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72 17 marzo 1942 Sono assegnato alla divisione Taurinense (che si trova in Croazia), 3° reggimento. Mi presento a Pinerolo, sede del reparto, e presto giuramento. M’imbarco a Fiume, dormo a Zara, passo davanti a Sebenico e Spalato, sbarco a Metkovic, risalgo la Neretva dentro una specie di vaporetto (con l’acqua a metà oblò) e arrivo a Mostar. Qui mi destinano al battaglione Exilles (Esille nella grafia politicamente corretta dell’epoca), 31 a compagnia. Raggiungo Nevesinje, paese a qualche chilometro da Mostar, dov’è appunto la 31 a compagnia, e mi affidano il plotone comando. Mi assegnano una stanza nella casa di una giovane serba che tre mesi prima ha avuto i denti strappati ed il marito ucciso dai croati. Non è un bel cominciare. Mi vengono in mente parole della poesia “Sant'Ambrogio”, del Giusti: "…. Croati, messi qui nella vigna a far da pali …” Ruoli invertiti, adesso? Non mi sento orgoglioso e scaccio questo pensiero. 30 marzo – Rientriamo a Mostar. Qui c’è uno stabilimento bagni e ci vado. Piscina, bagno turco, massaggi. Una delizia! Guerra anche questa. La nostra mensa è oltre il Ponte Vecchio, lo Stari Most. Oggi il signor maggiore mi ha condannato a pagare un mucchio di bottiglie perché ha sentito che impartivo un ordine ad un sergente maggiore cominciando con un borghesissimo “per piacere”. Pago volentieri. La Taurinense è il vecchio Piemonte, l’Italia del Risorgimento, incarna solide tradizioni militari e queste vanno rispettate. Le bottiglie sono un modo classico e simpatico per entrare, ed essere accolto, in quel mondo. Prosit! Il battaglione è sistemato alla caserma Nord, un bel complesso di edifici costruito dagli Austriaci una quarantina d’anni fa. Stiamo attraversando un periodo di relativa calma, ma non è un bel vivere perché i rifornimenti stentano ad arrivare. Come dire che se non la fame, si patisce l’appetito. Tanto appetito che i conducenti

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17 marzo 1942 – Sono assegnato alla divisione Taurinense (che sitrova in Croazia), 3° reggimento. Mi presento a Pinerolo, sede delreparto, e presto giuramento. M’imbarco a Fiume, dormo a Zara,passo davanti a Sebenico e Spalato, sbarco a Metkovic, risalgo laNeretva dentro una specie di vaporetto (con l’acqua a metà oblò) earrivo a Mostar. Qui mi destinano al battaglione Exilles (Esille nellagrafia politicamente corretta dell’epoca), 31a compagnia.

Raggiungo Nevesinje, paese a qualche chilometro da Mostar,dov’è appunto la 31a compagnia, e mi affidano il plotone comando.

Mi assegnano una stanza nella casa di una giovane serba che tremesi prima ha avuto i denti strappati ed il marito ucciso dai croati.Non è un bel cominciare.

Mi vengono in mente parole della poesia “Sant'Ambrogio”, delGiusti: "…. Croati, messi qui nella vigna a far da pali …”

Ruoli invertiti, adesso? Non mi sento orgoglioso e scaccio questopensiero.

30 marzo – Rientriamo a Mostar. Qui c’è uno stabilimento bagni eci vado. Piscina, bagno turco, massaggi. Una delizia! Guerra anchequesta.

La nostra mensa è oltre il Ponte Vecchio, lo Stari Most. Oggi ilsignor maggiore mi ha condannato a pagare un mucchio di bottiglieperché ha sentito che impartivo un ordine ad un sergente maggiorecominciando con un borghesissimo “per piacere”.

Pago volentieri. La Taurinense è il vecchio Piemonte, l’Italia delRisorgimento, incarna solide tradizioni militari e queste vannorispettate. Le bottiglie sono un modo classico e simpatico per entrare,ed essere accolto, in quel mondo. Prosit!

Il battaglione è sistemato alla caserma Nord, un bel complesso diedifici costruito dagli Austriaci una quarantina d’anni fa.

Stiamo attraversando un periodo di relativa calma, ma non è unbel vivere perché i rifornimenti stentano ad arrivare. Come dire che senon la fame, si patisce l’appetito. Tanto appetito che i conducenti

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frugano nell’ènergon per toglierne pezzettini di carruba. L’ènergon è ilmangime dei muli e la fame aumenta a questi.

Il pane viene distribuito non a pagnotte ma a manciate. Un alpinocammina attraverso il cortile portando una coperta con dentro il paneritirato per la propria squadra. Gli capita di passare vicino ad ungruppo di muli, capita che l’odore di quel pane solletichi le nari di unmulo particolarmente affamato e capita che questi dia uno strattonealla briglia mal tenuta dal conducente: ecco un mulo all’inseguimentodi un odore.

Il mulo è un animale sostanzialmente docile e buono, è la vita delreparto, presta servizio per quattordici anni senza pretendere scatti dicarriera, senza tutele sindacali, in compenso gode (e qui parlo sulserio) del lussureggiamento degli ibridi di prima generazione per cui èmolto più intelligente dei genitori asino e cavalla, su di lui vive unaletteratura piena di lodi e di simpatia, uno si sente veramente alpinosolo quando viene accettato dai muli, più avanti riporterò la preghieradel mulo al conducente e così via, ma quando ha fame e individuaqualcosa da mangiare, il qualcosa pretende con una frenesia chearriva alla violenza. E allora fa paura.

L’alpino, vedendosi precipitare addosso quella furia scalpitante,non afferra subito la situazione (– I muli sono buoni e docili,perbacco, che ha questo da corrermi addosso?), ma poi, capite leintenzioni dell’animale, non sta lì a cercare parole dissuasive. No,seguendo un atavico istinto (“Prima mettiti al sicuro, poi cominciaeventuali trattative”), scappa. Scappa senza vergogna perché nondeve salvare l’onore ma il pane. Scappa per dovere mangereccio. Eanche perché, è sempre l'atavico istinto che parla, "soldà che scampal'è bon per n'altra volta".

Così si butta a correre e, per noi che siamo in cortile, è una scenada film: una mantellina svolazzante, una mano premuta sul cappello,un fagotto che batte sulle gambe di un poveretto che corre a saltelloni,un mulo che fa scintille sull’acciottolato e un muso frenetico chesbuffa e sbruffa addosso a quel fagotto.

Hai voglia a correre per sfuggire a un mulo! Ben presto l’inseguitofinisce premuto contro un muro e due zampe ammonitrici impennatein aria lo convincono a deporre il fagotto per terra. In esso, graditis-sima musetta gonfia di pane fragrante, l’animale subito entra colmuso e, occhi voluttuosamente chiusi, prende a mangiare senza curardi nascondere la propria ingordigia.

L’alpino, non più impaurito ma impotente, sta lì a guardare ed è ilritratto della disperazione. Alla fine raccoglie la coperta, non degna diun’occhiata il mulo, pur ridiventato amico e magari bisognoso diquattro colpetti sulla groppa, e se ne va. Adesso deve fare i conti conla fame propria e con quella, rabbiosa, dei commilitoni. Gli andrà

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bene: lo spettacolo è stato talmente bello che noi facciamo unacolletta, di briciole, per la squadra rapinata.

Immagino che mi tocchi spiegare che cos’è la musetta.È un secchio di tela destinato a contenere la razione di ènergon; lo

si infila al muso del mulo, si passa il manico dietro le orecchie e ilmulo è servito: può premere la musetta a terra quanto basta e quandovuole, può mangiare comodamente e neanche una briciola va persadel prezioso ènergon. La musetta può contenere anche acqua.Qualche cosa di “dritto” la naia lo fa.

PREGHIERA DEL MULOO conducente, ascolta questa mia preghiera! Quando rientriamo

in caserma dopo un servizio, non abbandonarmi subito, anche se tisenti stanco: sono stanco anch’io.

Se sono sudato, strofinami con un po’ di paglia, mettimi presto alriparo e mi risparmierai dolori reumatici, tosse e coliche. In scuderia,specialmente di notte, lasciami legato lungo, perché io possa giacere eriposarmi. È vero che posso anche dormire stando in piedi, ma,credilo, caro conducente, io dormo e riposo meglio quando sonosdraiato.

Ogni giorno puliscimi i piedi e lavami con una spugna ben bagna-ta. Ogni tanto, e specialmente durante le piogge, dammi un po’ digrasso ai piedi, così mi eviterai le malattie allo zoccolo. Non pulirmigli occhi con la spugna con la quale hai pulito gli occhi ad un altromulo senza prima averla ben lavata. E adopera due spugne, una pergli occhi e una per … per il resto.

Un buon governo vale metà razione.Accarezzami spesso e parlami, così imparerò a conoscere la tua

voce e ti vorrò bene, sarò buono e lavorerò tranquillo. Mettimi bene labardatura e guarda che ogni cinghia sia della lunghezza giusta; mieviterai dolori e fiaccature. Accorcia la braca quando si va in discesa.Porto un forte peso e nelle discese, se la braca non è tirata, mi vienesul collo e mi spinge a cadere. Nelle salite ho bisogno di essere liberonei movimenti e perciò allungami la braca e se la salita è forteaccorcia il pettorale in maniera che il carico non mi vada sulle reni.Facendo ciò tu mi risparmierai fiaccature e cadute. Nelle salite nonattaccarti al guinzaglio; mi stanchi, mi fai male alla bocca e puoi farmiperdere l’equilibrio. In discesa non tirarmi e vedrai che arriveremo lostesso.

Ho difetti, ma non sono una bestia feroce. Io capisco il conducen-te buono, che mi tratta bene ed ha cura di me, e gli voglio bene.Quando mi è vicino io sono contento e lavoro volentieri. Il conducentecattivo, invece, che mi tratta male e mi fa dispetti, mi rende nervoso equalche volta sono costretto a tirare calci per difendermi. Tu fammilavorare volentieri.

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Qui sopra abbiamo sentito il mulo esprimersi con discreta disin-voltura. Non sempre è accaduto. Sentite.

Gli allievi che andarono a finire il corso ad Avellino furono seguitida conducenti di Aosta ed a questi vennero affidati muli del posto. Nenacque una confusione tremenda, dovuta ad una totale incompren-sione reciproca: i muli non capivano gli ordini dati in salmerianopiemontese, i conducenti non capivano ragli e mimica espressi inmulesco campano. Il problema fu risolto, dicono i maligni, ingaggian-do un congruo numero di interpreti in simultanea. I primi a nonaverne più bisogno furono i muli. Per via del lussureggiamento di cuisopra.

4 aprile '42 – Domani è la seconda Pasqua che passo sotto la naia.

7 aprile '42 – Durante le ore di libera uscita, nei dintorni dellacaserma c'è sempre un musulmano che gira tenendo a tracolla unacassetta con pettini, forbici, lamette, coltellini, specchietti, anelli, filo,aghi, ecc. Tutta roba che fa gola ai soldati, ma roba troppo su diprezzo e troppi debbono tenersi il desiderio.

Una sera, un gruppo di nostri alpini si avvicina al tipo, esamina,discute, contratta, contratta a lungo, contrattano tre o quattroinsieme, vigorosamente, tanto da impegnare a fondo il pur espertis-simo musulmano. D'improvviso, la cassetta delle mille brame sirovescia in avanti e tutto il contenuto si sparge a terra.

Con gentile sollecitudine gli alpini si buttano a raccogliere, araccogliere, a raccogliere e due o tre perfino a restituire qualcheoggettino al legittimo proprietario subito furioso e urlante.

Che era successo? Un abile colpo di coltellino dato al posto giustoal momento giusto aveva reciso la cinghia che teneva a tracolla lacassetta. Ne nasce una grana non indifferente e la cassa reggimentalerimborsa il disgraziato.

E ne nasce anche, merito dell’arguta penna del tenente Riccio,una canzone (sull'aria del "Giuanin ca pianta i ravanin"). In essa trealpinass pedinavu un musliman ca l'avìa 'n pachet in man e nacassietta. E un opinèl, un temperino, tagliò la cinghia e l'uma vist ialpinass cuma un vol 'd curnaiàs campèsse in tera, buttarsi a terra, eil Mustafà butalava e urlava al so Allà: a l'an panàmi, mi hannofregato!

Venditori musulmani. Anch'io ebbi a che fare con uno di loro esempre per la strada: vendeva stoffa (che teneva sulle spalle, incinque o sei rotoli), stoffa di seta veramente buona, superba al tatto,roba introvabile quindi figuratevi quanto cara.– Per una vestaglia, signor tenente? Tre metri e venti.

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Affascinante la rapidità che ebbe nell'avere in mano il pezzo dame scelto, srotolarlo, misurare con un metro di legno improvvisamen-te comparso e tagliare; tutto a mezz'aria, senza mai posare qualcosa aterra. Pago, affascinato, i tre metri e venti.

Il sarto di compagnia mi disse che il pezzo di stoffa era lungo duemetri e ventotto. Affascinante, dicevo.

20 aprile 1942 – Ieri, domenica, 40 chilometri di marcia. Senzasentirsi sparare addosso, senza zaino e con l’attendente portaordini alfianco è stato un passatempo.

Fare l’attendente non è da tutti, ci vuole un certo carattere. Nonpuoi avere un grado, ma sei esente da ogni altro servizio. Il mioattuale è un “tremilot”, “nato a tremila metri di quota”, cioè in unpaese d'alta montagna. È un marciatore instancabile. Di attendenti neavrò, in successione, tre o quattro.

In guerra avere un attendente non è un privilegio di classe.L’ufficiale ha cose importanti da fare e tutte, o poco o tanto, in unmodo o in un altro, tendono a salvaguardare la vita a qualcuno. Hacose importanti da fare ed è bene che non sia distratto da altriimpegni, come badare alle proprie faccenduole personali. Ecco a cheserve l’attendente. Ed i soldati, ben sapendo come stanno le cose,sono contenti che un attendente lasci libero l’ufficiale di pensare aloro.

Stanotte è piovuto e un buchetto nella tenda mi ha fatto dannare.Per avere sulla branda una goccia perenne, basta toccare la tendadall’interno. È una delle cose che naia insegna.

Ora c’è un bel sole e mi trovo alla stazione per controllare il caricodei materiali della compagnia. Andremo a Sarajevo, ci hanno detto.Sarajevo! Quanti ricordi di scuola! Povero arciduca Ferdinando. Però,quel Gavrìlo: due colpi di pistola e milioni di morti. E adesso,considerato che la causa remota di ogni fatto basta volerla trovare,eccomi qui grazie a lui.

2 maggio – Stiamo distribuendo viveri di riserva: una scatoletta edue gallette per ogni giorno di operazioni previsto. Zaini pesantiindicano rastrellamento lungo. Barometri infallibili, gli zaini.

9 maggio – Oggi compio 21 anni. È sabato. Chi sa quando torneròa compierli di sabato. Domanda interessante. Foglio di carta, matita,mesi, anni, anni bisestili, somme dei giorni, divisione per sette,eccetera. Trovato: nel 1953.

È bello fare simili calcoli: riesci a perdere un mucchio di tempo,riesci a non pensare alla guerra che incombe intorno. Bisogna purfesteggiare in qualche modo il raggiungimento della maggiore età.

Quando avrò un altro compleanno di sabato? Butto la matita.Meglio non straviziare con i festeggiamenti.

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17 maggio – Mi dicono che è domenica: strano perché siamo ariposo. Ne approfitto per lavarmi, tagliarmi il di più da venti unghie eradermi la barba. I baffi no: da un po’ di tempo li lascio completi, allaKaiser, e già comincio ad arricciarne le punte: un figurone.

Una sola barba vedo tra i militari dell’Exilles, folta, nera, maesto-sa; la porta un sergente maggiore. Il quale cadrà a Debelo Brdo il 9luglio 1942: Medaglia d'Oro.

Esco dalla tenda e vedo e sento gli alpini più allegri del solito: lavicina distilleria abbandonata ha rivelato notevoli depositi di rakìa(grappa di pere). Ne approfittano anche gli ufficiali e stasera faticheròa spogliare il dottore, mio compagno di tenda, per metterlo in branda.O lui faticherà a spogliare me.

19 maggio – Il sottotenente M. ha avuto il congedo in quantostudente di medicina al quinto anno e a me tocca il suo plotone, ilterzo. Così ora non ho più il plotone comando che tante soddisfazionimi ha dato in questi due mesi.

Avevo l’eliografo, un marchingegno su treppiede con lenti, specchie batterie che trasmette segnali in alfabeto Morse, anche di notte, conlampi potentissimi e visibili a chilometri e soltanto da chi si trova nelluogo preciso dove viene puntato; avevo la radio (mia vecchiapassione, dopo un corso fatto abusivamente con i premilitari, essendoio ancora avanguardista), radio da poter usare anche con il laringofo-no, un collarino che trasmette solo le vibrazioni della laringe di chiparla, senza disturbi di scoppi e spari. E avevo il cifrario, ricevuto inconsegna direttamente dal comandante di battaglione; in consegnacon l’ordine di non farlo assolutamente cadere in mano al nemico. Staa vedere che avrei dovuto mangiarmelo. Rischi del mestiere.

Tutti gli ordini relativi alla compagnia, durante le azioni, passava-no per le mie mani.

Ora ho solo la bandiera a lampo di colore, come ogni plotone.

Ermanno Varnier

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È un rettangolo di tela, suddiviso in strisce verticali bicolori; ariposo è rosso, tirato come una fisarmonica (ha lateralmente duestecche di legno che agiscono su varie cordicelle) scopre un fondobianco (ecco il “lampo di colore”).

La durata breve del bianco significa punto, lunga significa linea, laloro combinazione forma la lettera in alfabeto Morse. La bandiera alampo di colore per noi, che in queste zone dobbiamo qualche voltaoperare a gruppetti distanziati, è vitale per i collegamenti.

A proposito di cifrario e di altre diavolerie, ricordo che, in occa-sione di un’operazione particolarmente grossa, ricevetti un fascicolet-to che portava l’elenco degli ufficiali superiori di tutto il Corpod’Armata con a fianco il nome di battaglia attribuito a ciascuno. Unoera “Verbena”. Io sapevo, tutti sapevamo, che quello soffriva diemorroidi e subito qualcuno (nomi non ne faccio) cominciò acanticchiare, leggermente variata, una canzoncina allora in voga: Fiordi verbena, se qualche pena il buchin ti dà, fa un grattamento e queltormento ti passerà. Fece furori. Sottovoce.

Di F.M., il sottotenente che mi avrebbe lasciato il plotone, ricor-derò sempre l’espressione che fece quando, raggiuntolo per sentiredella situazione e buttatomi disteso vicino a lui tra fischiar dipallottole, una di queste sollevò uno spruzzo di terra a una spanna dalmio naso ed a tre dal suo. La sua faccia mostrò in modo chiarissimoche non trovava divertente la situazione. Che cosa dicesse la facciamia non so: mica potevo vedermela.

Eliografo, dicevo prima. Una quindicina di anni fa ricevetti unatelefonata da una persona che cominciò subito a parlare e parlare.– Ma chi parla? – chiesi, interrompendo, io.– Come? Non riconosci la mia voce? Sono il tuo eliografista. Escommetto che neanche ricordi che chiamavi sempre me quando c’erada rischiare.– Se chiamavo te, vuol dire che eri un alpino in gamba!

