Gli ultimi giorni di Stefan Zweig

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Narratori Francesi Contemporanei Gli ultimi giorni di Stefan Zweig

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Il 22 febbraio 1942, il grande scrittore austriaco Stefan Zweig mette fine ai propri giorni insieme alla moglie Lotte. Il suo gesto estremo, compiuto durante l’esilio a Petrópolis, in Brasile, ha continuato da allora a commuovere e affascinare. Mescolando realtà e finzione, questo romanzo racconta gli ultimi sei mesi della sua vita straordinaria, dai fasti di Vienna fino al compiersi di un tragico destino. Dopo la fuga dall’Austria e l’esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti, Stefan e Lotte credono di trovare in Brasile una terra con un futuro.

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Narratori Francesi Contemporanei

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Laurent Seksik

Gli ultimi giornidi Stefan Zweig

romanzo

Traduzione dal francese diMicol Bertolazzi

GREMESE

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Titolo originale:Les derniers jours de Stefan ZweigCopyright © Flammarion, 2010

Copertina: Giulia Arimattei

Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma

Copyright edizione italiana:GREMESE2012 © New Books s.r.l. – Romawww.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essereriprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o conqualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-707-8

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L anciò un’occhiata al baule in cuoio beige, si-stemato nel corridoio accanto alle altre vali-

gie. Si voltò verso la signora Banfield, la caraMargarida Banfield, e allungò il braccio verso dilei per afferrare il bicchiere d’acqua che gli por-geva. Ringraziò e bevve d’un fiato. Rifiutò l’invi-to a visitare l’appartamento. Conosceva già lacasa. Aveva amato ciascuna delle tre piccole stan-ze, l’arredamento semplice e rustico, il cantostridulo e appassionato degli uccelli all’esterno,l’immensità della valle di fronte alla veranda. Aqualche decina di chilometri a sud, il Corcovadoe il Pan di Zucchero si ergevano come monolitisopra alle isole che affioravano dal mare. In queipaesaggi c’era il cuore del mondo.

Addio alla bruma che avvolgeva le cime delleAlpi, ai crepuscoli freddi e immobili che cadeva-no sul Danubio, al fasto degli hotel di Vienna, al-le passeggiate al calar della sera sotto gli alticastagni del giardino Waldstein, alle sfilate dibelle donne nei loro abiti di seta, alle fiaccolatedi uomini in nero avidi di sangue e di carni mor-te. Petrópolis sarebbe stato il luogo di ogni ini-zio, il punto di origine, simile a quello dove

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l’uomo era nato dalla polvere e tornava alla pol-vere, il mondo primitivo, inesplorato e vergine,garanzia di ordine e certezza, giardino del tem-po in cui regnava la primavera eterna.

Restò immobile davanti al baule, in una sortadi calma ipnotica, come soggiogato da un incan-tesimo. Fu il primo istante di spensieratezza do-po mesi. Cercò in fondo alla tasca interna dellagiacca la chiave del baule, quella chiave che ave-va sempre tenuto con sé, e che a volte sfioravacon la punta delle dita, come un talismano pre-zioso, in mezzo alla folla frettolosa, su una ban-china della stazione o sul molo di un porto,nell’attesa di una nave o di un treno il cui arrivoera incerto. Ogni volta, la magia funzionava. Ilcontatto con la chiave lo riportava al passato.Una carezza sul metallo freddo regalava un giroin carrozza intorno al Ring, un posto per unaprima al Burgtheater, la compagnia di Schnitzleral ristorante Meissl & Schadn, una conversazionecon Rilke alla brasserie della Nollendorfplatz.

Quei tempi non sarebbero più tornati. Maipiù passeggiate sul ponte Elisabetta, camminatesul grande viale del Prater, il bagliore dell’orodel palazzo di Schönbrunn, né il lungo spettaco-lo del sole che tramonta sulle rive del Danubio.La notte era calata per sempre.

Girò la chiave nella serratura. Dal bagaglioaperto uscì una sorta di luce pura. In quell’ango-

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lo di Brasile, il giorno nasceva una seconda vol-ta. Il suo animo, intorpidito per molto tempo daun sonno senza sogni, fu sommerso da una cal-ma esaltazione, mentre il suo cuore iniziava abattere con un’eco potente. Il suo cuore palpita-va di nuovo.

