime comunale50. Ebbene, gran parte della documentazione vescovile del XII secolo mostra chiaramente come per tutti i successori di Arnolfo (a partire da Ambrogio, insediato sulla cattedra di S. Alessandro nel novembre 1111, dopo oltre dieci anni di vacanza della sede episcopale)51 fosse preminente il tentativo di ripristinare un saldo con-trollo su quei beni, recuperandoli direttamente alla Mensa o facendone uno strumento per legare a sé nuove schiere di fideles52. Con le iniziative di riven-

(49) Cfr. Rotulus Episcopatus, f. 83v. Entrambe le carte di vendita, datate con la sola indi-cazione dell’anno (1091) e registrate nel cartulario duecentesco come esistenti nella Mensa, risultano deperdite.

(50) Sul tema, oltre all’indagine (per molti versi tutt’altro che superata) di a. Mazzi, Stu-di bergomensi, Bergamo 1888, in particolare pp. 17-24, si vedano J. Jarnut, Gli inizi del Comune in Italia: il caso di Bergamo, in “Archivio storico bergamasco”, n. 5 (1983), pp. 201-212, e soprattutto i saggi di F. Menant, Nouveaux monastères et jeunes communes: les Vallombrosains du S. Sepolcro d’Astino et le groupe dirigeant bergamasque (1107-1161), in Il monachesimo italiano in età comunale (1088-1250), Atti del IV Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Pontida, 3-6 settembre 1995), a cura di F.G.B. troLese, Cesena 1998, pp. 269-316, e iD., Bergamo comunale... cit., pp. 20-27.

(51) Sulla designazione di Ambrogio dei Mozzi a successore di Arnolfo, al termine di un prolungato contrasto fra i capitoli cattedrali di S. Vincenzo e di S. Alessandro, cfr. M. LuPo, cit., II, coll. 871-872, e G. De anGeLis, cit., nota 52 p. 274, per una discussione delle fonti documentarie che consentono di circoscrivere gli estremi cronologici dell’elezione.

(52) Il quadro delle iniziative di recupero di beni e diritti durante l’episcopato di Ambro-gio (1111-1133) può essere ricostruito con una certa continuità di attestazioni a partire dal Rotulus Episcopatus, in particolare ff. 85r-85v, f. 100v e f. 105r. Di grande importanza la

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dicazione del proprio potere si apre una terza fase (insieme politica e docu-mentaria) nella storia della presenza vescovile anche – e soprattutto – in area montana. Qui, più che altrove, l’incertezza giuridica dei rapporti reali seguita alla scomunica di Arnolfo, l’assenza per lunghi anni di un riconosciuto pote-re di controllo, la stessa lontananza dal centro diocesano, avevano favorito, accelerandola, la formazione di forti vincoli di solidarietà orizzontale in seno alle comunità locali, e determinato una progressiva erosione delle prerogative vescovili. Lo si vede bene proprio nel caso di Ardesio, i cui vicini, nel 1144, ebbero buon gioco nel dimostrare davanti al neonato tribunale comunale di Bergamo i propri diritti sulle miniere di ferro, che la testimonianza giurata di tre homines consentì di riconoscere senz’altro “sue hereditatis”, in virtù del possesso prolungato e continuativo. Al vescovo Gregorio i consoli cittadini, con abile soluzione compromissoria, garantirono privilegi di antica origine fiscale (in particolare quello di caccia), e in qualche modo lo confermarono nella sua posizione di vertice politico, vietando ai vicini di Ardesio di riunirsi sull’alpe Pacheriola “ut dampnum sue conditionis episcopus patiatur”53.

La reazione vescovile alle prime incrinature del suo prestigio fu decisa ed è abbondantemente documentata in una pluralità di carte di refuta e di promessa, di prestazioni di garanzia e giuramenti di fedeltà, ostensiones ter-rarum e accertamento di confini54. Non solo: come nella prima fase di radi-camento extra urbano, passò attraverso la ricerca di una piena legittimazione da parte della suprema istanza di potere. È del giugno 1156 la concessione di un ampio diploma con cui Federico I, rinnovando le generose elargizioni fatte dai suoi predecessori, assicurava al vescovo Gerardo, suo fidelissimus servitor, cospicui proventi di natura pubblica e assoluta potestà sull’intero comitato, le cui confinazioni erano riprese dal testo del falso privilegio di Enrico III55. Ma non si trattò soltanto della riproposizione di “parametri cir-coscrizionali” in cui, come è stato giustamente osservato su vasta scala, “gli interessi dei poteri regionali […] avvertivano la forza legittimante di un col-

refuta dell’agosto 1118 compiuta da Guala de Saltu di tutto ciò che gli era stato concesso da Arnolfo vescovo, sia a titolo di feudo sia in pegno, in Val Seriana, segnatamente nelle località di Premolo e di Parre, nonché in Valle di Ardesio, di Scalve e in Valle Brembana (Rotulus Episcopatus, f. 85v).

(53) Per una dettagliata analisi della sententia in oggetto sia consentito rinviare ancora a G. De anGeLis, cit., pp. 305-313 (edizione in Appendice documentaria, n. 3, pp. 346-348).

(54) Si concentrano soprattutto negli anni di Guala (1167-1186) e di Lanfranco (1187-1211), come risulta dalle “membranae circa possessum” di Ardesio raccolte nel II volume dei Diplomata seu iura Episcopatus (rispettivamente pergg. 53-66 e 67-73).

(55) Cfr. Friderici I diplomata, ed. h. aPPeLt, Hannover 1975 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, X/I), n. 141, pp. 236-238 (1156 giu-gno 17,Würzburg).

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legamento alla tradizione”56: deciso a trarre fino in fondo le conseguenze dalla sua indubitabile – benché effimera – posizione di forza nei confronti dell’autorità imperiale57, il vescovo puntò a più esplicite, puntuali delimita-zioni di un quadro giurisdizionale evidentemente bisognoso di rinforzi. In-nanzitutto, nel novero delle terre soggette al districtus vescovile, per la prima volta veniva menzionata la Val Brembana (zona di naturale irradiazione di interessi del neonato comune di Almenno e dove sempre più si concentra-vano le mire del capitolo rivale di S. Alessandro)58. Inoltre si osservi come, nella formula di conferma dell’esercizio di publicae functiones in Val Se-riana, lo scriba del diploma federiciano avesse ricevuto precise istruzioni di precisare che “in qua valle continetur plebs de Clisione et domus Admiratę et villa de Parę”: almeno per Clusone sappiamo, dalla documentazione del secolo seguente raccolta e commentata da Barachetti, che si trattò di uno dei centri più attivi nel contrasto alle pretese egemoniche dell’antico senior.

Non sembri arrischiato, dunque, né frutto di una deformazione prospetti-ca, estendere a tali interventi una considerazione puntualmente riproposta in ogni teoria del potere, che, si sa, appare tanto più dinamico quanto più siano minacciati i suoi presupposti e contrastate le sue concrete forme di esercizio.

È vero, nel nostro caso, che occorreranno ancora molti decenni pri-ma che lo svuotamento dei più rilevanti contenuti di dominio politico della signoria episcopale potrà dirsi compiuto; ma è altrettanto evidente che il processo di emancipazione da quel potere fosse ormai innescato in-torno alla metà del XII secolo, e che i successivi reiterati sforzi da parte del vescovo di arginarlo testimoniano chiaramente la sua irreversibilità.

(56) G. serGi, I confini… cit., p. 33. (57) Sugli ultimi difficili anni dell’episcopato di Gerardo, scomunicato da Alessandro III

in quanto sostenitore dell’antipapa Ottaviano di Santa Cecilia e costretto a una difficile coa-bitazione con le autorità comunali, ormai decisamente posizionate sul fronte anti-imperiale, cfr. a. saLa, Girardo vescovo di Bergamo (1146-1167) e la consorteria dei ‘da Bonate’ negli avvenimenti cittadini del secolo XII, in “Bergomum”, n. 80, 1985, fasc. 1, pp. 139-214.

(58) Per il processo di affermazione del comune di Almenno, ben riconoscibile nelle fonti documentarie fin dai primi anni Cinquanta del XII secolo, si faccia riferimento a F. Menant, Bergamo…cit., pp. 28-29 e p. 86. Sulle proprietà di S. Alessandro in Val Brembana cfr. iD., Campagnes…cit., p. 257.

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Riccardo Rao

IL MONtE DI BERGAMO E GLI INCOLtI COLLEttIVI DELLA CIttà (SECOLI XII-XIII)

1. Una ‘montagna di città’: “montanee”, “montes” e beni comunali

Quasi un secolo fa, il geografo francese Raoul Blanchard concludeva che “una definizione stessa della montagna, che sia chiara e comprensiva, è qua-si impossibile da fornire”1. Anche i successivi tentativi di pervenire a un criterio universale in grado di individuare le aree montuose si sono dovuti scontrare con l’impossibilità di basarsi sui soli criteri altimetrici, qualora non si considerino anche ulteriori sfumature relative alla latitudine, al clima e al paesaggio, in particolare alla presenza di superfici scoscese e impervie. La capillare mappatura politico-amministrativa del territorio e il prevalere di parametri statistici ha posto in secondo piano simili problematiche definito-rie, offrendo griglie nel complesso sicure al cui interno incasellare montagna e collina. Si tratta, naturalmente, di criteri di comodo, che del resto variano sensibilmente non solo tra stati contigui alla medesima latitudine, ma anche in corrispondenza delle trasformazioni dell’impianto legislativo.

tali definizioni politico-amministrative lasciano aperte numerose aporie. In particolare, il linguaggio ha adoperato nel corso dei secoli i termini ‘mon-ti’ e ‘montagna’ come categorie ampie, per indicare rilievi di varia natura, anche assai contenuti dal punto di vista altimetrico, ma che a causa di alcune loro caratteristiche (l’elevazione rispetto all’area circostante o i suoli ripidi e incolti) sono stati avvicinati alla montagna propriamente detta. Come sinte-tizzavano Paul et Germaine Veyret, “queste parole sono nate troppo presto, quando la culla del francese ignorava le vere montagne e quando nessuno sentiva il bisogno di inserire un ordine di grandezza tra le asperità della su-perficie terrestre”2.

Per comprendere come alcuni rilievi orografici siano stati assimilati all’ambito montano, occorre dunque abbandonare le categorie della geografia fisica per penetrare in quelle della percezione dello spazio e della sedimen-

(1) R. BLanCharD, Préface a J. BLaChe, L’homme et la montagne, Paris 1933, pp. 7-9. (2) G. Veyret e P. Veyret, Essai de définition de la montagne, in “Revue de géographie

alpine”, n. 50, 1962, pp. 5-35, qui a p. 5.

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tazione storica del paesaggio3. Se si recuperano le prassi classificatorie usate nei secoli passati, la categoria di montagna appare assai fluida: in particolare, il termine montanea nella documentazione dei secoli bassomedievali fu non di rado utilizzato – per esempio a testona, Moncalieri, Pinerolo e Mondovì nel Duecento – per inquadrare rilievi prossimi agli abitati che, malgrado le modeste altimetrie, erano caratterizzati da superfici scoscese, ben individua-bili rispetto alle aree circostanti e dominate da attività legate al pascolo e allo sfruttamento del bosco4.

In una simile prospettiva di aderenza alle categorie impiegate nel medio-evo, la situazione del ‘Monte di Bergamo’ in età comunale propone notevoli suggestioni: all’identificazione di tale rilievo concorrevano, come meglio si vedrà, tanto alcune caratteristiche fisiche, quanto le pratiche di sfruttamento del territorio da parte della popolazione urbana. Una cospicua porzione delle comunanze bergamasche, probabilmente la più estesa, si concentrava sul mas-siccio a nord-ovest della città. tale zona, che sin dall’inizio del X secolo veniva indicata nella documentazione come Mons Civitatis o Mons Pergami, coinci-deva con una vasta area che dalla Porta di Sant’Alessandro, lungo la Valle di Astino, giungeva sino al castello di Breno, presso l’attuale Sombreno5.

L’intensa e precoce pressione antropica si dovette confrontare con super-fici irregolari, che ancor oggi risultano in buona misura destinate all’incolto, registrando risultati incompleti proprio per via delle caratteristiche ambien-tali dell’area interessata. Per usare le parole di François Menant, a proposi-to della “rivoluzione agricola che trasforma la frangia collinare nella prima

(3) Per un inquadramento generale dei problemi di percezione del paesaggio e dello spa-zio vissuto si rimanda a R. CoMBa, Il territorio come spazio vissuto. Ricerche geografiche e storiche nella genesi di un tema di storia sociale, in “Società e storia”, n. 11, 1981, pp. 1-27.

(4) Cartario della abazia di S. Solutore di Torino. Appendice di carte varie relative a chiese e monasteri di Torino, a cura di F. CoGnasso, Pinerolo 1908, n. 80, pp. 102-103; M. Castorina BattaGLia, Il registro delle sorti del comune di Moncalieri nel 1278, in “Annali dell’Accademia di agricoltura di Torino”, n. 118, 1975-1976, pp. 157-19; Gli statuti di Pine-rolo, a cura di D. seGato, in Leges municipales, IV, Torino 1955, capp. 319-321, coll. 94-97; Il libro verde della Chiesa d’Asti, a cura di G. AssanDria, Pinerolo 1904, I, doc. 14, p. 46. Appaiono differenti alcune situazioni delle Alpi Orientali dove l’espressione viene usata per spazi prossimi alla città, ma caratterizzati da altimetrie notevoli, come la montanea Bondoni nelle immeditate vicinanze di Trento e superiore ai 2000 metri: G.M. Varanini, Le relazioni istituzionali fra montagna e città e montagna sul versante meridionale delle Alpi Orientali nel tardo medioevo: alcuni esempi, in Villes et montagne, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, n. 5, 2005, pp. 125-138 (alle pp. 134-136 per Trento). Simili espressioni risultano di frequente adoperate come equivalente montuoso della campanea, su cui A. CastaGnetti, La “campanea” e i beni comuni della città, in L’ambiente vegetale nell’alto Medioevo, XXXVII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medio-evo (30 marzo – 5 aprile 1989), Spoleto 1990, I, pp. 137-174.

(5) Sul Mons Civitatis si vedano le precisazioni di A. Mazzi, Corografia bergomense nei secoli VIII, IX e X, Bergamo 1880, pp. 56-57.

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metà del XII secolo”, innervandola con castagneti, vigne e arativi, “la foresta persiste sulle alture”6. In effetti, sin dal X secolo, menzioni di campi e di arroncamenti intaccarono le estensioni boscose del Mons, anche se queste ul-time sopravvissero nelle vaste aree dove i dissodamenti risultavano più ostici per via delle pendenze, tutt’al più trasformate dall’innesto del castagno sul manto vegetale originario.

Sebbene dal punto di vista altimetrico tale rilievo superi di poco i 500 metri di altitudine, per via delle superfici impervie e della conformazione, che dava luogo a valles, montes, grumelli e forcelle, le sue superfici costitui-vano per i Bergamaschi una ‘montagna di città’ – un Mons Civitatis, appunto, come recitano i documenti –, in grado di garantire un’importante riserva incolta per le pratiche di raccolta della legna, di pascolo e di caccia, ma anche un potenziale bacino di terreni da trasformare, almeno in parte, sulle pendici meno scoscese, in campi, per rispondere alla richiesta di grano di una popo-lazione in crescita7.

2. Gli incolti collettivi dai “milites” al comune: brughiere pianeggianti e rilievi boschivi a nord-ovest della città nel XII secolo

Nella cornice storiografica di primo Novecento, Angelo Mazzi fu tra i pri-mi studiosi a dedicare ampio spazio a un tema che si stava allora imponendo all’attenzione degli storici: i beni comuni. Rispetto alle ricerche sull’argo-mento prodotte in quello stesso periodo, appesantite da generalizzazioni e da quel fastidioso approccio che sarebbe stato stigmatizzato da Marc Bloch con la felice espressione ‘il mito delle origini’, il Mazzi, nelle Note suburbane, preferì un’impostazione erudita, ma concreta, fondata su una severa disami-na delle fonti. Egli ricostruì le aree dove erano ubicate le comunanze berga-masche, mostrando significativi tratti di continuità con l’età precomunale8.

Per quanto meritevole di avere affrontato in maniera puntuale la questio-ne, l’opera del Mazzi, alla luce della sensibilità storiografica attuale, non è esente da limiti. Oltre a una tendenza al descrittivismo, lo studioso bergama-sco risolse l’evoluzione delle proprietà collettive in termini di continuità, in

(6) F. Menant, Campagnes lombardes du moyen âge. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, pp. 162-153.

(7) Di una “montagna per la città” ha parlato, a proposito degli alti pascoli lessini (1300-1800 metri), a circa 15 chilometri da Verona, G.M. Varanini, Una montagna per la città. L’alpeggio nei Lessini veronesi nel Medioevo (sec. IX-XV), in Gli alti pascoli dei Lessini veronesi. Natura storia cultura, a cura di P. Berni e U. sauro, Verona 1991, pp. 1-75.

(8) A. Mazzi, Note suburbane, Bergamo 1892.

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linea con gli orientamenti correnti nella storiografia dell’epoca9. L’approccio topografico, che pure costituisce uno degli elementi più originali del volume, contribuì a ricostruire i beni comunali bergamaschi come un contenitore vuo-to, sottratto ai ritmi della storia e ancora da riempire delle dinamiche sociali e istituzionali interne, in realtà assai differenziate a seconda delle epoche.

In un quadro storiografico rinnovato, che negli ultimi anni si è mostra-to sensibile al ruolo delle risorse collettive come significativo indicatore dei contenuti delle politiche comunali e dei loro indirizzi istituzionali, sembra quindi opportuna una ripresa dell’argomento. Rispetto all’interpretazione continuista del Mazzi, si tratta di capire come, sin dagli esordi, il comune di Bergamo modellò in forme nuove questo rilevante settore, dispiegando interventi significativi, via via più sofisticati con il progredire della macchi-na amministrativa municipale. I governi civici si appropriarono degli ampi spazi incolti a ridosso della città non attraverso rivendicazioni astratte, ma piuttosto grazie a concreti e ripetuti interventi sul terreno. L’accurata gestio-ne delle comunanze – attraverso operazioni mirate, segnate da un’accentuata ritualità, che inculcarono nella percezione dei cittadini e dei rustici la natura pubblica di tali beni – si rivelò uno strumento decisivo di governo del territo-rio, innescando e regolando dinamiche sociali complesse.

Le prime menzioni dei beni comunali bergamaschi, coeve con le più an-tiche testimonianze del comune cittadino, offrono l’occasione di confrontarsi da vicino con la proposta storiografica che negli ultimi anni ha più vivace-mente animato il dibattito sulle proprietà collettive in età comunale: la tesi di Jean-Claude Maire Vigueur, secondo cui i milites, la cavalleria urbana, detenevano “diritti speciali” sulle proprietà collettive o almeno su parte di es-se10. Una traccia significativa di tali pratiche di sfruttamento esclusivo è stata reperita dallo studioso francese nei Prati di Arsula di Pisa e nel Campo di Marte di Verona, che, nella seconda metà del XII secolo, venivano destinati al pascolo dei cavalli e probabilmente all’addestramento dei cavalieri. Anche in altri comuni italiani, come Alba, Vercelli e Vicenza, esistono menzioni di campi marzi, anche se è probabile che il loro peso all’interno delle risorse

(9) Sulla storiografia dell’epoca si rimanda a R. rao, I beni del comune di Vercelli. Dalla rivendicazione all’alienazione (1183-1254), Vercelli 2005, pp. 11-19; iD., Comunia. Le risor-se collettive nel Piemonte comunale (secoli XII-XIII), Milano 2008, pp. 21-32.

(10) J.-C. Maire ViGueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia co-munale, Bologna 2004, p. 240. Per il Campo Marzio di Verona si rimanda anche al solido lavoro erudito di G. Ferrari DaLLe sPaDe, La Campagna di Verona dal secolo XII alla venuta dei Veneziani. Contributo alla storia della proprietà comunale dell’alta Italia, in “Atti del regio Istituto veneto di scienze, lettere ed arti”, n. 74, 1914, pp. 41-104. Sul problema dei Campi di Marte si veda A.A. settia, Comuni in guerra, armi ed eserciti nell’Italia delle città, Bologna 1993, p. 49.

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collettive urbane fosse limitato11: ad Alba e Vercelli, su tali superfici vantava prerogative il vescovo. Almeno a Vercelli, inoltre, nella seconda metà del XII secolo il campo marzio risultava agrarizzato e diviso in parcelle12. Il quadro delle città italiane risulta, comunque, nel complesso assai diversificato.

A Bergamo, un’attestazione analoga è riportata da Mosè del Brolo, che scrive, come è noto, grosso modo tra il 1115 e il 1125. A proposito di Lon-guelo, egli ricorda che “hic Martis iuvenes affectabantur ad arma / atque fera pugnas ictusque repellere parma. / Marcius inde quidem campus locus iste vocatur, / quamvis nullus ibi ludus vel pugna geratur”13. Si trattava di una vasta area incolta a ovest della città, tra Broseta e Longuelo. La “Bruga de Longuelo” e la “Broseta” – come viene indicata tale area nelle pergame-ne – sembrano rimandare a brughiere analoghe alle braide lombarde e alle baragge piemontesi, talora documentate in età comunale, per esempio a No-vara nei primi decenni del Duecento, come pascoli collettivi siti nei suburbi. Ubicato alle pendici del Mons Civitatis, all’inizio del XII secolo il Campo di Marte bergamasco aveva ormai perso la sua funzione di addestramento delle milizie urbane, anche se ancora ne esisteva la memoria. È probabile che negli stessi anni in cui nasceva il comune, i privilegi dei milites sulle risorse collet-tive, peraltro circoscritti ad alcune aree, fossero in via di estinzione14.

Il valore residuale di tali prerogative sin dalla prima età comunale è con-fermato dai primi due atti del comune di Bergamo, del 1117. Affiancati da due individui appartenenti all’antica classe dirigente precomunale, i consoli donarono al monastero di Astino, la cui fondazione era stata avviata un de-cennio prima15, un appezzamento prativo – ritagliato, come emerge dall’ana-

(11) R. rao, Comunia... cit., p. 164.(12) Le carte dell’archivio arcivescovile di Vercelli, a cura di D. arnoLDi, Pinerolo 1917,

n. 13, pp. 230-231.(13) G. Corni, Il “Liber Pergaminu” di Mosè del Brolo, in “Studi Medievali”, n. 11, 1970,

pp. 409-460, qui a p. 446 (pp. 414-420 per il problema della datazione).(14) A conferma della progressiva agrarizzazione del Campo Marzio, nel 1170, un certo

Ottobello Campanile possedeva una pezza di arativo “in Campo Martio”, nei pressi della Broseta (CBBg, Perg., n. 2164, 1170, novembre 18). Nel Duecento è attestata la “Brosceta communis Pergami” (ivi, n. 451, 1203, dicembre 3; ivi, n. 661, doc. in data 1214, maggio 9): per la concentrazione di beni comunali in tale area si veda anche ivi, n. 581-582, rispettiva-mente in data 1185, febbraio 22 e 1187, ottobre 6. Per la connotazione edafica di simili super-fici si veda R. FerLinGhetti, Ambiti significativi del pianalto lombardo: storia, dinamiche, criticità, potenzialità, in Vegetazione e paesaggio. Valori, potenzialità e funzioni del verde per un paesaggio di qualità nell’alta pianura lombarda, a cura di L. PaGani, Bergamo 2005, pp. 73-93, qui alle pp. 75-87. La presenza della brughiera è documentata nella toponomastica attuale a Villa d’Almè.

(15) F. Menant, Nouveaux monastères et jeunes communes: les Vallombrosains du S. Se-polcro d’Astino et le groupe dirigeant bergamasque (1107-1161), in Il monachesimo italiano in età comunale (1088-1250), Atti del IV Convegno di studi storici sull’Italia benedettina

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lisi dei confini, all’interno di una più ampia estensione di pertinenza della collettività (“a montibus Sancti Alexandri et ab aliis partibus comune”) – tra Longuelo e Broseta, nella stessa area dove Mosè del Brolo collocava il Campo di Marte: l’alienazione costituisce un indizio a favore della perdita di importanza della zona come pascolo della cavalleria. Contestualmente, essi elargirono anche due superfici, con tutta probabilità assai più estese, sui monti Carcano e Botta, nell’area che altre scritture indicano come il Mons Civitatis: sebbene intaccati dagli arativi, tali terreni erano per lo più incol-ti, a bosco e a prato16. In quest’area a nord-ovest della città sembra dunque possibile distinguere due tipologie di terreni: una pianeggiante, alle pendici del Mons, caratterizzata dalla presenza di vaste aree pascolive e più soggetta al processo di penetrazione degli arativi; l’altra montuosa e dalla conforma-zione irregolare, dominata dal bosco e sfruttata soprattutto per la caccia e la raccolta della legna.

I terreni ceduti erano interessati da forme di godimento pubblico, perché, per concludere l’alienazione, era stato richiesto il consenso dell’intera collet-tività, di cui, in realtà, solo una parte, per quanto maggioritaria, si era espres-sa in maniera favorevole al provvedimento (“per parabolam et consensum fere omnium civium Pergamensium”): come in altri centri, la vendita delle comunanze aveva probabilmente innescato divisioni tra la classe politica e i settori della società con essa schierati da un lato e i segmenti della cittadinan-za più danneggiati dalla perdita dei diritti di uso collettivo dall’altro17.

Sin dalla sua prima attestazione, il comune sembra dunque gestire in au-tonomia i beni comuni. È, anzi, probabile che l’eclissi del governo vescovile, titolare del dominio eminente sulle comunanze, avesse sollecitato la defini-zione istituzionale dell’autogoverno cittadino e la sua nascita per regolare questo complesso ambito della vita comunitaria. La precoce appropriazio-ne da parte delle magistrature municipali delle funzioni di gestione delle risorse collettive ha contribuito a orientare l’interpretazione del Mazzi, in consonanza con numerosi studi dell’epoca, in termini di continuità con il

(Pontida, 3-6 settembre 1995), a cura di F.G.B. troLese, Cesena 1998, pp. 269-316, qui alle pp. 272-282. Si deve sottolineare l’importanza della donazione, che costituiva una sorta di seconda fondazione per Astino.

(16) G. De anGeLis, Poteri cittadini e intellettuali di potere. Scrittura, documentazione, politica a Bergamo nei secoli IX-XII, Milano 2009, alle pp. 341-346 per l’edizione dei docu-menti e alle pp. 281-299 per l’interpretazione degli stessi.

(17) Rispetto alle alienazioni di beni comunali patrimoniali, quelle dei terreni sottoposti a uso pubblico necessitano, affinché la transazione sia valida, del consenso dell’intera comu-nità (A. Dani, Aspetti e problemi giuridici della sopravvivenza degli usi civici in Toscana in Età moderna e contemporanea, in “Archivio storico italiano”, n. 157, 1999, pp. 285-326, qui alle pp. 292-294).

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periodo precedente alla nascita del comune. In realtà, rispetto alle più antiche forme di sfruttamento collettivo, sin dalla sua prima attestazione le autorità municipali si indirizzarono – attraverso l’alienazione – verso una gestione patrimoniale di tali beni18.

Come meglio si vedrà, gli orientamenti adottati dai governi comunali nel secolo successivo presentano una notevole distanza rispetto alle scritture del 1117: queste ultime suggeriscono uno iato tra istituzioni e beni comuni sul piano del controllo del territorio. Soltanto i singoli cittadini che beneficiava-no dei diritti collettivi di fruizione di tali incolti ne avevano una percezione concreta, realizzata sul terreno, mentre le magistrature municipali sembrano avere mantenuto una funzione esterna, poco consapevole della definizione territoriale del bene. I consoli si limitarono a donare tali beni, adottando pe-raltro, nel caso della superficie montuosa sui monti Carcano e Botta, una definizione assai generica, priva di misurazione e poco precisa dal punto di vista dei confini (“in monte de Carcano et in monte de Bota est posita, et in plano et in valle in circuitu ipsius monasterii”). L’azione del comune sulle risorse collettive – soprattutto sulle superfici irrregolari del Mons – non si era tradotta in disciplinamento del territorio.

3. Le inchieste sui beni comuni

Un nuovo modo di gestire le risorse collettive emerge lentamente a partire dalla fine del XII secolo, nell’ultima stagione consolare, e si perfeziona nel secondo quindicennio del Duecento. tale periodo coincide in buona misura con l’instaurazione di nuovi equilibri istituzionali: si tratta degli anni in cui si affermò il regime podestarile, in coincidenza con una forte pressione del popolo sugli ordinamenti municipali, avviata all’inizio del XIII secolo con la creazione della cumpania nova e concretizzata nel 1230 con l’inserimento dello statuto della società del popolo nel codice delle leggi comunali19.

A tali trasformazioni corrispose un potenziamento degli strumenti ammi-nistrativi, che ricevette una decisa accelerazione negli anni 1215-1221: attor-no al 1215 fu avviata la prima compilazione del volume degli statuti, al cui interno, nel 1221, furono fatte inserire una serie di disposizioni emanate dal podestà di origine cremonese Lanfranco Moltidenari. Da tali provvedimenti risalta la volontà del comune di regolare in maniera attenta le proprietà col-lettive, attraverso una pratica che in quel torno di anni si stava diffondendo in

(18) Sull’affermazione patrimoniale dei comuni nella gestione delle risorse collettive, si rimanda a R. rao, Comunia... cit., pp. 43-94.

(19) C. storti storChi, Diritto ed istituzioni a Bergamo in età comunale, Milano 1984, pp. 278-299.

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tutta l’Italia settentrionale, impiegata a fondo dai governi civici per control-lare le comunanze: l’inchiesta amministrativa. Gli statuti prevedevano che il rettore urbano dovesse effettuare apposite inquisitiones, diligentemente messe per iscritto, per ricercare i beni del comune di Bergamo, quelli nel territorio suburbano, ma anche quelli, conseguiti in vario modo, ubicati nel contado20.

Esiste una preistoria delle inchieste del comune – le calcationes come vengono definite dalle scritture bergamasche – che risale almeno all’ultimo quarto del XII secolo. Nel 1186, il governo civico si era scontrato con i Val-lombrosani di Astino per un terreno in parte a prato, campo e brughiera, ubi-cato non lontano dal monastero: il fondo era stato oggetto di una ‘calcazione’, che aveva portato all’apposizione di cippi confinari da parte delle autorità municipali. Rispetto alle inchieste sistematiche promosse dagli statuti, in tale occasione la pratica aveva probabilmente avuto un utilizzo circoscritto, limitato ad alcuni beni oggetto di contesa21. Questa prima fase di disciplina-mento amministrativo delle comunanze proseguì nei decenni successivi. Nei primi anni del Duecento, il comune incaricò un suo procuratore, Pellegrino Guaniazzi, di procedere ad alienazioni: è probabile che le cessioni, di cui non è possibile misurare il numero e l’estensione, e le eventuali operazioni pre-liminari di ricognizione avessero contribuito a rafforzare la percezione del-la pertinenza comunale del territorio suburbano, in particolare dell’area del Mons Civitatis, di certo interessata dalle dismissioni municipali. In una lite tra Astino e il capitolo cattedrale del 1213, già messa in evidenza dal Mazzi, il preposito di Sant’Alessandro aveva dichiarato che siccome il comune ave-va venduto beni nella valle di Astino tale area doveva essere considerata di pertinenza della città22.

Gli archivi di Astino e del capitolo cattedrale testimoniano l’effettivo svolgimento delle calcazioni del 1221 in città e nel suburbio e il loro impatto sul territorio. Le operazioni erano state delegate a Federico della Crotta e a Galizio Durento, accompagnati dal notaio Oberto Caniasi: essi erano stati eletti con l’incarico di ricercare i comunia in città e nelle sei miglia circo-stanti (“ad comunia comunis Pergami aperienda, calcanda, terminanda et mensuranda per civitatem et suburbios civitatis Pergami et per sex miliaria

(20) Antiquae collationes Statutis Veteris civitatis Pergami, a cura di G. Finazzi, Leges Municipales, II, Torino 1876 (Historiae Patriae Monumenta, XIV), § 14.3, 14.6, 14.7, coll. 2019-2020.

(21) CBBg, Perg., n. 1948, 1186, dicembre 22. Negli stessi giorni, il comune e Astino si erano scontrati anche per una fontana nella stessa zona (ivi, n. 1523, 1186, dicembre 18).

(22) A. Mazzi, Note... cit., pp. 138-139.

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prope civitatem”)23. Si deve sottolineare il valore nient’affatto conservativo dell’inchiesta.

Piuttosto che alla tutela dei terreni sottoposti a forme di godimento collet-tivo, essa era intesa a estendere il più possibile i diritti del comune, con una marcata rivendicazione della titolarità municipale degli spazi pubblici e della pertinenza civica del territorio suburbano. Come avvenne in numerose città padane, in coincidenza con l’approfondimento della riflessione sulla Pace di Costanza, gli ufficiali civici apposero i termini che segnavano la proprietà municipale anche sulle vie (in particolare sulla via che dalla torre del Gom-bito conduce alla canonica di San Vincenzo), suscitando le proteste del ca-pitolo24. I calcatores comunis requisirono, però, soprattutto terre al di fuori della città, per lo più sul Mons. Nella valle di Astino la loro attività suscitò le proteste del monastero dei vallombrosani25. Le indagini degli incaricati furo-no volte a richiamare alla mano pubblica il maggior numero di beni possibili, senza valutare preventivamente i titoli dei possessori coinvolti. Soltanto in un secondo tempo, nel 1222, il nuovo podestà, Guglielmo di Lendinara, delegò a due giudici, Ventura Riva e Giovanni di Legnago, il compito di verificare nel dettaglio le requisizioni avvenute26. Anche laddove i pronunciamenti fu-rono favorevoli agli antichi detentori, le inchieste, piantando i cippi confinari del comune e iscrivendo i fondi nei registri delle calcationes, avvalorarono le pretese municipali. Esse riuscirono a creare un diritto nuovo, capace di radicarsi, come meglio si vedrà, in profondità nelle percezioni collettive e, ta-lora, anche di scalzare i titoli certificati dalle carte: nel 1233, per esempio, in occasione di nuove indagini, i canonici di Sant’Alessandro acquistarono dal comune un terreno già ‘calcato’ nel 1221, che tuttavia, secondo una sentenza del 1222, doveva essere di loro spettanza27.

Dopo il 1221, il comune effettuò ulteriori inchieste generali sulle proprie-tà collettive: nel 1233, il podestà di origine bolognese Federico Pascepoveri ordinò una calcatio su tutte le terre e le vie del comune nel raggio di sei miglia dalla città, affidata a Lanfranco Avvocati e a tagliaferro Lazzaroni (come per il 1221, sembra possibile ipotizzare che i due calcatores fossero un

(23) ASDBg, Perg. cap., n. 357, 1221, aprile 14. Si veda anche CBBg, Perg., n. 1749, 1222, novembre 16: “ad comunia aperienda et calcanda et mensuranda et terminanda per civitatem et subburgis Pergami et per sex miliaria prope civitatem Pergami ut in statuto comunis Per-gami continetur de terris calcandis et terminandis et mensurandis”.

(24) ASDBg, Perg. cap., n. 357, 1221, aprile 14.(25) CBBg, Perg., n. 1749 0E, 1221, giugno 12; n. 1749 0D, 1221, novembre 16.(26) CBBg, Perg., n. 1749, 1222, novembre 16; ADBg, Perg. cap., n. 2294, 1233, marzo 21;

3350, 1233, novembre 18.(27) ASDBg, Perg. cap., n. 2294, 1233, marzo 21.

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miles e un popolare)28. Nel 1249, il podestà imperiale Girardo Lupo di Parma diede disposizioni per l’effettuazione di “plures calcationes”, affidate ai giu-dici Mascardo di Serina e Pagano della Scala e al notaio Belebono di Osio29. Probabilmente un’ulteriore inchiesta avvenne nel 1251, sotto il podestà Mau-ro Beccaria di Pavia, con la redazione di un apposito liber30.

Le calcationes sui beni comunali entrarono a fare parte del lessico ammi-nistrativo del comune: attuate a più riprese, esse diedero luogo alla scrittura di libri calcationum, essenziali per evitare la perdita dei diritti municipali sulle risorse collettive e per conseguirne una gestione efficiente31. Le modali-tà di conduzione dei comunia attraverso inchieste delegate a specifici ufficiali contribuirono a placare le nuove esigenze finanziarie del comune podestarile. Esse devono essere ricondotte all’interno del più ampio sforzo delle autorità pubbliche di potenziare gli strumenti in grado di drenare nuove risorse nelle casse municipali, a partire dall’intensificazione della fiscalità: lo stesso anno in cui comandava le calcationes sulle comunanze, il Moltidenari impose un nuovo fodro nel contado32.

La complicazione amministrativa, gli ambiziosi progetti dispiegati sul territorio e le crescenti spese militari nell’età di Federico II consigliarono di agganciare la gestione delle comunanze alle spese civiche: le maggiori richieste di denaro dell’erario pubblico spinsero i governi podestarili a sfrut-tare nella maniera più redditizia possibile tali risorse, effettuandone frequenti ricognizioni e gestendole attraverso affitti e vendite, anche a scapito delle forme di godimento collettivo che gravavano su tali beni. L’esito delle cal-cationes del 1233 fu la disposizione del consiglio cittadino di vendere i beni del comune al fine di pagarne i debiti (“vendendi de terris et possessionibus comunis Pergami pro debitis propriis comunis Pergami solvendi”)33. Anche le indagini del 1249 si conclusero con la decisione, presa l’anno seguente dal consiglio, di cedere i terreni avocati agli occupanti34.

I regimi di popolo non furono estranei a tali trasformazioni, che anzi si intensificarono in corrispondenza con l’ascesa dei popolari al vertice del-le istituzioni municipali: significativamente, nel 1250, il consiglio cittadino delegò l’alienazione dei comunia ‘calcati’ l’anno precedente ai giudici Gu-

(28) CBBg, Perg., n. 429, 1233, maggio 20.(29) ASDBg, Perg. cap., n. 2199, 1250, gennaio 31.(30) Si veda il contributo di P.G. noBiLi, in questo stesso volume, alla nota 53.(31) ASDBg, Perg. cap., n. 2199, 1250, gennaio 31.(32) Al riguardo cfr. P.G. noBiLi, Alle origini della fiscalità comunale: fodro, estimo e

prestiti a Bergamo tra fine XII e metà XIII secolo, in “Reti Medievali. Rivista”, n. 11, 2010/1, www.retimedievali.it.

(33) CBBg, Perg., n. 444, 1233, dicembre 7; ASDBg, Perg. cap., n. 157, 1233, maggio 9.(34) ASDBg, Perg. cap., n. 2199, 1250, gennaio 31.

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glielmo Aimone e Lanfranco Sadizari e a Gisalberto del Brolo, che furono eletti con il consilium degli anziani del populus, Pellegrino Dorario e Ot-tonello Gambazza35. È comunque probabile che il cospicuo impoverimento delle risorse collettive prodotto dalle alienazioni – in particolare da quella, assai consistente, del 1233 – avesse suscitato lacerazioni all’interno della so-cietà urbana: un indizio di simili tensioni parrebbe ricavabile dal fatto che la decisione del Pascepoveri di vendere le comunanze si fosse associata a uno statuto cittadino inderogabile – i cosiddetti statuta tronca, non modificabili, almeno in linea di principio, dal consiglio cittadino – che vietava di metterne in discussione la validità36.

Il fatto che si fosse deciso come impiegare i terreni incamerati attraverso le inchieste del 1249 soltanto un anno dopo la loro effettuazione dimostra che, malgrado la stretta connessione tra calcationes e alienazioni delle comu-nanze, i due momenti rimanevano distinti. I governi civici, quando comanda-vano una nuova campagna di indagini sulle proprietà collettive, erano con-sapevoli che gli introiti avrebbero contribuito a ripianare gli ammanchi delle casse municipali. tali disposizioni non nascevano, tuttavia, necessariamente da specifiche esigenze di bilancio, ma erano innanzitutto il riflesso di una cultura politica fatta propria dai regimi podestarili e promossa dal popolo, intesa ad accrescere e curare in maniera efficiente le risorse comunali.

Sollecitate da esigenze finanziarie o, comunque, da una nuova volontà comunale di valorizzazione delle proprie risorse, le inchieste ebbero impor-tanti ripercussioni sulla definizione del territorio comunale, in particolare delle superfici montuose a ridosso della città. Esse disegnarono uno spazio scavato a fondo dalle istituzioni, ‘calcato’, talora anche sotto il profilo visivo, attraverso i cippi piantati dai calcatores. Persino quando incamerarono beni esigui, le operazioni sul terreno degli ufficiali comunali rafforzarono la con-vinzione collettiva che i campi e, soprattutto, gli incolti attorno a Bergamo percorsi dagli inquisitori facessero parte del territorio comunale: rivendicare i beni comunali contribuì a meglio definire la pertinenza territoriale urbana.

La calcatio si trasformò in uno strumento per la definizione del territorio, che i governi podestarili bergamaschi non si accontentarono di utilizzare nel suburbio, promovendola anche presso le collettività rurali. Negli stessi anni delle prime calcazioni sistematiche, tra il 1221 e il 1233, il comune orobico attuò un imponente sforzo di disciplinamento del distretto, attraverso la ri-definizione dei confini delle comunità, l’accorpamento di queste ultime in comuni rurali sottoposti all’autorità urbana e la redistribuzione dei loro cari-

(35) ASDBg, Perg. cap., n. 2199, 1250, gennaio 31.(36) Antiquae collationes... cit., § 23, coll. 1965-1966.

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chi fiscali. Proprio nel 1233, in coincidenza con l’inchiesta sui beni comunali cittadini, tale processo di chiarificazione territoriale ebbe un’accelerazione, con una serie di liti confinarie, avvenuta tra il 1233 e il 1234, presso le locali-tà a cintura della città (a Levate, Almè, Almenno e Sorisole)37. All’interno di una simile impresa, si collocano le calcationes bergamasche, il cui utilizzo, avviato dal comune per censire i propri beni, si estese ai territori dei comuni rurali, contribuendo, anche lì, ad accrescere la percezione che le istituzioni avevano degli spazi sottoposti a pratiche collettive. Nel 1233, in particola-re, il Pascepoveri impose un bando per impedire il taglio della legna nelle proprietà di Astino a Stabello: i confini di tali beni risultavano scanditi con chiarezza, anche grazie ad alcuni cippi confinari piantati dai calcatores del comune di Bergamo (“unum terminum ibi ficxum per calcatores comunis Pergami”)38.

4. Beni comunali e trasformazioni territoriali sul “Mons Pergami”: le depo-sizioni testimoniali del 1273

Le ripetute iniziative municipali di gestione dei beni comunali, con in-chieste e alienazioni, furono decisive nel modellare le dinamiche sociali e istituzionali sulle alture circostanti la città. L’Archivio diocesano conserva le deposizioni di due testimoni prodotte dal comune nel 1273, in occasione di una disputa con il capitolo cattedrale, commentate in inchiostro rosso con le contestazioni dell’avvocato ecclesiastico. Gli interrogati insistevano sul fatto che l’area compresa tra la città e Breno faceva parte del Monte di Berga-mo (Mons Pergami), che tale regione era inclusa nel territorio comunale e che le terre oggetto di contesa erano state vendute dalla città: in particolare esse identificavano all’interno di tale regione i monti Calvo e Gotta (forse per Botta, l’attuale Monte San Sebastiano), la località Forcella (tale termi-ne, che tuttora indica in montagna i valichi o gli intagli tra le alture, faceva probabilmente riferimento a una sella che metteva in collegamento due gru-melli, ubicata forse nei pressi del Monte Botta, sulla strada che da Bergamo si diramava in direzione di Almenno o di Breno39) e la contrada Fontana, un

(37) Oltre ad A. Mazzi, I confini dei comuni del contado. Materiali per un atlante storico del Bergamasco, in “Bergomum”, n. 16, 1922, pp. 1-50, soprattutto alle pp. 5-8; si veda P.G. noBiLi, in questo stesso volume.

(38) CBBg, Perg., n. 1987, 1233, novembre 9.(39) CBBg, Perg., n. 429, 1233, maggio 20: “usque ad viam sive Forcellam per quam itur

Lemine sive Brene”. Sulla prossimità della Forcella alla Valle di Astino e al monte Botta: G. De anGeLis, cit., n. 8, p. 357, anno 1156 (“in grumello qui nominatur Botta qui est prope Forcella de Astino”); CBBg, Perg., n. 1744 01 (“in Botta sive ala Forzela”); ASDBg, Perg. cap., 1212, maggio 31 (Lanfranco de Arzenna, “habitator in Forcella de Aqua Morta”, vende una pezza di terra “que iacet in Botta”).

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insediamento ancor oggi abitato all’interno del Parco dei Colli, sulle pendici del Mons40.

La ricostruzione dei due testimoni concorda su più punti, anche se le loro prospettive appaiono piuttosto differenti. Il dominus Federico della Crotta era figlio dell’omonimo personaggio che nel 1221 era stato nominato calcator dal Moltidenari. La conoscenza diretta dei meccanismi comunali e forse an-che la memoria familiare consentirono a questo teste tratto dalla classe diri-gente bergamasca (i della Crotta erano una stirpe di milites vicina al populus) di ricostruire con precisione il ruolo rivestito parecchi anni prima da alcuni ufficiali municipali nella trasformazione del territorio. Federico riteneva che il comune di Bergamo si fosse impadronito della contrada Fontana, il princi-pale motivo di contesa, dopo l’inchiesta effettuata dal padre, nel 1221. A con-ferma della capacità delle calcazioni di avvalorare i diritti municipali, anche nei procedimenti giudiziari, egli aveva precisa notizia di tali fatti attraverso la lettura dei resoconti delle indagini, avvenuta durante la deposizione41. Si osservi, tra l’altro, che attraverso la consultazione degli atti d’inchiesta il del-la Crotta riuscì a ricostruire in maniera sicura i confini dell’area calcata, che coincidevano, come meglio si vedrà, in buona misura con quelli interessati nel 1233 dalla vendita del Mons42.

Il testimone aveva, inoltre, sentito dire che il podestà Federico Pascepo-veri aveva venduto tali terre. Prima dell’alienazione, l’area era sottoposta a pratiche di godimento collettivo da parte dei cittadini: Federico ricordava di essersi recato a caccia assieme ai suoi vicini nei campi a riposo di tutta la contrada di Fontana, che si diceva allora essere del comune di Bergamo43.

(40) Su tale contrada si veda anche G. CoLMuto zaneLLa, Caratteri urbanistici e presenze architettoniche, in Il Parco dei Colli di Bergamo. Introduzione alla conoscenza del territo-rio, a cura di L. PaGani, Bergamo 1986, pp. 102-137, qui a p. 105.

(41) ASDBg, Perg. cap., n. 1949, 1273, ottobre 2.(42) Ivi: “Item dico me credere quod predicte petie terre et quelibet earum et ipsa tota

contrata sunt et aprehendantur infra quamdam calcacionem quam legitis michi fuisse fac-tam per dominos Fredericum de Lacrotta condam patrem meum et Galicianum Durentum et Obertum Caniasum calcatores tunc comunis Pergami ad calcandum terras comunis Perga-mi in anno et de anno curente millesimo ducentesimo vigesimoprimo et quam calcacionem legitis mihi esse scriptam in actis publicis calcationum terrarum comunis Pergami et cuius calcationis legitis michi fines esse tales, videlicet a mane Grumellus et terre que dicitur de Uricis in parte et in parte terra comunis Pergami, a meridie via seu strata que vadit a civitate Pergami ad Brenum in parte et in parte terra que dicitur Caput Iurati, a sero terra seu contrata que dicitur Arsicia et Caput Iurati et dicti domini Fredericus de Lacrotta et domini Teste Suardorum et filiorum Almidani de Brene ac fossatum prati de Droxio comunis Pergami et quam calcacionem legitis michi fuisse talem ut predictum est set aliter predicta nescio nisi per credenciam”. Per la coincidenza tra i terreni indicati da Federico e quelli alienati nel 1233 si veda il documento pubblicato in appendice.

(43) Ivi: “Et pro eo quod ego testis illis temporibus quibus ipse petie terre tunc erant

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Dopo la cessione del Pascepoveri, si era innescata una dinamica insediativa nell’area, probabilmente ancora in atto all’epoca della deposizione testimo-niale: molti uomini dei comuni rurali circostanti si erano installati a Fontana per sottrarsi agli oneri rusticani44. L’insediamento si era formato appoggian-dosi a strutture abitative già esistenti, consistenti probabilmente in sedimi sparsi45. Il trasferimento era avvenuto “soltanto” perché tale area era ubicata sul Mons Pergami ed era inclusa nel territorio dei borghi suburbani e si rite-neva che l’abitazione sul territorio cittadino fosse in grado di fare decadere gli obblighi imposti ai rustici46. Essa era stata disboscata e le forme di godi-mento pubblico si erano contratte: Federico disse di avere visto alcuni nuovi abitanti sfruttare i beni comuni della contrada, le cui terre erano state “ridotte in fertilità” da una quarantina d’anni47.

Il secondo testimone era invece un contadino, Pietro, figlio di Vasco-ne Ambro, originario di Corzanica (un abitato scomparso nel territorio di Valbrembo), ma da lungo tempo residente nella vicina Ossanesga. La sua testimonianza offre una ricostruzione più imprecisa e meno scandita cro-nologicamente rispetto a quella di Federico della Crotta, ma concorde con

comunis Pergami et quibus videbam ipsas petias terre esse arvas ibam ad venandum seu ca-zandum cum aliis meis vicinis huc et illuc per ipsas petias terre et per totam ipsam contratam de Fontana tamquam in terra et super terra que tunc dicebatur me audiente esse comunis Pergami”. Quando non designa genericamente campi e arativi, arvum sembra essere indicato dalla documentazione bergamasca per indicare i terreni a maggese.

(44) Ivi: “fama est secundum quod auditum habeo dici quod ab eo tempore citra quod comune Pergami vendidit ipsam contratam de Fontana quod multi homines rustici et solven-tes et substinentes quod dicebantur honera rusticana pro temporibus venerunt ad standum et habitandum in ipsa contrata de Fontana”.

(45) Ivi: “et quod steterunt et habitaverunt in ipsa contrata de Fontana in domo que fuit Iohannis de Zapa et in domo que fuit Marci Alchendi que sunt in ipsa contrata de Fontana”. Sull’insediamento sparso e i tegetes nell’area collinare retrostante Bergamo cfr. F. Menant, Campagnes... cit., p. 156.

(46) Ivi: “et solomodo occasione quod ipsa contrata de Fontana in qua sunt et erant ille domus esse in monte et de Monte Pergami et in burgis Pergami et occasione predicta”; “Et ideo scio quod homines qui stabant in comunibus de foris et qui solvebant opera rusticana et honera sustinebant et sustinere consueverunt pro rusticis venerunt et veniunt pro temporibus ad standum et habitandum cum familiis suis in ipsa contrata de Fontana occasione quod ibi dicitur et appellatur esse in burgis et de burgo Pergami et occasione quod volunt se excusare ab honeribus ruscticanis propter illam habitationem quam faciunt et fecerunt pro temporibus in ipsa contrata de Fontana”.

(47) Ivi: “Ego non recordor de nominibus illorum hominum quos visum habeo pro tempo-ribus uti et brugare in ipsa contrata quos audiebam dicere quod stabant et habitabant in ipsa contrata”; “quod predicte petie terre et qualibet earum sunt reducte ad fertilitatem a quatra-ginta quatuor annis citra et etiam a quatraginta annis citra, set illud per firmum nolo dicere nisi per credenciam”. Il dato sull’agrarizzazione dell’area è confermato anche dalla deposi-zione di Pietro di Corzanica, secondo cui “suprascripta petia terre est reducta ad fertilitatem a quatraginta annis” (ASDBg, Perg. cap., n. 788, 1273, 16 novembre, lisca c).

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quest’ultima nel ritenere che l’area tra la città e Breno facesse parte del Mons Pergami e fosse pertinenza del comune orobico, almeno finché non ne aveva venduto le terre. Per altro verso, Pietro era molto informato sull’alienazione di alcuni beni al comune rurale di Ossanesga e Forzanica (un altro insedia-mento scomparso nel territorio di Valbrembo), a cui aveva assistito in prima persona. Secondo il testimone, gli ufficiali urbani avevano ceduto i beni dalla località Forcella sino al Monte Calvo e al Monte Botta: in particolare, il co-mune di Ossanesga e Forzanica aveva acquistato alcuni fondi, che aveva poi lottizzato (designatum) e spartito, dietro versamento di una somma, tra i vici-ni del luogo (come si vedrà, tale ricostruzione integra in maniera significativa le informazioni contenute negli atti sopravvissuti)48.

A parziale composizione di alcune apparenti incongruenze, le due depo-sizioni sembrano riguardare località in parte differenti, per quanto attigue, del Mons Pergami. Mentre gli altri terreni alienati nel 1233, in particolare quelli inclusi tra la Forcella e il Monte Calvo, erano stati probabilmente og-getto di rivendicazioni da parte delle comunità rurali, la contrada Fontana, sebbene anch’essa inclusa nelle vendite, era più saldamente percepita come facente parte del territorio cittadino. Dalle domande poste ai testimoni, si può comprendere che si riteneva che tale contrada facesse parte di Borgo Canale e che per tale ragione vi si fossero trasferiti coloro che aspiravano a essere liberati dagli oneri rusticani imposti al contado. A Pietro di Corzanica fu chiesto in maniera esplicita se ritenesse che la località fosse nella vicinia di Borgo Canale: egli non fu però in grado di rispondere, probabilmente anche perché non possedeva terre in tale zona, come ribadiva in un altro punto della deposizione, aggiungendo di non sapere se coloro che si erano recati ad abita-

(48) ASDBg, Perg. cap., n. 788, 1273, 16 novembre: “Et scio que contrata de Fontana sit in vicinia nec de vicinia Burgi Canalis civitatis Pergami. Et ideo scio quod comune Pergami vendit illas terras que sunt ab ipsa Forzella ultra versus ipsum Montem Calvum et usque ad ipsum Montem Calvum tam per montem quam per colles et valles ab ipsa strata in susum et quam per colles usque ad ipsam contratam de Gotta ut predixi pro eo quod ego testis tempore suprascripte vendicionis stabam ad locum de Orsanisica et eciam nomine suprascripto et habito in ipso loco de Orsanisica. Et tunc me stante in ipso loco de Orsanisica venit ipsum comune de Orsanisica a comune Pergami unam partem illius terre que sunt inter ipsam For-zelam et ipsum montem Calvum”; “Et ideo una pars illius terre quam dixi venisse michi et ipsi fratri meo et de qua dixi me solvisse cum ipso fratre meo unam quantitatem pecunie ipsi comuni de Orsanisga fuit de illa terra quam dixi ipsum comune Pergami vendidisse ut predixi quia illud dicebatur me audiente et quia ego testis et ipse frater meus me vidente la-borabamus et tenuimus ipsam partem ipsius terre quam dixi michi et ipsi fratri meo venisse in parte et nos solvisse ipsi comuni et quia illos denarios seu illam pecuniam quam dixi me et ipsum fratrem meum solvisse et dedisse ipsi comuni de Orsaniiga solvi ipsi comuni pro illa parte illius terre ut dixi michi testi et ipsi fratri meo designatam fuisse nobis pro ipso comuni de Orsaniga”; “et ideo scio quam ipsum comune de Orsanisga et de Forzanica divisit ipsam partem ipsius terre inter vicinos ipsius comunis de Orsanisga et de Forzanica”.

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re a Fontana avessero effettivamente ricevuto la cittadinanza49. A conferma della differente situazione delle due zone, Pietro era a conoscenza del fatto che i due abitati di Forzanica e Ossanesga si erano accordati per la custodia dei loro fondi, mentre non aveva mai visto porre loro campari nelle terre di Fontana50. È comunque probabile che fossero rimasti margini di ambiguità su tale aspetto, in particolare sulla riscossione delle decime, da cui era sorta la lite tra comune e capitolo: anche a Federico della Crotta venne domandato, senza che peraltro neppure lui fosse capace di rispondere, se il comune rurale ponesse i campari sui terreni contesi e se esso si occupasse delle multe e delle accuse in tale contrada51.

Anche a detta di Pietro, ad ogni modo, la contrada Fontana sino al monte Botta era inclusa nel Monte di Bergamo ed era stata senz’ombra di dubbio di pertinenza del comune cittadino52. Egli ne era certo per due ragioni: perché le autorità municipali avevano proceduto alla vendita del 123353 e perché lui stesso ricordava di avere portato assieme ad altri abitanti di Corzanica più di quarant’anni prima, probabilmente prima dell’alienazione del 1233, il suo be-stiame al pascolo su tali terreni54. Per quale motivo l’uso pubblico dell’area, esteso non solo ai cives, ma anche ai rustici dei villaggi circostanti (forse dietro pagamento di un censo), aveva confermato la titolarità cittadina? Pie-tro al riguardo fu piuttosto sfuggente: egli riferì di avere sentito dire che tali

(49) Ivi: “Et nescio si aliquis qui umquam habitasset in suprascripta contrata de Fontana acquisisset umquam honorem civilem pro eo quod stetisset et habitasset in suprascripta con-trata de Fontana et non habeo ego testis terram in suprascripta contrata de Fontana”.

(50) Ivi: “Et numquam vidi comune de Forzanica nec de Orsanisga ponere camparios in contrata de Fontana nec ultra usque ad ipsum Collem Iurati nec scio si ponat nec si posuisse camparios in ipsa contrata de Fontana nec ultra usque ad ipsum collem tamen ipsum comune de Orsanisga et de Forzanica faciunt convenientiam inter se de custodiendo terras suas ibi ubi habent eas”.

(51) ASDBg, Perg. cap., n. 1949, 1273, ottobre 2: “nec scio si comune de Forzanica et de Orsanisica ponere et ponere consuevisse camparios nec accusatores super predictis petiis terre nec aliqua earum nec super ipsa contrata de Fontana nec scio si aliqui camparii ipsius comunis de Forzanica nec de Orsanisica consueverunt pignorare nec accusare dantes dam-pnum in ipsis petie terre nec aliquis earum nec in ipsa contrata de Fontana”.

(52) ASDBg, Perg. cap., n. 788, 1273, 16 novembre, lisca c: “Item dico et scio quod infra-scripta petia terre et tota suprascripta contrata que appellatur contrata de Fontana usque ad Gottam fuerunt comunis Pergami”.

(53) Ivi: “interrogatus quomodo scit predicta, respondit pro eo quod comune Pergami vendidit ipsas terras quas predixi”.

(54) Ivi: “Et quia vidi pasculari cum bestiis per homines et personas in illis terris et con-tratis quos dixi ipsum comune vendidisse et fuisse ipsius comunis et etiam egomet testis pasculavi cum bestiis in ipsis terris ut in terris comunis Pergami et ideo scio quod ille terre in quibus pasculavi et quos dixi esse ipsius comunis erant terre ipsius comunis ut predixi quia illud audiebam dici ut predixi et quia videbam alias personas pasculare cum bestiis in illis terris quas dixi esse ipsius comunis Pergami ut predixi aliter nescio”.

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superfici erano del comune orobico e che simili forme di fruizione collettiva erano avvenute senza rivendicazioni o proteste da parte dei comuni rurali limitrofi55. Una spiegazione più convincente delle parole del testimone po-trebbe consistere nel fatto che, dopo le iniziative avviate dal comune a partire dal 1221, l’identificazione tra bene collettivo e bene del comune cittadino ne era uscita assai rinsaldata, imprimendo l’orma urbana su terre dove le attività dei cives si confondevano con quelle dei rustici. Le inchieste e l’esercizio di poteri dispositivi – in particolare l’alienazione del 1233 che veniva ricordata da Pietro come la prima prova della titolarità del comune di Bergamo – ave-vano avvalorato agli occhi dei contemporanei le ragioni della città.

5. La ‘calcazione’ del 1233 e l’alienazione del “Mons” alle comunità rurali

tirando le fila dai dati emersi dalle due deposizioni, sembra possibile sug-gerire che il Mons Pergami costituisse, ancora a inizio Duecento, un’area di competenza cittadina poco definita dal punto di vista territoriale, dominata a larghi tratti dall’incolto, su cui gravavano forme di godimento collettivo da parte della popolazione della città e dei villaggi limitrofi. Caratterizzate da un’effettiva appropriazione del territorio da parte delle istituzioni municipali, le forme di gestione attuate dal comune sin dalla fine del XII secolo ridise-gnarono la fisionomia dell’area. Partendo dalla rivendicazione di pubblicità degli spazi incolti, le inchieste, in particolare quelle del 1221 e del 1233, incrementarono le disponibilità patrimoniali del comune e definirono in ma-niera puntuale il territorio di pertinenza urbana, affermandone con decisione la pertinenza civica ed estendendo i diritti della città.

Le alienazioni volute nel 1233 dal podestà Federico Pascepoveri compli-carono un simile quadro, articolando in maniera nuova tali superfici montuo-se attraverso la cessione dei terreni ai rustici dei villaggi vicini: la scrittura che documenta tale iniziativa è sopravvissuta, grazie a un publicum instru-mentum estratto soltanto nel 1272, in occasione della vertenza trattata nel corso del precedente paragrafo, dalle imbreviature del notaio rogatario, dece-duto senza riuscire a completare l’atto56. Essa consente di cogliere in una luce diversa il racconto dell’alienazione effettuato da Pietro di Corzanica, a detta del quale il comune cittadino aveva ceduto i fondi alle comunità rurali che li avevano a loro volta distribuiti in base alla proprietà. Una simile testimo-nianza sembra verosimile, anche in base all’aderenza ai criteri di divisione delle comunanze nei centri del contado stabiliti dagli statuti duecenteschi

(55) Ivi: “Et cum ita pasculavi et pasculari vidi in ipsis contratis non vidi nec audivi illos de Forzanica nec de Orsanisga murmurare nec facere placitum de hoc”.

(56) ASDBg, Perg. cap., n. 157, 1233, maggio 9.

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bergamaschi57. Se è dunque probabile che si debba prestare fede a tale rico-struzione, l’atto di vendita del 1233 omette simili passaggi.

Esso riferisce l’alienazione a favore di un cospicuo numero di individui – elencati per località di provenienza – di Ossanesga (venti) e Forzanica (dieci), Corzanica (dieci), Breno (ventitre) e Paladina (quattordici) di un appezza-mento di terra “arva, brugata et montiva”, in cui erano inclusi numerosi “gru-melli” (monti), alcuni dei quali, come il grumello Calvo, il grumello Gotta, il grumello e la valle Fontana, erano menzionati anche nelle deposizioni del 127358. Si trattava di una superficie assai vasta, ben definita però nei confini e precisamente stimata in 963 pertiche e 6 tavole, grossomodo una settanti-na di ettari. Si può supporre che avessero giovato al conseguimento di una simile chiarezza territoriale le operazioni dei calcatores avvenute nel 1221 e in quello stesso anno: risalta la differenza rispetto alla donazione a favore di Astino del 1117, dove non erano segnalati né la misura né le coerenze del bene, ubicato nella medesima area59. Per l’acquisto i compratori pagarono 200 lire di imperiali al canevario comunale, ripartite con tutta probabilità non in ragione del numero degli abitanti, ma dell’estensione delle terre asse-gnate ai singoli villaggi: gli insediamenti inclusi nel comune di Ossanesga e Forzanica versarono circa la metà della somma, Breno un altro quarto e Paladina e Corzanica il resto.

La scrittura non fa alcun riferimento ai comuni rurali, né al fatto che gli acquirenti erano i vicini di tali villaggi. Essa non specifica neppure le moda-lità di distribuzione delle terre, precisando solo che sarebbero state assegnate ai compratori in base al prezzo versato. La scelta di lasciare su un piano informale il ruolo delle comunità e di instaurare un rapporto diretto tra il comune urbano e i destinatari finali della transazione potrebbe essere stata pensata per ridurre, per quanto possibile, la presenza di soggetti istituzionali in grado di sollevare dubbi sulla pertinenza territoriale urbana delle zone vendute.

Una simile ambiguità non era nelle intenzioni del Pascepoveri, che mi-rava soltanto a incamerare redditi per le esigenze di bilancio, ‘costringendo’ i comuni rurali confinanti, in buona misura influenzati dal comune urbano,

(57) Antiquae collationes... cit., § 18, coll. 1962-1964. Per le forme di gestione delle risor-se collettive da parte dei comuni rurali della montagna bergamasca, si rimanda al contributo di G.P.G. sCharF, in questo stesso volume.

(58) ASDBg, Perg. cap., n. 157, 1233, maggio 9: “Et plures grumelli et valles sunt in ea, silicet grumellus de Golta, grumellus de Quaquarone, grumellus de Forzanicis et grumellus Zuetus, grumellus Palatinus, grumellus Calvus sponda de Breno, Grumellus et vallis Fonta-ne, Grumellus Bolperolle”.

(59) Cfr. supra, testo corrispondente alla nota 18.

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a comprare i terreni incolti60. Egli poteva del resto ritenere che le imponenti operazioni di delimitazione del territorio fossero sufficienti a chiarire che le terre vendute rimanessero inquadrate nel territorio cittadino61. Nel corso degli anni, tuttavia, l’effettiva gestione dei terreni da parte delle collettivi-tà rurali – attraverso fondamentali attività possessorie-giurisdizionali come l’istituzione di propri campari – avevano favorito l’insorgere di pretese di assimilazione ai territori rurali62.

Nel 1233, inoltre, contestualmente all’inchiesta e all’alienazione, ma forse anche alle analoghe iniziative avvenute nel distretto che avevano ribadito la subordinazione di alcune comunità rurali, iniziò un movimento migratorio di rustici, desiderosi di sottrarsi agli oneri rusticani e di beneficiare della condi-zione condivisa dagli abitanti dei borghi, verso la contrada di Fontana e forse in altre località vicine incluse nel territorio urbano (Pietro di Corzanica ricor-dava alcuni personaggi insediatisi sul Monte di San Vigilio: “ad eundum ad standum super Montem Sancti Vigilii”)63. È probabile che l’iniziativa avesse preso vita in maniera spontanea, forse per via dell’appropriazione comunale di tali spazi nella percezione collettiva in seguito alla calcatio. La situazione di Fontana presenta numerosi punti di contatto con quella di Valtesse, i cui homines, iscritti nei registri fiscali del comune come comitatini, nel 1231 avevano cercato di farsi assimilare ai vicini di San Lorenzo, asserendo di costituire un insediamento dipendente da tale vicinia64.

***Numerose testimonianze di beni comunali conducono al Mons Civitatis.

tale preponderanza è condizionata dalle fonti e, in particolare, dalla concen-

(60) Potrebbe rafforzare l’ipotesi di un acquisto coatto il fatto che le comunità interessate – peraltro non particolarmente numerose a giudicare dal basso numero degli acquirenti che doveva costituire la maggior parte degli estimati – erano già assai ben dotate di incolti, poi-ché il loro territorio si estendeva sulle rive del Brembo e sul Canto Alto (1146 metri).