Conclusione: otto giorni dopo era a casa mia, venuto da Piacenza.Naia alpina, amicizia lunga.

In seguito mi fece avere, ancora orgoglioso, la fotocopia deldiploma di licenza elementare che aveva ottenuto alla fine di un corsoseguito nelle pause di calma. Il corso era stato tenuto dal cappellano egli “scolari”, una decina, per frequentarlo avevano rinunciato allepoche ore di riposo che avevano nella giornata. E i giorni seguentiavrebbero ripreso a rischiare la vita. Eppure ricordo che nebocciammo due, sacrificandoli sull’altare dell’ ortografia, della tavolapitagorica e di altre bazzecole. Alla Taurinense non potevamo nonfare le cose seriamente. Però mai come in questo caso, adesso debboriconoscerlo, il summum ius fu summa iniuria.

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Quel diploma io avevo firmato come presidente dellacommissione d’esami. Eccolo con il suo stuolo di marche da bollo.

La seconda firma è di Ernesto Tron. Di chi la terza?Quell’Ambrogio non è un tenente dell’Esille.

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“Spunta l’alba del 16 giugno, comincia il fuoco l’artiglieria,il Terzo Alpini è sulla via Monte Nero a conquistar ...”Sono il comandante del 3° plotone che, agli ordini del s.ten. Al-

berto Picco, nel 1916 aveva conquistato appunto il Monte Nero. Misento addosso orgoglio e responsabilità.

Nei lunghi mesi che seguirono, lo dico adesso, non potete imma-ginare quanto abbia sentito questa responsabilità, non perché volessiemulare quel mio predecessore (caduto nell’azione e medagliad’argento), ma perché da me dipendeva la vita di altri.

Toccava a me comandare e, in guerra, comandare significa spessofar muovere uomini sotto il fuoco nemico. Vigeva, sì, per le tresquadre del plotone, una rotazione giornaliera nei compiti (oggi, perdirne una, va in testa la seconda squadra, domani la terza, quindi laprima, e così via), ma c’era pur sempre l’ imprevisto, il maledettoimprevisto che richiedeva una mia decisione da cui poteva dipenderela vita di questo o di quello. Terribile.

A mio sollievo c’era il fatto che mi sentivo professionalmentepreparato: avevo seguito con impegno e convinzione un corso, miavevano giudicato idoneo, avevo esperienza, ero quindi in grado dicompiere il mio dovere, di compierlo al meglio anche nelle scelte; no,non ero lì per caso, ma il peso della responsabilità restò. Ed i mieisoldati, che in quei mesi di continui rischi avevano fatto il naso fino,mi riconobbero competenza e senno.

Tre anni fa, per dire, mi giunse la foto di sette alpini con unafreccia che ne indicava uno. Girai e sul retro lessi: “al comandante delmio plotone tenente Pesc uomo giusto leale e coraggioso” ... Tornai agirare la foto. No, l’alpino sotto la freccia non aveva inteso scrivere ilmio epitaffio. Anche perché avrebbe avuto il cognome sbagliato.

21 maggio '42 XXUn alpino mi porta in tenda un bel sacchetto rigonfio.

– Signor tenente, ci siamo procurati noci. Ecco la vostra parte.Si sono procurati noci. Non chiedo come, dove e quando: la naia

deve restare con i suoi misteri.Se è la mia parte, è roba che mi spetta, quindi non ringrazio. Così

dice la naia. Guardo l’alpino. È una reclutina e si è presentatoall’ufficiale comandante di plotone scavalcando il sergente coman-dante di squadra. C’era da far le parti e mi ha considerato dei suoi.Anche questo, l’alpinità.

22 maggio 1942 XXMi sono sistemato con la tenda un po’ dentro il bosco, in posizio-

ne magnifica e fresca. Sono le 14 e non ho voglia di dormire; allora

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attacco con lo spago una scatoletta ad un ramo e comincio a farlasaltare a suon di moschettate.

Mi congratulo per la mira. “La linea di mira parte dall’occhio,sfiora il mirino e colpisce il bersaglio”. Questo dice il librettod’istruzioni. Oramai qui non fa nessun effetto sapere che si spara percolpire un uomo. Fa effetto quando il bersaglio siamo noi.

Dopo una ventina di minuti arriva il portaordini del capitano conun biglietto: vigilassi perché i soldati non si divertano a sparare,disturbando la quiete degli altri.

Il capitano sa benissimo chi spara e sa che io so che lui sa. La naiaè fatta anche di questo. Così io rispondo: “Ordine ricevuto”. E il miovasetto continua a saltare. Naia, dicevo.

Gli alpini fischiettano Lilì Marlen, ma la sera, seduti intorno alfuoco, cantiamo le belle canzoni nostre.

Ma anche parliamo. È bello parlare fra noi. Se cantare qualchevolta è segno di stanchezza, se cantare porta sollievo ma ancheall’isolamento mentale, il parlare è incontro, è scambio, è fiducia,diventa amicizia. È bello parlare fra noi, parlare di tutto e di niente edè bello partecipare anche solo ascoltando.

Io avevo cominciato a capire il piemontese a Cuneo, qui avevocominciato a parlarlo e ben presto nessun alpino si era rivolto a meparlando in italiano. Una conquista, per il giovane tenentino: eraaccettato.

Parlare fra noi, dicevo. Una sera, sentendo intorno un po’ di ma-linconia e con l’intento di “tenere alto il morale della truppa” (paroledi insistenti circolari), dissi che presto tutto sarebbe finito con lanostra vittoria. Occhiate incredule.– È così, ragazzi, vedrete. Ci hanno mandati qui per compierequalcosa e questo qualcosa noi dobbiamo compierlo. Ma se dobbia-mo, vuol dire che possiamo. Sì, possiamo perché dobbiamo.

Sempre suggestivo, Kant, anche in salsa naia. Ma sempre arduo. Edifatti i miei ragazzi non mostrarono di averlo capito; non con segnidi palese entusiasmo, almeno.

Ma forse (il forse lo dico adesso) essi avevano superato lo stadiodel “credere, obbedire, combattere”. Essi.

NOTTE – Eravamo silenziosi, quella sera, ognuno stava con sé,perso dietro pensieri lontani. Piantammo le tende, ci attrezzammoper la notte: postazioni, settori da assegnare, turni di guardia, enessuno parlava. Sì, la compagnia completa viveva un’ora di silenzio.Può capitare, ogni tanto. Neanche intorno a noi si sentiva parlareeppure, sistemato su quelle alture, ai bordi del bosco, c’era tutto ilbattaglione. I fuochi erano stati rapidamente spenti e le braci coperte

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di terra: avrebbero rappresentato pericolosi segnali di presenza. Ognirumore era cessato.

La notte era tiepida e per lungo tempo indugiammo davanti alletende, gli occhi alle stelle, il cuore lontano.

Improvvisamente, da laggiù e dal buio della notte, ecco arrivare lenote di una tromba e spandersi nell’ampio silenzio delle valli e su peri monti. Fummo subito allarmati: era proibito ogni rumore, figurarsiquella tromba! Era proibito ogni rumore, ma il trombettiere continuòa suonare: era una sfida, un appello, un messaggio.

Le note parlavano, ampie, limpide, accorate; lanciate al cielo,parlavano alla nostra malinconia, a noi e alle nostre famiglie,suonavano struggenti nei nostri cuori e ci strinsero la gola. Fu il piùbel silenzio fuori ordinanza mai sentito.

Quando la tromba tacque ci fu una lunga pausa, poi urla, rumoridi armi battute, spari di adesione e tanti fuochi. Non nostri, ma del“nemico” che ci stava appresso. E che quella notte non attaccò.Messaggio ricevuto?

Malinconia, dicevo prima. E non solo. Quei lunghi mesi di guerra– guerra aspra e difficile, fatta d’imboscate, di lunghe soste al riparodi sassi o di tronchi, di cauti avanzamenti, di barelle spesso cariche, difunerali, di perenne insicurezza – quei lunghi mesi di guerra ciandavano logorando. Non eravamo più capaci di muoverci comepersone normali: anche quando eravamo in zone tranquillissime,sicurissime, veniva istintivo chiederci se dietro quel muretto non cifosse un Mauser, se da quella casa non potesse arrivarci addosso unabomba a mano, e che bel riparo sarebbe stato quel sasso laggiù. E,rigirandomi in branda, quando c’era, nelle notti che precedevano unrastrellamento, non potevo fare a meno di pensare. Non eranopensieri allegri. Come sarebbe andata il giorno dopo? Possibile che micontinuasse sempre bene, senza mai un graffio? A smentirmi era ilricordo dei commilitoni caduti, dei commilitoni feriti, le notizieprovenienti dagli altri reparti. A smentirmi era il maledetto calcolodelle probabilità.

Avevo vent’anni o poco più e tanta voglia di vivere. E una notte,una notte lunghissima passata supino sotto uno spuntone di roccia –vietato addormentarsi! – con la prospettiva, l’indomani, di subirel’attacco di quelli che numerosissimi ci avevano quel giorno inchioda-to là, una notte non potevo finirla di pensare. Era vita quella? Vita perun ragazzo di vent’anni? Ah! potessi vivere tranquillo e sereno, comespetta ai giovani!

Ecco, mi basterebbero cinque anni. Ma finirla, finirla subito conquesta ossessione. E domattina potermi alzare tranquillo come unturista, mettermi in piedi bello e diritto a testa disinvoltamente alta,fare quattro passi intorno, osservare un fiore, dare il buon giorno aicommilitoni e, tutti insieme, scendere a valle a prendere la strada di

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casa. Una bellissima marcia, calma, con gente che ti saluta e bambinicuriosi che ti guardano, con lunghe soste, buoni ranci e belle dormite.E l’arrivo a casa. Per i cinque anni di vita che mi aspettano. Sì, solocinque, ma cinque lunghissimi magnifici anni di vita tranquilla, senzapiù timore di crepare, qui timore continuo, sempre presente,assillante, nascosto dietro ogni atto, dietro ogni parola, dietro ognipensiero, dietro ogni muretto.

Cinque anni di vita? Che sogno! Qua, che firmo.

4 giugno – Procediamo nella notte, per un’azione di sorpresa: anoi si è unito un gruppo di cetnici. Sul far dell’alba grandi sparatorie,poi un improvviso grande silenzio. Vedo un cetnico ergersi, rigido,assurdo e stralunato, camminare lentissimo, quasi tastasse il terreno,per una ventina di passi e crollare. Il medico dirà che aveva ricevutoin pieno petto una raffica di sette colpi.

11.6.42 XXCarissima mamma,i pacchi che ricevo sembra che li facciano passare sotto un com-

pressore. Per un vero miracolo il tè che mi hai mandato è giunto sanoe salvo. Il dottore mi ha baciato in fronte quando gliel’ho dato: hadetto che era il miglior tè che avesse mai visto. Ti ringrazia molto ed ame (è pediatra) ha promesso di curare gratis i primi sette bambini cheavrò. L’ho preso in parola e al momento giusto mi darò da fare.

Da due giorni siamo in marcia; oggi facciamo sosta e posso recu-perare il sudore che ho perso tra ieri e l’altro ieri. C’era un solespaventosamente caldo, senza un filo d’aria, con la terra che scottavasotto i piedi. Mi sembra un sogno la deliziosa frescura della pineta incui mi trovo.

Ora mi viene in mente un’altra cosa da chiederti: magnesia effer-vescente (o citrato) da mettere nella borraccia, oppure, meglio ancora,polvere per acqua da tavola.

L’autocarretta della posta parte in questo momento e se nonconsegno la lettera subito, chi sa quando potrò spedirtela. Mi spiace.Avevo molte cose da raccontarti. Baci, Nilo

SARAJEVO – Grande operazione di rastrellamento con i Tedeschi.Noi piantiamo le tende in una vasta prateria e ci coglie una pioggiaeterna e spessa. Stanotte, verso le due, moccoli a destra e a sinistra;moccoli di alpini che spostano le tende in terreno non allagato. La miabrandina ha i piedi immersi per cinque centimetri nell’acqua. Ne ho15 di riserva. Posso continuare a dormire.

Questa mattina acqua dappertutto. Ci spostiamo posando i piedisu tavoloni e grossi sassi. Un alpino, seduto sulla gavetta e i piedi suun sasso, sta scrivendo.

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– A chi? – chiedo.Si mette a leggere: “Cara mamma, ora siamo come al mare, io ho

una cameretta con acqua molto corrente per via del rubinetto chespande …”

Vicino a noi è accampato un reparto di artiglieria con cannonienormi. Riconosco uno (un uomo, non un cannone): è Sefino efrequentava l’oratorio don Bosco di Pordenone.

Puntatina in città. Tipica la calle dei battirame: lunga, stretta,tortuosa e allegramente sonora: in ognuna delle decine di botteguccec’è uno che batte senza sosta.

SEBENICO – Siamo accampati poco lontano e ci faccio una punta-ta. Inevitabile il ricordo di Niccolò Tommaseo e del suo Dizionariodei Sinonimi.

Dopo il lungomare, scaricati sulla sabbia, due metri cubi di fichisono in putrefazione. Mai sentito un fetore simile.

28 luglio 1942 XXMa quanto sonno! Quella notte, erano le 2 e mezzo, ci avevano

caricati su camion e via! La sera avevo dormito, tentato di dormire,col mio attendente, sotto un telo tenda ed una mantellina, a ridosso diun binario. Il giorno dopo ero sotto una tenda, ma sveglia alle 4. Ecosì per qualche giorno. Stamane sveglia alle 5. Si migliora, cavaliere,si migliora.

Pioviggina e c’inoltriamo in una boscaglia. Ben presto ogni sentie-ro scompare, ma nessuna paura, abbiamo bussole e carte al 25.000molto ben fatte. Dagli austro-ungarici, nientemeno.

Cammina, cammina, cammina. Verso sera pioviggina sempre,cala il buio e si alza la nebbiolina. Siamo in fila indiana ma restarcidiventa un problema e allora facciamo sistemare sugli zaini fazzolettibianchi: l’alpino dietro non può non vedere quello davanti. Ecammina. E cammina. E cammina. Ad un certo punto la testa delbattaglione raggiunge la propria coda. La testa si ferma e la lunghis-sima fila indiana piano piano, piano piano le si raggruma addosso adaspettare l’alba.

Quando arriveremo – ma dove arriveremo? e arriveremo? – giuroche mi metto a dormire.

29 giugno – Oggi, San Pietro, ho assistito alla messa ed era pre-sente anche il generale comandante la divisione Sassari, alla quale il3° è aggregato. Ora siamo Posta militare 86 (o 200). C’è sempre unprogresso.

12 agosto – Dovrò cominciare a credere ai miracoli, perché uno miè accaduto: lasciata Sebenico, dopo tre ore di treno e tre giorni di

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camion siamo giunti a Višegrad. Qui abbiamo dato il cambio al BtgCadore. I soldati hanno le tende in mezzo ad un frutteto e noi ufficialidella 31, ecco il miracolo, abbiamo preso possesso di una villetta giàdegli ingegneri della fabbrica qui sotto. Troviamo ogni comodità:acqua corrente, vasca da bagno, water, sala da pranzo rivestita dinoce, pavimento a listelli di faggio, come la camera e, fuori, unapiscina.

Ho finalmente un vero letto, una vera sedia, un vero tavolinetto. Equi – il miracolo si prospetta lungo – ci fermeremo probabilmentetutto l’inverno.

1° settembre 1942 – Il miracolo non è continuato – se no che naiasarebbe? – e nella villa non ci dormo più: almeno di notte: gli ufficialidevono essere in postazione, con i soldati. Cerco il lato positivo: sonolontano dal capitano e quassù – al solito, sono in alto – egli non verrà.Ma la nostalgia di una vera camera mi è rimasta, per cui mandol’attendente a cercarmene una in una delle otto o dieci case che hointorno.– Missione compiuta! – mi annuncia trionfante quello un’ora dopo.Vado in sopralluogo. La stanza è bella, con svariati tappeti multicolorie grandissimi, anche alle pareti.– Bravo, ottimo lavoro!– Però, signor tenente, bisognerebbe disinfestare un po’, ci potrebbeessere qualche cimice e, comunque sia, la prudenza non è mai troppa.

L’attendente continua a meravigliarmi, e per le più opposteragioni: – Ancora bravo. Provvedi.

Quello frega due litri di creolina in magazzino e provvede. La seradopo faccio il mio ingresso ufficiale, ricevo gli omaggi della famiglia dimusulmani che vi abita, guardo compiaciuto dalle finestre e vedo acinquanta metri le tende dei miei uomini. Meraviglioso. Mi stendovoluttuosamente sul lettino da campo. La mia guerra sta diventandocomoda.

Quattro ore dopo – quattro ore passate a grattarmi, a spostare illettino, a cospargerlo di MOM e di naftalina, a stramaledire le cimici– mi arrendo e, viso gonfio per centinaia di punture, vado a finire lanotte dentro il sacco a pelo, steso sull'erba, sotto un pero.

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Così l’alpino Dante, che ha l’incarico di portare il fucile mitraglia-tore (la pistola gli è data per difesa personale), l’alpino Dante, che damesi fatica e rischia la vita in quella guerra stressante, l’alpino Dantedeve pagare la pallottola che gli manca e di cui non sa rendere conto.

Assurdo? Sì. Anzi no, assolutamente no. La Taurinense sta facen-do la sua guerra in maniera seria. E la serietà consiste anche nellasalvaguardia del materiale: se nel corso di un’azione vengonoconsumati mille colpi, siamo nella norma; se un colpo viene amancare per negligenza o altro, è male. Afferrato il concetto? Dietro ilfoglio di cui sopra c’è una mentalità.

Come già detto altrove, all’Exilles c’è il Vecchio Piemonte, con lesue regole. Tutto via gerarchica; tutto discende al grado inferiore,tutto risale al grado superiore; il quale grado superiore tutto deveavere sottomano, per essere in grado di prendere decisioni a ragionveduta.

Tale disciplina si estende non solo al comportamento degli uominima anche alla tenuta e al controllo del materiale. E qui, vedi notamanoscritta, dopo il controllo da me eseguito, il capitano vuole saperei nomi delle sentinelle che avrebbero sparato: suo preciso dovere.

Apparentemente la preoccupazione per il materiale supera quellaper l’uomo. Non è vero: in un reparto bene gestito, il soldato finisceper stare meglio.

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Facili le pratiche per un Caduto, complicato scaricare un paio discarpe. Per il Caduto c’è il piastrino di riconoscimento con notaaggiuntiva da comunicare al superiore e c’è il Cappellano che pensa alresto; per il farsetto a maglia c’è un registro da aggiornare, una voceda spuntare, una colonna su cui annotare, un totale da rivedere, unagiustificazione da dare, un addebito eventuale da imporre.

Enorme è la quantità di materiale che ha in dotazione una compa-gnia alpina: quello di normale impiego corrisponde al carico diottanta muli. Va dall’armamento alle cucine, dalla selleria al vestiario,dalla fureria alle barelle e alle cassette di medicazione, tutto punti-gliosamente elencato, tutto descritto, contato, enormi i registri edenorme la difficoltà di capirne il linguaggio. Che cosa è, ad esempio,una “ruota di gomma con foro centrale”?

E quei registri sono la forza del maresciallo che li tiene e l’assillodel capitano che ne risponde. Se qualcosa viene a mancare, puòsuccedere che nel verbale si dica che era addosso ad un mulo perso incombattimento; con risultati qualche volta sorprendenti: il poveroanimale figura caricato di un peso che neanche un elefante.

