GIUSEPPE VERDI - LICEO SCIENTIFICO N. COPERNICO · Giuseppe Verdi muore il 27 gennaio 1901 presso...

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GIUSEPPE VERDI Angelini Virginia, Benvenuti Luisa, Droga Samuele, Fabrizzi Chiara e Magnini Alessandra Classe V AL

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GIUSEPPE VERDI

Angelini Virginia, Benvenuti Luisa, Droga Samuele, Fabrizzi Chiara e

Magnini Alessandra

Classe V AL

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INDICE

Biografia Nabucco I Masnadieri Rigoletto Il trovatore La traviata Simon Boccanegra La forza del destino Messa da Requiem Aida Otello Falstaff

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BIOGRAFIA

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto, in provincia di Parma. Il padre, Carlo Verdi, è un oste, la madre invece svolge il lavoro della filatrice. Fin da bambino prende lezioni di musica dall'organista del paese, esercitandosi su una spinetta scordata regalatagli dal padre. Gli studi musicali proseguono in questo modo sconclusionato e poco ortodosso fino a quando Antonio Barezzi, commerciante e musicofilo di Busseto affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari ed accademici. Nel 1832 Verdi si trasferisce quindi a Milano e si presenta al Conservatorio, ma incredibilmente non viene ammesso per scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età. Poco dopo viene richiamato a Busseto a ricoprire l'incarico di maestro di musica del comune mentre, nel 1836, sposa la figlia di Barezzi, Margherita.

Nei due anni successivi nascono Virginia e Icilio. Intanto Verdi comincia a dare corpo alla sua vena compositiva, già decisamente orientata al teatro e all'Opera, anche se l'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fa anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi. Nel 1839 esordisce alla Scala di Milano con "Oberto, conte di San Bonifacio" ottenendo un discreto successo, purtroppo offuscato dall'improvvisa morte, nel 1840, prima di Margherita, poi di Virginia e Icilio. Prostrato e affranto non si dà per vinto. Proprio in questo periodo scrive un'opera buffa "Un giorno di regno", che si rivela però un fiasco. Amareggiato, Verdi pensa di abbandonare per sempre la musica, ma solo due anni più tardi, nel 1842, il suo "Nabucco" ottiene alla Scala un incredibile successo, anche grazie all'interpretazione di una stella della lirica del tempo, il soprano Giuseppina Strepponi.

Iniziano quelli che Verdi chiamerà "gli anni di galera", ossia anni contrassegnati da un lavoro durissimo e indefesso a causa delle continue richieste e del sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle. Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I titoli che sforna vanno da "I Lombardi alla prima crociata" a "Ernani", da "I due foscari" a "Macbeth", passando per "I Masnadieri" e "Luisa Miller". Sempre in questo periodo, fra l'altro, prende corpo la sua relazione con Giuseppina Strepponi. Nel 1848 si trasferisce a Parigi iniziando una convivenza alla luce del sole con la Strepponi. La vena creativa è sempre vigile e feconda, tanto che dal 1851 al 1853 compone la celeberrima "Trilogia popolare", notissima per i tre fondamentali titoli ivi contenuti, ossia "Rigoletto", "Trovatore" e "Traviata" (a cui si aggiungono spesso e volentieri anche "I vespri siciliani").

Il successo di queste opere è clamoroso. Conquistata la giusta fama si trasferisce con la Strepponi nel podere di Sant'Agata, frazione di Villanova sull'Arda (in provincia di Piacenza), dove vivrà gran parte del tempo. Nel 1857 va in scena "Simon Boccanegra" e nel 1859 viene rappresentato "Un ballo in maschera". Nello stesso anno sposa finalmente la sua compagna. Alla sua vita artistica si aggiunge dal 1861 anche l'impegno politico. Viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e nel 1874 è

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nominato senatore. In questi anni compone "La forza del destino", "Aida" e la "Messa da requiem", scritta e pensata come celebrazione per la morte di Alessandro Manzoni. Nel 1887 dà vita all'"Otello", confrontandosi ancora una volta con Shakespeare. Nel 1893 - all'incredibile età di ottant'anni - con l'opera buffa "Falstaff", altro unico e assoluto capolavoro, dà addio al teatro e si ritira a Sant'Agata. Giuseppina muore nel 1897.