(61) Secondo A. Mazzi, Vicinie... cit., tale area era sottoposta alla vicinia di Borgo Canale (si veda la carta introduttiva). Tale inclusione sarebbe avvenuta, sempre secondo il Mazzi, con un’adeguazione delle vicinie presente negli ipotetici statuti del 1263 e quindi confluita negli statuti del 1331.

(62) Si deve comunque rilevare che tali zone rimasero per lo più di competenza del comu-ne urbano, nel cui territorio sono a tutt’oggi incluse.

(63) Sulla corsa all’affrancamento dagli onera rusticana delle comunità rurali bergama-sche durante il pieno Duecento si veda F. Menant, Campagnes... cit., p. 500.

(64) A. Mazzi, Note... cit., pp. 183-187, che ascrive la definizione di tali confini a una re-dazione statutaria attribuita al 1263 (cfr. iD., Lo statuto di Bergamo del 1263, Bergamo 1902, pp. 26-27; al riguardo si vedano le considerazioni di C. storti storChi, cit., pp. 163-169). Cfr. anche P.G. noBiLi, Appartenenze e delimitazioni. Vincoli di vicinantia e definizioni dei confini del territorio bergamasco nel secondo terzo del Duecento, in “Quaderni di Archivio bergamasco”, n. 3, 2010, pp. 25-60, qui alle pp. 32-35.

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trazione in tale area delle proprietà dei due maggiori enti ecclesiastici due-centeschi di Bergamo – il capitolo cattedrale e il monastero di Astino – e non esclude la presenza di altre zone interessate dalla proprietà collettiva urbana (per esempio, a Valtesse è documentato nel 1175 un comune e a Palazzo, nel 1244, un “pratum communis Pergami”)65. Sembra, tuttavia, probabile che sul Monte di Bergamo, come del resto pare suggerire la stessa denominazione, fosse ubicato un grosso nucleo di beni comuni: favoriva tale situazione, con tutta evidenza, la connotazione orografica dell’area, che aveva frenato l’inci-sività dei processi di agrarizzazione.

La situazione bergamasca conferma il rilievo dei fattori geografico-am-bientali nelle conformazione dei patrimoni dei comuni urbani. Sin dall’inizio del XII secolo, nei dintorni delle città gli incolti a uso collettivo risultavano in buona misura intaccati dai dissodamenti. Se in alcuni centri di pianura, come Vercelli e Verona, gli spazi in parte paludosi in riva ai fiumi costitui-rono un’importante riserva di terreni incolti sottoposti a fruizione civica, a Bergamo analoghe estensioni si concentrarono sui rilievi irregolari alle spal-le della città.

Un ulteriore elemento di concordanza con le altre città dell’Italia setten-trionale riguarda la cronologia. Il momento chiave per il potenziamento dei patrimoni civici e lo sviluppo delle forme di gestione fu l’età podestarile, in particolare il secondo quarto del Duecento: all’interno di un processo che non deve essere distinto dalle pressanti dinamiche di dissodamento e di riduzione degli incolti, in tale periodo i comunia abbandonarono, in molte circostan-ze, i loro connotati di terreni boscosi o prativi sottoposti a fruizione civica e furono trasformati in beni comunali, da mettere a coltura, da affittare e da vendere. Dopo la metà del secolo, per via delle imponenti alienazioni, le comunanze sembrano perdere centralità nel quadro del sistema finanziario cittadino.

Il governo podestarile delle risorse collettive coincise con un nuovo rap-porto delle istituzioni con il territorio. Attraverso originali forme di gestione dei comunia, le istituzioni si appropriarono del territorio urbano, acceleran-done la definizione dei confini e potenziandone gli strumenti di controllo. Ri-spetto a quanto già osservato in storiografia, la situazione di Bergamo sugge-risce di non interpretare tali percorsi gestionali soltanto come un tassello dei più vasti processi di disciplinamento del distretto attivati dai regimi podesta-rili, ma di coglierne anche il ruolo propulsore nell’elaborazione e nell’utilizzo di pratiche, come le calcationes, da estendere anche al di fuori dell’ambito delle comunanze: introdotte verso la fine del XII secolo, ma rese sistematiche

(65) CBBg, Perg., n. 2436, 1175, ottobre; ivi, n. 439, 1244, febbraio 10.

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soltanto nei decenni successivi per la conduzione dei beni comunali, esse si trasformarono in modalità di amministrazione del contado per discernere in maniera precisa i confini dei comuni rurali.

Le inchieste e le alienazioni podestarili sui beni comunali della prima metà del Duecento modellarono in maniera nuova le relazioni sociali che regolavano l’accesso al Mons Pergami. A dispetto degli intenti delle autorità municipali, simili pratiche non riuscirono a cristallizzarne le ampie superfi-ci montuose: esse consegnarono un quadro mobile, passibile di essere mo-dificato, nei decenni successivi, dalla concreta fruizione degli spazi incolti da parte delle popolazioni contadine, dalle dinamiche insediative avviate, probabilmente in forma spontanea, dai rustici, dalle operazioni di polizia campestre gestite dalle comunità rurali.

1233, maggio 9, Bergamo, “in camera longa comunis”

Il podestà del comune di Bergamo, Federico Pascepoveri, vende ad abi-tanti dei villaggi di Ossanesga, Forzanica, Corzanica, Paladina e Breno 963 pertiche e 6 tavole di terreno al prezzo di 200 lire di imperiali.

Originale estratto da imbreviatura in ASDBg, Perg cap., n. 157. Sul ver-so, di mano coeva: “Carta vendicionis [......] terrarum <lettura probabile> per potestatem comunis Pergami de Monte Pergami, videlicet [...........] Palathina de bonis suprascripti comunis Pergami”. Di mano moderna: “1233: emptio de certam petiam terre brughive, zerbive [.....] homines de Orsaniga, Palatina et Brene da comuni Pergami”. Segnatura antica: 1233. A. XII.

Die nono exeunte mense madii, in civitate Pergami, in camera longa co-munis Pergami. Presentibus testibus Iohanne Valcosii et Guilielmo Bidischi / et Mayfredo Piligrini Germani et Alberico filio condam Girardi Martinoni de Suardis et Lanfrancho eius fratre et Plevano domini Alberici Regolati / et Girardo turri de Medolaco. Dominus Federicus Paupauperis Bononiensis tunc temporis Pergami potestas vice et nomine comunis Pergami et pro ipso comune habita / parte et lizencia a credencia comuni Pergami vendendi de posessionibus ipsius comunis Pergami pro debitis ipsius comunis Pergami sanandis / ut in carta ab infrascripto Anselmo de Curte et Alberto de Cas-so notariis rogata continetur, fecit datum nomine vendicionis ad proprium et in / proprii infrascriptis hominibus infrascriptorum locorum: videlicet de Orsanisca Petrus Iohannis Nazarii, Graciolo Albertoni, Petrobello Alberti,

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/ Produmo Iohannis Moroni, Pagano de Dotto, Pelegrino de zatto, Rogerio Ianerii, Iohanni Marci Contulini, Mayfredo Arduyni, Dothino / Domafolli, torisendo Lanfranci Rangeti, Petrino Guasconi, Marco Iohannis Giselberti, Broneto Alberti Bentemi, Dominico Iohannis Giselberti, Redulpho / Alberti Perli, Iohanni de Popo, Iohanni Mutamontis, Vinco qui dicitur Naucus et Girardo Dothi, omnibus habitantibus dicti loci de Orsanisca. De Forzanica: / Iohanni de Fosato, Mafeo Bonnumi, Ottoni de Blanco, Adamo de Blanco, Petro Avosti, Bonazio de Fossato, Girardo Ferario, Guillielmo / Iacobi Pa-squalis, Pagano Moyti et Iohanni Ottonis de Feraria omnibus habitantibus dicti loci de Forzanica. De Corzanica: Petro e Iacobo / fratribus filiis Pasqua-li, Roberto Iohannis Roberti, zambono Ottonis Roberti, zambello Guasconi, Lanfranco Rogerii tethagayti, Moresco Aplanato, / Petro Mazze, Mauro et Andriolo filiis condam Nigri omnibus habitantibus dicti loci de Corzanica. De Breno: Ianerio Ambrosoni / Iohannis Almidani, Iohanni Cayorani, Petro Gayorani, Redulfo Lanfranci de Calvo, Plevano Breyani, Ottello Andrioli Roberti, Ioh[anni] / Augusto Marchesii de Drosso, Marco Iohannis Parreti, Alberto Vinci, Cresencio Petroconi, Alberto Petrochoni et Iohanni Petroconi / tomati Girardi Petroconi, Ottebono Astolfi, Alberto Pasbroco, Iohanni de Calvo eorum nomine et nomine et vice Iohannis Vitallis et Alberti P[....] (a) / et Guillielmi Ceruti et Arnoldi Galdini et Pagani Acelli et Bonetti Nazerii, omnibus habitantibus in suprascripto loco (b) Breni. / De Palathina: Dominico Alegerii, Mayfredo Belanummo, Alberto Guarnerii, Petro Bomfilii, Hombo-no Palazoni, Alberto Gam/baroni, Iohanni Moratti, Bronacio Palazoni, Petro Iohannis de Vita et (c) Mayfredo Brugoni, Iohanni Ottabelle, / Vinco Gualo-ne, Iohanni Lanfranci Gualone et Iohanni de Blanca omnibus habitantibus suprascripti loci de Palathina, nominatim de quadam pecia / terre comunis Pergami que est arva et brugata et prativa pro parte et que est montiva. Et plures grumelli et valles sunt in ea, silicet / silicet (d) grumelus de Golta, gru-mellus de Quaquarone, grumellus de Forzanicis et grumellus zuetus, gru-mellus Palatinus, grumellus / Calvus, sponda de Breno, grumellus et vallis Fontane, grumellus Bolperolle. Et iacet illa pecia terre inter Grumellum de Vincis et / terram comunis de Breno et finis viam in susum que vadit ad (e) Brenum, cui pecie terre coheret ad super tantum, a mane grumellus et / terra que dicitur de Vincis in parte et in parte terra comunis que dicitur Grumella, a meridie via seu strata que vadit a civitate Pergami Brenum in parte et in parte / terra que dicitur collus Ioratus, a sero terra seu contrata que dicitur de Arsicia et collus Ioratus et domini Federici de la Crota et filiorum domini teste / Suardorum et filiorum Iohannis Abondani de Brene, a monte fossa-tum Drossi comunis Pergami. Et dicitur illam peciam terre fore per mensu-ram perticas / nongente sexaginta tres et tabullas sex. Eo vero modo et ordine

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ut suprascripti omnes homines et eorum heredes et cui vel quibus dederint / habeant et teneant predictam peciam terre silicet talem partem de ei qualem quisque solverit de infrascripto precio et de ea int[....] (f) quicquid voluerint faciant cum superioribus et inferioribus usancis et andatis et servitutibus et aqueductibus ipse pecie terre pert[inentibus] (g) / in integrum sine omni ipsius comunis Pergami contradicione et cum omni ipsius comunis Pergami aucto-ritate et defensione. Insuper ipse [dominus] (h) / Federicus potestas nomine et vice ipsius comunis Pergami et pro ipso comuni dedit cessit tradidit atque mandavit omnia iura omnesque actiones et raciones et reales / et personales, utiles et directas, mystas et ypotecarias suprascriptis hominibus ipsi domino Federico potestati nomine et vice ipsius comunis Pergami vel ipsi comuni / pertinencia et competentes in suprascripta et prescripta pecia terre et eosdem homines in suum locum et in locum suprascripti comunis posuit ad hoc ut de cetero ipsi / et quilibet eorum possint ita agere, petere, exigere iura et ac-tiones movere uti proponere et alegare et causari et omnia alia facere in ipsa et propter ipsa / pecia terre, quemadmodum ipse dominus Federicus potestas dicto modo et nomine et ipsum comune Pergami umquam potuit, poterat seu posset. Et / fuit ipse dominus Federicus potestas contentus et confessus su-prascriptos omnes homines fore in tenuta et possessione ipsius pecie terre et insuper / dedit eis partem intrandi, standi et de cetero permanendi in tenuta et possessione ipsius pecie terre et constituit se posessorem pro eis et eorum / nomine, volens dominium et possessionem ipsius pecie terre a se penitus abdicare suprascripto modo et nomine et in ipsis hominibus transferre. Qui / [dominus] (i) Federicus potestas nomine et vice comunis Pergami et pro ipso comuni convenit et per stipulacionem promisit obligando omnia ipsius comunis pignori / [....] (j) sub pena premisa tocius dampni dispensi et interesse ipsis hominibus quod comune Pergami defendet, guarentabit et deflugabit eis et suis / heredibus ipsam peciam terre omni tempore ab omni contradicente cum racione ad proprium dispensum ipsius comunis Pergami. Pro quo autem dato / et vendicione et pro omnibus suprascriptis perpetuo firmis et rattis habendis et tenendis suprascripti homines dederunt ibi et solverunt domino Bergani / da Lamaldura tunc canevario comunis Pergami et pro ipso comuni Pergami voluntate et parte suprascripti domini Federici potestatis libras du-centas imperialium, v[idelicet] (k) / suprascripti homines de Orsanisca libras quinquaginta duas et denarios vigintiquinque et illi de Forzanica libras qua-traginta tres et solidos octo [et denarios] (l) / novem et illi de Corzanica libras decem septem et solidos septem et medium et illi de Brene libras quinquagin-ta duas et denarios [..... et] / illi de Palathina libras treginta quatuor et solidos quatuordecim et denarios decem imperiales. Et renonciaverunt suprascripti potestas et canevari exceptione non date / et numerate peccunie et omni alii

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iuri, legi, actioni et racioni quibus se de hoc tueri vel adiuvare possent. Et omnia predicta et quodque eorum fuerunt facta salvo omni iure omnibus hominibus et personis eundi et redeundi per ipsam peciam terre si per eam repertum fuerit eos habere ius eundi et redeundi per eam terram. Factum est hoc anno domini millesimo ducentesimo tregesimo tercio, indictione sexta.

(S.N.) Anselmus de Curte notarius istud instrumentum rogavit et im-breviavit set morte perventus eum finire non potuit.

(S.N.) Ideoque ego Laurencius de Curte notarius ad hoc constitutus per dominus Maynfredum de tonebiaco vicarium domini Franzeschi de La tur-re potestas comunis Pergami / per cartam rogatam per Filipum de Nicola notarium tunc potestatis et comunis Pergami, die quartodecimo exeunte de-cembre millesimo ducentesimo septuagesimo secundo hoc instrumentum in formam publici instrumenti redegi ex imbreviaturis rogatis per ipsum Ansel-mum notarium.

(a) Parola illeggibile poiché il margine destro della pergamena appare consunto in questo punto. (b) Segue espunto: “Brembi”. (c) Segue espunto: “Iohanni de Blanco”. (d) Così nel testo. (e) Segue espunto: “Brembum”. (f) Una lacerazione nella pergamena sul margine destro impedisce la lettura della parola. (g) Lacerazione nel margine destro. (h) Lacerazione nel margine destro. (i) Parola illeggibile a causa di una lacerazione nel margine sinistro della pergamena. (j) Parola illeggibile a causa di una lacerazione nel margine sinistro della perga-mena. (k) Lacerazione nel margine destro. (l) Segue lacerazione nel margine destro.

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Paolo Gabriele Nobili

COMUNI MONtANI E IStItUzIONI URBANE A BERGAMO NEL DUECENtO.

Alcuni esempi di un rapporto dal difficile equilibrio

Il Duecento, specialmente nella sua seconda metà, è il momento in cui, al pari di altre realtà comunali lombarde1, è possibile osservare l’emersione documentaria delle comunità della Bergamasca, in concomitanza con un vi-goroso processo di distrettuazione promosso dalle autorità cittadine. Nono-stante ciò, ci si trova di fronte a un periodo non breve per il quale lo studio di singole realtà territoriali appare particolarmente difficoltoso: da un lato vi è un deciso impegno del capoluogo per conferire uniformità amministrativa al suo territorio – uno sforzo che, informando la documentazione prodotta da e per le comunità rurali, sfuma le differenze tra i singoli centri –, dall’altro pesa la scarsità delle fonti di ambito locale a disposizione. Soltanto nel secolo precedente, il XII, alcune comunità bergamasche erano affiorate qua e là quali comunia vicinorum e universitates vicinorum o come semplici grup-pi organizzati di homines, talvolta dotati di propri rappresentanti2. Si tratta per lo più di attestazioni rare e sopravvissute casualmente, in special modo all’interno di convenientes e carte di franchigia contrattate coi domini che vantavano diritti di ogni tipo su parti del contado3. Sia in questo momento,

(1) In tal sede basti il riferimento alle recenti messe a punto di G. ChittoLini, La validità degli statuti cittadini nel territorio (Lombardia, sec. XIV-XV), in “Archivio Storico Italiano”, n. 160, 2002, pp. 47-78 e di P. GriLLo, Comuni urbani e poteri locali nel governo del terri-torio in Lombardia (XII-inizi XIV secolo), in Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità territoriali nella Lombardia medievale a cura di L. ChiaPPa Mauri, Milano 2003, pp. 41-82.

(2) Per un esempio relativo alla ben documentata area dell’alta Valle Seriana, con le rap-presentanze organizzate dei loci, poi comuni, di Ardesio, Gromo, Valgoglio, Gandellino e Valbondione si vedano G. BaraChetti, Possedimenti del Vescovo di Bergamo nella valle di Ardesio. Documenti dei secoli XI-XV, in “Bergomum”, n. 75, 1980, fasc. 1-3, pp. V-LIII; l’introduzione di G. siLini e a. PreVitaLi a Statuta de Gromo, Rovetta 1998; P.G. noBiLi, ‘Statuerunt quod Comune de Gromo et omnes habitantes sint Burgum et burgienses’. Da locus a comune rurale a borgo franco, l’affermazione di Gromo tra XII e XIV secolo, Clu-sone, 2011.

(3) Per l’area, oltre all’esempio dei comuni montani nella nota precedente, si veda la sintesi di F. Menant, Les chartes de franchise de l’Italie communale. Un tour d’horizon et quelques études de cas in Pour une anthropologie du prélèvement seigneural dans le campagnes médiéval (XIe-XIVe siécles), a cura di M. Bourin e P. Martinez soPena, Paris

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sia nel successivo periodo del comune “di Popolo”, non è pertanto agevole cogliere una qualche specificità dei comuni rurali montani rispetto a quelli collinari o di pianura.

La legislazione emanata dal capoluogo in riguardo alla regolamentazione del distretto, la collatio XII del cosiddetto Statutum Vetus4, si rivolgeva in-distintamente a tutti i comunia loci organizzati entro il variegato territorio sottoposto alla città di Bergamo, dai rilievi montuosi alla Bassa, così come a ciascuno di essi erano indirizzati i provvedimenti fiscali, le assegnazioni di lavori pubblici e le richieste di servizi in armi5. Anche le sporadiche con-cessioni da parte delle autorità centrali dello status, fiscalmente privilegiato, di burgus erano rivolte tanto a comunità di alta montagna (Scalve, Gromo), quanto di collina (Valtesse, area annessa direttamente ad una vicinia citta-dina), di pianura asciutta (Almenno) e umida (Romano di Lombardia, Villa d’Adda)6.

Nel XIII secolo poi non si erano ancora costituiti quegli organi inter-medi tra centro cittadino e comuni rurali, le federazioni di valle7, che nei

2004, pp. 239-267, comprendente numerosi riferimenti a casi di affrancazioni di comuni del contado bergamasco; un esempio recente di studio di caso in P.G. noBiLi, Fiscalità signorile e comune rurale: Calusco d’Adda a inizio xiii secolo, “Archivio Storico Italiano”, n. 168, 2010, pp.679-706.

(4) Per l’edizione dello Statutum Vetus (d’ora in poi così citato) si rimanda a Antiquae col-lationes Statutis Veteris civitatis Pergami, a cura di G. Finazzi, Leges Municipales, II, Torino 1876 (Historiae Patriae Monumenta, XIV), coll. 1921 e ss, per quella della compilazione successiva a Lo statuto di Bergamo del 1331 (d’ora in poi citato come Lo statuto del 1331), a cura di C. storti storChi, Milano 1986.

(5) Sulle questioni si rimanda a P.G. noBiLi, Il secondo Duecento come soglia. La para-bola del contado di Bergamo tra l’apice dello sviluppo e l’inizio della crisi (1250-1296), tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, XXII ciclo (2006-2009), pp. 315 e ss.

(6) Sulle concessioni dello status di borgo e relativi privilegi ai comuni del contado ber-gamasco si vedano a. Mazzi, Studi bergomensi, Bergamo 1888, pp. 140 e ss.; G. FasoLi, Ricerche sui borghi franchi dell’alta Italia, in “Rivista di Storia del Diritto Italiano”, n. 15, 1942, pp. 139-214, in particolare alle pp. 154-155; F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen Âge. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, p. 81 e p. 91. Per un quadro generale lom-bardo, compresi esempi bergamaschi, la messa a punto di P. GriLLo, La politica territoriale delle città e l’istituzione di borghi franchi: Lombardia occidentale e Lombardia orientale a confronto (1100-1250), in Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), a cura di r. CoMBa e F. Panero, Cuneo-Cherasco 2002, pp. 45-97. Su Valtesse, a. Mazzi, Note suburbane con una appendice sui “mille homines pergameni” del 1156, Bergamo 1892, p. 263 e ss.; P.G. noBiLi, Appartenenze e delimitazioni. Vincoli di vicinantia e definizioni dei confini del territorio bergamasco nel secondo terzo del Duecento, in “Quaderni di Archivio bergamasco”, n. 3, 2010, pp. 25-60, pp. 32-35.

(7) Su cui G. Battioni, La città di Bergamo tra signoria viscontea e signoria malatestia-na in Storia economica e sociale di Bergamo, I primi millenni, II, Il comune e la signoria, a cura di G. ChittoLini, Bergamo 1999, pp. 183-218, p. 200 e ss.; per un confronto, M. DeLLa

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secoli successivi svolgeranno un importante ruolo di mediazione per l’area della montagna orobica. E ancora non si manifestavano iniziative politiche autonome delle località del contado che potevano pure sfociare in episodi di ribellione al capoluogo, come accadrà durante l’endemica guerra civile del trecento8, né tanto meno era prevedibile una presa d’atto da parte delle autorità urbane della differenziazione (di forza demografica ed economica, di ruolo politico) di talune aree del distretto, a cui indirizzare norme ad hoc. Momento rilevante di questa spaccatura sarà nel 1331 la regolamentazione del diritto di trasferimento per gli abitanti del contado che, in pratica, ripartì il territorio bergamasco in due settori, tracciando una linea di demarcazione tra i comuni a meridione della città, da cui si proibiva la fuoriuscita, e quelli collinari e montani, ove veniva incoraggiata9. Prima che la situazione preci-pitasse a tal punto, per cogliere gli elementi che possano differenziare le co-munità montane dalle altre occorre andare al di là della formale parificazione istituzionale, normativa e fiscale imposta simultaneamente ai comuni rurali della virtus Pergami10 e cercare nelle fonti gli indizi delle prassi seguite dagli abitanti delle valli nei rapporti con le istituzioni urbane.

I caratteri peculiari dei comuni di montagna si legano innanzitutto alla ri-levanza dei beni collettivi, boschi, prati, vasti pascoli e alpeggi11, e, per certe aree, miniere12, ma anche impianti molitori e folloni, i veri e propri capitali

MiseriCorDia, La comunità sovralocale. Università di valle, di lago e di pieve nell’organiz-zazione politica del territorio nella Lombardia dei secoli XIV-XVI, in Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea, a cura di R. BorDone e P. GuGLieLMotti, Alessandria 2007, pp. 99-111.

(8) Per la guerra civile del Trecento si vedano la sintesi di G. Battioni, La città... cit., pp. 185 e ss.; in breve, iD., Tra Bergamo e Romano nell’autunno del 1321, in L’età dei Visconti. Il dominio di Milano fra XIII e XV secolo, a cura di L. ChiaPPa Mauri e L. De anGeLis CaPPa-BianCa, Milano 1993, pp. 365-391 e in particolare le pp. 366-367. Sul valore emblematico del caso bergamasco per l’analisi del rapporto tra città e contado nella temperie trecentesca resta fondamentale l’analisi di G.M. Varanini L’organizzazione del distretto cittadino nell’Italia padana nei secoli XIII-XIV (Marca Trevigiana, Lombardia, Emilia), in L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania: secoli XIII-XIV a cura di G. ChittoLini e D. wiLLoweit, Bologna 1994, pp. 133-233 e in particolare le pp. 209-212.

(9) Sulla questione la migliore messa a punto è in P. Mainoni, L’ economia di Bergamo tra XIII e XV secolo, in Storia economica... cit., pp. 257-338 alle pp. 333 e ss.

(10) Così, o altrimenti districtus Pergami, viene definito dalle fonti l’area del contado sottoposta alla città, corrispondente grosso modo all’estensione della diocesi, su cui basti il rimando a A. Mazzi, Corografia bergomense nei secoli VIII, IX e X, Bergamo 1880, alle voci “comitatus” e “diocesi bergomense”, pp. 179-189.

(11) Si rinvia a F. Menant, Bergamo comunale. Società, istituzioni, economia, in Storia economica… cit., pp. 15-182, p. 160.

(12) Sul comparto minierario basti il rimando a F. Menant, Pour une histoire médiéva-le de l’entreprise minière en Lombardie, in “Annales. ESC”, n. 4, 1987, pp. 779-796; ID., Bergamo comunale… cit., p. 141 e ss.; P. Mainoni, L’economia… cit., p. 315 e ss.; G.P.G. sCharF, L’autonomia “alla prova del fuoco”. Bergamo di fronte alle sue valli nella gestione

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fissi dell’epoca13, e, forse, anche greggi di proprietà indivisa. Questa ricchez-za economica si appoggia su una forza produttiva attestata dall’imponente sviluppo duecentesco dei bacini di produzione della metallurgia e dei panni lana (il prodotto-simbolo della Val Seriana e della Val Serina), – destinati al commercio interno e all’esportazione14 –, e su una considerevole densità abi-tativa e demografica15 che rende il rapporto fra tali zone e il capoluogo molto meno sproporzionato rispetto a quanto avveniva per i contadi delle città-stato contermini (Cremona e Milano in particolare). A livello documentario, una delle tracce dello sviluppo più accentuato delle località montane e di valle rispetto alle loro omologhe di pianura si può ritrovare nell’impiego evoluto della documentazione su libro per fini di registrazione, controllo ed ammini-strazione, e negli usi archivistici locali.

tra le attestazioni più risalenti è degna di rilievo quella di Gromo in alta Valle Seriana, nell’ambito dell’assemblea dei vicini di quel comune nel 1238, svoltasi sul prato della chiesa dei Santi Giacomo e Vincenzo de Butano come d’abitudine (“ibi ubi solita fieri contio in publica contione”). In tale occasione sedici personaggi tra cui quattro notai, tutti contabili, factores racionis, della locale organizzazione comunale, consegnano ai quattro consoli in carica e a dominus Nantelmo de Crema, podestà di quella località e della valle, l’ap-parato documentario, o almeno una parte, prodotto dalla comunità. Esso è costituito da fascicoli classificati secondo la destinazione, in particolare, per l’amministrazione finanziaria, i “quaterni rationis debiti et capitalis comu-nis” e, per la giustizia locale, i quaderni in cui si leggevano “pronontiationes et condempnationes et fraudes”. Questi ultimi erano compilati in base alle norme contenute nel locale statuto, dato che vi erano iscritte le informazio-ni “super personas condempnatas et in fraudem inventas secundum formam statuti comunis de Gromo”16.

dei diritti minerari dal XIII a metà del XIV secolo, in “Quaderni di Archivio Bergamasco”, n. 1, 2007, pp. 13-29

(13) Sugli impianti di lavorazione del “panno di Bergamo” si rimanda a P. Mainoni, Eco-nomia e politica nella Lombardia medievale. Da Bergamo a Milano fra XIII e XV secolo, Cavallermaggiore 1994, pp. 27 e ss. Per un caso locale (Vertova in media val Seriana) relativo alla proprietà collettiva di mulini e follone, P.G. noBiLi, Vertova. Una comunità rurale nel medioevo. Vita del territorio, economia agricola e governo locale in un villaggio lombardo nella seconda metà del Duecento (1279-1282), Firenze 2009, pp. 138 e ss.

(14) Sulla metallurgia si rimanda supra nota 12; per il comparto tessile si faccia riferi-mento al cap. I della indagine di P. Mainoni, Economia e politica… cit., pp. 13 e ss.

(15) Si rimanda alle fondamentali pagine dedicate all’insediamento montano in F. Me-nant, Campagnes… cit., pp. 132 e ss.

(16) CBBg, Mia, Perg., n. 11270 del 30-3-1238, notaio Borandus Oteboni Rizi Gazonum de Gromo, rogato “in prato ecclesie sanctorum Iacobi et Vincenci de Butuno vicinancie Gro-mi ibi ubi solita fieri contio in publica contione illius comunis”. Agiscono 16 personaggi tra

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Una quindicina di anni dopo (1253) si ha un riscontro di una simile sen-sibilità documentaria ed archivistica per un’altro comune montano, quello di Casnigo, in media Valle Seriana alla destra del Serio. L’annuale passaggio di consegne tra i tesorieri comunali, i canevari, prevede il trasferimento, oltre che di atti sciolti costitutivi di quella comunità e delle sue proprietà (i salva-menta sacramenti vicinorum, le convenientes relative a boschi e prati di uso collettivo, i pacta e i sentenentia con i comuni confinanti, Gandino e Colza-te, un compromissum con le altre comunità della valle in merito alla gestione del ponte sul Serio) di fascicoli del tutto affini a quelli impiegati a Gromo, i quaterni expensarum et receptorum, i fascicoli delle accuse portate dalle guardie campestri, i campari, nonché il “quaternum in quo scripti sunt ficti comunis recepti”17, cioè il registro dei proventi derivanti dai beni collettivi concessi in locazione.

Ancora negli anni ‘80 del Duecento, per la medesima zona valliva, qua-derni di conti e di accuse (i quaterni racionis e quaterni accusationum, va-rie scripturae, i quaterni receptorum et expensarum) risultano impiegati dai comuni di Colzate, di Vertova, e dal cosiddetto Conzilium de Honio, sorta di consorzio di otto comuni della media Valle Seriana dedicato alla gestione di boschi e pascoli18. Sono tutte attestazioni, praticamente sconosciute per le comunità di pianura, che testimoniano di una spiccata cultura ammini-strativa degli enti locali di area montana. È la medesima preparazione che permette loro di eseguire prelievi fiscali, secondo la metodologia dell’estimo pro focho, in tempi rapidi e ogni qualvolta ve ne sia bisogno, e di aggiornare

cui ben quattro notai (Bonaventura di Zambono Ranchasche, Stefano Oberti, Albertino di Anderbono Ulamasi, Favallo di Zambono Peterzolli), tutti factores rationis comunis de Gro-mo che presentano la documentazione contabile al podestà locale et vallis, il dominus Nan-telmo da Crema, secondo quanto prescritto dagli statuti del comune, espressamente citati. Di Gromo resta uno statuto cinquecentesco, edito (Statuta de Gromo cit.), che fa riferimento a una compilazione tardoduecentesca (1296), probabilmente successiva a quella menzionata in questo atto.

(17) ASBg, FN, cart. 1 reg. 2, atto a p. 156 del 1-2-1253, notaio Pietro Rocca.(18) ASBg, FN, c. 3 r. 2, atto a p. 238 del 2-2-1285, notaio Pietro Lorenzoni (Colzate);

ASBg, FN, c. 3 r. 2, atto a p. 348 del 25-1-1287; ASBg, FN, c. 3 r. 2, p. 135 del 12-5-1283 (Vertova) notaio Pietro Lorenzoni, ASBg, FN, c. 3 r. 2, atto a p. 134 del 4-3-1283 (Conzillium de Honio). Per un’analisi relativa a documenti amministrativi e cultura archivistica dei co-muni rurali dell’intera Bergamasca mi si permetta il riferimento a P.G. noBiLi, Nel comune rurale del Duecento. Uso delle scritture, metodi di rappresentanza e forme di percezione di sé delle comunità del contado bergamasco lungo il XIII secolo, in “Bergomum”, n. 103, 2009, pp. 7-80, in particolare alle pp. 8-20 e, per il Conzillum de Honio, p. 16, nota 28. Per un’utile comparazione con situazioni coeve si rimanda a L. Baietto, Elaborazione di sistemi documentari e trasformazioni politiche nei comuni piemontesi (secolo XIII): una relazione di circolarità, in “Società e storia”, n. 98, 2002, pp. 645-679; C. BeCker, Il comune di Chia-venna nel XII e XIII secolo. L’evoluzione politico-amministrativa e i mutamenti sociali in un comune periferico lombardo, Chiavenna 2002, in particolare alle pp. 163-169 e 176-178.

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periodicamente la stima dei beni dei gruppi familiari19. Stupisce la precocità di questi ordinamenti di carte, con riferimenti an-

che statutari20, che, come detto, sono circoscritti ai soli comuni delle aree montane, allo stesso modo di quanto accadeva in quel periodo per altre zone alpine (Val Chiavenna, Valtellina)21. Si tratta di aree ove la sussistenza di forti beni indivisi e la consuetudine con la documentazione per sanzionare e sostenere usi e possessi sono state formative alla maturazione di una cultura archivistica e documentaria evoluta. A ciò si aggiungono le esigenze di tipo organizzativo, fiscale e di difesa da parte delle autorità del capoluogo che, in pratica, impongono agli ufficiali locali la tenuta di liste, di scritture ordinate (quali la stesura degli elenchi dei propri ufficiali, gli atti di descrizione dei confini) e di conti su registro e quaderno. Per i comuni di montagna, già eser-citati all’impiego di tali strumenti, viene così favorito lo sviluppo, accanto alla contabilità dei beni comuni (affitti, redditi etc.), di ampie competenze amministrative. Questo processo contribuisce infine a rafforzare il grado di coscienza identitaria delle comunità orobiche, che viene messo in campo principalmente nel momento in cui si trovano a relazionarsi con la principale controparte, gli organi del governo centrale e le loro procedure.

Del rapporto tra comuni montani e istituzioni del capoluogo si vogliono qui evidenziare alcuni momenti dal significato opposto per mezzo di quattro esempi – non ancora messo in tal luce dalla storiografia – tratti dalla docu-

(19) Si tratta di procedure in uso nei comuni di Colzate, Vertova e Semonte analizzate in parte P.G. noBiLi, Vertova… cit., pp. 153-158; iD., Il secondo Duecento… cit., pp. 354-358.

(20) Lo Statuto di Vertova prevedeva una cura particolare per le carte del comune, custo-dite da canevario in apposito stipo, come da P. GusMiMi, Vertova medievale, Vertova 1980, p. 130. I soli testi statutari bergamaschi di età comunale sono di area montana, quelli di Vertova (1235-1248), Leffe (1272), Valgoglio (da 1275) e Averara (1313), per i quali si veda il reperto-rio accluso in Statuti rurali e statuti di valle. La provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII, a cura di M. Cortesi, Bergamo 1984. Sull’argomento, F. Menant, Campagnes... cit., p. 488, nota 5; G.P.G. sCharF, Gli statuti duecenteschi di Vertova e Leffe, in Statuti rurali lombardi del secolo XIII a cura di L. ChiaPPa Mauri, Milano 2004; L. ChiaPPa Mauri, Statuti rurali e autonomie locali in Lombardia (secoli XIII-XIV). Qualche riflessione, in Le comunità rurali e i loro statuti a cura di a. Cortonesi e F. VioLa, Roma 2006, pp. 77-10; G.M. Varanini, La tradizione statutaria della Valle Brembana nel Tre-Quattrocento e lo statuto della Valle Brembana superiore del 1468, Statuti rurali e statuti di valle. La provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII, a cura di M. Cortesi, Bergamo 1983, pp. 13-62.

(21) Per il quaderno di conti duecentesco di Chiavenna si vedano T. saLiCe, La Valchia-venna nel Duecento, Chiavenna, 1997; P. Mainoni, Economia e finanza a Chiavenna, un borgo alpino del Duecento, in “Clavenna. Bollettino del centro di studi storici valchiaven-naschi”, n. 38, 1999, pp. 69-88; per un’analisi complessiva C. BeCker, Il comune... cit. Per un confronto con il valtellinese si rimanda a M. DeLLa MiseriCorDia, Mappe di carte. Le scritture e gli archivi delle comunità rurali della montagna lombarda nel basso medioevo, in Archivi e comunità tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di A. BartoLi LanGeLi e A. GiorGi, Trento 2009, pp. 155-278.

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mentazione duecentesca. Innanzitutto, si porteranno all’attenzione un paio di casi in cui appare forte l’intervento delle autorità centrali o il richiamo alle norme cittadine: il primo è in tema di inadempienze debitorie di un comune rurale (Parre in alta Val Seriana), il secondo riguarda la questione della sor-veglianza del territorio comunale (esempi della Valdimagna, facente parte del territorio di Almenno, e di Castelli Calepio). Si vedranno poi altre due situazioni in cui appare più robusta l’autonomia organizzativa delle comunità coinvolte: la prima riguarda un problema di definizione dei confini tra i co-muni della media Val Seriana e Gandino, il secondo la regolamentazione dei rapporti tra gruppi reciprocamente ostili della Val Brembana (una vicinia di Poscante in lite con due casate di zogno).

1. Inadempienze (il comune di Parre e la famiglia dei Bonghi)

Un punto di osservazione originale dei rapporti tra autorità pubbliche e ufficiali elettivi delle comunità rurali riguarda l’impiego di questi ultimi, te-stimoniato con una certa frequenza dalla documentazione duecentesca, in quelle procedure previste dalle normative del capoluogo per la persecuzione degli inadempienti e dei cattivi pagatori. I consoli dei loci del contado, agen-do quali vere “cinghie di trasmissione” delle autorità urbane, sono infatti i responsabili dell’attuazione dei procedimenti forzosi nei confronti dei beni di vicini del villaggio e degli altri soggetti non appartenenti alla comunità, cives compresi, che detenessero possedimenti sul proprio territorio comunale, mi-nuziosamente delimitato fin dagli anni ’20-’30 del Duecento22.

Gli interventi sulle proprietà altrui, di norma decretati da un console di giustizia bergamasco, comprendono in primo luogo azioni di pignoramento e di interdizione di beni contestati23, fino a che non fosse stata portata a ter-mine una procedura conoscitiva degli scoperti gravanti sulla parte inadem-piente (“donec racionem cognoverit inter eos”) o debitore e creditore non avessero trovato un’intesa (“vel donec fuerunt acordatus cum eo”). Seguono procedimenti di sequestro dei patrimoni, di immissione in proprietà e atti di autorizzazione al danneggiamento dei possedimenti dei cattivi pagatori, in modo da indurli a saldare il dovuto. I consoli di ogni comune rurale abitual-mente ricevono da parte dei servitori del capoluogo liste di beni (oggetti di uso quotidiano, armenti, coltivi, edifici) di propri vicini da porre sotto seque-

(22) Per i riferimenti bibliografici si rimanda alle note nel §2 di questo stesso contributo dedicato all’argomento.

(23) Non restano le norme dello Statutum Vetus relative a queste procedure, ma si con-fronti con lo Statuto del 1331, coll. III, § 8, “De pignorationibus et interdictis”, che prevede si possano fare interdicta, sequestrationes et pignorationes nelle mani dei console o di altre persone idonee, sia per l’area cittadina entro dieci miglia, sia all’esterno (pp. 94-95).

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stro24, che detengono presso di sé e, se il contenzioso si prolunga25, passano ai successori alla carica. Nei casi di inadempienza cronica, gli ufficiali locale possono procedere anche a vere e proprie esecuzioni forzate di proprietà a favore dei creditori26.

tra questi compiti, non negoziabili da parte delle autorità locali, partico-lare si rivela quello di fornire la disponibilità di compaesani per procurare danni alle proprietà di un abitante del villaggio in stato di morosità verso ter-zi. Nel 1279, per esempio, a Pietro Curti, console di Alzano Inferiore, località posta giusto all’imbocco della strata puplica Vallis Seriane, sono richiesti dodici vicini allo scopo di rovinare, in vesti di guastatores, i beni di un re-sidente del posto (“ad faciendum fieri guastum in bonis et possessionibus Galdiferri filii condam domini Colombi burgi de Hocha suprascripti loci”)27. Il precetto deve essere eseguito entro dieci giorni, sotto pena di 100 soldi per il Curti e l’altro console e di dieci lire per il comune rurale. Il drappello di vi-cini di Alzano è gestito da un miles iustitie bergamasco, seguito da un notaio, eventualmente da un servitore del comune di Bergamo e dal procuratore del creditore insoddisfatto; questi ultimi soggetti venivano retribuiti a giornata

(24) Un buon esempio è l’interdizione di beni di un privato tramite un console di Villa di Serio: CBBg, Mia, Perg., n. 5685 del 20-12-1289, rogato in loco de Villa ripe Serii in domo habitationis infrascripti Iohannis: “Ibi Recuperatus qui dicitur Forestus de Clixione servitor comunis Pergami nomine et ex parte consulum iusticie comunis Pergami interdixit et contestavit atque precepit in manibus Martini filii condam Viscardi Bellasine tunc con-sulis comunis de Villa suo nomine et nomine et vice ipsius comunis et pro ipso comuni de Villa videlicet duas porzellas feminas valentes solidos octo imperialium [...] de bonis et rebus Iohannis filii condam Otteboni de Cappis habitantis suprascripti loci de Villa et que omnia debeant in se tenere salvare et guardare ad voluntatem suprascriptorum consulum iusticie et hoc ad postulacionem domini Iohannis filii condam domini Rogerii Beyne burgi Sancti Andree donec racionem cognoverit inter eos”.

(25) Come in ASBg, FN, c. 3 r. 3, p. 7 del 1-1-1288, notaio Pietro Lorenzoni, in cui i con-soli veteres del comune di Vertova consegnano al nuovo console le coppe, le assi, le pietre e il legname di alcune case demolite di dominus Guidotto di Fara site sul proprio territorio e che erano sequestrate alla richiesta della famiglia cittadina dei de Benallis.

(26) Per esempio in ASBg, FN, c. 1 r. 1, atto a p. 95 del 24-9-1254, notaio Bartolomeo de Carbonariis, in cui si intima di procedere al sequestro di mosto e vino di un vicinus di Trescore.

(27) CBBg, Mia, Perg., n. 5776 del 13-6-1279, notaio Gualterio Suardi, rogato super regio ecclesie domine Sancte Marie Mayoris in puplica contione comunis Pergami. Giovanni di Pietro Curti di Alzano Inferiore riceve il precetto del podestà del comune di Bergamo e del miles iusticie dominus Galicius de Lascala per cui “debet dare et consignare suprascripto domino militi et Bonazio Petri Troici tutori heredum Alzanini Zanoni ser Dardi ferrarius suprascripti loci nomine suprascripti heredum et pro eis duodecim guastatores ad faciendum fieri guastum in bonis et possessionibus Galdiferri filii condam domini Colombi burgi de Hocha suprascripti loci et predicta facere tenuerunt”. Viene poi prevista una forte ammenda di cento soldi per i consoli e di dieci lire per il comune se entro dieci giorni non si accordano col Bonazio per la fornitura dei guastatores.

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dalla parte appellante28, con il proposito di addossare in seguito le spese al debitore. Si hanno quindi procedure molto invasive nella vita quotidiana di un vicinus inadempiente e che vengono attuate, in maniera praticamente au-tomatica, anche quando dalla parte dell’obbligato inottemperante si trova un comune rurale. Le conseguenze possono essere quantomeno anomale, come nell’esempio ben documentato della comunità di Parre e di un’eminentissima famiglia cittadina, quella dei Bonghi.

Il rapporto tra il comune di Parre in alta Valle Seriana e i Bonghi ricalca le relazioni intercorrenti a fine Duecento fra numerose comunità orobiche e alcune potenti famiglie di domini bergamaschi di ricchi mercanti e specula-tori. In particolare i Bonghi detengono nell’area montana per lunga consuetu-dine possedimenti, feudi e cariche: castello e diritti signorili a Castione della Presolana, privilegi da domini nei confronti degli abitanti di Dossena in Val Serina, la carica podestarile sia a Vertova, in cui si alternano annualmente coi Suardi nell’incarico, sia nel grosso comune e borgo di Almenno, dove esercitano questa funzione in maniera praticamente ereditaria29.

A fine Duecento a Parre i Bonghi possiedono terreni affittati a singoli vi-cini e al comune rurale: Enrico possiede almeno venti appezzamenti tra loro contigui, Ermanno ben 280 petie terre di varia tipologia che ogni anno gli rendono la cifra, davvero cospicua, di 168 lire di imperiali. Essi riscuotono inoltre diritti signorili30 e sono attestati come podestà locali. I Bonghi eser-citano ogni sorta di operazione economica nell’area31, attuando, come altri

(28) Un esempio di pagamento di milites che avevano occupato proprietà ad Almenno di un dominus in CBBg, Mia, Perg., n. 5799 del 20-12-1278, notaio Giovanni de Lacosta rogato sub portichum que est prope ecclesiam sancte Marie: “dominus Albertus de Muzzo tunc miles iustitie Pergami per se et suo nomine et nomine et vice Benvenuti de Bursa servitoris comunis Pergami et Bonafacius Carpionum notarius ipsorum militum et Iohannes missus et procurator Bonetti de Pessinis fuerunt ibi contenti et confessi ad postulacionem suprascripti Bonetti et pro eo quod ipse Bonettus eis dederat et solverat solidos treginta octo imperialium pro eorum merito et fatiga quam habuerunt et facerent et steterent per quatuor dies in loco de Lemene de mense novembre proximo preterito super bonis et rebus domini Gisalberti de Vazio”.

(29) “Nel 1156 un diploma imperiale gli conferma il possesso di tutta la valle fino alla Val Camonica, in particolare la villa di Parre e la pieve di Clusone” scrive F. Menant, Come si forma una leggenda familiare: l’esempio dei Bonghi, in “Archivio bergamasco”, n. 2, 1984, pp. 9-27. Per i possedimenti dei Bonghi dell’area si rimanda al testo di Menant, alle pagine di Battioni citate infra. Per la carica podestarile a Vertova a P.G. noBiLi, Vertova… cit., pp. 158-161, per quella ad Almenno a F. Menant, Campagnes… cit., p. 522, nota 135.

(30) Si veda G. Battioni, Per la storia della società bergamasca tra Duecento e Trecento: la famiglia Bonghi, tesi di dottorato di ricerca, Università degli studi di Milano, anno acc. 1989-1992, in particolare il cap. II, pp. 110-140, e soprattutto il terzo paragrafo a pp. 118-121.

(31) F. Menant, Campagnes…. cit., p. 555. Anche Gianluca Battioni, nella sua disamina

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domini che in quel periodo speculavano con le comunità del contado (tra i meglio documentati e studiati troviamo i de Beatis con il comune e i vicini di Vertova, i de Zoppo con Colzate, Scalve, Gromo, i della Crotta per le località della Val Serina, i de Baniattis con Cologno al Serio, Ardesio, Gandino32), una strategia molteplice, fatta di affari nel settore dell’allevamento (soccide e locazioni di greggi ad fictum), del commercio delle granaglie e soprattutto del credito, con prestiti ai singoli e ai comuni locali33. Per loro, come per altri signori e finanzieri, si tratta di una presenza, anche di lunghissima durata, circoscritta quasi esclusivamente alle aree montane, quelle i cui terreni sfug-givano agli appetiti dei cittadini e in cui era più agevole conservare a lungo possedimenti di vasti incolti, diritti signorili e privilegi, pur contestati dalle comunità locali34.

Del radicamento dei Bonghi a Parre, uno tra i migliori esempi di poten-za familiare “tutta locale”35 della regione orobica, si vuol mettere in luce il periodo terminale del Duecento. Come per altre comunità rurali della berga-masca, il sommarsi di reiterati prelievi fiscali ai gravami provocati dai debiti

delle attività economiche dei Bonghi in Val Seriana (fitti, compravendite di terreni e di obbli-gazioni, soccide e conferimento di capi di bestiame ad fictum), ne rileva il carattere altamente speculativo: “in ogni caso, comunque, è certo che ci troviamo di fronte a forme diverse di unica attività, il prestito, anche se raramente i rogiti ci suggeriscono per quali ragioni si adottasse di volta in volta proprio quella forma a preferenza di un’altra”, in G. Battioni, Per la storia… cit., p. 123.

(32) Per i casi della famiglia de Beatis e Vertova si rimanda a P. Mainoni, Economia e politica… cit., p. 40 e pp. 49 e ss.; P.G. noBiLi, Il secondo Duecento… cit., pp. 431-433; per i de Zoppo, della Crotta e de Baniattis si rimanda a quest’ultimo contributo alle pp. 446-456.

(33) Si veda P. Mainoni, Economia e politica… cit., p. 38 e nota 25, che riporta per Parre l’assunzione in affitto di 130 pecore e 200 vacche di Guido e Roberto Bonghi. Sulla pratica di prendere in locazioni interi greggi da parte di comuni rurali montani, che probabilmente con-figurare dei casi di prestito dissimulato su pegno in armenti, si veda ancora P.G. noBiLi Il se-condo Duecento… cit., pp. 406-414. Sulla strategia economica dei Bonghi a Parre, Clusone, Gazzaniga, incentrata sul prendere a prestito grosse somme da finanziatori cittadini per poi impegnarli in una miriade di speculazioni locali, come anche facevano altri cives prestatori attivi nel contado, si rimanda a G. Battioni, Per la storia… cit., pp. 121 e ss. e in particolare p. 126: “se, infatti, i Bonghi risultano debitori ex mutuo per discrete somme, in media alcune decine di lire, con note famiglie bergamasche (i Meliorati, i de Solario, i Ficieni, i de Cur-teregia) risultano poi creditori per lo stesso motivo, ma ora per pochi soldi o al massimo per poche lire, con i soliti altrimenti anonimi abitanti di Parre o di Castione della Presolana”.

(34) Per un esempio ottimamente studiato si veda A. PoLoni, «Ista familia de Fine auda-cissima presumptuosa et litigiosa ac rixosa». La lite tra la comunità di Onore e i da Fino nella Val Seriana superiore degli anni ’60 del Quattrocento, Clusone 2009; eaD., Storie di famiglia. I da Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo, Songavazzo 2010.

(35) Per F. Menant, Come si forma… cit., p. 12: “La potenza dei Bonghi è dunque nel XIII secolo tutta locale, costruita sul potere economico e politico (sono spesso podestà di Parre) esercitato in una porzione di una vallata montuosa. I Bonghi quindi occupano solide posizioni nelle valli, e si appoggiano su una ricchezza crescente (prestiti a interesse, alleva-mento) e sul controllo degli uomini (vassalli, cariche di podestà, prestiti ai comuni)”.

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passati e dai nuovi scoperti rendono i rapporti fra i vicini di Parre e gli espo-nenti dei Bonghi sempre più critici, ambiguamente sospesi tra soggezione politica e dipendenza finanziaria dei rustici a questa importante famiglia di domini bergamaschi.

In particolare sono Federico dei Bonghi e suo figlio Enrico che esercita-no il ruolo di finanziatori di quel comune rurale e dei suoi abitanti e che, in caso di inottemperanza dei pagamenti, oltre a pretendere la corresponsione di interessi e spese per i ritardi36, si avvalgono delle procedure coattive pre-disposte dalle autorità comunali37: convocazione presso un giudice cittadino, iscrizione nel libro dei bandi per motivi di inadempienza (pro re pecuniaria) e ordini di danneggiamento delle proprietà dell’indebitato. Bandi e danneg-giamenti, assieme all’arresto per debiti, vengono usualmente impiegati, più che a scopo di vendetta, quali mezzi di pressione per ottenere un celere rien-tro del dovuto. La minaccia di simili provvedimenti può causare dolorose di-smissioni di beni collettivi per le comunità locali: i 14 credendari dello stesso comune di Parre, nel 1266 congregati in assemblea secondo i crismi abituali (“more solito convocata”) e all’unanimità (“per voluntatem omnium homi-num astantium in ipsa contione”), vendono a Federico Bonghi per 11 lire un prato di proprietà comunale in teratorio de Parre ubi dicitur in Campiniano, che era affittato annualmente a un notaio e due vicini del luogo per 18 soldi di imperiali38. Si tratta di un’alienazione stipulata secondo la consueta for-mula “datum nomine vendictionis ad proprietatem et iure proprietatis” ma dal connotato particolare, per il fatto che l’oggetto ceduto più che il terreno è il diritto per Federico di riscuotere in perpetuum il canone d’affitto, prelie-vo assicurato omni tempore dagli stessi consoli e credendari del comune di Parre, con la garanzia dei loro beni. In pratica il comune di Parre, volendo

(36) Si tratta dei consueti omnes dampnum dispendium et guaderdonum factum vel ha-bitum già previsti al momento della stipula del prestito, come da un esempio del mutuo tra Federico dei Bonghi e il comune rurale di Parre in CBBg, Mia, Perg., n. 7586 del 16-3-1254, notaio Filippo de Ricollis rogato in camera predicta palacii comunis Pergami: “Convenit {...} obligavit sua bona pignori et omnia bona comunis de Parre suo nomine et nomine et vice suprascripti comunis de Parre [...] domino Federico de Bongo (sic) civitatis Pergami quod dabit et reddet ei in kalendas aprili proximi venturi solidos quatraginta bonorum denariorum imperialium vel eorum loco sine fraude currentes. Et quod reserciet ei omnes dampnum di-spendium et guaderdonum factum vel habitum post terminum per ipsos denarios quos dena-rios suprascriptus Nantelmus suprascripto modo et nomine fuit contentus et confessus eidem domino Federico dare et reddere debere ex precedente causa mutui”.

(37) Non essendo pervenute le norme duecentesche relative a questi temi si rimanda allo Statuto del 1331, che certamente riprendeva ordinamenti precedenti, coll. III, § 8, 9, 10 (nor-me su pignoramenti e interdetti) e tutta la collatio VII riguardante i banditi pro re pecunia-ria. Strettamente in tema di conseguenze delle inadempienze si rimanda ancora a P.G. noBiLi, Il secondo Duecento… cit., pp. 237 sgg.

(38) CBBg, Mia, Perg., n. 1561 del 26-6-1266, notaio Alberto de Grumello di Parre.

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forse aggirare una disposizione statutaria locale39, o per non perdere defini-tivamente la proprietà del terreno, si era deciso a vendere soltanto il dominio utile, quantificato in 18 soldi all’anno. La garanzia offerta da questo ente, coi propri averi collettivi, del pagamento puntuale e completo dei canoni da parte dei tre affittuari e dei loro eredi costituisce un ulteriore onere nei confronti dei Bonghi, che si somma ai prestiti contratti nei decenni precedenti con questa famiglia secondo differenti modalità40.

È però in concomitanza con le difficoltà occorse nelle campagne berga-masche a partire dagli anni ’70 del Duecento, a ragione dei ripetuti cicli di carestia e di una più decisa stretta fiscale messa in atto dal capoluogo41, che il rapporto fra Parre e i Bonghi raggiunge un pericoloso punto di rottura e si complica con l’intervento di giudici, ufficiali e servitori del comune urbano. Si è sopra evidenziato come il personale amministrativo periferico, le figure elette direttamente dalle comunità rurali quali i consoli, costituiscano i ter-minali delle procedure di pressione sugli inadempienti disposte dalle autorità cittadine, sia nelle numerose fasi intermedie (citazioni per bandi, consegna di precetti, procedure di arresto dei debitori..) sia in quelle conclusive, come i sequestri di beni. tra le prime, come detto, si trovano i danneggiamenti in-flitti alle proprietà dei comitatini debitori, che venivano eseguiti dagli stessi abitanti del luogo precettati dai consoli rurali. È ciò che, in maniera inusitata, avviene con gli stessi consoli di Parre cui nel 1277 il podestà di Bergamo richiede la disponibilità di ben 25 vicini quali guastatores, su sollecitazione di Enrico di Federico Bonghi42, che aveva per tempo iscritto questo comune

(39) Mancano gli statuti di Parre per il Duecento, ma se si riferisce alla non distante Vertova la tutela dei beni comuni è una delle principali preoccupazioni del testo (Statuti di Vertova del 1235, del 1248 e del 1256 con annotazioni, a cura di G. rosa, Brescia 1869, § 2, “De eodem [sacramento Communis de Vertoa] per manutentione possessorum et honorum comunis” e § 6, “De bonis et convenientiis ipsius comunis guardandis et de eis exigendis”),

(40) Si rimanda ai lavori di Menant e di Battioni citati alle note precedenti per un’analisi delle esposizioni debitorie del comune di Parre con i Bonghi nel Duecento.

(41) Si vedano le pagine iniziali di P. Mainoni, Le radici della discordia. Ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XV secolo, Milano 1997, pp. 10 e ss.; la conclusione in P.G. noBiLi, Il secondo Duecento… cit., pp. 457-472.

(42) CBBg, Mia, Perg., n. 7582 del 19-5-1272, notaio Lanfranco Loteri de Madone rogato in loco de Parre in via publica ipsius loci: “Ibi Detesalvus qui dicitur Papa de Lemene ser-vitor comunis Pergami preconatus fuit sic dicens omnis homo sciat et audiat Peterbonus qui dicitur Gaybaicino et Facinus filius condam Alberti Panigoni consules comunis loci de Parre [...] quod in banno solidorum centum imperialium pro colibet (sic) eorum de suo proprio ave-re et librarum vigintiquinque imperialium de havere suprascripti comunis quod incontinenti darent et designarent domino Bertolameo de Sancto Alexandro militi iustice Pergami vigin-tiquinque guastatores occasione faciendi fieri guastum in bonis et super bonis suprascripti comunis de Parre ad postulacionem domini Henrici domini Federici de Bongis qui habebat ipsum comune in banno pro re pecuniaria et predicta omnia facere tenuerit si in continenti non dederint suprascriptos guastatores ut suprascriptum est sint ipsi consules in banno soli-

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rurale nel libro dei bandi per ragioni debitorie (“qui habebat ipsum comune in banno pro re pecuniaria”). Gli abitanti di Parre precettati avevano il compito, davvero paradossale, di mettersi agli ordini di un miles iusticie di Bergamo allo scopo di rovinare i loro stessi beni collettivi (“occasione faciendi fieri guastum in bonis et super bonis suprascripti comunis de Parre”).

Non si conosce quale sia stata la risposta delle autorità locali a simili, rei-terate richieste (ancora nel 1277 nel giro di un paio di mesi vengono reclamati per due volte 25 guastatori e poco dopo altri 18)43, corroborate da minacce di sanzioni pecuniarie (100 soldi per i consoli e 25 lire per il comune di Parre). tuttavia risulta che Enrico Bonghi abbia dato seguito ai danneggiamenti per mezzo di personale e ufficiali del comune di Bergamo, adeguatamente com-pensati per il servizio44. Le autorità del posto, in base alle procedure statuta-rie urbane, vengono informate dell’attività di facere guastum e in particolare del costo del personale che la dovrà eseguire (per esempio, nel 1277 il miles di giustizia, un notarius militum e un servitore del comune impegnati nei guasta vengono ricompensati con 9 soldi e mezzo al giorno), con tre giorni di tempo per eventuali contestazioni (“unde si est aliqua persona que vult contradicere nec guastum fiat in suprascriptis bonis sit ad tercium diem pro-ximum venturum coram ipso domino militi”)45.

Si tratta di una permanenza, forzosa e in armi, sui beni collettivi di Parre che si può protrarre senza limite, fino all’integrale pagamento dei debiti con i Bonghi per i quali i comitatini sunt in banno. Lo stesso Enrico Bonghi, nel 1279, si decide a intervenire in prima persona, in compagnia del notaio Pietro

dorum centum imperialium de havere suprascripti comunis et plus et minus ad voluntatem potestatis comunis Pergami”.

(43) CBBg, Mia, Perg., n. 7588 del 30-10-1277 rogato in loco de Parre in via publica comunis ipsius loci presenta minacce di sanzioni se non fossero consegnati 25 guastatores richiesti, come in CBBg, Mia, Perg., n. 7584 6-11-1277, notaio Pietro de Assiadis: “Recupe-ratus qui dicitur Forestus servitor comunis Pergami preconetus fuit sic dicens omnis homo sciat et audiat Graciadeus Panigoni et Martinus Balesta consules suprascripti loci de Parre suo nomine et nomine et vice ipsius comunis tenuerunt precepta potestatis comunis Pergami et domini Belefini de Clauso militis iustice Pergami quorum preceptum fuisset eis dicto modo et nomine per me servitorem ut in banno [...] darent suprascripto modo et nomine su-prascripto domino militi et Venturino ser Albertus Zanonum nomine et vice domini Henrici de Bongis civitatis Pergami cuius est missus per cartam rogatam per dominum Belesinum de Clauso notarium vigintiquinque guastatores ad faciendum guastum super bonis et rebus suprascripti comunis ad postulacionem suprascripti missi”. Ancora in CBBg, Mia, Perg., n. 7595 del 14-12-1277, notaio Benaduce de Mantonanis, vengono richiesti al comune di Parre 18 guastatori.

(44) Parrebbe quindi evidente che i guastatores locali servissero come supporto a miles e servitori urbani e il loro impiego non fosse remunerato, ma rientrasse tra le prestazioni obbli-gatorie, al pari di quelle relativi ai lavori pubblici o ai servizi di guardia e militari, richieste ai vicini del contado.

(45) CBBg, Mia, Perg., n. 7585 del 24-11-1277 rogato in loco de Parre.

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de Assiadis, per stare con due cavalli sulle proprietà, questa volta, dei consoli e del canevario di Parre, al costo di sette soldi e mezzo al giorno46.

Ci si trova di fronte a un’attività di occupazione in armi dei possedimenti altrui e di inflizione di danni, in un rapporto certamente difficile e contrasta-to con le popolazioni locali. Si noti come gli stessi emolumenti per cavalieri, servitori e notai impegnati nei guasti, scrupolosamente quantificati47, siano sempre iscritti in atti notarili: seppur anticipate dallo stesso Enrico Bonghi in almeno quattro occasioni tra 1271 e 128048, essi rientrano tra i dispendii, quelle spese per il recupero dei crediti che vengono addossate ai debitori as-sieme agli interessi, aggravando la posizione di questi ultimi.

Risulta così che i beni comunali non si sottraggono alle procedure previ-ste per gli inadempienti delle obbligazioni, compresa quella, evidentemente dalla forte carica simbolica, ed eversiva delle proprietà altrui, di facere gua-stum, che la normativa del capoluogo voleva messa in atto dagli stessi abitanti del posto. Come per diverse, altre occasioni (prima fra tutte, l’iscrizione nel libro dei bandi pro debitis non per scoperti personali ma per le passività del proprio ente), per Parre e i Bonghi ci si trova davanti ad un esempio della natura ambigua delle cariche elettive dei comuni rurali, il cui personale con-corre a garantire i debiti collettivi con i beni propri assieme ai possedimenti

(46) CBBg, Mia, Perg., n. 7587 del 12-1-1279,. rogato in loco de Parre ante domum domi-ni Armani de Bongi qui con[finat?] a platea ipsius loci: “Ibi dominus Henricus filius condam domini Frederici de Bongis civitatis Pergami dixit et denonciavit et notum fecit Gracio filius condam Peterboni Gratus de Parre currenti consuli comunis de Parre suo nomine et nomine et vice ipsius comunis et pro ipso comuni et soziorum suorum et Acurso filio condam Io-hannis Orlandi de Parre tunc canevario suprascripti comunis de Parre quod ipsus dominus Henricum est et stat una cum me notario cum duobus equis super bonis et rebus suprascrip-torum consulum et canevarii nomine et vice suprascripti comunis hodie et ab hodierno die in antea ad racionem solidorum septem et media imperialium quolibet die donec ipsi consules et canevarius non solverint suprascripto domino Henrico omnes illos denarios quos habere debet ab ipso comuni de Parre et de quibus sunt in banno”.

(47) Nel 1280 si presentano presso la dimora dei Bonghi nella vicinia di San Michele dell’Arco il miles e dominus Lanfranco Azuelli, anche a nome dei suoi servitori e del suo notaio (la cui presenza sul luogo dei danneggiamenti è probabilmente obbligatoria a fini di registrazione dell’evento), nonché un tale Bonaventura de Nespullo, procuratore di Enrico Bonghi, per farsi versare quattro lire e 14 soldi e mezzo “pro eorum talia et labore et fatiga” in ragione delle dieci giornate durante le quali danneggiarono le proprietà dei consoli di Parre (“ad standum super consulibus de Parre”), come da CBBg, Mia, Perg., n. 7592 del 14-11-1280, notaio Maifredo de Feragalllis rogato in vicinantia sancti Micheli de Archi in quadam domo habitationis Guarini Lingue que est dominorum de Bongis.

(48) Pagamenti vari di miles per guasti al comune di Parre si trovano, oltre che in CBBg, Mia, Perg., n. 7592 del 14-11-1280 trascritto supra, in CBBg, Mia, Perg., n. 7590 del 16-15-1271 (pagamento di messo, notaio e servitore, 7 soldi e mezzo i primi due, due soldi al giorno al servitore), CBBg, Mia, Perg., n. 7597 del 2-8-1279 (pagamento a miles, servitore e missus di 7 lire e 2 soldi e mezzo per 15 giorni, CBBg, Mia, Perg., n. 7591 del 17-11-1280 (9 soldi e mezzo al giorno per messo, miles iusticie e servitore).

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comunali e, in secondo luogo, con quelli dei singoli vicini.

2. Confini (i comuni della media Valle Seriana e di Gandino)

La storiografia ha già rilevato come il contado di Bergamo rappresenti una delle situazioni più rilevanti, precoci (gli anni ’20 del Duecento e la prima metà dei ’30) e meglio documentate per l’analisi delle procedure di definizione territoriale delle città-stato duecentesche e di determinazione delle ripartizioni amministrative degli enti minori nel distretto49. È infatti all’interno di un territorium ben definito e distinto da quelli contermini che i comuni rurali hanno esclusiva responsabilità fiscale, criminale e per i danni dati, soprattutto in riferimento ai beni di cittadini e di signori rurali non in-quadrati nelle comunità dei rustici.

Come accadeva per altre città-stato comunali coeve50, il capoluogo oro-bico forzava le comunità locali a trovare un accordo in merito alle proprie linee di confine, cosa che concretamente avveniva per mezzo di camminate collettive finalizzate “ad calcanda terminanda et mensuranda” i rispettivi ter-ritori. In primo luogo si ponevano cippi terminali o stabilire altre emergenze adatte a fungere da demarcazione (creste di montagne, linee di alberi, fiumi e torrenti, casolari..). Poi, in relazione a queste “terre calcate et mensurate et terminate”, si dovevano produrre appositi istrumenti pergamenacei (“in scriptis publicis redigere”51) in cui riportare le descrizioni dei tracciati di

(49) A. Mazzi, Corografia… cit., alle voci “comitatus” e “diocesi bergomense”, pp.179-189 e 215-225; iD., I confini dei comuni del contado. Materiali per un atlante storico del Bergamasco, in “Bergomum”, n. 16, 1922, pp. 1-50; B. BeLotti, Storia di Bergamo e dei ber-gamaschi, Bergamo 1958, vol. II, p. 19 e ss; C. storti storChi, Diritto ed istituzioni a Ber-gamo in età comunale, Milano 1984, p. 265 e ss. Utile strumento di riferimento il recente P. osCar, O. BeLotti, Atlante storico del Territorio bergamasco. Geografia delle circoscrizioni comunali e sovracomunali dalla fine del XIV secolo ad oggi, Bergamo 2000. Come esempio della enorme attenzione da parte delle autorità del capoluogo in tema di confinazione distret-tuale si tenga presente poi che il lungo Excerptum 2064-65 dello Statutum Vetus replicato dalle ben 34 rubriche, dalla XXVI alla LX dello Statuto del 1331 si occupa di adequatio e unioni di comunia del distretto e di diffinitio confinium delle vicinie urbane.

