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In copertina:CHIESA CAMPESTRE

SANTA VITTORIA

BAULADU - ORISTANO

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MONS. IGNAZIO SANNA

ARCIVESCOVO

Guardiamo sopra il sole

Lettera pastorale alla comunità ecclesiale arborense

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Oristano - cattedrale S. Maria Assunta (XIII sec.)

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GUARDIAMO SOPRA IL SOLE

1. Ringraziamento e benedizione

Cari amici,

il mio primo gesto, nello scrivere questa lettera pastorale, consi-ste nell’esprimere un vivo e sincero ringraziamento per la bellaaccoglienza, sia al mio ingresso nella diocesi, e sia nelle mieprime visite che mi stanno portando a conoscere la geografia spi-rituale e pastorale della nostra comunità ecclesiale. Mi risuonaancora interiormente il saluto rivoltomi dalle persone che hoincontrato, fossero bambini o adulti, religiosi o laici, praticanti enon praticanti: “benvenuto tra noi”. Tanta cordialità ha reso piùsereno il passaggio da una esperienza di insegnamento cattedra-tico ad una esperienza di paternità invocata e testimoniata. Nellamia prima visita ai santuari del dolore, quali sono il carcere el’ospedale, ho letto sul volto delle persone che ho incontratotanta voglia di amicizia e attesa di comunione, tanto bisogno diamore e continua ricerca di compassione. In quella circostanza,ho benedetto un neonato venuto al mondo da pochi minuti, ed unvecchio che lottava con la morte. Con l’esperienza di queimomenti, ordinari ed eccezionali allo stesso tempo, ho quasi var-cato la soglia del mistero della vita e della morte, e mi sonoaffacciato ai confini dell’esistenza umana, dove un semplicegesto ed una parola giusta diventano momenti di grazia. Maiprima di allora avevo sperimentato il peso soprannaturale deimiei gesti di sacerdote. Nel mio cuore ho ringraziato il Signore,

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perché dava al mio sacerdozio la dimensione della paternità.In realtà, i gesti e le parole del sacerdote sono i gesti e le paroledi cui Dio ha bisogno per rivelarsi come amore, per comunicareuna fiducia nella vita, per aiutare a guardare sopra il sole, dovenon c’è nulla di uguale a prima, nulla che si ripete in un ciclomonotono, ma dove hanno origine i miracoli della grazia divina,che non vengono riportati dalla cronaca dei giornali, ma chesono sperimentati nel silenzio e nel riserbo dell’anima. I gesti delsacerdote sono i canali della grazia. Le mani “sante e venerabi-li” con le quali Gesù ha consacrato l’Eucaristia, per incanto, simoltiplicano in tante mani di sacerdoti che celebrano i sacramen-ti, liberano le persone dal peso della colpa e del peccato, le con-solano nella malattia, le incoraggiano nel lavoro, le accompagna-no nei momenti della prova. Il vescovo, tra i suoi primi doveridella cura spirituale del suo presbiterio, “si impegna a custodirequeste mani” (Pastores gregis,47).

Tutte le volte che ripenso a questo impegno, mi convinco sem-pre di più che, in qualche modo, la mia consacrazione episcopa-le mi ha fatto erede della promessa di benedizione: “Ti benediròe diventerai una benedizione” (Gn 12, 2). Il mio primo gesto davescovo, infatti, è stato quello di benedire i fedeli con il segnodella croce. Questo segno, che evoca il primo simbolo della fede,vuole essere, nella speranza, anche un simbolo di pace e dicomunione, sull’esempio del patriarca Noè, divenuto un segno di“riconciliazione nel tempo dell’ira”: tempore iracundiae factusest reconciliatio (Sir 44, 17).Quando, nella meditazione quoti-diana sulla Parola di Dio, mi metto in ascolto di ciò che “loSpirito dice alla mia Chiesa”, prendo coscienza che “lo Spiritodel Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato

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con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai pove-ri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertàdegli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’an-no di misericordia del Signore” (Is 61, 1-2). Lo Spirito delSignore Dio mi ricorda che sono chiamato ad essere benedizio-ne per il mio popolo, a dire bene di esso, a salvarlo. Mi ricordache devo essere colui che aiuta a guardare sopra il sole, a guar-dare il cielo, che dà il colore al mare e il senso alla vita. Mi ricor-da che devo essere colui che aiuta a guardare il cielo non soloquando si è su un letto della malattia, che ci obbliga a guardarein su per chiedere aiuto, ma anche quando siamo ritti in piedi, inprocinto di intraprendere una nuova azione, e ci dimentichiamodella luce divina che illumina i nostri passi.

La domanda di amore e di compassione che ho letto sul voltodelle persone prive di libertà e di salute si incrocia con il mottodel mio episcopato: “Dio è amore”, e mi invita a mettere al ser-vizio della sua realizzazione tutte le mie risorse di mente e dicuore. Proprio perché Dio è amore, egli è la fonte della vera spe-ranza, che non è basata sulle previsioni o sulle capacità dell’uo-mo, ma sulla promessa divina che dà il senso più vero alle vicen-de del tempo. La promessa divina cambia la storia profana in sto-ria di salvezza.