La “Ruota di gomma con foro centrale”? È la gomma da cancellareper macchina per scrivere.

RAGUSA – Impressionante come i suoi palazzi ricordino Venezia.E i suoi mille negozietti. Compero un orologio. Lo dimenticherò sullaroccia di un torrente dentro il quale ero andato a rinfrescarmi duranteuna lunga sosta. In Germania, al cambio, mi avrebbe fruttato almenodue pagnotte.

Ragusa come Venezia? Forse, ma qui l’acqua del mare è limpidis-sima e permette di contare i sassi quindici metri sotto. Che nuotate!

1942, XX Cara mamma, ho ricevuto il pacco. Ottimi i maglioni,la mantella e il resto. Ma come potrò sui calzettoni grigioverdimettere elastici multicolori? Ecco, me ne dovresti procurare almenotendenti al grigioverde. Grazie.

22 settembre 42 – Pare che a Višegrad ci si debba fermare un belpo’ e ci stiamo attrezzando: camminamenti, reticolati, postazioni perfucilieri e per armi automatiche, baracche, trasporto del relativomateriale. C’è da lavorare.

A me è stato affidato il settore Nord e sono sistemato su un’alturalungo la Drina, in vista del famoso ponte che divide i cristiani daimusulmani, e davanti ho il campo d’aviazione per atterraggi difortuna. Quel campo a volte è nero di corvi. Mica ci aspetteranno?Pussa via! E qualche volta sparo per farli scappare.

Vicino c’è un cimitero musulmano. Su ogni tomba hanno posto uncilindro di pietra tipo paracarro ma più sottile, terminante in alto con

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un fez; il fez è pesante e nessun cippo è perfettamente dritto, moltisono a terra.

Sono arrivate le reclute del ’22; sei nel mio plotone. Cominciano aguadagnarsi la penna lavorando di pala e piccone.

Ogni tanto sono di servizio ad un posto di blocco per il controllodei civili: non è allegro vedere quelle donne, quei bambini, queivecchi.

Passo il ponte ed entro nella Višegrad cristiana. In fondo allastrada, in un cortile erboso tra le ultime case, una ventina di personeballa o, meglio, saltella tenendosi per mano e ogni tanto ruotando. Insilenzio. Senza allegria Quasi per dovere. Sono donne, uomini,ragazze. Il violino si sente appena.

Eliseo Mongiat, studente di medicina, era stato con me al corso diAosta. Ecco la motivazione della sua Medaglia d’Argento:

Graduato di squadra fucilieri, guidava i suoi uominiall’attacco con l’esempio del suo ardito entusiasmo. Raggiunta laposizione avversaria, per evitare una minaccia di aggiramento,sebbene gravemente ferito, unitamente ai suoi si gettava conestremo sforzo sui ribelli assalitori obbligandoli a ripiegare. Colpitoa morte, cadeva da prode sul campo. Zona Debelo Brdo, Balcania, 9luglio 1942.

Quando le sue spoglie furono rimpatriate, andai a Chievolis ariceverle. Di Eliseo vidi una cassettina portata a braccia da un soldato.

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Ora, caro Eliseo, le scuole di Chievolis portano il tuo nome e sarairicordato, ma nessuno saprà quello che hai sofferto e come abbiamotrovato voi quattro la mattina dopo.

9 ottobre 42 – I tempi e la zona sono calmi, mi aveva detto ilcolonnello, andate tranquillo. Ma tenete gli occhi aperti.

Così, eccomi qua, con 35 uomini, 20 muli e altrettanti conducenti,a un paio d’ore da Višegrad, in mezzo ad un bosco di faggi, intervallatida vaste radure piene d’erba, a difendere una ventina di musulmaniche la falciano, a difenderli dai cetnici.

Strana questa situazione: i musulmani sono nostri “amici”, i cet-nici sono nostri “alleati”, ma tra loro sono fucile e coltello. Quassù micapita di vedere cetnici che vengono a parlare e scherzare con glialpini e di vedere musulmani che si radunano in crocchio, spauriticome pecore alla vista del lupo. Situazione strana, anzi balcanica.

I muli che mi hanno affidato sono malati.– Durante questi venti giorni falli pascolare e guariranno, avevaraccomandato il veterinario.

Stupenda questa vacanza in collina. I musulmani falciano, glialpini sistemati in posizioni strategiche sorvegliano, i conducentifanno pascolare i muli. Ogni tanto io faccio (caute) passeggiate neidintorni. Enormi corvi non mi degnano di uno sguardo: qua i padronisono loro. Un paio di volte la settimana dal Comando Battaglionearriva una pattuglia di collegamento, alla quale consegno unarelazione. Dalle risposte che ricevo, pare che le mie pagine sianoapprezzate e godute, a mensa: non sono scritte in militarese, non sonostrettamente di servizio e qualche volta arieggiano lo stile di ungiornale umoristico. Se vi basta così poco, cari colleghi, io continuo.

Purtroppo per l’archivio storico della Taurinense e purtroppo perl’umanità quelle mie relazioni sono andate perdute.

Molti alpini si sono annoiati di questo far niente e ad alcuni hopermesso una specie di contratto con l’impresario, chiamiamolo così,dei musulmani: per cento kune il giorno, pari a 38 lire, falciano. Ilquale impresario adesso ci colma di mele, pere, prugne, noci, miele.La guerra, si diceva.

15 ottobre – Le notti si sono fatte maledettamente fredde e questonon era nei patti. Qua e là per il bosco ci sono tronchi di faggio cadutia terra ed espongo un’idea ai conducenti:– Portiamone un mucchio in mezzo a questa radura falciata e, se ilfreddo aumenterà, accenderemo il falò. E intorno ci pianteremo lenostre tende.

Prendono l’idea con entusiasmo e passano al realizzo della stessa:muli, corde, trascinamenti. I due boscaioli che sono fra noi dirigono la

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buona sistemazione della catasta risolvendo problemi di peso e diequilibri.

Al mio ritorno (mi ero allontanato con una decina di alpini per ungiro di esplorazione: mai abbassare la guardia!), trovo una catastasemplicemente esagerata.– Ma, signor tenente, i tronchi c’erano …

Non dare mai un’idea ai lavativi (ed i conducenti lo sono pernatura e in maniera, appunto, esagerata), non dare un’idea ai lavativiperché, se l’accettano, esagerano.

“Lavativo”, tanto per intenderci, sotto la naia è colui che cerca difare il meno possibile e ci riesce.

Due sere dopo accendiamo. I nostri due carbonai (tra gli alpini glispecialisti che servono ci sono sempre), lavorando di fino, nonpermettono fiamme ma solo braci.

Tempo due ore e in quella sera di ottobre, mentre intorno premeil freddo, senti che calduccio affettuoso, senti come si sta bene inmaniche di camicia, senti come si scaldano i teli delle tende. Acompletare il paradiso, tiro fuori tre borracce di cognac. Fanno partedei viveri di conforto che ho l’ordine di tenere per situazioni eccezio-nali, ma più eccezionale di questa …

Tre borracce per cinquanta alpini sono misera cosa, ma è lospirito che vale. Aveste sentito, lo spirito, lo spirito alpino, in queimomenti, l’amore per il mondo e così via.

Oramai sono in corsa e continuo. Entro in tenda e ne esco con labottiglia di maraschino (Luxardo!) che mi ero comperato a Zara unmese prima e che avevo gelosamente conservato per fare bella figuracon l’ospite di riguardo che non arriva mai. Non è chi sa quantorobusto, il maraschino, ma è meglio di niente. E diventa la classicagoccia. Un minuto e mi ritrovo in mano la bottiglia asciutta.

A questo punto sono anch’io, diciamo così, euforico (i vent’anni,sapete) e lancio un urlo. Tutti mi guardano, subito immobili e zitti, eallora con un ampio giro del braccio lancio la bottiglia contro lacatasta; quella fa il suo bel volo di dieci metri, cade sopra un tronco inbrace e vi rimane in piedi. Vi dico che rimane in piedi, forse appoggia-ta al tronco subito oltre. E qui accade l’impossibile: la bottiglia, chetutti osservano come incantati, piano piano, piano piano, piano pianosi affloscia: il calore è tanto che la sta sciogliendo.

E quel calore continua ad essere tanto, anzi ad essere ancora piùtanto, ma così tanto più tanto, che ci tocca smontare le tende erimontarle fuori portata della montagna di braci.

28 ottobre – Fine della ricreazione. Ho avuto il cambio e rientroalla base.

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Siamo noi, con lo scoppio di una bomba a mano all’alba e di unabomba a mano al tramonto che diamo i tempi del ramadam aimusulmani.

29 ottobre 1942 – Sveglia prima all’alba, come da ordine ricevutoieri. L’operazione è grossa, "di grande respiro" stando al colonnello, ecoinvolge altri grossi reparti. Il piano, ampiamente discusso sullecarte topografiche, appare, come tutti i piani in fase di tavolino,scorrevole come l’olio. Si tratta di puntare al cuore di una zonanotoriamente infestata da bande, sorprenderle, minacciarle diaggiramento per spingerle verso una vallata dove le aspetta un altronostro reparto. E distruggerle. Lo scopo finale è assicurarci uninverno tranquillo. Ci voglio credere.

Sveglia prima dell’alba senza suoni di tromba. L’illusione è dipassare inosservati.

Nella notte uggiosa, fredda, piena di nebbia, le tre compagnieaffluiscono ed il battaglione si avvia: l'operazione comincia. Ma lanaia deve fare i conti con l'imprevisto (come ben dice la regola nonscritta di pagina sette "Prima di eseguire l'ordine, aspettare ilcontrordine") e difatti arriva l'alt.

Siamo ancora entro il presidio e il battaglione si ammassa su unospiazzo erboso, bene in ordine e zainetti a terra. Ci sarà da aspettare alungo perché arriva la voce che il cappellano dirà la messa. Buonal'idea. Di aspettare a lungo, intendo.

Ad un certo punto della messa, don Vanni si rivolge a noi e co-mincia a parlare; lo distinguiamo poco perché c’è sempre la nebbia efa ancora mezzo buio, ma sentiamo bene le sue parole.

Dice che siamo bravi soldati, che la Patria ci guarda, che i nostri cipensano e certamente pregano per noi.

Non basta il tempo, anche questi discorsi.Poi attacca con la durezza della guerra, i pericoli delle battaglie, i

rischi dell’azione che stiamo per iniziare, rischi peggiori dei solitiperché l’azione è impegnativa ed il nemico ostinato.

Evidentemente vuole farci coraggio.– Ora, continua il cappellano, ora voi sapete che l’anima deve esseresempre pronta, sempre monda di peccati, sempre meritevole dientrare in paradiso. E questo vale particolarmente quando in vista cisono pericoli.

Qui concede una pausa perché tutti afferrino bene il concetto.– Perciò, conclude, adesso impartisco a tutti voi, al battaglionecompleto, l’assoluzione.

Altra pausa. Un’assoluzione generale non è cosa di tutte le matti-ne nebbiose e richiede il suo tempo per essere compresa.

– Vi do l’assoluzione generale e sarete a posto.

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E procede. Davanti a mille soldati fermi come tronchi in un silen-zio assoluto, con gesti ampi e lenti traccia un grande segno di croceaccompagnandolo con una frase in latino. Impressionante. Le paroleprecise non le ricordo, ma ricordo le imprecazioni che srotolò uncaporale alle mie spalle. Ricordo, ma non riferisco.

Alla fine della messa, il contrordine continua a funzionare (e lacosa continua a non dispiacere) e il don legge la Preghiera dell’Alpino.Solo i cappellani potevano leggerla in quei tempi.

Sono forse mal disposto per l'assoluzione che mi avrebbe “messo aposto” per raggiungere i beati, ma qualcosa mi stona.

La Preghiera parla di “Alpi e nostre contrade” e qui ne siamo millechilometri lontani. E chiama Dio, padre di tutti, a rendere forti lenostre armi contro altre sue creature. Le quali stanno in casa propriae quindi ci minaccerebbero. Sì, qualcosa stona.–Armi forti? Contro avversari armatissimi abbiamo il fuciletto '91, ilcapo non può darci di meglio e allora, per cavarsela, questo meglio celo fa chiedere al Padreterno –, brontolano sottovoce gli alpini, scarpegrosse.

Come andò a finire con la Preghiera?Il 25 luglio 1943 sparì: invocava protezione per il duce arrestato.Ecco quello che stonava! Stonava la politica, che l’aveva occupata

millantando addirittura un alleato invincibile che rendeva forti learmi.

Si può immaginare fesseria più grossa? No, ma i tempi eranoquelli: la Preghiera dell’Alpino era stata usata per propagandapolitica. Gli alpini, cervello fino, lo sentirono: non amavano la guerrae quindi non amarono lo slogan di chi in guerra li aveva sbattuti.

“Armi forti” fu recitata ai funerali dei Caduti? Di quelle morti eramoralmente corresponsabile e in quella lettura gli alpini sentivanopuzza d’ipocrisia: - L’ha mandato a morire ed ora gli piange addosso.

Anche per questo non può entrare nella tradizione e oggi nonmerita di essere letta alle nostre cerimonie.

“Armi forti”, sparita nel 1943, fu ripresa nel 1950 dopo una primaepurazione. Preghiera epurata! Dice niente questo?

Lavaggio a fondo ebbe nel 1972, nostro centenario: il 4° Corpod’Armata Alpino sostituì “armi forti contro chiunque minacci” con“rendici forti a difesa della Patria”.

E da allora gli Alpini in Armi chiedono di essere forti nell’animoper usare al meglio, eventualmente, le armi passate dal governo.

Le sole armi forti non rendono forte chi le ha: potrebbero essereusate male, contestate, buttate.

Animo + armi = soldato forte.E noi, alpini in congedo, chiediamo di essere forti nell’animo al

fine di attuare al meglio gli scopi che l’A.N.A. indica.

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Nel 1987, all’adunata di Trento, un gruppo contestò “rendici forti”urlando: – Senza armi nella preghiera l’alpino è debole!

Ma era forte quando c’erano? Vedi i nostri disastri. E quandodiventarono forti dette armi tanto invocate? Mai! E mai fummo tantodeboli come ai tempi delle armi forti. Allora che senso ha urlare perrimettere in preghiera parole inutili?

Questo bisognava dire ai poveri urlatori – e aggiungere che learmi riguardano il governo, solo il governo – invece li lasciaronourlare e noi ci trovammo (circ.1215, 22 ott. 1987) con due preghiere:la “armi forti” che gli alpini in servizio avevano buttato (per noirimasta facoltativa) e la “rendici forti”, per noi obbligatoria con alpiniin armi presenti alle nostre cerimonie.

La Libretta, o Cerimoniale A.N.A., dal 2003 nostro vangelo, igno-ra la “rendici forti” (che pure fu nostra preghiera ufficiale per 15 anni)e, al punto “7.a. Santa Messa celebrata in chiesa”, dice: – Unica nostrapreghiera è la “armi forti”, vale solo per le cerimonie nostre e va lettaanche in chiesa.

Vale solo per le cerimonie nostre! Pensa un po’: noi, trecentomilaAlpini in congedo, abbiamo una preghiera da mezzo servizio. Ma noice ne siamo guadagnati una e ne vogliamo una di cui essere fierisempre e dovunque!

Leggerla in chiesa è un ordine im-pos-si-bi-le perché nostro puntod’onore è osservar le regole, soprattutto quelle degli altri. La lettura diuna preghiera in chiesa è consentita nella formula “Preghiera deifedeli” e la regola vuole che abbia l’imprimatur. Ma “armi forti”imprimatur non ha e chi la legge in chiesa dimostra prepotenza.L’Alpinità è forza, non prepotenza!

Dicono ancora: – Noi in congedo non possiamo avere armi, quin-di armi forti adesso vanno intese come lavoro per gli altri.

Siamo al colmo. Il tormentone è nato per via delle armi e adessodicono che dobbiamo immaginarle trasformate in badili. Tanto Diocapisce. Ma noi capiamo che la fesseria di regime è rimasta. E turba lacoscienza dei credenti. Infatti chi prega (anche in gruppo) ha con Dioun rapporto personale di coscienza e su questa nessuno può metteremano. Solo il regime poté imporre una fesseria che ingannò, Caduti,orfani, vedove, famiglie.

E il rapporto con Dio è solo spirituale: chiedere esplosivi o attrezziè superstizione. Tanto vale chiedere anche numeri del lotto.

Su questi argomenti ci vuole un dibattito a più voci (la voce unicadiventa voce del padrone, come nel 1940), ben venga un dibattito chefaccia conoscere agli iscritti la storia delle nostre preghiere (quitelegraficamente riassunta), storia che troppi ignorano.

Conoscere questa storia ci porterà del bene .

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24 novembre 1942 – Le licenze sono come i fantasmi: le vedonosolo gli altri. Ma oggi io sono un altro e vedo 30 giorni più il viaggio. Evedo una licenza datami in corso di arresti!

Dovete sapere che il colonnello comandante del reggimento, ingroppa al suo bel cavallo bianco, mi era capitato addosso immediata-mente dopo che ero giunto al nuovo settore che mi era stato assegna-to, un settore abbandonato chi sa quando e da chi sa quale reparto,che si trovava in un disordine indescrivibile: carte, cartacce, stracci,vasi rotti, scatolette (vuote), pezzi di tavole, bottiglie, grovigli di filospinato. Ero appena giunto, ripeto, e avevo appena radunato icapisquadra al fine d’impartire le disposizioni per sistemarequell’obbrobrio, per sistemarlo come Taurinense voleva, che ilcolonnello era giunto.

Formalità di rito, attenti, presentazione della forza, riposo, equello via a muso duro. Per me guai in vista. E sapevo benissimo perquale motivo. Oramai ragionavo da militare: otto mesi alla Taurinen-se lasciano il segno. Oramai ragionavo da militare e, lasciatemelodire, la cosa non mi dispiaceva. Militare fino a questo punto, oramai.

Io sapevo di non avere colpa dell’obbrobrio trovato nel settore, ilcolonnello sapeva che io non avevo colpa di quell’obbrobrio, ma tuttie due sapevamo che la Taurinense aveva un precetto da osservare: ilsuperiore deve trovare ordine, pulizia, impeccabilità dappertutto,sempre e anche prima. Quindi sapevo quello che mi aspettava: i settegiorni di arresti che regolarmente mi fioccarono addosso. Ma nonsapevo tutto: evidentemente otto mesi non bastano perun’assimilazione completa. Insieme con la classica busta gialla("riservata personale", sinonimo di punizione) mi era arrivato ilbianco foglio della licenza. Che dire? Evviva la Taurinense! E via inlicenza!

L’autocarretta mi porta a Belgrado e qui prendo il vagone lettosull’O.C., vale a dire sull’Oriente–Cenisio (che nel viaggio contrariodiventa C.O.), prendo cioè il vecchio, il mitico Orient Express, ilfascinoso treno di mille romanzi. Mi sento importante e ne ho bendonde: quello è un treno da contesse in fuga, diplomatici infidi, spie,detectives, maggiordomi assassini e via giallificando.

In cabina sono solo, il letto non è enorme, ma sono stanco e misveglio quasi alla frontiera.

Al comando tappa di Trieste una corrierina destinata agli ufficialiche arrivano in licenza mi porta con altri sei o sette in una localitàvicina per la contumacia, un isolamento di quindici giorni teso adevitare importazione di malattie. Saggio procedimento, convengo.