Giuseppe Verdi muore il 27 gennaio 1901 presso il Grand Hotel de Milan, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici, come la sua vita era sempre stata.

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NABUCCO

L’opera venne realizzata dopo un periodo travagliato della vita di Verdi, in quanto non solo egli era andato incontro ad un fiasco con la rappresentazione della sua opera “Un

giorno di Regno” il 5 settembre 1840, ma aveva anche subito la morte della moglie Margherita Barezzi e dei figli Virginia e Icilio. Ciò lo aveva condotto ad un rifiuto totale di comporre brani musicali, se non che venne contattato dall’impresario teatrale Bartolomeo Merelli, il quale gli propose un libretto composto da Temistocle Solera. Tale libretto, il quale recava il nome di “Nabucco” colpì a tal punto Verdi che accettò volentieri di musicare l’opera.

Nel 1841 venne completata la partitura musicale e il successivo 9 marzo 1842 l’opera venne messa in scena alla Scala di Milano.

TRAMA

Nabucco re di Babilonia, conquista la città di Gerusalemme; a nulla è valsa la cattura di Fenena (figlia di Nabucco) da parte di Zaccaria, il Gran Pontefice. Rivedendola, Ismaele (nipote del re di Gerusalemme Sedecia), cede al suo amore e la libera. Tornati in Babilonia, Fenana si è convertita alla causa degli ebrei e Abigaille (che ha appena scoperto di essere figlia illegittima di Nabucco) imbeccata dal Gran Sacerdote di Belo della notizia della morte in guerra del re, ne approfitta per salire al trono. Ma Nabucco non è morto, anzi torna e in preda alla follia si paragona a un dio, scatenando un fulmine che lo colpisce. Abigaille quindi prende la corona, fa rinchiudere suo padre e condanna a morte Fenena e tutto il popolo ebraico. Nabucco però rinsavisce e - con l’ausilio del fidato Abdallo – riprende il trono, libera Fenana e gli ebrei, e si converte al giudaismo. Abigaille, si toglie la vita avvelenandosi.

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ATTO I

Luogo: Tempio di Salomone (Gerusalemme)

Il re d’Assiria (Babilonia) Nabucco tiene sotto assedio la città di Gerusalemme. Ebrei e Leviti (membri della tribù israelitica di Levi) si sono rifugiati nel Tempio di Salomone e invitano le vergini del Tempio a pregare affinché il Signore salvi il loro popolo dall’avanzata di Nabucco.

Entra il Gran Pontefice Zaccaria in compagnia della sorella Anna e di Fenena, la figlia di Nabucodonosor catturata dagli israeliti. Zaccaria porta buone notizie: Fenena potrà essere usata come merce di scambio per convincere Nabucco a desistere dalla guerra e riportare infine la pace.

Ismaele, nipote del re di Gerusalemme Sedecia, varca la soglia del Tempio portando con sé la notizia che l’esercito di Nabucco si sta avvicinando rapidamente. Tutti i presenti escono per fronteggiare l’esercito invasore; Fenena e Ismaele rimangono soli nel Tempio. Ismaele ripercorre il momento del loro primo incontro: lui, recatosi a Babilonia come emissario, finito vittima delle attenzioni amorose di Abigaille (sorella di Fenena) e infine imprigionato proprio per aver rifiutato quell’amore. Lei incurante dei rischi, l’aveva liberato facendolo fuggire.

Ora, a parti invertite, Ismaele farà di tutto per salvare la sua amata dalla prigionia. Mentre lui cerca di farla fuggire, irrompe nel Tempio Abigaille, scortata da soldati Babilonesi travestiti da ebrei. Abigaille lo accusa di aver tradito la patria per una Babilonese, nientemeno che la figlia del re Nabucco. Dice inoltre di essere pronta a graziare il suo popolo se sceglierà di accettare il suo amore invece che quello di Fenena. Ismaele rifiuta questa proposta; a lui si unisce Fenena, proclamando la sua conversione al Dio di Israele.

