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GOCCEDI VELENo

VALERIA BENATTI

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Prima edizione: settembre 2016

Stampato presso Elcograf SpA, stabilimento di Cles

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Alle donne maltrattate: perché trovino la forza di alzare la testa e abbandonare per sempre il loro Barbablù.

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1AMOUR FOU

«Ma lei, nel suo intimo, che ne pensa?» «Non penso. Non posso permettermi questo lusso. La paura è in me

sin dall’infanzia.» (Agota Kristof, Trilogia della città di K.)

Esco da casa di Barbablù sempre malandata, le ossa rotte, i pensieri storti. Me ne torno nel mio appartamento, mi infilo nella doccia e lavo via lo sperma, gli insulti, il sudore. Poi passo lenta-mente la crema sul corpo indolenzito, per darmi quelle carezze che non ho ricevuto. Alla fine mi metto a letto e dormo, sfinita, consunta. Faccio sogni spaventosi, mi sveglio più stanca di prima, mi dico che devo cambiare qualcosa, nella mia vita, ma non so da che parte cominciare. So vivere solo così, sul filo del rasoio. Cerco di essere una donna libera e felice, ma mi basta un niente per scivolare nelle pieghe avvolgenti della depressione.

L’ amore mi fa male. Mi ha sempre fatto male. Mai trovato un uomo che mi desse qualcosa di buono. Tutti che prendono, prendono, e se ne vanno sazi, senza neanche dire grazie. Uccelli predatori, solo questo sono. Io non mi aspetto niente da loro, lascio che vadano e vengano come stormi impazziti. Questo mi preme di capire ora sopra ogni altra cosa: perché continuo a farmi fare del male dagli uomini. A concedermi generosamente pur non amandoli, anzi, spesso detestandoli.

Ho trentasei anni, non sono sposata, non ho figli, non ho nem-meno un fidanzato degno di questo nome, solo amanti voraci e saltuari e la vocazione irrefrenabile a farmi violare. Non ho ancora capito se sia colpa del mio karma o solo della mia indole vitti-

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Gocce di veleno

mistica. Forse in un’altra vita sono stata molto cattiva e ora devo espiare. Ho iniziato giovanissima a sperimentare l’egoismo degli uomini, il loro lato famelico. Ero bellina, tanto da vergognarmene, e lo sono ancora, abbastanza. Non appariscente, no, ma con un viso da bambina innocente e un corpo piccolo, proporzionato, morbido. In perenne lotta con la bilancia perché sono golosa e quel che man-gio va tutto a depositarsi solo sui miei fianchi, misteriosamente. Occhi e capelli scuri, irrequieti, indomabili, e buffe fossette sulle guance, da putto birbante. Ho sempre attratto i peggiori, quelli che mi volevano prendere per piantare una bandierina e vantarsene con gli amici. Non ho mai capito questo gusto tutto maschile alla conquista seriale: avere per abbandonare subito dopo, soddisfatti solo di aver espugnato il castello. Capirai che impresa: con me era facilissimo, non ho mai opposto resistenza, convinta da sempre che le mie ricchezze non fossero certo fuori di me, ma dentro. Gli permettevo di armeggiare, li osservavo curiosa, li studiavo persino, e poi li lasciavo andare così come erano venuti, baldanzosi, ignoranti, superficiali. Pensavano di avermi presa, ma non avevano preso un bel niente. Sì, mi avevano strizzato le tette, infilzato come uno spiedo, riempita di parole a vanvera e umori odorosi, ma non avevano minimamente scalfito la mia anima.

Ho perso la verginità per distrazione, poco dopo la morte di mio padre, a sedici anni. Ero stata spedita a fare un corso di francese dalla mia ambiziosa madre, che mi voleva perfetta e possibilmente poliglotta. Ancora sperava che le avrei dato le giuste soddisfazioni, ma si sbagliava di grosso. Non aveva fatto i conti con il mio spirito ribelle: piuttosto che accondiscendere ai suoi desideri mi sarei buttata dalla finestra. Lui era un ragazzo bohémien incontrato per le strade di Parigi. Aveva vent’anni, viveva in una mansarda piena di gatti e scriveva storie per bambini. Indossava gli occhialini tondi da intellettuale e l’aria svagata. Io ero a zonzo sola soletta, era estate, faceva caldo. Ci guardammo alla fermata dell’autobus,

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Amour fou

ci sorridemmo. Mi prese per mano e mi portò da lui. Ero emo-zionata, e anche preoccupata, non ero mai stata con nessuno e mi piaceva l’idea di farlo lontano da casa, con un ragazzo straniero.

«C’est la première fois, pour moi» provai a dirgli, sperando che almeno facesse piano.

«La première fois?» chiese sgranando gli occhi, e sorrise incre-dulo.

Dopo, mi disse che secondo lui non ero affatto vergine. Mi offesi. Lo sapevo ben io che non avevo mai fatto sesso prima! Non tentai nemmeno di rispondere con il mio francese stentato. Tanto di lì a poco sarei tornata in Italia e non lo avrei visto mai più. Comunque non fu doloroso. Ebbi solo un gran senso di colpa postumo per aver regalato la mia verginità a uno sconosciuto, in un letto sfatto di Parigi, senza amore, senza intenzione. Fu il primo vero moto di ribellione nei confronti di mia madre, che teneva così tanto alla mia virtù da farmela detestare. Lo feci contro di lei, per togliermi il pensiero. Il primo di una serie di atti autolesionisti che miravano a fare scempio di me per punire lei. Da allora sono passati vent’anni e nulla è cambiato, come se quel primo atto avesse segnato i successivi. Amplessi casuali, inutili, meccanici, con uomini di cui non mi importa nulla, che mi prendono per mano e mi conducono dove vogliono loro.

Con Barbablù però è diverso: di lui mi importa, anche se non sembra tanto migliore degli altri. Abbiamo uno strano rapporto di amore e odio da cui non riesco a staccarmi. È un legame quasi morboso, basato esclusivamente sul sesso, che è iniziato per caso, senza impegno, e che si sta trascinando avanti senza evolversi, cambiare, migliorare. Eppure è unico. Lo scrivo qui perché a nes-suno posso confidare quel che accade tra me e lui. Me ne vergo-gnerei. La gente non capisce. Nemmeno le amiche. Nessuno può sapere cosa succede fra un uomo e una donna nella loro intimità. Sono segreti oscuri. Legami contorti, che vengono da lontano, che

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si radicano a dispetto della logica e della razionalità. Io non so spiegare nemmeno a me stessa perché voglio così ostinatamente essere amata da Barbablù. Di fatto lui è il re dei predatori, mi prende e mi squarta e mi lascia, eppure io torno sempre da lui. Lo perdono, lo amo.