Arrivati, scendiamo ad un albergo. Qui mi ritirano il foglio dilicenza, mi fanno pagare quindici giorni di retta, mi consegnano lachiave della camera e mi dicono che si pranza alla una. E fino a

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quell’ora? E i nostri potenziali virus? Mi guardano come fossi di unaltro mondo.

Abituato all’efficiente disciplina della mia Taurinense, dove ognidisposizione produce risultati, questa costosa inutilità mi disorienta.Mi aspettavo un campo contumaciale serio, certo non un lazzarettocon filo spinato intorno, ma almeno qualcosa di bene organizzato, cheso, un albergo con porta sotto controllo, tanto per dire. Invece siamocompletamente liberi.

Né i commercianti locali, che sanno bene chi siamo e perchésiamo lì, mostrano di considerarci pericolosi anche se involontariuntori, anzi ci accolgono con gran sorrisi. Patriottica disponibilità alrischio? Amor di cassa?

La sera stessa poi in albergo qualcuno mi tira in disparte e sussur-ra che, se per caso, dopo tanta lontananza, volessi fare un saltino acasa, mi potrebbe prestare un impermeabile, ideale per coprire ladivisa e scansare antipatici controlli in treno. E si dà il caso, continuail samaritano, si dà il caso che proprio domani una nostra vetturavada fino ad una stazione ferroviaria.

Ma quanto gentile diventa chi non vuol far sedere a tavola uncliente che ha già pagato i pasti.

Ovviamente mi sveglio, non mi sento più obbligato a salvare ilmondo e il giorno dopo, soprabito addosso e cappello in valigia, sonoalla stazione. Compero un biglietto regolare e nessuno mi fermerà.Ma un’istintiva prudenza, affinata da mesi di guerriglia, mi spinge arestare defilato sino all’arrivo del treno. Quando arriva (è un treninolocale, di tre vagoni non comunicanti fra loro), non mi precipito evedo che da un vagone scende un colonnello con due sergenti e li vedosalire su un altro. Vista la prudenza? Quelli controllano i militari. Houn signor impermeabile borghese, quindi so di potere stare tranquil-lo, ma scelgo il vagone che i tre hanno lasciato. E salgo all’ultimosecondo.

Alla prima fermata, scendo dalla parte sbagliata, da sotto le ruoteosservo i tre, individuo il vagone su cui salgono ed io vado in un altro.Il giochetto mi riesce fino a Udine dove, in attesa della coincidenza,faccio un giretto fino in centro. Anzi fino alla caserma dove so ditrovare l’amico caporal maggiore Neci. Lo mando a chiamare dalcapoposto e, dopo urla e abbracci, visto che lui non può uscire, vuolefar entrare me.– No, i borghesi in caserma non entrano, si oppone il capoposto.– Borghesi? Ma sai chi è questo mio amico?

E mi rimbocca la manica del soprabito sino a far comparire ilgrado sulla manica della giubba.– Ecco chi è questo mio amico!

Non vi dico l’orgoglio che c’era in quella voce.

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Due ore dopo sono alla stazione, ho ancora dieci minuti e mi siedoal caffè. Accidenti, ecco il colonnello. Meno male il soprabito. Quellomi punta dritto addosso. Adesso mi frega.– No, mi tranquillizza lui che mi ha letto nel pensiero.– No non ti frego adesso e non ti avrei fregato in treno: ho un figlioalpino in Russia.

Mi alzo, mi pianto sull'attenti e snocciolo grado, nome e cognome.Conosco il regolamento, io.– Caro tenente, è inutile tenere un soprabito borghese e il cappello invaligia fino a che giri con quegli scarponi.

La mia astuzia. C'è sempre qualcuno più in alto di te.– E poi quel soprabito lo conosco.

E apre la bocca a un sorriso complice e divertito. Un pugno allostomaco, per me: là una contumacia costosamente inutile, qui unufficiale superiore che lascia correre. E il rispetto per tuo figlio? No,tu non sei più in alto di me.

Colpo di tacchi e mi avvio, pesando sui miei scarponi, verso iltreno che sta arrivando. Col tempo avrò modo di capire che anche percolpa di certi atteggiamenti mai avremmo potuto vincere la guerra,neanche se il nemico l'avesse persa.

Eccomi a casa! Ci manco da un anno e me la godo.Due giorni prima che mi scada la contumacia ritorno alla base e

l’ultima sera vado al cinema. Stupefacente: tutti, ma proprio tutti – equando dico tutti intendo dire tutti – mangiano semi di zucca.Ognuno ne ha un cartoccio e, mentre pallide e romantiche figure diamanti si muovono languide sullo schermo, tac, tac, tac, tac, in salacentinaia di incisivi aprono semi. Quando esco, il pavimento è untappeto di scorze.

Qui le ragazze vengono chiamate màmole. Alcune ti danno, anche,semi di zucca.

8 gennaio 1943 – A casa arriva una lettera da mio fratello, arruo-lato volontario in marina: è in ospedale a Marina di Massa. Partoimmediatamente, ma con i treni dell’epoca mi ci vogliono due giorni.Lo trovo in una sala piena di spifferi e mi dice che ha la pleurite.Protesto con i medici per come è tenuto e mi consigliano di portarlo acasa: lì non c’è di meglio. Mi metto a rapporto con il comandante:proprio quel pomeriggio ha convocato i suoi ufficiali, ma sono unufficiale alpino reduce dal fronte e in procinto di tornarci, quindi miriceve prima di cominciare la sua riunione.

Siamo in un salone immenso. Al chiamare del mio nome avanzodal fondo sui miei scarponi ben chiodati, guardati con raccapriccio dalucidissime scarpe e subìti con lamentosi cigolii da un permalosoparquet. Arrivo ai classici cinque passi di distanza, mi pianto

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sull’attenti con strisciata e battuta di tacchi e urlo grado, nome ecognome.

Certo impressionato, il capitano di vascello rimane in attesa. Iotaccio e lui tace. Ma il regolamento è dalla mia: mi impone diattendere l’ordine di parlare. Il regolamento dell’esercito. E continuoa tacere. Finalmente il capitano di vascello cede e m’invita: – Parlate.

Spiego la situazione e quello emana ordini per l’immediato invioin convalescenza di mio fratello.

Torno in ospedale, mi tolgo la maglia di lana, la faccio indossare aRenzo e lo saluto: la licenza mi scade e non voglio rischiare unprocesso. Debbo dormire a Pistoia, ma faccio in tempo.

Alle ultimissime ore della licenza, prima del treno che mi porteràa Trieste e poi a Fiume, sono in piazza, oramai in divisa, impeccabile estiratissima. Evaristo R., classe 1916, baldo sergente alpino, anche luiin licenza, indicando la mia pistola dice: – A casa ho qualchepallottola: andiamo a sparare?

Mando ogni regolamento a farsi benedire e acconsento. Raggiun-giamo casa sua, cerchiamo un bersaglio e adatto allo scopo si presentail grande rettangolo che copre metà parete di una casa vicina: è beneintonacato, pitturato di bianco e contiene una scritta, con tanto difirma, inneggiante all’impero: le lettere sono bersagli meravigliosi.Comincio io e ogni pallottola, scrostando la malta, indica il suo puntod’arrivo. Mi confermo discreto tiratore. Passo l’arma a Varisto, poi aNarciso S., classe 1909, che si dimostra il migliore. Naturalmenteintorno a noi, c’è un nugolo di ragazzetti.

Alla fine delle pallottole, tanti saluti a tutti e parto. Il 14 gennaio1943 sono di nuovo con i miei alpini.

Qualche giorno dopo il comandante mi manda a chiamare e milegge un messaggio giunto dal commissario politico del mio comune,via Federazione udinese, secondo il quale avrei sparato con chiareintenzioni sovversive.– Sparato va bene e intenzioni anche, mi dice il comandante, ma“quella firma" l'hai colpita?

25 gennaio 1943 – Da giorni se ne parla e finalmente ecco lagiornata degli agnolotti. Giornata grande, ma ventosa e così, fuori lamitragliatrice da una postazione e dentro la marmitta.

La postazione, forse qui occorre dirlo, è qualcosa che si fa peroffrire un riparo ai soldati in caso di attacco; noi – sistemati acaposaldo sopra un’altura – ne abbiamo parecchie tutto intorno.Quella sgomberata consiste in un muretto circolare di zolle, alto unmetro circa, con un’entrata stretta stretta (dalla parte giusta) e unafinestrina piccola così, da cui far uscire la canna della mitragliatrice: lìdentro il fuoco può ardere in santa pace.

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E così avviene: subito belle le fiamme, acqua rapidamente prontae agnolotti versati.

Noi, qua e là, non parliamo. Aspettiamo. Gli agnolotti non sonoroba da tutti i giorni: chiedono lavoro, competenza, materie prime diqualità. Gli agnolotti sono un piatto prelibato, arte cucinaria. Inguerra, poi, dove si è fuori del mondo normale, qualunque novitàappena appena gradita suscita attese, diventa importante come per ibambini un regalo promesso. In guerra tutto viene usato per scacciarela grande ossessione.

Il cuoco tiene d’occhio fuoco e marmitta, consapevole di sé, delproprio compito. Ad un certo punto prende a rimestare. Con energicadolcezza, con sapienti giri di mestolo, con tocchi che assaggiano lostato degli agnolotti, rimesta. Un rito. Intorno cento alpini in silenziogli tengono gli occhi addosso. Finalmente quel viso si rischiara e siapre ad un sorriso, il sorriso del maestro che ha finito l’opera.L’uomo, l’officiante vorrei dire, fa tre passi indietro, fa un cenno (nonoccorrono parole in certe situazioni) e due alpini si dispongono aportare fuori il recipiente.

In quell’istante una zolla del muretto, una grossa zolla di terranera, sgelata dal fuoco, precipita sopra gli agnolotti.

2 febbraio 1943Giù in paese una vecchia musulmana con una frotta di bambini

attaccati ai vasti calzoni mi fa pena e le allungo qualche soldo. Incambio si offre di leggermi la mano. Non accetto e allora dice chem’insegnerà qualcosa. Certo qualche fesseria, ma imbrogliarmi nonpuò perché niente mi chiede e niente le ho chiesto, quindi vadaavanti.

Non meravigli questo nostro “dialogo”: dopo un anno, molti in-contri con i “borghesi”, qualche manuale e un dizionarietto, me lacavo abbastanza col serbocroato. A sufficienza con le giovani.– Ti insegno come si fa a indovinare il sesso del nascituro, dice.

Non penso di avere immediato interesse ad argomenti simili, mavoglio concederle di sdebitarsi e le dico di continuare.

Il discorso esce dai soliti temi, supera il mio vocabolario e la don-na deve ricorrere anche a gesti. Io ascolto, osservo e, in capo aqualche minuto arrivo a concludere che:– Dopo il compimento del sesto mese di gravidanza, debbo osservaregli occhi della donna: se ha più venuzze il sinistro nascerà unafemminuccia, se il destro, un maschietto.

Padroni di non credermi, ma nel corso della mia vita ho scrutatodecine e decine di occhi e tutte le nascite sono seguite come da meprevisto.

Ho scrutato decine di occhi, occhi di mamme pieni di attesa chefinivano per guardarmi come si guarda a un mezzo mago (il che dà

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una certa soddisfazione, sapete), come a un mezzo mago ancheperché arricchivo l’esame con astuti rituali (sollevavo alla donna lepalpebre e la facevo guardare in basso e viceversa, le dicevo di rotearegli occhi tre volte in senso orario e tre in senso antiorario; ponevodomandine sull’accadimento (mattutino? meridiano? serale?plurimo?) e così via. Al fine di captare il messaggio, dicevo. E, ripeto,tante e tante e tante nascite, debbo pur dirlo, senza fallo da parte mia.Oggi, vecchio, sazio di fama e di soldi, quel segreto qui offro.

RECLUTE – Si camminava da cinquanta minuti e feci fare zaino aterra: col plotone stavo facendo un giro esplorativo, tutto procedevanormalmente e mi attenevo alle regole di marcia degli alpini: dieciminuti di riposo ogni ora.

Zaino a terra. Qualcosa mi parve strano nello zaino di un soldato:troppo morbido il suo impatto con il terreno. Gli diedi un calcetto equello rispose da vuoto! Immediatamente ordinai rivista al corredo esaltò fuori che una decina di soldati non avevano con sé i viveri diriserva né le prescritte munizioni. Quei soldati erano tutti del ’23,giunti da pochissimi giorni a rimpolpare i nostri ranghi.

Due scatolette, quattro gallette e novantasei pallottole fanno unpeso discreto, certo seccante da portare, ma se in Italia alleggerire lozaino in occasione di qualche marcetta può essere una furbizia, quipuò essere un suicidio: quando si esce dai capisaldi non si sa quelloche può capitare, non si sa quando si ritorna, se si deve sparare equanto.

Per fare ben entrare questi concetti vitali nelle zucche delle giova-ni reclute, feci entrare in ciascuno dei loro zaini un grosso sasso, maproprio grosso, e spigoloso, da me opportunamente siglato con lamatita copiativa (che faceva parte del mio corredo insieme con notes,carte topografiche e binocolo) e ordinai che lo portassero al caposal-do.

I pietroni servirono: nessun alleggerimento abusivo fu riscontratoin seguito. Ma forse servirono anche le sparatorie in cui si trovaronocoinvolti. Oltremodo educative.

8.2.43 XX – Stamane l’attendente viene a svegliarmi all’ora solita.Gli dico di sparire fino alle dieci e mi rimetto a dormire. Alle diecifaccio recapitare un biglietto al capitano: mi sento poco bene.Mezz’ora più tardi vedo arrivare l’infermiere con tanto di sale inglesee termometro. Il capitano, con uno spirito che non gli è usuale,dimostra di stare al gioco. Tiro fuori una faccia compiaciuta e dicoall’infermiere di prepararmi la pozione, di posare il tutto lì, sullacassetta d’ordinanza, e di lasciarmi solo perché ho qualcosa dascaricare. La pozione finisce dentro la stufa.

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18.2.43 XX – La penna sul cappello fa parte della nostra uniformeperciò uniforme è per tutti: lunga diciotto centimetri, inclinata comela lancetta dell’orologio tra l'una e le due. Queste le regole e nessunoalla Taurinense si sogna d’infrangerle.

Esco dalla tenda e vedo i soldati con la penna girata in avanti.Vanno, vengono, fanno quello che devono fare, tranquillamente,serenamente, ma hanno la penna girata in avanti, diciamo ad oredieci. Tutti. Pazzia collettiva? Ammutinamento simbolico? No, queglialpini sono semplicemente in linea con la tradizione: la deca è inritardo di sette giorni ed essi hanno il diritto di “chiamarla” con lapenna girata.

Parliamo ancora della penna. Alle manifestazioni si vedono penneesageratamente lunghe e penne esageratamente inclinate. Segnalanocoloro che sono esageratamente afflitti da infantilismo e/o daesagerati complessi d’inferiorità. Compatirli. E compatire i poverettiche esibiscono cappelli pieni di cianfrusaglie.

20 febbraio 1943 – L’Aiutante maggiore, carte topografiche eordini di operazioni alla mano, ha calcolato i chilometri da noi copertiin questo primo anno di Iugoslavia. Coperti a piedi, naturalmente,esclusi quindi gli spostamenti in camion e treno.

– Sono quattromila, ci dice a fine pranzo e c’invita ad un brindisiorgoglioso e beneaugurante. Sì, sono quattromila e il calcolo,prudentissimo, ha considerato solo i percorsi ufficiali e teorici dapunti di partenza a punti di arrivo, non le deviazioni avvenutedurante detti percorsi. Cin cin!!

Lo spumante – roba che viene da Zara – va giù volentieri e losentiamo meritato. Quattromila chilometri sono quattromilachilometri. Un bel totale e una media giornaliera stupefacente.

Spontanea ci nasce dentro una domanda: ma c’è, in questa bene-detta Iugoslavia, qualche cima, qualche passo, qualche paesucolo cheancora non abbiamo toccato?

I prossimi mesi s’incaricheranno di risponderci.

STORIA SCOLPITA – Dopo marce infinite tra boschi e rocce, dopocupe notti passate all’addiaccio (eravamo partiti con cinque giorni diviveri a secco e gli zaini adesso sono vuoti), incontriamo segni di vitaumana: una mulattiera e quattro case. Certo siamo arrivati ai confinidel mondo. Invece ecco un cippo con una scritta in latino: siamoancora dentro l’impero romano. Impero romano fin qui! Nessun librodi storia era riuscito a darmi un’idea così concreta della sua vastità.

Il cippo è bello, massiccio, ben conservato, la scritta è leggibilis-sima, ma non faccio in tempo a copiarla: da laggiù ci sparano.

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PUNTATA ESPLORATIVA – Da qualche settimana il rancio erascarso, troppo scarso per le nostre giovani pance che continuavano abrontolare; vane erano risultate lamentele e proteste, così quellamattina decisi di passare ad una provocazione: – Sergente, passa lavoce che cerco volontari per un giretto qua intorno a procurarequalcosa.

A procurare qualcosa, come dire a portare via qualcosa a qualcu-no. Azione non propriamente militare, questa, ma avrebbe scatenatoun putiferio in alto loco e richiamata l'attenzione sul cosiddettobenessere della truppa.

Il sergente non fece una piega; ma certo pensò che dovevo avereun bell'appetito in corpo se rischiavo un "giretto là intorno”: in quellazona allontanarsi dal caposaldo, anche solo di poche centinaia dimetri, significava giocare con la pelle.

Ma allora anche i volontari che pochi minuti dopo mi si presenta-rono davanti dovevano avere un bell'appetito in corpo. Erano propriogli uomini che mi aspettavo, uomini che avevo ben conosciutodurante quell'anno di guerra. Ma era solo l'appetito che li portava lì?solo l'appetito? o non piuttosto anche un certo spiritaccio alpino etanta voglia di stare con la spavalderia del loro tenente?– Oltre quella sella la carta dice che c'è un falsopiano con case sparsequa e là: facendo un giro di un paio d'orette le toccheremo un po' tuttee qualcosa salterà fuori, qualcosa da mangiare. Non so, di là, com'è lasituazione e chi potremo trovare; so che noi saremo soli, soli con lenostre armi e le nostre gambe. Qualche domanda?– Andùma, siur tenent, ca l'è tardi.

Così, colpo in canna e zaini speranzosamente vuoti, partimmo.– Io non so niente, mi aveva detto il capitano, e per quel che mirisulta tu vai a fare una puntata esplorativa.

Dopo mezz'oretta arrivammo alle prime case e non ci fu difficilefar comparire qualche chilo di patate e litri di rakìa. Maggior faticanon durammo alle seconde case, alle terze e così via, sicché alla finedel giro gli zaini erano quasi gonfi e le borracce quasi piene.

Non vi dico gli onori che i commilitoni rimasti al caposaldo feceroa quei poveri viveri in offerta speciale e non vi dico quanto eroi cisentimmo noi della puntata esplorativa. Quelli i tempi. Facilissimocondannare oggi ed io sono con voi. Ma una provocazione ci voleva: ilproblema sarebbe scoppiato e, d'altra parte, i borghesi sarebbero statirisarciti.

Il piano funzionò e difatti i guai per il sottoscritto cominciarono ilgiorno dopo, di primissimo mattino, con una convocazione urgente alcomando di battaglione.