2. Guardiamo sopra il sole per creare futuro

“Non c’è niente di nuovo sotto il sole”, ha scritto lo scetticoautore biblico (Qo, 1, 9). Secondo questa sentenza, nella vitapresente e futura, tutto si ripete, tutto è uguale, tutto è fisso eimmobile. La sapienza popolare, poi, ha utilizzato questa senten-

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Cattedrale. Consacrazione episcopale di mons. Ignazio Sanna

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za per descrivere una situazione di immobilismo, di routine, distanca ripetizione, di ordinarietà delle cose, di rassegnazione.L’invito della mia prima lettera pastorale, invece, vuole essere

una calda esortazione a guardare sopra il sole, perché in quellasfera ci sono molte cose che non conosciamo; soprattutto, c’è laluce di Cristo che fa nuove tutte le cose. Se si guarda sotto il solesi possono fare solo delle previsioni basate sui dati dell’esperien-za umana. Se si guarda sopra il sole, si crea futuro, basato sullapromessa divina, che diventa benedizione per il mondo. Danteaveva spinto Ulisse verso “il mondo oltre il sole”. La culturafilosofica che è alla base del nostro stile di vita, invece, ha incon-sciamente teorizzato l’abitudine a guardare sotto il sole. I variesistenzialismi della storia hanno indirizzato lo sguardo dentro lapropria esistenza, elevandola a metro di giudizio e di valore diogni realtà. Come si sa, l’uomo è stato considerato come la misu-ra di tutte le cose. Quando si è cercato di guardare in alto, di usci-re dal proprio io, dalla propria esistenza, di fatto, si è rimastisempre dentro l’orizzonte terreno, quello che si può misurare conil nostro sguardo. Heidegger aveva riassunto l’ideale dell’uomonell’”andare verso una stella”. La stella verso la quale l’uomodeve camminare è la “verità dell’Essere”, ossia ciò che “è piùdegno di essere cercato, interrogato e pensato”. Camminareverso la stella dell’Essere, allora, significa andare alla ricerca delsenso dell’Essere, per ritrovarne la sua origine ed interpretarne ilsuo darsi storico e presente: quell’origine che è la prima parolasia della Bibbia (bereshít), che dei pensatori jonici (arché), chedel Vangelo giovanneo (en arché en ho Lógos). Nella tradizionefilosofica e teologica dell’Occidente il problema o il mistero del-l’origine è stato sempre il primo e fondamentale problemaumano. L’uomo ha sempre cercato il “fondamento” (Grund) del

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suo esistere in totalità.

Ma la stella heideggeriana, come tutte stelle di una filosofiasenza Dio, era una stella di terra, una stella opaca, una stella get-tata nel mare infinito del nulla. Kant aveva collocato il cielo stel-lato sopra di sé, e la legge morale dentro di sé, ponendo, così, lebasi per un soggettivismo esasperato, un positivismo razionali-sta. Il suo era un cielo di stelle che illumina il presente, ma nonil futuro. Questi due autori della cultura moderna e contempora-nea hanno dato il primato della conoscenza alla ragione, e, hannochiuso le porte della mente alla potenza dell’infinito. Heideggerera convinto che solo un dio ci potrebbe salvare. Ma il suo dionon è il Dio cristiano, Padre di Gesù Cristo. Kant sosteneva chesolo la ragione ci potrebbe salvare. Ma la sua ragione è chiusa altrascendente. Per costoro, Dio, al massimo, potrebbe essere ilguardiano e il garante dell’ordinata convivenza civile. La storiapassata e presente, però, insegna che questo dio non è servito amolto, e che il ricorso alla sola ragione non ha eliminato il miste-ro dalla vita. Si possono, poi, trovare valide regole per vivere evivere bene. Sia i sistemi democratici che quelli totalitari hannosaputo trovare proprie regole di convivenza pacifica. D’altraparte, mentre la vita onesta non ha bisogno di Dio, Dio ha biso-gno di una vita onesta, di uomini onesti, per rivelarsi, per comu-nicarsi, per essere testimoniato.

Se dalla storia delle idee si passa all’esame della prassi, e si guar-da con occhi liberi da pregiudizi la nostra realtà diocesana, si puòconstatare che, pure se non sostenuta dalla forza dell’ideologia,c’è spesso una rassegnazione vissuta, prima ancora che riflessa emotivata. Sembra che non ci si voglia aprire a qualcosa di nuovo,

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che non si voglia lavorare per creare futuro, che non si voglianutrire orgoglio per la bellezza del proprio patrimonio di naturae di cultura. Si vive secondo un provvidenzialismo secolare,quasi lasciando che la vita trascorra da sola, come il ritmo delsole, come il trascorrere degli anni. Eppure, la natura racchiudedentro i confini della diocesi un versante della vetta più alta dellaSardegna, il Gennargentu, e la cultura le ha lasciato in ereditàpreziosa un patrimonio di tutta l’umanità, il complesso nuragicodi Barumini. Questi monumenti della natura e della culturarimangono spesso muti, nonostante essi ci vogliano parlare delpassato per invitarci a guardare al futuro. Anche il patrimonio disaggezza giuridica e amministrativa che ha lasciato la giudiches-sa Eleonora d’Arborea è un invito pressante a promuoverel’amore della legalità e la pratica del diritto.

Cari fedeli di ogni età e di ogni condizione, sono forse stanchi inostri occhi di guardare in alto? Non dovrebbe il nostro cuoresperare nel Signore ed in lui ravvivare lo spirito? (CfIs 38,14.16). Alziamo gli occhi verso i monti, perché il nostro aiutoverrà dal Signore che ha fatto cielo e terra (Sal120, 1-2). Vi invi-to con forza e convinzione a superare la rassegnazione, a crearefuturo, a pensare in grande, a guardare sopra il sole. Se il nomedi Oristano si lega allo stagno, dove niente si muove, il nomedella nostra diocesi si lega all’albero, le cui radici non poggianosulla terra, ma nel cielo, e sono pronte a legare il cielo con laterra. Il nostro sperare, che, secondo l’insegnamento diBenedetto XVI, si deve tradurre in pazienza e umiltà (Deus cari-tas est,39), è riconoscere che il cielo e la terra si toccano, e cheil cielo è credibile solo quando illumina la terra, non quando lanasconde. La nostra fede si deve adoperare per evangelizzare le

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speranze corte, deboli, ed aprire la strada alle speranze lunghe,forti. Per il fatto, poi, che la grazia presuppone la natura, nonpossiamo proporre la speranza nel futuro a chi non ha presente,non possiamo prospettare la vita eterna a chi è in lotta per la vitaterrena, non possiamo indicare il banchetto celeste a chi ha lostomaco vuoto.