È un uomo difficile, Barbablù. Molto più vecchio di me, colto, carismatico, sfuggente. L’ ho incontrato in un lounge bar, a uno di quegli eventi mondano-benefici che pullulano a Milano. Mi aggiravo annoiata, con il bicchiere di Negroni in mano, cercan-do disperatamente qualche faccia conosciuta, quando incrocio lo sguardo di un uomo che se ne sta appartato a osservare, e che anzi osserva me con insistenza. Mi allontano, turbata, lusingata, ma poi torno sui miei passi e lo guardo anch’io, con aria provocante. Lui allora mi viene incontro come se mi conoscesse, sorridendo. È alto, massiccio, il naso lungo, la barba corta e ben curata, i capelli a spazzola, brizzolati, gli occhi penetranti nascosti dietro a occhiali da vista neri, eleganti.

«C’è troppo ghiaccio in quel Negroni, finirai per bere solo acqua schizzata di Campari, vermut e gin» mi dice sicuro. Lo guardo curiosa e confusa, credo di arrossire. Non so cosa dire. Lo osservo da vicino e immagino che se Barbablù esistesse, avrebbe la sua faccia. Ammaliante eppure pericolosa, con occhi da felino predatore. Dentro di me da quell’istante lo battezzo Barbablù.

«Vieni, ti porto a bere un Negroni fatto come dio comanda» dice, e intanto mi prende a braccetto e mi scorta fuori in un lampo. Lo assecondo senza obiettare. Passiamo dal guardaroba a ritirare i nostri cappotti, e noto che lui indossa con nonchalance un Bor-salino classico che gli dà un’aria da divo del cinema. Io in effetti ho un debole per i cappelli.

«Oltre a essere un esperto di cocktail, hai anche un nome?» gli chiedo riacquistando la facoltà di parola, temendo che mi risponda davvero Barbablù.

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Amour fou

«Manfredi, piacere. Tu sei?»«Claudia, io mi chiamo Claudia.»Facciamo due passi per le vie di Brera, a quest’ora affollatis-

sime, sento il suo braccio che mi tiene e mi guida, come se fossi una bambina da non far scappare via. Del resto è molto più alto di me, e io mi lascio condurre sentendo puri brividi di emozione. Non parliamo, ci guardiamo di sottecchi, ascoltiamo solo i nostri passi, i nostri respiri. Penso che sono la solita matta, a seguire uno sconosciuto così, ma siamo in centro, non ci sono pericoli, lui sembra un signore rispettabile e soprattutto un tipo intrigante, e io amo gli imprevisti. Ci infiliamo al Jamaica, più che un bar, un’istituzione. Ci sediamo uno di fronte all’altra, e ci osserviamo attentamente. Non è bello, questo Manfredi, però ha fascino da vendere e certo sa il fatto suo.

«Rapisci abitualmente le donne che bevono male?» gli chiedo soave.

«Solo quelle che mi piacciono molto e che hanno un’aria smar-rita come la tua. Cercavi qualcuno?» Ha una bella voce bassa, profonda.

«Un viso familiare, mi sento persa quando non conosco nessu-no. La tua faccia mi evoca qualcosa, anche se non ti ho mai visto prima. Sei di Milano?»

«Napoletano doc, ma milanese d’adozione, da ormai trent’anni.»«Non hai accento, strano. Di solito i napoletani non lo perdono.

Sei sposato, single, vedovo?»«Separato, mai più riaccoppiato. Detesto le relazioni, non ci

sto dentro. Ho bisogno di spaziare, di sentirmi libero, di fare tutto quello che mi va senza dover rendere conto a nessuno. Il matri-monio proprio non faceva per me.»

«Perché ti sei sposato allora?» Sono troppo diretta, lo so, ma non riesco a trattenermi.

«La mia compagna di università è rimasta incinta.»

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Gocce di veleno

«Poco romantico. Hai un figlio solo?»«Ho due figli maschi, ormai grandi, temo che abbiano più o

meno la tua età. Quanti anni hai?»«Trentasei.»«Infatti, il mio piccolo ne ha trentasette, l’altro trentanove. Non

te li farò conoscere mai: potresti piacergli!»«Preferisco gli uomini maturi, stai tranquillo. Che lavoro fai?»«Sei una giornalista? Fai un sacco di domande!»«Non faccio la giornalista, ma sono una donna curiosa, que-

sto è vero. E voglio giusto sapere con chi ho il piacere di bere un aperitivo. Se le mie domande ti inquietano la smetto subito. Anzi, ti confesso il motivo per cui vado sempre a caccia di storie interessanti: faccio la editor per una casa editrice. Un giorno mi piacerebbe scrivere un libro.»

«Immaginavo che fossi in un campo culturale, hai gli occhi che sognano ancora. Io invece sono nella finanza, non nella guardia di finanza, eh! Faccio investimenti, compro, vendo.»

«Uno squalo della finanza? Ho già paura.»«Ma no, fuori dall’ufficio non faccio male a una mosca.» Lo guardo e alzo un sopracciglio, incredula. Non sembra pro-

prio un agnellino, quello no. Un leone piuttosto, e affamato. Arrivano i nostri Negroni, avviciniamo i bicchieri e brindiamo

maliziosamente alle sorprese della vita. «Ai rapimenti galanti» dico io.«Alle donne che si fanno rapire» risponde lui.«Un aperitivo non si nega a nessuno.»«E per cena? Sei occupata?»«Vai sempre a 100 all’ora, o solo stasera hai così tanta fretta?»Sorride sornione e insiste a guardarmi come se fossi senza ve-

stiti. Mi sistemo i capelli, mi chiudo un po’ la scollatura, mi sento a disagio, maledettamente vulnerabile.

«È che ho voglia di conoscerti e sono certo che un aperitivo

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non basterà. Stai con me anche a cena, poi ti riporto dove vuoi tu, all’ora che vuoi tu.»

Lo guardo e devo ammettere che mi piace la sua temerarietà, e visto che anch’io ho voglia di approfondire la sua conoscenza, accetto. A quel punto ci rilassiamo e cominciamo a chiacchierare in modo più disteso e divertente. Dal Jamaica ci spostiamo in un ristorantino a due passi. Nel locale lo conoscono e lo salutano, ci danno un tavolo comodo dove continuiamo a parlare indisturbati. Ordiniamo del pesce, e intanto ci offrono un altro aperitivo. L’ al-col mi scioglie ulteriormente la lingua, il gioco di seduzione fra noi è ormai palese, la conversazione diventa sempre più intima. Manfredi mi sottopone a un terzo grado sul mio passato amoroso. Vuole sapere con chi sono stata, per quanto tempo, perché è finita. All’inizio rispondo senza pensarci, non ho difficoltà a racconta-re di me, ma quando le sue domande si fanno più incalzanti e precise mi sento a disagio. Provo a ritrarmi e a tergiversare. Ho l’impressione che la sua curiosità vada ben oltre il desiderio di conoscermi. Cosa gliene frega di fare la conta dei miei uomini? Lo invito a parlare di viaggi, di quelli che gli restano da fare, di mete non ancora raggiunte.