Sentì una presenza dietro di lui, gli parve dipercepire un soffio. Si voltò, convinto che Lottefosse lì a osservare la scena, momento di pacenella tormenta, serena, immobile, condividendosapientemente la solennità dell’attimo, con lostesso atteggiamento, calmo e per nulla fatalista,che aveva mantenuto nei giorni e nelle settima-ne di infinito terrore, fuga, movimento perpe-tuo, attesa incerta dei visti, file interminabili diesseri con i volti in lacrime e vane suppliche.

Non c’è più un sacro asilo, un posto fisso do-ve abitare. Ormai la vita è il luogo di un eternoerrare. L’immemorabile esodo.

La osservò. E davanti alla grazia esalata daquel viso, si chiese con quale diritto poteva la-sciare offuscare la brillantezza del suo sguardo efare di quella giovinezza una bellezza decadente.

Il viaggio non sarebbe mai finito.La signora Banfield aveva preparato il tè, ne

voleva una tazza? Fece di no con la testa, maquesta volta il suo rifiuto non aveva nulla dellabuia ricusa con la quale aveva l’abitudine di de-clinare ogni invito.

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Era un no impaziente e febbrile, un no pro-mettente.

Alla fine avevano trovato un luogo dove posa-re le valigie, in quell’autunno del 1941. Per mol-te settimane consecutive, avrebbero osservatodallo stesso posto il tramonto. Avrebbero potutoscrivere ai loro cari indicando, sul retro della let-tera, un indirizzo dove ricevere la posta, un sem-plice indirizzo – rua Gonçalves Dias 34,Petrópolis, Brasile – come non era mai più suc-cesso dopo Londra. Ma avevano finito per stan-carsi di Londra.

Lotte cominciò a parlargli, con la voce dolceche la malattia rendeva, certi giorni, affannata;quell’asma incurabile, aggravata dai viaggi e chea volte la portava al limite del soffocamento.Quel mattino, la sua voce non tradiva alcun ma-lanno. Disse, con un tono calmo:

«Credo che staremo bene. Il posto è splendi-do. Sono sicura che vi riprenderete da questiviaggi, che ricomincerete a scrivere… Forse, èqui che trascorreremo i nostri ultimi giorni?».

Lui si guardò intorno. L’appartamento era im-merso nella penombra. Uno stretto corridoio siapriva, a destra, su una stanza da letto quadratacon il pavimento ricoperto da un vecchio tappeto.Due letti gemelli, con la struttura in ferro, vicinil’uno all’altro, occupavano il fondo della camera.Sul comodino, una Bibbia e un posacenere.

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Tende bianche, senza ricami, appese con deiganci sopra la finestra. La stanza dava su un ba-gno, con una vasca dallo smalto scrostato sulbordo, dove erano appoggiati due asciugamani.La cucina disponeva di tutto il necessario. Inmezzo alla sala da pranzo, un tavolo in quercia,quattro sedie impagliate, una poltrona di cuoioscuro logoro, una libreria. Alle pareti, alcune na-ture morte. Era una piccola casa con tre locali.Per quella sorta di bungalow, aveva ottenuto unaffitto di soli sei mesi. Dopo un semestre avrebbedovuto fare i bagagli, trovare un’altra sistemazio-ne. Contò con le dita. Entro il marzo del 1942sarebbe stato mandato via. Raus! Fuori, Zweig!Sei mesi in quel posto sperduto in mezzo alniente. Un luogo di luminosa desolazione. Maaveva il diritto di lamentarsi? I suoi amici, im-mersi nel loro presente di sangue versato, cerca-vano un riparo per la notte, elemosinavanocento dollari per passare l’inverno, supplicavanoun visto a chi aveva un nome. Erano diventatimendicanti, quelli del popolo del Libro, quellidella tribù degli scrittori. La piccola casa di Pe-trópolis doveva essere considerata come il piùelegante dei palazzi.

Doveva dimenticare la sua abitazione di Sali-sburgo, allontanare dalla memoria l’imponentefortezza di Kapuzinerberg, l’antico padiglione dicaccia del XVIII secolo la cui facciata faceva pen-

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sare a un annesso del castello di Neuschwansteine dove aveva giocato, da piccolo, l’imperatoreFrancesco Giuseppe. Quella tenuta era la locali-tà dove si era sempre sentito meglio, dietro lemura spesse, guardiane della sua solitudine,quando scriveva o era in preda alla rabbia furi-bonda. Una nobile fortezza dove era vissuto feli-ce.