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Gli uomini che erano andati ad affrontare l’esercito di Nabucco rifuggono frettolosamente nel Tempio; insieme a loro anche Zaccaria e sua sorella Anna. Abigaille – che insieme ai suoi soldati ha aperto la strada all’esercito Babilonese – proclama l’arrivo di Nabucco. Il re Babilonese in persona entra infine nel Tempio, seguito dai suoi uomini. Il sacerdote Zaccaria lo affronta, portando a sé Fenena e brandendo un pugnale; intima quindi a Nabucco di tornare sui suoi passi, liberando Gerusalemme. Fenena implora il padre di risparmiare il popolo ebreo; in tutta risposta lui proclama la sua grandiosità, paragonandosi ad un Dio. Zaccaria capisce che deve tentare il tutto per tutto e minaccia apertamente il re Babilonese di uccidere sua figlia; Ismaele però blocca il sacerdote e libera Fenena.

Nabucco ordina quindi la distruzione del Tempio. Il popolo inveisce contro Ismaele, reo di aver liberato Fenena, la loro unica speranza di salvezza.

ATTO II

Luogo: Reggia di Nabucco (Babilonia)

Abigaille ha sottratto una pergamena al padre, in cui si dichiarano le sue umili origini di schiava; è disperata per aver scoperto di essere figlia illegittima e quindi di non aver diritto al trono. Il Gran Sacerdote di Belo comunica a Abigaille che Fenena (nominata temporaneamente reggente dal padre) sta liberando gli Ebrei. Il sacerdote le chiede di riprendersi il trono dalle mani di Fenena, giacché la voce della morte di Nabucco in battaglia sta già circolando.

Nel frattempo Zaccaria, in un’altra stanza, procede con l’insegnamento delle tavole della legge a Fenena, sperando in questo modo di diffondere le parole del vero Dio in tutta l’Assiria. Intanto i Leviti insultano Ismaele, additandolo a traditore; Zaccaria e Anna lo difendono. Egli infatti non ha liberato una Babilonese, bensì una ebrea convertita. Fenena, sconvolta dalla notizia della morte di Nabucco e dell’auto-proclamazione di Abigaille, decide di unirsi agli ebrei. Irrompono a questo punto Il Gran Sacerdote di Belo e Abigaille, inneggiata a nuova regina dal popolo tutto. Abigaille si accinge a prendere la corona da Fenena, quando sopraggiunge inaspettato Nabucco.

Egli si riprende la corona e ripudia il Dio dei Babilonesi (che li ha indotti al tradimento) e quello degli Ebrei (che li ha resi deboli). In un impeto d’orgoglio, pervaso dalla follia, proclama egli stesso dio. A queste parole un fulmine lo colpisce e lo getta in terra. Fenena accorre in suo soccorso, mentre Abigaille si appropria della corona.

ATTO III

Abigaille, seduta sul trono, riceve la condanna a morte degli ebrei dalle mani del Gran Sacerdote di Belo. In principio si mostra ipocritamente indecisa se condannare o no il popolo ebreo, fingendo scrupoli verso Fenena. Entra Nabucco in veste da notte, con lo sguardo perso smarrito; Abigaille ordina che venga riportato nelle sue stanze, ma lui si

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ribella. Il sovrano ormai deposto rivendica la paternità su Fenena e chiede la grazia per lei. Abigaille nega questo gesto di clemenza e rivendica egli stessa il suo ruolo di figlia. Nabucco disgustato da tanta arroganza si appella ad Abigaille con il termine di “schiava”. Lei allora tira fuori la pergamena che attestante la sua condizione di schiava e la strappa in pezzi. Nabucco ormai impotente chiede pietà per Fenena e per sé stesso. Abigaille ormai non sente ragioni e lo fa imprigionare. Sulle sponde dell’Eufrate gli ebrei, sconfitti e prigionieri, ripensano alla loro patria lontana, intonando un canto che esprime tutto il loro dolore e nostalgia.

ATTO IV

Nabucco si sveglia da un sonno tormentato da incubi; chiuso nella sua stanza ha finalmente ritrovato il senno. Si affaccia dalla loggia richiamato dal suono di urla; vede allora sua figlia Fenena che viene portata al

supplizio. Si lancia verso la porta per fuggire e salvare sua figlia, ma si accorge che è chiusa. Cade in ginocchio e chiede perdono al Dio degli Ebrei, promettendo di ricostruire il Tempio che aveva distrutto e di abbattere quelli del Dio Belo. Proprio mentre esprime questa intenzione, il fedele Abdallo spalanca la porta della sua stanza, seguito da un manipolo di soldati. Gli viene restituita la sua spada e si avviano per riconquistare il trono e liberare Fenena.