«Non conosco l’Oriente, mentre sono stato più volte in America e in Europa.»

«Allora ci devi andare! Io ho una venerazione per l’Asia, co-nosco bene l’India, il Nepal, il Tibet, adoro l’Himalaya. Sono una donna di montagna.»

«Ahi, qui vedo i nostri destini allontanarsi, io sono un uomo di mare!»

«Brindiamo ai viaggi dai quali non si vorrebbe più tornare.»«E ai viaggi che facciamo con la fantasia!» Il clima torna piacevole fra noi, il vino stempera, il buon cibo

obnubila. Alla fine, mentre aspettiamo il conto, mi chiede a brucia-pelo: «Come mai una donna bella come te non ha un fidanzato?»

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prendendomi una mano, portandosela alla bocca per un bacio delicato.

«Mi sa che ti assomiglio. Amo anch’io la mia libertà.»Mi fulmina con lo sguardo, non capisco cosa stia pensando,

d’improvviso è una maschera senza espressioni, perso nelle sue elucubrazioni. Lascia la mano, paga il conto, fa chiamare un taxi e dà un indirizzo che non è quello di casa mia.

«Dove andiamo?»«Il bicchiere della staffa lo beviamo da me.» Penso che è tardi, che domani lavoro, che sono un po’ brilla,

ma non mi oppongo. Se vuole portarmi già a letto, che sia. In macchina ci baciamo con foga, carichi delle ore passate a studiarci e a desiderarci. Lo seguo dentro casa, c’è buio, non accende le luci, invece mi prende per mano e mi fa percorrere un ampio corridoio, in fondo c’è una porta, entriamo. Non c’è nessun bicchiere della staffa, ovviamente, solo un grande letto con lenzuola di lino can-dido che intravedo nella penombra, mi ci spinge sopra, mi sfila le scarpe, le calze, gli slip, e si china a leccarmi. Intanto si libera dei pantaloni e dei boxer, di scarpe e calze, e mi raggiunge. Scopiamo affannosamente, frettolosamente, senza dirci più niente, senza nemmeno guardarci, ognuno perso nei suoi pensieri. Mi prende con forza, con una strana brutalità. Finiamo presto, e subito mi sento sulle spine, scontenta di me, di essere lì; come al solito mi aspettavo più tenerezza, invece è sempre e solo uno sbranarsi senza pietà. Così ho già voglia di andarmene, mi alzo mentre lui è ancora in catalessi, stremato dall’orgasmo, e cerco il telefonino per chiamare un taxi.

«Ti accompagno» sento la sua voce assonnata arrivare dal letto, in penombra.

«Non c’è bisogno, non ti scomodare, mi arrangio.»In pochi minuti sono rivestita, gli mando un bacio soffiato e

infilo il corridoio, la porta, il portone. Sento l’aria fresca della notte

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e l’odore del sesso sulla pelle. Ho voglia di dormire, di non pensare, di riposarmi. Non so se lo rivedrò, francamente non mi interessa. È stata solo una scopata, mi dico, ancora non so che Manfredi diventerà la mia ossessione, la mia malattia.

È così che è iniziato il mio calvario di amante. Da quella pri-ma sera abbiamo cominciato a vederci in modo irregolare, mai nel weekend, mai dormendo insieme, mai in compagnia di amici. È un affare privatissimo, il nostro. Non so capire perché, ma con il tempo mi sono legata a quest’uomo brusco eppure pieno di desiderio per me. Un desiderio così forte da lusingarmi. Questa sua bramosia potente e inarrestabile mi fa sentire speciale e viva. Nessuno mi ha mai voluta con tanta intensità. Nel giro di poco è chiaro però che lui vuole solo il mio corpo. Lo divora come un lupo selvaggio e non ne è mai sazio. Non vuole altro, da me. Mentre io, improvvisamente, inaspettatamente, voglio l’amore, e proprio da lui. Da quando mi ha detto: «Io non sono capace di amare, credo di non aver mai amato: insegnamelo tu».

Eravamo a letto, nudi, sfiniti dopo il sesso. In quel preciso momento è cominciata per me una vera e propria missione.

«Insegnare l’amore: come si fa? Innanzitutto bisogna crederci, e tu non ci credi.»

«È vero, non ho fede. Per questo sono in-fedele!»«Molto spiritoso, complimenti.»Quando Manfredi parla dei suoi tradimenti mette su un’aria

smargiassa, come se avesse di che vantarsi. Trovo che sia molto infantile e disdicevole, ma proseguo la mia lezioncina incurante.

«Poi bisogna dedicarcisi.»«Io all’amore mi dedico molto.» E ricomincia a baciarmi. Fa il

bravo scolaretto. Mi irrita ma mi fa anche ridere. Mi divincolo e riprendo il filo del discorso.

«Tu ti dedichi molto al sesso, non è la stessa cosa. E lo fai in

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modo promiscuo, con tante donne. Dovresti cambiare le tue abi-tudini: smettere per esempio di avere un harem.»

«Cosa c’entra questo? Le altre non sono niente, sei tu la mia preferita.»

«E allora perché continui a vederle? Se non sono niente? Non ti basto io?»

«Perché non voglio legarmi troppo a te. Sei bella e giovane, puoi avere uomini più belli e più giovani di me. Se io mi innamorassi e poi tu mi tradissi, ne morirei.»

«Figurati!» Esclamo. «Questo è il colmo: pratichi il tradimento preventivo? Ma così non ci provi nemmeno, non vale! Allora ti tradisco anch’io, così siamo pari!»

«Ma io sono un uomo! Per me è diverso!»«Sei un uomo all’antica, sappi che non funziona più così, mi

spiace per te.»«Se la mia donna mi tradisse, io l’ammazzerei» sibila.«Non dire cazzate. Le donne non sono mica degli oggetti che

puoi considerare di tua proprietà! E poi sei tu, qui, il traditore.»«Infatti non voglio avere legami, perché le donne... sono tutte

puttane.»«Ma cosa dici? Come ti permetti?» lo osservo con attenzione,

scocciata, per capire se scherza. Invece non scherza. Non aggiunge altro. Con che razza di stronzo ho a che fare?

«Be’, se essere puttane significa essere libere, evviva le puttane! Evviva la libertà!» rilancio. Non posso credere che esistano ancora uomini con una mentalità così retriva e maschilista.