Il mio motto, come ho già detto, è “Dio è amore”. E l’amore rin-nova tutto, perché esso stesso non è mai uguale, ma è capace diinventare parole e gesti per rinnovarsi ogni giorno. Dio non èsolo conservatore delle cose che esistono, ma anche creatoredelle cose che ancora non sono (Cf Rm4, 17). La scelta di talemotto ci induce tutti a ricominciare da Dio, per rinnovare lanostra vita di fede, la nostra pratica della carità, la nostra capaci-tà di speranza. Il primo gesto che è stato compiuto sulla nostrafronte all’ingresso nella vita della grazia, al nostro battesimo, èstato il segno della croce. Da quel gesto più comune e più dimen-ticato, più profondo e meno capito, più frequente e meno vissu-to, bisogna ricominciare per ridare consapevolezza e smalto allanostra testimonianza di cristiani. Guardare sopra il sole, in definitiva, vuol dire vincere la rasse-gnazione, voler aprire strade nuove, superare le forme di edoni-smo individualistico, di consumismo egoista, di apatia disperata.Solo l’animale guarda verso terra. L’uomo guarda in alto.Bisogna imparare a guardare in alto, per scoprire il volto di Dio.Bisogna ricominciare a provare stupore davanti a Dio, a trovar-lo in tutte le cose, senza, però, cosificarlo. Dio è in tutte le cose,ma non tutte le cose sono Dio. Il Dio di Gesù Cristo, inoltre, nonè una risposta ai nostri bisogni, bensì un dono che supera ogni

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nostra domanda.

3. Scoprire il vero volto di Dio

Se ci chiediamo, ora, perché si debba guardare sopra il sole, larisposta è che, così facendo, si scopre il vero volto di Dio. Cisono, infatti, tanti modi di concepire Dio, e tanti modi di pregar-lo. Questi non sempre corrispondono alla sua vera natura di cre-atore e liberatore, per cui è necessario purificare i modi di con-cepirlo e quelli di pregarlo. Il concetto di Dio va purificato, inmodo particolare nel nostro tempo, perché il Dio di Gesù Cristocorre il rischio di essere ridotto a un dio impersonale, a ungarante della convivenza civile, in cui si riconoscono credenti enon credenti, cristiani e non cristiani, laici devoti e laici atei. LaChiesa cattolica ha fatto di tutto per inserire nel preambolo dellaCostituzione europea un riferimento alle radici cristianedell’Europa e non a Dio, precisamente per non ridurre la reli-gione cristiana a religione civile.

Nelle vicende della cultura filosofica del postmoderno si puòscorgere il generale tentativo umano di ridurre Dio a misurad’uomo, di ridurre, cioè Dio, a qualcosa che si può pensare,gestire, ingrandire o rimpicciolire, a seconda dei diversi schemidi pensiero e dei diversi punti di partenza. Ma questi tentativi,di diverso spessore teorico, e di diversa incidenza culturale ereligiosa, non arrivano a scalfire la fede cristiana in Dio, il qualerimane in ogni caso “più grande dell’uomo” (Gb 33, 12). Larivelazione della sua natura nel roveto ardente come di un Dioche è colui che è (Es3,14), che è stata la base della metafisica“forte”, della concezione ontologica “forte”, è inverata dalla

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professione di fede giovannea come di un Dio che è amore (1Gv4, 8.16). Questo Dio essere supremo ed onnipotente è il Dioamore che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unige-nito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vitaeterna” (Gv 3,16). E questo Figlio unigenito che era di naturadivina, “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza conDio; ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte ealla morte di croce” (Fil 2, 6-8).

L’onnipotenza del Dio cristiano, Padre di Gesù Cristo, è immo-lata, è misurata dall’amore, è rivelata nel Crocifisso, e, cometale, denuncia i limiti di ogni falsa religiosità. Essa spinge il cre-dente a trovare nella propria debolezza il presupposto della pro-pria forza, secondo la legge della vita cristiana indicata da SanPaolo: “quando sono debole, è allora che sono forte”(2Cor12,10)”. D’altra parte, “la profondità della sapienza rivelata,scrive Giovanni Paolo II, spezza il cerchio dei nostri abitualischemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimer-la in maniera adeguata. L’inizio della prima lettera ai Corinzipone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso èl’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente dicostruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazionesufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfidaogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui infatti, ognitentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umanaè destinato al fallimento” (FR, 23).

L’evento di Gesù Cristo crocifisso e risorto è, dunque, la chiavedi lettura del mistero di Dio, perché, secondo Pascal, non soltan-to conosciamo Dio unicamente per mezzo di Gesù Cristo, ma

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Ghilarza - Parrocchiale M.V. Immacolata. Crocifisso ligneo (sec. XVIII)

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conosciamo noi stessi unicamente per mezzo di Gesù Cristo. Noinon conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di GesùCristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la nostravita o la nostra morte, Dio e noi stessi. La conoscenza di Dio permezzo di Cristo fa sì che alla divinità sapiente dei greci, in gradodi fondare ogni genere di aspirazione umana, ed alla divinitàpotente dei giudei, in grado di vendicare ogni ingiustizia, suben-tri la divinità crocifissa, stoltezza dei sapienti e scandalo deipotenti (Cf 1Cor 1, 23).