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Guido Allasia

Il maggiore era fuori di sé: – Egregio signor tenente! Avete vistoquel mucchio di borghesi là fuori? Bene. Quei borghesi sono qui aprotestare per quello che avete combinato ieri.

Proprio così disse: per quello che avete combinato ieri. Nonponeva domande, il signor maggiore, non soffriva di dubbi: era sicuroe informatissimo. Le cose andavano come volevo, ma ancora midomando come avessero fatto a individuarmi così presto e così bene.– Il fatto è, signor maggiore, ...– Silenzio! – urlò quello, che ad onor del vero non mi aveva interro-gato. E mi piantò addosso due occhi così. Chiusi il becco (con un certosollievo, debbo confessare: che cosa avrei potuto dire? Rivelare ilpiano? Giammai!) e mi rifugiai in un impeccabile attenti.

Rimanemmo lì, egli con gli occhi piantati addosso a me, io dritto eimbaccalato, per un'eternità.

Poi, ad un tratto, l'imprevisto: il fuoco di quegli occhi si spense edio mi sentii guardato in maniera diversa; come se fossi stato unapersona normale, per intenderci, e non un bieco sovvertitore dellesacre leggi militari. Forse che il rigido ufficiale di carriera, cresciuto amanuali, disciplina e via gerarchica, da sempre convinto chel'iniziativa personale consiste nella più stretta osservanza degli ordiniricevuti, era stato folgorato e cominciava a considerare la pattugliamatta con mente diversa?

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Pareva di sì. In fondo, e qui tento di ripercorrere le tappe della suavia di Damasco, in fondo quella matta, appunto, puntata esplorativaaveva sì rotto con i rigidi canoni della naia, aveva sì scompigliato unapolitica di (improbabile) convivenza con i borghesi, però era andatabene: nessuna perdita per noi, riflessi positivi sul morale della truppa,sorpresa completa per gli "altri", addirittura una beffa, con granesicure per qualche loro comandante; i quali altri, che certo nons'erano lasciati fuorviare dalla messa in scena delle patatine portatevia, a quell'ora stavano senza dubbio ponzando sulla faccenda perscoprire che cosa nascondesse veramente.– Ditemi un po': erano volontari quegli alpini?– Dal primo all'ultimo, signor maggiore. Sedici. Sedici perché hopreso solo quelli che ritenevo sufficienti. Sufficienti a procurarequalcosetta ai commilitoni affamati.

Mi guardò con un'espressione ancora cambiata, come a soppe-sarmi.– Certo, parve concludere, un sottotenentino che riesce a trovarsitanti volontari per un'impresa così spericolata non può essere uncattivo ufficiale.– Il fatto è, riprese il maggiore dopo tutte quelle cose che non miaveva detto e non accorgendosi che riapriva il discorso con le paroleche prima mi aveva troncato in bocca, il fatto è che quella gente ha giàinformato il colonnello.

Tacque e mi lasciò il tempo di afferrare il concetto. Colonnello,cioè comandante di reggimento, cioè inchiesta. cioè risarcimento amio carico, equo cioè salato, cioè relazione al generale comandante ladivisione. Via gerarchica completa, insomma. La Taurinenseintendeva fare la sua guerra rispettando le regole. Concetto afferrato.E accennai di sì. Allora il maggiore abbassò gli occhi e disse: – Tucapisci che devo fare rapporto.

Voi pensate quello che volete, ma io sono sicuro che con quel "tu"fuori ordinanza l'ufficiale superiore chiedeva comprensione a unsubalterno come me.

Il rapporto fece la sua strada e pochi giorni dopo mi giunse l'inevi-tabile "riservata personale" da parte del colonnello.

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Sette giorni di arresti semplici: punizione prevista e più che meri-tata. Però il destino perseguita i grandi uomini e il mio generososacrificio era stato declassato ad incapacità professionale. Mabisognava salvarmi dalla premeditazione, che avrebbe comportatoben altro. Anche qui il revisionismo sarebbe utile: dimostrerebbe cheil piano riuscì e che noi cominciammo ad avere razioni sufficienti eviveri di conforto.

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Questi sette giorni di arresti semplici mi angosciarono pertrent'anni e sei mesi, poi giunse il condono liberatorio e nella mia vitatornò la serenità. Leggere qui avanti per credere.

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2 marzo 1943. Arriva un ufficiale paracadutista: – Cerco uominiper la Folgore. Chi aderisce parte subito per l’Italia.

Mi lascio tentare e apro il discorso con i miei alpini: – Ma, signortenente, non vi sembra di fare già abbastanza qui, per la Patria,badando a noi?

L’argomento è decisivo e chiude il discorso. Subito dopo chiuderòquello con il paracadutista. L’argomento decisivo, e profetico, miverrà in mente a Kobìla, il 15 settembre.

5 marzo 1943 – Cara mamma, se vuoi continuare a ricevere mielettere, mandami francobolli. Nilo

PASSAPAROLA – Nova Varos, 7 marzo 1943La mia stanzetta nella baracca è separata da quella del capitano

comandante interinale della compagnia da una parete di assisconnesse e molto sottili. Una mattina mi sento svegliaredall’attendente: – Signor tenente, il signor capitano manda a dire chefra mezz’ora giù in paese c’è la messa.

Finisco di svegliarmi e rispondo: – Va bene, ma io non sono diservizio e rimango a letto.

L’attendente, ora in funzione di portaordini, va alla porta e riferi-sce all’attendente portaordini del capitano: – Il tenente Pes ha dettoche non è di servizio.

L’attendente del capitano fa tre passi e ripete al capitano: – Iltenente Pes ha detto che non è di servizio.

Ricordo che il capitano ed io siamo praticamente a fianco a fianco,divisi da quattro assi sconnesse, per cui uno sente respirare l’altro.Così sento il capitano dire: – Di' al tenente Pes che venga a messa.

Sento quel portaordini ripetere al mio: – Il capitano ha detto cheil tenente Pes venga a messa.

Sento il mio che mi ripete: – Signor tenente, il capitano ha dettoche vada a messa.

Dico al portaordini: – Di' al capitano che oggi non sono di servizioe che me ne sto qui a riposare.

Sento quest’altro mio discorsetto ripetuto due volte: – Ha detto ilmio tenente che … Ha detto il tenente Pes che … E sento il capitanoche dice: – Di' al tenente Pes che dopo messa lo aspetto a rapportodal maggiore.

Sento l’altro portaordini che ripete al mio, il mio che ripete a me emi sento dire: – Ordine ricevuto.– Ordine ricevuto.– Ordine ricevuto.

Così alle undici e qualcosa di quella domenica solatia, sono con ilcapitano davanti al maggiore. Che, udito il motivo di quella nostra

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presenza, chiede conferma e mi congeda. Ma anche qui le assi sonosconnesse e la vociona del maggiore non solo investe il capitano madilaga per le stanze. A darmi ragione.

Un’ora dopo, a pranzo, pago da bere al capitano. Mostra di avernebisogno. Da quel giorno non ho più perduto una messa: il regolamen-to è una cosa, il mondo taurinense un’altra.

10 marzo 1943Mi sono portato da casa un cannocchiale che faceva parte di chi sa

quale strumento di lavoro del papà e un nostro falegname l’ha fissatoal moschetto con una montatura di legno. Ora si tratta di imprati-chirmi con il tiro. Per la mira debbo tenere l’occhio quasi attaccato alcannocchiale stesso e al momento dello sparo, al fine di evitare ilcolpo del rinculo, mi tocca girare la testa. Addio precisione. Quandoho voglia di ammirare il panorama, smonto il cannocchiale el’appoggio su un vasetto posto in cima ad un palo piantato a terra edho una base girevole meravigliosa. Davvero qualche volta il mioingegno mi stupisce.

Ultima dell’attendente. L’ho trovato sotto la tenda, accoccolato aterra, che passava e ripassava la pila accesa su un paio di miei calzetti.– Ma che fai?– Li asciugo, siur tenent.

La penultima? L’altro giorno mi ha lavato il sacco a pelo col sapo-ne da barba.

La terz’ultima? Col plotone ero distaccato molto lontano, al Capo-saldo A, collegato alla compagnia con filo telefonico. Lo sentiirispondere: – Pronto! Qui camposanto A.

Scongiuri d’obbligo. Terque quaterque eccetera.

16 marzo 1943 – Ho il pollice gonfio per un patereccio e vado dalmedico. Questi guarda e riguarda quasi con ammirazione:– Sai che è grande? Sai che non ne ho mai visti di simili?

La cosa non m’inorgoglisce e glielo dico. Non replica (sa che dame può aspettarsi ancora del buon tè) e comincia un monologoprofessionale: taglio verticale? parallelo al bordo superioredell’unghia? taglio grande? due tagli piccoli?

Il tutto accompagnato da pensosi scotimenti di testa. Alla fine, ladecisione: – Taglio parallelo. Sì, è il migliore: resterà una cicatricemeno visibile e nessunissima difficoltà a sparare.

Già, bisogna sempre pensare alla Patria. Però però, cicatrice vabene, ma sparare? Come potrebbe, una qualunque cicatrice al pollice,darmi fastidio a sparare? Potrei farlo anche senza pollice. Questidottori! Il nostro, poi, che si vanta di non aver mai aperto la fondinadella sua pistoluccia da quando siamo qui. Tengo questi pensieri perme: mica sono fesso.

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Quello chiama due soldati, anzi tre.– Tu sei robusto e forse neanche tre basteranno a tenerti fermo.– Non ne voglio neanche uno.– Neanche uno? E se ti muovi?– Non mi muovo.

Premo il pugno sul tavolo, pollice dritto verso l’alto, e chiudo gliocchi: – Parti!

Parte e non vi dico l’allegria. Ma anche la soddisfazione di averce-la fatta da solo, senza anestetico e mani che mi tenessero.

Dal 1951 non sparo un colpo, ma non per colpa della cicatrice.Questi medici!

Nota. Altri interventi professionali del nostro simpaticissimo medi-co di compagnia nei miei confronti:1 – Un violento getto d’acqua dentro l’orecchio, fatto con una siringo-na, e che tappo di cerume mi schizzò fuori!

– Mi domando se l’altro giorno hai sentito che ti sparavano addos-so, fu il commento del siringatore.2 – Una iniezione prima di farmi caricare, con un febbrone sopra i 40gradi, su un mulo e avviarmi all’ospedaletto più vicino, dove giunsidopo quattro ore a bordo del suddetto mulo e un’altra ora di autocar-retta. Il dolore non mi spezzò la testa, ma il delirio che ebbi quellanotte! Urla e smanie da pazzo; quattro alpini dovettero sudare lequattro proverbiali camicie per tenermi a letto. Questo almeno mi furaccontato un paio di giorni dopo.3 – Malato d'itterizia, mi fece caricare sull'automezzo dei feriti cheandava a Ragusa. Sul carro bestiame che ci portava verso la Germaniaimpose per me, sempre con itterizia, la brandina.4 – In campo d’internamento, a Sandbostel, mi sottopose ad autoemo-terapia: mi estrasse sangue dalla vena e me lo iniettò intramuscolo: miavrebbe fatto passare gli edemi da fame. Solo gli edemi, purtroppo.5 – Sempre a Sandbostel mi “prescrisse” zoccoli di legno.6 – A Wietzendorf mi “prescrisse” il "ricovero" all'esterno.

18 marzoSono arrivate le ultime reclute del 1923 e mando il sergente a

prelevarle giù in paese.– Accogliamole bene, gli dico. Invece di seguire la mulattiera con isuoi morbidi tornanti, portale su dritte dritte.

Il sergente afferra il concetto ed i poverini arrivano al caposaldocon i polmoni che scoppiano. Gli faccio fare zaino a terra e spiego:– Questo è il nostro benvenuto. È il benvenuto con batticuore che glianziani usano riservare alle reclute. La tradizione va rispettata perchéè forza. Ecco, il vostro debito alla tradizione l’avete pagato e da qui inavanti nessun anziano vi farà più uno scherzo.

Così avverrà: soddisfatti gli uni, soddisfatti gli altri. Che vi dicevodella tradizione?

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1943 - Nova Varos: ten. col. Armando Farinacci,fratello del gerarca, e Nilo Pes

giugno 1943 - risveglio e colazione

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Questo episodio mi porta in mente, adesso che scrivo, un tirofuori ordinanza giocato da un alpino ad un altro alpino.

IL PERMESSO – L’alpino Del Fiol, classe 1913, scese di corsa dallacamerata: era in ritardo per la distribuzione dei permessi, ma avevapur dovuto cucire i tre bottoni che qualche bastardo gli avevastrappato dalla giubba buttata sulla branda mentre lui si trovava ailavandini. Chi poteva avergli combinato quello scherzo? A un anzianocome lui! L’avrebbe trovato, quel cane, sicuro che l’avrebbe trovato, eallora …

Adesso però doveva correre.Giunse alla fureria che il tenente ne stava uscendo.

– Il permesso? Quale permesso? – chiese l’ufficiale quando ebbefinalmente capito ciò che voleva dire il Del Fiol che, per la rabbia deibottoni ed il fiatone della corsa, era diventato più balbuziente delsolito.

Era, l’ufficiale, un sottotenentino giovane giovane, giunto alreparto l’altro ieri; ancora non s’era abituato alla balbuzie diquell’alpino, e meno ancora al suo atroce strabismo, e adesso stava lìa fissargli l’occhio, quello quasi bianco. Ma si fece forza e continuò: –Li ho distribuiti tutti, i permessi.

L’alpino aprì un paio di volte la bocca, mentre le vene del collo glisi ingrossavano: voleva dire che il suo permesso ci doveva essere, cidoveva essere senz’altro, provasse a guardare un momentino infureria. Voleva dire. Ma si arrese e ripiegò sul proprio nome ecognome.– Del Fiol? Ah, sì, Del Fiol. Ricordo benissimo quel permesso.

E, mentre il viso del soldato accennava a spianarsi in un rassicu-rato sorriso, aggiunse: – Consegnato. L’ho consegnato.

Il tenentino aspettò un momento, forse una parola – che nonvenne – poi riuscì a sottrarsi al fascino dell’occhio puntato contro ilnaso e se ne andò.

Del Fiol rimase lì, incredulo. Il tenente si sbagliava. I tenentinigiovani si sbagliano sempre. Vuoi vedere?

Entrò in fureria dove c’era chi lo conosceva.Ne uscì poco dopo rosso in viso e gesticolante come un matto;

sempre gesticolando corse alla porta dove cominciò a parlare, si fa perdire, col capoposto, con questo, con quello, con quell’altro. E la veritàvenne fuori: il permesso l’aveva ritirato un suo paesano, Del Fiolanche lui, quel maledetto, classe 1919.

La scoperta del colpevole e l’enormità del fatto (strappargli anchei bottoni per farlo arrivare in ritardo!) fecero scendere una gelidacalma nell’animo della vittima. Smise di agitarsi e, passo dopo passo,arrivò allo spaccio.

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A quell’ora era deserto, proprio come lui desiderava, e sedettetranquillo davanti a un mezzo litro: doveva pensare, sicuro chedoveva pensare, il bastardo che l’aveva fatto fesso doveva pagarlacara; carissima doveva fargliela pagare (neanche un momento pensòdi mettersi a rapporto con i superiori e denunciare il fatto: certe coseun alpino se le sbriga da solo). Doveva pensare e aveva un mucchio ditempo a disposizione. Tutto il tempo che ci voleva.

E di tempo ne ebbe a sufficienza. Il sabato finì, passò la domenica,giunse il lunedì. Alle sette, ora di scadenza del permesso, l’altro nonera rientrato. E neanche a mezzogiorno. Poteva essere in caserma perla ritirata delle ventuno, si seppe dopo, ma disgraziatamente gli capitòdi fermarsi nell’osteria vicina fino a mezzanotte. Gli amici, si sa.– Va a metterti in tela! – gli ordinò l’ufficiale di picchetto appenaebbe visto il permesso scadutissimo.

– E torna subito qui.Il Del Fiol classe 1919 raggiunse la branda, ci si stese sopra e con

la stanchezza che aveva addosso si addormentò come un bambino.Un quarto d’ora dopo il capoposto, ordine del tenente arrabbiatis-

simo, buttò dalla branda il Del Fiol classe 1913 che dormiva il sonnodel giusto e del fregato e, in tela, lo schiaffò in prigione a farsi ottogiorni di rigore perché “rientrato dal permesso con sedici ore diritardo”.

Neanche adesso denunciò il fatto, l’infelice, neanche adesso “fecela spia”, perché continuava ad essere un alpino, ma dalla prigionemandò a dire che “quello là” si tenesse pronto: un colpo di baionettain pancia non glielo avrebbe levato neanche il colonnello.

Così mandò a dire e “quello là” cominciò a pensare che forse forsel’aveva combinata troppo grossa e che conveniva far qualcosa percalmare le ire del prigioniero. Così, insieme con tante belle parole, glifece pervenire un fiasco di clinto e un pezzo così di formaggio, che aquei tempi era oro.

Risposta: – Ba … ba … baionetta!!Minaccia confermata, insomma, confermata a ondate successive.Chi sa come sarebbero andate a finire le cose, se non fosse scop-

piato l’otto settembre con tutto quello che si portò dietro: e corri escappa, e scappa e corri, e ognuno a casa zitto e svelto e, dopo, iTedeschi, eccetera eccetera. Con quelle storie e con quelle confusioniil colpo di baionetta non venne più e oramai si può ragionevolmentesupporre che neanche più verrà.

Ma può capitare che in qualche lunga serata d’osteria, quando ilvino è buono e i discorsi girano lenti e piacevoli perché la compagniaè quella giusta, può capitare, dico, che qualche provocatore tiri fuorila storia del permesso.

Allora li vedi, i due, farsi improvvisamente seri ed evitared’incontrarsi con gli occhi, fingendo magari di essere occupati, che so,

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a finire il bicchiere o a pulire la pipa, e mostrare di non gradire ildiscorso, per fare intendere che la partita non è chiusa.

Ma si vede benissimo che recitano. Recitano per dare la giustaimportanza ad un fatto che, in fondo, li rende orgogliosi: arrangian-dosi l’uno e non lasciando correre l’altro, hanno entrambi agitosecondo le sacre leggi della naia alpina. E ditemi se è poco.

26 marzo XXIAndiamo a liberare il Btg Aosta bloccato a Foča (si pronuncia

Focia). Lunghe marce di avvicinamento, sempre più caute. Un tardopomeriggio, dopo piantate le tende, sistemate le postazioni e stabiliti isettori di tiro, faccio un giretto: è ancora presto e voglio riconoscere ilterreno.

Siamo abbastanza in alto, tra alberelli e rocce, e, dopo qualchecentinaio di metri, vedo una grotta. Entro: è una galleria naturale altae ampia, con pareti irregolari. M’inoltro e dopo una quarantina dimetri arrivo ad una curva. Di là, subito buio. Faccio qualche passo,poi mi fermo per accendere uno zolfanello. Alla fiamma vedo chetrenta centimetri davanti ai miei piedi si apre un precipizio. Avessifatto un passo in più, non sarei qui a raccontarla.

Torno indietro, prendo dalla fureria la Primus, lampada a pres-sione che dà luce intensissima, e, accompagnato da due alpini, rientronella grotta.

Il precipizio si perde nel buio nonostante la lampada, e un sasso cimette il suo tempo a far sentire l’ultimo colpo. Nessuno laggiùsarebbe mai arrivato a cercarmi. Ancora un passo e di me, scartatal’assunzione in cielo, sarebbero rimaste tre ipotesi: incidente, cattura,diserzione.