(50) Si faccia riferimento alla sintesi di G. FranCesConi e F. saLVestrini, La scrittura del confine nell’Italia comunale. Modelli e funzioni, in Frontiers in the Middle Ages, a cura di O. MerisaLo e P. Pahta, Louvain-la-Neuve 2006, pp. 197-221, distribuito in formato digitale da “Reti medievali. Biblioteca”, e, per alcuni casi di studio il recente Distinguere, separare, condividere. Confini nelle campagne dell’Italia medievale, a cura di P. GuGLieLMotti in “Reti Medievali. Rivista”, n. 7, 2006/1 distribuito in http://www.storia.unifi.it/_RM/rivista/default.htm e rispetto questo volume le valutazioni di C. wiCkhaM, V. tiGrino, A proposito di “Di-stinguere, separare, condividere. Confini nelle campagne dell’Italia medievale”, a cura di Paola Guglielmotti, in “Quaderni storici”, n. 3, 2008, pp. 751-768.

(51) Uno dei primi esempi dell’uso di questa terminologia è in CBBg, Perg. n. 10929 del

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delimitazione, così come erano stati rilevati dagli incaricati. Lo scopo delle autorità centrali era quello di avere a disposizione un corpus, forse un qua-ternus, ma è un’ipotesi, contenente tutti gli instrumenta di confinazione dei comuni rurali52 che si potesse porre accanto al quaternus delle “calcazioni” dei terreni del comune relativo, invece, ai possedimenti di Bergamo entro sei miglia dall’area della civitas53.

Per i singoli comuni rurali del districtus Pergami ci si trovò quindi di fronte a un compito non facile in cui, da un momento all’altro, avrebbero dovuto distinguere nettamente54 i territori dell’uno da quelli degli altri, in-dividuare e separare le terre comuni e stabilire la collocazione dei possedi-menti di cives e gentiles non inquadrati nelle comunità cetuali (i comunia populi e i comunia gentilium o nobilium). I ripetuti ordini dei podestà di dare avvio alle delimitazioni, le ingiunzioni alle autorità delle comunità rurali perché compilino le carte di confinazione, le sollecitazioni di grandi pos-sessori, quali monasteri ed enti religiosi, a procedere a queste ripartizioni, fanno sì che i gruppi di ufficiali e vicini che si predisponevano a rimarcare lo spazio comunale (spesso con notaio al seguito) si sentissero davvero costretti (astricti, come troviamo ripetuto in un atto di delimitazione, quello tra Almè

18-3-1221, notaio Oberto de Camasis, rogato in burgo de Mugatione relativa ad una calca-zione dei possedimenti del comune di Bergamo entro sei miglia attorno alla civitas, ma essa viene introdotta in una norma statutaria (statuto De terris calcandis et terminandis et men-surandis, come da CBBg, Perg., n. 1749 del 16 novembre 1222, notaio Alberto de Scano), e costantemente ripetuta dagli atti di definizione dei confini tra enti del contado, come dagli esempi discussi in P.G. noBiLi, Appartenenze… cit., pp. 44-58.

(52) Il Mazzi ne dava la definizione, forse anacronostica per il primo Duecento, di “Liber instrumentorum confinium territorii Pergamensis”, citando da fonte tardoquattrocentesca, in A. Mazzi, Lo statuto di Bergamo del 1263, Bergamo 1902, p. 25 nota 97; iD., I confini… cit., pp. 7-8.

(53) Ancora in CBBg, Perg., n. 929 a cui segue, sempre sulla stessa pergamena, un atto del 28-2-1290 in cui “Lanternius de Crema notarius ad suprascripta armaria pro comuni Pergami constitutus vidit et legit unum librum calcationum factarum de terris comunis Pergami et co-muni Pergami pertinentibus” all’ anno 1251 scritto da Rogerio Falavelli “tempore dominatus domini Mauri de Beccaria Papie honorabillis Pergami potestatis in quo vidit sic contineri”. Negli Addimenta dello Statutum Vetus, coll. 2066, un ordinamento datato al 2 luglio 1253 impone al podestà di eleggere entro due mesi quatuor bonos et providos Magistratos con cui recarsi a visitare “omnes fronterias et confines Episcupatus Pergami usque ad Sarnicum”, di modo da metterli per iscritto (“et cum eorum consilio redigere in scriptis quomodo et quali-bet”) e procedere a costruire fortificazioni (“possint infortiri ipsi confines et frontiere”): non è casuale che su questa scala, quella della città-stato, la redazione dell’instrumento notarile sia posta in parallelo all’atto possessorio determinato dall’installazione militare.

(54) L’ordine è esattamente quello di distinguere, definire e delimitare (“distinguant ac dividant ac definiant ac terminent sua territoria ab alii territoriis cum quibus confiniant”), come riportato da A. Mazzi, I confini… cit, p. 7, che trascrive estratti del documento di defi-nizione dei confini tra i comuni di Lepreno e Bracca.

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e Sorisole55) a procedere alle ripartizioni. Anche se per l’area montana l’operazione tiene certamente conto della co-

rografia (per esempio servendosi di creste e cime come termina separatori), queste linee di delimitazione si sovrappongono a compascui e usi promiscui, anche risalenti, che mal si prestano a una siffatta ripartizione lineare, costrin-gendo le comunità a dolorosi compromessi. Non a caso, tutti gli esempi do-cumentari di calcazione e terminazione giunte fino a oggi riguardano l’area collinare e le valli. Le carte di divisione dei territori conservate, quelle tra Lepreno e Bracca, Almé e Sorisole, Sorisole e Dossena e Stabello, si rifanno a tale terminologia e modello: la pratica di refilare/afilare recte più punti sul terreno, ove si era proceduto a invenire segni ed a porre termina56, comporta separazioni di beni di uso collettivo, e delimitazioni lineari di vaste aree d’al-tura in cui i confini erano stati fin a quel momento sfumati.

Appunto una serie di tre atti datanti al 1234, un periodo, come detto, in cui sotto una podesteria milanese (Uberto da Mandello) sono riferiti anche altri istrumenti di calcazione57, costituiscono il dossier di documenti relativi alla demarcazione dei confini tra una serie di comuni della media Val Seria-na alla destra del Serio, Leffe, Cazano, Barzizza, Casnigo, e Gandino unito con Cirano. Si tratta di confini posti in accordo sul terreno (“Hec sunt confi-nes concorditer positos et ordinatos” è l’inizio dell’atto) da parte di due per-sonaggi appositamente designati, un vicinus di Gandino abitante nel borgo bergamasco di Sant’Andrea, e un notaio, Andrea di Giovanni Blancus, alla presenza di un terzo soggetto, un importante funzionario urbano, dominus Galdolfo, sindicus ed assessor del podestà di Bergamo58.

I due incaricati, prestati i consueti giuramenti (“qui iurarunt ad sancta Dei evangelia bona fide sine fraude remotis omni hodio amore et timore precio”) si accingono, secondo quanto espressamente previsto dallo statuto di Berga-mo (“ut in statuto comunis Pergami continetur”) e in base alla designazione ufficiale di cui si ricorda l’atto59, a ponere confines et termina tra la località

(55) Si rimanda ancora per questa procedura di calcazione a P.G. noBiLi, Appartenenze… cit., pp. 51 e ss. in cui è stata riportata anche la trascrizione dell’atto relativo alla tracciatura del confine tra i due comuni.

(56) Si veda la parte II di P.G. noBiLi, Appartenenze… cit., pp. 44 e ss. Per un’acuta analisi su questa terminologia in un’area non distante da quella orobica si veda M. DeLLa MiseriCor-Dia, I nodi della rete. Paesaggio, società e istituzioni a Dalegno e in Valcamonica nel tardo medioevo, in La magnifica comunità di Dalegno. Dalle origini al XVIII secolo, a cura di E. Bressan, Breno 2009, pp. 113-351 p. 237 e ss.

(57) Si veda ancora a quelli esaminati in P.G. noBiLi, Appartenenze… cit., pp. 44 e ss.(58) L’atto a cui si riferiscono le trascrizioni seguenti nel testo è CBBg, Perg., n. 3570 del

31-3-1234 rogato in teratorio vallis Gandini ubi dicitur in zerezo de Leffe. (59) CBBg, Perg., n. 3570: “in quadam carta attestata a Iohanne de Sancto Iohanne notario

imbriviata et rogata die veneris secundo intrante iuni currente mccxxxiiii indictione iiii”.

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interessate per conto dei consoli dei comuni coinvolti, Leffe, i loci di Barziz-za e Cazano e quelli di Gandino e Cirano, questi ultimi accorpati per ragioni amministrative. L’atto riporta una procedura simile a quelle rilevate per gli altri comuni rurali: si individuano sul territorio i segni di demarcazione (il documento inizia con “primum terminum posuerunt concorditer in sommo Valle Mala [...] secundum terminum posuerunt concorditer in fondo Vallis Asemine”) per poi congiungerli tramite i consueti tratti diritti ricordando anche, al di là di essi, i territori di centri contermini come a meridione Cene da una parte e Bianzano dall’altra (“sic infra suprascriptos confines a mane et a meridie est comunis de Leffe usque in comunis de Cene et de Bionzano”) e a est Ranzanico, Biondone, Sovere, Cerete e Gavazzo (“et a monte partis suprascriptorum terminorum est comunis de Gandino usque in comunibus de Ranzanico et de Biondene et de Soare et de Cerete et de Gavazzo”).

Diversamente da quanto accadeva con le altre comunità che effettuavano tale operazione, il dossier relativo alla demarcazione del territorio tra Val Seriana e Val Gandino conserva un’inaspettata reazione alla modalità di con-finazione imposta dal capoluogo. Si tratta di una procedura non usuale per le logiche di questi atti e dal significato del tutto interno ai rapporti tra i comuni coinvolti. Infatti l’istrumento della calcazione, messa in atto da delegati uffi-ciali alla presenza dell’assessor del podestà di Bergamo, seguiva ad almeno una convenzione stipulata in proprio dai centri interessati, senza alcuna pre-senza o avvallo delle autorità cittadine. Al suo interno si dipana una termi-nologia, una logica e intenti molto differenti da quelli espressi dall’adequatio pretesa dai governanti urbani.

Qualche mese prima della calcazione ufficiale in un luogo posto tra i ter-ritoria di Gandino e di Leffe (“in teratorio vallis Gandini ubi dicitur in zere-zo de Leffe”), alla presenza dello stesso professionista rogante l’atto, il notaio Ventura de Scano, una piccola folla costituita dai consoli, credendari e vicini delle località interessate si raduna allo scopo di sistemare le proprie questioni confinarie. In particolare, per giungere all’accordo si ritrovano il console, il canevario e dieci tra credendari e vicini di Casnigo, nonché i tre consoli il canevario ed undici credendari e vicini di Gandino, i due comuni più coin-volti nella delimitazione, poi i tre consoli dei loci di Barzizza e Cazzano, e infine sei vicini e credendari di Leffe, con la previsione di far intervenire successivamente anche i consoli di tale ultima località. tutti loro conferma-no a nome dei rispettivi comuni e di qualunque persona, maschio, femmina, minore, abitante in quei luoghi i diritti collettivi di pascolo, di taglio dei rami e di passaggio continuato anche con buoi e greggi (“omne ius pasculandi et taliandi utendi et transandi eundi et redeundi cum omnibus suis nezessariis bestiis et aliis rebus”) nell’area del monte Guazza e della valle dell’Agro, un

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importante rilievo tra le due valli Seriana e Gandino contraddistinto da dolci pendii e pascoli senza pietrame.

L’atto di convenzione prosegue con il suo dispositivo più rilevante, la ripe-tizione di una lunga formula, sempre la stessa, in cui il notaio varia solamen-te il soggetto, attribuito via via a ogni gruppo dei rappresentanti di ciascuna località (ipsi de). Si tratta della riaffermazione, per ciascun singolo comune, per i rispettivi vicini e ogni altra persona (“per comune et per divisum et per quamlibet singularem personam illius loci”), dei diritti sopra elencati in riguardo ai possedimenti della zona montana e valliva appartenenti alle altre comunità coinvolte (per esempio, per Casnigo, ci si riferisce alle proprietà terriere, le sortes, rispettivamente di Gandino, Barzizza, Cazano e Leffe, “in sorte et super sortem comunis de Gandino et de Barzeza et de Cazano et de Leffe in monte de Guazza e de Valle Agri”)60.

Si ha quindi a che fare con la stesura contrattuale di diritti di compascuo e uso promiscuo per il monte Guazza e valle Agri, compresa l’indicazione esplicita che ufficiali e vicini dei diversi comuni in futuro dovranno agire nel modo in cui in precedenza (condam) si erano sempre comportati (consue-verunt facere) per l’utilizzo, rigorosamente comunitario, di quell’area, “se-cundum quod ipsi omnes et quilibet eorum condam consueverunt facere in suprascripto monte et in suprascriptis sortibus et in qualibet eorum”.

L’instrumento prosegue, con l’intenzione di evitare ogni fraintendimen-to, con l’affermazione che, stante gli usi tradizionali, la proprietà delle terre collettive poste fino al termine dei confini spetta al rispettivo comune (per esempio, per Casnigo si ribadisce che “suprascripta petia terre que est infra confines comunis loci de Cazanico est teratorium illius comunis de Cazanico et vicinorum illius comunis”): ciò che è in discussione non è l’attribuzione della proprietà, o della pertinenza, dei terreni a questa o quella entità ammi-nistrativa, ma l’utilizzo collettivo che ne facevano i tanti comuni e gruppi di vicini della zona. Quest’atto, come quello successivo in cui sono i consoli di Leffe a ratificare (“firmaverunt et firmum et rattum habuerunt totum”)61

(60) CBBg, Perg., n. 3570: “Videlicet ipsi de Cazanico suprascripto modo et nomine per comune et per divisum et per quamlibet singularem personam illius loci servaverunt in se nomine suprascripti comunis et in ipsum comune et in quamlibet singularem personam illius loci omne ius pasculandi taliandi utendi et trasandi eundi et redeundi cum omnibus suis ne-zessariis bestis et aliis rebus in sorte et super sortem comunis de Gandino et de Barzeza et de Cazano et de Leffe in monte de Guazza e de Valle Agri”.

(61) CBBg, Perg., n. 3752 del 6 aprile 1234, notaio Ventura de Scano, rogato in teratorio vallis Gandini ubi dicitur in Grumella: “Ibique Mauresus Iacobi Conazii et Iohannes Ottoni Morene tunc consules comunis loci de Leffe nomine et vice ipsius comunis et pro ipso co-mune firmaverunt et firmum et rattum habuerunt totum illut quod Andrea Ottonis Morene et Maurus Riccheldi missos et procuratores comunis loci de Leffe et Galiziollus Rossini et Andrea Caruzzi de Premollo vicini suprascripti loci cum quibusdam aliis vicinis de Leffe

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la convenzione, vede la partecipazione del notaio Andrea di Giovanni Blan-cus, personaggio-chiave presente in ciascuno di tali accordi. È lui il secondo eletto, sotto la sorveglianza dell’assessore del podestà, a porre i termina tra i comuni nella calcazione ufficiale e a rogare assieme a Ventura de Scano la convenzione per gli usi collettivi. Ancora lo si ritrova tra i testimoni nell’atto di ratifica da parte dei consoli di Leffe, come detto non presenti alla affollata adunanza di esponenti degli altri comuni.

L’episodio del monte Guazza esprime in ultima analisi la regolamentazio-ne degli usi tra comunità di valli diverse (la media Valle Seriana alla sinistra del Serio, la val Gandino), separate da vette, alpeggi, pascoli e boschi, aree per cui era abituale uno sfruttamento collettivo e indiviso. L’affermazione dei diritti comunitari si fa necessaria nel momento in cui, per ordine delle autorità cittadine a cominciare dalla loro massima espressione, il podestà Uberto da Mandello, ogni comune rurale dell’area era stato obbligato a de-marcare tramite confini lineari zone di attribuzione non incerta e sfumata, ma collettiva, utilizzate per consuetudine dai vicini di ciascuna delle località coinvolte. tramite la mediazione notarile, di Ventura de Scano e special-mente di quell’Andrea di Giovanni Blancus di Casnigo, si è quindi potuto predisporre un accordo preventivo che ribadisse, sotto la pena di 50 lire per ciascun ente contravventore, il valore di sfruttamento comunitario di pascoli, boschi e alpeggi, e che potesse così sovrapporsi al successivo atto, impo-sto dal capoluogo e rogato poche settimane dopo, che avrebbe definito un tracciato lineare, del tutto inadeguato all’utilizzo ed alla percezione locali di quelle aree montane.

3. Custodia del territorio (i comuni di Almenno in monte et plano e di Castelli Calepio)

I campari nei comuni rurali, così come i custodi nelle vicinie cittadine, sono personaggi incaricati dalle collettività per la sorveglianza dei beni co-munitari, – strade e piazze, proprietà campestri, impianti produttivi quali mulini o gualchiere –, e la cui figura e attività, prevista già nel primo terzo del Duecento nei testi normativi e nelle testimonianze scritte delle comunità locali, si protrarrà con compiti praticamente identici per secoli, fin addentro

fecerunt cum consulibus de Cazanico et de Barzeza et de Cazano et de Gandino de monte Guazze et vallis Agro ut continetur in quadam carta attestata a me Ventura de Scano notario una cum Andrea Iohannis Blanci (il notaio teste di sopra) notario rogata die ultimo exeunte mensis marcii proximo preterito currente tunc millesimi ducentesimo trigesimo quarto indi-sone septima”, cui segue pena e giuramento. Testimoni sono due notai di Casnigo (tra cui il solito Andrea di Giovanni Blancus), Marchesio di ser Giacomo Conazii et Galiciollo Razzoni de Leffe e Cazano di Enrico de Cazano.

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all’età moderna62. Sono i comuni rurali a occuparsi della loro costituzione, designazione e compenso63 a deliberare (attraverso i propri statuti e ordina-menti64) attorno all’attività di tutela dei beni privati e collettivi e all’entità delle sanzioni che potevano venir comminate. In merito a questa sorta di guardie campestri e di polizia locale si riportano in tal sede due esempi, op-posti, in cui il comune cittadino interviene nella loro gestione e retribuzione: uno (per Almenno), in maniera mediata tramite i propri ordinamenti, l’altro (per Castelli Calepio), direttamente con i propri magistrati.

Il comune di Almenno, uno dei più importanti del distretto bergama-sco, forse a ragione del territorio molto più esteso dell’attuale – almeno fino gli anni ’20 del Duecento, e forse anche oltre, doveva comprendere le valli Brembana, Imagna e Brembilla in pratica sovrapponendosi alla curia de Le-mine65 –, doveva aver difficoltà a controllare le proprietà fondiarie dei propri vicini, disperse su un settore talmente ampio. Le stesse porte del borgo66 ver-so metà del XIII secolo erano sorvegliate da guardiani, guardatores, inviati dal comune di Bergamo accanto a quelli locali, probabilmente di numero insufficiente67.

Proprio in quel volgere di anni, segnati dalla fase terminale delle guerre

(62) Si vedano, per restare giusto nell’ambito bergamasco, le norme in materia di campari contenute in Gli statuti della Valle Brembana Superiore... cit., § 185-193, nello Statuto di Costa Volpino, 1488 a cura di O. BeLotti e P. osCar, Bergamo 1984, f. 18, 20, 22 per arrivare allo Statuta magnificae civitatis Bergomi, Bergamo 1727 (rist.anast. Sala bolognese 1981), coll. X, § 58-60.

(63) Per un esempio di una quietanza di pagamento di una camparo relativamente alla “parte contingente [....] de bannis acusatis per eum” si veda ASBg, FN, c. 3 r. 3, p. 142 del 1-8-1283, notaio Pietro Lorenzoni.

(64) Si veda lo Statuto di Vertova cit., che comprende numerose norme sui campari (§ 9, 11, 12, 13, 15, 22, 23 , 26 e 39) e Lo statutum Vetus di Bergamo, che si occupa nella collatio XII in quattro capitoli all’elezione e ai compiti degli ufficiali rurali.

(65) Secondo F. Menant, Campagnes… cit., p. 546 e nota 253, il territorio di Almenno comunale comprendeva la bassa valle, i suoi pascoli e le due valli secondarie di Valdimagna e Valle Brembilla. P. Manzoni, Lemine: dalle origini al XVII secolo, Almenno San Bartolo-meo 1988, pp. 116-117, data la separazione tra Almenno e gli altri centri della zona al 1171, ammettendo però la difficoltà data dal fatto che “per tutto il medioevo ci si rifà alla cessione da parte del vescovo del 1220 dei suoi diritti feudali al comune”. Concorda sulla separazione tra Almenno e Almé al XII secolo A. Mazzi, I confini dei comuni…, cit., p. 5 n. 13, mentre riguarda esclusivamente il territorio di quest’ultima località il contributo di G. Feo, Terra e potere nel Medioevo. Frammentazione e ricomposizione del dominio nel territorio di Lemi-ne (secoli XI-XIII), in “Archivio storico bergamasco”, nn. 18-19 (1990), pp. 7-41.

(66) Almenno era un centro così importante da possedere già nel 1250 un proprio palacio comunis a imitazione di quello del capoluogo, ASBg, FN, c. 1 r. 3, p. 60 del 16-11-1250 notaio Guglielmo de Carbonariis.

(67) “Qui guardatores qui sunt pro comune Pergami possint stare […] in dicte porte cum aliis guardatoribus de Lemene”, in ASBg, FN, c. 1 r. 3, p. 62 del 6-12-1250 notaio Guglielmo de Carbonariis.

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fredriciane, una decina di vicini e proprietari terrieri si ritrovano in una delle zone in cui si ripartiva il territorio di Almenno, la contrata de Puteo68 e, uti-lizzando un formulario tipico per le nomine degli ufficiali dei comuni rurali, designano due compaesani, certi Pellegrino de Bergunziis e Bergunzino de Pradonis, entrambi de Lemene, quali propri campari. In tale occasione si tratta di figure di elezione e ambito di intervento squisitamente privati, anche se investiti di un ruolo solitamente spettante agli ufficiali dei comune rurale. Loro attività sarà difatti non soltanto quella di custodire terras degli incari-canti, ovunque queste fossero collocate, ad Almenno e nei territori circostan-ti, sui piani e sulle alture (“super omnibus suis terris quas habet et possidet in Lemene et extra Lemene in monte et plano”), ma pure di pignorare sive acusare chi arrecasse danni alle proprietà dei loro designatori, frutti e beni mobili compresi (“quamlibet personam quam invenerint dantem dampnum super terris omnibus [...] et in rebus et possessionibus et fructibus”), in ma-niera conforme a quanto prevedevano gli statuti di Bergamo per questo ruo-lo, “secundum formam statuti et ordinamenti comunis Pergami omnis extra excusactione et timore remoto”.

Gli stessi ordinamenti cittadini prevedono appunto l’istituzione di campa-ri privatorum, tuttavia non per i normali vicini di un comune rurale, ma uni-camente per quei cives e gentiles che detenessero possedimenti nel distretto, insomma per qualunque persona “que non sit vicina alicuius comunis de fo-ris”. Altrimenti, per chi appartenesse alle universitas alicui loci sono previsti gli ordinari “campari comuni”.69 Dei dieci personaggi compresi nell’elenco dei designanti i campari due sono esplicitamente indicati come de Clanezzo di Almenno, un locus sito all’imbocco delle valli Imagna e Brembana70, men-tre gli altri otto risultano semplicemente omnes de Lemene, quindi di certo non cittadini, e privi di alcun titolo (di ser oppure di dominus) che possa far pensare a una condizione non popolare. Questi vicini inoltre non prevedono di remunerare tramite uno stipendio i due neo campari ma, rifacendosi alla medesima normativa urbana, lasciano loro l’intero ammontare delle multe che commineranno (“ibique remisserunt eis partem sibi contingentem om-nium bannorum et accusacionum factorum occasione omnium suprascripto-rum”), secondo una ripartizione solitamente applicata ai funzionari ordinari – campari, consoli, podestà – dei comuni rurali71.

(68) Sull’identificazione si veda P. Manzoni, cit., p. 128.(69) Statutum Vetus, p. 1002, coll, XII § VII e addimenta del 2 luglio 1253. (70) Sulla collocazione si consulti P. Manzoni, cit., p. 98(71) Ai campari vanno sei denari e la metà delle multe loro disposte, ai consoli invece

andava la quarta parte delle multe e solo un quarto al comune, in J. sChiaVini trezzi, Su-gli statuti rurali di Vertova nel XIII secolo: le riforme del 1284-85, in “Archivio Storico

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I tre atti di nomina72, successivi tra loro e stipulati nella casa di un domi-nus e di testimoni locali, designano la volontà di alcuni vicini di istituire pro-pri guardiani privati. Questi verranno ricompensati tramite multe disposte secondo i regolamenti fatti emanare dalle autorità centrali e universalmente applicati dai comuni del distretto a protezione di beni collettivi come di pro-prietà individuali di cives e comitatini. Come detto, Almenno era un centro importante, ma non certo di dimensione cittadina, e probabilmente aveva dif-ficoltà a controllare un allora smisurato territorio, esteso in plano et in monte. Si aggiunga che in quel momento la sua pertinenza territoriale era labile, conoscendo proprio allora il distacco di rilevantissime parti (Palazzago, Villa d’Almè, Brembilla, la Valle Imagna..) secondo delimitazioni confinarie che non tenevano conto delle proprietà dei vicini di quel borgo, site come detto un po’ ovunque (in Lemene et extra Lemene, in pianura ed in montagna). tutto ciò doveva aver consigliato ai dieci proprietari locali di organizzarsi autono-mamente, al di fuori delle istituzione del proprio comune73.

Un intervento diretto dei magistrati cittadini, sempre per questione di

Lombardo”, n. 119, 1993, pp. 443-457, p. 451. In base alla riforma che conferma lo Statuto di Vertova §67. Si veda l’atto in ASBg, FN, c. 3 r. 3, p. 142 del 1-8-1283, notaio Pietro Lo-renzoni, rogato in loco de Vertoa in via comunalis prope domum Iohannis filius condam ser Albertus Laurenzoni de Vertoa: “Ibi Iohannes filius condam ser Pauli Patroni de Vertoa cam-parius nunc comunis de Vertoa fuit contentus et confessus ad postulacionem Bonifadi Pauli Moronum et Petrus Oberti de Zeretha amborus consulum comunis de Vertoa [...] quod ipsi consules et canevarius de eorum propriis denariis dederant et solverant suprascripto Iohanni Patroni solidos quatraginta imperialium de bannis accusatis per ipsum Iohannem Patronum scilicet de parte contingente ipsi Iohannis de bannis acusatis per eum”.

(72) CBBg, Mia, Perg., n. 182 del 22 agosto 1245, notaio Agnello de Fara Olivana rogato in loco Lemeni in contrata de Puteo in domo domini Guillelmi de Rumano: “Ibique Petrus filius condam Petri de Casario de Clanezo de Lemene fecit constituit et ordinavit suos certos camparios Pelegrinum filium ser Zamboni de Bergunziis de Lemene et Bergunzinum filium condam Alberti de Pradonis de Lemene super omnibus suis terris quas habet et possidet in Lemene et extra Lemene in monte et plano ad hoc ut ipsi camparii debeant custodire terras ipsius Petri et pignorare sive acusare quamlibet personam quam invenerint dantem dampnum super terris omnibus dicti Petri et in rebus et possessionibus et fructibus ei secundum formam statuti et ordinamenti comunis Pergami omni extra excusactione et timore remoto. Factum est anno domini millesimo ducentesimo quadragesimo quinto indictione tercia. Qui Petrus ibique remissit eis partem sibi contingentem omnium bannorum et accusacionum factorum occasione omnium suprascriptorum et cuiuslibet eorum et plures carte uno tenore inde fie-ri rogate fuerunt. Dominus Guillelmus filius condam ser Manzis de Brumano habitans de Lemene et Manzus eius filius et Albertus filius condam Alexandri Dalmasenus de Clanezo et Iohannes filius condam Alberti Gimammi de Marne et Tempus filius condam Alberti de Malagerti omnes de Lemene ibi testes interfuerunt. Seguono gli atti rogati contestualmente con le designazioni da parte degli altri vicini di Almenno.

(73) Di cui come è noto sarà prossima la costituzione in burgo de Lemene tramite l’acqui-sto dell’uguaglianza fiscale con la città nel 1266 pagata la rilevantissima cifra di 2. 700 lire su cui G. FasoLi, cit., p. 155; F. Menant, Bergamo comunale… cit., p. 68, nota 218.

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campari, si ha invece nel 1298 nei confronti del comune dei gentili e del popolo di Castelli Calepio, inadempiente di ben cinque lire e mezzo nei con-fronti di un proprio vicinus, certo Maifredo detto Riazzus del fu Giovanni de Cassalli74. Il denaro gli era dovuto per la sua attività annuale di sorveglianza (“pro eius merito et salario custodie faciendo unius anni”) dei beni del comu-ne e dei proprietari non vicini, i cosiddetti divisi, anch’essi costretti (astricti) al pagamento della prestazione. Benché i tre consoli, numerosi credendari e vicini avevano dato compito a uno dei consoli di procedere al rimborso del camparius et custos di Castelli Calepio, quest’ultimo non doveva aver mai ricevuto la cifra pattuita. Egli aveva pertanto preferito cedere l’obbligazione al figlio di un dominus locale, Resturino del fu Pagano de Calepio, che a sua volta l’aveva venduta a dominus tolberto della nota famiglia cittadina dei de Garganis, avvezzi alle pratiche di recupero di crediti, anche nei confronti delle comunità del contado75. A tal ragione i de Garganis, come avvenuto per i Bonghi a Parre, entrano in causa con i consoli di Castelli Calepio e il comune medesimo, già banditi e condannati probabilmente dai due creditori precedenti, il Riazzus e il de Calepio, per non aver adempiuto all’obbligazio-ne. L’attività del campario Riazzus per cui ora si pretende il compenso si era infatti svolta in maniera regolare, bene et bona finde sine fraude, e soprat-tutto secondo gli statuti del posto (“et secundum modum et formam statuti et ordinamentorum [comunis Pergami cancellato con tratto dal notaio] facto-rum per suprascriptum comune de Calepio”), a cui il comune, i divisi (ossia residenti di Castelli Calepio che non facevano parte né del comune di popolo né di quello di gentili) e altre persone (probabilmente proprietari cittadini) erano tutti obbligati76. In effetti il richiedente l’intervento del magistrato (for-se già il Riazzus ed il dominus dei de Calepio, sicuramente l’esponente dei de Garganis), si rifà esplicitamente alle conveniencias predisposte e rese vin-colanti dallo stesso comune rurale (“ad suprascriptas conveniencias nuper factas et ordinatas per suprascriptum comune”), per il rispetto delle quali, a causa dell’opposizione delle autorità locali, si chiede l’intervento della magi-stratura urbana.

Agli ordinamenti emessi dai comuni rurali istituiti nei loci del contado

(74) Da qui in poi si trascrive da CBBg, Mia, Perg., n. 7039 del17 febbraio 1298. rogato in ecclesia Sancte Marie maioris.

(75) Per i rapporti dei de Garganis con Bariano e Cividate al Piano si veda P.G. noBiLi, Il secondo Duecento… cit., pp. 404 e ss.

(76) Il riferimento è alla § 5 nella coll. XII dello Statuto del 1331 corrispondente alla § 16, coll. XII dello Statutum Vetus “De campariis vicinorum et nobilium districtus Pergami” in cui si prevede che i campari dei comuni rurali debbano sorveglare anche i beni di cittadini e gentili (etiam civis et gentilis), accusando chi avrà procurato danni, anche se membri della propria vicinantia.

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erano tenuti tutti coloro che abitano “in aliquo loco districtus Pergami vel terratorii eiusdem”. Al loro interno lo statuto di Bergamo (sia nello Statutum Vetus duecentesco sia nella redazione del 1331) impone di iscrivere norme che tutelino due aspetti in particolare, la celebrazione di feste e la salvaguar-dia dei terreni dei privati (pro salvamento terrarum). Quest’ultimo compito è appunto demandato alle guardie campestri77, di cui viene resa obbligatoria l’istituzione, secondo la peculiare azione di ponere camparios78. Certamente l’acquirente del credito nei confronti del comune di Castelli Calepio, ente con gravi difficoltà finanziarie tanto da non riuscire ad inizio anni ’80 ad affron-tare esazioni fiscali di entità anche modesta79, possedeva i mezzi coercitivi per rivalersene, in maniera non dissimile da quanto accadeva tra i Bonghi e la comunità di Parre, come visto sopra, e tra tanti altri domini cittadini e co-muni rurali. Per far ciò il de Garganis si appoggiava ad un impegno disposto, e poi non soddisfatto, dall’autorità locale ma che veniva reso obbligatorio, anche nel vincolo pecuniario, dai più forti ordinamenti cittadini, cui per otte-nere ragione si richiamava esplicitamente.

4. Regolamentazione del conflitto (la vicinia di Acquafredda di Poscante contro due parentele di Zogno)

La zona della media Val Brembana attorno a zogno è caratterizzata da una serie di aggregati abitativi, siti a breve distanza l’uno dall’altro, che pos-sono essere assurti a veri e propri comuni rurali autonomi e riconosciuti dal capoluogo (Stabello, Poscante, Endenna) o meno. La questione portata a esempio riguarda un’entità di taglia minore, sebbene sempre dal fondamen-to costitutivo territoriale, la vicinia rurale di San Giovanni di Acquafredda presso Poscante, opposta a un’altra aggregazione costituita da due famiglie, due casali, i de Panizollis ed i de Gariboldis, i cui componenti, indicati come de Zogno, risultano abitare appunto a zogno e nell’adiacente Stabello. La controversia tra le due parti, di cui restano gli atti di composizione datati agli anni attorno alla metà del Duecento, vede in atto la capacità organizzativa e le dinamiche di risoluzione dei conflitti di gruppi locali, con le strutture e gli ordinamenti giudiziari urbani sullo sfondo 80. Viene così saltato il ruolo di

(77) Statuto del 1331 p. 210, coll. XII, § 3, “De faciendo servari convenicias locorum per quoscumque habitant in eis” che replica la coll. XII, § 13 dello Statutum Vetus.

(78) Statuto del 1331 p. 210, coll. XI, § 4, “De terris civium et genti ponendis in conve-nienciis per rusticos et eis que exigentur pro ipsis convenientiìs qualiter debearit expendi”. La norma riprende quella dello Statutum Vetus, coll. XII, § 13.

(79) Si rimanda a P.G. noBiLi, Il secondo Duecento… cit., p. 367. (80) Per la risoluzione di dispute a livello di comunità locale, si confronti con C. wiCk-

haM, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII

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intermediazione dei comuni rurali, cui nel Duecento si avrebbe voluto asse-gnare, come testimonia un’intera collatio delle disposizioni statutarie urbane ad essi dedicati, il monopolio della rappresentanza territoriale.

In tale occasione come detto ci si trova invece di fronte a tutt’altro tipo di soggetti, uno territoriale e localizzato, la vicinancia di Acquafredda im-mediatamente a est del centro abitato di Poscante81, l’altro parentale, due fa-miglie dimoranti in un’area compresa tra zogno e Stabello. Da ciò deriva anche l’utilizzo di una terminologia in cui più nulla appare del linguaggio della rappresentanza, per designazione o elettiva, o delle identità aggregate (sempre duplice, i vicini de, il comune de) che si ritrova quando sono coin-volti i comuni rurali82. tuttavia si avrà a che fare con materie – risarcimento per crimini, regolamento dell’utilizzo della rete viaria da parte delle persone coinvolte, bando locale – per cui questi ultimi enti, assieme alle magistrature cittadine, avrebbero potuto svolgere una funzione giurisdizionale o almeno di mediazione.

Nella risoluzione della contesa appaiono coinvolti direttamente 18 per-sonaggi, tutti singolarmente nominati nelle loro generalità, indicati come de vicinancia de Sancto Iohanne de Aquafrigida de Postcantu che agiscono per tutti coloro della propria parte (si noti il linguaggio prettamente fazionario, “nomine et vice omnium illorum qui sunt sue partis et pro eis” e che con-figurano appunto la tota parte di questa entità) e, a loro fronte, altri venti individui esponenti delle famiglie de Panizollis o de Gariboldis e agenti per gli altri appartenenti alla parentela, tutti quelli che sono de casali eorum83. Per la risoluzione della vertenza vengono incaricati quattro arbitri fidati per entrambe le parti (comunes amicos), che parrebbero scelti con criteri sia di dignità sia territoriali. Si hanno infatti un dominus, un ser ed un figlio di ser dimoranti nelle località prossime, ma non finitime, poste attorno ai luoghi del conflitto, Ubiale (il dominus Giovanni di ser Zucchus Bertinalli de Ubiallo), Cornalba (ser Boxellus del fu ser teutallo Boxelli de Cornalba), San Giovanni

secolo, Roma 2000, pp. 291 e ss. [Il processo di arbitrato nel contado fiorentino]; per un confronto con aree attigue, sebbene per periodi più tardi, si rimanda a M. DeLLa Miseri-CorDia, La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano 2000, p. 258 e p. 324; A. M. onori, Pace privata e regolamentazione della vendetta in Valdinievole, in Conflitti, paci e vendette nell’Italia comunale, a cura di A. zorzi, Firenze 2009, pp. 219-234.

(81) A Zogno attualmente via Ca’Fredda e via San Giovanni Battista ad est di Poscante.(82) A questi temi è dedicato il contributo di P.G. noBiLi, Nel comune rurale… cit., pp.

20 e ss.(83) CBBg, Mia, Perg., n. 1544 del 8-5-1253, notaio Zambello Zucchi de Laplancha, ro-

gato in civitate Pergami in ecclesia sante Marie Maiori, testimoni sono tre di Valdimania, un notaio e servitore del comune di Bergamo (Delayta di Pietro Coppi) e altri. Segue CBBg, Mia, Perg., n. 1545 del 29-5-1253 dello stesso notaio.

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Bianco (Alessandro del fu ser Raimondo dei Bonzoni di Soncino de vicinan-cia sancti Iohannis Blanzi) e infine un esponente della parte più acutamente offesa nella questione, un de Panizollis di zogno (zambono del fu Ottone de Panizollis di zogno).

La controversia comprende liti, cause, danni legittimi o meno (iuste et iniuste) ma anche decisioni riguardo offese personali, “de iniuris et contume-liis”, nonché lesioni fisiche e addirittura un omicidio, “de feritiis et homicidiis illatis et perpetatis seu datis et factis”, fatto su cui verterà la motivazione principale del risarcimento. Gli arbitri agiscono col fine di pervenire a una pace duratura tra i soggetti coinvolti, e tra ogni singola persona appartenente alle fazioni in giudizio, “pro bono paci et conconcordie et pro bono statu et hutilitate suprascriptorum partium”.

Le modalità di risoluzione scelte sono molto interessanti e dal forte si-gnificato. Dopo la stesura delle carte di nomina degli arbitri84, i soggetti in causa, come detto i componenti della vicinia de Aquafrigida e i membri dei de Panizollis e dei de Gariboldis, vengono radunati in due occasioni in luoghi simbolici, di passaggio e limitari tra il territorio di zogno e quello dei comuni confinanti. Prima si prevede la convocazione dei contendenti sul ponte per Brembilla (“in capite pontis Brembelle in teratorio de zonio”), dall’ampia portata in considerazione del notevole numero di persone lì convenute, tan-to che da lì non dovranno scendere fino alla risoluzione della questione. In seguito si fanno tornare i due gruppi rivali sulla riva posta presso un altro ponte sul Brembo, forse meno capiente o robusto del precedente, eretto in territorio di Almenno tra i loci di Stabullo e Sedrina. L’adunanza della parti dovrà avvenire in nomine Iesu Christi e soprattutto, stante i precedenti rap-porti bellicosi, disarmati (“sine aliquibus armis”) di modo che tutti quelli di zogno “tam de Panizollis quam de Gariboldis” stipulino una pace con quelli di Acquafredda e non abbiano più nulla da pretendere (“faciente plenam pa-cem et finem et remissionem et pactum de non petendo nec ulterius inquie-tando”), in cambio di un risarcimento pecuniario (transactionis nomine), ma non soltanto.

La controversia aveva infatti portato all’omicidio di un esponente dei de Panizollis, Lanfranco detto Valerio (“pro feritis vulneribus asaltis contume-lis et morte Lanfranci […] qui dicebatur Valerius”). Pertanto illi de Acquafri-gida si trovano a dover offrire un compenso alla controparte per evitare che proseguano nelle loro cause contro di essi e i loro beni, “tam realiter quam

(84) CBBg, Mia, Perg., n. 1544 del 8-5-1253: “prout de predictiis et aliis continetur in duabus publicis imbreviaturis rogatis et imbreviatis per me Zambellum Zucchi de Laplancha notarium una quarum fuit rogata die mercuri sexto exeunte marcio proximo preterito et alia rogata fui die veneris tunc proxime sequenti”.

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personaliter”. L’obiettivo è appunto che ciascun componente dei de Garibol-dis e dei de Panizollis nulla abbia ancora da recriminare contro quelli di Ac-quafredda, di modo che “suprascripti de Gariboldis et quisque eorum pro se et omnibus de eorum casali perpetuo stabunt et permanebunt taciti et conten-ti”. Per quanto riguarda i membri di questa ultima parentela, in special modo (specialiter), è espressamente previsto che persuadano dell’accordo i tre figli ed eredi dell’ucciso, quando questi avranno raggiunto la maggiore età.

Il compromesso in particolare consta di tre dispositivi, uno prettamente pecuniario, il secondo giudiziario, il terzo ed ultimo relativo alla convivenza dei due gruppi contrapposti all’interno del territorio comunale di zogno.

a. In riguardo al momento del risarcimento, si prevede che esso consti di 105 lire devolute dalla vicinia di Acquafredda con differenti destinazioni, 12 lire per liquidare gli eredi dell’ucciso, Valerio dei de Panizollus (“pro compo-sitione iniure seu morti illate in persona suprascripti Lanfranci qui dicebatur Valerius”), ben 75 lire per ripianare i mutui contratti (di cui l’atto riporta una precisa elencazione) dai de Panizollis e de Gariboldis allo scopo di portare avanti la propria causa presso le autorità urbane (“circa placita et acusaciones [...] factas occasione predictorum maleficiorum sub potestate et iudicibus et notariis accusacionum comunis Pergami”) e per saldare le condanne pecu-niarie ricevute a seguito delle loro ripetute inadempienze coi creditori (“in condempnacionibus factis per comune Pergami contra suprascriptos de zo-nio”), che li avevano pure messi al bando pro debitis85. Restano poi 18 lire da destinare a certe persone senza le quali l’accordo di pace e remissione, si dichiara, non avrebbe potuto essere attuato né sarebbe valso. Il pattuito viene portato e consegnato nella seconda adunanza presso il ponte di zogno, avvenuta con i crismi e le precauzioni abituali (in nome di Cristo, disarmati, senza potersi allontanare fino alla risoluzione).

b. Come secondo punto della transazione, entrambi i gruppi si ripro-mettono di far cancellare dalle autorità di Bergamo i bandi e le condanne comminati dai giudici o dal podestà cittadino a ragione di tale controversia. L’obiettivo è fare in modo che la pace o l’accordo privato tra le parti, la pax seu contractus, possa “melius valere et tenere”, al di fuori di ogni intervento delle autorità urbane. Assieme al risarcimento dei mutui contratti per portare

(85) Un prestatore bergamasco, Enrico de Stramisinis, dà disposizione di cancellare dal libro dei bandi sei inviati della vicinantia di Acquafredda (i “missos et sindicos et procu-ratores comunis vicinantie sancti Iohannis de Aquafrigida de Poscantu eorum nomine et nomine et vice ipsius comunis”) in ASBg, FN, cart. 1 reg. 2, p. 229 del 15-3-1254, notaio Pietro Rocca.

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avanti la causa, questa depennazione costituisce l’espressione della volontà delle due comunità di distaccare in via definitiva la risoluzione della con-troversia dal controllo dei magistrati urbani, optando per una procedura di ambito squisitamente locale.

c. L’ultima sezione della pace privata, certamente la più interessante, è dedicata a definire i limiti territoriali, i confines, cui dieci uomini di Ac-quafredda (i decem homines de Aquafrigida di cui vengono elencati nomi, patronimico e cognomi), avrebbero dovuto rigidamente attenersi, sotto pena di cento soldi per ogni trasgressione. A questi dieci viene inflitto un vero e proprio bando perpetuo dalla località di zogno, in cui vivono i de Panizollis e i de Gariboldis, vietando loro di passare sul quel territorio, di fermarvi, o di portare bestie a pascolare (“non debeant ire in perpetuo in loco seu teritorio de zonio nec in ipso loco et teritorio stare uti vel bergare eundo vel redundo”) fino ai terreni, fuori dal quel centro, tenuti dagli eredi di un certo Bonetto de Gariboldis. Inoltre, essi non dovranno transitare nella piazza dell’adiacen-te centro di Stabello (“non possunt ire et reddire in platea de Stabello que est domus de Hastino donec vixerunt ser Martinus Panizollis et Yoseppus eius filius”) accontentandosi di transitare sulla via che passa accanto al fiu-me Brembo (“sed possint ire et redire per viam ripe Brembi que est sub ipsa platea de monacis eundo et redeundo ad Stabellum”). Infine, ma solamente per cinque anni, è bandita loro la stratam per vallem Brembanam che porta a Bergamo o almeno per un lungo tratto tra Villa d’Almè e Stabello86. Oltre a ripromettersi il rispetto di questo accordo, i dieci di Acquafredda, senza al-cun dubbio i più irrequieti e violenti della loro vicinantia, garantiscono di non oltrepassare i confines concordati, le cui violazioni avrebbe portato loro nei luoghi di passaggio più affollati di quei luoghi (il locus di zogno, la platea di Stabello, la via adiacente alla riva del Brembo), o presso le proprietà delle parentele avversarie.

L’intero compromesso rappresenta un interessante caso di composizione tra gruppi di valligiani di entità inferiore ai comuni rurali, da una parte due parentele di zogno, dall’altra, certamente con maggiore valenza insediativa, gli homines di una suddivisione territoriale, una vicinancia, del comune di Poscante. Esso avviene, attraverso passi simbolici87 e decisioni patrizie, al di

(86) CBBg, Mia, Perg., n. 1544 del 8-5-1253: “finis insusu a domo Guillelmus Iohannis Carpionis de Villa de Lemene per ipsam stratam usque ad domum Alberti Camersconis de Stabello super predicta pena”.

(87) Si confronti con lo studio delle pratiche e dei linguaggi della vendetta e della pace delle comunità rurali valtellinesi nel XV secolo in cui forti sono i richiami simbolici della

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fuori delle ordinarie prassi giudiziarie cittadine, cui era attribuito il mono-polio della giustizia penale nel distretto88. Il ricorso a quest’ultima anzi ha provocato multa debita agli appellanti e pertanto si è decide di sottrarsene tramite una procedura “morbida”, elusiva delle norme imposte dal capoluo-go, come è quella dell’arbitrato89. Addirittura, tramite l’allontanamento di dieci personaggi da alcuni punti chiave di quell’area del contado (zogno, la platea di Stabello, la via che segue il Brembo fino Almè), si predispone una sorta di bando alternativo, del tutto locale e frutto di pattuizione tra soggetti del distretto che non avevano alcun riconoscimento istituzionale. Seppur a detrimento delle competenze dei comuni del posto (zogno, Stabello, forse Poscante), il caso analizzato rappresenta così un’evidente testimonianza della vivacità delle forze in gioco nel settore montano, in grado di prendere impor-tanti iniziative per un ambito, in quel momento, del tutto locale e giudiziario, ma suscettibile, al mutare degli scenari, di divenire generale e politico.

5. Considerazioni conclusive

I casi riportati costituiscono alcuni esempi dello stato di squilibrio occor-so nel XIII secolo tra comuni rurali e comunità di taglia minore da un lato, istituzioni e ordinamenti urbani dall’altro. In particolare, ci si trova di fronte a due piani differenti e dal dialogo reciproco complesso. Da una parte si pone l’apparato amministrativo, giudiziario, fiscale e la potestà normativa del ca-poluogo, rivolta in maniera omogenea a ciascuna realtà di un contado che, per impulso da parte della stessa civitas, sin dagli anni ’20 del Duecento si era organizzato in una pluralità di comuni rurali, ciascuno dalla taglia adeguata

azione collettiva, e soprattutto nel momento della ricomposizione, a partire dai luoghi scelti per l’incontro dei contendenti, ai loro modi aggregativi, ai “gesti simmetrici e compensativi” con cui avviene l’accordo, in M. DeLLa MiseriCorDia, Vendette di comunità nella montagna lombarda nel tardo medioevo, in Histoire de la vengeance du Moyen Âge à la fin de l’époque moderne (vers 1200, vers 1800), a cura di C. GauVarD e A. zorzi, in stampa. Per una gene-rale messa a punto sul problema si rimanda alla sintesi, completa di ricchissimi riferimenti bibliografici, di A. zorzi, I conflitti nell’Italia comunale. Riflessioni sullo stato degli studi e sulle prospettive di ricerca, in Conflitti… cit., pp. 7-41.

(88) Per la sola vertenza penale della questione si faccia riferimento agli statuti urbani, Statutum Vetus, coll. IX, XXXXVII replicato nello Statuto del 1331, coll. IX, § 18, “De pena comunis non designantis homicidam” e, in questo, § 23 “De eo qui fecerit asaltum”. Con-siderazioni sull’argomento in G.P.G. sCharF, Bergamo e il suo contado fra Due e Trecento attraverso gli statuti urbani, in Contado e città... cit., pp. 201-225, pp. 215-217 e note; iD., Gli statuti… cit., pp. 101-103.

(89) Sull’argomento si veda K. BaDer, Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor, in “Zeitschrift der Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte”, Kanonistische Abteilung, n. 46, 1960, pp. 239-276; L. Martone, Arbiter-Arbitrator: forme di giustizia privata nell’età del diritto comune, Napoli 1984.

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e dotato di proprio ambito spaziale di pertinenza (fissato sul terreno tramite termina e per iscritto con gli instrumenta di confinazione). Dall’altra si ha invece il piano locale, che risponde a logiche di funzionamento differenti, commisurate alle singole realtà territoriali e organizzative, e a usi e risvolti pratici consolidati che potevano anche sfuggire all’imposizione (istituziona-le, normativa, fiscale90) degli ordinamenti da parte cittadina. Il rapporto è ambiguo e gruppi di vicini, secondo le occorrenze, possono opporre le pro-prie esigenze agli stessi comuni rurali, che tuttavia sono gli enti in quel mo-mento più rappresentativi degli abitanti del contado e, per l’ambito montano, i meglio organizzati, a partire dal comparto amministrativo e documentario (come testimoniano i casi visti sopra di Gromo e dei comuni della media Valle Seriana, Vertova, Colzate, Casnigo).

Le situazioni prese ad esempio, tutte comprese nel quarantennio di rela-tiva pace interna del comune di Popolo occorso tra anni ’30 e ‘70 del Due-cento, appaiono in tal senso rivelatrici. Le autorità cittadine, su impulso degli interessi economici di esponenti della potente famiglia cittadina dei Bon-ghi, possono vedere nel comune di Parre soltanto il terminale esecutivo delle proprie procedure; e così arrivano a formulare richieste davvero paradossali come di farsi mettere a disposizione i vicini di quella località perché dan-neggino le loro stesse proprietà collettive. Il campario di Castelli Calepio e i vicini di Clanezzo e di Almenno, non garantiti dai rispettivi comuni rurali, si risolvono infine per appoggiarsi agli ordinamenti del capoluogo per far sentire le proprie ragioni in tema di regolamentazione della sorveglianza del territorio (istituzione dei campari, loro compiti, compensi). Al contrario, le località della media Valle Seriana e Gandino, manifestando sin dagli anni ’20 del Duecento un’autonoma capacità organizzativa, escogitano e mettono in pratica accordi di regolamentazione reciproca dei compascui che vanificano, in tema di demarcazione degli spazi territoriali, le norme emesse dal centro, informate ad una “cultura dei confini” del tutto diversa da quella locale. An-cora in maniera più eversiva91, gli homines de Aquafrigida e i casalia dei de Panizzolis e dei de Gariboldis di zogno definiscono le proprie controversie

(90) Sull’impiego del personale dei comuni rurali da parte della fiscalità centrale berga-masca (redazione degli estimi, prelievi, punizione degli inadempienti) si veda da ultimo P.G. noBiLi, Alle origini della fiscalità comunale. Fodro, estimo e prestiti a Bergamo tra fine XII e metà XIII secolo, in “Reti Medievali. Rivista”, n. 11, 2010/1, all’indirizzo http://www.storia.unifi.it/_RM/rivista/default.htm, soprattutto alle pp. 22-23.

(91) Il cosiddetto “dibattito sulla legittimità” della vendetta e della giustizia privata tra co-munità o aggregazioni di taglia minore è anch’esso oggetto della comunicazione di M. DeLLa MiseriCorDia, Vendette… cit., che rileva come, svolgendosi al di fuori di alcun controllo statale, questi per il principe costituiscano in ogni caso “comportamenti ribelli, meritevoli di repressione”, che portano “esclusivamente scandali, eccessi, inconvenienti”.

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comunitarie, deliberando su risarcimenti in materia criminale e stabilendo provvedimenti di bando dal territorio, seppur circoscritto all’ambito vallivo, al di fuori di ogni controllo dell’autorità cittadina, che avrebbe previsto l’avo-cazione a sé di tali fondamentali materie.

Accanto ai casi duecenteschi già analizzati dalla storiografia delle co-munità di Gandino, della stessa Almenno, di Vertova, di Gromo92, si sono portati altri esempi significativi della dinamicità dei gruppi montani dai ri-svolti sia economici, la convenzione sui terreni di sfruttamento collettivo tra le valli Gandino e Seriana, sia di risoluzione delle controversie in materia penale, come quella tra i vicini di Acquafredda e le due compagini famigliari di zogno. In tre di questi episodi, quelli degli homines di Acquafredda, dei proprietari di Almenno e dei comuni di media valle posti attorno al monte Guazza si ha a che fare con un dinamismo locale che il quadro normativo cittadino, così rigido, uniformante e soprattutto dettato dalle esigenze (fiscali e amministrative) del centro e dalla necessità di tutelare proprietà e capitali di cives e domini, non riuscirà più a contenere quando, nel passaggio tra Due e trecento, si assisterà ad un deciso mutamento della congiuntura economica e delle condizioni politiche regionali.

(92) Per Gandino ci si riferisca al contributo di A. zonCa, Le origini del comune in Gandi-no e la sua Valle. Studi storici dal Medioevo all’età moderna, Villa di Serio 1993, pp. 17-64, per Almenno al già citato lavoro di P. Manzoni, cit. e alle pagine di F. Menant, Campagnes… cit., pp. 268 e ss. e pp. 546 e ss.; per Vertova ancora a P.G. noBiLi, Vertova… cit.; per Gromo a iD., Appartenenze… cit., pp. 35-44 e iD., ‘Statuerunt quod Comune de Gromo’... cit.

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Paolo Bianchi

FRA BERGAMO E BRESCIA: Poteri signorili tra Sebino e Valcamonica (XI-primi XIV sec.)

Il Lago d’Iseo si colloca, geograficamente, a cavaliere del confine tra i distretti cittadini di Brescia e Bergamo, costituendo di fatto un’area di frizio-ne ma anche di relazione tra i due distretti. Esso, incuneato tra le Prealpi, si insinua tra le montagne e lambisce i paesi più meridionali della Valcamonica. È stato per secoli la più rapida e importante via di relazione tra la grande valle alpina e la pianura, con le sue produzioni agricole, i grandi villaggi ed i centri cittadini.

Questa sua particolare dislocazione, unitamente alla specificità orografica del territorio, ha fatto in modo che, tra X e XIV secolo, andasse via via strut-turandosi in quest’area una specifica struttura di poteri locali, che interessa in modo particolare i territori dell’alto lago e che si rivelerà, per secoli, estre-mamente persistente e poco soggetta a cambiamenti.

Si cercherà, in questo breve contributo, di riprendere in modo compiuto la parabola evolutiva della struttura politica delle aree oggetto di studio, in una lettura “di sistema”, attenta soprattutto all’alto Sebino ed alla bassa Val-camonica, in un triangolo ideale le cui estremità possono essere identificate con le comunità di Pisogne, Lovere e Darfo Boario terme. Si tratta di una zona che interessa la fascia costiera lacustre, sia bresciana che bergamasca, e quel tratto di valle in cui per secoli, ben prima della definizione degli ambiti provinciali odierni, si sono incontrati e scontrati gli interessi di Brescia e Bergamo, città “tradizionalmente” rivali che proprio in bassa Valcamonica hanno trovato la principale ragione di scontro e conflitto. Conflitto che si protrarrà per circa un secolo, a partire approssimativamente dalla metà del secolo XII fino alla metà del successivo1.

Innanzitutto è necessaria una breve quanto mai indispensabile riflessione sulle fonti documentarie disponibili, che sono poche e tra loro disomogenee, mancando del tutto grandi complessi documentari, quali raccolte monastiche

(1) Una sintesi di questi fenomeni in a. Bosisio, Il comune in AA.VV. Storia di Brescia, Brescia 1963, pp. 586, 606 s., 610, 618, 638, 677 s.; B. BeLotti, Storia di Bergamo e dei Ber-gamaschi, Bergamo 1959, II pp. 80-86, 91-92; qualche accenno in F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen Âge. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du X.e au XIII.e siècle, Rome 1993, pp. 639-641.

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o consistenti archivi municipali. La disamina della documentazione brescia-na e bergamasca per questi territori restituisce infatti pochi materiali, spesso e volentieri piuttosto tardi. Qualche lacerto di cronaca documentaria, alcuni frammenti di documentazione comunale, qualche briciola da atti notarili e giudiziari, alcuni atti contenuti in grandi complessi documentari monastici.

Nonostante questa sostanziale scarsità di fonti e documenti, che impedi-sce una visione chiara, lineare e continua, la storia di questi territori merita di essere studiata per l’importanza che le vicende dell’area hanno rivestito nella politica territoriale delle città di Brescia e di Bergamo, sia nella fase di na-scita e consolidamento delle istituzioni urbane che nel successivo periodo di crisi ed evoluzione signorile che caratterizza la prima metà del secolo XIV2. Gli equilibri rilevabili in questi territori non sono infatti fine a se stessi, ma hanno ampi riflessi nell’intero distretto bresciano e bergamasco, sia dal punto di vista politico che socio-economico. Proprio in quest’area infatti viene gio-cata una delle principali partite politico-militari nella fase di costruzione dei distretti cittadini di Brescia e Bergamo ed è l’interesse urbano per le risorse e le attività della valle a stimolare l’azione politica e militare dei centri urbani nel loro moto espansivo.

1. Premesse altomedievali

Pochissimo si sa dell’organizzazione dei comitati, bresciano e bergama-sco, nel periodo altomedievale e nella fase immediatamente successiva al Mille. Poco sia in relazione alla fisionomia della giurisdizione ecclesiastica, che per quanto riguarda la struttura delle presenze politiche signorili nell’area dell’alto lago. Di certo questa zona, con la sua vocazione produttiva e com-merciale, pienamente dispiegata in epoca bassomedievale, non dovette sot-trarsi all’interessamento politico da parte di poteri signorili, sia collegati alle istituzioni ecclesiastiche che autonomamente distribuiti sul territorio. Già nei secoli a cavallo del Mille infatti è possibile rilevare una forte complicazione politica e patrimoniale, che proietta verso i territori della bassa Valcamonica un gran numero di famiglie e istituzioni provenienti da numerosi comitati lombardi.

(2) Il termine, volutamente scelto, implica la consapevolezza dell’evoluzione signorile intesa non come fase involutiva che distrugge la precedente struttura politica comunale ma come sviluppo politico che, pur in termini lesivi verso gli ordinamenti municipali, continua il processo di sviluppo, pur con tutti i limiti ad esso connessi, verso lo ‘stato moderno’, cfr. G. zanetti, Le signorie, in Storia di Brescia… cit., I, pp. 825-876; M. Fossatti, a. Ceresatto, La Lombardia alla ricerca d’uno Stato, in Storia d’Italia, diretta da G. GaLasso, VI, Comu-ni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, a cura di G. anDenna e r. BorDone, Torino 1998, pp. 517-521.

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tracce molto risalenti nel tempo a proposito della Valcamonica sono repe-ribili nella documentazione carolingia, quando Carlo Magno nel 774 concede al cenobio francese di S. Martino di tours tutta la “vallem quae vocatur Camonia, cum salto, Caudino vel usque Indalanias cum montibus et alpibus a fine trentina qui vocatur tonale”3, cioè l’intero territorio camuno fino a Dalegno4 e al confine trentino al passo del tonale. tale donazione sarà rinno-vata nuovamente dai successori di Carlo Magno: Carlo il Grosso il 16 giugno 8875, Ottone II il 15 ottobre 9806, Ottone III il 1 maggio 9987. La riconferma della donazione, risalente al 998 costituisce l’ultima traccia documentaria nota del possesso del cenobio francese sulla valle Camonica.

La certezza però che il controllo di S. Martino, diversamente da quan-to lascerebbe intendere la donazione di Carlo Magno sopra ricordata, fosse tutt’altro che totale ed esclusivo è data dai riferimenti all’esistenza di altre proprietà laiche ed ecclesiastiche in questi territori. Nell’813 si ha infatti traccia della presenza di proprietà dell’episcopato veronese8, nell’837 Lota-rio, conferendo il possesso di numerosi beni al monastero di S. Salvatore di Brescia, allude anche a proprietà camune9, nell’841 la donazione del vescovo di Brescia Ramperto, all’atto di costituzione del monastero di S. Faustino e Giovita, comprende anche beni immobili in Valle Camonica10. Alla stessa maniera il polittico altomedievale di S. Giulia di Brescia, relativo ai possessi del grande cenobio bresciano di S. Salvatore - S. Giulia, redatto tra l’879 e il 90611contiene numerose allusioni a proprietà immobiliari e diritti signorili nei territori camuni.

Interessante poi ricordare, per il X secolo la permuta tra il conte di Ber-gamo Atto e il vescovo Cremonese Dagiberto relativa a beni siti in Valca-monica, che testimonia la presenza patrimoniale in area camuna dei conti di

(3) MGH, Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, Berlino 1934, I, doc. 81, p. 115.

(4) L’attuale Ponte di Legno.(5) MGH, Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, Berlino 1936-37, II, doc.

160.(6) MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Ottonis II diplomata, Hannover

1888, II/1, p. 261.(7) MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Ottonis III diplomata, Hanno-

ver 1893 , II/2, pp. 713-714.(8) 813 giugno 24, donazione del vescovo di Verona Ratoldo ai canonici della cattedrale

della decima de pensione quoque de Vallecamunia redditur (L. Porro LaMBertenGhi, Codex diplomaticus Langobardiae, Torino 1873, coll. Historiae Patriae Monumenta , XIII, doc. 89).

(9) 837 dicembre 15, L. Porro LaMBertenGhi, cit., coll. 231-232(10) 841 maggio 13, cfr. L. Porro LaMBertenGhi, cit., coll. 245-248.(11) G.F. PasquaLi, S. Giulia di Brescia, in Inventari altomedioevali di terre, coloni e

redditi, a cura di a. CastaGnetti e M. Luzzatti, Roma 1979, pp. 43-94.

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Bergamo12 così come l’esistenza di beni del patriarca di Aquileia, concessi al vescovo bergamasco Ambrogio nel 97213, o quella del monastero pavese di S. Pietro in Ciel d’oro attestata nel 99814. Già in epoca altomedievale quindi è possibile intuire per la Valcamonica una certa complicazione signorile e patrimoniale, con la presenza di numerosi e potenti enti laici ed ecclesiastici, tra cui spiccano, soprattutto alla luce della documentazione successiva, le presenze dell’episcopato e dei conti di Bergamo. Queste tracce, pur nell’im-possibilità di collocare a livello toponomastico i possessi sopra ricordati, as-sumono grande rilievo in quanto permettono di rilevare in bassa valle gli interessi economici e le energie signorili di molti enti e aristocrazie dell’Italia del nord.

2. Presenze signorili. Il secolo XI

Nel secolo XI le menzioni relative a presenze bergamasche in valle non vengono meno: nel 1018 il vescovo di Bergamo, unitamente al presule bre-sciano, acquisisce diritti e proprietà sul monte Negrino nei pressi di Borno15; nel 1026 Arduino II, conte di Bergamo, pubblica e convalida una permuta tra l’episcopato bergamasco ed un monaco rappresentante di S. Martino di tours relativa a proprietà patrimoniali in Valle Camonica16.

Molto interessante anche la presenza patrimoniale del potente cenobio bresciano di S. Giulia che nel X secolo, grazie a donazioni di uomini della Valcamonica, amplierà le proprie disponibilità fondiarie includendo terre-ni e diritti giurisdizionali in bassa Valcamonica, in Pian camuno (1028)17. La presenza di S. Giulia nella località di Piano, che è un villaggio incluso nell’ambito territoriale oggetto di studio (si colloca immediatamente a nord di Pisogne), doveva essere molto ampia e articolata: sappiamo infatti che lo stesso monastero, nel 1070, cioè circa 40 anni dopo, possedeva in Piancamu-no la giurisdizione sul castrum, una cappella e diritti di districtus, di fodro

(12) 960 giugno, M. LuPi, Codex diplomaticus civitatis et ecclesie Bergomatis, Bergamo 1784-1799, II, col. 254.

(13) 972 luglio, M. LuPi, cit., II, col. 302 e L. Porro LaMBertenGhi, cit., coll. 1285-1286.(14) Ottone III riconferma e restituisce al monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro alcuni beni

situati in Valcamonica, ed. in Ottonis III diplomata... cit., II/2, pp. 705-706.(15) 1018 novembre 13, Borno (M. LuPi, cit., II. coll. 491-492).(16) Ed. M. LuPi, cit., II, coll. 535-538.(17) 1028 luglio, Brescia; Giovanni e Martino suo figlio, de loco Pratello, vico Plano, di

legge romana, donano al monastero di <San> Salvatore e S. Giulia di Brescia tutti i beni di loro proprietà, per un’estensione complessiva di uno iugero, con relativi diritti giurisdizio-nali, siti in Pian Camuno; cfr. Codice diplomatico digitale della Lombardia Medievale, S. Giulia, url: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/carte/sgiulia1028-07-20, (da qui in avanti indicato come Cod. Dig.).