Un Dio crocifisso, in effetti, rappresenta la distanza infinita tra laconcezione del Dio cristiano e la creazione degli innumerevoliidoli della religiosità umana. Ma allo stesso tempo, un Dio cro-cifisso rivela la possibilità di salvezza dell’uomo non dalla mortema nella morte, e trasforma l’enigma più insolubile della storiain un passaggio di speranza verso una vita che non conosce tra-monto. I vangeli che ci narrano la vita di Gesù sono ben lontanidallo stile delle Vite degli eroi, molto popolari nel mondo greco-romano. Il primo vangelo che la Chiesa delle origini ha ordinatoe steso in forma compiuta non è quello di Marco o di Matteo.Uno dei primi testi fatti circolare era quasi certamente un raccon-to della passione e morte di Cristo, aperta però alla luce dellarisurrezione, e ciò ha fatto dire a qualche esegeta che i vangelisono storie della passione con una introduzione particolareggia-ta. Del resto, già durante la sua vita terrena Gesù aveva posto alcentro della sua attenzione il mistero del dolore. Il vangelo diMarco è quasi per metà un racconto di Cristo in compagnia dimalati. I miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari di autopro-mozione, destinati a sollecitare applausi e successi, visto chemolte volte egli impone il silenzio al malato guarito, ma piutto-

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sto orientati a liberare l’uomo dal male e dal dolore.

4. Il volto di Dio padre

Per procedere ad una compiuta purificazione del nome e del con-cetto di Dio, in ultima analisi, bisogna cominciare con l’afferma-re che il vero nome di Dio è: “padre.” E’questo il nome che Gesùstesso ha dato a Dio. Non per nulla, la prima verità e, forse,anche la più importante del simbolo apostolico, in diretta deriva-zione dall’evento del Cristo, è la paternità di Dio. Già il Cantodi Mosè, nel Deuteronomio, proclama che il Dio che si è presocura di Israele è “il padre che vi ha dato la vita, che vi ha creatie resi sicuri” (Dt 32,6). Ma è soprattutto nel N.T. che Gesù bene-dice il Signore del cielo e della terra, perché è Padre (Mt 11,25);che diventa egli stesso Signore dell’universo, “a gloria di DioPadre” (Fil 2,11). Il Padre crea nel Figlio, perché tutte le cosesono state create per mezzo diLui ed in Lui (Col 1,16). Rispettoa Dio padre di tutti, padre dei credenti, il Dio padre di GesùCristo è il discorso più ampio e insieme più originale fatto dalleorigini cristiane sulla paternità divina. Esso riempie letteralmen-te ogni pagina del Nuovo Testamento. Si può dire, quindi, che ladimensione cristologica sia il fattore decisivo per la comprensio-ne cristiana di Dio come “padre”.

Il Dio Padre di Gesù, colui che lo Spirito ci suggerisce di chia-mare Abbà, Padre, è ridiventato, con il tempo, il Dio onnipoten-te, il Signore degli eserciti, l’espressione d’un volere arbitrario,che sta alla base di tante alienazioni esistenziali e sociali dell’uo-mo. Il volto di Dio che è stato percepito per primo dall’esperien-za cristiana è, però, quello di padre. In esso sta l’originalità e la

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specificità della concezione cristiana della creazione. Gesù harivelato che l’onnipotenza di Dio si identifica con la sua paterni-tà e si esercita generando. Egli, nella sua preghiera di lode, chia-ma “Padre” il “Signore del cielo e della terra”, il Signore del-l’universo (Lc 10,21). Il rapporto delle creature con Dio creato-re è percepito come un rapporto interpersonale, e non come unrapporto di causalità, in dipendenza da un principio di onnipo-tenza, da un primo motore immobile, o da un demiurgo. E’necessario, allora, nel nostro rapporto con Dio, una specie diritorno alle origini, e concepire il Dio creatore più che in termi-ni di onnipotenza, in termini di paternità. Bisogna ritornare dalprincipio di causalità filosofico aristotelico al principio di pater-nità provvidente dei primi simboli di fede. Bisogna recuperare lavalenza provvidenziale, amorosa, paterna dell’idea di pantokrà-tor, perché solo questa permette una migliore valorizzazionedella dimensione comunionale e relazionale di cui è intessutal’intera esistenza umana.

5. Il volto dell’uomo “figlio nel Figlio”

Se, dunque, il vero nome di Dio è Padre, il vero nome dell’uomoa immagine di Dio è figlio. La categoria della filiazione è, allo-ra, la chiave fondamentale per comprendere sia l’identità di Gesùdi Nazareth, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Primogenito di moltifratelli, sia dell’essere umano, figlio nel Figlio. Una volta chiar-ito, perciò, che il Dio di cui l’uomo è immagine è il Dio Padre diGesù Cristo, bisogna far vedere che cosa ciò comporti per unavalida e corretta determinazione dell’identità dell’homo chris-tianus. Ciò comporta che se Dio è Padre di Gesù e Gesù è ilFiglio Unigenito diventato uomo, bisogna guardare alla filialità

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di Gesù per capire e vivere la filialità dell’uomo, e, di con-seguenza, la sua vera identità. Il principio antropologico fonda-mentale del Concilio è infatti che solo il mistero del VerboIncarnato svela il mistero dell’uomo, perché Cristo, che è ilnuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suoamore svela anche pienamente l’uomo e gli fa nota la sua altissi-ma vocazione, cioè la vocazione filiale (GS, 22). Cristo è lospecchio dell’uomo. Come lo specchio serve per guardare il pro-prio volto e scorgervi in esso la propria identità, così Cristo inqualche modo serve perché l’uomo contempli la propria identità.