Tre ipotesi e il commento dei colleghi: “Pes ne combina semprequalcuna”.

In verità fu una grossa incoscienza, dico adesso, inoltrarmi dasolo in quella grotta; e altre grosse incoscienze furono la puntataesplorativa (pagina 102), seguire le orme dell’orso al Goli Vhr (11aprile 43) e girare con l’asina il 7 settembre. Mi andarono bene, magiuro che in futuro sarò più cauto.

Vicino a Foča passa la Drina e da una sponda all’altra del fiume èteso un cavo d’acciaio a qualche metro sopra il livello dell’acqua; suquesta c’è uno zatterone rettangolare con i due angoli del lato piùlungo attaccati con catene a due carrucole che corrono sul cavo; lecatene vengono regolate in modo che il lato più lungo e il lato piùcorto dello zatterone presentino la stessa inclinazione alla corrente(notevole, in quel punto). Vince la spinta ricevuta dal lato maggiore ecosì lo zatterone viene spinto verso la parte del lato minore. Giunto

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all’altra sponda, il conduttore inverte la lunghezza delle catene e tornaindietro. Funziona, ho provato col plotone.

La mia compagnia dà il cambio ad una del Bolzano che due nottiprima aveva subìto un pesante attacco. Sistemiamo le postazioni amodo nostro: abbiamo imparato ad essere esigenti e pignoli e glialpini non protestano mai quando c’è da lavorare per questo scopo.La pelle val bene una sudata.

La mattina dopo compare un cucciolo di capriolo, tentennantesulle esili gambe; certo ha perso la madre. Voi che avreste fatto?Sarebbe morto lo stesso.

Comincia una serie di giorni calmi e di notti inquiete: intorno siavvertono minacciose presenze.

Foča è oltre la vallata, alla nostra altezza, due o trecento case enon un movimento, non una persona: hanno imparato a non offriretentazioni ai cecchini.

Giorni calmi, dicevo prima. Quindi noiosi. Voglio dare un’occhiatain giro e scendo in direzione di Foča. Case qua e là. Tutte abbandona-te. Entro in una. Ordinatissima. Entro in un’ altra: tutto rovesciato,rotto, sparso sui pavimenti. In una stanza ci sono mucchi di libri aterra. Ne prendo uno: cartapecora, rilegatura accurata, miniature,colori stupendi, scrittura cirillica. Così centinaia d’altri. E, qua e là,rotoli di pergamene. Un tesoro. Esco, riservandomi di tornare. Ilgiorno dopo vedo un bambino che esce dalla casa con una copertasottobraccio.– Pope, mi dice e indica la casa.– Pope, ripete e con la mano fa il gesto di tagliarsi la gola.

Pope, zac e la coperta è mia. Sono freddi gli inverni da questeparti.

2 aprile 1943 – È scomodo muoversi nella boscaglia con il fucile:c’è sempre un rametto che ti si mette di traverso, sia che tu porti ilfucile a spalla, sia che tu lo porti bilanciandolo a mano. Oggi ho vistoun cetnico ed è stata una rivelazione: portava il fucile impugnando lacanna dopo aver passato la mano sotto la cinghia.

Lo imito e il fucile mi segue come un cagnolino bene addestrato.Provare per credere. La cinghia posa sull’avambraccio e con la manopuoi fare quello che vuoi: avvicinarla al corpo, portarla avanti,scegliere la strada tra i rami, alzarla, abbassarla e il fucile nonincontra più ostacoli. Anche spalancarla puoi, la mano, e la canna tiresta attaccata al palmo per via del peso del calcio. Fucile di Colombo,insomma. Da oggi la mia guerra si fa meno scomoda.

Ho visto quel cetnico usare la selce per accendere il fuoco: unpezzo di selce in una mano tra pollice, indice e medio, un altro pezzodi selce nell’altra mano sempre tra pollice, indice e medio, un

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batuffolo di muschio e rapidi colpetti: le scintille cadono sul muschio,i fili si arrossano, soffiatine ed ecco la fiammella.– È semplicissimo, mi ha spiegato il cetnico: basta trovare la selcegiusta, spezzarla a pezzetti giusti, scegliere il muschio giusto, tenerloasciutto al punto giusto, porlo a distanza giusta, dare colpetti giusti,soffiare al momento giusto ed alimentare la fiammella con combusti-bile giusto.

Adesso provate anche voi: è semplicissimo.Sotto i rami di un abete che toccano terra (ottimo nascondiglio, in

teoria) un soldato trova un Mauser.Un Mauser! Finalmente posso avere tra le mani il fucile che tanto

ci perseguita. Ossessivo il suo ta-pum quando te lo senti addosso,come ci capita troppo spesso.

Quando ti sparano contro, sia detto per chi non l’ha provato, nonsenti ta-pum, ma ta-sibilo della pallottola-pum. Fa un certo effetto.

Era stato bene avvolto con stracci oleati e si presenta lucido einvitante. Giunti al mio caposaldo voglio provarlo. Mi occorre unbersaglio. Sono su un’altura che domina e difende Plevlja e alle spalle,oltre un avvallamento di due o trecento metri, si stende un falsopianoerboso costellato di spuntoni di roccia. Ecco, devo scegliere la rocciagiusta: la polvere sollevata dalla pallottola mi avrebbe indicato doveesattamente era finito il colpo.

Pettino la zona con gli occhi ed ecco la mia roccia. O quest’altra?No, meglio questa. Soddisfatto, aziono il meccanismo di caricamento– come scorre morbido e silenzioso! – e prendo la mira. In quelprecisissimo istante la roccia si muove! Vi dico che si muove: la vedocrescere e ondeggiare come se volesse andare verso destra! Sono io arimanere impietrito. Afferro il binocolo: ma quello è un bambino! unbambino con addosso un maledetto mantello di lana grigia che lo fadiventare una roccia. Se avesse aspettato tre secondi sarei andatosotto processo come criminale di guerra: “uccideva un civile disarma-to”. Una bella grana quei tre secondi mi hanno evitato.

Ma forse forse la maggior fortuna l’ha avuta il bambino. Che peròmai potrà apprezzarla perché mai ne verrà a sapere.

11 aprile 1943 – Alle due ci svegliò uno scoppiare di bombe amano e di spari: laggiù, a tre chilometri, il Goli Vhr, la Cima Nuda,s’incoronò di rosso: il Fenestrelle era stato attaccato e si difendeva.All’alba ci avviammo ad aprirgli la strada.

Giunti a poca distanza, come da ordini, la mia compagnia siattestò. Io dovetti salire sul costone sopra la mulattiera per uncentinaio di metri. Mentre sistemavo in maniera opportuna il plotonenotai sulla neve grosse impronte. Di orso? Svegliato dalle sparatoriedella notte? Chi sa dov’era adesso. La curiosità mi spinse a seguirle. Sidirigevano senza incertezze verso Est. Ed io dietro. E dietro e dietro e

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dietro. Ad un certo punto mi trovai solo, solo, solo. Mi diedi del fessoe tornai sui miei passi. Eccoli, i miei alpini.

Sotto di noi cominciò a passare la 33a. L’amico sottotenente MarioPoli, di Cremona, mi salutò agitando un braccio – era appena tornatodalla licenza – e dodici minuti dopo ripassava in barella, fulminato daun colpo in fronte.

Finalmente cominciò a passare il Fenestrelle, che si era aperto lastrada puntando sul nostro appoggio. Ernesto Tron, comandantedella mia 31a (il capitano era in licenza), mi ordinò di stare diretroguardia.– Parti un quarto d’ora dopo di noi.

Furono i quindici minuti più lunghi della mia vita. Dopo le grandisparatorie era subentrato un silenzio angosciante: unico rumoreerano le manciate di neve marcia che ogni tanto cadevano dai rami.Ma ecco ricominciare le sparatorie. Alle nostre spalle! Addosso misentivo ottanta occhi. Allo scoccare del quattordicesimo minuto feciun cenno al sergente della terza squadra e quello fece alzare i suoiuomini; mezzo minuto dopo un altro cenno e quelli partirono.– Cento metri e piazzatevi!

Al quindicesimo minuto un cenno alle altre due squadre e via,ordinati ma rapidi. Sorpassammo la terza squadra, che ci seguì. Pocooltre cominciammo a vedere muli morti a terra – gli spari sentitiprima – e materiale sparso. Controllai se c’erano armi: nessuna.Proseguimmo e addosso ad un altro mulo c’era una cassettad’ordinanza. Ne scassai il lucchetto, rovistai dentro: niented’importante: non carte, non documenti, non armi. C’era un frustino,un bel frustino di pelle intrecciata; lo presi e qualche giorno dopo –avevo sparso la voce – il proprietario venne a prenderselo.

Allungammo il passo e con il plotone raggiunsi la compagnia.Oramai fuori del bosco, si camminava su prati coperti di neve.Camminavamo rapidi, molto rapidi e nessuno brontolava. Il dottoreogni poco si fermava, calava le brache, prendeva una manciata di nevee se la premeva dietro.– Emorroidi. Con la neve provo sollievo, spiegò il martire.

Durante la prigionia parlai con Tron del fatto d’armi del Goli Vhre lui mi disse: – Quando ti ordinai di stare lì un quarto d’ora ebbil’impressione di condannarti a morte.– E io di essere condannato, caro Ernesto.– In seguito ti feci una proposta di medaglia d’argento per avere tuportato a termine l’ordine di coprire le spalle al resto della compagniarallentando il nemico anche fino all’estremo sacrificio; l’ordine erastato dato in condizioni estreme e nessuno poteva controllare la suaesecuzione. Qui ti ripeto: hai agito con estremo senso di responsabili-tà di ufficiale comandante.

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E aggiungo che, se avessi avuto tempo e fureria, un’altra medagliaavrei proposto per il tuo comportamento al forte di Kobìla il 16settembre. Eri distaccato altrove e sei corso a raggiungere il tuoplotone buttato all’attacco senza ufficiale, neanche lì hai fatto sparareun colpo, ma hai salvato vite. Se non è eroismo questo ...

20 aprile 1943Le operazioni si stavano trascinando da oltre un mese, in zone

isolatissime, e da troppo tempo le nostre famiglie non ricevevanoposta. Per evitare incresciosi contraccolpi sul fronte interno (già incrisi per la recente tragedia di Russia), fecero pervenire alla fureria,via radio, una paginata di frasi, peraltro belle, varie e ovviamenteottimistiche, ognuna contraddistinta da un numero: scegliessimoquella che ci piaceva, la radio di battaglione avrebbe trasmesso ilnumero che la identificava al Comando d’Armata e le nostre famiglieavrebbero ricevuto un nostro messaggio per via telegrafica. Feci lamia brava crocetta sul numero della frase scelta e restituii il foglio.Erano le 12 e 30 del 19 aprile. Alle 14 e 35 del 24 aprile la mammaricevette un telegramma: “Testo numero Venticinque. S.tenente PesNilo”.

IL COLONNELLO – Nel corso dell’operazione di cui sopra – zonadel Durmitor, tentativo di incastrare Tito, nostra divisione qua,tedeschi là – il colonnello comandante di reggimento arrivò, a cavallo,nel settore affidato al mio plotone, ultimo a destra dell’intero nostroschieramento, proprio sull’orlo di un precipizio profondo centinaia dimetri e laggiù correva la Drina.

Dopo lo scambio di qualche parola, mi ordinò di seguirlo e via, noidue soli, via, lui davanti e io dietro. Poca importanza aveva in queiluoghi l’avanti o il dietro: i Mauser stavano intorno.

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Bello il cavallo bianco, ma com’erano rumorosi i suoi zoccoli inquel silenzio minaccioso! E avanti, sempre avanti: quella “puntatina”pareva allungarsi sempre più, per chi-lo-me-tri.

E ancora avanti. Non era coraggio, quello, ma imprudenza, unagrossa imprudenza, ed io lo sapevo bene, che da mesi vivevo quellesituazioni. Era una stupida imprudenza e così ad un certo punto lofermai (fermai il colonnello, intendo) con un alt più che deciso epretesi di precederlo oltre una selletta. Dalla quale ritornai qualcheminuto dopo con un preciso ordine: si torna indietro. Quel giocoaveva le sue regole – ero io che rispondevo di quel settore – ed egli miobbedì: – Signorsì, signor tenente!

Testuale. E non so quanto scherzasse. Qualche tempo dopo seppiche avrebbe voluto darmi il comando del costituendo plotone arditireggimentale. A mio sfavore giocò l’età: fu dato ad un collega del 1916.

18 aprile – Una mula sta male: ha la pancia gonfia come un otre ela pelle tesa come un tamburo. Il conducente, impensierito perchétutto gli può essere imputato, da un’ora la friziona con l’erba, la facamminare, la torna a frizionare . Inutilmente . Arriva il veterinario,guarda, tocca, penetra per il di dietro. Nulla da fare. Allora disinfettaben bene a un fianco, rade qualche centimetro di pelo e punta ilbisturi: forte e preciso. Un fiotto verdastro schizza in aria e la panciacale e cala e cala.– L’operazione è riuscita, dirà tre giorni dopo, e il conducente è fuoripericolo.

21 aprile XXI – Questa mattina tutti noi, ufficiali e truppa, ab-biamo fatto la comunione pasquale. E’ stato commovente e bello, così,in mezzo ai prati e tra gli alberi fioriti.

14 maggio 1943 XXI – Cara mamma, come forse hai sempresaputo, cinque giorni fa ho compiuto gli anni. Baci, Nilo

15 maggio 1943 XXI – La Divisione si è riunita nelle vicinanze diSarajevo e dopo quasi un anno rivedo Luciano Marus, di Fanna, che èal Btg Aosta. È appena tornato dalla licenza, durante la quale ha fatto25 giorni d’ospedale per enterocolite. È magro ma allegro. E conallegra ironia mi ringrazia per essere io corso a liberarlo quando eraassediato a Foča. Non lo rivedrò più: morirà a Udine a guerra appenafinita per malattia contratta in servizio e per causa di servizio. –Mandi, Luciano.

17 maggioDiecimila uomini e mille muli in riga per sei su una vasta prateria.

È la nostra divisione schierata. Uno spettacolo. Un generale tedesco ci

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passa in rivista. Giunto davanti ai muli dell’artiglieria, chiede divedere come viene scaricato ed apprestato un pezzo. Un ordine e indue minuti il pezzo è pronto per il tiro. Poveri ma bene addestrati, inostri soldati.

Dalle montagne laggiù in fondo certamente molti occhi ci guarda-no: spettacolo anche per loro?

Durante qualche serata tranquilla si cantava. Ecco la nostra

BELLE ROSE DU PRINTEMPS– Que fais tu là bas, ma jolie bergère?Que fais tu là bas, ma jolie bergère?– Moi je garde mes moutons blancs, belle rose,moi je garde mes moutons blancs, belle rose du printemps.

– Combien prend tu pour ton salaire?Combien prend tu pour ton salaire?– Moi je gagne mes cinq cent francs, belle rose,moi je gagne mes cinq cent francs, belle rose du printemps.

– Veux tu venir à mon service?Veux tu venir à mon service?Moi je t’en donnerai autant, belle rosemoi je t’en donnerai autant, belle rose du printemps.

Tu coucheras avec ma mère,tu coucheras avec ma mère,mais avec moi le plus souvent, belle rose,mais avec moi le plus souvent, belle rose du printemps.

– Oh, non, non, monsieur, il est pas possible,oh, non, non, monsieur, il est pas possible,c’est ma mère qui me le défend, belle rose,c’est ma mère qui me le défend, belle rose du printemps.

– N’écoute pas cette vieille femme,n’écoute pas cette vieille femme,à son temps elle a fait autant, belle rose,à son temps elle a fait autant, belle rose du printemps.

– Que fais tu là haut, mon joli chasseur ?Que fais tu là haut, mon joli chasseur ?C’est notre temps d’en faire autant, belle rose,c’est notre temps d’en faire autant, belle rose du printempsc’est notre temps d’en faire autant, belle rose du printemps !!

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22 maggio 1943 – Cara mamma, ricevo oggi la tua lettera con gliauguri per il mio ventiduesimo 9 maggio. Non l’ho passato male, main testa avevo sette idee diverse per passarlo meglio.

Eccoti una mia foto, scattata da un fotografo borghese; Renzo saràcontento perché la penna sul cappello si vede bene e non sembro unodella Guardia alla Frontiera.

Mia sorella mi vuole come padrino della figlia che aspetta? Perchéfare aspettare tanti anni un’infante prima di battezzarla?

Da due giorni sono rientrato alla base. I pidocchi sono morti tuttiperché ho fatto bollire anche il temperino. Ancora un paio di notti erecupererò tutto il sonno perso.

Ti unisco un bollettino che ti servirà per un pacco che mi mande-rai. Intanto di' a Renzo che cerchi a Pordenone una bussola tascabile,con relativa custodia in cuoio (marca Berhart). La mia si è rotta, nonposso farne a meno e qui non ne trovo. Costa cara (180 o 200 lire),ma può farmi trovare la mulattiera giusta e salvarmi la vita, che valequalcosa di più. Quindi, caro Renzo, non prenderne una da cinque lireche si smagnetizza alla prima nebbia. Baci, Nilo

23 giugno– Caro Renzo, cercami anche una borsa portacarte in cuoio.Nota. La lettera che segue, come tante altre, fu “Verificata per censu-

ra” (così è scritto sulle strisce di carta adoperata per richiuderla. Come daprassi, le fu impresso un bel timbro rettangolare in rosso: “Prelevato perla censura / il giorno 28 MAG 1943 / Restituito alle Poste ……. … C’èancora, sempre in rosso, un timbro rotondo con in grande il numero 28(indicante l’operatore), ripetuto tre volte. Un altro timbro rotondo:COMMISSIONE PROVINCIALE CENSURA e, al centro, un incomprensibile24R. Dalla lettera il frettoloso censore aveva strappato un angolo; loriattaccò con pezzi di due francobolli chiudilettera che torno tornoportavano scritto: FEDERAZIONE / PROVINCIALE / FASCISTA /FRIULANA; al centro, una spiga, un fascio, OPERE ASSISTEN/ziali,C(entesimi) 10. Alla consegna mio fratello dovette controfirmare sullestrisce di carta poste a sigillo (vedi la firma rovesciata: Pes Renzo). Datapostale di arrivo 30.5.43.

Guai se non ci fosse stata la censura: avremmo perso la guerra unmese prima.

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Vigilia di pasqua 1943. Benvenuti, cari capretti smarriti

SETE – Quando ci attaccarono, e ci bloccarono, su quella monta-gna, era quasi mezzogiorno e noi della Trentuno eravamo in marciadall'alba; era una giornata di luglio e le borracce erano quasi vuote. Asera, con la scatoletta ed una galletta buttate giù per forza tra unafucilata e l'altra, le borracce si asciugarono del tutto.

Sette volte ci attaccarono quella notte (e come le contammo,quelle volte!) e all'alba più d'uno cercò refrigerio alla gola seccaleccando foglie umide di rugiada.

Solo nel tardo pomeriggio riuscimmo ad aprirci la strada ed ariunirci al battaglione, che ci era venuto incontro, e continuammo acamminare per quattro o cinque chilometri con un passo si può beneimmaginare quanto rapido. Sempre sotto quel maledetto sole diluglio. Quando raggiungemmo il paese dove ci avevano detto difermarci ad aspettare ordini, avevamo la lingua come un pezzo dicartone. Mai patita tanta sete in vita mia.