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e di albergaria. L’atto che definisce questo complesso di diritti signorili e pa-trimoniali è relativo alla cessione degli stessi alla famiglia bergamasca dei da Mozzo, con l’esclusione di alcuni beni spettanti al gastaldo di Iseo e di altri diritti di pertinenza dei locali funzionari alle dipendenze del monastero18.

Come si avrà modo di considerare più ampiamente in seguito, gli ulti-mi due documenti esaminati introducono, con chiare specifiche qualitative, le origini e l’esistenza di un persistente presenza patrimoniale e signorile, definendo inoltre le probabili origini di quell’intreccio patrimoniale e giu-risdizionale che, introducendo elementi bergamaschi, nella fattispecie i da Mozzo, nella bassa Valcamonica, sarà all’origine della confusione giurisdi-zionale, poi stimolo alla conflittualità tra le città di Brescia e Bergamo nei secoli XII e XIII. La cessione di beni e giurisdizioni da parte di S. Giulia a una famiglia potente come quella dei da Mozzo, che determina di fatto una contrazione delle potenzialità politiche del cenobio, trova forse giustifica-zione nella conflittualità tra episcopato e monastero, quest’ultimo oggetto di numerose usurpazioni da parte del presule non solo in Valle Camonica ma anche nei territori della pianura bresciana, a Nuvolera e Paitone. La contro-versia tra vescovo e monastero, documentata solo dalla sentenza, venne ri-solta attraverso un accordo formale tra vescovo e monastero nel [1086], in cui l’episcopato, nella persona dell’episcopo Giovanni, si impegnava a garantire, sotto la pena di 200 lire milanesi d’argento, il rispetto delle concessioni so-vrane e dei diritti monastici19. Questo fu senza dubbio uno dei principali fat-tori che spinse il monastero a stabilire una relazione con la potente famiglia

(18) 1070 ottobre, Brescia; Alda, badessa del monastero di S. Giulia di Brescia, alla pre-senza – fra gli altri – del giudice Lanfranco de Cazago, avvocato del monastero, investe Alberto, figlio di Uberto de Muzo, di tutto il castrum di Pian Camuno, eccetto la metà di una casa tenuta da Giovanni, gastaldo di Iseo, e di quanto rimasto all’anzidetto Giovanni o a suo nipote di ciò che tenevano dal monastero – secondo quanto convenuto con i figli di Adamo de Ysex –, nonché di una cappella edificata in Pian Camuno e di tutto ciò che è tenuto da parte della chiesa, nonché del districtus, del fodro, dell’albergaria e di quanto era di pertinenza diretta della badessa, eccetto il canevario e il decano con le loro tenute. cfr. Cod. Dig., url: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/carte/sgiulia1070-10-00B. I beni di S. Giu-lia in Valcamonica (probabilmente la parte esclusa dall’investitura ai Mozzi) sopravvivono ancora nel XIII secolo, pur svuotati di prerogative signorili e circoscritti alla giurisdizione sulla chiesa di S. Giulia di Pradella e su alcuni possessi fondiari, cfr. ad esempio ASMi, Perg. Fondi, cart. 85, 1233 maggio 12, Pian Camuno; ASMi, Perg. Fondi, cart. 85, 1262 novembre 15, Brescia; ASMi, Perg. Fondi, cart. 87, 1297 ottobre 6, Brescia.

(19) [1086] luglio, Bagnolo, Giovanni, vescovo di Brescia, promette a Ermengarda, bades-sa del monastero di <San> Salvatore e S. Giulia, che in futuro non avanzerà rivendicazioni di sorta circa le conditiones, la custodia dei castelli e altri diritti che, sui beni del monastero siti a Nuvolera, Paitone, Pospesio, in Val Camonica (non specfica dove) ed in altre località, contro i precepta regi, erano stati pretesi e usurpati dall’episcopato bresciano sin dai tem-pi di Landolfo <II>, cfr. Cod. Dig.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/carte/sgiulia1086-07-00.

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signorile, scegliendo una casata bergamasca, quindi tendenzialmente lontana dagli interessi della curia bresciana, patrimonialmente e politicamente vicina ai territori della bassa Valle Camonica20.

Sempre nell’ambito territoriale oggetto d’analisi, nel 1041, è possibile ri-levare l’inserimento del cenobio bresciano di S. Pietro in monte di Serle che riceve, grazie alla donazione di Arderico arciprete della pieve di Manerbio, una serie di beni per la complessiva quantità di 13 iugeri in Valcamonica, nelle località di Darfo e Artogne21, arricchita nello stesso anno da ulteriori donazioni episcopali alcuni chilometri più a nord, nel territorio di Esine22 nei pressi di Breno. Rimaneva ancora nelle mani dell’autorità imperiale invece la corte regia di Darfo, in cui nel 1047 confluivano le 1000 libbre d’acciaio che gli abitanti della valle di Scalve, bergamaschi, erano tenuti a versare al sovrano, in cambio dei diritti allo sfruttamento minerario ed alla libera com-mercializzazione dei prodotti siderurgici entro i confini dell’impero23.

Quello che emerge dalle fonti è quindi, come già rilevato nel X secolo, una quadro politico variato. Nell’area in esame si incontrano gli interessi patrimoniali dell’impero, dei vescovi di Brescia e Bergamo, del monastero di S. Giulia di Brescia, del cenobio di S. Pietro in Monte di Serle e soprattutto,

(20) I da Mozzo son ad esempio presenti in Sovere e nella alta val Cavallina, dove questa si congiunge alla valle Camonica già nel secolo XI, cfr ad esempio Cod. Dig.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bg/bergamo-pergamene2-2/carte/bgpergg1088-07-00b; 1088 luglio, Sove-re; Teudoldo del fu Auberto, da Mozzo, insieme agli abitanti di Sovere investe formalmente i consorti di Cerete di due appezzamenti di terra campiva e a prato, in parte boscosa e a pa-scolo, attraversati dal fiume Inzino e insistenti sui vocaboli Monte Palà, Sulio, Prà Lentino, Lexuno (Lusù-Cerete?), Manni Silva, dietro corresponsione di un canone annuo di cinque soldi di denari d’argento da versare in Sovere davanti alla chiesa di San Martino in occasione della festività del santo. Anche il monastero di S. Giulia poteva vantare il possesso di alcuni beni e rendite in Sovere, cfr. Cod. Dig.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/car-te/sgiulia1100-03-00B, Brescia, marzo 1100.

(21) 1041 giugno, Brescia; Arderico, arciprete dell’ordo plebis di S. Lorenzo di Manerbio, di legge romana, dona al monastero di S. Pietro in Monte per la propria anima e per quella di Olderico vescovo di Brescia, suo senior, tutti i beni di sua proprietà siti in Val Camonica, in Darfo, località Magrezune, in Artogne, località Maxirada, in vite de Cirrexia, di sopra e di sotto la strada, di complessivi diciotto iugeri; un sedime e una vigna contigua pure in Arto-gne, di cinquanta tavole; un orto parimenti in Darfo, in luogo detto Noceto, di diciotto tavole; una sors in Val Camonica, in Lozio, di tre iugeri, lavorata dal massaro Capa. cfr. Cod. Dig.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/serle-spietro/carte/serle1041-06-00f.

(22) 104*1* novembre; Olderico, vescovo di Brescia, di legge romana, dona per la propria anima e per quella del fu Guezolo alla chiesa/monastero di S. Pietro in Monte due appezza-menti di terra, l’uno di centosessanta tavole, sito in Ésine, l’altro di centoventi tavole sito in luogo detto Pondo, con l’obbligo da parte dei monaci di celebrare annualmente dodici mes-se nell’anniversario della morte di Guezolo. Cfr. Cod. Dig.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/serle-spietro/carte/serle1041-11-00 .

(23) MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Heinrici III diplomata, Berlin 1957, V, pp. 255-257.

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dalla metà del secolo XI, della famiglia dei da Mozzo, probabilmente già proprietaria di allodi in loco. Senza contare poi la presenza di tutti quegli ele-menti politici locali di minore portata che la lacunosità e la scarsa consistenza delle fonti documentarie permettono solo di intuire. Questa situazione, come si avrà modo di approfondire in seguito, determinerà nel secolo seguente, pur nell’impossibilità di tracciare un quadro netto, definito e comprensivo di tutti i passaggi, una situazione complessa e confusa di presenze economiche e politiche, che determinerà, a partire dai primi anni del secolo XII, una conflittualità crescente, sfociata a più riprese in conflitti armati e laboriosi tentativi di compromesso generalmente privi di successo.

3. Il secolo XII. Dai da Mozzo ai Brusati

Nel XII secolo, con l’aumentare dell’importanza dei centri urbani e l’estendersi degli interessi economico-politici delle città lombarde sull’intera diocesi, prese avvio, con ritmi sempre più incalzanti, un non programmato processo di assimilazione e integrazione dei distretti, finalizzato all’assorbi-mento politico e al controllo economico, fiscale e militare dei territori24. Non avrebbe senso, in questa sede, ricostruire nel dettaglio le fasi evolutive del comune e l’espansione politica verso i limiti diocesani. Sarà sufficiente ricor-dare che, nel caso di Brescia, il comune, di cui si hanno le prime attestazioni a inizio secolo XII, nasce in profondo rapporto con l’episcopato e con una vasta partecipazione delle aristocrazie legate al vescovo. L’assenza di fonti, che affligge il bresciano in misura molto maggiore di quanto non avvenga per le realtà limitrofe, non permette di comprendere a fondo la base sociale che costituì le prime forme associative all’interno della comunità urbana, ma le liste di consoli e le notizie circa la partecipazione politica ai primi atti pubblici di vita comunale lasciano ipotizzare un coinvolgimento sostanziale delle aristocrazie gravitanti attorno al potere episcopale25. Il coinvolgimento aristocratico interessa soprattutto le importanti casate dei territori della bas-sa pianura e della Franciacorta, mentre poco assimilate parrebbero essere le famiglie camune, sia dell’alta valle che per quanto riguarda i territori della bassa valle, bresciani e bergamaschi26.

(24) P. GriLLo, Comuni urbani e poteri locali nel governo del territorio, in Contado e città in dialogo, comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura di L. ChiaPPa Mauri, Milano 2003, pp. 41-82.

(25) Basti scorrere la pur parziale lista di consoli e podestà del comune in Statuti brescia-ni del secolo XIII, ed F. oDoriCi, in Historiae patriae monumenta, Torino 1876, XVI, coll. 1584(44)-1584(86).

(26) Risulta molto difficile, sia a causa della scarsità di fonti che per la carenza di siste-

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Un’eccezione in questo senso è rappresentata dalla complicata questione della grande famiglia bresciano-bergamasca dei Brusati: famiglia di “fumo-se” origini, che costituisce uno dei principali elementi di potere signorile nei territori della bassa Valcamonica ed in particolare nella fascia di territorio che il presente contributo si propone di analizzare. Nel suo fondamentale volume sulle campagne lombarde, F. Menant percorre le vicende della fami-glia Brusati, collegando questa casata all’importantissima ed antica stirpe capitaneale dei da Mozzo, la cui penetrazione nell’area oggetto di studio è stata ricordata sopra in relazione ad un rapporto vassallatico con il monastero di S. Giulia di Brescia (1070) per la signoria monastica di Piancamuno, inte-gralmente ceduta ai potenti signori bergamaschi27. Non è possibile in questa sede ripercorrere nel dettaglio la valida ricostruzione fatta dal Menant, che descrive con attenzione la discendenza genealogica tra da Mozzo e Brusati, definendo in sostanza i Brusati come una filiazione dei da Mozzo.

È significativo però ricordare che questa famiglia bergamasca non era nuova a relazioni di carattere politico-economico con il mondo ecclesiasstico bresciano: già nel 1047 Oprando Brusiadus28, figlio di Giovanni da Mozzo, rinunciava alla proprietà di alcuni beni fondiari nel pedemonte bresciano in favore del cenobio di S. Pietro in monte di Serle, denunciando di fatto una sfera di interessi familiari allargata sul territorio diocesano di Brescia29. Que-sti interessi ramificati su più distretti, oltre ad un alto grado di frammenta-zione parentale, portarono di fatto, a cavallo tra il secolo XI ed il XII, ad una scissione, non si sa di che natura e portata, all’interno della già numerosa

matici studi prosopografici, comprendere la struttura complessa dei rapporti intercorrenti tra città e distretto. La presente affermazione deriva quindi dalla personale conoscenza di fonti, ma futuri studi dovranno precisare, sia a livello qualitativo che quantitativo, quanto afferma-to.

(27) La interessante ricostruzione di Menant, che non è possibile in questa sede ripercor-rere integralmente, rileva l’esistenza di un rapporto di discendenza genealogica tra i mozzo e i Brusati. La famiglia Brusati compare infatti solo sul finire del secolo XI e si afferma a partire dalle proprietà bresciane dei da Mozzo, innestando i principali centri di potere della casata in bassa Valcamonica ed in Franciacorta. Si veda F. Menant, cit., pp. 639-641 e 656-662; a p. 902 albero genealogico della famiglia da Mozzo, p. 903 albero genealogico della famiglia Brusati. Per una riflessione sull’insediamento dei Brusati in Franciacorta con pro-spettive sui secoli XIII-XIV, cfr. P. BianChi, All’ombra dei Brusati. Lo sviluppo istituzionale, in Monticelli Brusati. Dall’abitato sparso al Comune, a cura di G. arChetti, a. VaLseCChi, Brescia 2009, pp. 15-58.

(28) La prima occorrenza documentaria del soprannome Brusiadus.(29) Auprando Brusiadus, figlio del fu Giovanni, di Mozzo, di legge longobarda, si im-

pegna nei riguardi di Giovanni, abate del monastero di S. Pietro in Monte, a non avanzare rivendicazioni di sorta su di un appezzamento di terra montana di proprietà del monastero, consistente in una selva detta Maiore, sita in Meder, Cariadeghe, Ortihano, Vallesurda e sul monte Dragone, ricevendo quale launechild un cappello. Cfr. Cod. Digit.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/serle-spietro/carte/serle1047-10-00.

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consorteria familiare dei da Mozzo. Il ramo che si appoggiava su un patrimo-nio fondiario e di relazioni politiche radicato in area bresciana assunse per gradi, a partire dalla fine del secolo XI, una propria denominazione ed una propria particolare identità, costruita soprattutto nella relazione con la realtà ecclesiastica bresciana30. I Brusati infatti, come testimoniano le fonti, strut-turarono la propria potenza politico-economica attorno a due grossi comples-si patrimoniali e signorili in Monticelli Brusati ed in Pian Camuno, il primo probabile signoria allodiale, il secondo concessione vassallatica ottenuta dal grande cenobio bresciano di S. Giulia31. Allo stesso tempo la documentazio-ne consente di cogliere, nel corso del XII secolo, un parallelo e progressi-vo distacco dagli interessi in area bergamasca, ravvisabile ad esempio nella cessione del 1141 ad opera di Brusato del fu Alberto Brusati in favore del cenobio di S. Sepolcro di Astino, che coinvolge tutti i possessi familiari siti nella valle di Astino32.

L’estesa signoria in bassa Valcamonica, che nel XII secolo comprende i territori di Pian Camuno, Qualino, Ceretello, Volpino allungandosi però anche verso nord33, appare quindi cruciale per la dinastia dei Brusati, sia in prospettiva economica che in un’ottica politica e “di sistema”. Di sistema nel senso che il potere politico episcopale ed urbano, sia in Brescia che in Bergamo, rivolgono grande attenzione a queste signorie territoriali, come si avrà modo di chiarire più approfonditamente di seguito. Pur senza essere

(30) La prima attestazione relativa ad un pesonaggio che si definisce Bruxiadus riguarda un atto del 1116, fatto rogare da Giovanni Brusato e relativo a proprietà in Fano (comune di Costa Volpino, Valcamonica, attualmente provincia di Bergamo). Cfr. Liber potheris com-munis civitatis Brixiae, a cura di F. Bettoni CazzaGo e L.F. Fè D’ostiani, Torino 1899, Hi-storiae patriae monumenta, XIX, coll. 838, 1116 gennaio (...), Giovanni Brusato, in partenza per la crociata, rinuncia a rivendicazioni di carattere signorile nei confronti del villaggio di Fano.

(31) 1177 giugno 15, sentenza che ribadisce i diritti signorili dei Brusati su Pian Camu-no; nei territori di Pian Camuno sopravvivono comunque residui di proprietà direttamente controllate da S. Giulia di Brescia, come testimoniato dall’investitura del 1161 febbraio (15), Brescia, per un appezzamento in Pian Camuno, salvi il districtus e le decime di pertinenza monastica, in favore dei figli di Alberto Biancone, per un fitto di 28 denari da consegnare agli officiali del cenobio residenti in Pian Camuno. Cfr. Cod. Digit.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-spietro/carte/spo1177-06-15R,

(32) Cfr. Cod. Digit.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bg/bergamo-ssepolcro2/carte/ssepol-cro1141-07-00 1141 luglio (...), Astino. Bruxiato de Brusiatis, figlio del fu Alberto, di Bre-scia, di legge longobarda, dà per la propria anima e per quella dei suoi parenti al monastero del S. Sepolcro di Astino tutti i terreni siti nella valle di Astino, che già possiede o che potrà acquistare in futuro da parte del medesimo monastero.

(33) La ricostruzione della signoria dei Brusati è compiuta sulla base delle scarse e fram-mentarie fonti superstiti, ma la pervasività della presenza signorile della famiglia permette di ipotizzare che l’intera bassa valle fosse, più o meno direttamente, controllata da questo consortile signorile.

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categorici pare possibile rilevare, anche se questa affermazione dovrà essere ripresa e sviluppata con l’ampliamento del campione di analisi documenta-ria ed una più vasta rassegna storiografica, un fenomeno di “riordino delle aristocrazie” che prende avvio sul finire del secolo XI e con l’inizio del XII secolo interessando in modo particolare molte delle realtà signorili di confi-ne. Forse sintomo di una nascente consapevolezza di appartenenza politico-giurisdizionale, forse avvisaglia del nascere, all’interno e all’esterno delle cu-rie episcopali, dei prodromi di un senso latamente civico, tra XI e XII secolo ha luogo un graduale distinguersi della signoria dei da Mozzo, il cui ramo bresciano, cambiato nome, si inserisce in modo totale all’interno della sfera di rapporti ed interessi gravitanti sul distretto bresciano, mentre i da Mozzo veri e propri rimangono legati al territorio bergamasco. Simili processi sono quelli sperimentati, anche da un’altra grande casata bresciano-bergamasca: la famiglia Martinengo. Questa, insediata nella bassa a cavallo dell’Oglio, gradualmente, sposta il proprio baricentro politico e patrimoniale divenendo, nel XII secolo, una delle principali casate della vassallità episcopale e prin-cipale attore della storia comunale bresciana34. Allo stesso modo la famiglia dei conti di Calepio, forzatamente indotta, pur con relativo successo, a man-tenere l’asse delle proprie relazioni politico-economiche centrato su Bergamo sarà costretta a rinunciare a gran parte delle relazioni con Brescia35. Il terri-torio studiato appare quindi interessato da una massiccia e ambigua presenza signorile36, collegata però ai vasti e solidi possedimenti episcopali e a quelli di numerosi cenobi bresciani che, come si è avuto modo di dimostrare, tra XI e XII secolo controllano estese parti dei territori della bassa Valcamonica.

4. L’affermazione della famiglia Brusati e l’esplosione dei conflitti interurbani

Nel XII secolo l’area in esame subisce, in particolar modo con l’affermar-si delle istituzioni comunali urbane, un forte incremento di interesse politico e, attorno al possesso dei castelli oggi in territorio di Costa Volpino, si co-struiscono le premesse di un annoso e noto conflitto che rappresenterà uno dei maggiori capitoli di politica territoriale per Bergamo e Brescia. È eviden-te che le premesse della forte conflittualità che è possibile rilevare a cavallo

(34) Una rassegna circa la famiglia Martinengo nel datato ma sempre utile: P. Guerrini, Una celebre famiglia lombarda. I conti di Martinengo: studi e ricerche genealogiche, Bre-scia 1930, (rist. 1982).

(35) P. BianChi, Praeter placita que sibi reservavit. Poteri locali tra bresciano e bergama-sco nei secolo XII-XIII, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, rel. M. P. Mainoni, a.a. 2006-2007, pp. 171-180.

(36) Ambigua nel senso che, pur relazionandosi in modo privilegiato con Brescia non esclude relazioni anche importanti con l’universo bergamasco.

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tra XII e XIII secolo vadano cercate nel complesso intreccio di giurisdizioni e interessi di cui si è cercato di tracciare un profilo sommario nelle righe precedenti. A queste presenze va aggiunta l’autorità politica del vescovo già attiva, come si ricordava sopra, nei territori della bassa valle nel secolo X-XI, ma della quale non è possibile, causa la consueta carenza di fonti, ricostruire la portata politica e la consistenza economica37.

L’asse degli equilibri politici e signorili, nel XII secolo, pare strutturata intorno alla presenza della grande signoria dei Brusati, che a inizio XII seco-lo vediamo esercitare la propria influenza sul territorio di Fano38, su cui Gio-vanni Brusato si impegnava a non vantare diritti signorili, segno probabile di un conflitto in atto e di una giurisdizione signorile di scarsa legittimità, da cui gli uomini di Fano cercano di sottrarsi, approfittando probabilmente della “attitudine spirituale” particolarmente caritativa del dominus che è, come lui stesso dichiara, in procinto di partire per il santo sepolcro. La giurisdizione dei Brusati si estendeva poi sui castelli di Qualino, Ceretello e Volpino con la totalità dei territori da loro dipendenti, com’è possibile desumere dagli atti della grande pace stipulata a Mura (comune di Palazzolo) tra Bergamo e Bre-scia nel 1156, per porre fine alla conflittualità determinata, tra l’altro, dalla cessione di giurisdizioni signorili operata da un Brusati, quasi certamente lo stesso Giovanni che, in procinto di partire per la terra santa, aveva rinunciato ai possessi in Fano e alienato le giurisdizioni signorili in favore di alcuni si-gnori del bergamasco39. Questa cessione, di data ignota ma presumibilmente coeva alla rinuncia in favore degli uomini di Fano, testimonia il sopravvivere

(37) A lasciar intuire una precoce presenza episcopale in bassa Valcamonica, pur non sapendo se si tratti già nel secolo XI di una potenza economico-signorile pari a quella ri-scontrabile a inizio secolo XIII, concorrono alcune tracce realtive a proprietà vescovili e risalenti ai secoli IX-XI. Cfr. ad esempio: L. Porro LaMBertenGhi, cit., coll. 245-248, 841 maggio 3, nella donazione patrimoniale in favore del neofondato cenobio di S. Faustino sono menzionate cessioni patrimoniali in Valcamonica; Cod. Digit.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/serle-spietro/carte/serle1041-11-00, 1041 giugno, Brescia, donazione fondiaria da parte del vescovo di beni siti nei pressi di Esine.

(38) Cfr. Liber potheris... cit., coll. 838. 1116 gennaio (...), Giovanni Brusato dichiara di non pretendere sul villaggio di Fano altro che il fitto acquisito dai suoi avi dal monastero di S. Vigilio di Trento e di non vantare quindi diritti signorili. Interessante notare che tra i testi sono registrati, probabili consanguinei del Brusato, personaggi di Monticello (prob. Monticelli Brusati), Niardo, Breno, Cemmo, tutte località della bassa e media valle in cui, a inizio XIII secolo, troveremo dislocati i principali concentramenti signorili dell’episcopato bresciano.

(39) Cfr. Liber potheris... cit., coll. 61-64, la cessione era avvenuta in favore di Bertramo Ficieni, Suzo Colleoni, Ermano Rapazella, Guidotto di Castello, Teutaldo di Mozzo, Lan-franco Lazzaroni, Guglielmo di Grotta, Giovanni Agone e Maiavacca, Oberto e Alessandro de campanile e Alessandro Ficieni, Gandinello, Girardo e Lanfranco di Grotta ed il conte Basa, Carissimo, Bertramo Attoni Orici, Giovanni Bono Taiardi, Roberto Zangarino Suardi; la gran parte esponenti delle principali stirpi aristocratiche del bergamasco.

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di rapporti tra la famiglia Brusati e gli ormai lontani consanguinei bergama-schi da Mozzo, ma anche una rete di relazioni politiche che, pur nello stretto legame col distretto bresciano, lasciavano aperti spiragli di comunicazione verso Bergamo40. D’altra parte l’atto dimostra anche il forte interesse berga-masco, la cui spinta verso la bassa Valcamonica denuncia un progetto di pe-netrazione patrimoniale solo parzialmente spontaneo e sicuramente legato a valutazioni di calcolo politico: non si spiegherebbe altrimenti un simile acqui-sto con un altissimo tasso di comproprietà e attuato da individui provenienti da tutto l’episcopato bergamasco. Certamente dietro questo tentativo, di cui non è dato conoscere la consapevolezza e la progettualità, stavano interessi politici ma soprattutto economici della città di Bergamo e delle sue aristocra-zie, interessate al controllo delle risorse camune tra cui spicca, come si ricor-dava sopra, la precoce e consistente produzione metallurgica41. La reazione bresciana, che dà atto della consapevolezza di Brescia e del suo episcopato42 circa i rischi connessi ad una tale invasiva affermazione signorile, portò alla deflagrazione di una serie di conflitti, culminati nella celebre e nota battaglia di Palosco43, cui seguì la pace appena ricordata, che condusse di fatto ad un precario ripristino dello status quo antecedente l’alienazione del Brusati44. Brescia, riottenuti in seguito alla pacificazione i castelli camuni, provvedeva ad inviarvi guarnigioni, al comando dei principali esponenti dell’aristocrazia sebina e bresciana, tra cui Oprando, esponente della famiglia Brusati45.

La questione, come frequentemente avviene nelle concordie intercomu-

(40) Tra gli acquirenti, poi attori della rinuncia, si rileva la presenza di Teutaldo da Mozzo, poi registrato anche nel giuramento di mille uomini di Bergamo in garanzia della pace, cfr. Liber potheris, cit., coll. 62, 80.

(41) Si ricordano le 1000 libbre di acciaio portate dagli scalvini alla corte di Darfo nel 1047 (cfr. Heinrici III diplomata... cit., V, pp. 255-257) ed i censi in metallo ricavati dalle corti camune di S. Giulia, cfr. G.F. PasquaLi, cit., pp. 43-94. Per un profilo economico di Sebino e Valcamonica in una prospettiva interdistrettuale (XII-XIII sec.) cfr. P. BianChi, Praeter placita... cit., pp. 69-74.

(42) Le refute dei bergamaschi possidenti in Volpino sono significativamente attuate “in manus dom. Raymundi Episcopi venerabilis brixiensis episcopi vice et nomine brixiensis ecclesie et in manus consulum brixiensium vice populi et communitatis Brixie”, a testimo-nianza del forte interesse episcopale verso la valle e dello stretto legame tra vescovo e co-mune consolare.

(43) a. Bosisio, cit., p. 606; B. BeLotti, cit., pp. 83-85.(44) La questione giudicata da Syro e Malaparte, giudici imperiali, si conclude con il

giuramento dei principali esponenti del comune bergamasco, cfr. Liber potheris... cit., coll. 74-84.

(45) cfr. Liber potheris… cit., coll. 90-93, 1192 ottobre 2 serie di deposizioni testimo-niali in cui si ricorda che Giacomo di Iseo, Oprando Brusato e molti altri elementi di spicco dell’aristocrazia bresciana, furono incaricati dal comune di Brescia, antecedentemente alla distruzione di Iseo (1161), di presidiare militarmente con le loro comitive armate i castelli contesi.

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nali di questo periodo, era però ben lungi dall’essere risolta e la pace armata, imposta da Brescia, provocò alla prima occasione un nuovo accendersi dei conflitti. Nel 1161, in occasione del passaggio degli eserciti di Federico I sul territorio di Brescia, con la distruzione dell’abitato di Iseo46 e la conseguente perdita da parte della città di Brescia del principale porto sebino e quindi di un contatto sicuro e diretto con la bassa valle Camonica, i bergamaschi rialzarono la testa prendendo i castelli perduti, vista l’impossibilità da parte dei difensori, che presidiavano il castello di Volpino, di ricevere aiuto contro gli assedianti47.

Questa vicenda, qui rapidamente tratteggiata, si inserisce nel più genera-le e conflittuale contesto dell’affermazione territoriale dei comuni urbani e coprirà l’arco cronologico di quasi un secolo costituendo di fatto, unitamente ai conflitti che coinvolsero i conti di Calepio, il principale capitolo di politica estera per le due città48. Non venivano invece messe in discussione le proprie-tà sulla sponda orientale dell’Oglio, appartenenti alla giurisdizione bresciana e, come nel caso di Pian Camuno, nella seconda metà del secolo XII ancora sottoposte al controllo signorile dei Brusati49.

(46) Si vedano le tre versioni degli Annales Brixienses a. 1014-1273, ed . L. BethMann in MGH, Scriptores, XVIII, Hannover 1863, pp. 814-815. (A-B-C) i quali, non concordando sul-la data della distruzione del burgus, la fanno oscillare tra 1161 e 1162. A: 1161. Yse destructus a Federico in die Sancti Nazarii; B: 1161. Suburbium Ise captum a Federico, et Vulpinum traditum est bergomensibus. C: 1162. Hoc anno a Federico suburbium Ise captum est et Vulpinum tunc traditum fuit pergamensibus. Dell’avvenimento è rimasta memoria anche in J. MaLVeCiJ, Chronicon Brixianum ab origine Urbis ad annum usque MCCCXXXII, ed. L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores [RIS], XIV, Milano 1729, coll. 879; “[...]anno ever-sionem urbis Mediolani Castrum Ysei ab eo diruptum est in die qua festum Sancti Nazarii celebratur” e “hac tempestate Pergamenses foedus, quod pepigerant cum Brixiensibus jeju-rando, irrumpentes, Castra Vulpini, & Ceretelli, atque Coalini abstulerunt”. E’ interessante ricordare che recenti scavi archeologici, portati avanti in Iseo, hanno messo in luce le tracce stratigrafiche di un estesissimo incendio collocabile con grande probabilità proprio nel perio-do della distruzione avvenuta per mano di Federico I. L’assenza però nel livello stratigrafico di reperti e frammenti rende complessa la datazione certa dell’avvenimento.

(47) La vicenda della distruzione dell’abitato di Iseo è narrata in: Carmen de gestis Fre-derici I. Imperatoris in Lombardia, a cura di i. sChaMLe-ott, in MGH, Scriptores rerum germanicarum in usu scholarum, Hannover 1965, pp. 104-107, versi 3162-3230.

(48) La vicenda dei conti di Calepio è ricostruita in P. BianChi, Praeter placita... cit., pp. 169-194.

(49) 1177 giugno 15, Brescia; nella causa fra Alberto Brusiadus e suo fratello Gerardino Madius da una parte, i quali rivendicano che Aimerico de Pratellis sive de Plomo è soggetto al districtus dei signori de Brusiadis, e di conseguenza agli oneri di fodrum, castra, caste-lantia e deve prestare loro giuramento di fedeltà, e Aimerico dall’altra, il quale al contrario dichiara di essere un uomo libero, Airaldo de Sancta Agata e Aimo Battuppa, arbitri delegati dai consoli di giustizia di Brescia, Guglielmo Oriane e suoi soci, assolvono Aimerico dalla petizione dei suddetti fratelli, ma lo dichiarano sottoposto al loro districtus. Ed. in Cod. Di-git.: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-spietro/carte/spo1177-06-15R.

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Il possesso dei territori in esame risulta per le due città tanto cruciale che, a fine XII secolo, in seguito ai due passaggi di mano registrati nel 1156 e nel 1161, Brescia sferra una nuova offensiva su vasta scala tentando, trami-te un accordo politico con i Calepio, la penetrazione nel distretto bergama-sco. L’ovvia reazione militare da parte di Bergamo condurrà alla più celebre battaglia tra le due città poi ricordata con l’evocativo nome di Malamorte50. La battaglia, conclusasi con una nuova sconfitta per i collegati di Bergamo e Cremona, ebbe luogo nei pressi del borgo franco di Rudiano, poco più a sud della principale direttrice viaria tra le due città51, ma determinò nuove e pesanti conseguenze politiche soprattutto per i territori sebini e della bassa valle.

Nel corso delle complicate trattative di pace, condotte attraverso la media-zione imperiale, si arrivò ad un primo compromesso l’8 dicembre 1191, in cui si prevedeva la temporanea cessione delle fortezze, da parte dei contendenti, a guarnigioni imperiali arruolate in città italiche52: i bresciani cedevano la Valcalepio mentre i bergamaschi sgombravano l’imbocco della Valcamoni-ca in attesa che i giudici imperiali, Syro e Passaguerra, giungessero ad una sentenza definitiva. I bergamaschi inoltre, nella tregua, promettevano di non perseguire i conti di Calepio (bergamaschi a loro volta), in questo frangente alleati ai bresciani.

Il giudizio imperiale non fu imparziale. Enrico VI, per ragioni di calcolo politico che risulta difficile comprendere, mentre la vertenza era ancora in fase di giudizio elargì al comune di Brescia un importante diploma median-te cui concedeva, come aveva fatto nel 1037 Corrado II con il vescovo di Brescia, la giurisdizione cittadina su entrambe le sponde del fiume Oglio, dalla sorgente di Dalegno fino alla confluenza con il Po53. Questa relazione

(50) Per qualche riferimento circa la battaglia di Malamorte, J. MaLVeCiJ, cit., coll. 883-885; F. oDoriCi, Storie bresciane dai primi tempi sino all’età nostra, Brescia 1857, V, pp. 196-202 [cap. LXIII]; A. Bosisio, cit., pp. 638-639.

(51) Si tratta della principale strada di collegamento tra Brescia e Bergamo, che varcava l’Oglio in corrispondenza del ponte lapideo di Palazzolo S/O (BS) transitando all’interno di questo villaggio, chiuso come un guscio a difesa del ponte.

(52) Liber potheris… cit., coll. 84-86 e 86-90; Praeceptum pacis inter brixienses et cre-monenses, Milano, 1191 dicembre 8, ed. L weiLanD, in MGH, Costitutiones et acta publica imperatorum et regum, Leges, IV/1, Hannover 1893, pp. 488-490.

(53) La concessione di Enrico VI in Liber potheris… cit., coll. 101-105; Conventio cum Brixiensibus. Conventio praevia, Geilenhusen, 1192, ante giugno 23 e Facultas nuntiorum brixiensium, Brescia 1192 giugno 23, ed. L. weiLanD, in Leges... cit., IV/1, Hannover 1893, pp. 496-498. L’elargizione di Corrado II a favore dell’episcopato in MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Conradi II diplomata, Berlin 1957, IV, p. 248, 1037 luglio 15. Alcune riflessioni circa la questione della giurisdizione bresciana sull’Oglio in: A. Baronio, “Pothere” e confini del potere. Aspetti del processo di comitatinanza del comune di Brescia tra XII e XIII secolo, in “Civiltà bresciana”, n. VII/4, 1998, pp. 3-40.

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politica non poté di fatto non influenzare in modo pesante la sentenza emessa il 2 ottobre 1192, significativamente presso il castello di Volpino, pomo della discordia attorno a cui gravitava l’intera contesa: ai bergamaschi veniva ordi-nato di liberare i castelli altosebini e restituire a Brescia la piena potestà sulla valle54. Il formulario del documento, relativamente alle strutture materiali del castello, allude all’esistenza di torre e dongione55, figurando quindi un complesso fortificato articolato e quindi, probabilmente, di grande rilievo militare.

A questa sentenza seguì un ulteriore accordo intercittadino risalente al 1198, volto probabilmente a consolidare l’equilibrio raggiunto: svariati citta-dini bergamaschi giuravano, il 29 agosto, di non contravvenire all’impegno di preservare la cessione dei noti Qualino, Ceratello e Volpino, con l’aggiunta questa volta di Gorzone ed Erbanno, comprati a suo tempo dal Brusati56. Le delegazioni delle due città stabilivano inoltre di demolire il castello, con il probabile intento di eliminare l’oggetto della discordia, mutando la valen-za politica e giurisdizionale di Volpino in semplici interessi economici sul controllo di fondiario di questo territorio57. Decisione, questa, che trovava giustificazione anche nella complessità strutturale della fortificazione, che, come ricordato sopra, doveva costituire un complesso articolato e molto più imponente del consueto castello rurale, rendendo Volpino un centro militare di primo piano, ma che di fatto non risolse in modo definitivo la contesa.

A fine XII secolo quindi la situazione della bassa Valcamonica, nonostan-te la incisività dell’azione bresciana, appariva ben lontana da una chiara de-finizione d’appartenenza territoriale: attenuatasi, nel corso della prima metà del secolo XII, l’incisività politica della famiglia Brusati in Costa Volpino, l’intera area era stata investita, soprattutto nella seconda metà del secolo, da un susseguirsi di conflitti e scontri armati che avevano proiettato in bassa Valle un consistente numero di uomini collegati alle principali casate signori-

(54) Liber potheris… cit., coll. 98-100, 1192 ottobre 2, Volpino. I giudici imperiali ema-nano la sentenza tenendo conto della missive loro inviate dall’imperatore e registrate in coda al documento.

(55) Per il significato del termine dongione cfr. A.A. settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984, pp. 375-384.

(56) Liber potheris... cit., coll. 109-111. A questo giuramento fa seguito una ulteriore serie di garanzie, in cui si specifica che la cessione fu fatta a suo tempo da Giovanni detto Brusato e in cui si chiarisce che questa coinvolge Volpino, Qualino, Ceretello, Fano e tutta la corte di Gorzone, per i castelli, le torri, i mercati, considerando entrambe le sponde del fiume Oglio dalla Chiesa di S. Maurizio fino a Erbanno, cfr. Liber potheris... cit., coll. 111-113.

(57) Annales Brixienses... cit., p. 815, A “1198 die martis 11 intrante Augusto concordati sunt Brixienses et Bergamenses de destruendo castro Vulpini, et facta est pax et destructus est.”; B “1198. Vulpinum concorditer distructum a Brixiensibus et Pergamensibus”; C “1198. Hoc anno Brixiensibus et Pergamensibus concorditer distructum est Vulpinum”.

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li sebine e ad entrambi i centri cittadini. tale fortissimo interessamento urba-no trova giustificazione nel grande rilievo economico del territorio in esame, in quanto la bassa valle costituiva il punto di raccordo tra il Lago d’Iseo, principale via di comunicazione commerciale tra la montagna e la pianura, e la pianura padana. Fu proprio questa centralità economica, unitamente alla presenza di un’intricata sovrapposizione giurisdizionale e signorile a inge-nerare i continui e certamente dispendiosi scontri che caratterizzeranno, pur in misura minore, anche il XIII secolo: consentire al rivale il possesso ma-teriale ed il presidio di un solido centro militare in corrispondenza di uno stretto passaggio chiuso tra fiume Oglio e montagne significava accettare di rimanere in gran parte esclusi dai traffici di materie prime che dalla valle scendevano a sud.

È bene poi considerare altre due questioni. Da un lato la quasi totale as-senza, sullo scenario del XII secolo, di quelli che tra XIII e XIV saranno tra i maggiori centri della bassa valle: Lovere e Pisogne58. Può darsi che si tratti esclusivamente di semplice carenza di fonti, ma è molto significativo che l’intera documentazione relativa al secolare conflitto non alluda mai ai due villaggi come luoghi chiave della bassa valle. L’appartenenza giurisdizionale dei due centri non pare mai messa in discussione, ne pare venga mai sotto-lineato uno speciale rilievo politico che li collochi quali centri di coordina-mento dei territori sebini o camuni, sebbene la pieve di Pisogne costituisca il punto di riferimento ecclesiastico dell’intero alto lago. Alla stessa maniera la pieve di Rogno, antichissima istituzione religiosa, ricorre molto raramente nelle fonti.

L’altra questione da sottolineare è che, già in epoca molto precoce ed in un territorio marginale, l’azione di entrambe le comunità urbane appare ener-gica e tangibile. Non si tratta infatti di una mera presenza nominale, ma di una continua presenza che, pur spostando le fasi salienti del conflitto in piena pianura59, non manca di avere riflessi concreti anche in area alpina con scon-

(58) Per Pisogne cfr. a. BianChi, F. MaCario, In loco de Pisoneis. Pisogne 1299: il borgo del vescovo, Brescia, 2008 e P. BianChi, Il Sebino e il bresciano occidentale. Assetti politici e riflessi insediativi in un territorio di confine (secc. XII-XIII), in Casa abitationis nostre. Archeologia dell’edilizia nelle province di Bergamo e Brescia, Atti del convegno, Brescia 8 giugno 2009, in corso di stampa; per Lovere la storiografia non restituisce, relativamente ai secoli XII e XIII, informazioni che consentano di attribuire al villaggio un grande rilie-vo territoriale, per qualche informazione si veda: L. Marinoni, Documenti loveresi: studio storico-bibliografico, Bornato 1976 (ed orig. 1896); a. sina, La parrocchia di Lovere. Note di storia, Lovere 1926; molto interessante la ricostruzione del borgo nel XV secolo, in una situazione di grande sviluppo economico e manifatturiero, cfr. G. siLini, Et viva a sancto Marcho. Lovere al tempo delle guerre d’Italia, in “Archivio Storico Bergamasco”, n. 22-23, 1992, pp. 1-357.

(59) Come avviene nelle due battaglie di Palosco e Rudiano.

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tri armati e invio di guarnigioni a presidio. In questo fenomeno, certamente, rivestì un ruolo cruciale il collegamento Brescia-Brusati i quali, fortemente radicati nella bassa valle ed in misura ancora maggiore tra Darfo e Breno, costituirono, insieme alle proprietà signorili del vescovo, un importante col-lante politico che senza dubbio favorì, al di là delle azioni militari, la riuscita della temporanea affermazione dell’egemonia politica bresciana60. In questa fase vediamo infatti, oltre alle già ricordate attività belliche, anche il ruolo giurisdizionale di Brescia estendersi, pur in un solo caso, fino a Breno e Losi-ne, nella media valle per sentenziare circa un caso di omicidio, in violazione della pace, perpetrato da Guiscardo di Breno ai danni di Biscardo di Losine61, segno evidente del tentativo urbano di esercitare un’azione giurisdizionale tangibile sui territori camuni62.

5. Il XIII secolo, Brusati, Federici e presenze episcopali

La situazione quantitativa e qualitativa delle fonti, pur in un quadro di sostanziale scarsità, migliora leggermente a partire dalla fine del XII secolo in avanti. Per il XIII secolo disponiamo infatti dei ricchi inventari di beni episcopali redatti a fine XIII secolo, che descrivono però situazioni che si possono far risalire agevolmente almeno ai primi decenni del secolo XIII63. Sono inoltre disponibili alcune importanti serie di documenti in copia e ma-teriali provenienti dagli archivi episcopali relativi a investiture decimarie, a cavallo tra la fine del secolo XIII e l’inizio del XIV.

All’inizio del XIII secolo sembra affacciarsi sullo scenario camuno un nuovo attore: la famiglia dei Federici di Valcamonica che, se l’attendibili-

(60) A tal proposito è bene ricordare la penetrazione, non durevole della famiglia brescia-na dei Martinengo verso la Valcamonica. I Martinengo, precocemente inseriti nel comune bresciano, sono investiti dal vescovo i numerosi beni in Dalegno, Vione e Cimbergo, cioè nel-la media e altissima valle camonica. L’atto si conserva in copia semplice di copia autentica, con una traditio estremamente complicata che andrà sottoposta a critica, in: ASBs, Archivio Martinengo dalle Palle, b. 459, reg. 2, cc.183r-183v, 1158 gennaio 2, Brescia.

(61) Sull’episodio cfr. F. oDoriCi, Storie bresciane... cit., VI, p. 34, riproduzione della lapi-de su cui è scolpita la condanna; pp. 46-47 atti della pace tra Biscardo di Losine e Guiscardo di Breno, 1182 novembre 10, Losine.

(62) Altra traccia di azione giurisdizionale urbana in Valcamonica è quella che si può desumere nel giudizio espresso dalle magistrature bresciane con i consoli di Valcamonica per una lite tra Borno ed Esine per l’edificazione di strutture sull’Oglio (ottobre 1168), cfr. F. oDoriCi, Storie bresciane... cit., V, pp. 17-18. Significativamente l’atto è steso a Montecchio, che pare ancora una volta il punto di raccordo tra città e valle, attraverso la probabile media-zione dei Brusati.

(63) Una rassegna con approfondimento circa gli inventari episcopali in G. arChetti, Be-rardo Maggi vescovo e signore di Brescia. Studi sulle istituzioni ecclesiastiche e sociali della Lombardia orientale tra XIII e XIV secolo, Brescia 1994, pp. 289-369.

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tà della copia del documento di cui disponiamo dovesse essere, come pare, provata, costituisce una geminazione della domus signorile dei Brusati di Brescia64. In un interessantissimo documento in copia, risalente al 20 maggio 1200, sono contenuti i capitoli degli accordi tra le aristocrazie camune dei capita di Montecchio e gli uomini della corte di Darfo, che, si ricordava so-pra, era stata la corte regia in cui confluivano i censi in metallo della Val di Scalve (1047)65. Questo accordo, di grande portata locale, stabiliva gli obbli-ghi reciproci istituiti tra gli uomini ed i signori di Montecchio nella gestione dei pascoli, nelle manutenzioni delle strade nella gestione del patrimonio bo-schivo. Gli accordi riguardano, nella sostanza, l’interezza delle comunanze e dei diritti comuni pertinenti alla curia di Montecchio66 divisi riservando 1/3 ai signori e i 2/3 alla comunità, eccezion fatta per quegli iura fortemente caratterizzati da connotati signorili, quali l’erbatico e le decime delle glere sull’Oglio, che sono divisi esattamente a metà. I signori di Montecchio si im-pegnavano a garantire la comunità di Darfo in occasione del soggiorno di ari-stocratici, tutelando la comunità soprattutto con le armi e obbligando i loro pari, nel caso in cui avessero danneggiato la comunità di Darfo e i suoi vicini, a pagare i debiti risarcimenti67. La parte più interessante di questo bell’atto è però relativa alle sottoscrizioni degli aristocratici che si impegnano, insieme ai vicini di Darfo, a rispettare le clausole del trattato. Sottoscrivono infatti il documento Lanfranco Brusati “pro se, et omnibus participibus suae curtis quo dicitur Caput Federicorum”, Martino Conchi per la famiglia Conchi di Brescia, teutaldo Pole per se ed i compartecipi, Viscardo per se e Lanfranco Brusati e per i compartecipi del caput di Breno, Ottonello di Berzo per se e quelli di Berzo, di nuovo Lanfranco Brusati per se e Martino Fulcone, poi un’altra volta Lanfranco Brusati per se e Martino Fulcone “pro participibus omnibus capitis de Eseno excepto Amato Lanzoni, qui stetit et primisit pro quarterio eiusdem Capitis de Eseno”.

Valutando le sottoscrizioni qui riportate è possibile elaborare alcune im-

(64) Anche Menant pare accogliere l’ipotesi, cfr. F. Menant, cit. pp. 641, 658-662.(65) La copia del documento è tradita da F. oDoriCi, Storie Bresciane... cit., VI, pp. 103-

107; l’Odorici dichiara di aver tratto la copia dell’atto dal codice di Lafranco Federici Storia inedita della famiglia che afferma appartenere alla sua personale raccolta di manoscritti (Codice n°62).

(66) Il termine curia ricorre con frequenza in area camuna nel XIII secolo, sia nella docu-mentazione laica che in quella ecclesiastica e sembra alludere, nel XIII secolo, ad un distretto costituito da più villaggi di proporzioni demografiche minime gravitanti attorno ad un centro di maggior rilievo. E’ impossibile non notare che questa struttura fa riferimento ad una pre-cedente organizzazione signorile del territorio, dove il centro capocuria è, di fatto, la sede dell’autorità signorile o dei suoi funzionari.

(67) Questa esigenza è anche il sintomo di un forte tasso di militarizzazione nella valle e della cospicua e tangibile presenza di potenti clientele signorili.

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portanti considerazioni. In primo luogo appare evidente che gran parte dei capita, cioè delle parti in cui è suddivisa la signoria di Montecchio a inizio XIII secolo, ma certamente anche nel secolo XII, sono da considerare più o meno direttamente nelle mani di Lanfranco Brusati e dei suoi compartecipi, afferenti oltre che al già citato castello di Montecchio alle signorie di Breno ed Esine nella bassa Valcamonica. Se si considera che nel XII secolo si trova-no attestazioni di signorie dei Brusati in Artogne e Pian Camuno (1177)68 in Volpino, Qualino, Ceratello Erbanno e Gorzone (1116)69 l’aggiunta di questi nuovi dati permette di cogliere un distretto signorile, ancora vivo e vitale nel secolo XIII, pur decurtato di parte dei possessi nell’attuale territorio di Costa Volpino, che si estende da poco più a nord della signoria episcopale di Pisogne verso nord fino al grande castello di Breno. Se a questo patrimonio si aggiunge il complesso di beni che, nel corso del XIII secolo, è possibi-le individuare nel pedemonte a Paratico, Monticelli Brusati, Iseo, e un po’ ovunque in Franciacorta70 il potere dei Brusati, nei loro vari rami, si estende quindi sull’intera Valcamonica e in buona parte di Sebino e Franciacorta, caratterizzandosi quindi come una delle realtà signorili non puntiformi di maggior estensione territoriale e, per la collocazione geografica, di enorme rilievo politico. È quindi ancora una volta evidente come, a fine XII secolo e a inizio XIII il rapporto con i Brusati costituisse, insieme al rapporto con il vescovo, l’elemento chiave per il controllo cittadino sulla valle ed i suoi principali centri.

L’altro dato importante che è possibile desumere da queste sottoscrizioni è che Lanfranco appartiene a quel ramo della famiglia Brusati che la fonte definisce caput Federicorum: quella branca familiare cioè che assumerà il nome di Federici divenendo, d’ora in avanti, la principale dinastia signorile camuna capace di condizionare le vicende politiche della valle lungo tutto il XIII secolo71 e che nel corso di questo secolo espanderà, secondo tempisti-che e modalità che la carenza di fonti non consente di conoscere, la propria influenza verso nord, probabilmente a scapito delle proprietà monastiche in Mu ed Edolo.

Ad intrecciarsi con gli interessi dei Brusati camuni, che da qui in avanti si potranno definitivamente individuare con l’appellativo Federici, a partire da inizio XIII secolo sono attestate le proprietà dell’episcopato di Brescia

(68) Cod. Digit., http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-spietro/carte/spo1177-06-15R.(69) Liber potheris... cit., coll. 838.(70) P. BianChi, All’ombra... cit., pp. 16-40.(71) Cfr. i. VaLetti Bonini, Le comunità di valle in epoca signorile. L’evoluzione della

Comunità di Valcamonica durante la dominazione viscontea (secc. XIV-XV), Milano 1976, pp. 11-45.

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che, come si ricordava antecedentemente, sono estremamente numerose in valle e possono essere datate con certezza ai primi decenni del XIII secolo, mentre datazioni più risalenti, benché molto probabili, non trovano adeguati riscontri documentari, almeno non per signorie delle dimensioni riscontrabili per i Brusati-Federici e l’episcopato nel XIII secolo. I principali centri sebi-ni e camuni sottoposti a giurisdizione vescovile risultano essere le curie di Iseo, Pisogne, Cividate Camuno (nei pressi di Breno), Cemmo ed Edolo. Ci si limiterà in questa sede a considerare rapidamente le sole curie di Pisogne e Iseo, che rientrano all’interno del sistema signorile episcopale e costituiscono la porta d’accesso alla Valcamonica. Gli altri centri di potere episcopale, pur rilevanti e di grande interesse, risulterebbero troppo settentrionali rispetto all’area in esame e costringerebbero ad un ampliamento di contesto che va ben oltre le limitate prospettive del presente contributo.

Ragionare sulla storia camuna non permette una valutazione a prescin-dere da queste due realtà in quanto la relazione Brescia-Valcamonica-Ber-gamo si costruisce proprio sul bacino del Sebino che costituisce l’asse di congiunzione tra la montagna ed i territori di pianura. Per quanto riguarda Iseo (bs), realtà ampiamente studiata dal sottoscritto in altra sede e collocata all’estremità meridionale del bacino lacustre, è possibile ricordare che questo importante borgo commerciale rappresenta il punto di confluenza delle pro-duzioni camune ed il nodo di smistamento dei traffici in entrata e in uscita dalla valle72. Il borgo di Iseo, proprio per queste ragioni, appare già in epoca altomedievale come un centro fondamentale dal punto di vista economico, sottoposto alla signoria del monastero di S. Giulia. Quest’ultimo, attorno al 1170, cede il passo alla penetrazione in loco di una signoria gravitante sul-la cattedra bresciana che, nel corso del XIII secolo, rafforza le prerogative economiche, senza di fatto mai consolidare una vera e propria signoria “ban-nale” sul borgo. L’intreccio di interessi, la compresenza di potenti signori laici (gli Isei) collegati alla città73, la proporzione economico-demografica del centro costituiranno i naturali anticorpi contro lo sviluppo di una solida signoria rurale centrata sulla figura del vescovo74.

Molto diverso il caso della signoria episcopale pisognese, sita a poca di-

(72) Tutta la produzione normativa urbana, così some i patti commerciali con Venezia, nel XIII secolo tendono ad attribuire ad Iseo il ruolo di nodo commerciale per lo smistamento delle merci ‘in entrata’ e ‘in uscita dalla valle’. In particolare il metallo ed il legname camuno in partenza da Pisogne vengono fatti confluire su Iseo e da qui, attraverso la Franciacorta, inviati al centro urbano. I patti commerciali Brescia-Venezia sono editi in L. sanDini, I patti di Venezia con Brescia (1252-1339), Brescia 1991.

(73) P. BianChi, Praeter placita... cit., pp. 40-60.(74) Per la ricostruzione delle vicende di Iseo tra XII e XIII secolo cfr. P. BianChi, Praeter

placita... cit., pp. 22-77.

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stanza dai villaggi delle signorie dei Brusati, adiacente ai territori di Pian Camuno, Lovere e Costa Volpino. In questo caso l’incisività del potere epi-scopale appare assumere proporzioni molto rilevanti e durevoli, mantenendo un rilevo economico, ma soprattutto giurisdizionale, insolito per il secolo XIII. Nel 1205 e nel 1206, come riporta l’Odorici in due documenti editi nelle Storie bresciane e recepiti anche da Menant75, troviamo in Pisogne una comunità organizzata che in parte recupera e affranca, in cambio di censi in denaro, diversi oneri dovuti all’episcopato. Ma sappiamo anche che il potere episcopale è tangibilmente presente nel villaggio attraverso l’investitura in favore della famiglia Avvocati di Brescia che, nello stesso periodo, rivestiva l’identico ruolo in Iseo. I tratti salienti della signoria episcopale su Pisogne, già descritti altrove76, possono essere rapidamente tratteggiati: diritti di alta e bassa giustizia, enorme possesso fondiario, estesissime facoltà fiscali, diretto controllo delle numerose strutture fortificate, diritti di decime che si allarga-no sul pievato e infine controllo politico diretto sugli uomini della comunità77 che, come si ricordava sopra, perdura in modo praticamente invariato per l’intero secolo XIII78. La fortissima presenza del vescovo in Pisogne aumenta di intensità gradualmente, salendo verso nord, mano a mano che diminuisce l’incisività del potere politico urbano. È importante inoltre ricordare che il potere episcopale si allarga anche sulle aree a diretto controllo bergamasco, coinvolgendo quei territori che, nel corso del XII secolo, non erano mai stati oggetto di contesa. Lovere e le aree immediatamente circostanti, infatti, ri-entrano nella gestione decimaria dell’episcopato bresciano ma, ciò che più conta, le aristocrazie loveresi ed in particolar modo la famiglia Celeri sono legate in importanti e durevoli relazioni vassallatiche con il vescovo di Bre-scia e, per diretta conseguenza coinvolte in reti di relazioni e scambi con le aristocrazie bresciane79.

Nel XIII secolo quindi il quadro politico della bassa Valcamonica appare strutturato attorno ad un esteso potere laico, che gradualmente sta giungendo ad una separazione dai rami familiari radicati in pianura, cui fa da contraltare

(75) Cfr. F. oDoriCi, Storie Bresciane... cit., VI, p. 25, 1205 dicembre 8, Investitura di beni episcopali da parte del vescovo. Si veda inoltre F. Menant, cit., pp. 497, 499.

(76) P. BianChi, Assetti politici... cit.(77) Per la struttura della signoria pisognese descritta nel designamento ordinato da Be-

rardo Maggi nel 1299, che non può essere affrontata nel dettaglio in questa sede, si rimanda alla trascrizione di Archetti, cfr. G. arChetti, cit., pp. 507-539.

(78) Importante segnalare, a critica della fonte, che il designamento da cui si desumono questi dati è rogato nel 1299 sotto l’energica signoria episcopale di Berardo Maggi che, senza dubbio, in quanto signore cittadino, pone l’accento sui tratti giurisdizionali e sui poteri coer-citivi dell’autorità episcopale, alterando almeno in parte la percezione della reale incisività del potere signorile.

(79) G. arChetti, cit., p. 516.

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un solido potere episcopale che controlla i punti cruciali della via di comuni-cazione acquatica tra monte e piano.

6. Il comune e la Valle nel XIII secolo

Come si ricordava in precedenza nel XII secolo è possibile riscontrare, per quanto riguarda i territori Camuni, un netto interessamento cittadino che proietta verso la bassa Valle Camonica clientele armate, presidi militari ma anche funzionari pubblici bresciani con funzioni giurisdizionali80 . È forse possibile affermare che, nel corso del XII secolo, se un limite geografico si può dare all’azione di Brescia verso la valle, il confine potrebbe essere posto immediatamente a sud di Breno, nei territori controllati dalla famiglia cit-tadina dei Brusati. Nel secolo XIII il quadro complessivo sembra mutare in modo significativo.

Probabilmente a causa del sorgere di una nuova identità camuna, collega-ta al ruolo di coordinamento della nascente famiglia Federici di Valcamoni-ca, l’integrazione tra valle e distretto bresciano va via via facendosi più labile e meno solida81. A questo sicuramente contribuì in modo sensibile l’aumento di conflittualità all’interno delle partes urbane in conflitto tra loro82, ma di certo il fattore determinante fu la presenza di una struttura aristocratica e di relazioni vassallatiche che sembrano gravitare in modo quasi esclusivo sulla valle ed in misura sempre minore verso la città. Nel XIII secolo, a riprova del progressivo “scollamento” tra la valle e la città si possono citare diversi casi di sollevazioni dei territori camuni, verso l’autorità cittadina83: Casi sempre

(80) Le attestazioni a tal proposito sono comunque frammentarie e poco numerose.(81) Per la storia della famiglia Federici nei secoli XIV-XV, cfr. I. VaLetti Bonini, cit., pp.

79-94 e 132-150.(82) Per il precoce avvio in Brescia delle lotte di parte cfr. J. koeniG, Il popolo dell’Italia

del Nord nel XIII secolo, Bologna 1986, pp. 421-430.(83) Tracce di rivolte camune, nel 1262, in ASMi, Perg. Fondi, S. Giulia cart. 85, “sub

millesimo CCXLII capta fuit terra de Yseo per comune Brixie et tunc dictus d. Dominicus erat et stabat in Valcamonica que erat rebellis comuni Brixie et stetit et habitavit usque sub millesimo CCXLIII”; M. De MoDoetia, Annales Placentini, in MGH, Scriptores, XVIII, Hannover 1863, p. 557; (1273) “De mense vero Marcii Valcamonica comune Brixie et regem Karolum rebellavit, ita quod 30 castra uno die se voluerunt, capientes Palmerium de Surexio qui erat pro domno legato in regimine dicte vallis”. Per la rivolta camuna del 1288 capeggiata dalla famiglia Federici, cfr. I. VaLetti Bonini, cit., pp. 18-21; A. Bosisio, cit., p. 690 fa riferi-mento alla rivolta della valle ed alla distruzione di Iseo ad essa conseguente, cfr. F. oDoriCi, Storie bresciane… cit., VI, pp. 234-240 e t. VIII, pp. 37-41. La rivolta sarebbe iniziata con la distruzione di Iseo da parte di uomini al comando dei Federici. La valle tornò sotto il controllo del comune di Brescia solo dopo la concessione di spazi d’autonomia all’area, retta da un proprio podestà. In occasione della vicenda il comune pose al bando perpetuo, oltre ai Federici, numerosi uomini di Breno, Cemmo e Malonno. Gli statuti vietano inoltre qualsiasi contatto commerciale con i valligiani, imponendo ai camuni fedeli a Brescia di presentarsi in

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risolti con il ripristino dello status quo, ma significativi di una volontà di au-tonomia che sopravviverà invariata e ricorrente nei secoli successivi84.

Non che Brescia si disinteressasse della Valcamonica. Ben consapevole del mai sopito interesse bergamasco verso la bassa valle la città si premurò, nel 1219, di definire nel dettaglio la natura del confine tra Brescia e Berga-mo collocato nei pressi dell’abitato di Volpino: l’atto che ridisegna il confine tratta chiaramente di giurisdizione sugli uomini e sulle terre e sancisce il principio, definito esplicitamente, della giurisdizione legata all’appartenenza territoriale85 arrivando a definire, nome per nome, gli uomini di origine ber-gamasca inseriti nella giurisdizione bresciana e viceversa i bresciani acqui-siti da Bergamo86, dimostrando una matura consapevolezza e una piena co-scienza dell’importanza di un pieno controllo giurisdizionale esteso alle terre e a tutti gli uomini che su di esse risiedevano, presupposto essenziale per il reale esercizio dell’autorità politica. Sulla scorta di tale definizione confina-ria venne redatto, il 23 luglio 1219, un nuovo trattato di pace intercittadino, nel quale, oltre a stabilire la costruzione di nuove reti viarie di collegamento tra le città, si determinava di raggiungere un compromesso accettabile anche per il castello camuno di Gorzone, che doveva essere diviso, alla stregua di quanto compiuto per Volpino, tra le due città87. I consigli cittadini di Berga-mo e Brescia confermavano l’accordo rispettivamente il 27 luglio88 ed il 14 agosto 121989.

L’incertezza del controllo urbano sulle terre camune però era destinata a permanere, al di là degli instabili accordi raggiunti con le autorità bergama-sche. Attorno agli anni ‘40 e ‘50 del XIII secolo vengono attuati dalla città di Brescia una serie di interventi molto significativi verso la valle Camonica, sempre nell’ottica della costruzione di un maggior controllo politico e milita-

città abbandonando la valle. Interessante sottolineare che l’esplosione dell’insurrezione col-pisce ancora una volta Iseo, percepito probabilmente come strumento urbano per il controllo della Valle. Si veda anche J. MaLVeCiJ, cit., coll. 259-260.

(84) Cfr. I. VaLetti Bonini, cit., pp. 94-177.(85) Liber potheris... cit., coll. 49-52, 1219 giugno 7.(86) Liber potheris... cit., coll. 51-52, è interessante notare che tra la popolazione pervenu-

ta in virtute Brixie è compreso almeno un aritocratico, Castello Celeri della famiglia Celeri di Lovere. I Celeri sono poi presenti, insieme a uomini di Pisogne e Fano tra i testimoni dell’atto: Ambrosius de Celerio e Ognabenus de Celerio. La procura agli ufficiali bresciani incaricati dal podestà Loterengo Martinengo di operare la divisione (1218 marzo 2) in Liber potheris... cit., coll. 113-114.

(87) Liber potheris... cit., coll. 117-118. La questione di Gorzone ricorre più volte nelle trattative di pace tra le due città, ma la natura del conflitto circa il possesso di questo villaggio non è nota. Si sa soltanto che anche il castello di Gorzone era stato, nel 1116, alienato dal Brusato in partenza per la Terrasanta., insieme agli altri beni camuni.

(88) Liber potheris... cit., coll. 114-116, la conferma bergamasca all’accordo.(89) Liber potheris... cit., coll. 52-57, la conferma bresciana all’accordo.

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re sul territorio. Nel 1249 il podestà Azzone di Pirovano interviene in valle, donando a teutaldo e Giovanni di donna Saporita e di teutaldo Pagnone di Montecchio, per loro e gli eredi, la completa immunità da qualsiasi imposi-zione fiscale. tale ricompensa è concessa per il servizio prestato al comune di Brescia “ad recuperando arce, et locum de montegio et reducendum in for-tiam potest. comunis brixie”90 ed esclude dall’esenzione, significativamente, i servizi militari che Giovanni e teutaldo erano tenuti a prestare nei confronti del comune di Brescia. L’atto permette di rilevare due dati significativi: in primo luogo si dà atto di una sollevazione in Valcamonica, non direttamente ricordata ma resa esplicita dalla necessità della riconquista della fortezza di Montecchio e della sua curia che, come si è visto, costituiscono nel XIII se-colo uno dei principali nuclei di potere dei Brusati-Federici, probabilmente in questo frangente ribelli al comune di Brescia. Inoltre appare chiaro che il recupero della importante fortezza non avviene in maniera diretta, il comune riottiene la potestà su Montecchio avvalendosi non di propri corpi di spedi-zione ma grazie all’intervento di elementi locali, probabilmente membri di aristocrazie minori in conflitto con la più importante consorteria dei Federici. Sempre nell’ottica dell’affermazione di un controllo del territorio il comune di Brescia, che tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60 del XIII secolo appare impegna-to in un titanico sforzo di razionalizzazione delle giurisdizioni territoriali, rilascia, circa un mese dopo, una nuova concessione di immunità, ancora in favore del territorio di Montecchio. Questa volta l’esenzione dai dazi è rivolta a tutta la curia di Montecchio che, si scopre, comprende oltre a Montecchio le comunità di Darfo, Gianico, Corna e Bobiano. La concessione, rilasciata dai funzionari urbani Piurdo de la Nuce e Bonaventura Musca, è relativa a impo-sizioni di carattere fiscale da cui si esentano le comunità in questione al pari delle altre terre franche bresciane, equiparando la curia di Montecchio ad un quartiere della città di Brescia91. Di fatto Brescia, in quest’area insidiata dalla presenza bergamasca, soprattutto nei pressi di Volpino e Gorzone, e dalla bellicosità delle principali dinastie aristocratiche, cerca di creare e consolida-

(90) Liber potheris... cit., coll. 303, 1249 luglio 20. La data, così come sciolta dal trascrit-tore del Liber risulta errata.

(91) Liber potheris... cit., coll. 302-303, 1249 agosto 20. Nell’edizione la data del docu-mento è sciolta come 1248 dicembre 12, ma si tratta evidentemente di una svista in quanto la data 1248, pur presente nel documento, è da riferirsi ad un atto notarile rogato da Pace Arlotti di Iseo e citato nel dispositivo dell’atto, mentre la data del documento in analisi è contenuta nell’escatocollo. Per la particolare propensione bresciana alla concessione di franchige e alle nuove fondazioni cfr. P. GriLLo, La politica territoriale delle città e l’istituzione di borghi franchi: Lombardia occidentale e Lombardia orientale a confronto (1100-1250), in Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), Atti del Convegno, Cherasco 10 giugno 2001, a cura di r. CoMBa e F. Panero, Cherasco-Cuneo 2002, pp. 45-97.