Ci studiamo con gli occhi, la leggerezza è evaporata. Lui mi guarda intensamente, credo che pagherò per quello che ho detto. Mollo io per prima: «Lasciamo perdere. Comunque sappi che non esiste un’assicurazione sull’amore, bisogna correre dei rischi. Dobbiamo correrli tutti e due, se vogliamo qualcosa di più».

«Allora andiamo avanti così. Non stiamo bene?»

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Amour fou

«Tu starai bene, forse, ma io no, io non sto bene, mi fai sentire come una geisha, e non mi piace» dico mettendo il broncio.

«Vieni qui, splendida geisha, fatti amare dal tuo vecchiaccio» fa lui tirandomi a sé e infilandomi le dita fra le cosce. Mi fruga dentro come se fosse roba sua. Con l’altra mano mi tira i capelli, mi gira la faccia, la spinge sul suo sesso duro. Si ricomincia. La sua brutalità, invece di allontanarmi, mi dà il segno del suo interesse per me. Più mi divora, più sento di essere importante per lui. Pa-zienza se non mi dice le cose che vorrei sentirmi dire. Del resto, non è abituato alla tenerezza, non sa nemmeno cosa sia. Usa un linguaggio colorito e tutt’altro che romantico. Le sue parole mi colpiscono come schiaffi. Hanno lo stesso suono secco, definitivo. Ormai le sopporto bene.

«Troia!».«Puttana!»Sono come bruciature sulla pelle viva. Fanno male. Ma lui adora

dire parolacce mentre scopa.

Ora si muove sopra di me ritmicamente. Suda e sgocciola.«Dimmi che sei una troia, dimmelo!» mi ordina perentorio,

affannato.Il soffitto ha una crepa strana, noto insensatamente. Non è

questo il momento di mettersi a discutere. Osservo, penso.«Sono una troia» ammetto con un filo di voce, tanto per dire.«Dillo ancora, più forte!» mi urla nelle orecchie.È sguaiato e ha una voce cupa. Sta per venire. Ancora. Dentro

di me.«Sono una troia» ripeto convinta. Se gli piace così, che così sia.

Lascio che le sue parole scivolino via da me senza sporcarmi. O almeno così credo.

Obbedisco a questi suoi rituali. No, non mi garbano. Fanno parte del teatrino che lui esige per eccitarsi. Non c’è nulla di male

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in questi nostri giochi. Lui non pensa davvero quello che dice. È un modo come un altro. È il modo che lui vuole. Non credo sia malvagio, ma solo bloccato. Conto sul fatto che l’amore scioglie-rà ogni nodo e guarirà ogni ferita. Così lo lascio fare. Ho molta pazienza. Sento che non è colpa sua, se è così arido e poco incline alla dolcezza.

Alla fine lui urla, un grido animale, spaventoso, gutturale, e si accascia con tutto il suo peso su di me, schiacciandomi, bagnando-mi, opprimendomi. No, io non sono venuta. Ma sono comunque felice che lui si sia liberato, di essere stata il tramite per il suo piacere. Il mio corpo serve a questo. Se io gli do tutto, e permetto tutto, lui alla fine mi vorrà bene. Io non dico mai di no, a niente. La mia sottomissione varrà l’amore di lui, che dopo il sesso mi dice che senza di me non può stare, che sono la sua bimba adorata, che gli sono ormai necessaria, come l’aria. Queste parole sono il mio agognato premio, dopo le parolacce. E io me le bevo come net-tare, perché ho bisogno di sentirmi voluta, di essere sua. L’ amore arriverà, ne sono sicura. Per questo subisco e aspetto.

***

Il nostro strano rapporto prosegue di nascosto dal mondo. Ci vediamo sempre e solo a casa sua, in genere verso sera. Beviamo qualcosa di alcolico, andiamo a letto, mangiamo dopo, se capita. Quando mi prende per mano può condurmi dove vuole, io lo seguo. Gli piace portarmi in bagno, spogliarmi, lavarmi come si lava una bimba. Dicendomi però cose che a una bimba non si potrebbero dire. Questo gioco lo eccita molto. A me invece turba, ma lo lascio fare.

La sua sicurezza mi intriga, perché io al contrario non sono mai sicura di niente. L’ idea che un uomo come lui scelga me fra tutte mi gratifica e mi fa sentire importante. Mi piace anche che sia tanto più vecchio di me, lo sento forte e saggio, certo sa cose

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che io non so, ha molto vissuto, e io amo imparare, sempre, e avere accanto qualcuno che ne sa più di me, che sia più grande di me, che possa insegnarmi qualcosa, svelarmi i segreti della vita. Manfredi è autorevole e non perde mai la calma, è pacato e freddo, e anche quando mi minaccia, lo fa con voce bassa e tranquilla.

«Finirà che ti ammazzo. Se mi tradisci, io ti ammazzo.»

Succede, in genere, dopo rapporti sessuali in cui lui si sente particolarmente coinvolto. Odia essere troppo coinvolto. Si alza dal letto, ancora sudato, e va ad aprire il primo cassetto del comò. Lì tiene la sua collezione di coltelli. Torna verso di me con uno splendido coltello in mano, appoggia la punta della lama fredda sulla mia pancia e la percorre tutta, superficialmente, dai seni al pube, dicendomi piano: «Te la aprirò tutta così, la tua bella pancia, se mi tradirai». Lo dice con tale dolcezza che sembra quasi una dichiarazione d’amore. In qualche modo, penso che lo sia.

Io rimango immobile, muta. No, non ho paura. È lui che ne ha, e tanta: di lasciarsi andare, di perdere il controllo. Forse addi-rittura di amarmi. Ma io non ho nessuna intenzione di tradirlo: lo amo! Quindi sono sicura di non correre alcun pericolo, e che quella è solo un’anomala manifestazione d’affetto. Ci tiene a me, vuole che io sia solo sua. Certo, si esprime in modo triviale, vuole impressionarmi, fare il macho. Preferisco vedere solo il lato posi-tivo: lui mi vuole tutta per sé. E questo mi piace. Però dopo una serata con lui sono a pezzi e ho bisogno di qualche giorno per rimettermi insieme. Ritorno nella mia cuccia e mi metto sotto le coperte, al buio.

Amo la mia piccola casa. Mi sento al sicuro solo qui, in queste due stanze e un soppalco pieni di libri e cd. È il mio spazio, quello che mi sono conquistata quando sono uscita di casa, una quin-dicina di anni fa. Ho lasciato Mantova e la mia famiglia per fare

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Gocce di veleno

l’università a Milano, e non sono più tornata. Durante gli studi ho condiviso un appartamento con delle amiche, ma con il primo contratto di lavoro ho voluto trovarmi uno spazio tutto per me. Mi sono subito innamorata di questa casina sui Navigli, in un vecchio palazzo di ringhiera. Ho richiesto un mutuo, che pagherò a vita, ma almeno ho un tetto sopra la testa, qualsiasi cosa accada, e una tana dove rifugiarmi dopo le tempeste. L’ ho arredata piano piano, portando dai miei viaggi in Oriente cimeli e colori che mi fanno sentire ancora un po’ laggiù. Le bandierine di preghiera tibetane sono appese sopra il letto, e mi fanno pensare alle montagne in-cantate dove le ho viste sventolare.