Tra gli aspetti più significativi della vita di Gesù vi è indubbia-mente la sua relazione singolarissima con Dio sperimentatocome Padre. Ma non meno significativa e interessante è la con-vinzione che lo Spirito attua nei cristiani la medesima relazionefiliale: “Dio invia lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, ilquale gridaAbbà, Padre” (Gal 4, 6). Dobbiamo vedere, perciò,che cosa comporti l’esperienza di Gesù per i figli e le figlie del-l’unico Padre. Infatti, come primogenito tra molti fratelli, Gesùnon è solo il mediatore tra Dio e gli uomini, ma anche il prototi-po della relazione filiale con Dio Padre, modello e fonte dellasolidarietà fraterna.Nella prospettiva della filialità, la persona umana acquista unavalenza di relazione, ed esiste come la persona chiamata alla comu-nione con Dio. In altre parole, la nuova condizione nella quale èposta la persona con la venuta di Gesù, è la filialità che conformaal Figlio, motivando e fondando un agire morale da figli.

La filialità ha delle conseguenze immediate sia nell’essenzadella preghiera che nella pratica della fraternità. Siccome è la

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preghiera il luogo primario dove si manifesta l’identità di Gesùdi Nazareth, Figlio di Dio, è anche la preghiera il luogo primariodove si manifesta l’identità dei credenti in lui: figli di Dio. Comedal cuore della sua preghiera emerge la coscienza filiale di Gesùe la rivelazione di essere il Figlio di Dio; così dal cuore della pre-ghiera dei credenti sgorga la loro identità filiale trasmessa dalloSpirito. In questa maniera, la preghiera è soprattutto un modo diessere piuttosto che un modo di parlare.

La filialità implica logicamente la fraternità: figli di Dio e, quin-di, fratelli, perché figli dello stesso Padre. Il principio filialità, e,dunque, il principio fraternità, non rinchiudono nell’intimità onel piccolo gruppo, ma aprono all’universalità. In questa pro-spettiva si evidenzia come il principio fraternità sia una catego-ria politica, intesa come specifico apporto dei cristiani alla cosapubblica, a fianco della libertà e dell’uguaglianza. Anzi, secon-do H. Bergson, la fraternità unisce i valori della libertà e del-l’uguaglianza. Il termine fratelli è quello con il quale propria-mente si designano da se stessi i discepoli di Cristo e il sostanti-vo fraternità non esprime un ideale da raggiungere, ma una real-tà acquisita, un dono ricevuto cui si conformano l’esistenza e irapporti tra i cristiani. La fraternità, perciò, è la caratteristicapeculiare della comunità cristiana, l’attuazione della novità rea-lizzata da Gesù.

La filialità è certamente una categoria teologica. Ma, essa può edeve diventare segno e lievito nella comunità diocesana.Secodoquesta dimensione, essa ha un impatto rilevante nella culturacontemporanea che, sazia di individualità e di individualismo, èalla ricerca nostalgica della relazionalità, precisamente di una

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relazionalità originaria. La filialità, infatti, evoca immediata-mente la relazione di paternità e, insieme, quella di fraternità conle persone, anzi con tutte le creature.

Alla luce del vero volto di Dio Padre, rivelatoci da Figlio GesùCristo, la fisionomia del cristiano figlio nel Figlio, si configuracome un credente davanti a Dio, legato all’evento di Cristo qualemisura compiuta di ogni forma di umanità, inserito nella Chiesa,come nel luogo privilegiato della testimonianza della vita secon-do lo Spirito.

6. Il cammino dell’arcidiocesi

6.1. Per tradurre concretamente l’esortazione a vincere la rasse-gnazione e a guardare sopra il sole per scoprire il vero volto diDio e la vera fisionomia del cristiano, ritengo necessario provve-dere prima di tutto alla costituzione di un OsservatorioDiocesano Socio-Pastorale,per prendere coscienza della realtàreligiosa, sociale, economica, politica, nella quale siamo chiama-ti a rendere ragione della nostra speranza; è necessario conosce-re bene il retroterra umano dove opera la grazia di Dio, per capi-re a chi e come dare l’annuncio del Regno; è necessario conosce-re i motivi dell’insignificanza di Dio nella quotidianità del lavo-ro, le molteplici sofferenze nei tanti drammi della vita, l’ispira-zione della preghiera nei diversi luoghi della religiosità popola-re, le cause della protesta nei santuari del dolore. Dobbiamoconoscere povertà e risorse, luoghi di lavoro e mezzi di comuni-cazione, domande di aiuto e rifiuto di ascolto della nostra gente.Per scoprire i miracoli di Dio, dobbiamo conoscere le virtùnascoste degli uomini e delle donne dei nostri paesi e delle

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nostre città. L’annuncio della fede e la presentazione dell’intelli-genza della Rivelazione, per poter comunicare efficacemente lanovità e la bellezza del Dio vivo e del suo disegno di salvezzarivelato in Gesù Cristo, non possono non conoscere il propriodestinatario. E’necessario, infatti, conoscere i contenuti dell’an-nuncio, ma, allo stesso tempo, è anche necessario conoscere lapersona, le condizioni di vita, le attese, le speranze, i problemi dicolui cui viene rivolto l’annuncio. La riuscita dell’annuncio èdirettamente proporzionale alla sua accoglienza ed alla sua com-prensione esistenziale. Un annuncio non accolto, non compreso,non è neppure un annuncio. L’annuncio, quindi, richiede, peressere efficace e per poter raggiungere il suo scopo, sia la cono-scenza della persona cui esso è diretto, sia la conoscenza del-l’ambiente in cui questa persona vive ed opera. In ultima anali-si, l’ascolto della Parola di Dio presuppone ed implica l’ascoltodelle parole dell’uomo; la lettura dei segni dei tempi richiede laconoscenza dei processi di cambiamento.