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re isole di fedeltà urbana a scapito delle clientele e dei poteri signorili locali. E lo fa adottando il consueto metodo bresciano: la città infatti, sprovvista di una sistematica politica circoscrizionale sul distretto92, interviene nelle aree critiche emanando privilegi o insediando colonie militari immuni che fungano da punti chiave per il controllo del territorio. Questo tipo di politica, probabilmente dettata anche dalla vastità del territorio, è però sintomo di una ancora labile affermazione sulle periferie del distretto, soprattutto lungo le zone di confine e nei territori sottoposti a energiche dominazioni signorili non integrate nel comune.

Non è quindi un caso che nel 1255, ancora una volta, la città di Brescia dopo l’ennesima occupazione bergamasca ed una nuova riconquista (1251), accogliendo la richiesta delle comunità di Volpino, Fano a Rogno, cioè di tut-ti i comuni siti lungo la sponda occidentale del fiume da Darfo a Lovere, con-cedesse l’edificazione di una terra franca con espliciti scopi difensivi93. La costruzione del nuovo villaggio avvenne su terra di proprietà del comune di Brescia, in una posizione in rilievo94. La concessione delle terre per l’erezione del nuovo insediamento avvenne tramite una concessione feudale inalienabi-le in favore di ciascun abitante e vietava in modo tassativo l’insediamento di qualsivoglia persona proveniente dalla bergamasca95. In conseguenza della costruzione della terra franca si ingiunse inoltre che i comuni che si univano nel nuovo borgo fossero reduti ad inseparabilem unionem. A sovrintendere i lavori intervenivano i funzionari cittadini e si proibiva a chiunque, eccezion fatta per le opere difensive ed il castello, di elevare edifici ultra sex punctos.

(92) Diversamente da quanto attuato da altre realtà vicine, come Bergamo, Milano o Vero-na che costruiscono ripartizioni relativamente ordinate per il distretto, di norma collegate ai quartieri o alle porte cittadine. Queste circoscrizioni hanno valenza amministrativa, militare e fiscale. Brescia si dota di distrettuazione per il condado (le quadre) solo verso la fine del secolo XIV.

(93) 1255 agosto 20. La terra franca è costruitra pro manutenimento et defensione illius contrate et iuris communis Brixie, cfr. Liber potheris... cit., coll. 855-857. L’ultimo conflitto con Bergamo, in seguito al quale Brescia perviene a una nuova, precaria, pace nel 1251 ha, tra i vari moventi, ancora la questione del castello di Volpino. Bergamo infatti, che a quanto lasciano intuire i documenti attorno al 1250, forse in occasione delle sollevazioni del 1249, ha rioccupato e fortificato Volpino, decide di abbattere le fortificazioni e una volta portate via tutte le cose utili che qui si trovano lasciarlo ai bresciani. Cfr. Liber potheris... cit., coll. 679-681, 1251 maggio 5, “Dictum autem suprascripti domini belfantis antianis super facto bulpini tale fuit. Videlicet quod unius frater humiliatus et unius notarius pro comuni pergami vadant ad Vulpinum ad ponendum infrascriptis omnes res utiles que sunt in ipso castro et ipsis scriptis et positis ad salvum faciendum non custodiatur postera ipsum castrum pro co-muni Pergami, sed destruatur laborerium ibi factum et reducatur ad eum statum in quo erat ante tempore presentis guerre”.

(94) La costruzione del villaggio avviene super cornu blancho.(95) “Et tali tenore quod nullus bergamensis recipiatur ad habitandum in illa terra”.

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La spesa per l’edificazione del nuovo villaggio venne imputata all’intera Val-camonica da Pisogne a Dalegno, dando in cambio all’intera valle un anno di esenzioni fiscali.

È probabilmente questo intervento volto al consolidamento della autorità bresciana a provocare una nuova esplosione delle controversie con Bergamo per il controllo del castello di Volpino. Gli scontri, di cui non è dato cono-scere entità e portata, dovettero durare pochi mesi se già il 23 ottobre 1255 il consiglio di Brescia autorizzava il podestà Inzellino Marcellino a recarsi a Volpino per incontrare i rappresentanti di Bergamo e risolvere, se possibi-le, la ormai secolare questione96. Il 15 novembre quindi si incontrarono per medio ruine de pisoneis97 i rappresentanti delle comunità urbane alla pre-senza della principale aristocrazia di questi territori98. Erano presenti all’atto d. Rogerio del fu Ardizone di Sovere, d. Oberto fu d. Mazonero di Plevico, Melerino fu Mestrale de Celeriis di Lovere, Bellotto e Alberto fu Giacomo Celeri di Lovere e d. Bellotto fu d. Federico di Montecchio, oltre ad alcuni funzionari urbani: ancora una volta quindi il documento, che riguarda for-malmente le due città, in realtà vede coinvolte le principali famiglie della bassa valle: i da Sovere, i Celeri di Lovere ed i Federici che presenziano in qualità di principali testimoni all’atto. Partendo dai compromessi raggiunti con gli atti del 1219, gli inviati delle due città stabilirono nuovamente il confi-ne tra i diversi distretti, ponendo questa volta quattro termini99 lapidei segnati con una croce che tutti i contraenti si impegnano formalmente a rispettare. Si giungeva quindi a un nuovo equilibrio che, almeno questa volta, pare defi-nitivo e che non poté non riguardare le locali aristocrazie che, senza dubbio, erano, insieme alla insidiosa presenza bergamasca, la principale preoccupa-zione del comune di Brescia. Il senso della nuova fondazione infatti, oltre ad un ovvia funzione militare anti bergamasca, era quello di spopolare Rogno, Fano e Volpino, indebolendo le locali aristocrazie e svuotandole di uomini, clientele e proventi fiscali. Il tutto era reso appetibile dalla gratuità della terra concessa a spese dell’intera valle, arricchita dall’insediamento in loco di un mercato e di due mulini. Questo anche ricordando che le immunità concesse a Montecchio per l’azione svolta contro i Federici, non dovevano aver sortito l’effetto desiderato, se si considera che, come ricordato sopra, d. Bellotto del fu Federico di Montecchio interviene in qualità di testimone di prestigio alla

(96) Liber potheris... cit., coll. 848-849, 1255 ottobre 23.(97) L’atto è rogato tra le macerie di Pisogne, indice evidente di una attività bellica che

interessa ancora una volta la bassa valle Camonica, coinvolgendo in questo caso anche il centro della curia episcopale.

(98) Liber potheris... cit., coll. 849-850.(99) In sostanza due cippi in pietra.

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ridefinizione dei confini tra Brescia e Bergamo.È senza dubbio possibile affermare che, oltre alla situazione determinata

dalle contese giurisdizionali su questi territori, a complicare il quadro com-plessivo concorreva anche la posizione ambigua delle locali aristocrazie. tra queste in particolare la famiglia Celeri di Lovere, che si affaccia, almeno a livello documentario, sullo scenario camuno un paio di decenni dopo i Fede-rici. La casata Celeri, il cui apogeo sarà toccato soprattutto a partire dal se-colo XIV e XV, appare, già a partire dalla metà del XIII secolo, strettamente collegata all’episcopato bresciano e con interessi sparsi tra i territori di Lo-vere e le aree attualmente comprese nel comune di Costa Volpino. Le decime vescovili bresciane infatti, di cui si ha un quadro sufficientemente chiaro solo nella seconda metà del secolo XIII, si estendevano nei territori bergamaschi, in particolare su Lovere, affidate alla locale chiesa di S. Giorgio100. Grazie a queste proprietà l’episcopato bresciano costruì una serie di rapporti, spesso molto durevoli, con le aristocrazie loveresi ed in particolare con i Celeri di Lovere, che trarranno dal rapporto con il vescovato di Brescia occasioni di affermazione sociale ed economica, spostando il proprio baricentro politico verso la Valcamonica ed il bresciano101.

(100) ASBs, Fondo Rel., b.173, 1252 luglio 17, (copia autentica del secolo XVI) Lovere, in coro ecclesie beati Georgi de ipso loco Luere. Alla presenza di Redolfo de Celeri, Robaca-stello del fu Oddone dei Capitani di Sovere, Lanfranco del fu domino Ambrosio e dei con-fratelli della chiesa di S. Giorgio di Lovere. Codeferro detto Panatia figlio del fu Lanfranco Pizapochi di Lovere viene investito dai confratelli della chiesa di S. Giorgio, ereditariamen-te, della decima, di proprietà dell’episcopato bresciano, che si riscuote su una serie di pezze di terra in Lovere. Tra le coerenze delle tre pezze di terra sono menzionati i Federici, i Celeri, i capitani di Sovere e i da Mozzo.

(101) Alcuni riferimenti a investiture del XIV secolo in favore dei loveresi sui territori oggi in Costa Volpino in ASBs, Fondo Rel., b.1, t.1, f° LXXXVv-LXXXVIr; 31 luglio 1339, Brescia. Giacomo vescovo di Brescia investe Malesardo figlio di Alberto di Alberto del fu ser Giovanni Caligari di Lovere, per se ed i suoi fratelli, di una serie di frazioni di diritti decimari in Volpino (diocesi di Brescia ma distretto di Bergamo), precedentemente concessi alla famiglia Celeri di Lovere, vassalli vescovili e ormai frammentata in un pulviscolo di frazioni tra i vari discendenti della casata Loverese; ASBs, Fondo Rel., b.1, t.1, f° LXXXVIr, 1339 agosto 5, Brescia, Il vescovo investe in feudo onorevole Apollonio fu Maffeo Celeri di Lovere di 1/8 delle decime spettanti all’episcopato in Volpino, Avostino e Batpanico; ASBs, Fondo Rel., b.1, t.1, f° LXXXVIv, Brescia, Il vescovo investe in feudo onorevole Quilino fu Bedino Celeri di Lovere a nome suo e dei suoi parenti, di due degli ottavi in cui sono divise le decime di Volpino, Avostino e Batpanico, che erano sempre state dei loro avi, per il censo annuo di 12 imperiali. L’alta frammentazione delle concessioni porta ad ipotizzare che i Celeri detenessero la concessione delle decime da almeno due o tre generazioni. I registri di investiture episcopali contengono diversi riferimenti ad investiture, anche esterne alla bassa Valcamonica, in favore dei Celeri nei secoli XIV-XV. Nello stesso registro ASBs, Fondo Rel., b.1, t.1, f° LXIIIv, 1336 ottobre 16 l’investitura delle decime di Fano, Castelfranco e Rogno in favore di Castellino del fu Lamberto e Bernerio del fu Giacomo di Erbanno.

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Conclusioni

Negli ultimi due decenni del secolo XIII la situazione in bassa Valle Ca-monica pare ben lontana da una coerente definizione territoriale e da una definitiva pacificazione e inquadramento politico. Le burrascose vicende di questo periodo possono essere agevolmente seguite tramite le ricostruzioni storiche che il Putelli, attraverso la documentazione del deperdito, Codex Federicianus, cartulario contenente copie di documentazione camuna perti-nente alla famiglia Federici. Poche altre fonti sono reperibili, in relazione a questi territori verso la fine del secolo102.

Se, prescindendo dai grandi eventi politico-militari, ci si sofferma rapi-damente ad esaminare la composizione delle aristocrazie camune negli ul-timi anni del secolo XIII, soprattutto attraverso le sottoscrizioni degli atti del Codex Federicianus riportate dal Putelli e dall’Odorici continua ad ap-parire evidente la commistione tra elementi bergamaschi che si intersecano alle aristocrazie camune, strutturate in gran parte attorno alla consorteria dei Federici e a quella più minuta dei Celeri loveresi103. Così come evidente è la stretta relazione che tutti i territori della bassa valle intrattengono, a livello economico così come a livello di rapporti e alleanze, con i territori bergama-schi. La soluzione delle controversie di fine secolo XIII, in una situazione di forte crisi politica del comune di Brescia, che condurrà all’affermazione del potere signorile visconteo (1331), non portò di fatto ad una nuova integra-zione della Valcamonica all’interno della dominazione urbana e, pur soprav-vivendo sempre un formale rapporto tra la valle ed il distretto bresciano, la Valcamonica si evolverà gradualmente in un corpo separato, dotato di propri ordinamenti e di un particolare status fiscale104, divenendo inoltre piuttosto riottosa alla sudditanza nei confronti del potere signorile episcopale che si fa,

(102) r. PuteLLi, Intorno al castello di Breno. Storia di Valle Camonica, lago d’Iseo e vicinanze da Federico Barbarossa a S. Carlo Borromeo, Breno 1915, riporta numerosi docu-menti dello smarrito Codice Federiciano e fornisce dati cruciali per le vicende camune degli ultimi anni del secolo XIII.

(103) L’insurrezione camuna contro Brescia, esplosa in valle nel 1287, trova i propri capo-fila nelle famiglie Federici e Celeri, cfr. R. PuteLLi, cit., pp. 139; contro gli insorti ghibellini Brescia emanò un bando poi trascritto negli statuti urbani. La rivolta della valle continua nonostante le numerose spedizioni armate di truppe cittadine contro i castelli di Gorzone e Cimbergo, apparentemente prive di concreti riscontri politici. All’atto di pacificazione, redatto grazie all’intervento arbitrale del milanese Matteo Visconti, intervennero per parte camuna Lanfranco fu d. Bellotto Federici di Montecchio insieme al figlio Terracino a nome loro e di tutta la loro casata e dei loro alleati camuni, d. Oldofredo Celeri, Teutaldo del fu Bellotto Celeri, Maffeo fu Alberto Celeri, e Fedregino fu Guidizzone di Castro a proprio nome e a nome degli alleati della loro casata, bresciani e bergamaschi.

(104) i. VaLetti Bonini, cit., pp. 94-115.

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soprattutto nei suoi elementi signorili, sempre più debole e poco incisivo105.Le premesse a questi avvenimenti ed alle successive evoluzioni si trovano

facilmente ripercorrendo rapidamente le tappe affrontate nei paragrafi pre-cedenti. A partire da una situazione di forte complicazione giurisdizionale, qual è quella dei secoli a cavallo del mille, si afferma tra XI e XII secolo nella bassa valle una specifica dominazione signorile di origine bergamasca, ma saldamente legata alle istituzioni, episcopali prima e poi cittadine, di Bre-scia.

Nel corso del XII secolo è proprio la famiglia Brusati, con le cessioni in favore di grandi famiglie bergamasche ad avviare una complicata contesa giurisdizionale circa i castelli della bassa valle che, pur paventando ragio-ni di pura tutela dei possessi allodiali, assume nei fatti una valenza politica ed un tentativo bergamasco di allargare la sfera d’azione politico-economica verso la Valcamonica. I tentativi bergamaschi rimangono senza successo per l’intera età comunale e la città di Brescia riesce,a più riprese, a riprendere il pieno controllo sui castelli della bassa valle. Questa capacità va cercata senza dubbio nello stretto legame esistente con le principali forze politiche camune: da un lato i Brusati che controllano l’imbocco della valle con solidi poteri signorili in Piancamuno, Qualino, Ceretello, Volpino, Artogne, Mon-tecchio, Darfo, Gorzone e più su verso il cuore dela valle. Dall’altro il potere episcopale che, quasi certamente, nel XII secolo controlla le signorie lacustri di Pisogne e Iseo, oltre a numerose altre curie nel cuore della valle. Questo doppio collegamento di fatto consente alle istituzioni urbane di mantenere un certo controllo sulla valle fino alle soglie del XIII secolo. Controllo probabil-mente rivolto, oltre che al mero presidio militare anche all’affermazione di prerogative giurisdizionali e fiscali nei territori camuni.

Con il XIII secolo il quadro d’insieme muta radicalmente. Da un lato la famiglia Brusati si scinde in due rami: quello dei Brusati, che mantiene le proprietà in pianura e nel pedemonte continuando il tradizionale rapporto con la città. Dall’altro quello dei Federici collegato alle proprietà camune e insediato principalmente nei centri di Breno e Montecchio. Il nuovo ramo Federici, mosso da motivazioni politiche diverse, senza dubbio parzialmen-te collegate alle lotte di parte che sconvolgono il distretto bresciano, avvia politiche di affermazione “dinastica” che cavalcano le spinte autonomistiche della valle e si concretizzano in continue rivolte che, a cadenza quasi decen-nale, sconvolgono la Valcamonica.

Le soluzioni prospettate da Brescia, che tra l’altro deve anche confrontar-si continuamente con l’invasività bergamasca, paiono di scarsa efficacia. Le

(105) i. VaLetti Bonini, cit., pp. 73-78.

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azioni militari, il tentativo di fomentare una fazione avversa ai Federici e la costruzione di un borgo franco nell’area di principale conflitto, a detrimento sia della nobiltà camuna che delle aspirazioni bergamasche non si conclude con risultati degni di nota. La potenza dei Federici e della famiglia berga-masca dei Celeri sull’intera valle ed in particolare sull’area meridionale pare crescere negli anni fino ad imporre, a fine XIII secolo condizioni di pace fortemente penalizzanti per la città.

Il comune di Brescia, che fatica a tener legata a se la valle, mantiene un rapporto con i territori camuni grazie alla forte presenza episcopale, soprat-tutto nel periodo della dominazione di Berardo Maggi. Ma la relazione con la valle avviene sempre meno in maniera diretta, attraverso la mediazione di elementi signorili che costituiscono il tramite per l’esercizio di un con-trollo politico su questi territori alpini, in misura crescente man mano che si sale verso nord. E anche quando, ad esempio, Brescia tenta di sottrarre al controllo episcopale Pisogne, ponendovi esponenti della famiglia Brusati e cercando probabilmente di ottenere controllo diretto sul porto settentrionale del Sebino con le sue fortificazioni, questo avviene sempre per mediazione aristocratica106.

Contrariamente il comune di Bergamo, pur vedendo fallire i tentativi di affermazione egemonica, non pare mai aver problemi nel controllo delle giu-risdizioni in bassa valle107. Per essendo la loverese famiglia Celeri orienta-ta verso interessi e rapporti vassallatici sui territori camuni e bresciani non sembra che Bergamo incontri difficoltà nel controllo dei paesi dell’alto lago: a fine XIII secolo Lovere, Castro e Solto paiono pienamente integrati nella giurisdizione urbana bergamasca, questo forse per la maggiore integrazione nei confronti delle proprie aristocrazie ma, probabilmente, anche grazie ad un più solida ed affinata macchina amministrativa che consente alla città orobica una gestione più ferma e meno conflittuale di questi territori108.

(106) Crf. J. MaLVeCiJ, cit., coll. 939.(107) In realtà Bergamo otterrà un piccola espansione giurisdizionale verso gli attuali ter-

ritori di Costa Volpino, nel XIV secolo inquadrati nella virtus pergami.(108) Questo disciplinamento è intuibile dalle imposizioni di carattere fiscale e dei servizi

cui sono costrette le comunità dell’alto lago da parte del comune di Bergamo, cfr. P.G. noBiLi, Nel comune rurale del Duecento. Uso delle scritture, metodi di rappresentanza e forme di percezione di sé delle comunità del contado bergamasco lungo il XIII secolo, in “Bergo-mum”, n. 103, 2008, pp. 23-24, 31.

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Gian Paolo G. Scharf

LA DIFESA DELLA PROPRIEtà NEGLI StAtUtI MEDIEVALI DELLA MONtAGNA BERGAMASCA

1. Le origini e gli statuti dei comuni rurali: gli intrecci di due temi nella storiografia

Parlare delle comunità rurali e dei loro statuti vuol dire affrontare due temi di differente fortuna storiografica: i comuni rurali ebbero notevole spa-zio nel dibattito storiografico di alcuni decenni fa, soprattutto relativamente al periodo delle origini, e, dopo un periodo di disinteresse, solo in tempi recenti sono oggetto di una rinnovata attenzione. L’interesse per gli statuti rurali invece si può dire non sia mai venuto meno, e non solo a livello locale, anche per la convergenza sulla materia di studiosi di differente formazione, come per esempio storici della società e storici del diritto1.

È comunque assai vasta la riflessione storiografica su tali temi, e ciò ci esime dal dilungarci in una rassegna che si può trovare nei contributi più aggiornati. Bisogna però aggiungere che nello specifico la situazione del con-tado bergamasco è piuttosto buona, dato che la presenza di numerosi statuti rurali e di una radicata tradizione di studio delle comunità ha prodotto non solo molteplici edizioni di fonti, ma anche lavori di analisi di indubbio valore, che indicano soprattutto nella tradizione di autonomia le radici di un’attività

(1) G.P. BoGnetti, Sulle origini dei comuni rurali del Medioevo: con speciali osserva-zioni pei territorii milanese e comasco, voll. X-XI degli “Studi nelle Scienze giuridiche e sociali”, 30, Pubblicazioni della R. Università di Pavia, Pavia 1926, ripubblicato in iD., Studi sulle origini del comune rurale, a cura di F. sinatti D’aMiCo e C. VioLante, Milano 1978, pp. 1-262, F. sChneiDer, Le origini dei comuni rurali in Italia, Firenze 1980, Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, a cura di L. ChiaPPa Mauri, Bologna 2004. G.S. Pene ViDari, Introduzione al Catalogo della raccolta di statuti, consuetudini, leggi, decreti, ordini e privilegi dei comuni, delle associazioni e degli enti locali italiani dal Medioevo alla fine del secolo XVIII, vol. VIII, Firenze, 1999, pp. XI-XCV; Statuti città e territori in Italia e Germania tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. ChittoLini e D. wiLLoweit, Atti della XXX Settimana di studio, Trento 11-15 settembre 1989, Bologna 1991, e particolarmente G. ChittoLini, Statuti e autonomie urbane. Introduzione, ivi, pp. 7-45; C. storti storChi, Note introduttive a eaD., Scritti sugli statuti lombardi, Mi-lano 2007, pp. VII-XLIII. Esempi di incrocio dei due temi Le comunità rurali e i loro statuti (secoli XII-XV), atti dell’VIII Convegno del Comitato Italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative, Viterbo 30 maggio – 1 giugno 2002, numero monografico della “Rivista Storica del Lazio”, nn. 21-22, 2005-06, e Statuti rurali lombardi del secolo XIII, a cura di L. ChiaPPa Mauri, Milano 2004.

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legislativa che ha pochi paragoni per numero di testimoni superstiti2.Il nostro tentativo di incrociare i due temi è parzialmente inedito, dato

che a prima vista gli statuti potrebbero sembrare una fonte poco adatta per indagare le origini della comunità, poiché in genere la loro codifica si si-tua a uno stadio avanzato di sviluppo della stessa. In realtà a un’analisi più attenta gli statuti rurali in genere, e particolarmente quelli della montagna bergamasca, si rivelano non solo particolarmente stratificati, ma anche piut-tosto conservatori nella loro evoluzione, preferendo evolversi per addizione o rifusione piuttosto che per sottrazione. Il punto allora è semmai di riuscire a scavare all’interno di tali testi complessi per riportare alla luce gli strati più risalenti. È chiaro tuttavia che in generale, anche nei testi più risalenti, potremo riuscire a riportare a galla solo le norme di più antica scritturazio-ne, che dunque rimandano al più ai primordi dell’istituzionalizzazione dei comuni rurali, al fecondo Duecento nel quale fu messa per iscritto la base di molti degli statuti conservati. Resta comunque fuori il periodo precedente, nel quale la fissazione delle norme non aveva ancora raggiunto la scrittura. Non è però impossibile ipotizzare, come vedremo subito, che dietro a esse in particolari materie, quelle che costituirono le prime preoccupazioni del na-scente comune, si possano nascondere consuetudini più antiche, di non facile decifrazione. Non pretendiamo naturalmente con queste poche note di poter effettuare uno scavo di così ampia portata, ma solo di suggerire alcune piste di indagine che andranno approfondite in futuro3.

(2) Vedi le recenti sintesi di M. asCheri, Agli albori della primavera statutaria, in Il diritto per la Storia. Gli studi storico giuridici nella ricerca medievistica, relazioni tenute il 21-2 maggio 2007 nell’ambito della II settimana di studi medievali dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, a cura di E. Conte e M. MiGLio, Roma 2010, pp. 19-33, e C. storti, Gli statuti tra autonomie e centralizzazioni nel Medioevo, ivi, pp. 35-52; inoltre G. ChittoLini, A proposito di statuti e copiaticci, jus proprium e autonomia.Qualche nota sulle statuizioni delle comunità non urbane nel tardo medioevo lombardo, in Dal Dedalo statua-rio, Atti dell’incontro di studio dedicato agli statuti, Centro seminariale Monte Verità, 11-13 novembre 1993, numero monografico di “Archivio storico ticinese”, n. 32, 1995, pp. 171-192. Sulla situazione bergamasca vedi M. Cortesi, Statuti rurali e statuti di valle. La provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII, Fonti per lo Studio del territorio Bergamasco, III, Berga-mo 1983, G. ChittoLini, Legislazione statutaria e autonomie nella pianura bergamasca, in Statuti rurali e statuti di valle. La provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII, a cura di M. Cortesi, Fonti per lo Studio del territorio Bergamasco, V, Bergamo 1984, pp. 93-114, G.M. Varanini, La tradizione statutaria della Valle Brembana nel Tre-Quattrocento e lo statuto della Valle Brembana superiore del 1468, in Gli statuti della Valle Brembana Superiore del 1468, a cura di M. Cortesi, Fonti per lo Studio del territorio Bergamasco, Statuti II, Bergamo 1994, pp. 13-62, P.G. noBiLi, Vertova. Una comunità rurale nel Medioevo, Firenze 2009, G.P.G. sCharF, Gli Statuti duecenteschi di Vertova e Leffe, in Statuti rurali lombardi... cit., pp. 91-104.

(3) Vedi, per alcuni riusciti tentativi di incrocio dei due temi, la bibliografia citata alla nota 1, a cui aggiungere P. touBert, Les statuts communaux et l’histoire des campagnes

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2. La stratificazione negli statuti rurali della montagna bergamasca: il dan-no dato come chiave interpretativa

Possiamo quindi dare per assodato che la parte sicuramente più antica degli statuti – compresi quelli cittadini – è quella che consiste nel giuramento dei rettori, a cui spesso faceva da pendant un simile giuramento prestato dalla comunità ai rettori medesimi. Come faceva notare Mario Ascheri, una simile precedenza cronologica è ampiamente spiegabile per il fatto che uno dei motivi che spinsero le comunità a mettere per iscritto i loro primi regola-menti fu proprio quello di avere un testo già pronto e uniforme da far giurare agli officiali, per evitare la possibilità di fraintendimenti4.

Seguendo un suggerimento di Bognetti, mezzo secolo fa Pierre toubert indicava nello sfruttamento dei beni comuni uno dei motivi costitutivi del comune rurale. Da allora l’argomento è stato discusso e ripreso in varie oc-casioni, ma ci sono ancora punti da chiarire: in particolare ci si aspetterebbe di trovarlo proprio nelle parti più antiche degli statuti conservati, che come abbiamo detto consistono in primo luogo nei giuramenti dei rettori (ma non solo); è poi da verificare il rapporto di questo aspetto con quello contiguo della difesa della proprietà dei vicini, che dovette costituire la seconda pre-occupazione dei giovani comuni rurali. Se poi ci si sofferma sui beni comuni il dibattito è ancora più ampio, dato che il loro sfruttamento comportò l’ado-zione di specifiche linee politiche da parte dei comuni. Indubbiamente qui su-bentrano anche altri problemi, originati dalla composizione degli stessi beni e dai metodi della loro suddivisione e fruizione da parte dei privati5.

lombardes au XIV siècle, in “Mélanges d’archeologie et d’histoire”, n. 72, 1960, pp. 398-508. Questi temi si trovano esaurientemente affrontati in M. asCheri, Législation et coutumes dans les villes italiennes et leur “contado” (XIIe-XIVe siècles), in La coutume au village dans l’Europe médiévale et moderne, éd. Réunies par M. Mousnier et J. PouMarèDe, Toulou-se 2001, pp. 73-92 (ora anche in M. asCheri, Giuristi e istituzioni dal medioevo all’età mo-derna (secoli XI-XVIII), Stockstadt am Main 2009, pp. 103-22), G.P. Massetto, Le fonti del diritto nella Lombardia del Quattrocento, in Milano e Borgogna: due stati principeschi tra Medioevo e Rinascimento, Atti del Convegno tenuto a Milano dal 1 al 3 ottobre 1987, a cura di J.-M. CauChies e G. ChittoLini, nella collana “Biblioteca del Cinquecento”, n. 47, Roma 1990, pp. 49-65, Statuti del Verbano, atti della giornata di studio, Centro Culturale Elisarion, Minusio, 8 novembre 2003, a cura di F. Ferri, Varese 2006.

(4) M. asCheri, Législation... cit., P. touBert, cit.(5) G.P. BoGnetti, Sulle origini... cit., P. touBert, cit.; sui beni comuni oltre a M. VaL-

Lerani, Le comunanze di Perugia nel Chiugi. Storia di un possesso cittadino fra XII e XIV secolo, in “Quaderni Storici”, n. 81 (1992), pp. 625-52; iD., Il Liber Terminationum del Comu-ne di Perugia, in “Mélange de l’Ecole Française de Rome. Moyen Âge – Temps modernes”, n. 99, 1987, pp. 649-99, si vedano le recenti messe a punto di Rao, che contengono anche una bibliografia aggiornata: R. rao, Comunia: le risorse collettive nel Piemonte comunale, Milano 2008; iD., I beni del comune di Vercelli. Dalla rivendicazione alla alienazione (1183-1254), Vercelli 2005.

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Quello che restringe il campo di indagine è il fatto che nel caso della montagna bergamasca i beni comuni erano normalmente formati da alpeggi, quando compaiono negli statuti, dato che le terre meno marginali erano state presto messe a coltura, in genere con concessioni livellarie a privati e senza arrivare alla completa alienazione da parte dei comuni. Anche così i problemi rimasti da analizzare non sembrano pochi, a cominciare dal nodo connesso con le origini di tali complessi. Per la montagna bergamasca tuttavia si può ragionevolmente ipotizzare che il primitivo possessore di questi comples-si fosse il vescovo, sia per la particolare evoluzione della signoria rurale in questa zona, sia per le più tarde attestazioni di signoria vescovile, residuale nel trecento ma ancora non formalmente scomparsa, come prova il fatto che spesso i comuni pagassero specifici censi al presule per la concessione di determinati territori (e in alcuni casi di interi monti)6.

Poste queste premesse possiamo provare a verificare sugli statuti rurali l’importanza e lo spazio dedicato alla difesa della proprietà, aprendo il di-scorso con i beni comuni e allargandolo quindi ai danni dati, che ci sembra un argomento che ci sembra contiguo ma finora poco studiato. Seguiremo le suggestioni di un importante lavoro di Pierre toubert, sempre valido anche se datato7.

3. La difesa della proprietà nei cinque statuti di Vertova, Leffe, Averara, Valgoglio e Gromo

Non potendo allargare il confronto indefinitamente abbiamo scelto di analizzare cinque statuti di diversa cronologia e complessità, anche se tut-ti editi e quindi di relativamente facile reperimento. Si tratta degli statuti duecenteschi di Vertova e Leffe, di quello trecentesco di Averara, dei due di Valgoglio e Gromo, di epoca veneta; le nostre sono indicazioni cronologiche generiche, dato che i testi ci sono giunti in redazioni che rendono difficile una datazione precisa. Dimensioni e complessità degli statuti tuttavia non sono

(6) P.G. noBiLi, Vertova... cit., G.P.G., sCharF, L’autonomia “alla prova del fuoco”. Ber-gamo di fronte alle sue valli nella gestione dei diritti minerari dal XIII a metà del XIV secolo, in “Quaderni di Archivio Bergamasco”, n. 1, 2007, pp. 13-29. Sulla situazione della signoria vescovile e sulle altre signorie ecclesiastiche della bergamasca, oltre al necessario rimando alla Storia Economica e Sociale di Bergamo, I primi millenni, II, Il comune e la signoria, Bergamo 1999, occorre segnalare una tesi di dottorato, condotta, fra le altre fonti, sui cospicui libri censuali dell’episcopato: F. MaGnoni, Il capitolo cattedrale di Bergamo nel XIV secolo, tesi di dottorato, XXIII ciclo, Università degli Studi di Milano.

(7) P. touBert, cit. Abbiamo già svolto alcune delle considerazioni che seguono in G.P.G. sCharF, Autonomia legislativa: tre ordinamenta quattrocenteschi di comunità rurali varesi-ne (Cossano 1474 – Runo 1475 – Arcisate 1481), in Varese e il suo territorio nelle fonti tardo medievali e moderne (XIV-XVIII secolo), a cura di iD., Varese 2010, pp. 113-138.

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direttamente legate – come si potrebbe pensare – alla loro antichità, dato che il più corto e semplice dei cinque è quello di Averara (composto da 29 arti-coli), seguito da quello di Leffe (di originari 76 articoli, 25 dei quali tuttavia perduti), quindi quelli di Valgoglio (102), Vertova (120), Gromo (141). Solo quest’ultimo mostra – sull’esempio urbano – la suddivisione tipica in colla-tiones, che sottintende una certa riorganizzazione della materia. La prima osservazione che si può fare è sullo spazio che materialmente la difesa della proprietà occupa nei singoli testi, dato che essa fornisce spunti interessanti. Dobbiamo tuttavia anticipare che ci siamo limitati per questioni di congruità alla sola proprietà fondiaria, escludendo dunque vie, molini e folli, che pure in alcuni casi costituivano una parte rilevante (almeno dal punto di vista del valore) dei beni comuni. Risulta dunque che lo spazio minore è riservato a tale materia nello statuto di Valgoglio, dove i nove articoli dell’argomento costituiscono appena l’8,8 % del totale; relativamente più ampio lo spazio dello statuto di Gromo, dove i ventiquattro articoli costituiscono il 17 % del totale; vicina la situazione di Averara, dove i soli sei articoli sono tuttavia una porzione abbastanza ampia di un testo stringato (20,7 %); altre percentuali danno invece i casi di Vertova (41 articoli, per una percentuale del 34,2 %) e Leffe (35 articoli, cioè il 46,1 %, anche se data la lacuna è possibile ipotizzare un’incidenza anche maggiore)8.

Da queste cifre risulta chiaro che lo spazio dedicato alla difesa della pro-prietà non è più ampio negli statuti più complessi, bensì in quelli più antichi. In essi poi, come vedremo, le norme si susseguono in una accumulazione che rende ben chiara la stratificazione dei testi. In effetti poi la questione della priorità cronologica non è così semplice: anche gli statuti che ci sono giunti in redazioni più recenti quando riportano il giuramento del rettore (che cor-risponde, come abbiamo detto, alla parte più risalente) trattano della materia fra i primi articoli: uno degli impegni principali del rettore infatti è la difesa di quella che potremmo definire la bandita comunale (useremo il termine convenientie, diffuso da una certa data in molti statuti, che però non è sempre presente). tale complesso costituisce l’insieme non solo dei beni comuni di

(8) G. Rosa, Statuti di Vertova del 1235, del 1248, del 1256 con annotazioni, Brescia 1869, ripubblicato in edizione anastatica con una traduzione in P. GusMini, Vertova medie-vale, Vertova 1980; successive riforme del testo in J. sChiaVini trezzi, Sugli statuti rurali di Vertova nel XIII secolo: le riforme del 1284-5, in “Archivio Storico Lombardo”, n. 10, 1994, pp. 443-457. Lo statuto di Leffe è edito in A. tiraBosChi, Cenni intorno alla Valle Gandino e ai suoi statuti, in “Archivio Storico Lombardo”, n. 7, 1880, pp. 5-40, n. 9, 1882, pp. 369-402, alle pp. 384-400. “Statuta et ordinamenta”. Lo statuto dell’antica valle Averara-Anno 1313, a cura di T. Bottani e T. saLVetti, S. Pellegrino Terme 2000, Gli statuti veneti di Valgoglio. Sec. XV e XVI, a cura di A. PreVitaLi, Clusone 2006, G. siLini e A. PreVitaLi, Statuta de Gromo, Rovetta 1998.

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pubblica fruizione, ma anche di quelli ormai divisi, almeno nello sfruttamen-to (significativo a questo proposito il caso di Vertova, dove anche le taverne sono inserite nelle convenientie). A esso si affiancano presto anche i beni dei vicini, che vengono dunque messi nel novero di quelli da difendere: per que-sto si generalizza anche l’obbligo di giurare il salvamentum (cioè la difesa) di tali convenientie anche per i vicini. È ovvio che tale situazione è foriera di problemi relativamente a quanto rimane fuori dal salvamentum, poichè le proprietà di cittadini non sono originariamente comprese nelle convenientie e ciò diventa una priorità di intervento dello stesso comune urbano, almeno in linea teorica, dato che in questi paesi montani piuttosto lontani dalla città le proprietà urbane sono decisamente minoritarie. Per usufruire di questa protezione, per la quale è stata ipotizzata un’origine dal mundium germanico, si generalizza anche un diritto di ingresso nel comune, dapprima inteso in senso positivo, come diritto di fruizione dei beni comuni, poi anche in senso negativo come diritto alla protezione9.

Entrando nel dettaglio possiamo iniziare dallo statuto di Valgoglio, che ci è giunto in una redazione di età veneta. Il testo tuttavia dà conto non tanto di una rifusione del materiale precedente, quanto di un suo compattamento, visto che in esso è presente il giuramento del rettore e la designazione dei confini comunali, avvenuta nel corso del XIV secolo. Chiude poi il testo un importante documento datato addirittura 1275, che consiste nel riscatto di alcuni beni comunali, precedentemente impegnati alla famiglia cittadina dei La Crotta10.

La tradizionale magistratura dei campari, incaricata della difesa della proprietà rurale, è qui presente e affiancata dai calcatori, che devono confi-nare i beni e distinguere le proprietà comuni da quelle divise. Alcuni degli

(9) P.G. noBiLi, Vertova... cit., G.P.G., sCharF, Bergamo e il suo contado fra Due e Tre-cento attraverso gli statuti urbani, in Contado e città in dialogo... cit., pp. 201-225. Sulle con-venientie C. D’aGostini, Comunes et homines e territorio: l’ecologia della fabula iurata. Ap-punti per una lettura di statuti rustici delle Alpi Lombarde, in Poteri assemblee autonomie. Miscellanea in memoria di Roberto Celli, Udine 1989, pp. 195-218; G.L. anDriCh, Dell’origi-ne storica del nome dato alla località di Favola presso Belluno, in “Studi Bellunesi”, n. 1-3, 1896, pp. 7-8, 15-16, 22-24; G.L. anDriCh, Gli statuti bellunesi e trevigiani dei danni dati e le Wizae (a proposito di una recente pubblicazione), in “Archivio Storico Italiano”, n. 34, 1904, pp. 28-66. Sulla possibile origine germanica delle proprietà indivise (e difese) cfr. per esempio F. sChuPFer, L’allodio. Studi sulla proprietà dei secoli barbarici, Bologna 1981 (rist. anast. dell’edizione di Torino 1897), pp. 26-44. Sul danno dato vedi G. GiaMMaria, Il ‘danno dato’ negli statuti di Campagna e Marittima. Una nota illustrativa, in Le comunità rurali e i loro statuti... cit., II, pp. 140-60; G. PasquaLi, Statuti comunali e vita delle campagne nei secoli XIV-XVI, in Romagnola Romandiola: la “Romandiola” degli Estensi, studi promossi dal Centro di Studi sulla Romandiola Nord Occidentale, Lugo novembre 2003, Lugo 2005, pp. 39-58 (cfr. anche infra, note 11, 21-2 e testo corrispondente).

(10) Gli statuti veneti di Valgoglio... cit.

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articoli sono sicuramente di antica origine, come lo sfruttamento comune dell’alpeggio o il divieto di far pascolare capre, animali assai nocivi alla colti-vazione; ma la materia dà conto anche di successivi interventi, come devono essere il parziale affitto del monte della comunità e la percezione di un dazio del fieno, che chiaramente non dovevano figurare fra le prime preoccupazioni del comune di Valgoglio alle sue origini11.

Più complessa si presenta l’analisi del testo di Gromo, giuntoci in una redazione di primo Cinquecento, strutturata in collationes, come abbiamo detto. Anche qui tuttavia non si deve pensare a un testo totalmente nuovo, dato che gli stessi statutari attestano di voler procedere non a un’innovazio-ne ma a una necessaria operazione “archeologica”, per la perdita del codice precedente. La riorganizzazione del testo è evidente, tanto per la rifusione di articoli precedenti, quanto per la insistita volontà arcaizzante, che si evince dallo scarso ruolo di Bergamo nel testo e nel mantenimento di monete ormai sicuramente fuori corso, come riferimento (ma questo è un carattere che si riscontra anche in statuti posteriori)12.

Il ruolo principale nella determinazione dei beni fondiari è anche qui af-fidato ai calcatori; inoltre compare una regolamentazione dell’allevamento caprino. Ma in generale sono prevalenti articoli che testimoniano interven-ti successivi alle prime stesure: i beni comuni fondiari occupano un’intera collatio (la terza, mentre vie e ponti sono trattati nella quarta), e il comu-ne dimostra una particolare attenzione per la “peghera”, che testimonia uno sfruttamento intensivo e non occasionale della pece, dato che gli alberi da utilizzare per tale produzione debbono essere bollati. Ugualmente spia di un uso “industriale” è la regolamentazione della fruizione della legna avanzata ai fabbricanti di calce. Ancora indice di uno stadio avanzato di regolamenta-zione è il capitolo che limita l’uso di un bosco, oggetto di un accordo con il comune di Boario, alle occasioni che non contraddicano tale accordo13.

La situazione statutaria di Averara è particolare, dato che il testo di primo

(11) Ibid.; sui calcatori e sull’imponente opera di definizione territoriale duecentesca vedi i contributi di R. rao e P.G. noBiLi, in questo stesso volume; in generale sui campari vedi anche C. CiPoLLa, Carta statutaria lombarda del secolo XIII riguardante i “Campari”, To-rino 1898, estratto da “Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino”, n. 34, 1898, iD., Do-cumenti piemontesi del sec. XIV riguardanti i Campari, Torino 1898, (estratto dallo stesso fascicolo).

(12) Statuta de Gromo... cit. Per l’esempio e il ruolo di Bergamo vedi Lo statuto di Ber-gamo del 1353, a cura di G. ForGiarini, introduzione di C. storti storChi, “Fonti Storico-giuridiche, Statuti, 2”, Spoleto 1996; C. storti storChi, Diritto e istituzioni a Bergamo dal comune alla signoria, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Giurisprudenza, Pubbli-cazioni dell’Istituto di Storia del Diritto Italiano, Milano 1984; G.P.G. sCharF, Bergamo e il suo contado... cit.

(13) Statuta de Gromo... cit.; G.P.G. sCharF, L’autonomia “alla prova del fuoco”... cit.

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trecento che ci è giunto è piuttosto corto e molto arcaico nella sua struttura-zione. Si può ipotizzare che molte norme a questo stadio fossero ancora con-suetudinarie e non scritte; ma altrettanto bene si potrebbe notare che Averara era inserita organicamente nella comunità della Valtaleggio, in una zona del resto contesa dagli arcivescovi di Milano, e molte norme avrebbero potuto semplicemente essere taciute perchè contemplate nella normativa dell’intera valle, dato che oltretutto la successiva redazione statutaria è comune ad Ave-rara e alla Valtaleggio14.

In questo quadro alcuni articoli sono probabilmente residuo di un prece-dente stadio normativo, ma altri dimostrano già una certa evoluzione: i danni dati con le bestie sono infatti menzionati in relazione ai prati comuni e il divieto di cogliere su proprietà altrui si riferisce invece solo ai beni privati, segno di una situazione in cui la suddivisione dei beni comuni non era ancora avanzata. Ma l’obbligo di portare le bestie in alpeggio d’estate è esteso a tutte le bestie presenti, dietro la corresponsione di un diritto d’uso, che riguarda anche le bestie trattenute in paese per giusta causa, e questo sembra il frutto di uno stadio più avanzato dello sfruttamento dei beni comuni15.

Lo statuto di Leffe, oltre a essere uno dei più antichi è anche uno dei più arcaizzanti: ciò si nota per esempio nel fatto che i boschi comuni non sono raggruppati tutti insieme nello statuto ma vengono citati a gruppi, cosa che fa pensare ad aggiunte successive. Del resto in questi casi si procede prima a confermare le precedenti convenientie e quindi a estendere il periodo di rispetto; un caso poi è assai particolare, dato che un bosco viene definito “a gazzo”, termine che il tiraboschi, editore del testo, interpreta come riservato a qualcuno16.

L’arcaismo del testo può essere notato anche nel fatto che in esso non sono previsti campari, e anche i compiti dei calcatori, nominati solo a un certo punto dello statuto, nella parte precedente sono attribuiti ai consoli, ai cre-dendari e quindi anche al podestà. Sicuramente molto antico inoltre l’obbligo per i vicini di lavorare a turno un prato comune. È invece probabilmente un segno di una situazione nuova il fatto che, tanto per il pascolo sulle comunan-ze, quanto per il taglio e l’esportazione di legna dalle convenientie, i vicini siano equiparati agli uomini della Valgandino e del concilio di Honio, entità comunali sovralocali che dimostrano l’inserimento di Leffe in compagini più

(14) “Statuta et ordinamenta”... cit.; vedi anche S. CarMinati, C. GerVasoni, B. LuiseLLi, Statuti di Valle Taleggio e Averara. Testo critico latino, versione italiana del 1788, versione lombardo-veneta del 1487, Bergamo 1980.

(15) “Statuta et ordinamenta”... cit.(16) A. tiraBosChi, Cenni intorno alla Valle Gandino... cit.; G.P.G. sCharF, Gli Statuti

duecenteschi di Vertova... cit.

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vaste17.Il caso certo più noto è quello dello statuto di Vertova, già studiato e pub-

blicato, di cui è tuttavia andato perduto il manoscritto. L’edizione del Rosa fu dimostrata già manchevole dal tiraboschi, che aveva veduto il codice origi-nale; tuttavia in assenza di quest’ultimo bisogna far riferimento a tale edizio-ne, che dà comunque ampiamente conto tanto dell’arcaicità del testo quanto della sua stratificazione18.

Lo statuto inizia con il giuramento del console – in prima persona – se-guito dai giuramenti di altri officiali. Ma tali giuramenti sono intervallati da evidenti aggiunte successive – in terza persona. Non solo qui è particolar-mente agevole distinguere le parti più antiche dalle aggiunte, ma nel caso del giuramento del salvamentum (aggiunto nel 1248) siamo in grado di precisare anche il momento dell’aggiunta. D’altra parte un generico giuramento di ri-spetto dello statuto è previsto solo nel 1305, anche se la forma mista – di terza e prima persona – lo fa ritenere un’evoluzione di un testo precedente19.

Più che in altri casi le aggiunte datate e la loro disposizione nel testo permettono di seguire l’evoluzione della materia. Alcuni argomenti sono comuni anche agli altri statuti, come per esempio la normativa sulle capre, un’apparizione relativamente tarda dei calcatori e una strutturazione via via più complessa dei compiti dei campari (ne vengono creati di appositi per il controllo dei molini). Ma anche lo stesso elenco delle convenientie, come abbiamo visto per Leffe, sembra creato per successive aggiunte. Altri aspetti invece sembrano peculiari di questo statuto (benché naturalmente un con-fronto completo sia virtualmente impossibile per la perdita di buona parte di quelli vicini): anche qui si trova un diritto di entrata per i nuovi vicini, che potranno in questo modo usufruire dei beni comuni, ma esso risulta adeguato in un secondo momento all’evidente rincaro dei prezzi. A un momento inter-medio deve risalire invece la norma che diversifica il banno per l’entrata nelle convenientie, dato che i vicini, gli uomini del concilio di Honio e i forestieri hanno tre tariffe diverse e ciò vuol dire che la comunità sovralocale era una realtà da dover tener presente, ma non ancora equiparata al comune di Ver-

(17) A. tiraBosChi, Cenni intorno alla Valle Gandino... cit.; sulla Valgandino vedi ibid., e Gandino e la sua valle. Studi storici dal medioevo all’età moderna, Villa di Serio 1993; sul concilio di Honio, oltre a qualche cenno in P.G. noBiLi, Vertova... cit., sono in corso ricerche da parte di chi scrive; vedi comunque G.P.G. sCharF, Gli Statuti duecenteschi... cit.. Un altro esempio molto vicino è quello del sovracomune di Albino, per il quale vedi Nostra res publica Albinensis: valle, comuni e contrade nel Medio Evo, a cura di P.M. soGLian, Ranica, Bergamo 1991.

(18) G. rosa, Statuti di Vertova... cit.; P. GusMini, Vertova medievale... cit.; G.P.G. sCharF, Gli Statuti duecenteschi... cit., P.G. noBiLi, Vertova... cit.

(19) G. rosa, Statuti di Vertova... cit.; G.P.G. sCharF, Gli Statuti duecenteschi... cit.

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tova. Un caso particolare, che dà abbastanza bene la misura dell’evoluzione della normativa in difesa della proprietà, è a nostro giudizio fornito da una terra privata che sarà dotata di una porta di accesso, la cui chiave tuttavia dovrà essere tenuta a disposizione del comune, dato che la terra in questione “condam fuit comunis”20.

4. Qualche osservazione conclusiva

Sembra assai difficile trarre delle conclusioni generali da questa breve carrellata sulla normativa in difesa della proprietà in cinque comunità del-la montagna bergamasca. Possiamo osservare che le disposizioni principali ricorrono in molti casi, ma senza vere sovrapposizioni, cosa che fa pensare, più che a circolazione di modelli, a sviluppi paralleli, stimolati certamente da condizioni socio-economiche simili. Gli obblighi e i periodi di rispetto nel corso degli anni si allungano e si estendono in tutti i casi, ma talvolta le norme vengono semplificate per una loro applicazione più generale. È sicu-ramente una materia in espansione e molto vitale, presente già nelle parti più antiche degli statuti, ma pienamente sviluppata solo in un secondo tempo (sia pure, spesso, con meno articoli), con il prepotente ingresso dei beni privati fra quelli da rispettare21.

Se sulle origini di questa normativa non si può dire molto di più di queste poche impressioni, sulla sua lunga durata si può fermare un attimo la rifles-sione, dato che si tratta di un punto chiave nell’evoluzione delle comunità rurali. Più di uno studioso ha richiamato il valore di difesa della comunità rappresentato dallo statuto, bastione contro le ingerenze esterne. D’altronde nel tardo Medioevo, prima le città, poi i signori e l’incipiente stato regionale, fecero breccia nell’autonomia giudiziaria, prima che legislativa, delle comu-nità, avocando sempre maggiori competenze ai giusdicenti urbani o a quelli superiori al semplice livello di villaggio (i rettori delle comunità sovralocali, da quelle originarie dei primi tempi a quelle di valle, che determineranno una buona parte della storia delle montagne, non solo bergamasche). Il danno dato, per sua natura, tese invece a rimanere di competenza dei giusdicenti locali, sia per un certo disinteresse delle autorità maggiori, sia perchè in esso trovava la sua naturale applicazione il procedimento sommario (che natural-mente non si limitava a queste occasioni). Come è intuitivo, ma è anche stato

(20) G. rosa, Statuti di Vertova... cit.; G.P.G. sCharF, Gli Statuti duecenteschi... cit., P.G. noBiLi, Vertova... cit. Per il caso di Leffe, vedi supra, nota 16.

(21) C.M. CiPoLLa, Carta statutaria lombarda... cit.; iD., Documenti piemontesi del sec. XIV... cit., G. BisCaro, La polizia campestre, in “Rivista italiana per le scienze giuridiche”, n. 33, 1902, pp. 1-106.

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dimostrato per altre realtà, nella prima età moderna la diffusione del proce-dimento sommario portò con sè la conservazione di un certo numero di cause ai giusdicenti locali, dato che per istruire simili cause le competenze richieste erano minori e l’ingerenza dei collegi giuridici cittadini era di conseguenza più modesta22.

Naturalmente la vitalità della normativa in difesa della proprietà non è solo questione di procedura: le proprietà comuni in primo luogo, ma anche quelle private dei vicini, costituivano sicuramente la riserva di autonomia delle comunità. Nel Duecento fu soprattutto la fiscalità cittadina, con le spi-rali di indebitamento conseguenti, notate in molti casi, ad aggredire la pro-prietà rurale, mentre nel secolo successivo furono i signori a profittare delle difficoltà delle comunità (insieme con i cittadini). La reazione fu differente nei diversi casi, ma è ampiamente provato che le comunità di pianura furono presto ridotte all’impotenza e cedettero quasi tutti beni comuni, mentre an-che i vicini subivano un simile esproprio da parte della proprietà cittadina. Le comunità di montagna riuscirono più a lungo a mantenere il controllo del-la proprietà, anche per un effettivo minor interesse dei ceti urbani a beni così distanti e spesso meno pregiati. Questa riserva, che veniva buona nei momen-ti di difficoltà, andava difesa a oltranza e perciò la normativa si conservò e si sviluppò, seguendo fino all’età moderna la parabola della proprietà rurale23.

(22) G.P. Massetto, Le fonti... cit.; A. Dani, Il processo per danni dati nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), prefazione di Pietro Sirena, Bologna 2006; G.P.G. sCharF, Au-tonomia legislativa... cit., M. MoriGi, I “danni dati” negli statuti estensi di Bagnacavallo (1443-1451), con saggio introduttivo di E. anGioLini, “Quaderni degli Studi Romagnoli”, n. 25, Cesena 2008.

(23) P.G. noBiLi, Vertova... cit., P. Mainoni, Le radici della discordia. Ricerche sulla fisca-lità a Bergamo tra XIII e XV secolo, Milano 1997, eaD., Introduzione, in I dazi a Bergamo nell’età viscontea. Edizione di documenti, “Ex filtia. Quaderni della sezione Archivi Storici della Biblioteca civica A. Mai di Bergamo”, n. 3, 1992, pp. 5-15, eaD., L’economia di Berga-mo tra XIII e XV secolo, in Storia Economica, cit., pp. 257-337; G. ChittoLini, Legislazione... cit. M. Di tuLLio, La ricchezza delle comunità. Guerra e finanza alle frontiere dello stato di Milano: il caso della Geradadda, Tesi di dottorato, XXI ciclo, Università Bocconi, Milano Per altri casi lombardi si veda M. DeLLa MiseriCorDia, Divenire comunità: comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo Medioevo, Milano 2006, A. GaMBerini, Il contado di Milano nel Trecento. Aspetti politici e giurisdizionali, in Contado e città in dialogo... cit., p. 83-137, Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia settentrionale (secoli XIII-XV), a cura di P. Mainoni, Milano 2001; E. roVeDa, I beni comunali nella Bassa fra Ticino e Sesia (secoli XV-XVI), in Insediamenti medievali fra Sesia e Ticino. Problemi istituzionali e sociali (secoli XII-XV), a cura di G. anDenna, Novara 1999, pp. 47-63. Dinamiche simili sono comunque riscontrabili anche in area appenninica: vedi G. CheruBini, Forme e vicende degli insediamenti nella campagna toscana dei secoli XIII-XV, in Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso Medioevo, Firenze 1974, pp. 145-74, S.K. Cohn Jr., Demografia e politiche fiscali nel contado fioren-tino (1355-1487), in Lo Stato territoriale fiorentino (secoli XIV – XV). Ricerche, linguaggi, confronti, atti del Seminario Internazionale di Studi, S. Miniato 7-8 giugno 1996, a cura di

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In effetti tale ragionamento può essere allargato: per il periodo delle ori-gini, come abbiamo visto, abbiamo solo degli indizi, ma durante tutto l’arco di vita dei comuni rurali il ruolo della normativa in difesa della proprietà può essere visto come un filo conduttore della loro parabola. Proprio per il tardo Medioevo e per la prima età moderna quello che probabilmente era stato un collante fondamentale delle comunità diventò una delle ultime ragioni di essere della loro vitalità. Più che ai singoli comuni rurali, la cui attività era comunque garantita dalla coresidenza dei vicini, possiamo pensare alle co-munità sovralocali, che laddove non avessero specifici compiti amministra-tivi (come le comunità di valle), sarebbero state condannate all’estinzione. Ebbene, in tali casi, come dimostrano numerosi casi di studio quali il vicino concilio di Honio, ma anche il plebato di Cannobio, sul Lago Maggiore, o la Comugna veneta (studiata da Varanini), tali comunità si mantennero in vita per secoli proprio per la necessità di difendere una proprietà ancora indi-spensabile per la sopravvivenza degli abitanti delle montagne. Il fascino di questo argomento è dunque proprio quello di poter essere seguito, sia pure con differente intensità, in uno sviluppo lungo secoli24.

A. zorzi e W.J. ConneLL, Pisa 2001, pp. 47-71, F. LeVerotti, Popolazione, famiglie, insedia-mento. Le Sei Miglia lucchesi nel XIV e XV secolo, Pisa 1992.

(24) A. Dani, Il processo per danni dati... cit., G.P.G. sCharF, Autonomia legislativa... cit.; per il concilio di Honio vedi supra, nota 17. Per il plebato di Cannobio A. zaMMaretti, Il borgo e la pieve di Cannobio, Milano 1932, riedito in edizione ampliata a Intra 1975; iD., Il volume delle consuetudini degli statuti del comune di Cannobio e della Pieve, in “Bollettino storico per la provincia di Novara”, n. 57, 1966, pp. 74-81; V. Cesari rosti, Tron-zano con Bassano e Pino. Testimonianze, Milano 1972, P. FriGerio, P.G. Pisoni, Traffiume nel plebato di Cannobio sul lago Maggiore: gli statuti del 1343, Intra 1990. Per la Comu-gna veronese G.M.Varanini, Beni comuni di più comuni rurali. Gli statuti della “Comugna Fiana”(territorio veronese, 1288), in Città e territori nell’Italia del medioevo. Studi in onore di Gabriella Rossetti, a cura di G. ChittoLini e G. Petti BaLBi (Europa mediterranea, Qua-derni 20), Napoli 2007, pp. 115-37.

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Hitomi Sato

FAzIONI E MICROFAzIONI: Guelfi e ghibellini nella montagna bergamasca del trecento

Il Chronicon bergomense guelfo-ghibellinum, comunemente detto “diario di Castello Castelli”, è stato considerato a lungo come il testo più rappresen-tativo del Bergamasco del trecento e dell’inizio del Quattrocento, emblema-tico di una perenne situazione conflittuale tra “guelfi e ghibellini” diffusa in tutto il territorio orobico. tuttavia, il fatto che il diario non sia da considerare opera dell’unica mano di Castello Castelli rende scarsamente agevole l’uti-lizzo di questa fonte per chiunque voglia cercare in essa le linee politiche conduttrici di ognuna delle fazioni allora esistenti1.

Ciononostante, il Chronicon contiene numerose dettagliate testimonian-ze dei fatti locali e delle contrapposizioni tra le fazioni guelfa e ghibellina, con una ricchezza di dettagli non paragonabile a nessun altro esempio in tutte le altre zone del dominio visconteo a cavallo della fine del trecento2. tale

*Mi permetto di esprimere il mio sincero ringraziamento a Riccardo Rao (che mi ha an-che aiutato a migliorare questo testo in italiano), Andrea Zonca, Giorgio Chittolini, Patrizia Mainoni e Marco Gentile, che mi hanno generosamente offerto preziosi consigli. Questo arti-colo è nato da una parziale elaborazione di due capitoli della mia tesi di dottorato dell’Univer-sità di Kyoto, Chūsē kitaitaria no chiikikokka to shakai: Zaichishakai, tōha, funsō to hēwa [trad. it. Lo stato regionale e la società nell’Italia settentrionale del Medioevo: le società locali, le fazioni, i conflitti e le paci], 2008.

(1) Chronicon bergomense guelpho-ghibellinum ab anno MCCCLXXVIII usque ad an-num MCCCCVII, a cura di C. CaPasso, RIS2, t. XVI, p. II, Bologna 1926-1940 (d’ora in poi citato come Chronicon). Al riguardo è obbligatorio il rimando a: A. Mazzi, Sul diario di Castellus de Castello, Bergamo 1925, ora disponibile anche sul sito della biblioteca Angelo Mai, nella sezione di Opere di Angelo Mazzi On-line, curata dal Centro studi e ricerche “Ar-chivio Bergamasco”, http://archiviobergamasco.it/angelo_mazzi/AngeloMazziHome.html. Nell’edizione muratoriana del Chronicon bergomense, il curatore dedica una ampia introdu-zione in proposito (C. CaPasso, Introduzione, in Chronicon, pp. I-CLIX).

(2) In una recente pubblicazione, Giovanni Silini ha ribadito la mancanza di uno studio che analizzi le vicende conflittuali narrate nel Chronicon (G. siLini, I giurisdicenti del terri-torio bergamasco nel periodo della dominazione veneta, Bergamo 2005, disponibile sul sito della Civica Biblioteca Angelo Mai: http://www.bibliotecamai.org/frame.asp?page=editoria/editoria.html). Su guelfi e ghibellini a Bergamo e nel territorio bergamasco: C. CaPasso, Guelfi e ghibellini a Bergamo, in “Bollettino della civica biblioteca di Bergamo”, n. 2 (1921), pp. 1-44; A. saLa, La cospirazione antiviscontea in Bergamo del 1373, in “Archivio storico bergamasco”, n. 3 (1983), pp. 9-35. Per il periodo tra i secoli XV e XVI sotto la dominazione veneziana, P. CaVaLieri, “Qui sunt guelfi et partiales nostri”. Comunità, patriziato e fazioni

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fonte offre, quindi, non pochi spunti comparativi per comprendere meglio la situazione non soltanto di Bergamo e del suo territorio, ma anche dell’intera compagine viscontea. Un’indagine sul Chronicon appare assai promettente alla luce dei nuovi studi sugli stati regionali, che hanno ormai evidenziato l’importanza delle fazioni, inserendole nel bagaglio degli strumenti indispen-sabili per la ricerca3. Essa risulterebbe particolarmente feconda qualora le informazioni trasmesse dal Chronicon potessero essere combinate con altre tipologie di fonti, come quelle notarili, che per Bergamo sono straordinaria-mente ricche, al fine di conseguire un quadro d’insieme in cui gli avvenimen-ti locali possano essere inseriti nella cornice del dinamismo dei Visconti in uno dei periodi più significativi della loro storia: il dominio stava per trasfor-marsi in Ducato sotto Gian Galeazzo Visconti, per poi sgretolarsi alla morte del primo duca.

Per rendere possibile tali analisi, si dovranno rivalutare alcune parti del Chronicon cui finora è stata attribuita poca importanza: le parti definite come descrizioni delle “scaramucce”, in cui “non v’è traccia (se non raramente) di un certo ordine logico”, forniscono l’impressione che “tali note fossero

a Bergamo fra il XV e XVI secolo, Milano, 2008. Cenni sull’importanza delle fazioni e delle lotte fazionali in relazione alla fiscalità in P. Mainoni, Le radici della discordia. Ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XV secolo, Milano 1997. Sulle vicende dei ghibellini in Valle Brembilla sotto la dominazione veneziana: B. BeLLotti, La cacciata dei brembillesi (1443), in “Bergomum”, n. 9 (1935), pp. 211-232. Cenni su guelfi e ghibellini e sul diario di Castello Castelli riguardante Cenate e Casco in A. zonCa, Cenate e Casco. Due comunità bergamasche nel Medioevo, Bergamo, 2005.

(3) Sono ormai numerose le ricerche sulle fazioni del tardo Medioevo e della prima età moderna, particolarmente nell’ambito lombardo, dopo che Letizia Arcangeli ha messo in chiara luce il fenomeno del “ritorno alle fazioni”, sottolineando l’importanza degli studi sugli aspetti concreti delle fazioni, anche se “che cosa esse fossero nella capitale, nella città provin-ciale, e nel territorio rimane da chiarire”: L. arCanGeLi, Gian Giacomo Trivulzio marchese di Vigevano e il governo francese in Lombardia (1499-1518), in Vigevano e i territori circo-stanti alla fine del Medioevo, Atti del convegno di studi (Vigevano 10-12 novembre 1994), a cura di G. ChittoLini, Milano 1997, ora in eaD., Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano 2003, pp. 3-70, p. 42. Nuove prospettive sulle fazioni sono espresse nelle ricerche di M. GentiLe, Terra e poteri. Parma e Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001; M. DeLLa MiseriCorDia, Divi-dersi per governarsi: fazioni, famiglie aristocratiche e comuni in Valtellina in età viscontea (1335-1447), in “Società e storia”, n. 86 (1999), pp. 715-766; iD., Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano 2006 e nel volume Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimen-to, a cura di M. GentiLe, Roma 2005. Una sintesi ancora più approfondita è in M. GentiLe, Casato e fazioni nella Lombardia del Quattrocento. Il caso di Parma, in Famiglie e poteri in Italia tra Medioevo ed età moderna, a cura di A. BeLLaVitis e I. ChaBot, Roma 2009, pp. 151-187. Per le realtà microanalitiche delle conflittualità fazionali radicate nelle montagne della prima età moderna resta fondamentale il rimando a O. raGGio, Faida e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino 1990.

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scritte a mano a mano che allo scrittore piaceva riferire i casi di cui aveva notizia4”. tuttavia, dal momento che le azioni delle fazioni locali emersero soprattutto nelle “scaramucce”, dobbiamo analizzare proprio detti avveni-menti per individuare i moventi e i rapporti personali intorno alle fazioni attive in ogni valle, nonché i meccanismi di coordinamento delle stesse tra il livello strettamente locale, quello provinciale e, infine, quello regionale e sovra-regionale5.

La ricerca presentata in questa sede si concentrerà soprattutto sulla Val Brembana e le zone intorno a essa: il quadro delineato verrà quindi integrato con le informazioni ricavate dalle fonti notarili della metà del trecento rogate ad Almenno, con particolare riferimento alla Valle Imagna.

1. La struttura e il funzionamento delle fazioni e micro-fazioni nella monta-gna bergamasca fra Trecento e inizio Quattrocento

Nel Chronicon si alternano con frequenza due tipi di conflitti distinti, ma collegati tra loro, entrambi presentati come scontri tra “guelfi” e “ghibellini”. Mentre si sviluppano le azioni condotte o più spesso capeggiate dagli espo-nenti delle fazioni di Suardi o Rivola e Bonghi, si ripetono anche quelle di respiro strettamente locale, limitate a una valle o a insediamenti contermini. Il Chronicon parla degli amici, sequaces e adherenti delle grandi famiglie bergamasche per indicare i piccoli gruppi di persone che seguirono o presta-rono aiuto agli schieramenti guelfo o ghibellino. Ma non mancano esempi in cui le due denominazioni, ghibellino e dei Suardi, guelfo e dei Rivola e Bonghi, non sono del tutto interscambiabili.

tra il gennaio e il febbraio del 1394 venne pubblicato da vicario, referen-dario e podestà di Bergamo l’ordine del signore che obbligava tutti gli abi-tanti della città e del territorio di dichiarare la propria appartenenza fazionale – in particolare se volessero essere dei Suardi o dei Rivola e Bonghi – al fine di ratificare la pace ordinata da Gian Galeazzo nel dicembre dell’anno prece-dente: tali dichiarazioni furono scritte in un atto notarile. Successivamente, il 10 febbraio, avvenne la pace tra i “guelfi e ghibellini”, in particolare tra i due opposti schieramenti radicati nelle montagne6.