Il portaordini sparì non so dove: aveva fiuto, quel ragazzo, e tornòcon la borraccia piena.– Acqua fresca e cognac, mi disse.– E tu?

– Già bevuto, signor tenente.Anche gli uomini del plotone che avevo staccato tornavano carichi

di borracce e di gavette gocciolanti. Allora mi sedetti a terra: passatala tensione, mi era venuta un'improvvisa grande stanchezza e poi lìc'era una bella erbetta morbida. Mi sedetti a terra con la schienacontro un basso muretto di sassi, poggiai i gomiti sulle ginocchia, la

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borraccia alle labbra e bevvi. Bevvi a sorsate lunghe, convinte,meravigliose. Smisi quando la borraccia fu vuota. Ero rinato.

Continuavo comunque a sentirmi stanco. Sempre di più. Tant'èvero che sull'autocarro che ci venne a prendere (cosa mai successa intutta la mia naia alpina; evidentemente gli alti comandi avevanogiudicato quella faccenda piuttosto grave), sull'autocarro, dunque, miaddormentai: seduto a fianco dell'autista, testa appoggiata al vetrodella porta, moschetto fra le gambe, mi addormentai come unfanciullo.

Durante il viaggio ci spararono addosso, l'autocarro si fermò,autista e soldati si buttarono nei fossi, risposero al fuoco ed iocontinuai a dormire.

Soltanto quando arrivammo all'accampamento mi svegliai, frescocome una rosa, ma i soldati dovettero mostrarmi i buchi dellepallottole sul telone perché gli credessi. Qualche tempo dopo, ilportaordini venne fuori a dire che, quando mi aveva detto che laborraccia era piena di acqua e cognac, aveva inteso dire acqua ecognac, metà e metà.

Ve l'immaginate la motivazione dell'immancabile medaglia se miavessero fatto secco? "Nonostante il violento fuoco nemico, rimanevaimpavido al proprio posto di combattimento”.

Guido Allasia

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2 luglio 1943Sono plotone di testa e dal comando battaglione mi arriva, tra-

smesso con la bandiera a lampo di colore, un messaggio dell’artiglieria: -Dobbiamo bombardare cima 630. Alle 17 spareremo uncolpo e vorremo sapere dove arriva. Siccome detta cima non è visibileda vostra posizione, rivolgetevi a civili del posto, che giudicheranno aorecchio.

Trovo un anziano e al primo colpo riferisco il suo giudizio:– Colpo lungo di trecento metri.

Al secondo: – Colpo corto di duecento metri e spostato di centoverso ore 10.

Al terzo: – Colpo spostato di cinquanta verso ore 3.Tutti i colpi, sia detto fra noi, ci erano passati poco sopra la testa.

Poco poco. Poco pochissimo. Smiagolando atrocemente.Dopo la mia terza risposta, silenzio.Nel 1951 fui richiamato a Tarvisio e un giorno ci portarono a

visitare reparti di artiglieria sistemati ad Aviano. Qui parlando con uncapitano saltò fuori che era stato lui a sparare quei colpi e che le mieinformazioni erano state sballatissime.– Ma non sai che quando noi facciamo forcella, collochiamo ilproietto avanti o indietro con uno scarto di pochi metri? E tu parlavidi centinaia! Ecco perché abbiamo smesso.

Proprio così disse il capitano: “Collochiamo il proietto”. Come si“colloca” un soprammobile, con occhio, precisione e buon gusto.Quando si dice professionalità.– Caro artigliere, sballatissime le mie informazioni? Solo perchésballatissime le tue richieste. Come si fa a giudicare ad orecchio? a fargiudicare da un orecchio civile? E poi su quella cima che dovevicolpire, il giorno dopo io ci sono stato e non c’era un segno, uno chesia uno, che lì avessero sostato reparti. Ma, a parte questo, avrestisparato a pallettoni come aveva fatto un mese prima, contro di noi,una vostra batteria?

Da quel momento, anche ad Aviano, silenzio. Come allora. Macome sanno tacere gli artiglieri!

Invece io parlo, parlo qui adesso, per chiudere – in modo genero-so – l'increscioso incidente del fuoco amico sopra noi e sopraricordato e dico che gli artiglieri, i signori artiglieri, avrebbero potutobenissimo indovinare che noi alpini avevamo sbagliato strada.

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Venne il 25 luglio e cadde il fascismo. Nessun clamore, fra noi.Eravamo lontanissimi dall’Italia e prevedevamo giorni poco rosei.Unico segno … politico furono le parole che un nostro alpino disse aduna Camicia Nera indicando i fasci con scure che aveva al posto dellestellette: – Quando ti togli le mannaie?

In vista di un lungo trasferimento, mi affidarono le salmerie dibattaglione, rimaste senza ufficiale. Una pacchia. C’erano grossicavalli da tiro ed io presi a montarne uno particolarmente mansuetoed a godermi tranquille trottate. Una volta tornai un po’ più tardi delsolito ed i muli già stavano in cerchio a mangiare, uniti fra loro con lecatenelle che avevano al muso. Il mio cavallo non obbedì più alletirate di briglia: anche lui doveva essere in quel cerchio, anche a luispettava la sacrosanta razione di ènergon.

I muli sono animali docili e buoni, l’abbiamo già detto, ma nonavvicinarli per di dietro quando stanno mangiando: sono rafficheassassine di calci.

Tre sono i posti buoni sotto la naia e questo già lo dicevano aitempi di Carlo Alberto: davanti al mulo, dietro il cannone e lontanodal superiore. Il cavallo, che tale sagge norme ignorava, affrontò ilcerchio delle terga nervose, suscitò una tempesta di reazioni, mariuscì ad infilarsi indenne tra due muli e ricevette trionfante la suameritatissima musetta di ènergon. Io, inguaribilmente ligio alleregole, rimasi in groppa al cavallo fino a quando, a musette vuotate, ilcerchio venne sciolto. Fossi morto per un calcio di mulo non miavrebbero dato alcuna medaglia. Seccante.

Aveva una valigetta nuda e cruda e così gli offrii vitto e alloggio.Parlo di un sottotenente dell’Autocentro che, rientrato dalla licenza,non aveva più trovato il suo reparto e si era unito alla nostra colonnaper tentar di raggiungerlo in qualche posto. Vi giuro che non sapevadove.

Durante lo spostamento, con lui divisi mensa e tenda ed egli sisdebitò parlando, parlando, parlando. Brandina mia qua, brandinasua là, candela accesa in mezzo, notte buia e minacciosa fuori,parlava.

Argomento primo erano le Millemiglia, ad una delle quali dicevadi avere partecipato in qualità di navigatore. Era sottotenente comeme, ma aveva qualche buon annetto in più, quindi anagraficamente lacosa era possibile. I suoi racconti, imbevuti di aneddoti, di terminitecnici, di tempi intermedi, di fari nelle notti, di Nuvolari, masoprattutto di inesausta passione, mi facevano scoprire un mondoaffascinante, del tutto nuovo.

Dopo le Millemiglia, attaccava a parlare, male, degli alti ufficiali:carrieristi, incompetenti, presuntuosi, “i generali sono quello chesono perché li scelgono tra i colonnelli” e via infierendo.

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Sotto la naia il mugugno contro i superiori è sempre esistito, èparte istituzionale della stessa, è figlio legittimo e naturale dellagerarchia, che peraltro ne esce rafforzata. Il mugugno sì, ma certidiscorsi no, e quei discorsi rompevano con il bel pianeta anche perchélui, il tipo, aveva l’aria d’inventarseli per crederci e soprattutto non silasciava agganciare dalle mie contestazioni, alle quali, parole sue espiegatemene il senso, rispondeva con risatine di coccodrillo.

Qualche anno più di me e ancora sottotenente: era questo il moti-vo di tanta animosità?

Dopo gli alti gradi, ecco la lettura. E leggeva e leggeva e leggeva.Leggeva da un dattiloscritto di qualche decina di pagine, ogni serafinito, ogni nuova sera ricominciato. Leggeva a voce alta, convinta.Leggeva un “poema” in rima, grottescamente porno. Leggeva conpartecipazione accompagnata da risate, leggeva con intervalli disilenzi sognanti. E finiva per leggere totalmente dimentico di me.

Qualche anno più di me e sempre sottotenente. Era anche a causadi questa passione per certi "poemi"? Forse. Ma quelle pagine furonoper me evasioni da una guerra eterna e ossessiva. Grazie ancora, nonricordo il tuo nome.

18 agosto 1943Siamo arrivati ad un lungo pianoro segnato da resti di fuochi,

bene allineati. Di fuochi recentissimi. Hanno guidato l’atterraggio diaerei inglesi, dice uno. No, solo il lancio di rifornimenti. C’è sempreun altro che sa qualcosa di più.

Avevo sentito parlare della Gran Bretagna in guerra, avevo lettodella Gran Bretagna in guerra, sapevo tutto della Gran Bretagna inguerra, ma per me era sempre stata una guerra remota e improbabile.Quelle tracce concrete me la fanno trovare vicina e reale. E miprocurano fastidiosi presentimenti.

22 agostoA metà giornata ci accampiamo ai bordi di un largo torrente e ne

approfitto per una buona lavata ristoratrice. E, dopo il rancio dimezzogiorno, ben venga un riposino in branda.

Ma ecco un battere su sassi, insistente, molesto, illogico. Escodalla tenda e vedo cinque o sei coppie di alpini che battono con mazzesopra i massi che emergono qua e là dall’acqua. Che battono consincronismo da professionisti, tac e tac, tac l’uno e tac l’altro, sullostesso punto, con un impegno e con una forza degni di un grandescopo.– Quelli sono matti, dico.– Trote, mi corregge l’attendente.

A saltelloni, passando da un sasso all’altro, mi avvicino alla primacoppia. Proprio trote e quante trote e che trote! Un alpino immerso

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fino a mezza coscia a valle dei due che picchiano ne ha riempito quasiuna musetta e continua ad afferrare quelle che, rintronate dallevibrazioni dei colpi, affiorano a pancia in su.

Mai finiranno di stupirmi, gli alpini: dove si saranno procuratitutte quelle mazze?

3 settembre 1943Da qualche giorno siamo accampati in una vasta pianura alberata,

anche qui sulle rive di un torrentello. Un paio di volte il giorno le rivesi riempiono di granchi che corrono all’acqua o che ne escono; maivisti tanti e così veloci. Non devono essere commestibili perché inostri alpini li avrebbero subito fatti calare di numero.

Ora ho a disposizione un’asina, capitata fra noi dopo alcunesparatorie; è forte e seria; un conducente le ha adattato una sella, a luiho raccomandato di trattarla bene ed io me la conquisto giornalmentecon un paio di caramelle; ho in mente qualche passeggiata, maprudenza vuole che non mi allontani dal campo.

Passa un giorno, passa l’altro, fa niente oggi, fa poco domani, neapprofitto per tornare alla mai sopita passione: gli scacchi. Così,proprio sulla riva del torrente, sperando di non dare fastidio aigranchi, seduto a cavalcioni di un vecchio tronco d’albero, scacchi elibro davanti, mi metto a ripassare partite di campioni. È un passa-tempo meraviglioso.

Lì intorno c’è qualche casa, passa un vecchietto per un secchiod’acqua al torrente e mi si ferma accanto. Io sono d’animo gentile epermetto; anzi, quando mi fa capire che avrebbe volentieri fatto unapartitina, concedo. Lo faccio sedere e gli sistemo i pezzi come devonoessere sistemati. Capita infatti che i giocatorucoli neanche i pezzisappiano mettere a posto.

Per me, tre sconfitte secche.– Sa, si scusa il vecchietto, qui da noi le sere invernali sono lunghe ealtro non abbiamo per passare il tempo se non gli scacchi.

Ma com’è gentile! Come parla bene! Come parla bene l’italiano,intendo. Lasciamo gli scacchi e cominciamo a chiacchierare. Mi citrovo, col vecchierello. Ad un certo punto dico dell’asina e che avreivoglia di andare fino al paese, magari per un bicchierino di rakìa:– Ma sono due chilometri e non voglio rischiare.– Quando vorrebbe andare?– Ma che discorsi! Anche domani.– Ci vada. Ci vada domani a quest’ora.

Così dice e sorride. Lo guardo perplesso. Egli continua:– Qui in paese sono conosciuto e passerò la voce che lei gioca ascacchi.– Gioca, si fa per dire, aggiunge benevolo e con un’arguzia chepurtroppo debbo riconoscergli.

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Scacchi come lasciapassare? Anche questa virtù, il nobile gioco?Penso che scherzi, ma lui continua:– Sono conosciuto e rispettato. Ero professore a Ragusa. Matematica.

Il buon vecchietto! Ecco le mie sconfitte! Lo perdono, anzi mi fidoe, in barba ad ogni prudenza, il giorno dopo vado al paese. Per lastrada qualche mano si alza a salutarmi.

Il mondo è cambiato.Parcheggio l’animale come nel Far West ed entro nell’unica oste-

ria. Prima che io dica una parola, l’uomo del banco mi allunga unamezza scodella di rakìa. Buona! Poi da un panciuto vaso di vetrotoglie per me una manciata di noccioline.

Sì, il mondo è cambiato.Tanto cambiato che il giorno dopo scoppia l’8 settembre.E loro sapevano! E il vecchietto sapeva! Solo i nostri generali

erano all’oscuro! Scoppia l’8 settembre e noi un mondo ci sentiamocrollare intorno.

In quei giorni, lo sapremo in seguito, qualcuno si salvò la pellecon un affannoso assalto alla “Baionetta”, una corvetta che da Pescarapoi lo avrebbe scaricato a Brindisi. Altri, moltissimi altri, soldati, lapelle avevano perso in sanguinosi assalti alla baionetta.

Necessario, l'affannoso assalto alla corvetta? Necessario. Nonbello, ma necessario. Per mille ragioni. Ma qualche disposizioneprecisa il re poteva ben lasciare. Anche, osiamo dire, per le truppesparse nel mondo.

Passiamo alle dipendenze della divisione Emilia, la sera stessa cigiunge l’ordine di raggiungere Cattaro e allora zaini affardellati e via.

Non vedo il professore, al quale, con tutto il rispetto, avrei tiratole orecchie: perché a me neanche il minimo accenno? Non è così chesi fa tra scacchisti. Ma solo scacchista e professore, il buon vecchietto?

Tutta la notte continua la marcia, silenziosissima, preoccupata.Fino a quel momento era stato guerra, con tutti i suoi pericoli, i suoiagguati, le sue sparatorie, cose bruttissime, ma prevedibili, quindiaffrontabili e mille volte affrontate. Fino a quel momento era statoguerra, guerra conosciuta. Ma adesso? Che succederà adesso? Checosa ci riserva l'ignoto verso il quale stiamo marciando? Nessunoparla, nessuno guarda negli occhi il commilitone vicino. Per nonleggervi la propria angoscia.

Dobbiamo raggiungere Cattaro.Cattaro? Ma non fu vicino a Cattaro (vedi un po’ che ricordi di

scuola mi vengono in mente in questa notte troppo silenziosa), manon fu vicino a Cattaro che un Capitano de le Guardie Venetepronunciò il discorso, poi divenuto famoso, del TI CUN NU, NUCUN TI? Sì, vicino a Cattaro, nel 1797, dopo la resa di Venezia aNapoleone. Quelle furono parole! Precise e dure come i chiodi della

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cassa che stavano seppellendo con dentro il gonfalone di San Marco:– TU CON NOI e NOI CON TE.

Queste parole, vecchie di un secolo e mezzo, adesso mi portano adun modo nuovo di sentire la Patria: – Tu, Italia, sei con noi, qui,presente, e noi, soldati, siamo con te.

La cosa mi rassicura: grave la situazione del momento, ma laPatria ci è vicina con la sua strategia, la sua organizzazione, gli ordini,e noi militari siamo con essa e con essa agiremo. Rapporto dicollaborazione, insomma, di reciproco aiuto.– Da parte nostra impegno assunto, caro Capitano de le Guardie,impegno assunto! La tua frase ci rende orgogliosi. Grazie. E nonseppelliremo le nostre bandiere.

Quando si dice notte lunga e marcia troppo silenziosa.Durante la quale mi venne in mente anche una delle tante frasipropagandistiche stampate sulle cartoline postali militari, frase che asuo tempo avevo letto e accettato senza discutere (come da giuramen-to prestato) e che diceva:

Quando il nemico si sarà convinto che con noi non vi è nulla da fare,sarà quello per l’Italia il giorno della vittoria. Mussolini

Detto nemico non si è convinto perché stupida testa dura? No,soltanto buon conoscitore della nostra lingua: non c’è nulla da fare èuna doppia negazione che afferma. Se avesse letto che con noi nonc’era alcunché da fare, forse le cose sarebbero andate diversamente(???) . Inesorabile, la grammatica.

Così ricordo i fatti che seguirono la silenziosa marcia notturna.Il 15 settembre arrivammo a Cattaro ed ecco l’aiuto della Patria: –

Neutralizzate il forte di Kobìla, occupato dai Tedeschi, che blocca leBocche e impedisce a due nostre navi di raggiungere l’Italia.

Il battaglione prese la via di Kobìla, ovviamente procedendo perl’alto, lungo un costone roccioso, fra bassi alberelli e arbusti irsuti,ben defilato rispetto al forte. Sarebbe stato assurdo prendere lastrada, in piena vista, come aveva fatto il giorno prima un battaglionedi fanteria.

Quel giorno, stando al criterio di rotazione sempre osservatoall’interno della compagnia, il mio sarebbe stato plotone di testa,plotone di testa in un’azione che si profilava molto seria. Ed io erodistaccato alle salmerie reggimentali, ferme in basso, rimaste senzaufficiale. Potevo lasciare “soli” i miei alpini? Alpini “miei” da diciotto

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mesi? No, dovevo “badare” a loro, come pattuito il 2 marzo quandomi avevano convinto a non andare nei paracadutisti.

Convocai i quattro sottufficiali delle salmerie, dissi che volevoraggiungere il mio plotone (“Muli con ufficiale e mio plotone senza?),raggiungerlo in fretta perché già in fase di avvicinamento al forte, enominai comandante delle salmerie il più alto in grado, un sergentemaggiore. Questi non fece commenti però i suoi occhi mi dissero cheero pazzo, che abbandonavo il posto di comando, infrangendo la piùclassica delle regole militari, rischiando la fucilazione per correre arischiare la pelle.

Sapevo, sapevo tutto, gli risposero i miei occhi, quello il miodramma nel dramma. Ma patti son patti: aiuto alla Patria “badando “ai miei alpini. E corsi via.

Lungo la mulattiera trovai il comandante di battaglione, il tenentecolonnello Armando Farinacci (fratello del gerarca); si sorprese nelvedermi – io NON dovevo essere lì! – ma non mi rimandò indietro equesto nel linguaggio militare voleva dire che ratificava il mio rientroalla compagnia, quindi niente fucilazione. Tutto a posto: eroregolarmente rientrato, ero al plotone di testa e Farinacci mi assegnòdue uomini con un telefono da campo. Tutto a posto: ora mi restavasolo il rischio pelle.

I “miei” alpini mi accolsero con sollievo: arrivava la Patria.Eravamo in un boschetto di faggi, dal forte non potevano vederci,

ma sparavano da matti con mitragliatrici che facevano paura eavrebbero fatto strage se fossimo andati avanti. Avevo il telefono echiesi l’intervento dell’artiglieria: solo massacrandolo di colpi sipoteva sperare in una resa del forte.