Si dice comunemente che si entra in Chiesa per amare Dio e siesce da essa per amare i poveri. Ma per amare veramente ènecessaria una sincera conoscenza reciproca ed una profondatrasformazione interiore. Dobbiamo imparare a vedere in modonuovo gli uomini e le cose e comportarci con essi come Egli, ilPadre, si comporta con noi: non più con indifferenza e ostilità ocon lo sguardo rapace di chi vuole strumentalizzare, ma conocchi di fratelli, perchè siamo tutti figli dello stesso Padre che ènei cieli. Questo comporta una vera rivoluzione nelle relazioniumane. Gesù non perde occasione per esemplificare. Dobbiamoessere coerenti con la nostra condizione di figli e quindi di fra-telli. Non è il Padre mio, ma nostro, per cui non possiamo consi-

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derarci figli se con ci comportiamo da fratelli. Tutti insieme chie-diamo al Padre la salvezza, e il Padre si serve di ognuno di noiper portare questa salvezza gli uni agli altri. Ci rende responsa-bili gli uni della vita degli altri. Per questo prima di offrire ilnostro dono al Padre dobbiamo riconciliarci con i fratelli (Mt5,23-24). Per questo i nostri comportamenti devono superare lalogica degli uomini e imitare gli atteggiamenti del Padre che tuttii giorni fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, efa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (Mt 5,45), che èbuono, misericordioso e non cessa di perdonarci (Mt 6,14); chenon ritira mai il suo amore e non smette di cercarci, di sperare edi attendere con pazienza il ritorno del figlio perduto.

Il soggetto principale di tale Osservatorio Socio-pastorale sarà ilConsiglio Pastorale Diocesano,che verrà costituito per operarecome laboratorio di progettualità, e organo di coordinamentodegli orientamenti e delle iniziative pastorali dell’arcidiocesi.Compito particolare del Consiglio Pastorale Diocesano saràquello di elaborare una pastorale integrata, in modo da nondisperdere energie e da fare sintesi delle esperienze più interes-santi. Tale Consiglio sarà costituito ad experimentumda due rap-presentanti delle nove foranie dell’arcidiocesi, un ecclesiasticoed un laico, da due rappresentanti dei religiosi, da dieci rappre-sentanti delle associazioni e dei movimenti di apostolato. Ladurata in carica del Consiglio è annuale, per permettere un fre-quente avvicendamento dei membri che lo compongono. Uno deiprimi impegni che dovrà affrontare il Consiglio Pastorale, cheovviamente lavorerà in sinergia con il Consiglio Presbiterale, saràlo studio di fattibilità di un progetto che chiamo “parrocchia aper-ta”. Tale progetto prevede l’adozione di nuove forme di organiz-

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zazione e amministrazione delle parrocchie.

6. 2. In secondo luogo, ritengo necessario provvedere all’artico-lazione di un Centro Culturale Diocesano,per pensare la fede,individuare metodo e contenuti dell’annuncio, dare voce al patri-monio di spiritualità e di storia della comunità ecclesiale. C’ètanto fuoco che brucia sotto la cenere e attende il soffio delloSpirito per animare uno stile di vita e di testimonianza aperto alfuturo e alla speranza. Ci sono tanti etiopi che seduti sul propriocarro di viaggio ci chiedono di essere istruiti sul senso delleScritture (Cf At 8, 27-31). Gesù, nella parabola del vangelo diLuca (Lc 15, 15-24), rivolgendosi ad allevatori, contadini, casa-linghe, minaccia che nessuno degli invitati assaggerà la cena.Noi dobbiamo liberarli da quella terribile minaccia. Dobbiamofar prendere loro coscienza che hanno ricevuto un grande dono enon possono perderlo. O se lo vogliono perdere, ciò non deveaccadere per colpa nostra, di modo che Dio debba chiedere contodella nostra incapacità o pigrizia. Nel ministero della parola, tut-tavia, è necessario ricordarsi che per parlare a Dio bisogna tro-vare le parole giuste e per parlare di Dio bisogna evitare le paro-le vane. Le parole giuste sono quelle del cuore e della vita. Leparole vane sono quelle delle mode culturali e dei luoghi comu-ni. C’è un certo consumo di parole, quali grazia, salvezza,amore, pace, democrazia, diritti umani. Queste parole sonodiventate come delle monete svalutate, con le quali non si com-pra niente e non si parla a nessuna coscienza. Alla mancanza ditestimoni e di maestri ed al valore della persona che annuncianon si può supplire con i persuasori mediatici ed i venditori delleopinioni. Un approccio puramente intellettualistico ai problemidella vita personale e sociale gratifica il desiderio di erudizione

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ma non promuove alcun incontro interpersonale che, solo, puòsostenere convinzioni ideali e comportamenti pratici. Il processodella comunicazione delle verità cristiane dovrebbe partire dallaragione per approdare all’esperienza, e partire dall’esperienzaper approdare alla ragione. E’stato opportunamente sottolineatoil fatto che Gesù fa breccia sulla coscienza di Zaccheo con unautoinvito a pranzo, e non con un ragionamento (Cf Lc 19, 1-10).Nella storia della salvezza e nel suo annuncio, quindi, gioca unruolo molto importante la relazionalità, l’incontro, l’esperienza,per quanto quest’ultima non vada assolutizzata. In effetti, la sog-gettività moderna ha provocato l’esasperazione del criterio dellaesperienzialità, della verifica emozionale. Ciò ha condotto a unaforma di imperialismo dell’io che rischia di fraintendere sia lalegge fondamentale della gratuità divina, sia il segno più emble-matico della condizione moderna che è l’autorealizzazione. Mala tradizione cristiana descrive la vita umana come una rispostaad una vocazione e, quindi, come realizzazione dell’identitàespressa da un nome che viene gratuitamente e liberamente asse-gnato a ciascuno fin dall’inizio. “Prima di formarti nel grembomaterno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevoconsacrato” (Ger 1, 5). La vita dell’uomo comincia all’accusati-vo, perché è la risposta alla chiamata divina.