Tanti uomini sono passati da qui, ma non ho mai permesso a nessuno di fermarsi. Migro io volentieri, perché so che quando sono stanca posso sempre tornare da me. Manfredi invece non è mai venuto. Non voglio che ci venga. Sicuramente si guarderebbe in giro sospettoso, e comincerebbe a chiedermi chi ci è stato prima di lui, e non farebbe che immaginare uomini in ogni angolo. La sua gelosia è asfissiante e insensata, dal momento che continua a vedere altre donne. Perciò ho smesso di raccontargli di me, e di rispondere alle sue domande morbose. C’è qualcosa di malato e perverso nel voler scavare con tanta minuzia nel passato delle per-sone. Glisso come posso, e a mia volta non gli chiedo più niente. Tanto mi racconta solo balle.

La sua voce stentorea e dura mi insegue. Corro nella notte attraverso un bosco. Sono senza scarpe, i vestiti laceri, ma non smetto di correre disperatamente. La voce è sempre più vicina, nonostante i miei sforzi mi raggiunge, è dentro di me, rimbomba da fare paura. Mi accascio, sfinita, mettendomi le mani sulle orecchie per cercare di non sentire, e invece sento i piedi di lui sulla schiena, fra le scapole, che mi spingono giù, nella terra, sempre più forte. Io non ho voce, solo lui ce l ’ha, e sog-ghigna dandomi l ’ultimo colpo finale, affossandomi.

Mi sveglio sudata, con il cuore che martella, accendo la luce.

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Amour fou

Sono nella mia piccola casa, sono le tre del mattino, non c’è nes-sun bosco, nessuna voce minacciosa. Resto a guardare la parete di fronte, gli occhi sbarrati, troppa paura di addormentarmi e fi-nire ancora dentro ai miei incubi. Meglio stare sveglia, all’erta. Il Buddha intagliato nel legno comprato in Ladakh mi osserva pacifico, ma io la pace non so trovarla più.

***

Ormai dormo poco. Sono inquieta. Credo di avere dentro qual-cosa che non va, ma non so cosa sia. Certe volte vorrei smettere di frequentare Barbablù. Quando mi sembra che il male che mi fa sia superiore al bene. Quando mi sento sola, con il mio sogno impossibile di essere amata da lui. Passo giorni e settimane senza sentirlo, vedo altra gente, altri uomini, alla faccia sua. Tanto mica siamo fidanzati. Esco con Massimo, e Roberto, e Alessandro... belli, simpatici, affascinanti. Ovviamente tutti sposati, con figli, che mai lasceranno le loro mogli, con cui posso solo passare qualche ora piacevole, nulla più. Nessun coinvolgimento, nessuna aspettativa, patti chiari fra persone adulte. Scampoli d’amore.

Cerco di farmi la mia vita. Perché io ho una vita, nonostante tutto. Lavoro, amici, relazioni sociali, come una persona normale. La mia quotidianità non è differente da quella di tutti. Anche i miei desideri lo sono, banali, semplici, quasi infantili: cerco di essere amata e di amare. Ho solo due amici veri, Enrico e Sergio. Sono uomini diversi dagli altri, al di sopra di ogni sospetto, che stimo profondamente, con cui non ci potrà mai essere nulla di sessuale, anche perché uno è gay e l’altro ha quasi ottant’anni. Sarà per que-sto che li amo così tanto? Perché il sesso con loro non è in ballo?

Ho anche alcune adorabili amiche: con loro mi diverto, rido e scherzo. Mi piace parlar male dei maschietti che frequento, sve-lare tutte le piccolezze, le meschinità che si nascondono dietro ai

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miei amanti. In cuor mio odio gli uomini sposati che tradiscono le mogli, ma questo offre il mercato, e in abbondanza. I single ancora in circolazione o sono gay o sono impresentabili. Me ne frego, tanto all’amore comincio a non credere più nemmeno io. Così sdrammatizzo. Ci rido su. Ho la capacità di rendere buffi anche i momenti più intimi e imbarazzanti. Le faccio crepare dal ridere, le mie amiche, coi miei raccontini sugli uomini fedifraghi. È un modo per esorcizzare il male di questo buttarmi via senza criterio. Ma di Manfredi non ho mai detto molto. Mi vergogno.

«Perché non ci racconti mai niente di questo tuo nuovo miste-rioso amante?» mi chiede Ada, curiosa. Ha una decina di anni più di me e molte esperienze alle spalle. Un lungo matrimonio che si è trasformato in un’ottima amicizia, un amante più giovane di lei e pure di me, e in mezzo una storia tenera e inattesa con una donna. Ha sempre vissuto fino in fondo ogni relazione, senza tabù né pre-venzioni, rimanendo se stessa, ma anche abbandonandosi langui-damente a quel che la vita le offriva. Per questo l’ammiro e l’ascolto.

«Perché su di lui non ho aneddoti divertenti.»«Non ci hai nemmeno detto cosa fa, come si chiama» protesta

Tina. Lei invece di sesso credo si intenda poco. È androgina, sin-gle incallita, più attratta dalle donne che dagli uomini. Un’anima in pena senza mai pace, eppure ironica, acuta, di un’intelligenza brillante.

«Io lo chiamo Barbablù, perché ha una bella barba scura e l’aria cupa e misteriosa. Sul cosa fa esattamente non so risponderti, non ci capisco niente di finanza.»

«Basta che non ammazzi le donne, per me va bene tutto» dice Ada.

«Non sembra il tipo del serial killer, no. Semmai è un serial lover!» rispondo strizzando l’occhiolino.

«Mmh, deve piacerti molto se non lo metti alla berlina come gli altri» insinua ancora. Ada è saggia. Dovrei darle retta più spesso.

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«Non lo so, con lui è strano, non è come con gli altri e c’è dav-vero poco da ridere.» Non aggiungo altro e cambio discorso, non voglio spiegare né raccontare. La mia storia con Barbablù è un tale mistero anche per me che non saprei che altro dire. Quel che succede tra noi è solo nostro, un segreto inviolabile.

«Piuttosto, avete visto Miss Violence al cinema? È di un regista greco, pazzesco, mi pare si chiami Alexandros Avranas» chiedo per depistarle.

«Pazzesco nel senso che è uno dei tuoi soliti pacchi?» domanda Tina, giuliva.