Una volta giunto nel Tempio del Dio Belo, dove sono stati condotti Zaccaria, Anna e Fenena, Nabucco ordina che venga distrutto l’idolo simbolo di Belo. Appena pronunciate queste parole, l’idolo cade infranto da sé.

Tra lo stupore dei presenti, Nabucco annuncia che il regno del terrore di Abigaille è finito e che ella si è avvelenata. Concede la libertà agli ebrei e ordina loro di costruire un nuovo Tempio per il loro Dio. Tutti, ebrei ed assiri, obbediscono, rendendo omaggio al Dio di Israele. Entra infine Abigaille sorretta da due soldati; prima di morire chiede perdono e implora Nabucco di concedere le nozze a Ismaele e Fenena. Infine, prima di cadere esanime, chiede il perdono dell’unico Dio.

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CURIOSITÀ

In origine, il nome dato da Giuseppe Verdi alla sua opera era Nabucodonosor ma, data la lunghezza dello stesso sulla locandina, venne diviso in due righe e cioè “Nabucco” e, a capo, “Donosor” ma la gente faceva caso solo alla prima riga. Da qui la diffusione del nome dell’opera fino ad oggi noto.

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I MASNADIERI

I Masnadieri è un'opera in quattro atti di Giuseppe Verdi basata sulla celebre tragedia “Die Räuber” di Friedrich Schiller. La prima rappresentazione risale al 22 luglio 1847 al Her Majesty's Theatre di Londra. “Un’opera piuttosto tradizionale”: così viene a volte descritta quest’opera. Eppure, già il fatto che sia la prima scritta da Verdi per un teatro non italiano (Her Majesty’s, Londra, 22 luglio 1847) dovrebbe suscitare qualche dubbio al riguardo. Poco dopo la prima di Macbeth, il direttore del Her Majesty’s Theatre di Londra, Mr. Benjamin Lumley, commissiona a Verdi una nuova opera. Il musicista abbandona così l'idea di musicare il Re Lear e la scelta del soggetto cade su un testo popolare in Inghilterra, Die Räuber. Il 22 luglio 1847 I masnadieri va in scena. A dirigere è lo stesso Verdi, applaudito, tra gli altri, dalla regina Vittoria.

Al primo ascolto l’opera risulta piuttosto lenta; tale effetto, dipende in gran parte dal libretto di Andrea Maffei. Infatti, esso è ben lontano dalla consueta e

tradizionale stringatezza dei libretti del compositore, imposta dal dramma musicale verdiano stesso; tuttavia, Maffei è un letterato di fama, oltre che un amico di Verdi ed esercita un’influenza culturale davanti alla quale il musicista prova soggezione. Ad esempio, la cavatina, cioè un'aria semplice e di breve durata che si trova alla fine di un recitativo, eseguita da Amalia, che ne dipinge la natura angelica e astratta dalla realtà, consta di ben quattro quartine in luogo delle due consuete, e consegue a due altre arie solistiche (di Carlo e di Francesco). Se non per rispetto a Maffei, mai Verdi avrebbe acconsentito a una stasi dell’azione tanto prolungata; e mai avrebbe accettato da altri versi che contravvengono al suo principio: “una frase, una sentenza che sarebbero bellissimi in un libro, ed anche in un dramma recitato, fan ridere in un dramma cantato” (lettera a Guglielmo Brenna del 15 novembre 1843).