Sembra che il Visconti intendesse non soltanto conoscere l’appartenenza all’una o all’altra fazione, ma anche ufficializzarla, rendendola giuridicamen-

(4) C. CaPasso, Introduzione... cit., citazioni da p. LXXVI.(5) Per la distinzione tra fazioni locali e sovra-locali, si veda M. GentiLe, “Postquam

malignitas temporum hec nobis dedere nomina…”. Fazioni, idiomi politici e pratiche di governo nella tarda età viscontea, in Guelfi e ghibellini... cit., pp. 249-274.

(6) Chronicon, p. 57.

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te vincolante attraverso l’atto notarile7. Ciò suggerisce che fino ad allora le appartenenze fazionali fossero incerte e che né Suardi né Rivola e Bonghi riuscissero ad avere il controllo sulle fazioni locali, in particolare su quelle delle aree montane. Gian Galeazzo avrebbe attribuito ai Suardi e ai Rivola e Bonghi il ruolo di interlocutori per la faticosa pace, al fine di far esercitare loro la funzione di controllo all’interno del proprio partito.

È impressionante la velocità di diffusione dei conflitti tra “guelfi” e “ghi-bellini” nelle Orobiche. Il 10 aprile del 1393, arrivarono in aguayto a Val-secca circa centocinquanta uomini provenienti da Piazza, Olmo, Oltre Gog-gia e da altre località della Val Brembana, per poi farsi “amicos et seguaces Suardorum”. Subito dopo scoppiò una “scaramuziam et rixiam” tra gli stessi neosuardini e gli abitanti di Cornello e San Giovani Bianco – tra i quali si contarono perdite per diciannove uomini e tre donne – che, secondo il Castel-li, erano “guelfi et inimici illorum de Ultra Agugiam”8.

Il giorno dopo si verificò un contrattacco di circa cinquanta uomini di Cornello e di San Giovani Bianco “et eorum sequaces partis guelfe”, che si recarono a San Pietro Orzio, dove vivevano circa venti persone “boni sine ali-qua malitia; tamen reputabantur gibelini”9. Furono proprio i Sanpietrolziesi “non maliziosi”, che non facevano parte della rissa del giorno precedente, a essere presi di mira per la vendetta: sembrerebbe che nelle ritorsioni si ri-cercasse una corrispondenza tra il numero degli offesi e quello delle perdite subite in precedenza. Il conflitto si allargò all’intera Val Brembana. Verso la fine di aprile, il capitano del signore, Franceschino Crivelli, dovette portare con sé un gran numero di uomini mentre si recava Oltre Goggia, per realiz-zare la pace tra quelli di Cornello e i loro seguaci10. Ma già nella stessa gior-nata, i guelfi di Cornello e di Roncaglia bruciarono San Pellegrino, abitato

(7) L’uso dell’atto notarile per farsi “ghibellini” è comune anche a un episodio del 10 otto-bre 1382, quando gli uomini dei Locatelli della Valle Imagna, degli Arrigoni, degli Amigoni, dei Taleggio e i loro seguaci si fecero ghibellini, per poi andare a incendiare la contrada di Rota assieme a molti uomini di Brembilla (Chronicon, p. 20). L’importanza dell’atto notarile per certificare l’appartenenza fazionale è in M. GentiLe, Casato... cit. L’episodio del 1382 in Valle Imagna consente alcune considerazioni. Innanzitutto, se è vero che si fecero ghi-bellini con questo atto notarile, i neo-ghibellini del 10 ottobre non lo erano in precedenza: o, almeno, non era chiaro se lo fossero o meno. Abbiamo, invece, un riscontro del contrasto tra Locatelli e Rota dalla lettera di Stefano de Puteo, vicario della Valle Imagna nel 1368, in cui si riferisce che Topa Locatelli denunciò Merlo Rota e gli uomini della Valle Imagna poiché questi ultimi erano pronti alla disobbedienza. Secondo Topa, inoltre, gli uomini della Valle Imagna fecero coligationem con i Carminati e non pagavano più quanto dovevano (I “registri litterarum” di Bergamo (1363-1410). Il carteggio dei signori di Bergamo, a cura di P. Mainoni e A. saLa, Milano 2003, p. 67).

(8) Chronicon, p. 38. (9) Ibid.(10) Ibid.

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da ghibellini11. A distanza di soli due giorni, i guelfi provenienti da tutte le parti della Val Brembana centrale e inferiore, cioè da Cornello, San Giovan-ni Bianco, San Pellegrino, Sonzogno, zogno ed Endenna, bruciarono circa duecento case, a cominciare da quelle dei Maffeis e degli altri “adherentium Suardis”. tra maggio e giugno del medesimo anno, i conflitti locali tra guelfi e ghibellini si ampliarono, fino al 26 giugno, quando si radunarono circa mille guelfi, sia Bergamaschi, sia di fuori, per prendere e incendiare i colli di Stabello. Dopodiché i “sindici partis guelfe et ghibelline, videlicet Vallis Brembane”, si impegnarono a celebrare la pace tra di loro12.

Non sappiamo quasi nulla dei sindici dei guelfi e dei ghibellini. Possia-mo, invece, supporre quanto le vicende tra il mese di maggio e giugno siano andate diversamente da come gli stessi protagonisti si sarebbero immaginati all’inizio del conflitto. Dopo l’incendio della casa dei Maffeis, il 10 mag-gio accadde un omicidio a Bordogna: “una gran quantità di uomini di parte guelfa, circa duecento, tra cui Massera di Bordogna, che si era fatto amico e aderente dei Suardi senza esserlo veramente, giunse a Bordogna e qui uccise Muletto di ..., che si diceva ghibellino”13. Insomma, Massera di Bordogna finse di essere amico dei Suardi per ammazzare un ghibellino. Successiva-mente, il 19 maggio, Massera uccise un certo Matana, di Fontana di Averara, assieme ai suoi “socios malefactores”; tre giorni dopo, circa duecento ma-lefactores di località della media Val Brembana (zogno, Sonzogno, Enden-na, San Pellegrino e San Giovanni Bianco), assieme al succitato Massera, arrivarono nella contrada di Castignola, alla casa di Tremeris, per uccidere Plazola di Tremeris e sua moglie. Ne seguì una ruberia di 250 pecore, 60 vacche e beni mobili, che si concluse con l’incendio di 10 case e tegetes14. I “malefactores partis guelfe” ricomparirono il 9 giugno, quando uccisero il figlio di un certo Bettino della Valle di San Pellegrino sulla strada pubblica. Dietro all’allargamento dei conflitti fazionali in Val Brembana, sembra che ci fossero un traditore e alcuni malefactores, che probabilmente contribuirono a complicare la vicenda. Al termine di un simile intreccio, le contrapposte parti della Val Brembana sentirono l’esigenza di una soluzione concreta, che

(11) E’ difficile sapere se ci fu qualche collegamento tra l’incendio di San Pellegrino e l’omicidio di due commercianti ghibellini di Clusone verificatosi nella lontana Val di Scalve, mentre in Val Seriana superiore i ghibellini di Clusone subivano danni dai guelfi.

(12) Chronicon, p. 40. La pace fu celebrata tre giorni dopo, alla presenza di Franceschino Crivelli, capitano generale.

(13) Chronicon, p. 39: “una maxima quantitas hominum partis guelfe, numero CC, inter quos erat Massera de Bordonia, qui se fecerat amicus et adherens de Suardis, et non erat, accessit ad terram de Bordonia, et ibi interficerunt Muletum de…asserentem gibellinum” (il corsivo è mio).

(14) Chronicon, p. 39.

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potesse contenere l’effetto di simili accadimenti15.Ad ogni modo, i numerosi esempi tratti dal Chronicon mostrano con chia-

rezza il significato di connotarsi come guelfi o ghibellini – ossia farsi amici e aderenti dei Suardi o dei Rivola e Bonghi – per i piccoli gruppi fazionali presenti nelle montagne bergamasche. Non tutte le fazioni sono riconduci-bili semplicemente al partito dei Suardi o a quello dei Rivola e Bonghi. Vi sono altresì gruppi che si fanno suardini nel bel mezzo dei conflitti in corso. Altri ancora, in maniera più generica, sono riferiti essere guelfi o ghibellini: oppure, in alcune circostanze, asseriscono esplicitamente di essere tali. Essi formano di volta in volta due reti di alleanze e di mutuo soccorso nei conflitti, che spesso venivano condotti in autonomia dai partiti dei Suardi o dei Rivola e Bonghi16. Per distinguerle dalle “fazioni locali” definite da Marco Gentile, in questa sede chiamiamo“microfazioni” tali gruppi fazionali di estensione quasi prettamente locale, spesso limitata all’interno della dimensione di una comunità o di una parte della vallata17. tale distinzione torna utile allo scopo di analizzare il meccanismo di coordinazione delle microfazioni sotto i due schieramenti fazionali già citati.

(15) L’uso dell’espressione malefactores non è riconducibile a un semplice fatto di appar-tenenza alla fazione guelfa, o comunque a quella avversaria nella prospettiva degli autori del Chronicon, poiché gli esempi sono estremamente limitati, mentre i riferimenti a uccisioni, ruberie e incendi sono numerosi. Leonardino Suardi “cum certis malefactoribus gibelinis” uccise un colono di Grumello (Chronicon, p. 40). Un altro colono, Arigino detto Fregino di Sabio fu ucciso da “certos malefactores partis gibelline” (ivi, p. 41). Altri “malefactores partis guelfe” ammazzarono Bernardo Poma “super pontem de Gorle” (ibid.). Un uomo anziano, facente parte della familia delle monache di San Firmo, fu ucciso “per certos malefactores guelfos”, poiché era ghibellino (ibid.). Il Chronicon non fornisce un numero sufficiente di esempi per affermare con certezza la presenza di un codice non scritto di comportamenti di guelfi e ghibellini, ma si ha l’impressione che esso esistesse effettivamente e che i malefac-tores vi contravvenissero per il fatto di uccidere coloni, componenti delle famiglie di enti monastici o ecclesiastici, anziani, sulla strada pubblica ect. Altri esempi sono alle pagine 58, 59, 65, 67, 70, 73, 89, 90, 91. Parrebbe tuttavia che l’episodio di Giovanni de Mediolacho, male factor gibelinus (ivi, p. 91), sia legato alla misura di Gian Galeazzo Visconti, messa in atto tramite Giovanni Castiglione.

(16) Si veda anche supra, nota 7. Il 6 settembre 1393, i ghibellini di Almenno, di Villa d’Almè e di Brembate Superiore prestarono aiuto ai ghibellini di Mapello contro i guelfi della Valle Imagna e della Val San Martino (Chronicon, p. 48). Il 26 marzo 1398, gli uo-mini di Sorisole e di Ponteranica, assieme a circa 400 guelfi, combatterono contro circa 50 ghibellini. Questi ultimi ricevettero soccorso da parte dei fratelli Nolo e Tonolo Cavaneis, che guidavano otto uomini della loro parentela (ivi, p. 72). Il 7 aprile 1398 avvennero assalti quasi contemporanei, probabilmente collegati, da parte dei guelfi ai gruppi di ghibellini delle zone limitrofe (ibid.). Un soccorso di circa 600 uomini ai guelfi di Ulzinate e di Galbiate è documentato ivi, p. 75. I guelfi della Valle San Martino e della Valle Imagna arrivarono a combattere nella casa del defunto Antonio Suardi, dove poi giunsero anche gli uomini di Ulzinate, di Vanzono e di Villa (ivi, p. 76).

(17) M. GentiLe, “Postquam…” cit.

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Diversamente dagli episodi, come l’assedio del castello di San Lorenzo con cui il Chronicon si apre, in cui sia i guelfi, sia i ghibellini provenienti da quasi tutto il territorio bergamasco furono organizzati sotto il comando di alcuni noti esponenti di ogni fazione cittadina, nel caso della Val Bremba-na mancarono completamente tali figure di comando: si ha l’impressione di una diffusione spontanea e casuale delle situazioni conflittuali. Se, a dispetto della loro estemporaneità, tali scontri riuscirono a radunare cospicue masse di uomini, fino a mille persone, risulta chiaro che la pace tra “guelfi” e “ghi-bellini” contratta tra gli esponenti delle fazioni cittadine aveva presupposti fragili per potere funzionare.

2. I meccanismi di coordinamento e di intervento delle “microfazioni”

Il margine di autonomia delle microfazioni nei confronti delle fazioni cittadine sembra tutt’altro che trascurabile: ci si deve chiedere come si svi-luppassero tali relazioni di mutuo soccorso. Nel diario del Castelli, si hanno diversi riscontri del fatto che micro-guelfi e micro-ghibellini spesso intra-prendevano gli interventi di aiuto poiché avevano “sentito” notizie inerenti a scontri, conflitti e assalti. Per esempio, l’8 agosto 1393, un gruppo di guelfi assalì il castello di Azzino de Agaziis esistente a Grumela (forse Grumello), incendiando due case di ghibellini, in una delle quali si trovava Marchizolo della Grumella. Alla notizia (“sentientes predicta”), circa ottocento ghibel-lini della Valle di Almenno (Vale de Lemene) e di Bergamo giunsero in suo soccorso18.

Dietro all’aiuto prestato agli uomini della propria parte poteva anche sot-tostare un invito esplicito. Il 28 aprile 1398, circa seicento uomini di Ulzinate e Clivate arrivarono in soccorso dei Suardi per far fronte agli uomini della parte dei Colleoni e ai loro seguaci di Insula, incendiando le case di questi ul-timi. Due giorni dopo, gli stessi partigiani di Ulzinate diedero alle fiamme la dimora di un certo Palazzo, per poi decidere di unirsi a una grande armata di ghibellini di Galbiate, insieme ai quali si spostarono a Plorzano per mettere a fuoco, senza successo, le abitazioni dei guelfi. A essi, il 1° maggio si ag-giunsero altri duemila ghibellini, contrastati dall’afflusso di ulteriori seicento guelfi. Nello stesso giorno, pervenne l’avviso da parte del capitano generale, Antonino tornielli, del vicario generale, Antonino Lisigniano, e del podestà di Bergamo di eseguire l’ordine impartito per lettera dal signore, ossia che “nessuna persona potesse portare armi offensive né difensive nella città, nei borghi e nel distretto di Bergamo sotto pena della vita; né recarsi ad alcun

(18) Chronicon, p. 43.

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invito [il corsivo è mio]”19.Ogni qualvolta guelfi e ghibellini incontravano loro “amici” e “seguaci”,

essi si univano e fornivano rinforzi, cambiando l’obiettivo e spostandosi qua e là per tutto il territorio orobico. Il succitato ordine di Gian Galeazzo Vi-sconti lascia intendere che l’allargamento dei conflitti – che giunsero a coin-volgere, come si è visto, ben duemila rinforzi ghibellini – fu il risultato di un “invito”. I partigiani che “sentivano” le notizie di scontri e assalti si recavano in “soccorso”, “invitando” gli altri, oppure accettando le altrui richieste di intervento: in tal modo il campo delle azioni si ampliava sempre più, senza che esistesse un coordinamento da parte degli esponenti guelfi o ghibellini della città di Bergamo.

Sembrerebbe che tale rete di collaborazione o di soccorso reciproco tro-vasse un riscontro geografico in aree di diffusione relativamente limitate. I due principali nuclei fazionari del distretto di Bergamo erano costituiti dalla Val Seriana e dalla Val Cavallina a est e dalla Val Brembana e dalle val-li parallele a ovest, all’interno di ognuna delle quali è possibile individuare reti minori di collaborazione: per quanto concerne le valli orientali, esisteva un’alta concentrazione di guelfi in Val Seriana superiore e in alta Val di Scal-ve. Nella media Val Seriana erano presenti centri prevalentemente ghibellini come Clusone, Vertova e Gandino, verso il lago d’Endine, Sovere e Rovere sulla riva settentrionale del lago d’Iseo; a sud di Vertova, si estendevano in-vece alcuni villaggi prevalentemente guelfi, come Comenduno, Desenzano e Albino Superiore, questi ultimi in contrasto con i ghibellini di Albino Infe-riore. Ancora più a sud è situato Nembro, uno degli insediamenti ghibellini più vivaci. Un altro centro ghibellino era trescore, in Val Cavallina, mentre sulla riva meridionale del lago d’Iseo, verso l’Oglio, si estendevano abitati guelfi.

In Val Brembana, in particolare in alta valle (Oltre Goggia), si concentra-vano i centri ghibellini più attivi di tutto il territorio orobico: per tali località non mancano indizi di collaborazione contro le comunità guelfe circostanti, come Olmo e Piazza Brembana. Al contrario, nella zona a sud di Goggia sul Brembo, si estendeva una vasta zona guelfa, che includeva Cornello, San Giovanni Bianco, San Pellegrino, Sonzogno, zogno ed Endenna e che si estendeva fino a Sorisole e Ponteranica, ai margini settentrionali della città: nella media valle sembrerebbe che zogno fosse il confine tra l’area guelfa e quella ghibellina. Da zogno, dove il Brembo si piega verso ovest, si sus-

(19) Chronicon, pp. 75-76: “nulla persona audeat portare arma ofenssiva nec diffenssiva per civitatem burgios nec subburgos Bergami nec districtum Pergami, sub pena vite: nec ire ad aliquod invitamentum”.

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seguivano centri ghibellini come Stabello e Sedrina, alla cui altezza la Val Brembilla, noto focolaio ghibellino, si congiunge con il Brembo. Corre paral-lela alla Val Brembilla la Valle Imagna, la cui sezione meridionale forma una vasta enclave ghibellina assieme alla Valle Brembilla intorno a Clanezzo: erano ghibellini Ubiale, Clanezzo, Villa d’Alme, Almenno Inferiore, Brem-bate Superiore e Locate. In mezzo a questa vasta area, si incontra un lembo di territori guelfi capeggiati dai Rota, che attraversava le dorsali estese tra il Resegone e l’Albenza per arrivare fino ad Almenno Superiore e alla Val San Martino. Al di là dell’Albenza, i guelfi erano presenti anche nei pressi della città di Bergamo, tra Sorisole e Ponteranica a sud di zogno e a Rosciate, Al-zano, Poscante e Anesia.

Salvo rari casi, le prestazioni d’aiuto tra le micro-fazioni non si estendeva-no al di là dei singoli bacini guelfi o ghibellini succitati. Il tendenziale radi-camento locale delle attività delle microfazioni potrebbero aiutarci a spiegare alcune loro funzioni. Le azioni militari di guelfi e ghibellini erano per lo più volte alla rapina, pur non limitandosi a tale pratica: esse fornivano anche la protezione agli abitanti della zona della propria parte. Un episodio piuttosto noto accadde il 14 settembre 1403: i ghibellini di Almenno Inferiore, al mo-mento della raccolta nei vigneti ubicati nel settore del villaggio in mano ai guelfi, ricevettero il sostegno di altri dodici loro partigiani, che giunsero alla chiesa di San tomè per fornire protezione ai lavoratori nei campi. L’iniziativa ebbe un esito tragico, poiché i guelfi di Almenno Superiore, della Valle Ima-gna e della Val San Martino incendiarono l’edificio di culto, uccidendo i do-dici uomini. Il fatto mostra con chiarezza che le microfazioni locali avevano anche funzioni di tutela e di supporto alle attività economiche20. Si intende quindi provare a verificare quali persone e famiglie costituissero concreta-mente le micro-fazioni e a esaminare i loro minuti interessi sul territorio.

3. Le microfazioni e il territorio. I legami personali nelle società locali attra-verso il caso di Almenno e della Valle Imagna

Il 26 marzo 1369, quando Bergamo fu scossa dalle sollevazioni antivi-scontee nelle vallate alpine e prealpine, fu raggiunta una pace ad Arzenate tra i gruppi locali bergamaschi21. Presenziarono numerose parentele origi-narie del territorio intorno ad Almenno: Carminati, Pesenti, Ceresoli, Pilis,

(20) Chronicon, p. 130. Gli assalti durante il lavoro nei campi agricoli sembrano essere stati una preoccupazione frequente per le microfazioni. Il 24 giugno del 1398, mentre i guelfi di Almenno Superiore erano impegnati nella raccolta del frumento, furono assaliti dai ghi-bellini di Almenno Inferiore “cum certis eorum amicis” (Chronicon, p. 84).

(21) I“Registri litterarum”… cit., p. 60.

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Cavaneis, Bergonzi, zogno, Rota, Arrigoni, Locatelli, Serbelloni e Dunine-ni. Alcuni di questi nomi ricorrono con frequenza nel diario del Castelli, in particolare gli Arrigoni e i Locatelli22. Anche i Pilis e i Pesenti compaiono nel Chronicon, mentre i Carminati furono tra gli esponenti ghibellini astanti alla conferma della sottomissione della signoria cittadina a Pandolfo Mala-testa23.

È possibile approfondire i legami personali costruiti intorno a tali paren-tele attraverso alcuni registri notarili di Almenno: nel borgo, nel corso del trecento, furono attivi due notai appartenenti a una delle stirpi succitate, Simone Pilis (1353-1360)24 e suo fratello Giovanni (1360-1365)25. Nel regi-stro di Simone, un atto del 29 giugno 1356 riporta l’elezione del camparius nell’assemblea generale del comune di Almenno26. Erano presenti in veste di credendari membri delle famiglie Ceresoli – da cui discendeva anche il console Fachino, detto Besocha –, Bergonzi e Pilis: già intervenute alla pace di Arzenate, tali stirpi occupavano importanti cariche municipali del borgo. Altri lignaggi, quali gli Arrigoni, i Carminati, i Locatelli e i Rota, facevano invece eleggere loro esponenti tra i consiglieri della Valle Imagna27. Si pro-verà, dunque, a seguire le tracce di tali parentele.

a. Gli Arrigoni

Nella storiografia bergamasca, il nome degli Arrigoni non è certo sco-nosciuto. La parentela apparteneva a un ceppo signorile originario della Val taleggio e della Val Sassina. I membri della stirpe mostrano un profilo so-stanzialmente ghibellino. Dopo la capitolazione a Venezia delle valli berga-masche, nel 1428, gli esponenti del lignaggio si rifugiarono probabilmente in Val Sassina28.

(22) Si veda anche supra, nota 7. Gli Arrigoni e i Locatelli divennero ghibellini per via di un atto notarile, per poi assalire la contrada di Rota.

(23) B. BeLotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, II, Bergamo 1992, p. 327.(24) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis.(25) ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis. Per gli studi su Almenno il riferimento obbligatorio

è P. Manzoni, Lemine dalle origini al XVII secolo, Almenno San Salvatore 1988.(26) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 72.(27) Gli statuti del vicariato di Almenno, Valle Imagna e Palazzago del 1440, a cura di

Comunità montana Valle Imagna, S. Omobono Imagna 2000, p. 20, nota 33.(28) P. Pensa, Il libro della nobiltà lombarda III. Famiglie nobili e notabili stanziatisi

prima del 16 secolo in Lecco, nella Valsassina, nella Valvarrone, nella Val d’Esino e sulla riviera orientale del Lario, Milano 1976, p. 22. Alcuni nomi della stessa parentela sono presenti nel gruppo dei redattori degli statuti della Val Taleggio e di Averara dell’anno 1368 (Statuta et ordinamenta communis terrarum Talegii et Averarie, CBBg, Sala ID, 5, 6). Una considerazione sulla composizione del gruppo degli redattori degli statuti della Val Taleggio è in H. sato, Jūyon seiki visukonti kokkaka Berugamo ni okeru daikan to daikanku [trad. it.:

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Sebbene sia difficile stabilire con precisione la data di insediamento degli Arrigoni in Valle Imagna, alla metà del trecento essi apparivano ben radi-cati da almeno tre generazioni a Cepino: nel registro di Simone Pilis i mem-bri della famiglia sono infatti indicati con frequenza attraverso un rimando all’avo defunto “Alberto Arrigoni di Cepino in Valdimagna” (“olim domini Alberti Arigonum contratis de Cipino de Valdimania”). In particolare, nel 1354 sono documentati i fratelli Alberto detto tona e Guglielmo, figli di Pie-tro e nipoti del dominus Alberto Arrigoni di Cepino (“fratribus et filibus quondam Petri olim domini Alberti Arigonum de Cipino de Valdimagna”)29. Dalla stessa contrada di Cepino proveniva anche la schiatta di Giacomo figlio di Pietro e nipote di Giovanni Arrigoni (“filius quondam Petri olim filij do-mini Johannis Arigonum contratis de zipino de Valdimania”), che vendette

Il vicario e il vicariato a Bergamo del XIV secolo sotto lo stato visconteo], in “The Shirin” [trad. ingl.: “Journal of History”], n. 90-93 (2007), pp. 1-34. Numerosi riferimenti alle paren-tele delle valli occidentali della montagna bergamasca sono presenti in V. BartoLoMeo, La valle brembana con Taleggio e Seriana e la valle Imagna con la Brembilla vecchia: notizie storiche, geologiche, artistiche, genealogiche e biografiche, Bergamo 1895. Per quanto ri-guarda gli statuti della Val Brembana, si veda G.M. Varanini, La tradizione statutaria della Valle Brembana nel Tre-Quattrocento e lo statuto della Valle Brembana superiore del 1468, in Gli statuti della Valle Brembana superiore del 1468, a cura di M. Cortese, Bergamo 1994, pp. 13-62.

(29) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 1, 24 novembre 1353-12 dicembre 1356, p. 39.

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a Venturino Pilis immobili siti nella contrada di Selino in Valle Imagna il 5 gennaio 135930. Negli stessi anni è attestato anche un altro nipote di Alberto, Guglielmo detto Bedana: egli era tuttavia figlio di Giovanni, probabilmente fratello del succitato Pietro31.

Attorno alla metà del trecento, gli Arrigoni possedevano numerosi beni e diritti nelle valli Imagna e Brembilla. I fratelli Alberto tona e Guglielmo ri-scuotevano fitti da almeno otto appezzamenti fondiari siti in tali zone. L’usu-ra del documento non permette di ricostruire per intero le posizioni dei ter-reni, ma è possibile identificare la contrada di Berbenno. Risulta di un certo interesse il fatto che tra i proprietari o possessori di parcelle contigue a quelle di Alberto e Guglielmo figurassero membri di alcuni lignaggi di Berbenno coinvolti attivamente nel conflitto fazionario: Rachey Enrico e Martino detto Bazza Bonadei, entrambi dei Locatelli, e Pietro Bonafede Carminati.

Gli atti di Simone Pilis mostrano che alcuni esponenti degli Arrigoni era-no particolarmente intraprendenti in campo economico. Il 26 settembre 1355, Alberto detto Beto, figlio di Giovanni e probabilmente fratello di Gugliemo detto Bedana, sborsò 25 soldi di fitto alla chiesa di San Salvatore di Almen-no in veste di rappresentante del comune e di tutti gli abitanti e proprietari di Cepino, il che dimostra la sua indubbia posizione di rilievo nella società locale32.

Il 5 marzo del 1358, lo stesso Alberto acquistò da un suo consanguineo, Giovanni, prete della chiesa di Sant’Andrea di Amagno, il diritto di riscuo-tere venti lire di imperiali che quest’ultimo doveva ricevere pro beneficio et prebenda dai membri della comunità della contrada di Strozza in Valle Ima-gna33. È quindi assai probabile che Giovanni prete, appartenente alla stessa parentela, avesse favorito questa transazione a vantaggio di uno dei suoi pa-renti: egli fu in seguito prevosto della chiesa di San Salvatore di Almenno dal 1366 fino al 139034.

Le attività di Alberto Arrigoni non si limitarono alla concessione di terre o alla riscossione di crediti. Il 27 settembre 1355, egli consegnò nove pezzi di “panni di Bergamo”, “albi sgrezzi boni puliti et breve testi”, ai fratelli Simo-ne, Giovanni, Bertramo, Franzino e Bernardo, figli ed eredi del fu Alberto Ceresoli di Almenno. I nove pezzi facevano parte di una partita di quaranta

(30) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, 30 ottobre 1358-24 aprile 1369, p. 83.(31) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, 30 ottobre 1358-24 aprile 1369, p. 46.(32) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 88. Alberto consegna i 25 soldi a

Passino Caponcelli d’Almenno, che non porta alcun titolo ufficiale relativo alla chiesa di San Salvatore. Ciò lascerebbe intendere che si sia trattato di un appaltatore del diritto di riscossione.

(33) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, 6 gennaio 1358-22 ottobre 1358, p. 45.(34) P. Manzoni, cit., p. 107.

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“panni di Bergamo”, che Alberto Arrigoni doveva consegnare al notaio Enri-co Solari, a sua volta procuratore di Alberto Ceresoli 35. Gli Arrigoni, la più potente parentela della Valle Imagna, e i Ceresoli di Almenno avevano dun-que stretti rapporti di matrice economica nel campo della produzione della lana: tali relazioni, coltivate nelle valli e nei borghi della montagna orobica, avevano probabilmente come sbocco il mercato cittadino.

b. I Pilis

Gli Arrigoni non erano certo l’unica stirpe attiva nell’industria tessile in Valle Imagna. Il 27 marzo 1356, un certo Fachino Battaglia della contrada di Amagno si obbligò a dare 42 lire di imperiali a Venturino Pilis. Nello stesso giorno Fachino e Venturino stipularono un altro contratto, attraverso cui il primo promise di consegnare al secondo, entro un anno, “duo panni bergamini albi sgrezzij boni belli […] et de lana suarum peccorarum vel tam bona lana et ad mensuram paretem et pondus comunis Pergami”36. Amagno è una località sita all’interno di quella stessa contrada di Strozza dove Alberto Arrigoni aveva acquistato il diritto di riscossione pro beneficio et prebenda dalla chiesa di Sant’Andrea37. Venturino Pilis, notaio, era anche l’acquirente dei diritti di riscossione dei fitti relativi agli appezzamenti di terra siti a Cepi-no, a Selino e a Rota – tutte località della Valle Imagna – venduti da Giacomo Arrigoni il 5 gennaio 135938. Il notaio Venturino Pilis era figlio del fu Pietro Pilis, che era padre dei fratelli Simone e Giovanni, ambedue notai. Questa stirpe di professionisti della scrittura era attiva ad Almenno, dove Simone, come si è visto, compariva tra i consiglieri del comune nel 1356. I Pilis di Al-menno mostrano il profilo caratteristico di una famiglia di notai appartenente al ceto dirigente del borgo, che rappresentava il collegamento tra le valli del territorio e la città.

Nonostante Simone e Giovanni Pilis rogassero esclusivamente ad Almen-no, non per questo si deve escludere la possibilità di un loro frequente contatto con la città. È probabile che essi fossero imparentati con i numerosi Pilis che esercitavano come notai a Bergamo nello stesso periodo, tra cui todeschino

(35) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 89. Com’è noto, i panni di Bergamo erano chiamati anche “panni di Imagna”, a dimostrazione dell’importanza della valle Imagna come centro di tale produzione manifatturiera: P. Mainoni, L’ economia di Bergamo tra XIII e XV secolo, in Storia economica e sociale di Bergamo, I primi millenni, II, Il comune e la signoria, a cura di G. ChittoLini, Bergamo 1999, pp. 290-315; eaD., Per un’indagine circa i “panni di Bergamo” nel Duecento, in eaD., Economia e politica nella Lombardia medieva-le. Da Bergamo a Milano fra XIII e XV secoli, Cavallermaggiore 1994, pp. 13-92.

(36) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 110.(37) Cfr. supra, testo corrispondente alla nota 33.(38) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, 30 ottobre 1358-24 aprile 1359, p. 83.

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Pilis, attivo tra 1348 e 139039. Il suo nome compare anche nel Chronicon di Castello Castelli, come defunto padre di Giovanni, ucciso da 1500 guelfi al Castrum de Pilis il 1° agosto 139340. Anche quest’ultimo è documentato, tra il 1379 e il 1389, in città come notaio.

A un rapido spoglio dei registri notarili dei Pilis di Bergamo, si ha l’im-pressione che essi contengano non pochi atti riguardanti i Suardi e i Lanzi, esponenti ghibellini della città, sebbene, tra le pagine delle imbreviature, compaiano anche i nomi di alcuni membri dei Rivola. Il 18 settembre 1364, Muletto Suardi, in nome della propria figlia Comina e di suo marito, conce-dette in locazione a Giovanni, figlio di Petino detto zinardo di Casizzo di Sorisole, alcuni appezzamenti di terra e la relativa decima, siti nella vicinia di San Lorenzo di Bergamo. Da questo atto si evince che Comina, nipote di Guglielmo Suardi, era moglie di Andreolo del fu Marchetto Pilis di Stabel-lo41. Comina non è l’unico esempio di matrimonio tra i Suardi e i Pilis. Nel Chronicon si ha notizia di Donola, figlia di Marsilio Pilis e vedova di Guidino Suardi42.

Nel registro di todeschino Pilis si incontra, nel 1364, Bassiano, figlio del fu Passino Pilis di Stabello, in veste di console di quest’ultima località43. Sebbene non sia chiaro il rapporto tra i diversi rami dei Pilis, distinti l’uno dall’altro attraverso l’indicazione del luogo di radicamento (Stabello, Almen-no ecc.), tali differenti lignaggi risiedevano in comunità marcatamente ghi-belline, dove occupavano le più importanti posizioni politiche e sociali. Da un lato, essi erano legati alle grandi famiglie ghibelline della città, come i Suardi; dall’altro i Pilis di Almenno avevano strette relazioni con la Valle Imagna, attraverso attività economiche quali la produzione laniera e la ge-stione delle proprietà terriera. Simili attività economiche costituiscono il filo che lega i ghibellini della città a quelli di Almenno e della Valle Imagna.

c. I Carminati

Diversamente dagli Arrigoni e dai Pilis, i Carminati, nonostante l’ado-zione di indirizzi all’apparenza ghibellini, intavolarono modalità di azione politica più ambigue.

Insediati tra la Valla Brembilla e la parte meridionale della Valle Ima-gna, i Carminati possedevano il castello del monte Ubione. Nel 1408, quando

(39) ASBg, FN, n. 51, Todeschino Pilis.(40) Chronicon, p. 41.(41) ASBg, FN, n. 51, Todeschino Pilis, 1364, p. 21.(42) Chronicon, p. 117.(43) ASBg, FN, n. 51, Todeschino Pilis, 1364, p. 80.

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Giovanni Suardi concedette la città di Bergamo a Pandolfo Malatesta alla presenza di molti ghibellini, erano presenti anche “i rappresentanti dei Car-minati di Brembilla” e quelli dei “Carminati della Valle Imagna”: ai tempi di Pandolfo Malatesta si erano dunque formati almeno due gruppi di parentela distinti, radicati rispettivamente nelle valli Brembilla e Imagna44. Nei registri di Simone e Giovanni Pilis si incontrano rami della stirpe insediati a Ber-benno45, Opolo46 e Clanezzo47. Inoltre, da un documento del 1389 conservato nell’archivio capitolare, si ha notizia del rifiuto da parte degli abitanti delle valli del pagamento dei fitti alla chiesa di San Salvatore di Almenno: tra gli inadempienti compaiono i Carminati di Laxolo e di Castigliola48.

Il 16 maggio 1355, Volentela Carminati di Opolo di Valle Imagna si im-pegnò a restituire a Giovanni Ceresoli un prestito di 10 lire di imperiali in 4 anni. In realtà si trattava di un contratto già stipulato da Volentela, assieme al marito Pedretto Antelinoni di Bondo di Brembilla, la cui conferma si era resa necessaria alla morte del padre Giacomo49.

Il fatto che i coniugi Volentela e Pedretto avessero ricevuto il finanzia-mento da parte dei Ceresoli lascia intendere l’esistenza di un’influenza fi-nanziaria da parte di quest’ultima parentela sulla Valle Imagna attraverso le relazioni personali di orientamento ghibellino. tuttavia, si ha l’impressione che gli interessi dei Carminati fossero radicati in un’area circoscritta tra le valli Imagna e Brembana, intorno al monte Ubione, Clanezzo e Castigliola, e che le relazioni fazionali di orientamento ghibellino di larga scala fossero secondarie. Il 25 marzo 1356, Giacoma, figlia del fu Bondo Carnevale di Ubiale e di Giovanna Carminati di Opolo, ricevette dalle sue sorelle 35 lire di imperiali e un vestito provenienti dalla dote della madre. Nell’atto risulta che Giacoma era allora moglie di Martino, figlio di Giovanni Cavazalli di Ubia-le50. Sia la madre che la figlia si sposarono, dunque, con uomini di Ubiale, un luogo di importanza strategica per gli agevoli collegamenti con Clanezzo e con i fiumi Brembilla e Brembo: in tal modo, le doti erano rimaste ancorate al territorio dove si concentravano gli interessi dei Carminati.

(44) B. BeLotti, Storia... cit., p. 327.(45) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, 24 novembre 1353-12 dicembre 1356, p. 39.(46) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo2, p. 70; ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis,

p. 55.(47) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, facicolo 2, p. 74.(48) ASDBg, Edicta et mandata, 28 maggio 1389. Opolo è sito sulla riva sinistra dell’Ima-

gna nella parte meridionale della Valle, a metà strada tra Berbenno e il monte Ubione, mentre Clanezzo, noto per il suo porto, si trova al punto di confluenza dell’Imagna nel Brembo. Laxolo si trova sulla riva destra della Valle Brembilla, Castigliola invece tra il Brembo e la Valle Brembilla.

(49) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 70.(50) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 108.

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tra le comunità di Clanezzo, Ubiale e Castigliola esistevano robusti lega-mi di solidarietà. Alcuni vicini di Ubiale risultavano essere possessori di ter-ra a Castigliola, nel 1354, e pagarono la decima alla chiesa di San Salvatore di Almenno assieme alla vicinia di Castigliola51. Il 24 novembre dello stesso anno, Matteo Novarisio di Brembilla corrispose i fitti dovuti alla medesima chiesa di San Salvatore per alcuni appezzamenti di terra siti a Castigliola e confinanti con i beni del fu Bayro Carminati.

Probabilmente, anche l’atto di resistenza avvenuto nel 1389 da parte degli abitanti dell’area e dei Carminati nei confronti della chiesa di San Salvatore era stato reso possibile grazie a tali solidi legami personali, ben ancorati al territorio e costruiti intorno alla potente famiglia Carminati: simili interessi di raggio locale in alcune congiunture sembrano essere stati maggiormente determinanti rispetto alle relazioni familiari costruite con la città attraverso le parentele di Almenno e i canali ghibellini52.

d. Altri abitanti del territorio

Fachino, figlio di Martino di Amagno, si impegnò, come abbiamo avuto modo di vedere, a consegnare due panni di Bergamo a Venturino Pilis nel 1356. Egli aveva almeno due fratelli, uno dei quali si chiamava tentaldo. Nel 1361, tentaldo acquistò diritti su alcune pezze di panni di Bergamo, “boni, pulite brevi testi et ordinati et de lana nostrana”, da Riccadonna Caponcelli, vedova di Leone Caprinoni di Almenno, e dai suoi due figli53. Un altro fratel-lo di Fachino, Bonomo, il 15 marzo dello stesso anno si impegnò a pagare a Martino Palazoni di Paladina 22 lire di imperiali, come conguaglio di 66 lire promesse per tre pezzi di grossi panni di Bergamo di colore bianco54. È assai probabile che i tre fratelli gestissero assieme l’impresa familiare, con sede di produzione in Valle Imagna55.

Anche la famiglia di nascita della suddetta Riccadonna, i Caponcelli di Almenno, erano legati alla Valle Imagna tramite i canali di produzione e vendita dei panni di Bergamo. Il 29 luglio 1358, Alberto Caponcelli ricevette due pezzi di panni di Bergamo al prezzo di 3 lire di imperiali da Martino

(51) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 1, p. 63.(52) Ciò spiegherebbe il perché del loro rapporto con i Rota (I “Registi litterarum”... cit.,

p. 67).(53) ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis, p. 25.(54) ASBg, FN, n. 24.,Giovanni Pilis, p. 116.(55) Nel caso di Roncola, purtroppo non abbiamo sufficienti informazioni per valutare

se si fosse trattato di una gestione comunitaria dell’industria tessile, in maniera analoga a quanto riscontrato da Patrizia Mainoni per la Val Seriana (P. Mainoni, L’economia… cit., p. 300).

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Rossi di Roncola in Valle Imagna56. tale testimonianza non costituisce l’uni-co riferimento all’industria tessile nella contrada di Roncola. Anche Fachino di Roncola possedeva pecore e produceva lana: l’8 aprile 1361, egli vendette 7 pezze di panno di Bergamo, “de lana nostrana suarum pecudum vel tam bona”57. Si può osservare come la proprietà fondiaria fosse un importante re-quisito per la produzione e per l’attività di manifattura della lana “nostrana” “del posto” o “della Valle Imanga”.

Nella zona intorno a Cepino e Amagno, le stirpi meglio radicate erano gli Arrigoni e Pilis: avvinte da numerosi interessi comuni, come si è visto, tali stirpi risultavano essere tra i più strenui sostenitori ghibellini nel territo-rio bergamasco. A Roncola, tuttavia, sono frequenti anche i riferimenti alle proprietà dei Rota, una nota parentela guelfa. Il 16 aprile 1361, Omobono Mussi di Cepino acquistò un appezzamento di arativo sito nella medesima località da suo fratello Oplando, vendendo contemporaneamente due terre-ni, anch’essi ubicati a Cepino, a un altro fratello, Giraldo. I beni rilevati da Omobono confinavano a oriente e a occidente con le proprietà degli Arrigoni; le terre ricevute da Giraldo, oltre che con i suoi stessi possedimenti, erano attigue, a oriente, con quelle di un altro fratello, Giovanni. La transazione era dunque intesa a razionalizzare la gestione delle terre possedute dai diversi membri del lignaggio a Cepino. È interessante rilevare come un ulteriore fondo interessato dall’operazione confinasse, oltre che con i Mussi, con Gio-vanni Rota. Quest’ultimo aveva locato in perpetuo, per un fitto di 48 soldi di imperiali, diverse terre a Omobono, di cui facevano parte anche quelle passate a Giraldo. I beni dei fratelli Mussi di Cepino confinavano, quindi, sia con gli Arrigoni, sia con i Rota.

Anche a Barlino, sul versante meridionale del monte Albenza, la proprie-tà terriera appare frammentata fra lignaggi guelfi e ghibellini. tra le pagine dei registri di Simone e Giovanni Pilis, si incontra spesso un certo Giacomo detto tayegio, abitante di Barlino e nipote del fu Guarisco di taleggio. Il rife-rimento al nonno Guarisco mostrerebbe che la sua identità era ancora legata alla Val taleggio, da dove, come si è visto, provenivano anche gli Arrigoni. In effetti, non mancano riferimenti che legano tale personaggio al milieu ghi-bellino. Il 14 dicembre 1354, Giraldo Pilis donò al tayegio il diritto di riscuo-tere un fitto di 16 soldi su un terreno a Bertalli, nel territorio di Almenno, che lo stesso Giraldo aveva acquistato soltanto poco prima da Clarina zucchi,

(56) ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis, p. 29.(57) ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis, p. 29. Roncola, sito sulla riva destra dell’Imagna, ai

piedi del monte Albenza e confinante con Bedlita e Amagno, era uno dei migliori pascoli. Si può ben supporre che si sia trattato di uno dei più importanti centri di produzione dei panni di Bergamo, così come la zona meridionale della riva destra dell’Imagna ai piedi dell’Albenza.

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moglie del miles Isaldo Colleoni58. Giacomo ambiva forse a tale bene per via della vicinanza con il tornago,

le cui acque erano preziose per la fertilità dei pascoli tra Barlino e il monte Albenza: sembrerebbe, infatti, che egli cercasse di accumulare, attraverso più transazioni, terre in tale zona, i cui proprietari erano in parte ghibellini. Il 13 marzo 1356, Giacomo consegnò a Marchino Solari 3 sestari di farina di castagne per alcune superfici in Valle Musinoni, sull’Albenza. Nel 1361, egli pagò un fitto annuale a Simone Ceresoli di Almenno, senza che però fosse specificato il fondo corrispondente.

Il tayegio pare dedito a un’attività di intermediazione più che alla coltiva-zione o all’allevamento diretto. Nel 1354, egli ricevette 13 soldi e 4 denari da Martino Gavazene di Valle Imagna come fitto per una locazione perpetua59. Un anno dopo, il 12 gennaio 1355, Giacomo vendette per 6 lire di imperiali una pecora bianca a Guglielmo Oldene de Portulla in Valle Imagna60, il quale la affidò in soccida a Bonetto Gavazene, abitante di Barlino. Quest’ultima famiglia, con cui Giacomo intratteneva diverse relazioni, era a sua volta in contatto con i Rota: il 24 marzo 1356, Martino Gavazene consegnò a Giovan-ni Rota di Valle Imagna 1 sestario di farina di castagne come affitto annuale per tre pezze di terra a Barlino61. Le relazioni economiche del tayegio non sembrano avere dunque risentito particolarmente del conflitto fazionario. Del resto, nonostante le relazioni privilegiate con famiglie ghibelline, egli si radicò nella classe politica di un abitato a prevalenza guelfa. Il 20 maggio 1384, Giacomo compariva come uno dei vicini della comunità di Almenno Superiore62, separatasi dalla ghibellina Almenno Inferiore per via della sua adesione alla fazione guelfa.

Intorno ad Almenno le fazioni incisero, in misura non trascurabile, nel-lo sviluppo delle relazioni personali legate alla manifattura e al commercio della lana, in particolare dei “panni di Bergamo”. tuttavia, se nell’industria tessile giocarono un ruolo importante i rapporti costruiti secondo la logica della fazione, vi trovarono spazio anche legami economici più aperti, gestiti attraverso contatti con membri di entrambi i partiti: simili relazioni furono realizzate con frequenza soprattutto negli ultimi passaggi della catena pro-duttiva. La produzione dei panni di Bergamo si sarebbe giovata della gestione

(58) ASBg, FN, n. 24, Giovanni Pilis, pp. 6, 8; ivi, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 1, pp. 109-110.

(59) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, fascicolo 1, p. 104, fascicolo 2, p. 107; ivi, n. 24, Giovanni Pilis, p. 35.

(60) ASBg, FN, n. 75, Simone Pilis, p. 121.(61) ASBg, FN, n 75, Simone Pilis, fascicolo 2, p. 107.(62) ASBg, FN, n 25, Agnello della Piazza, p. 23.

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su una solida base locale: grazie alla conservazione di un reticolo di relazioni che prescindeva dal rapporto fazionale si assicurava un sicuro rapporto tra la produzione della lana, la tessitura, l’ordine e la consegna dei prodotti finiti.

Conclusione

I legami personali legati alla logica di fazione si palesavano anche nella vita quotidiana. Nel nostro caso, essi, soprattutto ghibellini, costituirono la cinghia di trasmissione tra Almenno e la Valle Imagna, organizzando in maniera capil-lare le attività economiche della valle. I maggiori casati ghibellini della zona, quali gli Arrigoni, i Pilis e i Ceresoli, nonché i Suardi di Bergamo, intessero stretti rapporti economici, riconducibili per lo più alla produzione dei “panni di Imagna”. I loro capitali furono investiti nell’industria tessile attiva nella zona meridionale della Valle Imagna, che utilizzava la lana proveniente dall’alle-vamento locale. La forte impronta nella zona dei legami fazionali non esclu-se, però, la convivenza con altre logiche sociali, come nel caso dei Carminati. Inoltre, lo stesso sviluppo dell’industria tessile e dell’allevamento consigliò alle stirpi radicate su territori circoscritti di mantenere aperte le relazioni sia con i guelfi, sia con i ghibellini.

Il coordinamento tra microfazioni e fazioni di Bergamo nelle Orobie del trecento si sviluppò in stretto rapporto con le realtà locali. Permasero, tutta-via, margini di ambiguità, che lasciavano spazio all’incontro di diversi modi di organizzare le relazioni sociali e politiche: tali modalità alternative avrebbe-ro preso corpo soprattutto nelle situazioni conflittuali venutesi a creare sotto il vuoto di potere seguito alla morte di Gian Galeazzo Visconti. In assenza dell’inquadramento visconteo, che comunque riusciva a imporre dall’alto al territorio bergamasco la propria politica di pace basata sull’equilibrio tra le fazioni63, l’esigenza di concordia della popolazione si sarebbe tradotta nei ten-tativi locali di superare i contrasti fazionali violenti, attraverso il ricorso alla giustizia, all’intesa tra le microfazioni e al disciplinamento interno alle correnti fazionarie. Le forme e logiche di tali tentativi di costruzione della pace dal bas-so sarebbero rimaste ancora plurime, rispecchiando, in una spirale di conflitti e paci che andava evolvendo verso un assetto territoriale più stabile, la vitalità di ogni protagonista sociale e politico del distretto orobico. L’analisi più approfon-dita di tali aspetti dovrà però, purtroppo, essere demandata ad un’altra sede.

(63) Paolo Grillo sottolinea la pur temporanea efficacia della politica viscontea volta a garantire un equilibrio tra le fazioni: P. GriLLo, Il signore, il comune, le parti: conflitti per il controllo del territorio bergamasco alla fine del Trecento, relazione presentata al convegno internazionale di studi Controllare il territorio. Norme, corpi e conflitti tra medioevo e pri-ma guerra mondiale, Abbiategrasso-Milano, 15-17 settembre 2010.

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Insediamenti e appartenenza fazionaria

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Alma Poloni

COMUNI SENzA COMUNItà.Villaggi scomparsi, iniziative comunitarie e progetti imprenditoriali in

Val Seriana superiore nel XIV e XV secolo

Nelle pagine che seguono si affronterà una questione che potrebbe sem-brare marginale, ma che in realtà, a mio parere, riassume in sé alcuni degli aspetti più significativi dei processi economici, sociali e politici che interes-sarono la Val Seriana superiore alla fine del Medioevo. tale questione, infat-ti, costringe a confrontarsi con una serie di problemi di grande rilevanza: le modificazioni dell’insediamento; le trasformazioni del paesaggio agrario; le alterazioni dell’equilibrio tra popolazione e risorse; la formazione e il ricam-bio delle élites locali; l’intervento della città; l’impatto dei disordini legati alle lotte di fazione, e altro ancora. La vicenda riguarda quelli che possiamo chiamare i “comuni senza comunità”. Si tratta di tre villaggi – Lantana, tede e Gavazzo – che scomparvero nel corso del trecento, senza però che il loro spopolamento comportasse la disgregazione dei territori comunali che ad essi facevano capo nel XIII secolo. Dietro la lunga sopravvivenza dei tre comuni, ormai senza comunità, privi cioè di qualsiasi forma di vita comunitaria, si nasconde in realtà, come vedremo, un esperimento di definizione dello spa-zio e di valorizzazione delle risorse naturali radicalmente alternativo rispetto ai progetti portati avanti dalle comunità rurali locali.

1. Lantana, Tede e Gavazzo nel Duecento

Intorno alla metà del Duecento l’attuale territorio di Castione della Pre-solana era diviso tra tre comuni: Castione, tede e Lantana. La toponomastica locale consente ancora di individuare con una certa attendibilità quella che doveva essere l’estensione e la conformazione dei comuni di tede e di Lanta-na. Dei tre territori, quello di tede era senz’altro il più svantaggiato, perché in gran parte scosceso e con un’esposizione poco favorevole. Il villaggio si trovava probabilmente in corrispondenza delle attuali località denominate tede alta e tede bassa, l’unica porzione relativamente pianeggiante, posta a un’altitudine di circa 800 metri, oggi occupata da prati. Il comune si esten-deva a sud, oltre il torrente Gera, lungo il versante settentrionale del monte

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Varro, fino a un’altitudine di circa 1200 metri1.Il territorio di Lantana era più vasto. Il villaggio era situato verosimil-

mente nella località che ancora porta questo nome, dopo Dorga, frazione di Castione, a un’altitudine compresa tra i 1000 e i 1100 metri. Il comune com-prendeva quella che ancora oggi è denominata Valle Lantana, inglobando il Monte Lantana, oltre i 1600 metri.

Verso la metà del Duecento i villaggi di tede e Lantana contavano dun-que un numero di abitanti abbastanza elevato da poter sostenere il peso di un’organizzazione comunale autonoma. Sulla base di una fonte di straordi-nario valore informativo, Angelo Mazzi ha calcolato che nel 1267 vivevano a tede almeno 14 famiglie – quindi, possiamo supporre, almeno una sessantina di persone – , 23 a Lantana – come minimo un centinaio di persone2. Cifre non disprezzabili per un contesto montano, anche se non paragonabili alle 120 famiglie che risiedevano a Castione. Lo storico bergamasco avverte co-munque che si tratta di stime molto caute, quasi certamente approssimate per difetto. Il documento in questione, inoltre, prende in considerazione soltanto i capifamiglia che versavano canoni e tributi al vescovo di Bergamo. tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo l’episcopato aveva portato avanti un intenso sforzo di recupero e riaccorpamento dei diritti patrimoniali e signorili sulle terre e i coltivatori della Val Seriana superiore. Nonostante ciò, non si può escludere che ancora nel 1267 qualcuna delle antiche casate di vassalli vescovili continuasse a vantare prerogative su qualche famiglia di Castione, tede e Lantana.

La fonte analizzata dal Mazzi fornisce informazioni preziose anche sul paesaggio agrario di questi luoghi. Negli anni ’60 del XIII secolo i canoni versati al vescovo – o meglio ai conductores che avevano preso in appalto la riscossione dei censi – dagli abitanti di Castione, tede e Lantana erano in gran parte in cereali3. A Castione prevaleva il frumento, seguito da vicino

(1) Nel novembre del 1256 Algisio da Rosciate, vescovo di Bergamo, ordinò ai consoli di Castione, di Tede e di Onore di procedere alla divisione del monte Varro tra i tre comuni: ASDBg, MV, Diplomata, n. 78, 1256 novembre 10.

(2) A. Mazzi, Castione della Presolana, in “Bollettino della Civica Biblioteca di Berga-mo”, n. 11, 1917, pp. 35-83 (d’ora in poi I); n. 12, 1918, pp. 57-97 (d’ora in poi II), in particolare I, p. 27. Il documento analizzato dal Mazzi ha oggi questa segnatura: CBBg, Manoscritti, MMB 500, A-3/2/4. Si tratta dei rendiconti, riguardanti gli anni 1266-68, prodotti dai tre cittadini di Bergamo che avevano preso in locazione (più tardi si sarebbe detto in appalto) dal vescovo la riscossione di tutti i redditi – canoni, censi, decime, diritti signorili di ogni genere – della curia vescovile di Castione.

(3) A. Mazzi, cit., II, pp. 63-65. Sulla affermazione della prassi della locazione dei redditi signorili delle curie vescovili si veda F. Menant, Campagnes lombardes au Moyen Âge. L’économie et la société rurales dans la ragion de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, pp. 754-757. Per un contesto diverso M. DeLLa MiseriCorDia,

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dalla scandella, una varietà di orzo particolarmente adatta al clima e alle ca-ratteristiche pedologiche della montagna. A Lantana due terzi dei canoni in natura erano in scandella, il terzo rimanente era diviso a metà tra frumento e segale. La quantità di scandella versata dagli abitanti di Lantana era note-vole, di gran lunga superiore a quella di Castione, dove però, come si è detto, predominava il frumento. A tede il frumento era del tutto assente; tre quarti dei pagamenti avvenivano in segale e anona (probabilmente l’avena), più o meno nella stessa proporzione, un quarto era rappresentato dalla scandella. Ne possiamo concludere che una parte non insignificante anche del territorio di tede e, soprattutto, di Lantana era adibito alla cerealicoltura. La scandella era un cereale meno pregiato del frumento, e certamente meno apprezza-to dal mercato. tuttavia, esso consentiva probabilmente alla popolazione di Lantana di raggiungere, nelle annate migliori, l’autosufficienza. Diverso era forse il caso di tede, dove, a quanto sembra, anche la scandella stentava ad attecchire, e prevalevano cereali di minore valore nutritivo come la segale e l’avena. Comunque, questi dati suggeriscono per tede e Lantana l’immagine di un’economia improntata all’autoconsumo, che integrava la coltivazione di cereali adatti alle particolari condizioni ambientali di questi siti con lo sfrut-tamento dei prati, dei pascoli in quota e del bosco.

Gavazzo si trovava più o meno in corrispondenza dell’attuale abitato di S. Lorenzo, frazione di Rovetta. Il toponimo è rimasto oggi a indicare soltanto una valletta impervia poco a sud del paese. Nella prima metà del Duecento il terri-torio di Gavazzo era soggetto alla signoria del Capitolo di Bergamo. Il comune è attestato per la prima volta nel 12094. Un documento eccezionale dell’ottobre 1212 descive nel dettaglio il funzionamento della signoria e apre uno squarcio sulle rivendicazioni degli homines di Gavazzo5. La villa era situata in un’ampia area pianeggiante a un’altitudine di circa 600 metri. Per la percezione dei ca-noni e degli oneri signorili la terra aratoria, che sembra abbondante, era stata divisa in tre sortes: la sors archidiaconi, la sors primicerii e la sors alcherii. Ciascuna di queste sortes era a sua volta suddivisa in 12 sorticellas, su ognuna delle quali insistevano uno o più casalia, unità di sfruttamento che coincideva-no probabilmente, in origine, con il singolo nucleo familiare, ma tendevano già in questa fase a una spiccata frammentazione a causa dell’aumento demogra-

La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano 2000.

(4) ASDBg, Perg. cap., n.1546. (5) ASDBg, Perg. cap., n.1549. Si tratta di un testimoniale prodotto nell’ambito di una

controversia tra il Capitolo di Bergamo e il comune di Gavazzo. Anche se la materia del contendere non è esplicitata nel documento, la lite sembra riguardare la gestione e lo sfrutta-mento dei beni comunali (il comune in senso stretto) di Gavazzo, o di una parte di essi.

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fico6. Responsabile di ciascuna sors era un gastaldo nominato in accordo dal signore e dai rustici. Non è questa la sede per procedere all’analisi dettagliata di questa fonte, pure di grandissimo interesse7. Per i nostri scopi, è sufficiente sottolineare che essa mostra una situazione che, già nei primi anni del Due-cento, era di intenso sfruttamento della terra coltivabile, quando non di vero e proprio sovraffollamento.

Il territorio che faceva capo alla villa di Gavazzo era estremamente am-pio8. Esso si estendeva in Val Borlezza, sulla riva destra del fiume, fino al con-fine con il comune di Sovere9. A ovest esso confinava con il mons illorum de Gandino, identificabile probabilmente con il complesso montuoso che separa la Val Gandino dalla Val Borlezza. Nelle numerose alture comprese in quest’area, alcune delle quali superavano i 1300 metri, i rustici di Gavazzo avevano a disposizione pascoli di buona qualità10. Considerevole doveva essere anche la superficie boschiva, che tuttavia, nel 1212, era erosa dal dissodamento. Una parte del bosco, probabilmente quella più vicina al villaggio, era stata infatti divisa tra gli homines di Gavazzo, in proporzione all’estensione della terra che ciascuno di essi coltivava nelle sortes, affinché la arroncassero11. Il resto dei boschi e dei pascoli venivano sfruttati collettivamente, e costituivano il comu-ne de Gavazio, cioè i beni comuni a disposizione degli abitanti del villaggio.

(6) Il più informato tra i testimoni, magister Giovanni Asino, canonico del Capitolo di Bergamo, chiamato a fare i nomi dei coltivatori che facevano capo a ciascuna sors, descriveva una situazione nella quale su ogni casale vivevano ormai diversi nuclei familiari legati da una comune discendenza.

(7) Il sistema di riscossione delle rendite signorili descritto da questo documento è stato in parte analizzato da F. Menant, cit., pp. 314-317. Lo storico francese, tuttavia, identifica Gavazzo con Songavazzo. Si tratta invece di due villaggi diversi. Secondo l’ipotesi formulata da A. Settia nel corso di questo stesso convegno, Songavazzo sarebbe un centro geminato nato proprio dallo sdoppiamento di Gavazzo, forse nel XII secolo, probabilmente in seguito alla rapida crescita della popolazione dell’abitato più antico.

(8) ASDBg, Perg. cap., n.1549. I confini del territorio del comune di Gavazzo sono in-dicati sia nella testimonianza di Manfredo de Sablono di Clusone che in quella di magister Giovanni Asino.

(9) La riva sinistra del fiume Borlezza era invece territorio soggetto alla signoria del ve-scovo di Bergamo, e diviso tra i comuni di Cerete e Onore con Songavazzo.

(10) Giovanni Asino testimoniò di aver riscosso dagli uomini di Gavazzo, insieme agli altri oneri, 9 soldi “pro caseo” e 3 soldi “pro agnellis”, e aggiunse: “quos credo ordinatos fore pro pasculis”.

(11) Interrogato a proposito di un appezzamento di terra conteso tra il Capitolo e il comu-ne di Gavazzo, magister Giovanni Asino affermò: “illa terra est in roncatura buschi que inter se diviserant secundum quantitatem quam tenebant de suprascriptis sortibus”. Sui dissoda-menti e sull’erosione del bosco si vedano almeno R. CoMBa, Metamorfosi di un paesaggio rurale. Uomini e luoghi nel Piemonte sud-occidentale fra X e XVI secolo, Torino 1983, e G. CheruBini, Il bosco in Italia fra il XIII e il XVI secolo, in L’uomo e la foresta (secoli XIII-XVIII). Atti della XXVII settimana di studi dell’Istituto internazionale di storia economia “F. Datini”, a cura di S. CaVaCioCChi, Firenze 1996, pp. 357-374.

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2. La crisi del Trecento

Nello Statuto di Bergamo del 1331 tede, Lantana e Gavazzo compaiono tra i comuni del distretto che facevano riferimento alla facta di S. Lorenzo12. Come è esplicitamente dichiarato nel testo, tuttavia, le quattro rubriche ri-guardanti le facte erano state trascritte, probabilmente senza modifiche so-stanziali, dallo statutum vetus duecentesco13. Negli anni, però, la situazione del popolamento nella Bergamasca doveva essere cambiata notevolmente. Le rubriche 58, 59 e 60 della collatio II dello stesso Statuto del 1331 stabilivano – riprendendo almeno in parte, anche in questo caso, disposizioni analoghe già presenti nel testo più antico – che i comuni che non erano in grado di so-stenere gli oneri imposti dalla città, o di mantenere un’organizzazione istitu-zionale di base, dovessero aggregarsi ad altri comuni14. Si disponeva, tra l’al-tro, che Gavazzo, Onore e Songavazzo fossero annessi al comune di Cerete. L’unione non avvenne, almeno non in questi termini: nel 1335 il comune di Onore e Songavazzo – i due villaggi costituivano già nel Duecento un unico territorio comunale – agiva ancora in maniera del tutto autonoma, con pro-pri consoli15. Del resto, lo Statuto prevedeva che i comuni potessero opporsi all’aggregazione se riuscivano a dimostrare di essere in grado di adempiere agli obblighi imposti dalla città. Di Gavazzo invece, nei decenni successivi, non abbiamo più notizie.

Sempre nello Statuto del 1331 troviamo anche questa indicazione: “et si aliquis vel aliqui sunt habitantes in locis de tethe et de Lantana vel in futu-rum habitabunt intelligantur et sint uniti cum Castione”16.

tanto la rubrica relativa alla facta di S. Lorenzo quanto quella sull’unio-ne dei comuni vennero ripetute senza variazioni nello Statuto del 135317. In quest’ultimo testo statutario, tuttavia, in un capitolo che disciplinava gli obblighi dei comuni riguardo alla manutenzione delle strade, compare un comune di tede e Lantana (uniti), mentre il comune di Gavazzo vi figura ancora da solo18. Ancora nello Statuto del 1422, però, tede e Lantana erano

(12) Lo Statuto di Bergamo del 1331, a cura di C. storti storChi, Milano 1986, p. 60.(13) “Item statuerunt et ordinaverunt quod comunia de foris remaneant sub factis quatuor

portarum et confinia earundem, secundum quod continetur in antiquis statutis prima colla-tione centessimo quinto capitulo usque ad centessimum octavum inclusive; quorum tenor talis est” (ivi, p. 57).

(14) Ivi, pp. 65-73.(15) ASDBg, MV, Diplomata, n. 84.(16) Lo Statuto di Bergamo del 1331... cit., p. 70.(17) Lo Statuto di Bergamo del 1353, a cura di G. ForGiarini, Spoleto 1996, p. 380 e p.

387.(18) Ivi, p. 342.

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indicati come comuni distinti19. L’ingresso della Bergamasca nella domina-zione veneta pose fine – almeno in apparenza – a questa ambiguità. Venezia riconobbe infatti in Val Seriana superiore 13 comuni, che avevano diritto a inviare i propri delegati nel Consiglio di Valle, l’organo federativo che ac-quisì un ruolo politico di importanza crescente a partire dai primi decenni del Quattrocento: Castione, Cerete, Onore con Songavazzo, Clusone, Gorno, Premolo, Gandellino, Valgoglio, Oneta, Ardesio, Gromo, Parre, Sovere20. Gavazzo, tede e Lantana sparirono dai documenti “ufficiali”, quelli che de-finivano e regolavano le forme della rappresentanza politica in Valle e i rap-porti con la Dominante.

La storia di Gavazzo, tede e Lantana sembra assimilabile a quelle di tanti comuni rurali scomparsi (definitivamente, o, più spesso, temporane-amente) nel trecento, abbandonati dalla popolazione in conseguenza delle carestie, delle epidemie, delle guerre che segnarono quel secolo o, caso più frequente in Italia, semplicemente riassorbiti in territori comunali più ampi in seguito al calo demografico21. Certo colpisce la cronologia dello spopola-mento di queste località. Intorno alla metà del Duecento era stato raggiunto in Val Seriana superiore il culmine dell’espansione demografica medieva-le, e, soprattutto, dell’estensione dei coltivi. Come abbiamo visto, i cereali avevano conquistato quote assai elevate, come a Lantana, e pendii scoscesi, come a tede, e sottraevano rapidamente spazio al bosco, come a Gavazzo. Pochi decenni dopo, però, nel primo trecento, le autorità di Bergamo sem-bravano convinte che tede e Lantana, dove negli anni ’60 del XIII secolo vivevano complessivamente almeno 150 persone, fossero ormai disabitate o quasi22. Ancora più impressionante il caso di Gavazzo, che già nei primi anni

(19) Si vedano anche le informazioni su Lantana e Tede riportate nel Progetto civita: http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/1001712/ e http://www.lombardiabe-niculturali.it/istituzioni/schede//1002910/.

(20) Nei registri del notaio Iacobo da Fino sono stati trascritti numerosi verbali di Consi-gli della Val Seriana superiore: si vedano, per esempio, ASBg, FN, n. 556, V, 1476 dicembre 30; n. 556 ½, VII, 1474 dicembre 27; ivi, 1475 gennaio 3. Molto ricco di informazioni det-tagliate sull’organizzazione istituzionale della Val Seriana superiore nella seconda metà del Quattrocento è un registro conservato presso l’Archivio storico del Comune di Songavazzo (busta 2, fascicolo 1), analizzato in A. PoLoni, “Ista familia de Fine audacissima presum-ptuosa et litigiosa ac rixosa”. La lite tra la comunità di Onore e i da Fino nella Val Seriana superiore degli anni ’60 del Quattrocento, Clusone 2009.