E quella cominciò a sparare. I pezzi, sistemati su un’altura sopraCattaro, a un paio di chilometri, erano di grosso calibro, impressio-nanti al boato per noi alpini, abituati all’obice da 75/13.

Dopo parecchie salve, centratissime, ecco l’ordine: attaccare. Lesalve erano state centratissime ma perfettamente inutili: dal forte,neppure scalfito, continuavano a spararci.

Chiesi un altro intervento. Che mi fu concesso. Col medesimorisultato e seguito dal medesimo ordine: attaccare!

Ostinati loro, ostinato io e insistei per un altro intervento. El’artiglieria riprese. Forse aveva cambiato mira perché i proietti diqueste salve, colpita la cupola del forte, andavano a finire in mare unchilometro in là, con enormi spruzzi.

– Attaccare!– Artiglieria!Quelle ore, tanto durò l’azione, furono maledettamente dure. Tra

l’altro qui mi venne, e fu la penultima volta, la pancia fredda. L’ultimasarebbe venuta col mongolo.

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Sì, pancia fredda, e non per un freddo alla pelle, ma pancia freddadentro, di un freddo pesante e duro. Questa sensazione avevocominciato a sentirla quando venivo a trovarmi sotto un tiro, diciamocosì, particolarmente ossessivo. La nostra non era una guerra“d’assalto”, una guerra in cui tutto si risolve tra ubriacature di scoppi,urla e corse, una guerra in cui non hai tempo di pensare e quindineanche di aver paura.

No, lì c’era il colpo singolo, poi un altro, c’eri tu che ti buttavi aterra, cercavi un riparo, rispondevi al fuoco, e c’erano i colpi successi-vi, ad personam, e tu eri bersaglio. Qualche volta per ore. Durante lequali potevi accumularti dentro manciate di paura da spargere suquella dei giorni precedenti.

In quei mesi di guerra avevo visto che un colpo alla testa ti lascia-va secco e chiudeva i problemi, che un colpo alle gambe o alle bracciati mandava in licenza e che un colpo in pancia ti faceva morire dopotrenta ore. Un colpo in pancia (la famigerata “ferita addominale” ditanti referti) ti diceva che il giorno dopo eri morto e ti lasciava lì ameditarci sopra. Questo, la mia paura. Di qui la pancia fredda.Autosuggestione? Aspetto che qualcuno mi spieghi. Comunque sia,continuando a parlare di paura, solo gli stupidi credono che il bravosoldato non ne abbia. Ne ha, ne ha, mica è stupido, ma fa il propriodovere lo stesso: se non c’è paura, non c’è coraggio.

Una sola eccezione vidi alla morte certa da ferita addominale. Unalpino, ferito ad una gamba e caricato in barella, era stato ancoracolpito mentre lo portavano al riparo. Ferita addominale. Lo vidi,un’ora dopo, quel buchetto: era un centimetro sotto l’ombelico ebluastro torno torno. Eravamo in una zona isolata, si faceva notte e ilmedico fece quello che poteva, un’iniezione di morfina, e lo fecestendere accanto ai sei morti. La mattina dopo era ancora vivo e duemesi dopo, mangiati ospedale e licenza, era di nuovo fra noi. Eraaccaduto, lo dico a titolo di cronaca, al mio cosiddetto battesimo delfuoco.

Pancia fredda al forte di Kobìla. E che itterizia mi scoppiò il gior-no dopo! Anche questo provocano le mitragliere da 20 mm quando tisparano addosso. E quelle del forte non avevano lesinato i proiettili.Uno aveva slabbrato il tronco di un giovane faggio che pian piano sipiegò e finì per appoggiarsi a terra.

Purtroppo le mie richieste d’artiglieria non potevano essere accet-tate in eterno e presto sarebbe arrivato inesorabile l’ordine diattaccare.

Ordine inesorabile, quindi folle. Come è possibile mandare uomi-ni armati di fuciletto contro mitragliatrici ben riparate da muracostruite a prova di cannone?

Eravamo in 43, distanti da quelle mura 140 o 160 metri: in quantisaremmo arrivati allo spiazzo lì davanti del tutto scoperto? E quanti

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l’avrebbero superato? Ammesso che io sia stato fra questi, che cosaavrei potuto fare una volta giunto al portoncino d’ entrata? Bussare?Suonare il campanello? Sferrare calci?

Rabbia e paura mi crebbero dentro, volli prevenire l’ inesorabileordine folle e urlai al telefono: - Venite col 75/13 a sparare dentro laferitoia che vedo da qui.

Era l’ultimo tentativo e lo sapevo. Passarono quaranta eterniminuti ed ecco la voce del sergente: – Arrivano i nostri!

Eccoli, i nostri benedetti artiglieri: si movevano curvi sotto il pesodelle bombe e delle varie parti del pezzo scaricate poco prima daimuli, troppo visibili, e portate a braccia.

Si fermarono ad una curva della mulattiera da dove potevanovedere bene la feritoia. Li comandava il sottotenente Achille Amico egli accennai un saluto. Il giorno prima (l'avevamo saputo il mattino)suo padre, Giuseppe, generale comandante la divisione Marche, erastato ucciso dai Tedeschi a Ragusa.

Con la squadra c'era anche Farinacci e la cosa mi piacque.Gli artiglieri, rimontato con gesti rapidi e precisi il 75/13, spara-

rono e spararono, sempre infilando di precisione la feritoia. Scoppidevastanti dentro e, quasi subito, bandiera bianca fuori.

Vittoria! Vittoria!!! Mi alzai, i “miei” alpini si alzarono e ci guar-dammo: salvi! tutti salvi! Com’è bella la vita senza paure nellostomaco! Eravamo letteralmente ubriachi di sollievo, dovevamosfogarci e me li chiamai intorno:

- Saputo che dovevate attaccare il forte, per essere con voi abban-donai un posto di comando, reato punibile con fucilazione. Giuntoqui, per evitare un attacco folle sfiorai il rifiuto d’ obbedienza, altroreato con annessa fucilazione. Reati e reati, ma per salvarci bastò cheazzeccassi l’ unico punto debole del forte, quella feritoia lì. Va bene lostesso?

Tutti ubriachi, dicevo, anche il pazzo Nilo ubriaco di sollievo.Ora la Storia dice che quella di Kobìla fu la prima vittoria di trup-

pe italiane contro truppe tedesche dopo l’otto settembre 1943. Fu laprima vittoria e perciò ben degna di nota.

Vittoria ottenuta per merito mio! Sta a vedere che si può acquista-re gloria anche abbandonando un comando e resistendo agli ordini.Acquistare gloria davanti alla propria coscienza, intendo, perché reaticommessi per evitare un macello inutile.

Vittoria non da poco: permise alle due navi su cui era salita ladivisione Emilia di uscire in mare aperto e di raggiungere Bari.

Merito mio, ma indubbiamente grazie ad un ostinato telefono dacampo. Questo la Storia non lo dice e bisogna provvedere.

Il forte si arrese e il sottotenente Franceschini, che parlava bene iltedesco, scese a trattare.

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Un altro fonogramma dell’Emilia, questa volta di congratulazioni,giunse all’Exilles. Farinacci rispose proponendo di trattare i vinti conl’onore delle armi. L’autorizzazione fu concessa.

Nel suo fonogramma Farinacci, forte dell’esito felice dell’ azione,non mancò di precisare che aveva condotto detta azione con volutalentezza, da comandante preoccupato della vita dei sottoposti. Inrealtà ero stato io che, chiedendo e richiedendo sempre nuoviinterventi di artiglieria, avevo obbligato lui a chiederli e richiederliall’Emilia. Ovviamente egli, tenente colonnello, avrebbe potuto inogni momento interrompere le richieste di un sottotenentino emandarlo all’ assalto, ma si vede che sulla follia dell’azione la pensavacome me pur non avendo la la mia paura.

E quella mia paura, nel fonogramma, era diventata merito suo.C’è sempre qualcuno che ti frega qualcosa. Naia.

Il forte si arrese e, nella notte chiara, vedemmo le due navi pas-sarci davanti tranquille e decise. Che macelli avrebbero subìto quellemigliaia di soldati se non avessi indicato la feritoia giusta? Buonviaggio, amici dell’ Emilia, anche voi ho salvato, non solo il mioplotone!

Ma allora quell’ordine, quell’ordine folle fu davvero folle? Avevaportato alla vittoria perché aveva portato me alla scoperta dell’unicoma proprio unico punto debole di quel forte altrimenti inespugnabile.Forse che gli alti gradi sapevano di poter contare sui reati di un pazzoNilo? Per favore qualcuno mi risponda.

E diciamole tutte. L’uscita delle due navi dalle Bocche di Cattaroera il frutto della nostra vittoria, sfruttare questa vittoria era lorodiritto dovere, ma noi ci sentimmo abbandonati. Dura legge, malegge. Dura per noi, molto dura. Ma ci dura l’orgoglio.

Dopo un fatto d’arme importante come questo, non potevanomancare le decorazioni. Ecco quanto leggo su Gazzette Ufficiali:

Medaglia d’argento (…) medico di ospedale militare, nel corso diaspri combattimenti contro formazioni tedesche riusciva ad assicura-re il perfetto funzionamento dei servizi (…). Bocche di Cattaro, 15, 16settembre 1943

Croce di guerra al V.M. (…) dentista, si prodigava con perizianell’assistenza dei numerosi feriti, dimostrando sprezzo del pericoloed elevato senso del dovere. Bocche di Cattaro, 15, 16 settembre 1943

Croce di guerra al V.M. (…) addetto a Direzione di Sanità si pro-digava nell’adempimento del propri compiti con spirito d’ iniziativa esprezzo del pericolo (…) Bocche di Cattaro, 15, 16 settembre 1943.

Avete letto bene: normalissime e doverose prestazioni professio-nali compiute fra solide mura a chilometri dagli spari sono atti eroici.Ma allora l’aveva detta giusta quel tale: – Le decorazioni sono come le

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bombe di grosso calibro: qualche volta finiscono addosso a chi èlontano dalla zona di combattimento.

Già, le decorazioni è importante ottenerle, non meritarle.Evviva quel comandante di battaglione che disse:

– Agli ufficiali in SPE (Servizio Permanente Effettivo) non spettanodecorazioni: ogni loro comportamento in guerra, eroico fin che vuoi, èda considerare atto di servizio.

Ma la sua voce risonò nel deserto.Sono in vena di malignità e narro un fatterello.Dopo giorni e giorni di rastrellamenti ci accampammo presso

Ragusa per un meritatissimo riposo e quel giorno ero di servizio.– Porta la compagnia verso il mare e fa istruzione alle armi, mi

disse un collega effettivo.Istruzione alle armi! Dopo sedici mesi di guerra! Istruzione alle

armi dop0 le sparatorie di quella settimana! Solo un effettivo, tesoalla carriera e angosciato se la truppa non è sempre occupata a farqualcosa, non importa che cosa ma qualcosa, poteva inventarsi robasimile. Ero di complemento, ma esperto di naia:– Istruzione alle armi e …?– Istruzione alle armi e … e … qualcos’altro.

Effettivo con reazioni lente e poca fantasia. Come previsto. Giuntoin riva al mare, cominciai dal qualcos’altro: bagno per tutti, mecompreso. Ero ufficiale di complemento, non avevo ossessioni dicarriera, unico mio pensiero erano gli alpini e vivevo con orgoglioquesto mio dovere. Il quale dovere consisteva anche nel curare ilbenessere e tenere alto il morale dei soldati e un bagno in mare era untonico meraviglioso.

Un paradiso, l’acqua: fresca, carezzevole, incredibilmente limpida.Mentre ero intento ad ammirare le conchiglie quindici metri sotto,sentii la tromba suonare l’adunata. Alzai la testa: tutti correvano avestirsi e naturalmente nuotai verso riva. Che era successo? Il collega(venuto per un controllo!?) aveva bocciato l’anticipo del qualcos’altro.E interrotto il rilassamento.

Lo affrontai. Ero ufficiale di complemento, non di serie B, perciò,con freddo tono ufficiale, dignitosissimo entro le mutandine bagnate,gli dissi che la compagnia era affidata a me e che, la via gerarchicanon è un’opinione, a me doveva rivolgersi per arrivare ad essa con latromba. Avevo fatto leva sul punto debole del suo agire e questo loscardinò. Come previsto.

Non seppe rispondere, come previsto, ma fece seguire, a miocarico, una proposta di punizione per disobbedienza. Come previsto.Da mesi eravamo su quelle montagne insieme, da mesi insiemeaffrontavamo pericoli e fatiche, e adesso fra noi quello metteva ilgrado. Farinacci (non tutti gli effettivi si comportano sempre daeffettivi) sgonfiò il pallone: non disobbedisce chi cambia l’ordine degli

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ordini quando ininfluente ai fini richiesti e/o non espressamenterichiesto.

Non protestai per il linguaggio e le ripetizioni. Come prescritto.Ma torniamo a Kobìla. Prima della partenza delle navi, al batta-

glione era giunto un ultimo fonogramma e Farinacci aveva chiamatogli ufficiali a rapporto per decidere in proposito. Proprio così: perdecidere in proposito. La cosa mi fece una certa impressione:partecipavo al mio primo consiglio di guerra. I tempi erano cambiati.

Questo il fonogramma: – Occupare Punta Ostra. Dopo, forse,altra nave passerà a raccogliere i resti dell’Exilles.

Ecco il "verbale" di quel nostro “consiglio di guerra”.Con il trasporto in atto della divisione Emilia (decine di grossi

ufficiali e migliaia di soldati sulle due navi), che senso ha occuparePunta Ostra? Non conosciamo piani e situazioni generali, bensappiamo che un ordine non ha bisogno d'essere motivato e che nonpuò essere discusso, ma noi rispondiamo pur sempre della vita dimille duecento uomini.

E che senso ha la frase: "Dopo, forse, altra nave passerà a racco-gliere i resti dell'Exilles".

"Forse" : se nel raggio di cento miglia ci fosse una nave disponibi-le, la userebbero per sbaraccare altri dell'Emilia.

"Resti dell’Exilles". Qui siamo al cinismo e alla iettatura.Ciò constatato, il consiglio come primo atto operativo decide

l'adunata del battaglione la mattina dopo nello spiazzo qui sottostan-te. In sostanza ogni soluzione restava aperta.

La notte non mancò di portare i suoi consigli e difatti la mattinadopo, a battaglione inquadrato, non ci stupimmo di sentire quello cheil tenente colonnello Farinacci, riassunte in pieno le proprie respon-sabilità di comandante, disse:– Avrei potuto stare vicino al sole e scaldarmi, cioè avrei potutosfruttare il potere di mio fratello per fare una carriera rapida ebrillante, invece regolarissimo è il mio grado, normalissimo il mioservizio. Fui e sono unicamente un militare.– In guerra ho agito con la prudenza del comandante che ha a cuorela vita dei sottoposti. E voi mi siete buoni testimoni.– Ora, e riporto le parole del comandante di reggimento, ora sieteliberi di fare la vostra scelta: resistere, arrendervi o andare sui montia continuare la lotta insieme con i partigiani.

Non fummo stupiti, noi ufficiali, di sentire quelle parole: la notteaveva portato consiglio. I soldati guardavano a noi, nessuno parlava,il momento era grave, la scelta da fare, gravissima.

Ma ecco un improvviso rumore: lassù, all'inizio della discesa cheportava a noi, erano comparsi carri armati della famigerata divisioneSS croata Prinz Eugen. E noi lì, bene inquadrati, con zaino a terra.Addio scelta.

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Ci avviarono verso Ragusa. Io, per ordine del dottore, su unacorriera che trasportava feriti e malandati.

Era capitato che la notte a me avesse portato, oltre che il suoproverbiale consiglio, anche una coloritura gialla ad occhi e guance.Ittero, aveva sentenziato il medico.– Ittero, caro Pes, esito di una forte emozione. Stando all'intensità delgiallo, la tua emozione dev'essere stata fortissima.

Che dire? Se per emozione intendeva paura, la diagnosi era esatta:il giorno prima di paura ne avevo avuto davvero tanta.– In queste condizioni non puoi affrontare una marcia di 30 Km.

Lo sentivo: avevo la testa confusa e stentavo a reggermi: sia dettoalla mia coscienza d'Italiano, non avrei certo potuto raggiungere ipartigiani in montagna.

Durante il viaggio, ad un posto di blocco della Prinz Eugen cifermarono e un minuto dopo due allarmatissimi alpini vennero adirmi che stavano scaricando i bagagli di Farinacci, a loro affidati. –Volete fermarli, signor tenente? Guardai dal finestrino: figurarsi sequella gentaglia avrebbe rinunciato a tanta facile preda bellica. Nonmi mossi: avevo la mia dignità di ufficiale e non potevo espormi allafiguraccia di un rifiuto. Quando Farinacci mi chiese spiegazioni,allargai le braccia e lui chiuse la bocca.

Il nostro cappellano mi disse che ero stato fortunato a partire conla corriera: loro, tutti gli ufficiali dell’Exilles, erano stati messi almuro; Farinacci aveva fatto in tempo a spiegare che lui era fratello delfamoso gerarca oramai in Germania a formare un nuovo governo,convincendo il maggiore tedesco a non eseguire e, salvando se stesso,aveva salvato tutti. Ma che paura, caro Pes!– Ma tu, caro don Vanni, non hai fatto gli occhi gialli.

Grazie al provvidenziale digiuno di cui potei godere a Ragusa(dove i tedeschi ci tennero per qualche giorno), digiuno continuatopoi in un campo vicino a Belgrado (dove rimanemmo forse un paio disettimane) e continuato ancora in un vagone bestiame diretto inGermania, i miei occhi gialli sbiadirono sempre più verso la normali-tà. Grazie al digiuno, ma grazie anche alla brandina che, nel vagone, ilmedico mi aveva prescritto (unica altra l’aveva il ten. col. di cuisopra). Brandina come “vaccino antigerarchico”, aveva precisato illuminare.

E fu terapia deliziosa, per un sottotenentino, giacere stravaccatoin brandina avendo intorno, stesi sul pavimento, fior di capitani e dimaggiori. Deliziosa veramente.

Questo è un episodietto da nulla ma anche qui la mia Taurinensesi mostrò qual era. Non uno di quegli ufficiali – anche di trenta e diquarant’anni – oppose un’obiezione all'ordine del medico, sottote-nentino anche lui, che “privilegiava” un ventenne sicuramente nonmoribondo. La mia Taurinense.

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10 luglio 1942, stazione di Zrmanja

Da sinistra: s.ten Italo Bottinelli (medico), s.ten Ermanno Ercules,cap. Enrico Corelli, s.ten. Giovanni Marco Franceschini, s.ten. NiloPes, alp. Giacinto Gallina, ten. Duilio Calegari, s.ten. Ennio Isola.

Poco prima, lì vicino, erano stati sepolti quattro nostri Caduti.

4 luglio 1942 - Montenegro, Knin; con 7 nuovi caporali: ErmannoErcules, Nilo Pes, Enrico Corelli, Giovanni Marco Franceschini

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Funerali di un commilitone caduto.Siamo nel cortile di una scuola adibita ad ospedaletto.

(Sono al centro, in fondo, tra le due finestre, il più alto)

Nostro cimitero a Plevlja.Per chi e perché sono morti questi ragazzi?