Tutti i protagonisti sembrano inusualmente chiusi in se stessi, astratti dalla realtà, in una sostanziale assenza di contatto umano; caratteristiche che impone a Verdi una riduzione dello spazio del dialogo a favore del monologo interiore. Questo si intende per “opera sperimentale” e questo ne costituisce la specificità. Inoltre Maffei, legato alla concezione aristocratica della letteratura, poco concede alle logiche del teatro musicale coevo, alle “rozzezze” necessarie al pubblico soprattutto nella commercialistica Londra. Maffei, infine, non considera “I masnadieri” fra i lavori migliori di Schiller (sembra che la sua traduzione sia dovuta all’esigenza di completare l’operazione editoriale); mentre Verdi sin dall’estate 1846 riserva grande attenzione al progetto. Insomma è una singolare collaborazione fra musicista e librettista, ognuno dei quali per voler collaborare amichevolmente deve cedere qualcosa: Maffei la limpidezza poetica, la lingua estetizzante, la forma classica, le preferenze personali;

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Verdi la rapidità drammatica, l’istinto per il tempo impetuoso a favore di una maggiore stasi introspettiva. Il risultato è a volte attraente, a volte enigmatico, a volte inusualmente impegnativo. I Masnadieri, come altre opere composte in età giovanile da Giuseppe Verdi, appaiono malinconiche e funerarie: la morte è desiderata, ricercata. Anche i personaggi di quest'opera, come altri di Verdi, non sono simboli di un risorgimento eroico anzi tutto l'opposto. Anche analizzando i temi, tra i quali il

dramma della famiglia, si capisce che l'uomo è guidato dalla ricerca non della felicità, bensì della sofferenza, dal desiderio di un conflitto mortale con altri uomini (tra padri e figli, tra fratelli, fra uomini e donne) e nessuno può acclamarsi vincitore.

Nel libretto stesso Maffei descrive l'opera come “dramma terribile” e “spaventosa pittura della società”, segno dunque che il pessimismo di fondo e il disincanto esistenziale siano il vero tema dell'opera.

La vicenda si svolge in Germania all'inizio del XVIII secolo.

PERSONAGGI

• Massimiliano, Conte di Moor (Basso)

• Francesco, altro figlio di Massimiliano (Baritono)

• Carlo, figlio di Massimiliano (Tenore)

• Amalia, nipote del Conte (Soprano)

• Arminio, aiutante del Conte (Tenore)

• Moser, pastore (Basso)

• Rolla, compagno di Carlo Moor (Tenore)

• Giovani, banditi, donne, bambini, servitori, (Coro)

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ATTO I

Il giovane Carlo, figlio di Massimiliano conte di Moor in Franconia, ha abbandonato la casa paterna per rifugiarsi in Sassonia. Mentre sta leggendo le Vite parallele di Plutarco, sconvolto dalla decadenza dei contemporanei rispetto agli antichi, realizza che gli piacerebbe ritornarci. Tuttavia, di lì a poco, viene a sapere, tramite una lettera firmata dal fratello Francesco, che il padre lo ha bandito dalla casa e che lo imprigionerà qualora decidesse di far ritorno a casa. In quel momento, Carlo decide di mettersi a capo di una banda di briganti e masnadieri, organizzando scorribande in Boemia. In realtà, la lettera è frutto della cattiveria di Francesco che, geloso del fratello, ha deciso di sostituire la lettera a quella originale scritta dal padre che conteneva il perdono. Così facendo, Francesco desidera eliminare anche il padre affinché possa diventare l'unico proprietario del castello di Moor. Con l'aiuto del camerlengo Arminio, decide di spargere la falsa notizia che Carlo è morto. Infatti Arminio, travestito da messaggero, entra nella camera da letto di Massimiliano e gli comunica la disgrazia; quest'ultimo, sconvolto,sviene e viene rinchiuso da Francesco in una torre. Francesco aveva infatti mostrato la spada su cui Carlo avrebbe scritto con il suo sangue ad Amalia di considerare il loro amore finito e di sposare Francesco. Amalia fugge, pensando che Massimiliano sia morto di dolore mentre Arminio inizia a sentire sulle sue spalle il peso della bugia raccontata.

ATTO II

Amalia prega davanti al presunto sepolcro di Massimiliano ma ecco che Arminio le confessa che né Massimiliano né Carlo sono morti. Arminio fugge e Amalia viene raggiunta da Arminio. La giovane piange ma Francesca tenta di consolarla dicendole che dovrebbe pensare alle loro prossime nozze. Essa rifiuta però di sposarlo e dice di voler fuggire lontano da lui.

Intanto, in un fitto bosco, alcuni masnadieri attendono l'arrivo di Carlo che riesce a salvare l'amico Rollo dall'impiccagione dando alle fiamme la città di Praga. Dopo i crimini compiuti, Carlo viene assalito da un senso di nostalgia ripensando alla dolcezza della sua amata Amata. Nel frattempo, giunge la voce che i soldati hanno circondato la selva.