«Pesante è pesante, ma è un capolavoro, dovete andare a vederlo. Esci con un’angoscia e un dolore incredibili.»

«Ecco un motivo per non andare a vederlo!» ride Ada.«Ok, dovete accettare una botta allo stomaco, però è una storia

ispirata a un fatto di cronaca avvenuto in Germania, dove un pa-dre padrone ha abusato delle sue figlie per anni in modo davvero atroce.»

«Dio mio Claudia, ma che film vai a vedere? Io non ci andrei nemmeno se mi pagassero!» dice Tina, rabbrividendo.

«È un film che ha vinto un sacco di premi, con attori straordi-nari, e racconta la realtà, che talvolta è orribile… A me interessa molto più della fantascienza o delle commedie. Riflettere sul male, scoprire perché accade…»

«Va bene, se una sera non siamo troppo depresse andremo a vederlo!» promette Ada, laconica.

Prediligo da sempre film impegnati, e per questo al cinema ci vado da sola. La gente preferisce lo svago, io invece voglio provare a capire la vita.

Vivo, quindi, ma sotto sotto aspetto una sua telefonata. Spero che Manfredi si ricordi di me e mi voglia ancora. Spero che si innamori di me. Di me che sembro sicura, forte e brillante. Mi dice sempre che

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sono bellissima, addirittura troppo bella per lui, e allora perché non mi tiene? Forse non valgo abbastanza. Mi sento come uno yo-yo, preso e mollato rapidamente, su e giù, senza posa. Vorrei un po’ di pace, finalmente. Così quando lui chiama, dopo settimane, talvolta mesi, io torno, come un cane che risponde al fischio del padrone. Basta un sms, una mail anche scarna, giusto il segnale che lui mi cerca. Sullo schermo del telefono leggo «Come sta la mia bimba?» e non capisco più niente, letteralmente, sento solo che mi desidera e voglio ardentemente essere ancora la sua bimba. Svaniscono gli amanti, gli amici, le amiche. Tutto passa in secondo piano. D’im-provviso mi riaccendo, mi metto in moto e torno verso di lui, cieca e dimentica di tutto. Mentre mi preparo per raggiungerlo sono eccitata, scelgo con cura la biancheria, le scarpe, il vestito, mi trucco bene, voglio essere bellissima, so che lui osserverà ogni dettaglio, che i suoi occhi rapaci si soffermeranno in ogni mia piega. Vado verso l’incontro con il cuore che batte forte. Lui è l’unico uomo al mondo capace di provocare in me questo sconquasso.

Arrivo, e subito mi sento piccola e insignificante, mentre lui mi scruta attento e soppesa il mio valore. Mi svaluto mentalmente, tendo a farlo in automatico, o forse sono i suoi occhi critici che lo fanno al posto mio. Anche la sua grande casa mi intimorisce, mi fa sentire fuori posto, gli ampi spazi vuoti non mi sono mai piaciuti, mi sembrano freddi. Casa mia è più intima e avvolgente, fatta di colori caldi e libri e musica. Da Manfredi non c’è mai musica, non ci sono che pochi libri in corridoio, è tutto bianco, abbagliante, in modo che spicchino i suoi preziosi quadri alle pareti: sembra una cattedrale del lusso, un luogo di culto per persone ricche.

Beviamo un calice di champagne in salotto, parliamo poco, siamo entrambi tesi, per lo più ci osserviamo. È elegantissimo, come al solito. Camicia a righe con le sue iniziali ricamate, gemelli stravaganti, bretelle colorate, abito sartoriale di un tessuto morbido

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e costoso. Ma sono gli occhi, i suoi occhi che mi imprigionano. C’è una sorta di sfida micidiale fra noi. Non so mai cosa pensa di me, mi sento giudicata, sono a disagio. Ho l’impressione di non valere nulla davanti a lui, di essere niente. Eppure fuori, nel mondo, ho successo, sono considerata brava e anche piuttosto bella. Ma qui dentro non sono mai abbastanza, perdo ogni certezza, tremo. È questo il potere che lui ha su di me, e non so capire da dove gli viene, chi glielo ha dato.

Lui si alza, mi viene incontro sovrastandomi con la sua statura, mi prende per mano e mi trascina verso la camera da letto. Non è me, ma il mio corpo che vuole, che brama. Lo sento chiaramente. E lascio che ne faccia scempio. Mi mette carponi, mi sfila il tanga e inizia a dirmi volgarità. Penso che il mio bel vestito si stropiccerà, quello stesso vestito che ha acceso la sua passione per me. Sento il suo desiderio impellente, violento, e sono compiaciuta di essere stata io a provocarglielo, ma d’improvviso un dolore fortissimo, inatteso, mi trafigge. Urlo. Lui comincia a montarmi da dietro ti-randomi i capelli. Io grido che mi fa male e lui continua, e continua, gli piace molto, così. Lacrime bagnano le coperte, i miei singhiozzi si uniscono ai suoi sussulti, alla fine urla e mi butta via, come un corpo morto, una bambola rotta, e va in bagno a sciacquarsi, per un tempo che non so definire.

Io resto lì bocconi, rannicchiata, male dappertutto, immobile, gli occhi chiusi. Sono lì, ma non sono solo lì. È dunque colpa dell’a-more? È così che si ama? Bisogna sopportare anche questo per essere amati? È davvero troppo anche per una ragazza disponibile come me. Mi chiedo perché mai mi faccio trattare così. Mi dico che questa è l’ultima volta, che appena riesco a rimettermi in piedi me ne vado e non torno più. Ma poi lui ricompare raggiante, in vestaglia, con altri due calici di champagne ghiacciato, mi prende tra le braccia, mi dice che sono stata bravissima e che sono la sua bimba adorata, e che non ce ne sono in giro di bambine brave come

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me. Mi faccio consolare. Mi basta così poco per essere ripagata delle ferite. Così poco.

«Mi hai fatto male» protesto debolmente, ma lui mi dice che non è niente, che passerà. Mi porta nel suo grande bagno di mar-mo, mi fa sedere sul bidè, mi lava via il sangue e lo sperma, e lo fa con una cura quasi amorevole, che mi scioglie. Poi mi mette una crema speciale, lenitiva. Mi riveste, mi bacia in fronte e mi rispedi-sce a casa. Ora ha da fare, non ha più tempo per me. Esco stordita, dolorante, stanca. Mi viene da piangere, e piango guidando piano verso casa. Mi rimetto a letto, le lenzuola sopra la testa, non voglio pensare, non voglio sapere, non voglio respirare.