L’episodio evangelico dell’adultera, poi, in Gv 8, 1-11, richiamala nostra attenzione su una forma emblematica di comunicazio-ne, avvenuta in un ambiente culturale ancora privo di media. Difronte a una donna peccatrice, Gesù si piega, i suoi interlocutorie provocatori, invece, si impettiscono. Ora, questo piegarsi diGesù è una forma di comunicazione e, soprattutto, di rispetto edi accoglienza dell’altro. Gesù scrive qualcosa per terra, ma non

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si sa che cosa abbia scritto e nessuno ha mai letto ciò che egli hascritto. Eppure, in quelle parole che nessuno ha mai decifrato, ècontenuto un messaggio chiarissimo che viene capito da tutti, daipiù giovani sino ai più anziani, dai meno provveduti ai più esper-ti. Il messaggio è che una donna peccatrice che è umiliata, mache è disposta a non peccare più, riacquista l’innocenza e la spe-ranza di una vita migliore.

Dunque, la parola suprema, che supera tutti gli ostacoli dellacomunicazione, è un gesto di amore, per quanto l’amore non siesaurisca nella sola parola, ma si allarghi ad una vastissimagestualità simbolica ed affettiva. L’amore non è fatto solamentedi parole, bensì di gesti concreti di generosità, di altruismo, didedizione disinteressata all’altro. Si può non parlare, e, tuttavia,amare. Si può non amare, e, tuttavia, parlare. Si possono diremolte parole ipocrite, per nascondere il vuoto dei sentimenti e lamancanza di comunione. Si possono dire poche parole sincereper comunicare la profondità dei sentimenti e la gioia dellacomunione. E’opportuno ricordare che il più grande gesto del-l’amore di Dio non è una parola, ma un fatto, come dice SanGiovanni: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suoFiglio unigenito, perchè chiunque crede in lui non muoia maabbia la vita eterna” (Gv3,16). Dio Padre, dunque, non si è limi-tato a parlare di suo figlio, a proclamarlo “suo figlio predilettonel quale si è compiaciuto” (Mt 3,17), ma lo ha consegnatoall’umanità con un gesto di amore supremo.

L’obbiettivo principale del Centro Culturale Diocesano, in ulti-ma analisi, è quello di adoperarsi per la formazione integraledella persona. L’unità della pastorale, infatti, deve essere finaliz-

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Tharros - San Giovanni di Sinis. Basilica paleocristana (VI sec.)

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zata all’unità della persona, nel senso che le funzioni fondamen-tali della Chiesa (Parola, Sacramento, Carità), vanno incentratesulla persona. Per affrontare le sfide della nostra società semprepiù impermeabile ai valori cristiani della vita, della famiglia,della libertà, non basta più creare delle emozioni, ma è necessa-rio offrire motivazioni, fondate su una valida razionalità pastora-le. Le persone che compongono il Centro Culturale Diocesanosono chiamate a esporre con dignità di pensiero e profondità diriflessione le ragioni dell’esercizio del cristianesimo. Il CentroCulturale Diocesano sarà composto dall’Istituto di ScienzeReligiose, dall’Ufficio delle Comunicazioni Sociali, dal settima-nale dell’arcidiocesi L’Arborense, dall’Ufficio Diocesano per iBeni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto. Il CentroCulturale Diocesano svolge la sua attività in stretta collaborazio-ne e sinergia con l’Ufficio Catechistico, che cura in modo parti-colare la formazione primaria dei catechisti, e l’Ufficio per laPastorale Scolastica, che provvede alla formazione degli inse-gnanti della religione cattolica nelle scuole. Collegata al CentroCulturale Diocesano è la catechesi de “I lunedì della Cattedrale”,conferenze da me tenute in Cattedrale nei lunedì di avvento e diquaresima, per proporre una riflessione sulle verità della fede edella morale cristiane. In terzo luogo, ritengo necessario provvedere alla promozionedella Pastorale Giovanile, per individuare, formare e incoraggia-re i protagonisti principali dell’annuncio di speranza, gli opera-tori di pace e di carità, capaci di incarnare la bellezza e la gioiadel donarsi al servizio del Regno. Bisogna intercettare le veredomande dei giovani e non proporre loro un’etica della rinunciae del sacrificio, ma annunciare loro la persona di Gesù.Nell’atteggiamento religioso del mondo giovanile, infatti, è fre-