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ATTO III

Amalia è riuscita a scappare dal castello di Moor e vaga per la foresta impaurita dalle voci dei masnadieri, quando incontra Carlo. I due amanti si riconoscono e si confermano il loro amore: Amalia racconta intanto a Carlo ciò che è successo al castello in sua assenza e il giovane spera che la sua amata non venga mai a sapere i crimini che ha commesso. Rimasto solo, Carlo ritorna dai suoi masnadieri, i quali hanno posto come base le rovine di una torre diroccata. Il giovane ripensa alla sua vita e, sentendosi in colpa, pensa al suicidio. Tuttavia, realizza poi, vivere una vita piena di sofferenze sarebbe la pena più giusta per un animo corrotto come il suo.

Insonne, Carlo sente una voce nelle vicinanze: si tratta di Arminio che sta gettando del cibo dentro una fossa chiusa da una grata. Carlo decide di avvicinarsi mentre Arminio fugge impaurito. Scorge così un vecchio scheletrico ovvero suo padre Massimiliano. Il vecchio conte non riconosce nel capo dei masnadieri il figlio Carlo ma tuttavia gli racconta ciò che ha dovuto subire: Francesco, ha tentato di rinchiuderlo in una bara ma questi era sopravvissuto. Allora il figlio, impazzito, ha deciso di segregarlo in quella torre a morire di fame, torre nella quale è riuscito a vivere grazie al cibo portatogli di nascosto dal camerlengo. Successivamente, Massimiliano sviene nuovamente e Carlo, svegliati i masnadieri, dichiara vendetta nei confronti del fratello Francesco.

ATTO IV

Nel castello Francesco, tormentato dagli incubi, ordina ad Arminio di condurre a lui il pastore Moser. Quest'ultimo, osservando l'uomo, lo prega di pentirsi ma egli rifiuta. Tuttavia, Francesco è terrorizzato dalle parole del pastore sulle peggiori colpe umane (parricidio e fratricidio) e sul conseguente giudizio. Arminio, di corsa, fa ritorno al castello e comunica a Francesco che i masnadieri hanno invaso il castello. Intanto il vecchio Massimiliano, svegliatosi dal sonno, chiede perdono nei confronti del figlio Carlo che non ha riconosciuto nei masnadieri e che crede ancora morto. Carlo stesso non gli confessa che in realtà suo figlio è proprio lui e lo rassicura dicendogli che il figlio accetterà sicuramente il suo perdono dall'alto dei cieli.

In quel momento un gruppo di masnadieri li raggiunge: non sono riusciti a catturare Francesco ma hanno catturato Amalia e hanno deciso di condurla a Carlo come bottino. La giovane amata si getta tra le braccia di Carlo. Il giovane però non può più mentire: confessa al padre di essere suo figlio disperso creduto morta e ad Amalia di essere il capo di quella banda di criminali. Carlo, consapevole di aver condotto una vita travagliata e non volendo costringere Amalia a seguirlo in tutto e per tutto, decide di lasciarla. La giovane, tuttavia, desidera morire piuttosto che vivere una vita senza di lui. Estratto il pugnale, Carlo la uccide e decide di consegnarsi alla giustizia mentre il conte Moor, non potendo sopportare un simile strazio, spira.

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RIGOLETTO

Rigoletto è un'opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, ispirata al dramma “Le roi s'amuse” di Victor Hugo. L'opera andò in scena per la prima volta l'11 marzo 1851 al teatro La Fenice di Venezia. GENESI DELL’OPERA E' il 28 aprile 1850 quando Giuseppe Verdi scrive al librettista Francesco Maria Piave che ha in mente un soggetto, “...che se la polizia volesse permetterlo sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno”. Sono gli anni del Risorgimento: l' Italia si sta lentamente trasformando e moti rivoluzionari imperversano nel paese, in particolare al Nord. Il soggetto tanto acclamato da Verdi è proprio “Le roi