Dimenticare Salisburgo. Salisburgo non esi-steva più, Salisburgo era tedesca. Vienna era te-desca, Vienna, provincia del Grande Reich.L’Austria non era più il nome di una nazione.L’Austria, fantasma errante negli animi smarriti.Corpo morto. L’inumazione si era compiuta sul-la Heldenplatz, sotto l’ovazione di un popoloche acclamava il suo Führer. L’uomo venuto arinvigorire i sogni di grandezza, a ridare presti-gio e purezza alla Vienna ebraizzata. L’Austria siera offerta a Hitler. Vienna, sfilata da favola, coni viali di cristallo dove si aprivano i cuori, si roto-lava nel fango, si asciugava al vento del crimine.Vienna danzava durante i sabbat, tendeva la ma-no al figliol prodigo, tornato nel paese natale at-traversando Braunau am Inn, dove aveva visto laluce, e rientrando nella propria casa, Re di Berli-no, Kaiser d’Europa investito dal cardinale Innit-zer, acclamato da una città esultante. Eranopassati tre anni dall’Anschluss. Le testimonianzedi chi riusciva ancora a fuggire si succedevano.

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Raccontavano la fame, il dolore, la miseria.L’esecuzione degli ebrei a Vienna. Lo spettacolodell’orrore che si era svolto nelle terre tedeschesi riproponeva, accelerato, nella piccola capitale,là dove aveva vissuto le ore più belle della suaesistenza.

Avevano saccheggiato i negozi, incendiato lesinagoghe, picchiato gli uomini per strada, espo-sto gli anziani, i pii osservanti in caffettano, allavendetta. I libri erano stati bruciati – i suoi equelli di Roth, di Hofmannsthal, di Heine… –, ibambini ebrei erano stati espulsi dalle scuole, gliavvocati e i giornalisti ebrei deportati a Dachau.Avevano emanato le leggi, leggi che vietavanoagli ebrei di esercitare la loro professione, di en-trare nei giardini pubblici e nei teatri, di cammi-nare per la strada durante quasi tutte le ore delgiorno e della notte, di sedersi su una panchina;leggi che ordinavano di dichiararsi alle autorità,che toglievano la nazionalità, che estorcevano ipatrimoni, che cacciavano dalle case, che rag-gruppavano, confinavano le famiglie ebree fuoridalle mura della città.

E il tedesco era un uomo di legge!Il dramma si ordiva nella città in cui era nato.

«Il più grande omicidio di massa della Storia»,aveva profetizzato. Non gli avevano voluto crede-re. Avevano detto che era matto. Già quandoaveva fatto le valigie, nel 1934, quattro anni pri-

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ma dell’Anschluss, gli avevano dato del codardo.Si era esiliato, lui, il primo dei viennesi, il primodei fuggitivi. «Soffri di una psicosi da esilio im-maginario», aveva sostenuto la sua ex moglie,Friederike. Sarebbe potuto restare quattro anniin più, restare come aveva fatto Freud, nell’illu-sione che la disgrazia fosse solo di passaggio. Erapartito nel 1934, dopo che la polizia austriacaaveva perquisito la sua casa alla ricerca di un na-scondiglio d’armi: armi a casa del cantore delpacifismo!

Molto presto aveva sentito girare il vento, ilvento cattivo che soffiava dalla Germania. La rab-bia nei discorsi, la brutalità degli atti annunciaval’Apocalisse a chi aveva gli occhi aperti, a chi da-va un senso alle parole. Apparteneva a una razzain pericolo: l’«Homo austriaco-judaicus». Aveval’istinto delle cose, conosceva bene la Storia. Ave-va scritto di ogni epoca, di Maria Stuarda e MariaAntonietta, Fouché e Bonaparte, Calvino ed Era-smo. Prendendo come metro di paragone le tra-gedie del passato, arrivava a presagire deidrammi in divenire. Quella guerra non avrebbeavuto niente in comune con le precedenti.