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quente lo slittamento dalla fede alla morale. Alcune ricerche sul-l’esperienza religiosa dei giovani hanno messo in evidenza chela religione viene pressoché identificata con la sua propostamorale, e questa viene ricondotta a quello che i tecnici chiama-no “positivismo teonomico”, per il quale la legge morale è frut-to di un’impostazione positiva e sostanzialmente arbitraria daparte della divinità. Questo fatto spiegherebbe perché nei giova-ni sia spesso assente la dimensione cristiana della sequela e lareligione non sia considerata e vissuta come un incontro ed unarelazione con un Dio personale. La mediazione fondamentale diGesù Cristo per favorire e realizzare l’incontro e la relazionepersonali tra Dio e l’uomo è ignorata. Nell’universo religioso deigiovani, infatti, è assente troppo spesso la fede nella persona sto-rica di Gesù, sostituita dalla credenza in un vago deismo, ed èassente anche la conoscenza della Bibbia, che nella loro vita nonha alcun ruolo fondativo, bensì quello di conferma di scelte fatteo di consolazione di fronte alle difficoltà incontrate. L’unico vei-colo della trasmissione della fede è la relazione. Il giovanedomanda rapporti significativi e solo questi sono in grado dicoinvolgerlo e di spingerlo ad accogliere una determinata veritào riconoscere una convinta testimonianza. I rapporti segnatidalla gratuità come quello dell’amicizia sono gli unici che eser-citano una presa nelle sue motivazioni etiche e nei suoi orienta-menti ideali. Una volta, però, che l’etica non riesce a radicarsi inprincipi assoluti ed oggettivi, per i suoi imperativi morali, si affi -da a varie forme di contrattualismo umano, le cui categorie por-tanti sono l’egoismo razionale e la reciprocità. L’unico limiteche viene riconosciuto all’autonomia morale è la rispettiva auto-nomia e libertà altrui. In definitiva, la base della convivenzaetica è l’alterità e non l’Altro.

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Nella proposta pastorale al mondo dei giovani dobbiamo adope-rarci perché la loro vita spirituale non venga trasformata in eticasociale, perché il Dio vivente non sia ridotto all’equivalente sim-bolico di una relazione altruistica, perché la fede non sia ridottaa filantropia e la Chiesa ad un’agenzia di valori che facilitano ilbuon funzionamento della società. Se Gesù viene consideratocome un maestro di morale, non potrà essere accettato comel’unico maestro di morale, perché la morale è un patrimoniocomune dell’umanità, ed i percorsi di maturazione etica sonotanti e differenziati. Se Gesù viene concepito come un maestro dimorale, non viene accolto volentieri, perché è uno che apparen-temente propone all’umanità una morale fallimentare e crocifis-sa, soprattutto se l’umanità vuole vivere al di là del bene e delmale. Se, invece, Gesù viene considerato come salvatore, cometale, è unico,e, perciò, può essere accettato, in quanto salvatoreassoluto, come colui che non solo garantisce la salvezza parzia-le nella storia, ma soprattutto la salvezza escatologica nella vitaeterna. La morale dei potenti, dei superuomini, non può acco-gliere la morale di un crocifisso. Ma il bisogno profondo di sal-vezza assoluta, radicato nel cuore di ogni uomo, può accogliereun salvatore assoluto, che liberi in maniera definitiva da ogniforma di male e di sofferenza.

I momenti forti del dialogo con il mondo dei giovani sono l’an-nuncio e la preghiera. Per quanto riguarda l’annuncio, laScuoladella Parola, con frequenza mensile, propone figure biblichecome modelli di vocazione e di spiritualità. La Scuola dellaParola, anche se ha una prevalente impostazione di pastoralevocazionale, è aperta a tutti i fedeli, che vogliono ritrovare la

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verità di Dio sulla propria vita. Per quanto riguarda la preghiera,invece, si terranno, a turno, nelle parrocchie della città, con ilcoinvolgimento dei giovani della parrocchia, I giovedì dell’ado-razione. Essi vogliono ricordare ai giovani, e non solo ad essi,che la felicità che cercano ha un nome e un volto: quello di Gesùdi Nazareth, presente nell’Eucaristia. Inoltre, questi giovedì del-l’adorazione vogliono offrire luoghi e momenti di contemplazio-ne a tutti coloro che vivono in una società sempre più frastorna-ta, confusa, stressata, e, in modo speciale, a quei giovani chesono alla ricerca di un percorso vocazionale. La nostra arcidio-cesi ha bisogno urgente di vocazioni al sacerdozio e alla vita reli-giosa e, perciò, si raccoglie in preghiera, per chiedere al Padronedella messe che mandi operai santi e generosi nella sua messe.

In buona sostanza, per l’anno che ci sta davanti, propongo che lanostra Chiesa arborense, mediante una conoscenza approfonditadella realtà sociale e religiosa, si faccia prossimo di ogni uomo edonna, per trasformare la compassione in azione di rinnovamen-to; mediante una comunicazione intelligente delle verità dellafede cristiana, si faccia voce profetica, per dare concretezza allanovità del vangelo e modelli di comportamento all’insegnamen-to delle beatitudini; mediante una particolare attenzione alle atte-se del mondo dei giovani, si faccia giovane, per creare futuro eseminare germi di novità. I fedeli delle nostre parrocchie, deinostri movimenti, delle nostre associazioni devono riscoprire ilsenso e la bellezza dell’appartenenza ecclesiale, e devono dareforma cristiana alla vita quotidiana.

Nel concludere questa mia lettera pastorale, voglio esprimere unvivo ringraziamento a tutti coloro che, a diverso titolo, collabo-

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rano perché la nostra arcidiocesi sia una comunità di fede viva edi testimonianza credibile, e si adoperano con generosità e pas-sione per promuovere il bene comune di coloro che cercano Diocon cuore sincero. Porgo un saluto di pace e di benedizione atutti: ai sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati, ai diaconi, aiseminaristi, ai fedeli laici delle associazioni e dei movimenti, main modo particolare a coloro che soffrono nel corpo e nello spi-rito. Al contempo, elevo la mia preghiera alla Madre di Gesù eMadre nostra, venerata con diversi titoli nei santuari della nostraarcidiocesi. Colei che in mezzo alla prima comunità cristianaattese, invocò e ricevette lo Spirito Santo nel giorno dellaPentecoste, interceda presso suo Figlio perché la nostra comuni-tà ecclesiale si apra alla novità dello Spirito e si incammini susentieri di rinnovata testimonianza evangelica.

Oristano, 1° gennaio 2007, Maria SS. Madre di Dio

+ Ignazio Sanna, Arcivescovo

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