(21) Si vedano, se pure per contesti diversi, F. LeVerotti, Trasformazioni insediative nel Pisano alla fine del Trecento, in “Archeologia medievale”, n. 16, 1989, pp. 243-262; eaD., “Crisi” del Trecento e strutture di inquadramento nelle Sei Miglia lucchesi, in Pisa e la Toscana occidentale nel Medioevo. A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, II, Pisa 1992, pp. 203-262.

(22) È probabile che la denuncia dello spopolamento di Tede e Lantana fosse venuta dalla comunità di Castione, che aveva tutto l’interesse a sollecitare l’assorbimento dei due comuni

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del Duecento tendeva al sovrappopolamento, mentre all’inizio del secolo suc-cessivo si sospettava che non avesse più un numero di abitanti sufficiente a garantire il pagamento degli oneri al comune di Bergamo e il mantenimento di un’organizzazione comunale funzionale alle esigenze fiscali e di ordine pubblico della città.

La crisi demografica pare aver colpito queste località molto prima delle epidemie di peste. È molto probabile che il fenomeno fosse strettamente le-gato ai gravissimi disordini che sconvolsero il territorio bergamasco a partire dal 1296, nell’ambito della lotta tra guelfi e ghibellini, che proprio nelle valli si trasformò in una sorta di guerriglia permanente che segnò l’intero XIV secolo. La Val Seriana superiore, come è noto, fu da subito una delle rocca-forti della parte guelfa. A quanto sembra, già nel 1301 uomini di Clusone, Gandino, Albino, Comenduno e Nembro – terre che più tardi si segnaleranno per la loro fede ghibellina23 – devastarono proprio il territorio di Castione24. Di fronte a queste scorribande, possiamo pensare che gli abitanti di tede e Lantana si siano poco a poco dispersi verso luoghi più facilmente difendibili, o semplicemente dove potessero contare sul sostegno e la protezione di un in-sediamento più compatto e di una popolazione più numerosa25. L’ipotesi più plausibile è che si trattasse di una migrazione a corto raggio, principalmente verso Castione, una delle comunità più popolose e vivaci della Valle. A Ca-stione, per altro, è attestata fin dal 1275 una struttura fortificata di proprietà dei Bonghi, che avevano estesi possessi nell’area26. Non è da escludere che

nel suo territorio. Tuttavia, il fatto che tale denuncia fosse ritenuta credibile, e che non avesse sollevato contestazioni, lascia pochi dubbi sulla situazione demografica dei due abitati. Dal XV secolo del resto, quando la conservazione dei registri notarili ci mette a disposizione una documentazione più abbondante, le due località appaiono in effetti disabitate. Analogo discorso è valido per Gavazzo.

(23) Per essere più precisi, a Clusone prevaleva la parte guelfa, come nelle altre comunità della Valle, ma vi è attestata una consistente minoranza ghibellina. Nella seconda metà del Trecento Gandino, Albino, Comenduno e Nembro erano prevalentemente ghibelline: I “re-gistri litterarum” di Bergamo (1363-1410). Il carteggio dei signori di Bergamo, a cura di P. Mainoni e A. saLa, Milano 2003, in particolare pp. 205-206.

(24) B. BeLotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, III, Bergamo 1989 (ed. orig. 1959), p. 226.

(25) È un fenomeno comune a molte altre aree dell’Italia comunale nel Trecento. Così scrive A. Settia a proposito del reggiano: “Il bisogno di sicurezza induce spesso le popola-zioni dei villaggi più vicini alla città a rifugiarsi disperate entro le sue mura, mentre lontano dai centri urbani si creano le condizioni per quelle modificazioni nell’assetto del popola-mento puntualmente osservate da Salimbene nel microcosmo dell’Emilia appenninica: ac-centramento, migrazione a breve raggio, abbandono dei luoghi meno difesi e difendibili con tendenza a spostare gli insediamenti dal basso all’alto” (A.A. settia, Crisi della sicurezza e fortificazioni di rifugio nelle campagne dell’Italia settentrionale, in “Studi storici”, n. 28, 1987, pp. 434-445, citazione da pp. 436-437. Si veda anche F. LeVerotti, cit., pp. 248-257).

(26) Nel 1275 questa struttura è descritta come una “turris et casamentum quod est cir-

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questa fortificazione potesse essere messa a disposizione per la difesa della popolazione locale. I Bonghi, come è noto, erano i leaders della parte guelfa bergamasca. La presenza del loro fortilizio contribuisce a spiegare perché nel 1301 i ghibellini della Val Seriana inferiore, insieme a quelli di Clusone, si accanirono proprio contro Castione. Del resto, il radicamento patrimoniale della famiglia cittadina in Val Seriana superiore, e le vaste clientele che essa era in grado di reclutare tra i valligiani, non sono un elemento secondario per comprendere la compatta fedeltà guelfa delle comunità locali27.

Il collegamento tra le trasformazioni dell’insediamento e del popolamen-to nella zona che ci interessa e i disordini politici riconducibili alla lotta di fazione sono evidenti, a mio parere, nel caso di Gavazzo. In questo territorio si trovava il castello di S. Lorenzo, di proprietà dei Suardi, attestato almeno dagli anni ’60 del XIV secolo28. Presidiato da membri della famiglia affian-cati da contingenti armati di una cinquantina di persone29, il castrum, vera e propria roccaforte ghibellina in un territorio accesamente guelfo, fu uno degli elementi centrali dello scenario degli scontri trecenteschi30. Il castello prendeva il nome dall’intitolazione della chiesa di Gavazzo. Possiamo forse ipotizzare, per analogia con molti casi simili attestati nel trecento, che si trat-tasse di un ridotto fortificato costruito attorno alla chiesa stessa, per sfruttare la solidità dell’edificio e delle strutture annesse e soprattutto il campanile, una vera e propria torre che svettava sul territorio pianeggiante31.

In tutti gli altri casi segnalati nell’Italia centro-settentrionale, fortifica-zioni di questo tipo vennero edificate dalle popolazioni dei villaggi per tro-varvi rifugio nel corso dei disordini che segnarono il XIV secolo. È possibile che questo fosse anche il caso di Gavazzo, cioè che il fortino fosse stato co-struito dagli abitanti della villa e dei luoghi circostanti. L’abitato si trovava in

ca ipsam turrim”. Il fortilizio era presidiato da un contingente del comune di Bergamo, e i Bonghi chiedevano che fosse loro restituito garantendo l’impegno, dietro ydonea satisdatio – come previsto dagli Statuti cittadini –, a presidiarlo: ASBg, FN, n. 1, Manfredo Zennoni (o Gesunoni), c. 330, 1275 gennaio 12.

(27) Sulle lotte di fazione in Val Seriana superiore mi permetto di rimandare a A. PoLoni, Storie di famiglia. I da Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo, Songavazzo 2010.

(28) I “registri litterarum”... cit., p. 25.(29) Chronicon Bergomense guelpho-ghibellinum ab anno MCCCLXXVIII usque ad an-

num MCCCCVII, a cura di C. CaPasso, Bologna 1926-1940 (Rerum Italicarum Scriptores2 XVI, II), p. 6.

(30) Proprio con l’assedio al castello di S. Lorenzo da parte dei guelfi delle valli guidati da Merino Olmo, nel 1378, si apre la cronaca di Castello Castelli: Chronicon... cit., pp. 3-7.

(31) A.A. settia, “Ecclesiam incastellare”. Chiese e castelli della diocesi di Padova in alcune recenti pubblicazioni, in “Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana”, n. 12, 1981, pp. 47-75; iD., Crisi della sicurezza... cit.

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un luogo a dir poco strategico, alla confluenza delle strade che provenivano dalla Val di Scalve, attraverso Castione, dalla Val Seriana inferiore, attra-verso Clusone, dal lago d’Iseo, dalla Val Camonica e dalla Val Cavallina, lungo la Val Borlezza. Questa posizione, e la conformazione pianeggiante del terreno, ne avevano probabilmente fatto la fortuna nel Duecento. Dai primi anni del trecento, tuttavia, Gavazzo divenne un punto nodale nelle lotte che avevano per teatro le valli bergamasche. Possiamo immaginare che ciò non fosse affatto una fortuna per i suoi abitanti, esposti alle scorrerie delle bande rivali provenienti da ogni direzione. Essi potrebbero quindi aver fortificato la chiesa per ricavarsi un rifugio per i momenti di maggior pericolo. Molti, tuttavia, decisero probabilmente di abbandonare il villaggio, dando inizio a quel processo di spopolamento che sembra in corso già nel primi decenni del trecento.

Non sappiamo in che modo i Suardi siano entrati in possesso del castello di S. Lorenzo, ma sappiamo che ciò accadde prima del 136532. L’ipotesi più probabile è che essi l’abbiano acquistato dal Capitolo di Bergamo, che nel Duecento era proprietario di tutte le terre di Gavazzo e titolare dei diritti signorili sugli homines del villaggio. Quello che è certo è che essi non ac-quisirono soltanto l’area del castrum, ma anche le vaste terre coltivabili che circondavano l’abitato e almeno una parte del comune de Gavazio, le superfi-ci boschive e montuose che nel Duecento venivano sfruttate collettivamente dagli abitanti33. Quello dei Suardi era insomma un colpo da maestro, che combinava il vantaggio inestimabile di piazzare un baluardo ghibellino nel bel mezzo di un territorio accesamente guelfo con l’incameramento di beni di grande valore economico. La trasformazione del sito in una roccaforte ghibellina accelerò probabilmente la dispersione della popolazione.

tede e Lantana, dunque, furono penalizzate dalla collocazione margi-nale, isolata, svantaggiosa, aggravata dalla scarsa produttività della terra. Al contrario, la sfortuna di Gavazzo, al quale facevano capo i terreni più fertili dell’Altopiano di Clusone, dipese dalla posizione nevralgica e dalla conformazione eccezionalmente favorevole del territorio. Il destino di questi villaggi, comunque, fu lo stesso. Essi certo non scomparvero da un momento all’altro. Per tutto il XIV secolo, probabilmente, continuarono ad alternar-si abbandoni e parziali rioccupazioni, un’oscillazione che potrebbe spiegare l’incertezza degli Statuti di Bergamo. Di sicuro, poi, le epidemie di peste dei

(32) I “registri litterarum”... cit., p. 25.(33) Come risulta evidente dall’atto, datato 8 maggio 1421, con il quale Pievano Suardi

e i suoi nipoti Sermone e Antonio vendettero Gavazzo-S. Lorenzo a una societas composta da imprenditori della Val Seriana superiore: ASBg, FN, n. 139, not. Giorgio Salvetti, cc. 186-192.

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decenni a cavallo tra tre e Quattrocento non favorirono il ripopolamento. Quello che è certo è che dall’inizio del XV secolo, come mostrano i registri notarili, se anche questi luoghi non erano del tutto deserti, non vi risiedevano comunque gruppi di persone dotati di un’organizzazione e di una coscienza comunitaria34.

La storia di tede, Lantana e Gavazzo, come si è detto, sembra la stes-sa di molti insediamenti con caratteristiche simili nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale del trecento e del primo Quattrocento. Se dovessimo chiudere la nostra esposizione a questa soglia cronologica, potremmo sup-porre che le famiglie che in precedenza abitavano queste località si fossero integrate nella vita comunitaria dei comuni vicini35, e i territori che facevano capo agli antichi villaggi fossero stati assorbiti nei territori comunali limi-trofi36. Una vicenda insomma che, anche se poco conosciuta, non pone in apparenza particolari problemi interpretativi.

3. Comuni senza comunità

Se però ci inoltriamo nell’analisi dei numerosi registri notarili della se-conda metà del Quattrocento, conservati presso l’Archivio di Stato di Ber-gamo, ci accorgiamo che la situazione è un po’ più complessa. Ne esce in effetti confermata l’idea che nessuno risiedeva stabilmente a tede e a Lan-tana, mentre pochissime persone vivevano a Gavazzo, e che non si svolgeva in questi luoghi alcuna vita comunitaria. I tre territori, tuttavia, non erano affatto stati aggregati ai comuni vicini, almeno non integralmente. I notai identificano tede, Lantana e Gavazzo non solo come territoria – termine inequivocabile, che essi riservavano esclusivamente ai territori comunali37 –

(34) Tede non fu più ripopolata, ed è sostanzialmente disabitata ancora oggi. Lantana fu occupata da prati e boschi (cfr. oltre), e non conobbe più un insediamento stabile fino all’espansione edilizia degli ultimi decenni del Novecento. Sul territorio di Gavazzo si formò in età moderna un nuovo nucleo abitato, che però non portò più il nome di Gavazzo, ma, significativamente, quello di S. Lorenzo (oggi frazione di Rovetta).

(35) All’inizio del Quattrocento viveva a Onore un gruppo familiare indicato con la forma cognominale de Gavazio (ASBg, FN, n. 342, not. Giacomo Ferri, c. 88r, 1410 gennaio 17).

(36) Una parte del territorio di Gavazzo era certamente stato assorbito nel comune di Ce-rete. Nei primi anni del Quattrocento si trova l’indicazione in teratorio de Cerete ubi dicitur in ronchis de Gavazio (ASBg, FN, n. 342, not. Giacomo Ferri, c. 66r, 1406 gennaio 8; ivi, 1406 febbraio 3) .

(37) I notai quattrocenteschi non usano mai il termine territorium in riferimento alle con-trade. Ecco qualche esempio di come erano indicate le contrade inserite in territori comunali più ampi: “Habitator contrate de Sungavazio comunis de Lonore” (ASBg, FN, n. 342, not. Giacomo Ferri, 1406 maggio 10). “In teratorio de Castione in contrata de Brato” (ivi, 1410 giugno 18). “In territorio comunis de Lonore in contrata ubi dicitur ad Prete” (ASBg, FN, n. 556, III, not. Iacobo da Fino, cc. 66r-76r, 1470 maggio 13). “In territorio de Cerete in contrata

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ma anche, esplicitamente, come comuni: il comune de Lantana38, il comune de Tede (o Tethe)39, il comune de Gavazio seu de Sancto Laurentio40. Essi non compaiono mai tra i comuni rurali formalmente riconosciuti dallo stato di Venezia, ai quali erano attribuite precise responsabilità fiscali e di ordine pubblico e che prendevano parte alla negoziazione politica con la Dominante mandando i propri delegati nel Consiglio della Val Seriana superiore. Eppure, i notai che rogavano in Valle non sembrano avere alcun dubbio né incertezza: proprio di comuni si trattava, e non di semplici contrade, con territoria a sé stanti non inseriti nei territoria di alcuno dei comuni ufficialmente ricono-sciuti da Venezia. territori, quindi, che in un certo senso rimanevano fuori dalla carta politico-amministrativa della Val Seriana superiore, incardinata sulle comunità rurali.

Cerchiamo quindi, sulla base della documentazione a nostra disposi-zione, di chiarire meglio questa situazione. Nel febbraio del 1484 alcune persone, che si presentavano come legittime titolari di diritti “in comuni et comunibus nemoribus pascuis et terris comunibus de Lantana, Valliseriane superiori, tam in plano quam in monte dicti comunis”, si accordarono per ingazare i boschi posti nel territorio di Lantana, cioè per interdirne lo sfrut-tamento e vietare il taglio di qualsiasi specie arborea per la durata di cinque anni41. Questa decisione era stata presa a seguito di una controversia legale che era stata portata anche davanti al podestà di Bergamo. La lite oppone-va l’eximius artium et medecine doctor dominus magister Bartholomeus de Albricis, Venetiarum et Bergomi civis, un pezzo grosso insomma, e Picardo degli Albinoni di Castione, attivo imprenditore della zona42, ad alcuni gruppi

de Noessio” (ivi, V, 1475 settembre 26). “In territorio de Castione in contrata de Dorga” (ivi, VI, 1479 febbraio 25). Ma gli esempi sono numerosissimi.

(38) ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1484 febbraio 17; ASBg, FN, n. 729, I, not. Tomaso Castioni, cc. 128r e ss., 1484 febbraio 18. ASBg, FN, n. 556, VI, not. Iacobo da Fino, 1480 novembre 14; ivi, 1480 novembre 19.

(39) ASBg, FN, n. 1129, not. Giovanni Fini, c. 1 e ss., 1500 gennaio 17; ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1484 maggio 17; ASBg, FN, n. 556, I, not. Iacobo da Fino, c. 15 r e v, 1464 aprile 26; ivi, c. 75v, 1465; II, c. 266v, 1467 gennaio 21; ivi, c. 417r, 1468 settembre 3; ivi, c. 429r, 1468 ottobre 5; ASBg, FN, n. 556 ½, X, not. Iacobo da Fino, 1470 gennaio 31; XI, 1514 settembre 2; ivi, 1515 dicembre 3; ASBg, FN, n. 729, I, not. Tomaso Castioni, cc. 128r e ss., 1484 febbraio 18.

(40) ASBg, FN, n. 139, not. Giorgio Salvetti, c. 186, 1421 maggio 8; ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1483 novembre 24; ASBg, FN, n. 556, I, not. Iacobo da Fino, cc. 61v-62r, 1464 novembre 2; II, c. 238v, 1466 febbraio 1 (in questi ultimi due casi si parla di comune de Sancto Laurentio, scomparsa la denominazione Gavazzo).

(41) ASBg, FN, n. 729, I, not. Tomaso Castioni, cc. 128 r e ss., 1484 febbraio 8.(42) Nella seconda metà del Quattrocento Picardo del fu Giovanni degli Albinoni di Ca-

stione era un imprenditore vivace, che investiva soprattutto nel commercio della lana e dei panni e nel prestito su pegno fondiario: ASBg, FN, n. 556, III, not. Iacobo da Fino, cc. 8r-9r,

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familiari residenti a Bratto e Dorga, contrade di Castione, rappresentati dal loro procuratore dominus Francesco del fu dominus Bartolomeo Bonghi43. tutti i contendenti vantavano diritti riconosciuti sul comune di Lantana. Bar-tolomeo Albrici e Picardo Albinoni lamentavano che gli uomini di Bratto e di Dorga, insieme ad altra gente del posto che non ne avrebbe avuto facoltà, avevano pesantemente danneggiato i boschi di Lantana, probabilmente sotto-ponendoli a uno sfruttamento eccessivo. Le famiglie di Bratto e Dorga erano spalleggiate da Francesco Bonghi. Si era reso perciò necessario impedire il taglio per almeno cinque anni, affinché gli alberi potessero ricrescere, e le risorse del bosco avessero il tempo di ricostituirsi.

Per noi è particolarmente importante capire su quale base questi per-sonaggi rivendicassero diritti sul territorio di Lantana. Nella loro lettera al podestà di Bergamo, Bartolomeo Albrici e Picardo Albinoni spiegavano che “ipsi una cum certis aliis commorantibus in ipsa valle habeant certum mon-tem nemora et pascua comunis appellati de Lantana indivise et alia prata et possessiones divise”44. Essi erano cioè proprietari individualmente di appez-zamenti di terreno in Lantana, per lo più prati, e titolari di diritti d’uso sui pa-scoli e sulle superfici boschive del monte di Lantana e della Valle di Lantana, che continuavano ad essere sfruttati collettivamente. Erano questi boschi e questi pascoli a costituire il vero e proprio comune de Lantana, dove comune conservava il significato duecentesco di “beni comunali”. Un documento del novembre 1480 contribuisce a illuminare le rimanenti zone d’ombra. Medico figlio di zenone dei Medici di Bratto vendeva a ser Manzino del fu Antonio degli zabelli de Rota, della Valle Imagna, un appezzamento di terra prativa et buschiva nel territorio di Lantana, in località detta “ai prati di Lantana”, “cum omni iure et diricto dominio et utili pasculandi stramezandi buschezandi et usufructuandi ipsi Medico in dicto territorio de Lantana a corna rubea supra pertinente competente et spectante”45. La formula non lascia dubbi: i diritti di accesso e sfruttamento del comune di Lantana spettavano a coloro che aveva-no proprietà nel territorio di Lantana, e in maniera proporzionale all’estensio-ne della terra posseduta. tali diritti, perciò, passavano di mano insieme alla terra in seguito a compravendite, prestiti su pegno, trasmissioni ereditarie.

Nessuna sorpresa, del resto, perché questo era esattamente ciò che pre-vedevano gli Statuti di Bergamo fin dalla redazione del 1331, anche se tale principio, come vedremo, fu messo pesantemente in discussione dalle comu-

1469 febbraio 21; ivi, cc. 9r e ss., 1469 febbraio 22; VI, 1480 novembre 14.(43) L’atto di procura è in ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1484 febbraio 17,

dove sono riportati anche i termini della controversia. (44) ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1484 febbraio 17.(45) ASBg, FN, n. 556, VI, not. Iacobo da Fino, 1480 novembre 14.

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nità della montagna, in particolare a partire dai decenni centrali del Quat-trocento46. Per il nostro discorso, è anche interessante notare che nel XV secolo nel territorio di Lantana non è più attestata terra aratoria, destinata cioè alla coltivazione dei cereali, la cui presenza, come si è detto, doveva invece essere stata piuttosto importante nella prima metà del Duecento. Le possessiones divise, gli appezzamenti di proprietà individuale, erano tutti prati, con macchie di bosco più o meno estese. Nessuno dei proprietari di Lantana vi risiedeva. A un potente cittadino come Bartolomeo Albrici e a un dinamico imprenditore locale come Picardo Albinoni si aggiungevano varie famiglie che vivevano nel vicino comune di Castione, e che sfruttavano i pra-ti di Lantana per produrre il fieno indispensabile per l’allevamento, attività economica di base in quest’area. A Lantana c’erano ormai soltanto qualche fienile e pochi edifici rurali sparsi, non certo un villaggio. La struttura inse-diativa e il paesaggio agrario avevano subito trasformazioni radicali dalla metà del XIII secolo.

I prati di Lantana erano molto ambiti anche da personaggi che certo non ne avevano bisogno per fare un po’ di fieno. Di Bartolomeo Albrici si è già detto. Ser Manzino zabelli de Rota della Valle Imagna, che, come si è visto, acquistò una terra a prato a Lantana nel 1480, è un personaggio molto presente sulla scena economica della Val Seriana superiore nella seconda metà del Quattrocento. Insieme al fratello Alberto, lo vediamo vendere lana di importazione, in particolare valsugana e teutonica, a mercanti del posto47. Ma, soprattutto, i due furono impegnati per più di un ventennio, dai primi anni ’60 del Quattrocento fino agli anni ’80, in un’intensa attività di prestito su pegno fondiario. Non si trattava, tuttavia, dei soliti piccoli prestiti a con-tadini in difficoltà, ma di cifre molto alte, destinate probabilmente a impren-ditori locali bisognosi di credito per i loro investimenti48. In questo modo,

(46) Lo Statuto di Bergamo del 1331... cit., pp. 193-195. Si stabiliva tra l’altro che “si aliquis civitatis vel districtus Pergami emerit vel acquisiverit vel in eum devenerit aliquo modo aliquam seu aliquas possessiones in aliqua villa, loco vel burgo sive castro districtus Pergami, habeat et habere debeat in comunibus illius ville seu burgi, castri vel loci, que erant comunia, tempore ipsius emptionis et acquisti, partem secundum quantitatem ipsius posses-sionis, quodcumque sit ipsum comune […]” (ivi, p. 194). E ancora: “Item quod omnes cives et gentiles seu habitantes in civitate et suburbiis adiacentibus civitati Pergami, habentes terras et possessiones in aliquo loco vel territorio alicuius comunis de foris districtus Pergami pos-sint et valeant uti et frui et pasculari et segare et alia facere et habere et tenere in comunibus et super comunibus et terris comunalibus districtus Pergami, super cuius territorio habeant, habebunt vel haberent terras et possessiones, pro modo et quantitate ipsorum possessionum et terrarum, quas sic haberent, pro rata” (ivi, p. 195).

(47) Tra i quali proprio Picardo Albinoni: ASBg, FN, n. 556, III, not. Iacobo da Fino, cc. 8r-9r, 1469 febbraio 21.

(48) ASBg, FN, n. 556, I, not. Iacobo da Fino, cc. 82v-83r, 1465 gennaio 29, 600 lire im-

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Manzino e Alberto entrarono in possesso di vaste proprietà nei territori di vari comuni della Valle, rapidamente rimesse in circolazione in speculazioni assai redditizie49. Anche l’acquisto della terra a Lantana, probabilmente, era il frutto di un’operazione speculativa. Nell’atto del novembre 1480 si soste-neva che la vendita, avvenuta in un momento non precisato, non era stata registrata da un notaio, una circostanza per lo meno sospetta. È verosimile che anche in questo caso si trattasse di un prestito su pegno, in conseguenza del quale il debitore, Medico Medici di Bratto, perse il suo prato a Lantana con i connessi diritti. Ser Manzino, comunque, si sbarazzò rapidamente del terreno, vendendolo a Picardo Albinoni, che a sua volta lo alienò alla Pietà di Bergamo, l’ente caritativo fondato da Bartolomeo Colleoni. Nel documento del novembre 1480, che finalmente metteva per iscritto tutti questi passaggi di proprietà, la Pietà, e anche questo è un dato significativo, era rappresen-tata da dominus Bartolomeo del fu dominus Superleone Bonghi. Infine, tra i proprietari di Lantana figura anche Giovanni Antonio del fu dominus zuchi-no dei Bonvesini di Ardesio, altra famiglia di importanti imprenditori della zona, il quale, attraverso il suo affittuario Cometto da Canova di Castione, ratificò il patto del 1484 qualche mese dopo la sua stesura50. È evidente, in-somma, il complicato groviglio di interessi che convergevano sul territorio dell’antico villaggio abbandonato, e che coinvolgevano anche un’importante istituzione assistenziale cittadina.

Certo in un contesto come quello della Val Seriana superiore della se-conda metà del Quattrocento, nel quale la popolazione aumentava molto ra-pidamente e le attività legate all’allevamento acquisivano un’importanza cre-scente, i prati avevano un discreto valore economico, anche se di gran lunga inferiore a quello della terra aratoria51. Credo si possa dire con una certa si-curezza, tuttavia, che ciò che davvero attirava investitori e speculatori esterni

periali. Ivi, c. 83v, 1465…, 774 lire imperiali. Tra i principali creditori dei de Rota c’erano i da Fino. Per l’importanza fondamentale del prestito su pegno fondiario come forma di mobi-litazione dei capitali nei contesti alpini e prealpini si veda P. teDesChi, Marché foncier, crédit et activités manufacturières dans les Alpes. Le cas de vallèes de la Lombardie orientale (XVIIIe-XIXe siècles), in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, n. 12, 2007, pp. 247-259.

(49) ASBg, FN, n. 556, III, not. Iacobo da Fino, cc. 66r-76r, 1470 maggio 13: Manzino vendeva ai tre fratelli Giovannino, Comino e Iacobo da Fino una grande estensione di terra, in gran parte aratoria, nel comune di Onore, nella contrada di Pret, per la cifra astronomica di 1800 lire imperiali, che i tre si impegnavano a pagare in sei anni.

(50) ASBg, FN, n. 729, I, not. Tomaso Castioni, 1484 giugno 27.(51) Non è facile stabilire il valore di mercato del prato, perché in genere non ne viene

specificata l’estensione, a differenza di quello che accadeva, senza eccezioni, per la terra aratoria. Questo fatto è di per sé una prova del minor valore del prato rispetto all’arativo. È anche vero, però, che non mancano vendite di terra prativa per somme decisamente elevate.

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non erano i prati di Lantana, ma i diritti d’uso sul comune di Lantana. Erano questi diritti, vincolati alla proprietà della terra, a rendere la terra stessa par-ticolarmente ambita, e probabilmente ad alzarne il prezzo: le 72 lire imperiali che furono pagate per il prato di Medico Medici nel 1480 paiono una cifra molto alta rispetto alle quotazioni correnti. I beni comunali di Lantana com-prendevano i ricchi pascoli del monte Lantana, ma soprattutto l’estesa super-ficie boschiva della Valle Lantana. E sembrerebbe proprio il bosco la risorsa più appetibile, non per niente quella intorno alla quale nascevano i contrasti tra i diversi titolari dei diritti di sfruttamento. Il conflitto del 1484 opponeva un gruppo di piccoli proprietari e allevatori del posto, che desideravano usu-fruire del bosco per le proprie necessità – per tagliare gli alberi da utilizzare come combustibile e materiale da costruzione, per procurarsi lo strame per le stalle, per farvi pascolare le bestie quando il fieno scarseggiava – a un pro-prietario cittadino fiancheggiato da un intraprendente imprenditore locale, interessati probabilmente a uno sfruttamento commerciale. L’uso intensivo che ne facevano gli uomini di Bratto e di Dorga, soprattutto, dobbiamo pen-sare, l’abitudine a condurvi il il bestiame, finiva per danneggiare la risorsa boschiva svalutando l’investimento di Bartolomeo e Picardo52.

Si tratta di una vicenda paradigmatica, che rimanda a un problema, quello della gestione dei boschi, che nella seconda metà del Quattrocento, nel pieno di una forte ripresa demografica, stava esplodendo in tutto l’arco alpino e non solo, dando luogo a una serie infinita di conflitti e contenziosi53. Per quanto ci riguarda, è molto interessante che i Bonghi, famiglia illustre di Bergamo, ma anche i maggiori proprietari della zona, si schierassero con gli uomini di Bratto e Dorga, cercando senza dubbio di arginare la penetrazione di un altro ricco cittadino (Bartolomeo Albrici) nei delicati equilibri econo-mici della Conca della Presolana, ma consolidando anche, nello stesso tempo, la fitta rete clientelare che li legava alle famiglie locali54.

(52) Come i due spiegano chiaramente nella loro lettera al podestà di Bergamo: “cum ipsi una cum certis aliis commorantibus in ipsa valle habeant certum montem nemora et pascua comunis appellati de Lantana indivise et alia prata et possessiones divise que dicti tam per consortes quam per alios nullum ius in eis habentes deguastaverunt et damnificaverunt in grave damnum et preiudicium ipsorum conquerentium, que si per quinquenium conserva-rentur, maxime nemora ipsa, utilitas sequiretur ipsis consortibus” (ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1487 febbraio 17).

(53) E. roVeDa, I boschi nella pianura lombarda nel Quattrocento, in “Studi storici”, n. 30, 1989, pp. 1013-1030. Per un contesto per molti versi simile a quello del quale ci stiamo occupando cfr. M. BertoGLiati, Proteggere, riservare, amministrare: tutela dei boschi nella Svizzera italiana (XIII-XVIII sec.), Working Paper del LabisAlp, Laboratorio di Storia delle Alpi, disponibile in formato digitale all’indirizzo http://www.arc.usi.ch/ra_2010_04.pdf (ul-tima visita agosto 2010).

(54) Tra coloro che, nel 1484, designarono Francesco Bonghi come loro procuratore c’era

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Sedici anni dopo, nel gennaio del 1500, una trentina di persone, soste-nendo di rappresentare gli “habentes possessiones in teratorio de tede”, e di agire a nome proprio e degli “habentes iura in dicto comuni”, procedettero a ingazare i boschi (“omnes buschos ligna et nemora”) del comune di tede per cinque anni. L’operazione è in tutto analoga a quella di Lantana, e non è quindi necessario dilungarsi nei particolari. Ciò che la distingue dal docu-mento analizzato in precedenza, tuttavia, è che tutti coloro che si presenta-vano come proprietari di terre nel territorio di tede, e titolari di diritti sul comune, appartenevano alla vasta e ramificata parentela dei da Fino. I da Fino erano una famiglia originaria della località di Fino, un villaggio che in età veneziana era stato aggregato al territorio del comune di Onore. La parentela si era messa in luce dalla fine del XII secolo nella piccola vassallità vescovile, e nel trecento il prestigio della casata era cresciuto costantemente, soprattutto grazie alla sua capacità di promuoversi come punto di riferimen-to della parte guelfa locale55. Negli anni ’70 del trecento i da Fino avevano ricevuto, probabilmente come riconoscimento del loro ruolo di capifazione, la cittadinanza di Bergamo, pur non andando mai a risiedere davvero in città. Essi entrarono cioè a far parte della categoria problematica, e capace di desta-bilizzare i fragili equilibri della società locale, dei cives extra civitate56.

I da Fino possedevano già tutta o quasi la terra di tede, e dunque i diritti sul comune, alla metà del trecento57. Già allora, come era accaduto a Lantana, la terra aratoria era sparita, e le possessiones dei da Fino erano interamente rappresentate da appezzamenti di terra prativa e buschiva. Que-sto dato, tra l’altro, è un’ulteriore conferma del fatto che la scomparsa del villaggio e lo spopolamento del suo territorio si erano consumati entro i pri-mi decenni del XIV secolo. All’inizio del Quattrocento, tuttavia, un membro della parentela, Lamagnino da Fino, forse costretto da difficoltà economiche,

anche Giovannino detto Signore del fu Raimondo dei Ferrari di Dorga, che agiva anche per il fratello Bettino e i nipoti Bertolino, Pietro, Raimondo e Bernardo. Cinque anni prima questo stesso gruppo familiare aveva ricevuto a mezzadria da Ardengo del fu dominus Gui-dotto Bonghi un appezzamento di terra prativa aratoria buschiva nella contrada di Dorga, dell’estensione di 20 pertiche (circa 1,3 ha.) considerata la sola terra aratoria (ASBg, FN, n. 556, VI, not. Iacobo da Fino, 1479 febbraio 25). È noto che il contratto di mezzadria istituiva spesso tra locatore e locatario vincoli sociali che esulavano dagli aspetti puramente econo-mici: M. GinateMPo, La mezzadria delle origini. L’Italia centro-settentrionale nei secoli XIII-XV, in “Rivista di storia dell’agricoltura”, n. 42, 2002, pp. 49-110.

(55) Sui da Fino cfr. A. PoLoni, Storie... cit., e eaD., “Ista familia”... cit.(56) Per i problemi economici, sociali e politici sollevati dallo status dei cives extra ci-

vitate cfr. I. PeDerzani, Venezia e lo “Stado de Terraferma”. Il governo delle comunità nel territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano 1992.

(57) Archivio storico del Comune di Castione della Presolana, Liti, n. 286, in particolare cc. 101v e ss, 1351 ottobre 10.

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aveva venduto tutte le sue proprietà a tede, insieme ai diritti che gli spetta-vano sui beni comunali, ad Arigino Albrici58. Arigino proveniva dalla Val di Scalve, ed era andato ad abitare nel comune di Onore. I suoi figli sarebbero divenuti, intorno alla metà del XV secolo, la famiglia più in vista di Onore, e una delle più influenti della Val Seriana superiore, capace di giocare un ruolo politico di primo piano nel Consiglio di Valle. A questa stessa casata, che ben presto si specializzò nella professione medica, apparteneva il magister Barto-lomeo Albrici che abbiamo visto agire a Lantana nel 1484. Vari membri della famiglia fecero carriera a Bergamo, a Venezia e in altre città del Dominio. Nel Quattrocento il ramo degli Albrici rimasti in Val Seriana, cioè i figli di Arigino, ebbe un rapporto molto tormentato con i da Fino, segnato dall’alter-nanza di tentativi di alleanza e fasi di scontro aperto59.

Lamagnino possedeva un ottavo delle terre di tede, e dunque un ottavo dei diritti d’uso del comune. Non si trattava di una quota determinante, ma la vendita rompeva la compattezza delle proprietà dei da Fino e consentiva che un estraneo, per di più un estraneo in aggressiva ascesa economica e politica, si potesse intromettere nella gestione dei beni comunali. Entro la metà del Quattrocento, comunque, sembra che i da Fino fossero riusciti a estromettere gli Albrici. Nella seconda metà di quel secolo essi cercarono di limitare le vendite di terre nel territorio di tede rigorosamente all’interno della parentela, per fare in modo che le prerogative sul comune non uscissero di nuovo dai confini della famiglia. Nonostante ciò, non poterono evitare che una parte, per quanto minima, dei prati di tede finisse nelle mani di estranei, soprattutto in conseguenza di debiti insoluti e prestiti su pegno fondiario. tuttavia, le fonti mostrano con chiarezza lo sforzo che veniva profuso perché ciò non accadesse, e che portava gli esponenti più benestanti dei da Fino ad acquistare gli appezzamenti messi in vendita dai parenti in difficoltà, o a cercare di recuperare le terre alienate60.

Nel documento del 1500, a differenza che in quello di Lantana, si re-golamentava anche l’uso dei pascoli, stabilendo un tariffario per gli aventi diritto che volessero condurvi le bestie61. Nel caso di tede, i contrasti per

(58) Ivi.(59) Magister Baldassarre, Gaitaldo, magister Francesco e Antonio, figli di Arigino Al-

brici, guidavano la comunità di Onore nella controversia che negli anni ’60 del Quattrocento la oppose ai da Fino: A. PoLoni, “Ista familia”... cit. Tuttavia nel settembre del 1471, dopo la conclusione della lite, forse nell’ambito di un tentativo di riconciliazione, Antonio Albrici sposò Bella del fu Oberto da Fino: ASBg, FN, n. 556, III, not. Iacobo da Fino, c. 151r, 1469 settembre 4.

(60) ASBg, FN, n. 714, not. Peterzolo Cacciamali, 1484 maggio 17; molto numerose le attestazioni nei registri del notaio Iacobo da Fino: ASBg, FN, nn. 556 e 556 ½.

(61) ASBg, FN, n. 1129, not. Giovanni Fini, cc. 1 e ss: le tariffe erano pari a 1 soldo per

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lo sfruttamento delle risorse naturali erano tutti interni alla domus dei da Fino. All’inizio del XVI secolo essa era assai estesa, e subiva, come tutte le altre comunità della Valle, le conseguenze dell’esplosione demografica dei decenni a cavallo tra Quattro e Cinquecento62. Nonostante la tenace volontà, dimostrata dai suoi esponenti più consapevoli, di mantenerla compatta e di rinsaldarne l’identità con ogni mezzo, la parentela era ormai molto differen-ziata al proprio interno. A un piccolo gruppo di nuclei familiari dinamici e intraprendenti, capaci di combinare in modo efficace attività mercantili, speculazioni fondiarie, impegno nelle professioni giuridiche, e infine, dalla fine del Quattrocento, radicamento nella realtà cittadina, si contrapponeva un ampio strato di parentes vicini alla soglia di povertà, che vivevano, come molti contadini della zona, integrando la coltivazione di pochi appezzamenti di terra con l’allevamento di qualche capo di bestiame e lo sfruttamento delle risorse del bosco. È probabile, dunque, che si replicasse anche a tede lo stes-so tipo di conflitto che abbiamo visto a Lantana, tra esigenze di natura diver-sa, tra l’investimento imprenditoriale e l’autoconsumo, tra la valorizzazione commerciale e l’integrazione del reddito contadino.

Nel luglio del 1420 Pievano Suardi, a nome anche dei nipoti Antonio e Sermone, figli del fratello zenone, da una parte, e Venturino del fu talento Fanzago e Giovanni di zenone Marinoni, a nome anche dei loro socii, altri tredici uomini di Rovetta, Songavazzo e Clusone, dall’altra, affidarono la ri-soluzione delle loro controversie al podestà di Bergamo e al vicario della Val Seriana superiore, non però nella loro qualità di pubblici ufficiali, ma come arbitri concordemente eletti dalle parti. La questione in sospeso riguardava la proprietà del territorio di Gavazzo, o San Lorenzo63. Con un contratto del 6 febbraio 1407 i Suardi si erano impegnati a vendere a Venturino, Giovanni e soci i possessi di Gavazzo. Soltanto una parte della somma pattuita, tuttavia, era stata pagata, a causa dei gravi disordini che avevano tormentato la Berga-masca negli anni seguenti. Infatti, come spiegarono Venturino e Giovanni ai due arbitri, nel 1410 Pandolfo Malatesta, allora signore di Bergamo e di Bre-scia, aveva imposto che quanto restava della cifra stabilita fosse corrisposto alla camera fiscale di Bergamo, cioè alla tesoreria signorile, poiché i beni dei Suardi erano stati confiscati. Oltre alle 2000 lire già consegnate a Pievano, i soci furono invitati a versare altre 4800 lire alla camera, fino a raggiungere il

ogni vacca e 3 denari per ogni pecora per le bestie che venivano tenute nel territorio di Tede per tutto l’anno; la metà per usufruire dei pascoli da marzo a settembre. Era in ogni caso proibito tagliare il fieno nei pascoli e nei boschi.

(62) A. PoLoni, “Ista familia”... cit.(63) ASBg, FN, n. 139, not. Giorgio Salvetti, cc. 102-117, 130-137, 186-201.

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prezzo di vendita, fissato a 6800 lire imperiali64. La sentenza arbitrale, pronunciata il 26 giugno del 1420, stabiliva che

Venturino Fanzago, Giovanni Marinoni e i loro soci sarebbero entrati in pos-sesso delle proprietà dei Suardi a Gavazzo, o S. Lorenzo, dietro la correspon-sione di 6060 lire imperiali, da pagare in quattro rate entro il primo maggio dell’anno seguente, e che si sarebbero andate ad aggiungere alle altre 2000 già versate a Pievano tra il 1407 e il 1410. C’era però una complicazione. Ses-santa pertiche (quasi 4 ha.) della terra di S. Lorenzo non erano al momento a disposizione dei Suardi. Esse erano infatti finite nelle mani di Ardengo da Fino, perché erano state impegnate da Pievano e dai suoi familiari per un prestito di 200 lire, che essi non erano stati in grado di restituire. I venditori avrebbero comunque tentato di recuperare l’appezzamento attraverso le vie legali, appianando il debito con un fondo depositato dai compratori a questo scopo presso il mercante-banchiere Luca da Brembate. Alla scadenza del pe-riodo fissato per il pagamento, tuttavia, a maggio del 1421, il terreno non era stato recuperato, e Venturino Fanzago, Giovanni Marinoni e soci decisero di trattenere per il momento 1600 lire del prezzo di vendita. Essi avrebbero ver-sato l’intera somma se i Suardi fossero riusciti a riavere la terra entro quattro anni; in caso contrario, dalle 1600 lire sarebbe stato scalato il valore stimato delle sessanta pertiche dei da Fino. Sappiamo però che quella terra era ancora in mano ai da Fino alla fine del Quattrocento.

Nel vero e proprio atto di vendita, rogato l’8 maggio del 1421, venivano descritti i terreni alienati. Si trattava innanzitutto dell’area su cui sorgeva il castello di S. Lorenzo, ormai distrutto65. Ad essa si aggiungeva tutta la terra aratoria che circondava l’antico villaggio di Gavazzo, per un totale di 420 pertiche, quasi 30 ha., senza contare le famose sessanta pertiche di Ardengo da Fino. Insieme ai campi, veniva ceduto anche quanto rimaneva del comune,

(64) Venturino e Giovanni affermavano che “propter gueram que viguit inter Pergamen-ses non potuerunt ipse partes sibi adinvicem ipsa pacta observare et attendere iuxta conventa. Et maxime pro eo quod dominus Pandulfus de Malatestis, tunc Pergami gubernator, voluit et compulsit ipsos emptores emere debere ipsam possessionem ab eo et voluit et ordinavit quod datum fieret ipsis sub nomine camere prelibati domini Pandulfi et Comunis Pergami” (ivi, c. 111). I due dicevano il vero: si è infatti conservata la lettera, datata 2 gennaio 1410, con la quale Pandolfo Malatesta ordinava al podestà, al referendario e agli anziani di Bergamo di procedere alla vendita del castello di S. Lorenzo esattamente nei termini indicati da Giovanni e Venturino nel 1420: I “registri litterarum” cit., pp. 358-359. I Suardi, da parte loro, affer-marono che “pacta predicta inter dictas partes facta fuerunt tempore guerre et quod occaxio-ne dicte guerre vel alterius compulsionis facte per suprascriptum dominum Pandulfum non debent ipsi de Suardis aliquod dampnum supportare, sed eis debent pacta inter ipsas partes facta observare aliquibus inde secutis non obstantibus” (ASBg, FN, n. 139, c. 111).

(65) “De quadam pecia terre in qua solebat esse quoddam castrum quod appellabatur ca-strum de Sancto Laurencio Valliseriane superioris, quod nunc est destructum” (ivi, c. 187).

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i beni comunali di Gavazzo66.Il senso di tutta questa vicenda è abbastanza chiaro. tra il 1407 e il 1410

alcuni imprenditori locali, approfittando della grave crisi politica in cui, negli anni della dominazione filoguelfa di Pandolfo Malatesta, versavano i Suardi, capi dei ghibellini bergamaschi e vero e proprio puntello della signoria vi-scontea in città e nel territorio, avevano tentato di concludere un’operazione molto vantaggiosa. Economia e politica, affari e fedeltà fazionaria si confon-devano in un intreccio inestricabile. Basti pensare che nell’aprile del 1410 uno dei protagonisti della nostra vendita, Giovanni del fu zenone Marinoni di Cerete, fu uno dei tre procuratori scelti dalle comunità della Val Seriana superiore per presentarsi davanti al luogotenente di Pandolfo Malatesta e im-pegnarsi, dietro idonea fideiussione, a rispettare la pace, conclusa a Brescia, tra i guelfi della Val Seriana superiore e inferiore, della Val taleggio e della Val Brembana al di qua della Goggia e i ghibellini della Val Brembana al di là della Goggia67. Gli altri rappresentanti della Val Seriana superiore erano tommaso del fu magister Iacobo dei Bonvesini di Ardesio (una famiglia che abbiamo già incontrato) e Giovanni del fu Venturino Bonicelli Della Vite di Clusone.

Questo intreccio, del resto, è particolarmente evidente nella faccenda che riguardava Ardengo da Fino, il creditore dei Suardi che si era appro-priato di una parte delle terre di Gavazzo. Ardengo era figlio di Alamanno, uno dei capi dei guelfi della Val Seriana superiore, e uno dei protagonisti di primissimo piano dell’assedio che nel 1378 era stato portato proprio al castel-lo di S. Lorenzo68. Una figlia di Ardengo sposò Guidotto Bonghi, figlio di Superleone, uno dei più attivi condottieri delle masnade guelfe bergamasche, protagonista tra l’altro dell’attacco alla torre di Albino nel 139869. Il mutuo che portò il da Fino a impossessarsi della terra, effettuato certamente in un momento di grandissima difficoltà politica e, di conseguenza, economica dei Suardi, non può, con queste premesse, essere letto come un’operazione pura-

(66) Da identificare in questa descrizione: “Et de quadam alia pecia terre montive iacente in territorio de Gavazio seu de Sancto Laurencio, ubi dicitur ad montem de subtus, cum pra-tis, tegetibus, buschis et paschullis” (ivi, c. 187).

(67) ASBg, FN, n. 342, not. Giacomo Ferri, 1410 aprile 8. Un riferimento a questa pacifi-cazione si trova in I “registri litterarum”... cit., p. 356.

(68) Il celebre episodio con il quale, come si è detto, si apre la cronaca di Castello Castelli: Chronicon... cit., pp. 3-7. Su Alamanno da Fino cfr. A. PoLoni, Storie... cit., pp. 84 e ss.

(69) Il racconto del drammatico assedio alla torre di Albino è in Chronicon... cit., pp. 78-79. Molto tempo dopo la conclusione del matrimonio tra il Bonghi e la da Fino, nel 1478, era ancora in corso una causa tra gli eredi per la dote, per altro molto consistente. Erano state pagate 350 lire imperiali, quasi interamente in denaro, ma gli eredi di Guidotto Bonghi sostenevano che l’accordo fosse per 400 lire: ASBg, FN, n. 556 ½, VII, not. Iacobo da Fino, 1478...

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mente finanziaria.Giovanni Marinoni apparteneva a una parentela molto ampia, radicata

in diversi villaggi della Valle, soprattutto a Cerete, Songavazzo, Rovetta e Clusone. Per trent’anni, dal 1375 al 1405, il padre di Giovanni, zenone, in-sieme a presbiter Pietro Ferri di Cerete, rettore della chiesa di Albino, era stato conductor della curia vescovile di Cerete70. Aveva cioè avuto in appalto, dietro il pagamento annuale di 60 lire imperiali e sei penses di formaggio, la riscossione di tutti i canoni, i tributi e le decime che ancora spettavano al vescovato nel territorio della curia di Cerete, che comprendeva i comuni di Cerete, Onore con Songavazzo e Fino. Si trattava di un investimento piut-tosto redditizio, ma soprattutto di una posizione che garantiva una buona visibilità a livello locale. È una coincidenza curiosa, e senz’altro significativa per comprendere la struttura del potere locale, che Iacobo dei Bonvesini di Ardesio, il padre dell’altro notabile scelto dalle comunità della Val Seriana superiore per rappresentarle nel 1410, fosse negli stessi decenni della seconda metà del trecento conductor della curia vescovile di Ardesio.

Le poche notizie reperibili sugli altri soci di Giovanni Marinoni (quattro dei quali, tra l’altro, erano sempre Marinoni, di Rovetta e Songavazzo) ci por-tano nello stesso ambiente che abbiamo già intravisto nelle pagine preceden-ti, nelle figure di Picardo Albinoni di Castione, di Arigino Albrici e dei suoi figli di Onore, dei Bonvesini di Ardesio: l’ambiente vivace degli imprenditori locali, impegnati in attività molteplici, tra le quali rivestivano un’importanza centrale il commercio della lana e dei panni e il prestito su pegno fondiario, integrati dalla proprietà di bestie da dare a soccida, dalle speculazioni sul prezzo dei cereali, dall’appalto dei dazi e delle gabelle comunali, da qualsiasi affare si presentasse come un buon investimento71. Nel Quattrocento queste famiglie, che ricoprivano con frequenza il consolato nei comuni di prove-nienza, sempre presenti tra i delegati che prendevano parte ai Consigli della Val Seriana superiore, costituivano un’élite dinamica e vitale, al centro di quella che si presenta come una fase di grande rafforzamento del protagoni-smo politico delle comunità della montagna.

Negli anni di Pandolfo Malatesta i più spregiudicati uomini d’affari della Valle, che erano anche esponenti delle élites delle comunità locali di accesa fede guelfa, tentarono di ricavare un guadagno dal rovinoso declino dei Suar-

(70) ASDBg, MV, Libri censuali, ad annum.(71) Queste figure assomigliano molto da vicino agli imprenditori, attivi nei villaggi delle

Alpi francesi, descritti da L. Fontaine, Histoire du colportage en Europe, XVe-XIXe siècle, Paris 1993, in particolare pp. 121-176, e eaD., Autosubsistance et commercialisation de “la montagne” dans les Alpes françaises à l’èpoque moderne, in “La ricerca folklorica”, n. 43, 2001, pp. 27-33.

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di, leader indiscussi dei ghibellini bergamaschi. In seguito, tuttavia, quando nel 1419 Filippo Maria Visconti rientrò in possesso della Bergamasca, i rap-porti di forza tornarono a capovolgersi. Pochi mesi dopo, quindi, Venturino Fanzago e i suoi soci furono sollecitati a concludere l’acquisto delle proprietà di Gavazzo, alle quali evidentemente i Suardi, dopo la distruzione del castel-lo, e magari anche premuti da necessità finanziarie, non erano più interessati. Le condizioni che i valligiani furono costretti ad accettare non erano più così vantaggiose. Una decina di anni prima il prezzo delle terre era stato fissato a 6800 lire imperiali. Ora il Fanzago e gli altri avrebbero dovuto pagare al-tre 6060 lire, in aggiunta alle 2000 già sborsate e al denaro già versato alla camera di Bergamo su pressione del Malatesta. Il costo dell’operazione, alla fine, era quasi raddoppiato. La vicenda mostra bene l’inevitabile rovescio del-la medaglia della stretta connessione tra affari e politica che caratterizzava questo contesto.

Le informazioni che abbiamo sul territorio di Gavazzo nella seconda metà del XV secolo sono meno numerose rispetto a quelle su Lantana e tede. Il suo paesaggio agrario aveva conosciuto un’evoluzione opposta a quella delle due località vicino a Castione, ed era caratterizzato dalla netta preva-lenza della terra aratoria e dalla presenza del tutto marginale del prato. I da Fino continuavano a possedere le 60 pertiche sulle quali aveva messo le mani Ardengo72. Almeno una parte delle terre acquistate da Venturino Fanzago, Giovanni Marinoni e soci erano state invece cedute ai Cays, un’altra famiglia eminente di Clusone, cives extra civitate come i da Fino. A quanto sembra, le terre di S. Lorenzo erano state accorpate in poderi di 60-65 pertiche (un po’ più di 4 ha.) e affittate a mezzadria. Si è conservato il dettagliato contratto di locazione stipulato tra Andreolo di ser Bertolino Cays e Gerardo terzoli dei Savoldelli di Rovetta73. Il podere era dotato di una casa di abitazione, una stalla ed altre attrezzature rurali, ed è dunque evidente che il mezzadro vi risiedeva. Nonostante ciò, sembra chiaro che, come accadeva per tede e Lantana, a S. Lorenzo non si svolgeva vita comunitaria. I contadini affit-tuari, come Gerardo Savoldelli, continuavano senza dubbio a far parte delle comunità di provenienza, nel suo caso la contrada di Rovetta e il comune di Clusone. Del resto, l’antico villaggio di Gavazzo non esisteva più, e l’area era caratterizzata dall’insediamento sparso, un modello del tutto insolito in questa zona. tuttavia, proprio come per tede e Lantana, i registri notarili continuano ad attestare l’esistenza di un comune di Gavazzo, o di S. Loren-zo. Purtroppo la situazione documentaria poco favorevole non ci consente in

(72) ASBg, FN, n. 556, I, not. Iacobo da Fino, cc. 61v-62r, 1464 novembre 2.(73) ASBg, FN, n. 556, II, not. Iacobo da Fino, c. 238v, 1466 febbraio 1.

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questo caso di capire se i beni comunali – boschi e pascoli – fossero utilizzati dagli affittuari dei poderi per le loro necessità o fossero invece sfruttati in altro modo dai proprietari.

4. Conclusioni

I villaggi di tede e Lantana erano sorti in aree marginali, ai bordi della Conca della Presolana, dominata dalla vivace e popolosa comunità di Ca-stione. Al culmine della crescita medievale, intorno alla metà del Duecento, i due abitati avevano raggiunto una consistenza demografica sufficiente a costituirsi in comuni autonomi. Il caso di Gavazzo era, almeno in partenza, molto diverso. Il villaggio era situato in una posizione molto favorevole, al centro di un fertile pianoro sul quale convergeva la viabilità che collegava l’Altopiano di Clusone con le vallate limitrofe. Il comune si formò nell’alveo della signoria del Capitolo cittadino, ed è attestato almeno dai primissimi anni del Duecento, quando già si manifestavano segni di sovrappopola-mento. Nel XIII secolo gli abitanti di Lantana, tede e Gavazzo praticavano quella particolare variante dell’economia di sussistenza che gli studiosi della montagna chiamano Alpwirtschaft, caratterizzata dalla combinazione tra lo sfruttamento individuale dei campi adatti alla coltivazione dei cereali, situati alle altitudini più basse in prossimità dei villaggi, e lo sfruttamento colletti-vo – per le attività legate all’allevamento, che in questi contesti rivestivano un’importanza fondamentale – dei pascoli e dei boschi posti in una fascia più ampia e in alta quota74.

I disordini legati alle lotte politiche prima, e il tracollo demografico cau-sato dalle epidemie di peste poi, determinarono l’abbandono dei tre villaggi, e innescarono trasformazioni importanti del paesaggio agrario. Le terre a bassa quota, attraverso vari passaggi che non è possibile ricostruire nel detta-glio, finirono nelle mani di proprietari esterni, che risiedevano nelle comuni-tà vicine, di imprenditori locali o addirittura di facoltose famiglie cittadine75. Lo smantellamento della Alpwirtschaft consentì di avviare un processo di specializzazione produttiva che andava incontro alle caratteristiche pedolo-

(74) La bibliografia sulla Alpwirtschaft è ormai molto ampia. Mi limito a segnalare l’or-mai classico studio di R. nettinG, Balancing on an Alp. Ecological Change and Continuity in a Swiss Mountain Community, Cambridge 1981, e la revisione di P.P. Viazzo, Comunità alpine: ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Roma 2001. Per uno sguardo d’insieme Storia e civiltà delle Alpi, a cura di P. GuiChonnet, vol. I, Destino storico, Milano 1986.

(75) Questo processo fu certamente legato alla dissoluzione del vasto patrimonio dell’epi-scopato di Bergamo in Val Seriana superiore. Al momento, tuttavia, tale fenomeno, senz’al-tro essenziale per comprendere l’evoluzione del paesaggio agrario nella Valle, è ancora tutto da indagare.

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giche e ambientali delle diverse aree. Così a tede e Lantana, dove la coltiva-zione dei cereali aveva sempre richiesto grande dispendio di risorse umane, e aveva prodotto grani, come la scandella o la segale, poco richiesti dal mer-cato e di scarso valore economico, la terra aratoria scomparve a favore del prato e del bosco. A Gavazzo al contrario, il cui territorio pianeggiante era eccezionalmente favorevole alla cerealicoltura, fu la terra aratoria ad avere la meglio, a discapito del prato, che pure aveva avuto una sua importanza per gli abitanti duecenteschi della villa. Vediamo insomma svolgersi con partico-lare chiarezza, in questo angolo della Val Seriana superiore, processi che in-teressarono tutta l’Europa a partire dalla seconda metà del trecento, quando il crollo della popolazione consentì l’abbandono delle terre marginali e meno produttive, occupate nei decenni del boom demografico, e l’avvio di forme di specializzazione colturale e industriale76.

tuttavia, c’è un altro aspetto, forse ancora più interessante, che merita di essere approfondito. Lo spopolamento dei villaggi non comportò la scompar-sa dei territori comunali. Nella seconda metà del Quattrocento le fonti locali continuavano senza alcuna incertezza a indicare Lantana, tede e Gavazzo (sempre più spesso chiamato San Lorenzo) come comuni. Si tratta di un uso generalizzato, condiviso da tutti i notai che rogavano in questa zona, sen-za eccezioni, e dunque non imputabile al particolare conservatorismo di un professionista della scrittura. Del resto l’analisi delle confinanze, riportate in decine di atti di compravendita, non lascia dubbi sul fatto che i territori che un tempo facevano capo ai villaggi di Lantana, tede e Gavazzo non fossero stati assorbiti nei territori comunali limitrofi.

Questa particolare evoluzione produsse un’interessante discrepanza tra la carta politico-amministrativa della Val Seriana superiore così come era stata riconosciuta dallo stato di Venezia, che contemplava nella zona che ci interessa l’esistenza dei soli comuni di Castione, Onore con Songavazzo, Ce-rete e Clusone, e la rappresentazione del territorio che i notai locali conti-nuavano a rispecchiare e dunque ad alimentare. La spiegazione di questa discordanza, del resto, è semplice. Erano le comunità, strutturate politica-mente nel comune, ad avere accesso agli spazi di dialogo e negoziazione con la Dominante. Ma, come si è detto, a Lantana, tede e Gavazzo non c’era vita comunitaria, non vi risiedevano cioè gruppi di persone che si fossero date un’organizzazione autonoma e si riconoscessero in un’identità comunitaria.

(76) S.R. ePstein, Freedom and Growth. The Rise of States and Markets in Europe, 1300-1750, London 2000; iD., I caratteri originali. L’economia, in L’Italia alla fine del Medioevo: i caratteri originali nel quadro Europeo, a cura di F. saLVestrini, Firenze 2006, I, pp. 381-431; A.M. raPetti, Paesaggi rurali e insediamenti nell’Italia del basso Medioevo, in L’Italia alla fine del Medioevo... cit., pp. 25-56.

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Lantana, tede e Gavazzo erano, insomma, comuni senza comunità.È bene chiarire, però, che non ci troviamo di fronte a una situazione

residuale, a una realtà fossilizzata, che persisteva perché nessuno si pren-deva la briga di metterla in discussione. Le comunità limitrofe esercitavano di certo pressioni notevoli per acquisire queste aree, e tali pressioni diven-nero senza dubbio più forti a partire dalla seconda metà del Quattrocento, quando le conseguenze della ripresa demografica e, soprattutto, la crescente autocoscienza e capacità di azione politica delle comunità locali scatenarono conflitti sempre più accesi per lo sfruttamento del territorio77. I tre comuni sopravvivevano perché qualcuno aveva un forte interesse a che sopravvives-sero, ed era pronto a investire energie e risorse economiche per difenderli dalle mire delle comunità vicine. Questo qualcuno non potevano che essere i proprietari delle terre di Lantana, tede e Gavazzo.

tali proprietari erano in parte famiglie del posto, ma i più determinati tra loro erano imprenditori locali o cittadini che non erano certo mossi da esi-genze di sopravvivenza. La vera posta in gioco non erano le terre possedute individualmente, ma il comune in senso proprio, cioè i beni comunali. Essi consistevano in risorse naturali il cui valore economico andò costantemente aumentando a partire dai decenni centrali del Quattrocento. Lo sviluppo di una fiorente manifattura laniera nelle valli bergamasche, ma anche il costante aumento della domanda di carne e prodotti caseari da parte delle città della pianura, incoraggiarono l’espansione dell’allevamento, e dunque la valoriz-zazione di prati e pascoli78. Ma la risorsa più ambita, quella che offriva le più interessanti prospettive di uno sfruttamento commerciale era, come si è visto, il bosco, fonte non soltanto di combustibile per l’uso domestico e le più varie attività artigianali e industriali, ma soprattutto di materiale da costru-zione di alta qualità.

Anche in Val Seriana superiore, come nelle altre aree alpine e prealpine, dai decenni centrali del XV secolo le comunità locali tentarono con ogni mezzo di escludere dalla fruizione dei beni comuni i cittadini, i cives extra civitate e in generale tutti coloro che, pur avendo proprietà entro i confini del territorio comunale, non vi risiedevano stabilmente e non appartenevano alle famiglie insediate sul posto da diverse generazioni79. Il principio che

(77) Su questa fase fondamentale dell’evoluzione delle comunità della montagna – lom-barda e non solo – cfr. M. DeLLa MiseriCorDia, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo me-dioevo, Milano 2006.

(78) Una messa a punto sul tema della crescente importanza, anche commerciale, dell’al-levamento a partire dal tardo Medioevo si trova in L’alpeggio e il mercato, a cura di P. P. Viazzo e S. wooLF, numero monografico della rivista “La ricerca folklorica”, n. 43, 2001.

(79) Paradigmatica, in questo senso, la lite che contrappose la comunità di Onore alla

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gradualmente prese piede fu che, se non si poteva impedire ai proprietari fo-restieri di avere accesso ai beni comunali per le loro necessità di sussistenza, si poteva e si doveva evitare che essi li utilizzassero a scopo di lucro80. Certo i confini tra le due forme di godimento non dovevano essere così chiari, tanto più che le comunità stesse ricavavano utili dall’affitto di prati e pascoli e dalla vendita della legna e del carbone. tuttavia, la stretta sorveglianza esercita-ta dagli ufficiali comunali e l’altissimo tasso di conflittualità rendevano di fatto impossibile, o comunque poco conveniente, per i proprietari esterni, indipendentemente dall’entità dei loro possessi nel territorio comunale, lo sfruttamento commerciale delle proprietà collettive.

Si capisce allora perché era tanto importante che Lantana, tede e Ga-vazzo rimanessero comuni autonomi, e non fossero inglobati nei territori dei comuni limitrofi. In questo modo, le vaste estensioni di boschi e di pascoli che costituivano i loro beni comunali erano sottratte all’ingerenza delle co-munità locali, e aperte alle operazioni economiche promosse da coloro che riuscivano a entrare in possesso delle ambite terre divise poste entro i confini dei tre territori. Mi sembra chiaro, insomma, che l’esistenza dei tre comuni, e la loro sottrazione di fatto alla carta politico-amministrativa concordata tra le comunità locali e lo stato di Venezia, si possa comprendere solo alla luce dei progetti economici di quel vivace strato di imprenditori – composto da cittadini, da valligiani gratificati dello status di cives extra civitate, da mem-bri di spicco del notabilato locale – sul quale abbiamo gettato solo un rapido sguardo nelle pagine precedenti. Una componente socio-economica, questa, che a mio avviso meriterebbe un’indagine ben più approfondita di quella che

parentela dei da Fino per l’utilizzo dei beni comunali di Onore: A. PoLoni, “Ista familia”... cit., pp. 90-98.

(80) Il 6 settembre del 1463, nell’ambito della lite tra il comune di Onore e i da Fino, citata alla nota precedente, fu emanata una lettera ducale che modificava il dettato delle rubriche dello Statuto di Bergamo in materia di beni comunali. Essa chiariva “quod fructus, redditus et utilitates qui et que ex bonis communalibus ipsius loci del Honore de presenti percipiuntur et de cetero consequi poterunt, omnes ad utilitatem communis dicti loci converti debeant, et non ad commodum et utilitatem civium ibidem possessiones habentium aut alicuius particu-laris persone, sicut conveniens est et honestum”. Tuttavia, il documento specificava: “verum volumus ut liceat eisdem civibus uti et frui pascuis, nemoribus, pratis et montibus ipsius communis sicut hactenus fecerunt pro usibus suis tantum” (CBBg, Archivio storico comu-nale, Registro Ducali A, I, c. 55r). Una nuova lettera ducale, emanata il 24 dicembre di quello stesso anno, chiariva poi ulteriormente: “verum quicquid emolumenti ultra usum habitantium supererit vel affictaretur, id totum convertatur in utilitatem communis loci del Honore et non in benefitium et utilitatem alicuius particularis persone” (CBBg, Archivio storico comunale, Registro Ducali A, I, c. 55r e v; tutti i corsivi sono miei). La correzione apportata al capitolo dello Statuto cittadino aveva conseguenze di grande rilievo non soltanto per i rapporti tra i da Fino e i vicini di Onore, ma più in generale per le relazioni tra i cittadini e le comunità rurali in tutto il territorio bergamasco: A. PoLoni, “Ista familia”... cit., pp. 90-96.

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è stato possibile accennare in questa sede. È possibile, allora, che la perdurante incertezza e ambiguità dimostrata

dalle varie redazioni degli Statuti di Bergamo nei confronti di questi comuni senza comunità non vada letta come una dimostrazione di indifferenza, o addirittura dell’incapacità di comprendere le dinamiche del difficile contesto montano. Al contrario, le oscillazioni potrebbero essere l’espressione del-la grande permeabilità dei testi statutari cittadini ai diversi interessi locali, della sensibilità e ricettività alle sfumature e alla complessità dei differenti progetti che si confrontavano sul territorio. Del resto, molti degli investitori interessati alla sopravvivenza dei comuni di Lantana, tede e Gavazzo erano cittadini oppure, come i da Fino, legati alla città e al suo patriziato da antiche e consolidate relazioni.

Con il tempo, tuttavia, furono le comunità ad avere la meglio. Già nel 1497 i proprietari delle terre di Lantana cedettero i loro beni comunali al co-mune di Castione, e da quel momento non si trova più riferimento nelle fonti al comune di Lantana81. È probabile che in questa cessione abbia giocato un ruolo determinante l’influenza dei Bonghi, più interessati, come abbiamo visto, a mantenere e consolidare le relazioni clientelari con le famiglie e la comunità di Castione che a difendere le potenzialità economiche di pascoli e boschi. Anche il comune di tede fu aggregato al territorio di Castione, ma solo dopo una lunga controversia con i da Fino, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Più incerta la fine del comune di Gavazzo, probabilmente smembrato in età moderna tra i territori di Clusone, Onore e Cerete.