***

Basta, stavolta ne ho abbastanza, non voglio proprio vederlo più. Me lo dico e me lo ripeto, e cerco di cancellarlo dai miei pensieri. Faccio altro. Lavoro molto, con nuova lena, per tenere la testa impegnata, per investire il mio tempo in cose che mi arricchiscano. Vado al cinema, leggo libri, esco con le amiche, parlo con gli amici. Per qualche mese tutto fila liscio, Barbablù sembra un fantasma lontano. Io non lo cerco, lui non mi cerca. Chissà con chi starà, mi chiedo ogni tanto, ma subito butto via il pensiero, lo scaccio come si fa con una zanzara fastidiosa.

«Ma non ce l’hai, un moroso?» mi chiede mia madre al telefono, durante la nostra conversazione settimanale di routine.

«No mamma, sto bene così, non ti preoccupare» rispondo asciutta.

«Io alla tua età vi avevo già tutti e tre» si lamenta lei.«Lo so, me l’hai detto cento volte. Ma i tempi sono cambiati,

fattene una ragione» e già non vedo l’ora di riagganciare. La chia-mo per dovere, perché vivendo in un’altra città non la vedo mai, perché è vecchia e malandata, ma non la sopporto lo stesso. Non

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la sopporto. Sempre con questa idea fissa che dovrei sistemarmi, cioè mettere la testa a posto, cioè avere un uomo. Che palle questa sua mentalità antiquata, se solo sapesse che razza di uomini ci sono in giro, oggi.

Vado in vacanza con Elsa, la mia amica d’infanzia, quella in-sieme alla quale sono cresciuta e che è più di una sorella, per me. È rimasta a vivere a Mantova, quindi per stare un po’ insieme dobbiamo cercare di incastrare le nostre ferie. Ci facciamo un bel-lissimo viaggio alle Eolie pieno di chiacchiere e sole, bagni infiniti e lunghi aperitivi. Rigorosamente senza uomini. Al ritorno sono abbronzata e felice, e ricomincio a vedere i miei amanti, con una certa allegria. Mi sento proprio bene quando sto per un po’ senza Barbablù, come un tossico che riesce a fare a meno della droga. Disintossicata. Ripulita. La vita è più semplice, liscia, lineare, senza alti e bassi. Certo non mi aspetto che lui chiami ancora. Non lo sento da almeno tre mesi. Invece.

Il cellulare trilla e compare la faccia di Manfredi. Inattesa. Te-muta. Amata.

«Bimba, sono io.» La sua voce calda al telefono, quel tono sicuro che non lascia scampo. «Ho bisogno di vederti» aggiunge in un sussurro.

«Come stai?» chiedo, tanto per prendere tempo, le gambe già molli.

«Sto benissimo. Ma mi manchi. Vieni da me stasera, ti aspetto. Ho messo in frigo un Krug speciale.»

Respiro piano, vorrei dire no, so che dovrei dire no. Sto così bene, stavo così bene. Invece. Ho troppa voglia di vederlo, di ria-prire la sfida, di provare a vincere io, stavolta.

«Ok. Alle nove da te.»Riaggancio e ho già la tachicardia. Con un sms mi libero di

un impegno a cena che poteva essere carino, ma chi se ne frega.

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Torno a casa prima dal lavoro e mi preparo meticolosamente: peeling, doccia, crema, reggicalze, il vestito più nuovo e più bel-lo che ho. Il cuore non ha smesso di martellare per un attimo. Salgo le scale verso il suo appartamento con il battito in gola, ogni volta mi stupisco di essere ancora qui, di tornare a varcare questa maledetta soglia. Lui mi aspetta sulla porta, mi tira den-tro con forza, mi bacia subito, senza nemmeno salutarmi, senza lasciarmi togliere lo spolverino. Una smania inconcepibile, una fame divorante.

«Ehi, piano. Ti sono mancata, a quanto pare!» provo a dire scostando la bocca dalla sua.

«Da morire» risponde infilandomi di nuovo la lingua in gola, mentre annaspo, in fondo ancora assurdamente felice della sua foga.

«Parliamone!» pretendo, mentre lo tiro via da me spingendolo con le due mani. Finalmente mi tolgo il soprabito e vado a seder-mi in salotto. Mi sento carina e desiderabile, le pause fra noi mi rinforzano, le sue assenze mi rendono impavida, quasi temeraria.

«Ti trovo bene, sei ancora più bella di come ricordavo» mi dice, avvolgendomi con lo sguardo. Anche lui è in forma, abbronzato, rilassato, sicuro di sé.

«Senti, ho avuto tempo per pensarci, e a me non va più di sco-pare e basta. Io ho voglia di una relazione d’amore. Tu sei libero, io pure, perché dobbiamo continuare a fare gli amanti clandestini?»

Lui mi lascia parlare, rabboccandomi il calice. Mi osserva sem-pre con quegli occhi indagatori che mi fanno sentire sotto processo. Mi chiede se ho visto altri, in questo periodo.

«Certo che sì» rispondo provocante «sono più di tre mesi che non ti fai vivo.»

Lui fa una strana smorfia e mi gela con lo sguardo.«Vedi? Sei una troia, non posso mettermi con una troia come te.» La sua è una pura constatazione. Ha ragione? In cuor mio, temo

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di sì. È pur vero che ho altri uomini. Lo odio. Cosa vuole da me? Che sia fedele a un fantasma? Mi ribello.

«Che stronzo che sei! Perché invece tu in questi mesi sei stato casto? Non mi dire!» ribatto aggressiva.

«Con chi sei stata? Voglio saperlo.»«Non cominciare. Io non sono venuta a chiederti con chi sei

stato tu. Immaginarlo mi dà già abbastanza fastidio, non voglio certo i dettagli.»

«Cosa c’entra, io sono un uomo!» dice lui con tale convinzione da esasperarmi.

«E io sono una donna libera, visto che non stiamo insieme!» Faccio per andarmene, offesa, ma lui mi afferra un polso, mi

butta sul divano, mi sale sopra e comincia a baciarmi dappertutto tenendomi le braccia bloccate sopra la testa. La forza del suo desiderio mi esalta, mi ammalia.

«Dove credi di andare, eh? Tu sei la mia puttana bambina, fatti fottere dal tuo papà» mi sussurra all’orecchio, leccandomelo. Ha un profumo buonissimo e mani grandi, veloci e dure, me le infila ovunque, mi slaccia i vestiti, mi succhia con forza i capezzoli, rabbrividisco, provo a divincolarmi ma lui è più forte, e così cedo, spaventata, eccitata. Mi mancava tutto questo, lo sento. Il suo desi-derio vince sempre. Dà valore anche a me, in qualche strano modo. Se lui mi vuole così ostinatamente, penso, forse valgo qualcosa. Consumiamo un coito rapido e brutale, ma alla fine io mi sento un buco, solo un buco dove lui si scarica.