I suoi cugini, gli amici, quelli che erano rima-sti, che non avevano voluto sentire ragioni, nonavevano voluto ascoltarlo, conoscevano la mise-ria e la fame. E si narrava che a volte uno di que-gli esiliati, colto da un momento di coraggio,

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assetato d’aria esterna, di profumo del passato,chiamato dai bagliori del sole, si avventuravalungo i viali di Vienna e percorreva l’Alserstrassecon la speranza di raccogliere mille istanti lumi-nosi. Allora, si raccontava, dei passanti lo ricono-scevano dall’aria stralunata, dal terrore sul volto;lo interpellavano, radunavano la folla, lo richia-mavano all’ordine, il nuovo ordine. Qualcunonel cerchio lanciava una pietra, un secondo si av-vicinava per dargli uno schiaffo; altri, incoraggia-ti, si avventavano sull’uomo, piovevano colpi,colava il sangue, ci si accaniva. E se per caso unSS che gironzolava per il Ring, allertato dal tu-multo mentre risaliva la Florianigasse, si avvicina-va alla scena, allora dalla folla si sollevava unclamore confuso; il cerchio si allargava, scendevaun grande silenzio, l’SS prendeva dalla cintura lapistola e l’arma scintillava sotto il sole di Vienna.L’uomo in nero mirava, aggiustava il tiro, unapallottola fischiava e la morte afferrava l’amantedell’aria aperta.

Ecco quanto riportava l’articolo di un quoti-diano viennese che gli era stato fatto arrivare:

«Il sindaco di Vienna ha deciso di tagliare ilgas negli appartamenti occupati dagli ebrei. Ilnumero sempre maggiore di suicidi con il gas inqueste abitazioni infastidisce la popolazione ed’ora in poi sarà considerato come disturbo al-l’ordine pubblico».

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Respirò profondamente l’aria tiepida che pas-sava attraverso la finestra socchiusa. Contemplòl’immensità verdeggiante che si presentava allosguardo oltre i tetti della città. Il suo animo ce-dette alla dolcezza dell’ambiente. I suoi turba-menti si placarono. Dimenticò gli anni svaniti,gli esseri che soffrivano. Ebbe un pensiero perLotte e per se stesso. Un senso di vergogna lo at-traversò insieme a una sensazione di benessere.Dimenticò la vergogna. Rivolse a Lotte un sorri-so timido. Disse che condivideva quello stato disollievo. Ciò che l’aveva conquistato, durante laprima visita, era stata la veranda su cui si apriva ilsalotto e dove aleggiava un non so che di vitale.Seduto sulla poltrona, aveva provato la familiari-tà dei luoghi.

Si chinò sul baule e ne esaminò il contenuto,una quarantina di opere. I libri avevano fatto ilviaggio con lui, da Salisburgo. Si era ripromessodi tirarli fuori soltanto quando nel suo animofosse tornata la calma. Era giunto il momento.

Estrasse i libri, uno a uno. Lentamente, di cia-scuno, osservava la copertina, sfiorava il bordo.Poi a lungo, perdutamente, in modo quasi ridi-colo, immergeva il naso tra le pagine e annusaval’odore che se ne sprigionava. Quei libri nonavevano più visto la luce dai tempi della fuga dal-la casa austriaca. L’ultimo posto che avevano co-

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nosciuto era la biblioteca della tenuta di Kapuzi-nerberg. Il tempo, la traversata dei continenti edegli oceani non avevano dissipato il loro profu-mo. Esalavano l’odore del salotto della casa diSalisburgo. Le pagine se ne erano impregnatenegli anni: un insieme di aroma di pino, legnabruciata, foglie d’autunno, odore di terra dopola pioggia, fumo di sigari, mela, cuoio vecchio,fragranza da donna e tappeti persiani. Dopol’entusiasmo e la solennità con cui aveva apertole prime opere, affondò il naso nelle successive.Inspirava a pieni polmoni. Le pagine avevanoconservato tutto. Il passato non era né morto nésepolto. Era preservato tra le pagine dei libri. Gliagenti della Gestapo, molto tempo prima, aveva-no requisito la casa, frugato in ogni angolo dellestanze, portato via i mobili, i quadri d’autore,migliaia di altri libri, ma non avevano potuto cat-turare l’odore del salotto. Una parte del passatoera sfuggita ai profanatori. I libri avevano conser-vato i profumi della vita, resuscitavano von Hof-mannsthal mentre fumava il suo avana, il poveroJoseph Roth che assaporava il whisky, il veneratoSigmund Freud e i suoi aromi di pipa. Il ricordodi tutti quelli che avevano attraversato il salotto,Franz Werfel ed Ernst Weiss, Thomas Mann eToscanini, era stato messo in salvo. Tutti quegliesseri morti o in esilio sarebbero sopravvissuti at-traverso l’evocazione della loro presenza.

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