Negli ultimi anni la storiografia ha finalmente messo in luce la grande ca-pacità di azione politica e istituzionale che le comunità della montagna dimo-strarono soprattutto a partire dal tardo Medioevo, ma anche la loro propen-sione a produrre elaborazioni culturali, rappresentazioni sociali e linguaggi politici di notevole originalità. La vicenda, certo secondaria, che abbiamo narrato nelle pagine precedenti invita innanzitutto a non dare per scontata l’equazione, apparentemente lineare, comune-comunità. Essa dimostra an-che che in Val Seriana superiore esistettero, in particolare tra la seconda metà del XIV e l’inizio del XVI secolo, rappresentazioni dello spazio e progetti sul territorio alternativi a quelli delle comunità, anzi in contrasto con essi, e facenti capo a soggetti e famiglie dalla fisionomia diversa e variegata. Anche se tali progetti furono alla lunga perdenti, schiacciati dalla prevalenza del modello comunitario, non per questo possono essere ignorati. Al contrario, una conoscenza più approfondita degli interessi di natura diversa che si con-frontarono nella definizione dello spazio economico e politico, e della fisio-

(81) Archivio storico del Comune di Castione della Presolana, Liti, n. 286.

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nomia di coloro che li espressero, può forse dare un contributo a chiarire le dinamiche di una fase, quella tardo medievale e della prima età moderna, che anche nelle valli bergamasche, come in molti altri contesti alpini e prealpini, appare cruciale nel definire equilibri che sarebbero rimasti quasi inalterati fino alle soglie del mondo contemporaneo.

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Giulia Belletti

IL PESO DELLA DOMINANtE: Bergamo, la Val Seriana Superiore e la Repubblica di Venezia

nel XV secolo

In questo breve studio mi propongo di offrire una panoramica della pre-senza dell’autorità e delle istituzioni del comune di Bergamo durante la prima dominazione veneziana (1428-1509) in Val Seriana Superiore. Questa valle è una delle valli esenti del territorio della città orobica ed è parte del sog-getto della mia tesi di dottorato in corso di scrittura. La mia posizione sulla questione è che vi sia una continuità di rapporti asimmetrici tra gli ambiti valligiano e urbano, pur nella progressiva perdita di posizioni di controllo locale da parte del comune cittadino. tale disuguaglianza è però più formale che effettiva, anche per il supporto offerto dalla Serenissima all’autonomia delle valli rispetto al comune cittadino come contrappeso alla forza di questo e, nell’insieme del meccanismo di contrapposizioni, come garanzia per la fe-deltà di questo distretto. I notevoli spazi di azione acquisiti dalla valle, seppur mal sopportati da parte del comune cittadino, vengono con il passare degli anni a essere perlomeno più rispettati da quest’ultimo1.

Devo cominciare innanzitutto con un breve riferimento ad avvenimenti e fenomeni accaduti durante la seconda metà del XIV secolo per sostenere l’interpretazione che voglio proporre. L’espansione e il consolidamento dei privilegi di autonomia delle valli2, lo stato di guerra tra le fazioni, endemico

(1) Su questa problematica, il riferimento più recente e significativo è contenuto nel libro di I. PeDerzani Venezia e lo “Stato de Terraferma”: il governo delle comunità nel territo-rio bergamasco, Milano 1992. Partendo dall’idea forte di una costruzione statuale robusta come fine ultimo dell’azione di governo del territorio da parte della Repubblica di Venezia (ivi, pp. 26-27), si suggerisce che l’azione di perseguimento di più piena autonomia da parte di corpi separati non avesse grandi speranze di risultati concreti (p. 58) e che nella pratica il ceto urbano dirigente non avesse grossi problemi a conservare la propria preminenza sul territorio, soprattutto col sostegno della propria potenza economica dovuta all’espansione della proprietà fondiaria (p. 86). Da parte veneziana non si riscontra tuttavia né la volontà di scardinare equilibri radicati in processi non controllabili da un apparato più o meno poderoso ma sempre esterno alla realtà locale, né la volontà di rafforzare una città geograficamente ed economicamente eccentrica come Bergamo.

(2) Il punto di riferimento per tali vicende rimane B. BeLotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Bergamo 1959, tomo II, pp. 237-245.

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in tutta la Bergamasca3, e il rimaneggiamento dell’assetto amministrativo e istituzionale delle valli4 tendono a dividere le dinamiche politiche della città e delle comunità della montagna. tale fenomeno ha conseguenze immediate sui circuiti in cui si muovono le élite che governano comune e comunità, sulla composizione delle élite stesse (si nota ad esempio una distinzione precisa tra gli ambienti in cui agiscono i ceti dirigenti cittadino e locale), sulla configura-zione delle istituzioni preposte dal potere centrale alla gestione del territorio, infine sulle capacità di reazione al governo signorile. Durante il trecento i Visconti mantengono una forma di dominio piuttosto aggressiva, per quanto declinata in maniera differente nel caso di Bernabò Visconti (che controlla la città in modo diretto o indiretto tramite Regina della Scala in unione col fi-glio Rodolfo, che diventano responsabili del distretto bergamasco negli anni Settanta del secolo5) rispetto a quello del suo successore Gian Galeazzo6. Nel Quattrocento viene adottata, e nel tempo consolidata, dai successori sia viscontei sia veneziani (peraltro già predisposti a muoversi in questo senso) una prassi di amministrazione del territorio basata su principi pacifici e con-ciliatori, dimostratasi più proficua, con ripercussioni importanti sul modo di rapportarsi col potere centrale (cosa chiedere, cosa essere preparati a dare) da parte delle entità politiche presenti nel distretto di Bergamo.

Sin dall’età viscontea la rottura tra città e corpi separati del contado passa anche sul piano della strutturazione istituzionale7 e si mantiene per tutto il periodo veneto. Questo stato di cose si regge anche sul netto rispetto delle autonomie locali, adottato come linea di condotta generale dalla nuova Do-minante8, che ottiene in tal modo una fedeltà quasi sorprendente da parte delle comunità stesse. Un simile mutamento di indirizzi da parte del potere centrale ebbe decisive ripercussioni sulle relazioni con i poteri locali presenti sul territorio di Bergamo9. Questo scenario si propone sin dal 1427-1428,

(3) Cfr. G. Battioni, La città di Bergamo tra signoria viscontea e signoria malatestiana, in Storia Economica e Sociale di Bergamo, vol. 2, tomo II, a cura di G. ChittoLini, Bergamo 1999, p. 186.

(4) Cfr. P. Mainoni, Le radici della discordia: ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XV Secolo, Milano 1997, pp. 132-136, G.M. Varanini, La tradizione statutaria della Valle Brembana nel Tre-Quattrocento e gli statuti della Valle Brembana superiore del 1468, in Gli Statuti della Valle Brembana superiore del 1468, a cura di M.R. Cortesi, Bergamo 1994, pp. 17-18 e B. BeLotti, cit., pp. 240-241.

(5) Ivi, pp. 255-274.(6) Ivi, pp. 278-301.(7) Cfr. G. Battioni, cit., pp. 202-206.(8) Cfr., tra molta altra bibliografia, L. PezzoLo, Finanza e fiscalità a Bergamo (1450-

1630), in Storia Economica e Sociale di Bergamo, vol. 3, tomo II, a cura di A. De MaDDaLena e M. Cattini, Bergamo 1998, p. 61.

(9) Simile evoluzione è stata riscontrata da G.M. Varanini per il Veneto quattrocentesco,

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essendo le valli passate dalla parte di Venezia in massa e molto prima della città, a indizio del severo giudizio delle comunità delle Orobie sul governo visconteo10.

Anche se non si può parlare di vera e propria rottura, a livello economico sembra oltretutto esserci un decollo delle valli, in special modo nel settore tessile ma anche ad esempio nella pastorizia. I valligiani paiono assumere un ruolo di controllo delle transazioni legate al “putting out system” e alla tran-sumanza11. Questi segnali sembrerebbero mostrare una maggiore autonomia dal centro cittadino e un peso maggiore economico dei distretti vallivi (del resto prontamente riconosciuto al momento del rifacimento degli estimi in questa prima età veneziana12), molto probabilmente di pari passo con il pro-cesso che abbiamo già descritto a livello politico in corso a livello politico, con possibili effetti di rafforzamento reciproco.

Si potrebbe descrivere il rapporto tra città e valli durante il primo pe-riodo veneto utilizzando il termine di ‘influenza’ più che di ‘potere’: tale definizione ha il vantaggio di non implicare una sottomissione delle comu-nità montane molto più forte di quanto non sia nei fatti e, nel contempo, di conservare una certa ambiguità che non esclude del tutto l’esistenza di una gerarchia dominante-città-territorio. Giorgio Sola13 sottolinea come “tutte le situazioni in cui un attore induce un altro attore a comportarsi secondi i pro-pri desideri, a prescindere dalla sfera di attività e dai motivi per cui ciò acca-de, ricorrendo alla persuasione, all’incoraggiamento, all’incitamento” siano da definirsi come influenze; il potere vero e proprio implica un intervento sul comportamento altrui attraverso “sia la costrizione sia (…) la remune-razione”. Che la città rimanga il centro e il punto di riferimento (lo sbocco, se vogliamo esprimerci con un termine più economico) delle Valli, almeno

la cui evoluzione quanto a politica condotta dalla città sul contado e a rapporti con la Domi-nante è decisamente collegata ai precedenti due-trecenteschi (cfr. G.M. Varanini, Comuni cittadini e Stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, pp. XXXVII-XXXVIII e pp. 57-72).

(10) Cfr. I. PeDerzani, L’organizzazione amministrativa del territorio: Venezia e la Ber-gamasca, in Storia Economica e Sociale di Bergamo, vol. 2, tomo II, a cura di A. De MaDDa-Lena e M. Cattini, Bergamo 1995, p. 149, nonché B. BeLotti, cit., pp. 360-361.

(11) Cfr. E. roVeDa, Allevamento e transumanza nella pianura lombarda: i Bergamaschi nel pavese tra ‘400 e ‘500, in “Bollettino della Società pavese di storia patria”, n. 40, 1988, pp. 12-34.

(12) Vedi oltre; è anche vero che un estimo generale non è “una semplice operazione fisica”, come scrive F. saBa (che utilizza questa fonte ricchissima a fini ben differenti dai nostri, ovvero nel saggio demografico La popolazione del territorio bergamasco nei secoli XVI-XVIII, in Storia Economica... cit., vol. 3/I, p. 229), ma un momento delicato di dialogo tra varie istanze e quindi una possibile “prova di forza” tra esse.

(13) G. soLa, I paradigmi della scienza politica, Bologna 2005, p. 70.

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dal punto di vista formale, è evidente. Del resto non si può parlare di vero e proprio potere coercitivo della città, poiché, come vedremo, nel XV secolo la figura che detiene questo potere al massimo grado in Val Seriana Superiore (ma l’esempio è presente anche in altre comunità di valle), ossia il Podestà, viene ad essere agente del potere della Dominante piuttosto che del Comune urbano. La situazione del distretto di Bergamo pare quindi differenziarsi ri-spetto al dato che emerge dagli studi più recenti sulle istituzioni territoriali della terraferma veneta. Esso appare infatti relativamente poco coeso anche considerando la gamma di rapporti di autonomia che si sviluppa tra città e contadi sottoposti alla Signoria della Serenissima. tali legami sono correlati a loro volta alla differente forma istituzionale che si formano tra corpi del distretto e Dominante, in quello che è stato definito, almeno per il XV secolo, un rapporto “stellare”14. In questo quadro generale la Bergamasca pare offri-re un singolare esempio di disgregazione interna e, di rimando, di rapporti diretti con il potere centrale, che l’esempio della Val Seriana Superiore mette significativamente in luce.

Nelle pagine che seguono utilizzerò quattro ambiti in cui la frizione tra comune urbano e comunità di valle si sviluppano o si palesano: il diritto statutario e la sua applicazione, la figura del vicario della valle, la reazio-ne presso la Dominante da parte della città e infine l’estimo del 1475-1476. tali scansioni tematiche costituiscono vertenze aperte contemporaneamente tra città e comunità del territorio, che gravitano intorno agli stessi principi (sudditanza o autonomia delle seconde nei confronti della prima), sviluppandosi in modo contiguo ma autonomo l’uno dall’altro. Senza con-siderare in alcun modo questi dati in prospettiva teleologica, a partire dalla situazione appena delineata, l’evoluzione di tali punti problematici finisce per produrre un effetto che codifica in modo più stabile il rapporto città-comunità come influenza.

1. Diritto statutario e diritti dei vicini

L’analisi dei testi statutari, che qui concentro sulla realtà della Valle Se-riana Superiore, offre a questo proposito una buona quantità di argomenti. In questa fonte si perpetuano, anche per la forza implicita nell’antichità delle forme, modelli cittadini15, ancorché in concreto la valle non dipenda più dal comune urbano come era accaduto tra XIII e primo XIV secolo. Nel corso delle svariate sedimentazioni statutarie si procede quindi all’eliminazione

(14) Cfr. G.M. Varanini, La Terraferma veneta nel Quattrocento e le tendenze recenti della storiografia, in Ateneo Veneto, in corso di stampa.

(15) Cfr. G.M. Varanini, La tradizione... cit., pp. 14-16.

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(dove possibile) di tutti i riferimenti alle istituzioni del comune di Bergamo, di particolari status giuridici dei suoi cittadini (regolarmente, le persone fisi-che soggette alle norme si dividono tra vicini e non vicini, e questi tra coloro che appartengono alla valle, o a valli esenti – quindi di pari status – e altri, che possono essere benissimo cittadini come abitanti del contado o di altri di-stretti, veneziani o meno) e persino di qualsiasi riferimento al luogo di Berga-mo (quasi a sminuirne la centralità). Si potrebbe quasi dire che da questa “po-tatura” il modello sembra quasi assumere una forza maggiore, in quanto non più imposto dal centro ma perpetuato da istituzioni ormai pienamente attive nelle loro scelte e che occupano nei fatti una capacità di gestione della propria esistenza e dei propri affari molto simile a quella del centro urbano16.

Fatto salvo un unico caso, comunque significativo, negli statuti delle lo-calità della Val Seriana Superiore il forestiero, ossia colui che non è vesino o vesina17, si definisce come appartenente o agli altri comuni della Valle o “di fuori”, senza che si faccia distinzione eventualmente tra cittadini bergama-schi o dei comuni rurali, residenti e non sul territorio del comune di Valle18.

(16) Sembrerebbe quasi che il comune urbano sia maggiormente sottoposto al controllo (e al potere) della Dominante delle comunità valligiane. Infatti, già a partire dalla fine del XIV secolo esso ha consegnato nelle mani del signore i meccanismi di regolamento delle tipologie impositive, per lo più indirette, gravanti sul territorio cittadino e dipendente dalla città. Nel momento in cui sia necessario o desiderabile un qualche cambiamento, esso deve iniziare una vertenza che può anche non volgere a buon fine (cfr. BCBg, Ducali, I, 9 dicembre 1448, f. 16r). Per contro, i pagamenti per composizione o in solido, come si incontrano nelle valli, possono potenzialmente variare la propria base imponibile senza avere reale ingerenza da parte della Dominante, con evidenti ricadute sul piano dello sviluppo economico e sulla effettiva pressione fiscale su varie fasce della società. Questa è la chiave di volta dello status particolare di questi territori rispetto ad altre parti del distretto, non solo a livello formale, ma anche a livello della modalità di riscossione (diretta o indiretta) delle imposizioni, fino ad ar-rivare a un “cocktail” di tassazioni molto simili a quelle in vigore in città o nelle quasi città.

(17) Negli Statuti di Ardesio (che cito nell’edizione Statuti ed ordini del comune di Arde-sio, a cura di G. siLini e A. PreVitaLi, Clusone 2000, riguardante gli statuti del 1503) si trova il principio soprattutto in voci che si riferiscono alla fiscalità; così alle rubriche 78 e 85 (De lo datio de la gratarola), 103 (De lo datio de li cavali), 112 e 118 (Datio de lo mantadego), si parla per esempio di alcuna persona forestera la quale non sia de li valli exempti, senza appunto peritarsi di specificare oltre. Com’è stato messo in luce di recente in un contributo di A. PoLoni (Ista familia de Fine audacissima presumptuosa et litigiosa ac rixosa: la lite tra la comunità di Onore e i da Fino nella Val Seriana superiore degli anni ‘60 del Quattrocento, Fino del Monte, 2009) lo status di appartenenza ad una comunità differente rispetto a quella di residenza ha conseguenze importanti soprattutto in questo ambito (e soprattutto, nel caso dei da Fino, se ci si può definire dei cives).

(18) L’eccezione è estremamente importante, e potrebbe essere considerata come una sor-ta di limite delle ambizioni di “sganciamento” dalla città da parte di una valle esente. Negli Statuti della Valle Seriana Superiore (Gli statuti della Valle Seriana Superiore, 1461, intro-duzione e riedizione critica a cura di G. siLini, Ardesio 2004) si trova infatti che, in materia di contumacia in giudizio, la regola dell’esproprio dei beni dell’imputato assente non è appli-cabile soltanto per i cittadini bergamaschi. Siamo alla rubrica 74, collazione II, rubrica che

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Questo tipo di approccio riduce sensibilmente la possibilità da parte di un cives di porsi in posizioni di particolare “privilegio informale”, anche quando si tratta di questioni non immediatamente qualificabili come politiche.

A tal proposito – anche se gli statuti dei comuni non ne fanno accenno – si possono verificare precise scelte politiche da parte delle comunità in alcuni campi, come quello dei prodotti dei beni comunali: gli acquirenti dei “legni” provenienti delle selve delle comunità sono quasi esclusivamente locali19. Partendo dalle fonti amministrative (fondamentalmente registri di conti e atti del comune, classificazione archivistica che in realtà nasconde anche raccolte di documenti non strettamente definibili come verbali di consigli maggiori e di credenza20) è possibile condurre un’indagine prosopografica per la fine del XV secolo e l’inizio del successivo sui dati relativi ai capifamiglia e ai magi-strati di alcuni comuni come Gromo ed Ardesio. Le liste particolarmente utili per un’indagine di questo genere riguardano magistrati, multe, pagamenti di varia natura e allibrazioni d’estimo (fonti quanto mai importanti per de-terminare l’appartenenza ad una comunità, poiché i vicini e i forestieri sono registrati in documenti differenti), ma anche vendite e assegnazioni.

Considerando queste ultima tipologia di liste alla luce degli elenchi di vicini ricavati da altre fonti, si può notare come tutti gli acquirenti di questo particolare mercato risultino essere vicini del comune, con naturali dispa-rità determinate dalla condizione economica o dalla professione. I cittadini bergamaschi sono assai pochi e hanno una rilevanza limitata. Le specifiche clausole di protezione previste dai contratti di incanto per questi cives (ad esempio, si sottolinea il fatto che si debba evitare di tagliare alberi bollati, ovvero riservati, dal tal soggetto qualificato come cittadino bergamasco) non sembrano esprimere una loro condizione di privilegio rispetto agli acquirenti

Silini non a caso collega con una norma presente negli statuti di Bergamo, come accade in molti altri casi nello stesso testo statutario, che risulta essere il più ricco di riferimenti diretti (e quindi di legami) con lo statuto cittadino.

(19) Si tratta di legname di taglia grande, che serve per esempio per lavori di carpenteria o per la costruzione di imbarcazioni o per manufatti di taglia comunque considerevole e nor-malmente anche di una certa importanza come investimento, quali possono essere meccani-smi per mulini e gualchiere (cfr. Archivio del Comune di Ardesio, Antico Regime, Serie 4, Ragioni del Comune 1517-1520, passim). Gli Statuti di Ardesio (Statuti ed ordini del comune di Ardesio... cit.), negli Ordeni e capitoli circha li pageri parlano di incantatori, e lo stesso accade nel capitolo Contra li incantatori de li cavedi (rispettivamente, rubriche 199 e 235). Il quadro è differente in quei pochi comuni della Val Bondione (Gavazzo, Tede e Lantana) in cui l’”equazione Comune/comunità” non è valida, per cui, almeno per tutto il XV secolo, l’accesso ai beni comunali non è riservato ai vicini ma si estende anche a proprietari cittadini bergamaschi extra civitatem; cfr. in questo volume il saggio di A. Poloni.

(20) Archivio Storico del Comune di Gromo, Ragioni del Comune, registro 1; Comune di Ardesio, Ragioni del Comune, registro I.

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di origine locale: esse parrebbero piuttosto sottolineare che la condizione di cittadino, in un ambiente in cui non arriva la protezione solidale dell’apparato giuridico urbano, è pari a quella di qualunque altro forestiero e potrebbe anzi essere oggetto di particolare ostilità da parte di componenti della comunità locale. Per tal ragione, il comune valligiano ritiene opportuno rendere chiaro che non è legalmente possibile ledere i diritti di questo estraneo. Il comune di Bergamo si rivela invece impotente: la circostanza appare ancora più no-tevole se si considera l’apparato di tutela del patrimonio dei suoi membri che viene dispiegato in pianura anche soltanto a livello fiscale.

In tale direzione si potrebbe leggere un contratto del 21 giugno 1508, con cui il comune di Gromo21 mette all’incanto una grossa quantità di legname. Compaiono le clausole di norma presenti in questo genere di bandi: giorno di indizione, prezzi dei “pezzi”, termini di pagamento, garanzie da rispettare. Da ultimo, si specifica, però, che, nella scelta dei legni, bisogna operare con reservatione de quey che bolati del bol del Messer Iachomo Canturi de Ber-gom. Non si menzionano vicini o habitatores di Gromo o forestieri, ma sol-tanto un cittadino bergamasco; eppure, nella foresta del Monte di Campelli era altamente improbabile che l’unico gruppo di alberi riservati fosse quello del Canturi, in quanto oltre alle vendite di legna piccola abbiamo anche bol-lature di alberi, strutturate sempre come incanti, e ad esse partecipano non poche persone. Contrariamente alle vendite di legna, le bollature sono un in-vestimento sul lungo termine, da cui l’uso del bollo come segno permanente di riservazione di un albero; è perciò improbabile che, di colpo, tutte le altre bollature fossero sparite.

2. Il vicario e i rapporti diretti con la Dominante

tornando a considerare il contenuto dei testi statutari, bisogna affrontare la centralità della figura del Vicario o Podestà della Valle Seriana Superiore di stanza a Clusone. Si tratta di una presenza di rilievo, che indebolisce, nella gerarchia dei giurisdicenti, le competenze su questo territorio dei magistrati di nomina cittadina: tale nomina è consueta per uno Stato regionale in tutte quelle parti di un distretto che non abbiano avuto particolari privilegi. tale ufficiale è il giudice naturale della Valle22. Il Podestà deve essere una perso-

(21) Archivio Storico del Comune di Gromo, registro I, c. 5v.(22) Statuti della Valle Seriana Superiore... cit., rubrica 39, collazione I, Quod aliquis

non possit nec debeat ire coram alio iudice quam domino Vicario dicte vallis; versione in volgare: “Che non si possa ricorrere ad altro giudice fuorché al Vicario di Valle”. La rubrica recita, in maniera estremamente concisa e precisa: “Item, statutum et ordinatum est quod non sit aliqua persona dicte vallis que possit nec debeat ire ad petendum ius in Pergamo coram ufficialibus Pergami, nec coram aliquo iusdicente extra dictam vallem, nisi coram domino

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na approvata dal Consiglio di Valle, il cui giudizio è più importante rispetto alla necessità che l’eletto sia cittadino di Venezia o di Bergamo. La figura del Podestà o Vicario discende dai primi vicari viscontei, le cui competenze erano però più evanescenti sia come riferimento geografico sia a livello di attributi della carica23. La definizione dei poteri di questa magistratura ap-pare peraltro sottoposta non solo all’influenza politica del comune cittadino e a quella delle comunità di valle, ma anche a progetti e stili di governo della signoria, che può, come accade nel 1376, deciderne persino la soppressione. La dissoluzione del contado è però un processo già in atto. Esso passa per la dislocazione di poteri e funzioni dalla città verso il distretto e per la loro subordinazione alla dominante. Il vicario dipende infatti dalla signoria, che ne trae anche benefici a livello di controllo immediato del territorio e, possi-bilmente, di consenso.

La funzione del vicario non è soltanto di giurisdizione: egli diventa il tra-mite diretto tra la Comunità e la Dominante, con cui comunica non necessa-riamente passando per l’apparato ufficiale di stanza a Bergamo24. Come viene rilevato da G. Silini25, la prerogativa di eleggere un vicario non è, al momento della dedizione, chiaramente attribuita alla comunità. Essa fa parte però dei capitoli sottoposti al governo veneziano al momento della dedizione, all’insa-puta della città (che, peraltro, è ancora fedele al momento al Duca di Milano). A causa di una simile ambiguità, i vent’anni successivi alla sottomissione alla Repubblica furono caratterizzati da un’accesa contesa per la conquista di questa prerogativa, attraverso anche fasi di arretramento delle posizioni della Valle nei confronti delle richieste del comune cittadino. La questione rimase aperta e fu risolta a favore della comunità della Valle Seriana Superiore solo nella seconda metà del secolo, con l’instaurazione della consuetudine di far nominare dalla Dominante personaggi da scegliersi all’interno di una rosa di nomi approvati dal Consiglio di Valle. L’accordo tra Signoria e poteri locali

Potestate (ovvero il Vicario), contra aliquem de dicta valle occaxione maleficii, pro quantitate non excedente libras quinquaginta imperialium contra aliquem de dicta valle, sed a quanti-tate librarum quinquaginta imperialium infra, et in civilibus, infra quantitatem iurisdictionis dicte vallis, videlicet, a libris ducentis imperialium infra inclusive, teneantur omnes de dicta valle petere ius sibi fieri sub et coram domino Potestate dicte vallis, sub pena librarum decem imperialium (…); et nihilominus quicquid agitatum fuerit sub alio officiali quam dicte vallis, per dominum Potestatem dicte vallis non permittatur exequtioni mandari”.

(23) P. Mainoni, cit., pp. 119-120.(24) Del resto vi saranno momenti, ben testimoniati dai Diarii sanudiani (M. sanuto, I

diari di Marino Sanuto, Venezia 1879-1903, passim) per gli anni dal 1509 al 1516, in cui la comunicazione con la Bergamasca sarà assicurata solo dai Vicari e dagli ufficiali rimasti in queste zone del territorio mai perse alla dominazione veneziana, con conseguente rafforza-mento dei rapporti già stretti tra questi ufficiali e le comunità loro affidate.

(25) G. siLini, Introduzione agli Statuti della Valle Seriana Superiore... cit., pp. 28-38.

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pose fuori gioco il terzo contendente (ossia il Comune cittadino), che in se-guito non manifestò più rimostranze al riguardo.

L’esistenza stessa di questo magistrato significa a livello ancor più con-creto che, almeno fino a un certo limite, gli affari giudiziari civili o criminali minori non vengono automaticamente rinviati a una sede dipendente diretta-mente da Bergamo o ivi collocata, con conseguenze sulla possibile parzialità del verdetto e sul costo di questa operazione. Le comunità hanno peraltro notevoli margini di autonomia in questo campo. Certamente alcune cause finiscono con l’essere giudicate, magari in seconda istanza, nel capoluogo, il cui statuto è del resto secondo a quello della Valle come fonte del diritto26. È certo che si cerca però, anche in queste trasferte forzate, di preservare lo status particolare della parte “valligiana”, poiché il console del comune di ap-partenenza segue con frequenza l’imputato e gli offre assistenza per quanto possibile27. Prima di finire a Bergamo si cerca però di mantenere il proce-dimento nella valle: la prima condizione per poterlo fare è garantirsi la pre-senza di un magistrato competente. Si comprende quindi come, tra gli estesi obblighi del Vicario, ci sia anche e soprattutto quello di residenza quanto più continua possibile: “quod dominus Vicarius dicte vallis non possit nec debe-at stare nec extra vallem predictam permanere nisi per dies quindecim per totum tempus sui regiminis (…) nisi steterit in servitio serenissime ducalis Dominationis nostre Venetiarum aut rey publice dicte vallis”28.

3. La reazione del comune cittadino

I casi che ho appena riferito non sono unicamente rapportabili al caso della Valle Seriana Superiore, ma anche agli altri statuti di valle delle Orobi-che29. Come reagì il governo del comune cittadino a questa situazione deci-samente sfavorevole? Nell’ambito di uno Stato regionale e rispetto a soggetti dotati di privilegi di autonomia ben definiti, l’unica istanza presso cui potreb-be essere efficace fare pressione è rappresentata dal potere centrale. Venezia

(26) Statuti della Valle Seriana Superiore... cit., rubrica 42, collazione I: “De civilibus causis”.

(27) Anche se la cosa non compare ufficialmente nello Statuto di Ardesio, è da notare, tra le note spese del Registro 1517-1520 sopra citato, che i consoli ricevono con una certa frequenza rimborsi per operazioni di questo tipo; purtroppo non è possibile datare con preci-sione questi interventi (dato lo stile della fonte e il metodo di contabilità impiegato).

(28) Statuti della Val Seriana Superiore... cit., rubrica 11, collazione I.(29) Ad esempio, negli Statuti della Valle Brembana Superiore si ritrovano la scelta e il

beneplacito di Venezia (rubrica 2, collazione I, “Quod officium domini vicarii Vallis predicte duret et durare debeat ad voluntatem serenissime ducalis dominationis nostre Venetiarum”) e posizione di giudice naturale per le cause in valle (rubrica 64, “Quod dominum vicarius sit et esse intelligatur iudex competens”).

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non aveva tuttavia particolari ragioni per appoggiare i tentativi di ricompat-tamento del distretto sotto la guida di un’autorità differente dalla propria, quale quella del comune cittadino, perdendo nel contempo il consenso forte ottenuto e mantenuto nelle valli. D’altro canto, sia le valli che la città sono elementi importanti in questa regione di frizione con la potenza milanese. Le risposte che vengono inviate da Venezia sono perciò estremamente prudenti, improntate all’idea di rispetto di privilegi passati, di non innovare e di porsi quindi sempre al di sopra delle parti, anche a costo di tornare su concessioni temporaneamente elargite con il pretesto di non conoscere i particolari usi locali. Quest’ultima scusante, ampiamente usata anche a distanza di decenni dalla conquista30, potrebbe peraltro dare l’idea di un soft power veneziano31, immagine che dobbiamo porre in prospettiva, come già accennato, con le precedenti esperienze di confronto con un potere centrale anche troppo ag-gressivo, e che nasconde, almeno formalmente, l’indiscutibile favore di cui godono le autonomie locali nella Dominante.

Le richieste toccano due ambiti: la giurisdizione e la pertinenza delle valli al distretto fiscale di Bergamo32. Esse concernono quindi anche il potere dei dazieri cui in città sono state date in appalto imposizioni di vario genere e l’invio di magistrati e di dazieri in loco. tali istanze sono respinte, soprat-tutto per mancanza di fondamento nella tradizione legale. Non si esclude a priori la possibilità per una comunità di scegliere un cittadino di Bergamo per assumere funzioni di giurisdizione (quali quella di Vicario in Val Seriana Superiore, come abbiamo visto), come si dice nella Ducale del 7 settembre 144433. In essa ci si rivolge ai cives che richiedono vicariati e podestarie in valli esenti; si risponde però in modo negativo, cassando tutte le precedenti concessioni e proclamando che queste magistrature vanno assegnate iuxta ordines. Si lascia tuttavia la possibilità che le comunità indichino una perso-nalità di cittadinanza bergamasca de tempore in tempus. La disposizione sul-la stessa materia è quindi a un tempo perentoria e possibilista: si rispetta un ordine, ma si lascia spazio al beneplacito delle autorità di valle. Bisogna però notare, a questo proposito, che in nessun caso si interviene sul potere deci-sionale delle comunità e che la stessa formulazione (“de tempore in tempus”) si presta a una lettura scettica di questa interpretazione di leggi (si tenga a mente che una ducale è anche un parere legale – di cui si rispetta anche la forma – emanato da una autorità dotata di potere coercitivo) ormai ben inse-

(30) Ad esempio, BCBg, Archivio Comunale, Registri Ducali, I, f. 35r, 23 dicembre 1475 (copiato come 1455 nel registro).

(31) Cfr. anche I. PeDerzani, Venezia... cit., p. 52.(32) Cfr. ivi, pp. 51 sgg.(33) BCBg, Ducali, I, ff. 12v-13r.

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rite nel modo di esistere di una società. Come già osservato da A. Poloni34, la scissione tra le due società (e non solo tra gli enti istituzionali) è ormai al di là di ogni tentativo di restaurazione nel senso di una ripolarizzazione verso la città: a farne le spese sono quei gruppi familiari o quegli individui che si ritrovano a risiedere fuori della propria comunità di appartenenza.

Si osservi, infine, che le richieste con cui il Comune di Bergamo doman-dava alla Dominante il ripristino del controllo urbano sulle valli (o, almeno, quelle a noi pervenute perché incluse nella raccolta delle ducales) si colloca-no per lo più nella prima parte dell’epoca considerata in questo contributo, sparendo praticamente dopo la pace di Lodi e il periodo di guerra guerreg-giata sul territorio bergamasco o limitrofo. Una simile cronologia potrebbe suggerire che dopo la metà del Quattrocento per la Communitas Pergami (ossia il comune) il pieno controllo del territorio montano non è più un obiet-tivo raggiungibile: probabilmente si considera che la separazione delle valli è ormai cosa fatta e ci si preoccupa piuttosto di sollecitare la subordinazione su altre aree più facilmente ottenibili dal comune perché la loro concessione non avrebbe danneggiato la politica di consenso perseguita dalla Serenissi-ma. Ecco quindi aprirsi già dai primi anni Cinquanta una serie di richieste della città verso meridione o verso occidente: la Geradadda (richiesta peraltro coronata da un certo successo anche nei primi anni del dominio francese su Milano35), alcune parti del Cremonese36, fino alla domanda di sottomissione del comune urbano di Lodi, menzionata nella ducale del 16 febbraio 1447, a cui si oppone un rifiuto37.

4. “Corpi” e fiscalità: l’estimo del 1475-1476

Come ultimo esempio a sostegno della mia proposizione farò riferimento al dossier relativo alle trattative relative all’aggiornamento dell’estimo com-piute alla fine degli anni Settanta del XV secolo. Esso può, come si è già det-

(34) Cfr. A. PoLoni, Storie di famiglia: i da Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo, Fino del Monte 2010, pp. 101-110.

(35) Vorrei anche precisare che il rapporto tra i due territori, o meglio, tra i possidenti dei due territori, è sempre stato parecchio interessante. In una lettera conservata nel registro delle Ducali (BCBg, Ducali, I, f. 63r, 12 agosto 1474) si cita un patto che renderebbe eccezio-nalmente esenti da ogni imposizione i proprietari stranieri, privilegio non sempre rispettato dai dazieri bergamaschi e cremaschi (e la protesta è appunto l’argomento della lettera) ma comunque importante. C’è quindi continuità di rapporti economici (in questo caso di pro-prietà) pur nella rottura dell’unità politica; quest’unità economica, che riconferma Bergamo a mio parere come parte di una “Lombardia economica” (sia pur sotto dominio veneziano). Per i due periodi di controllo bergamasco in Geradadda Ducali, I, f. 14r, 16 febbraio 1447 e ff. 122v, primo aprile 1501.

(36) BCBg, Ducali, I, f. 132v, 12 marzo 1502.(37) BCBg, Ducali, I, f. 14v.

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to, essere considerato un buon bilancio almeno parziale di questi tormentati rapporti tra città e comunità della montagna alla fine del periodo. Peraltro, si tratta anche dell’unico momento attestato in cui una presenza di magistrati o incaricati cittadini nelle valli venga accettata senza che si protesti sulla loro competenza. Al di là di qualche recrudescenza successiva, la città sembra aver tollerato, in quest’ultimo squarcio del secolo, che una parte del territorio agisse ormai in autonomia. Non a caso l’estimo è anche il primo documento, perlomeno nelle Ducales (raccolta posteriore che rappresenta anche una sor-ta di pietra miliare dello status e dei diritti del comune cittadino nel primo secolo di dominazione veneziana), in cui si inizia a considerare anche il resto dell’antica virtus Pergami come entità dotata di propria voce e propri diritti.

Di questo evento rimane un piccolo gruppo di documenti, concentrato nella ducale del 3 settembre 147638, in cui si riassumono le fasi della concer-tazione. Nel testo sono incluse anche altre precedenti rivendicazioni, che non avevano però potuto portare a una soluzione di mediazione soddisfacente tra comune urbano e comunità di valle. Il fatto che si debba ricorrere all’arbitrato di una terza parte (la Dominante) e che non si cerchi una soluzione attraverso accordi bilaterali, se è comunque nelle “regole” di funzionamento di uno Stato territoriale, suggerisce una spaccatura tra i due campi che non trova un terreno comune di confronto.

Iniziamo col descrivere le fonti riguardanti di questa procedura. Si tratta di quattro ducali39, tre del 1475 e una del 1476. L’ultima cita la seconda (ripor-tandone praticamente in toto il testo) e il verbale della cerimonia di chiusura dell’estimo, che a sua volta contiene un instrumentum rogato da un notaio del comune con cui si fa il punto sulle concessioni di separazione delle valli e sulla profondità di questa separazione, a buona memoria per il futuro. tenen-do presente anche la natura della raccolta da cui provengono40, è interessante osservare quali documenti costituiscano questo dossier. È probabile che l’ul-timo atto sia stato conservato anche in vista di possibili dispute su privilegi e concessioni, assai frequenti nel XV secolo: in tali circostanze bisognava infatti produrre l’opportuna documentazione di fronte al magistrato veneto (a Bergamo o a Venezia) che si occupava della vicenda per provare la cor-rettezza della propria posizione, non dovendo passare per eventuali archivi centrali. Per il secondo documento la ragione è evidente: si tratta del regola-mento di composizione delle commissioni di estimo. È meno facile spiegare perché siano stati integrati in questa raccolta costruita a favore del comune

(38) BCBg, Ducali, I, f. 69r.(39) BCBg, Ducali, I, ff. 66r-71r; le ducali cui faccio riferimento sono quelle del 31 luglio

1475, 18 settembre 1475 (due ducali) e 19 settembre 1476.(40) Cfr. supra, nota 8.

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cittadino e con evidenti finalità pratiche le rimanenti scritture (l’indizione dell’estimo e la minaccia di essere multati, visto che l’estimo non era giunto a compimento e l’urgenza da parte veneziana era particolarmente pressante). Possiamo solo dire che, almeno per il lettore moderno, è una fortuna che siano stati trascritti e salvati, perché facilitano non di poco la comprensione degli eventi seguenti.

A parte il primo, sono documenti di tortuosa composizione, che segnala il difficile iter dell’operazione di estimo. Una simile ricostruzione suggerisce un disagio, testimoniato dalla scelta stessa dei documenti, incerta, ricca di ripetizioni e nel contempo sospetta di possibili omissioni. Non sempre la posta in gioco viene dichiarata: emergono tuttavia molteplici conflitti, più o meno sottintesi dalla penna di chi scrive. tali divisioni profonde divengono comprensibili per il lettore contemporaneo solo nel momento in cui bisogna creare una “presentazione” dello stato del distretto di Bergamo, a uso dei governanti veneziani, ed è perciò necessario mettere nero su bianco rapporti di forza altrimenti passati sotto silenzio.

Dopo un primo momento di scontro costituito dalla quantificazione del carico fiscale da assegnare a ogni zona (problematica del resto classica quan-do si tratta di riparti ed estimi), si passa alla messa in discussione delle regole da seguire per effettuare l’estimo. I fattori di divergenza tra le parti in causa sembrano inerire soprattutto due questioni: la partecipazione alla compila-zione, in determinati contesti, di delegazioni non cittadine (provenienti sia dalle valli, sia dalla pianura) e l’efficacia delle valutazioni d’estimo da parte di commissari locali.

Alla lettura di questi documenti risalta l’animosità che ancora caratteriz-za i rapporti tra i vari protagonisti della vertenza. Essa appariva come un po-tenziale fattore eversivo: “odia continue crescebant non sine maximo rerum publicarum periculo et privatarum facultatum iactura non mediocri”41. Si fa inoltre riferimento a lamentele circa una presunta iniquità nella valutazione della libra d’estimo: erano infatti avvenuti arbitrii (è il doge Pietro Mocenigo che cerca di rassicurare i cittadini antiqui di Bergamo che i loro beni non saranno allibrati al di fuori dell’estimo cittadino42) e la compilazione era stata fatta “contro la religione”. La forza del comune cittadino nel difendere i dirit-ti dei propri membri, pur se forenses, mantiene la stessa intensità impiegata quando si trattava di cercare di recuperare il pieno controllo sul territorio, decenni prima.

(41) Cfr. BCBg, Ducali, I, f. 69r.(42) Sulla posizione dei cives antiqui o “di fuori”, cfr. I. PeDerzani, Venezia... cit., pp.

65-70 e 90-99.

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La veemenza delle rivendicazioni urbane di fronte alla Signoria non ga-rantì però la vittoria della città: Valli e Pianura43 organizzano ambasciate a Venezia (dove già si era recato Armachide Suardi, ambasciatore cittadino), fanno pressioni e riescono a ottenere per ben tre volte il rifacimento del loro estimo, con la significativa assistenza di testimoni locali: solo a queste condi-zioni le dichiarazioni dei cittadini de fora e dei vesini vengono, per così dire, messe agli atti44. Per approfondire ancor di più le dinamiche tra i tre corpi del territorio bergamasco, osserviamo sotto quali spinte siano stati effettuati tali rifacimenti: dapprima si tratta di un’iniziativa egemonizzata dalla città; in seguito alle proteste delle Valli, si procede a una seconda compilazione, controllata da Comune cittadino e Valli, a probabile scapito delle comunità di pianura; infine, per reazione da parte di questo terzo corpo, si arriva a una redazione finalmente accettata da tutti. Questo complicato gioco di proteste e rifacimenti indica che le regole sono cambiate. A imitazione della strategia anticittadina abbracciata inizialmente dalle Valli, la pianura costituisce pro-pri rappresentanti, che oppongono resistenza nell’assemblea degli estimatori (posta in clausura, per suggerimento – non a caso – dei Rettori veneziani): in tale sede, essi riescono a imporre il proprio punto di vista di fronte a “varias et diversas condictiones, dubia et altercationes circa materiam ipsius estimi subortas”. Che si tratti del loro punto di vista e non di questioni di puntiglio generale lo intuiamo proprio dal fatto che, come accennato, non è l’intero estimo ad essere rivisto, ma solo quelle parti per le quali c’era stata con-testazione, ovvero Valli e Pianura. I cittadini antiqui vengono a essere sì compresi nella quota d’estimo di ventuno carati della Città, ma – una formula di compromesso – con la precisazione che ne costituiscono uno dei ventuno. Formalmente questi cittadini sono separati dalle comunità del contado in cui vivono, ma non sono più aggregati neppure alla città a cui appartengono per status giuridico: essi vengono a trovarsi sulla soglia di un limbo di apparte-nenze e di protezioni che li lascia parzialmente indeboliti nel loro isolamento dalla comunità di residenza (una simile situazione corrobora peraltro quanto sopra esposto a proposito della posizione dei forestieri negli statuti locali). Si tratta quindi di un successo parziale della città che mantiene diritti pregressi, ma soprattutto di una vittoria delle altre componenti del territorio bergama-sco, in stadi differenti di istituzionalizzazione, ma evidentemente appoggiati dalla mano discreta del potere centrale e dei suoi rappresentanti.

La città non reagisce come avrebbe fatto meno di cinquant’anni prima per

(43) Per Belotti già presente sotto Giovanni Maria; per I. PeDerzani, Venezia... cit., pp. 106-116, c’è un progressivo coagularsi delle forze dei “pianicoli” a fronte soprattutto dell’espansione della proprietà agraria cittadina.

(44) Cfr. BCBg, Ducali, I, ff. 71r.

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quella “cosa sua” che è la pianura (proprio in questi decenni sempre più luogo di espansione della proprietà terriera cittadina45 e quindi possibile materia di scontro). L’inerzia urbana non può neppure essere spiegata con l’appog-gio alla pianura da parte delle classi dirigenti delle comunità di valle, che non hanno interessi così forti nella parte meridionale del distretto46 e non traggono quindi alcun vantaggio nel sostegno a tali rivendicazioni. Il fattore che determina il cambiamento è piuttosto l’appoggio dello Stato che, come del resto era accaduto per le stesse autonomie di valle in precedenza, coglie l’opportunità per ottenere il consenso dei sudditi di pianura, i quali iniziano a dimostrare una coscienza unitaria nell’azione politica.

Certamente un simile equilibrio si dimostrerà quanto mai dinamico (spe-cialmente nel periodo delle guerre d’Italia): esso appare, tuttavia, ormai ab-bozzato. Alla determinazione di un simile assetto pare avere contribuito, più che la potenza dei singoli attori locali, la forza esterna. Essa non si attiva solo per le valli, anche perché il suo intervento a favore delle diverse com-ponenti del territorio è uno dei fondamenti dello Stato regionale. La certezza dell’azione protettrice da parte della Dominante – una sorta di lealtà reci-proca e “personale” tra due entità giuridiche – garantirà tuttavia a queste comunità una maggiore sicurezza nell’affermare i propri diritti e il proprio margine di autonomia durante tutta l’età moderna, con una rilevanza molto più evidente per le valli esenti che per ogni altra parte del territorio bergama-sco. Il dato più rilevante per le dinamiche politiche all’interno del distretto bergamasco è soprattutto la precocità dell’istituzionalizzazione e della co-scienza del proprio potere di scambio da parte delle comunità di valle rispetto alle realtà della pianura. tale precocità costituisce un elemento fondamentale nella stabilizzazione dei rapporti con il comune cittadino: lo status consegui-to dalle Valli e la loro capacità di instaurare un dialogo diretto con la domi-nante diviene un obiettivo, almeno ideale, e un modello per le comunità della pianura, nel processo di sviluppo di rappresentanze territoriali e di azioni politiche proprie.

(45) Cfr. i rilievi di P. CaVaLieri in Qui sunt guelfi et partiales nostri: comunità, patriziato e fazioni a Bergamo fra il XV e XVI secolo, Milano 2008, pp. 260-266.

(46) Data la scarsa produttività dell’alta pianura bergamasca (quella che rimane salda-mente nel territorio di Bergamo anche in questo frangente) le valli non dipendono da essa per le forniture di biade. Il mercato dei manufatti prodotti in valle (lana, ferrarezza, oggetti di legno e legno da costruzione) converge massicciamente verso la città. Neppure la transuman-za riesce a creare solidi legami con tali aree, poiché si indirizza piuttosto verso la Lomellina, l’Alessandrino o, più in generale, la Bassa, sufficientemente fertile da supportare i bisogni invernali dei capi dei bergamini (cfr. E. roVeDa, cit.).

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PUBBLICAzIONI EDItE DALLA CIVICA BIBLIOtECA “ANGELO MAI”Per ordinazioni contattare: [email protected]

I. BERGOMUM. Bollettino annuale della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo.Si pubblica dal 1907. Per l’abbonamento si fa uso del CCP n.11312246 intesta-to a: Amministrazione Bergomum, Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai, Piazza Vecchia 15, 24129 Bergamo. Si può anche utilizzare un vaglia postale intestato a: Biblioteca Civica Angelo Mai, Piazza Vecchia 15, 24129 Bergamo; la quota di abbonamento può anche essere versata personalmente all’ufficio di segreteria della Biblioteca.

Abbonamento annuo: per l’Italia € 10,00; per l’estero € 15,00Un numero corrente: per l’Italia € 10,30; per l’estero € 15,40Un numero arretrato: per l’Italia € 15,40; per l’estero € 20,60

A partire dagli anni Sessanta, alcuni fascicoli della rivista sono usciti come numeri monografici destinati a raccogliere atti di convegni, cataloghi di mostre, bibliografie, edizioni di testi e documenti. Si dà, in ordine di apparizione, l’elenco dei numeri mo-nografici ancora disponibili, con l’avvertenza che il prezzo di questi fascicoli a volte si discosta da quello ordinariamente praticato per il fascicolo arretrato.

I.1. Lettere inedite di Lorenzo Lotto, a cura di Luigi Chiodi, seconda edizio-ne, Bergamo 1968, 161 p., ill., 23 cm., € 20,60

I.2. IlarIone da bergamo, Viaggio al Messico, a cura di Laura Bruno, 125 p., ill., 23,5 cm., (n° 3-4, 1975) € 30,90

I.3. Angelo Mai nel secondo centenario della nascita (1782-1982). Contributi alla storia del giovane Mai, 303 p., ill., 23,5 cm., (n° 1-2, 1983) € 30,90

I.4.maI angelo, Statistica delle missioni d’Europa, Asia, Africa ed America (circa annum 1839), a cura di Ermenegildo Camozzi, 352 p., ill., 23 cm., (n° 1, 1986) € 15,40

I.5. Korsunova mIlIKa F., Giacomo Quarenghi, 150 p., 67 tav. f.t., 23 cm., (n° 2, 1986) € 15,40

I.6. Gli almanacchi bergamaschi dei secoli XVIII e XIX, a cura di Patrizia Caramanti, 191 p., 22,5 cm., (n° 4, 1988) € 15,40

I.7. Pietro Paleocapa e la grande ingegneria dell’Ottocento, 148 p., ill., 22,5 cm., (n° 1, 1989) € 15,40

I.8. valsecchI gIangIuseppIna, “Interrogatus respondit...” Storia di un pro-cesso del XII secolo, 287 p., 22,5 cm., (n° 3, 1989) € 15,40

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I.9. barachettI gIannI-palamInI carmen, La stampa a Bergamo nel ‘500, 147 p., 28 tav. f.t., 22,5 cm., (n. 4, 1989), € 15,40

I.10. valsecchI gIangIuseppIna, “Interrogatus respondit...” Storia di un pro-cesso del XII secolo, Bergamo 1989, 287 p., 22,5 cm., € 15,40

I.11. barachettI gIannI-palamInI carmen, La stampa a Bergamo nel ‘500, Bergamo 1989, 147 p., 28 tav. f.t., 22,5 cm., € 15,40

I.12. Silvio Spaventa: politico e statista dell’Italia Unita nei documenti della Biblioteca Civica Angelo Mai, a cura di Saverio Ricci e Cesare Scarano, ca-talogo della mostra, Bergamo: Ex Chiesa Sant’Agostino, 26 aprile-21 maggio 1990, 652 p., ill., 22,5 cm., (n° 2-3, 1990) € 30,90

I.13. marI mIchele, Il genio freddo. La storiografia letteraria di Girolamo Tiraboschi, 370 p., 22,5 cm., (n° 4, 1990) € 15,40

I.14. bonazzI annalIsa, Il carteggio inedito di Johann Simon Mayr della Bi-blioteca Civica Angelo Mai di Bergamo: corrispondenza con Marco Bonesi, 175 p., 23,5 cm., (n° 2, 1992) € 15,40

I.15. anesa marIno, Dizionario della musica italiana per banda. Biografie dei compositori e catalogo delle opere dal 1800 al 1945, 514 p., ill., 22,5 cm., (n° 1-2, 1993) € 30,90

I.16. Fabbriche e disegni di Giacomo Quarenghi, Bergamo 1994, 409 p., ill., 23 cm., € 15,40

I.17. taxIs-bordogna lamoral-rIedel erhard, Contributo alla storia dei baroni e dei conti Taxis-Bordogna-Valnigra e del loro generalato ereditario postale di Bolzano, Trento e lungo l’Adige, 201 p., 4 tav. f.t., 23 cm., (n° 2, 1995) € 15,40

I.18. eynard marcello-tIbaldI rodobaldo, Per una bibliografia delle opere a stampa dei musicisti nati o attivi a Bergamo nei secoli XVI-XVIII, 252 p., 23 cm., (n° 3, 1996) € 15,40

I.19. Studi su Gaetano Donizetti nel bicentenario della nascita (1797-1997), a cura di Marcello Eynard, pp.257, cm.23 (n° 1, 1997) € 10,30

I.20. grImm german g., I disegni di Quarenghi, a cura di Piervaleriano An-gelini, 72 p., 94 tav. f.t., 23 cm., (n° 2, 1997) € 10,30

I.21. lo monaco Francesco-vIlla claudIa, Maestri e traduttori bergamaschi fra Medioevo e Rinascimento, Bergamo 1998, 165 p., tav. col., 23,5 cm., € 10,30

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I.22. Catalogo delle lettere e delle opere di Lorenzo Mascheroni, a cura di Francesco tadini, Luca Bani, Marco Sirtori, Bergamo 1999, 490 p., 23,5 cm, € 18,00

I.23. La figura e l’opera di Bartolomeo Colleoni, Atti del Convegno tenuto a Bergamo il 16-17 aprile 1999, Bergamo 2000, 258 p., ill., 23,5 cm, € 15,40

I.24. Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci, a cura di Giorgio Mangini, 252 p., 23 cm., (n° 3, 2001) € 10,30

I.25. Manoscritti e edizioni del Calepino nella Civica Biblioteca A. Mai, a cura di Giulio Orazio Bravi, Maria Giuseppina Ceresoli, Francesco Lo Mo-naco, 161 p., ill., 24 cm. (n° 1, 2002), € 10,30

I.26. Mayr a S. Maria Maggiore 1802-2002, Atti del Convegno di Studi per il Bicentenario della nomina di Giovanni Simone Mayr a Maestro della Cap-pella in Bergamo, 369 p., 24 cm. (n° 2, 2002), € 10,30

I.27. caldarInI mazzucchellI sIlvIa, Paolo Vimercati Sozzi (1801-1883): collezionista e antiquario, 262 p., 24 cm., (n° 1-2, 2004), € 20,00

II. stUdi tassiani. La rivista Studi Tassiani (annuale) viene pubblicata dal 1951 a cura del Centro di Studi tassiani, che ha sede nella Civica Biblioteca. Per chi volesse abbonarsi solo al fascicolo Studi tassiani, l’abbonamento è di € 10,30 per l’Italia e di € 20,60 per l’estero; un numero corrente € 10,30 per l’Italia e € 15,40 per l’estero; un numero arretrato € 15,40 per l’Italia e € 20,60 per l’estero.Per l’abbonamento si prega di far uso del CCP 11312246 intestato a Amministrazione Studi tassiani, Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai, piazza Vecchia 15, 24129 Bergamo. tutti i numeri di Studi tassiani sono finora apparsi miscellanei. L’Università di Padova ha messo in rete l’indice di tutti i numeri di Studi Tassiani finora apparsi, con-sultabile al sito http://www.maldura.unipd.it/italianistica/zaja/stass.htm.

III. PUBBlicaziOni dEl cEntRO di stUdi tassiani. Oltre alla rivista Stu-di tassiani, il Centro cura anche la pubblicazione di monografie d’interesse tassiano, in alcuni casi apparse con la scritta al frontespizio: “Quaderni di Studi tassiani”. Si elencano i volumi disponibili. III.1. santarellI gIuseppe, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo 1974, 298 p., 20,5 cm., € 10,30 III.2. Studi in onore di Bortolo Tommaso Sozzi, a cura di Aldo Agazzi, Ber-gamo 1991, 263 p., 24 cm., € 15,40

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III.3. WIllIamson edWard, Bernardo Tasso, versione italiana di Daniele Rota, Bergamo 1993, 153 p., 23,5 cm., ill., € 12,90

III.4. carpane’ lorenzo, Edizioni a stampa di Torquato Tasso 1561-1994, Bergamo 1998, 2 voll., 1220 p., 23,8 cm., € 15,40

III.5. chIodo domenIco, Torquato Tasso poeta gentile, Bergamo 1998, 175 p., 23,2 cm., € 7,70

III.6. Torquato Tasso e le arti. Convegno di studi promosso nel cinquantesi-mo di fondazione del Centro di studi tassiani. Atti del Convegno, Bergamo, sala A. Curo, 30 settembre 2000, Bergamo 2002, 165 p., ill., 24 cm., € 13,00

III.7 martIgnone vercIngetorIge, Catalogo dei manoscritti delle “Rime” di Torquato Tasso, Bergamo 2004, 320 p., 23 cm., € 8,00

IV. QUadERni “Ex filtia. stUdi E fOnti PER la stORia di BERGaMO” I quaderni “Ex filtia”, che si pubblicano dal 1987 a cura della Sezione archivi della Ci-vica Biblioteca, escono come supplemento di Bergomum, senza cadenza fissa. Ad ec-cezione dei numeri 1 e 2, apparsi come fascicoli miscellanei, i successivi quaderni sono apparsi come numeri monografici. Di questi si dà l’elenco:

IV.1. I dazi a Bergamo nell’età viscontea. Edizione di documenti, “Ex filtia” n.3 (suppl. al n.2, 1992 di Bergomum), 89 p., 23,5 cm., € 10,30

IV.2. Bergamo negli anni della prima guerra mondiale. Archivi e documenti, a cura di Mario Pelliccioli, “Ex filtia” n.4 (suppl. al n.4, 1992 di Bergomum), 167 p., 23,5 cm., € 10,30

V. QUadERni dEll’aRchiviO dElla cUltURa di BasE.I “Quaderni dell’Archivio della cultura di base”, sempre monografici, vengono pub-blicati dal 1982 a cura di un comitato di redazione composto da esperti di etnografia e storia del folklore. Sino al 1996 i “Quaderni” sono usciti come supplemento di Bergo-mum. Dal 1997 la gestione amministrativa ed editoriale è passata alla Biblioteca “An-tonio tiraboschi” del Sistema Bibliotecario Urbano di Bergamo. Per la continuazione delle pubblicazioni a partire dal 1997 si veda sotto Sistema Bibliotecario Urbano. Si dà l’elenco dei numeri disponibili:

V.1. tIraboschI antonIo, L’anno festivo bergamasco, a cura di Mimmo Boni-nelli, n°4 (suppl. al n.3-4, 1983 di Bergomum), 123 p., 23 cm., € 10,30

V.2. Repertorio dei documenti sonori bergamaschi contenu-ti nei nastri del Fondo Roberto Leydi, a cura di Roberto Leydi, n°8 (suppl. al n°3-4, 1986 di Bergomum), 128 p., 23,5 cm., € 10,30

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V.3. rabaglIo matteo, Drammaturgia popolare e teatro sacro. Riti e rap-presentazioni del Venerdì Santo nel bergamasco, n°12 (suppl. al n°1, 1989 di Bergomum), 156 p., ill., 23,5 cm., € 10,30

V.4. valotI gIampIero, Dai boschi ai campi. Aspetti dell’artigianato agrico-lo nel bergamasco, n°14 (suppl. al n°2-3, 1990 di Bergomum), 142 p., ill., 23 cm., € 10,30

V.5. anesa marIno-rondI marIo, Filastrocche popolari bergamasche, n°16 (suppl. al n°4, 1991 di Bergomum), 225 p., 23 cm., € 10,30

V.6. La filanda nei documenti del fondo Ambrogio Vailati. Dalle carte di famiglia alla ricerca “sul campo”, a cura di Mimmo Boninelli, Riccardo Schwamenthal e Maria Vailati, n°17 (suppl. al n°3, 1992 di Bergomum), 148 p., 23 cm., € 10,30

V.7. gelFI mauro, Repertorio dei periodici editi e stampati a Bergamo: 1662-1945, 3 voll., nn. 18-19-20 (suppl. al n°1-2, 1993 di Bergomum), 484 p., 23 cm., € 25,80

V.8. rabaglIo matteo, Di questa falce nessuno fugge. Parole, riti e immagi-ni sulla morte, numero doppio 22-23 (suppl. al n°1, 1995 di Bergomum), 196 p., ill., 23,5 cm., € 15,40

V.9. Come il mare che non si vede la fine. Memorie della campagna di Russia, a cura di Angelo Bendotti, Oriella Della torre e Eugenia Valtulina, numero doppio 24-25 (suppl. n°1, 1995 di Bergomum), 195 p., 23, 5 cm., € 15,40

V.10. FrerI adrIano, De avri l’us o Balsarina. Il tipo del Bergamasco in Commedia, n°26 (suppl. al n°1, 1996 di Bergomum), 125 p., ill., 23,5 cm., € 10,30

VI. “BERGaMO: tERRa di s. MaRcO. QUadERni di stUdi, fOnti E BiBliOGRafia”. tra gli anni 1987-1990 l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo ha promosso cicli di conferenze sui rapporti tra Venezia e Bergamo in età moderna. Le relazioni svolte in ogni ciclo sono state raccolte in quattro fascicoli dal titolo “Bergamo: terra di San Marco. Quaderni di studi, fonti e bibliografia”. I fascicoli sono in deposito in Biblioteca per la vendita.

VI.1. rota sIlvIa, Per una storia dei rapporti fra Bergamo e Venezia duran-te il periodo della Dominazione (secc. XV-XVIII). Rassegna bibliografica, (Quaderno n.1), Bergamo 1987, 70 p., 24 cm., € 10,30

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VI.2. Venezia e le Istituzioni di Terraferma, (Quaderno n.2), Bergamo 1988, 84 p., 24 cm., € 10,30

VI.3. Venezia e la Terraferma. Economia e società, (Quaderno n.3), Berga-mo 1989, 128 p., 24 cm., € 10,30

VI.4. Venezia e la Terraferma. La cultura, (Quaderno n.4), Bergamo 1990, 64 p., 24 cm., € 10,30

VII. CATALOGHI DI MOSTRE

VII.1. bravI gIulIo orazIo, Bibbie a Bergamo. Edizioni dal XV al XVII se-colo, Bergamo: Centro Culturale San Bartolomeo 15 gennaio-13 febbraio 1983, Bergamo 1983, 165 p., ill., 24 cm., € 15,40

VII.2. Bergamo per Alessandro Manzoni, Bergamo 1985, 131 p., ill., € 10,30

VII.3. La sinistra alle origini del Movimento Operaio bergamasco, a cura di Mauro Gelfi e Francesco trombetta, Bergamo, Ex Sala Consiliare, 12 genna-io-3 febbraio 1985, Bergamo 1985, 61 p., ill., 23 cm., € 2,50

VII.4. Il libro scientifico antico della Biblioteca A. Mai, a cura di Gianni Barachetti, Lelio Pagani, Luigi tironi e Bruno Cassinelli, Bergamo: Atrio della Civica Biblioteca 11-25 giugno 1994, Bergamo 1994, 156 p., ill., 24 cm., € 10,30

VII.5. lorandI marco, Il volto specchio dell’anima. Fisiognomica: testi e immagini della Civica Biblioteca A. Mai, Bergamo atrio della Civica Biblio-teca novembre 1996, Bergamo 1996, 34 p., ill., 21 cm., € 2,50

VII.6. FranchI Franca, L’Encyclopédie. La macchina del sapere, Bergamo: atrio della Civica Biblioteca 15 gennaio-11 febbraio 1998, Bergamo 1998, 110 p., ill., 23,5 cm., € 5,10

VII.7. sonzognI Ivano, Pietro Ruggeri poeta ragioniere, Bergamo: atrio del-la Civica Biblioteca 14-18 novembre 1998, Bergamo 1998, 109 p., ill., 23,5 cm., € 7,70

VI.8 La pergamena. L’immaginario e il reale, Bergamo: atrio della Civica Biblioteca 19 novembre-17 dicembre 1999, Bergamo 1999, 109 p., ill., 23,5 cm., € 7,70 [Letteratura grigia]

VII.9. Liuto e chitarra a Bergamo da Giovanni Antonio Terzi a Benvenuto Terzi, sec. 16.-20. Catalogo della mostra: Bergamo, Civica biblioteca e archivi storici

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Angelo Mai, 3-24 maggio 2004, Bergamo 2004, ill., 30 cm., € 2,00 [Letteratura grigia]

VII.10. Incontro con Giovanni Simone Mayr, Catalogo della mostra: Berga-mo 2006, pp. 144, ill., 23 cm., € 10,00

VIII. PERSONAGGI DI CITTA’ ALTA

Collana avviata nel 1996 con la pubblicazione dell’opuscolo Ruth Domino tassoni edito dalla terza Circoscrizione: Città Alta e Colli.A partire dal 2° numero, la collana è edita dalla civica Biblioteca “A. Mai”.

VIII.1. Ruth Domino Tassoni, a cura di Mimma Forlani, Bergamo 1996, 87 p., 21 cm., € 5,00.

VIII.2. ForlanI mImma, Sandro Angelini e Città Alta, Bergamo 1998, 109 p., (8) p. di tav., ill., 21 cm., € 5,00

VIII.3. ForlanI mImma, Elena Milesi: Città alta e altri luoghi della sua po-esia, Bergamo 2004, 165 p., ill., 21 cm., € 5,00

VIII.4. ForlanI mImma, I luoghi di Gianandrea Gavazzeni tra musica e pa-rola, Bergamo 2006, 229 p., 21 cm., € 10,00

IX. fOnti E stRUMEnti PER la stORia E l’aRtE di BERGaMO

IX.1. calvI donato, Delle chiese della Diocesi di Bergamo (1661-1671), a cura di Giosuè Bonetti e Matteo Rabaglio, Milano, SilvanaEditoriale, 2008, pp. 560, € 20,00

IX.2. Indici di donato calvI, Effemeride sagro profana di quanto di memo-rabile sia successo in bergamo, sua diocese et territorio (1676-1677), a cura di Aurora Furlai, allegato DVD con l’intera opera dell’Effemeride, Milano, SilvanaEditoriale, 2009, pp. 151, € 15,00

X. vaRia

X.1. del bello sergIo, Indice toponomastico altomedievale del territorio di Bergamo. Secoli VII-XIX, Bergamo 1986, 302 p., ill., 24 cm., € 15,40

X.2. anesa marIno, Musica in piazza. Contributi per una storia delle bande musicali bergamasche, Bergamo 1988, 334 p., ill., 24 cm., € 20,60

X.3. Silvio Spaventa. Filosofia, diritto, politica. Atti del Convegno: Bergamo, 26-28 aprile 1990, a cura di Saverio Ricci, Napoli 1991, 437 p., 24cm., € 15,40

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X.4. zonca andrea, Gli uomini e le terre dell’Abbazia San Benedetto di Val-lalta (secoli XII-XIV), Bergamo 1998, 319 p., ill., 23cm., € 10,30

X.5. rIva danIela, Opere di computisteria e ragioneria nella Biblioteca A. Mai (secoli XV-XIX), Bergamo 1999, 116 p., tav. col., 23,2 cm., € 7,70

X.6. Omaggio a Goethe, Bergamo 1999, 125 p., ill., 21 cm., € 7,70

X.7. basettI gIanpIetro, carantanI vezIo, Le monete della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, Bergamo 2003, 197 p., ill., 24 cm., € 20,00

X.8. buonIncontrI Francesca, Scultura a Bergamo in età comunale. I can-tieri di S. Maria Maggiore e del Palazzo Comunale, 435 p., [20] tav., 30 cm., 2005, € 40,00

X.9. angelInI sandro, Monumenti del Lago Tana, Bergamo 2006, 147 p., ill. 23 cm, € 5

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Finito di stampare nel mese di marzo 2011da Artigrafiche Mariani & Monti srl - Ponteranica(Bg)