Viene urlando come un pazzo, poi gli vibra il telefono, si alza ancora in affanno, risponde, parla di lavoro come se niente fosse, si allontana, va in un’altra stanza, nudo e sudato com’è. Sento la sua voce stentorea, si incazza con qualcuno all’altro capo del filo. Capisco che la cosa andrà per le lunghe e che posso approfittare di questo momento per andarmene, non ho più alcuna voglia di restare lì, abbandonata su un divano, seminuda, infreddolita, così

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raccolgo in fretta i vestiti sparpagliati, me li infilo in qualche modo e me ne vado con il trucco sbavato e l’odore di sperma addosso. Per strada barcollo, sento un vuoto dentro, come una voragine che mi risucchia, ma tengo duro e arrivo fino a casa. Chiudo la porta dietro di me e mi accascio, senza più forze. Questa storia non ha senso, deve finire, mi dico per l’ennesima volta. Questa storia mi sta uccidendo. Ho le vertigini. Perdo i sensi. Meglio così.

Invece mi richiama pochi giorni dopo e vuole vedermi anco-ra. Per una volta gli rispondo di no, che sono stufa, che non mi va. Resta in silenzio, stupito e offeso del mio diniego. Non ci è abituato. Poi cambia tono, diventa dolce, dice che ha pensato alle mie parole, che vuole parlarmi, e mi invita a cena in un bellissimo ristorante. Una piccola speranza si riaccende in me. Accetto.

Comincio a prepararmi dal pomeriggio, cerco di controllare l’ansia che mi invade, mi sono già scolata un paio di bicchieri di vino bianco quando finalmente suona il citofono. Ho scelto un vestito scollato verde acqua, che fa risaltare il seno. È la parte del mio corpo che preferisco, quella che fa impazzire gli uomini. Non sono né alta né magra, ma ho delle tette burrose e sode di cui vado fiera e che Manfredi adora.

Mi dà una rapida occhiata compiaciuta, senza dire nulla. In macchina sono nervosa, lui guida in modo brusco, è sempre stres-sato per il lavoro o chissà che. Io non oso fiatare, mi faccio piccola piccola. Entriamo. I camerieri si inchinano ossequiosi, anche qui lo conoscono, sanno che lascia laute mance. Il tavolo è in un angolo tranquillo, finalmente ci sediamo uno di fronte all’altra. Ordina del vino costosissimo e sceglie dal menu anche per me.

No, non mi piace questa sua aria strafottente, da uomo di potere a cui tutto è dovuto. Mi infastidisce, piuttosto. Mi chiedo cosa mai ci faccio con un uomo così. Perché mi ostino a frequentarlo. Perché subisco il suo fascino. Manfredi è ricco, ma io non ho mai

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avuto alcun interesse verso i suoi soldi. Il mio lavoro mi piace e mi dà di che vivere, altro non mi serve. Ciò che mi tiene legata a lui è molto più subdolo e arcano.

Bevo altro vino, lo assaporo con gusto ed è davvero squisito. Intanto lui mi propone di partire per un weekend romantico in Francia, vuole portarmi in certi posti che lui sa, e che io ho solo sentito nominare. Mi riempie di complimenti, mi avvolge con mille premure, dice che quando stacca dal lavoro è molto più rilassato e che passeremo giorni bellissimi, lontani da tutto. Non l’abbiamo mai fatto, finora. Mi brillano gli occhi, non solo per il vino. È quello che voglio, stare con lui, noi due insieme, e non solo per il breve tempo di un coito. Non devo nemmeno pensarci, dico di sì, e dopo la sontuosa cena vado anche a farmi scopare. Dormo lì, per la prima volta, ma poco e male, lui russa forte, io ascolto il suo respiro, osservo il suo corpo inerte, di schiena, e non so chi sono, non so chi è.

***

Partiamo dunque per un lungo fine settimana, raggiungiamo la Francia con la sua macchina, ascoltando canzoni napoletane e cantandone alcune insieme. Imparo a memoria Indifferentemen-te di Mario Trevi, che trovo struggente e splendida, la colonna sonora perfetta del nostro amore assoluto. Sono felice di averlo finalmente tutto per me, e lui in effetti è meno rude del solito. Arriviamo in un relais & chateaux incantevole dove ha prenotato una suite. C’è un terrazzino con una vista che toglie il respiro. Immagino che ci sia già stato con altre donne ma non voglio farmi avvelenare i pensieri dalla gelosia, così caccio via quell’i-dea fastidiosa. Ora ci sono io, questo è il mio turno, e voglio godermelo senza ombre. La sua sicurezza nel muoversi anche all’estero mi fa sentire protetta. Facciamo l’amore di continuo,

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mattina, pomeriggio e sera, e fra una scopata e l’altra andiamo a mangiare in posti deliziosi, o a camminare sul lungomare. Mi tratta come la sua bimba, mi coccola, mi lusinga. Io sono in sua balìa, totalmente. Se ora mi chiedesse di buttarmi nel fuoco, lo farei. Sono pronta a tutto ed entusiasta come una ragazzina che è stata finalmente accontentata.

Le nostre pratiche sessuali si stanno evolvendo, le sue richieste si fanno ogni volta più esplicite e precise. Io accondiscendo sempre, da brava scolaretta obbediente. Anche se non capisco perché mai lo ecciti così tanto farsi fare la pipì addosso, per esempio. A me non piace per niente, ma lui impazzisce, adora essere bagnato dalla mia pipì. Che cosa strana. Assurda. Io lo faccio per lui, perché poi mi loda ed è felice. Vederlo felice mi rende felice, mi fa sentire potente e soddisfatta come una donna incinta. Gli unici momenti di tensione sono quando il mio cellulare cinguetta per l’arrivo di un sms o di una mail. Manfredi si tende, vuole sapere chi mi scrive, cosa vuole da me. Un messaggio è di Ada, un altro di Enrico. Un paio di mail sono di lavoro. Non ha nulla di cui preoccuparsi, ma lo vedo comunque infastidito, a prescindere. Decido di togliere la suoneria per evitare discussioni, ma lui si accorge anche delle vibrazioni, è sempre vigile e sospettoso, quindi alla fine spengo il telefono. Tanto non aspetto nessuna chiamata. A mia madre ho detto che sono all’estero per lavoro, tutti gli altri possono aspettare.

A cena ho voglia di sapere qualcosa della sua infanzia. «Che tipo di bambino eri?»«Ero incazzato nero, fin da piccolo. Quella troia di mia madre

non mi ha mai voluto.» «Come puoi parlare così di tua madre?» chiedo spazientita.«Mia madre era una grandissima troia» ribadisce lui con sec-

chezza. «Era bellissima. Come te. Tu me la ricordi molto. È rimasta incinta a diciassette anni di mio padre, che la voleva a ogni costo. Per questo lui l’ha messa incinta, per averla. Immagino che mia