s'amuse” del drammaturgo francese Victor Hugo. Tuttavia, l' eccitazione di Verdi sembrava alquanto anomala, visto che in Francia l'opera non aveva riscosso il successo sperato. Scritta in 20 giorni nel giugno 1832, con “Le roi s'amuse” Victor Hugo credeva di generare nuovamente quel trambusto che era nato durante la battaglia di Ernani, dove i Romantici e i Classicisti si erano scontrati fisicamente a teatro. Ma, contrariamente alle previsioni, il baccano in sala fu tale che l'opera subì una censura dopo la disastrosa prima alla Comédie Française. Dunque, l'opera fu giudicata scandalosa perché metteva in scena, forse per la prima volta, contenuti politici antimonarchici e antiaristocratici. Il soggetto, poi, (un re libertino, un gobbo come protagonista...) era molto azzardato per l'epoca. Infatti, François Ier, celebre re rinascimentale, mecenate e guerriero viene quasi “ridicolizzato” da Hugo, che lo trasforma in un re libertino che non disprezza le prostitute, che assiste alla messa solo per incontrare la fanciulla che diventerà la sua prossima “preda”, che ama dare feste esagerate nel suo palazzo. Anche l' amante storica del sovrano, Diane de Poitiers, è costretta a concedergli i suoi favori per ottenere la grazia per il padre. Il buffone del paese, che si vuole vendicare del re poiché egli ha sedotto la figlia, decide di ingaggiare un sicario per uccidere il sovrano. All' epoca, Hugo fu accusato di “apologia del regicidio” all' indomani di un attentato ai danni del re Luigi Filippo. Tuttavia, ciò che sorprende è che, rovistando nella vita di Hugo, si scopre che l'autore era stato nella giovinezza un monarchico, come la madre, ma che, crescendo, aveva cambiato le proprie idee e il suo pensiero era dunque diventato liberalista. Nel 1861, i tentativi di riportare in scena “Le roi s'amuse” andranno a vuoto e sarà Verdi nel 1849 a voler portare in musica il dramma francese. Dopo un rifiuto di Salvatore Cammarano, Verdi decide di rivolgersi a Francesco Maria Piave per realizzare il libretto di quell'opera il cui personaggio aveva tanto catturato l'attenzione del compositore. Un personaggio, il buffone di corte, disprezzato per la sua bruttezza fisica ma inaspettatamente disposto a dare qualsiasi cosa per la figlia.

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L'eccitazione di Verdi sparisce ben presto: anche Venezia censura l'opera di Verdi, che doveva andare in scena alla Fenice per il Carnevale. Ciò che sconvolge sono il personaggio di Triboletto (Rigoletto) cioè il buffone, gobbo e deforme, che nonostante ciò canta e il fatto che il cadavere della figlia di Rigoletto sia chiuso in un sacco e gettato in un fiume poiché, secondo la censura, si offende la sacralità di un cadavere. Dopo varie vicissitudini, si trova un accordo tra Carlo Martello, Direttore dell' Ordine pubblico di Venezia e il Maestro Verdi: si dovranno cambiare il titolo del sovrano e il nome (ci sarà un oscuro duca al posto del re), il luogo e l'epoca ma anche il titolo dell'opera che da “La Maledizione” si trasforma in “Rigoletto”. Il libretto, però, rimarrà immutato e perfino quel buffone tanto criticato rimarrà deforme. Al trionfo alla Fenice, l' 11 marzo 1851, seguiranno 21 rappresentazioni e la fama di Rigoletto attraverserà non solo l'Italia bensì paesi come la Germania, l'Austria e l' Ungheria con la celebre aria “La donna è mobile”.

PERSONAGGI

RIGOLETTO, buffone di corte (baritono)

IL DUCA DI MANTOVA (tenore)

GILDA, figlia di Rigoletto (soprano)

SPARAFUCILE, bravo (basso)

MADDALENA, sorella di Sparafucile (mezzosoprano)

GIOVANNA, custode di Gilda (mezzosoprano)

IL CONTE DI MONTERONE(baritono)

MARULLO, cavaliere (baritono)

MATTEO BORSA, cortigiano (tenore)

IL CONTE DI CEPRANO (basso)

LA CONTESSA DI CEPRANO (mezzosoprano)

UN USCERE DI CORTE (tenore)

PAGGIO DELLA DUCHESSA (mezzosoprano)

cavalieri, dame, paggi, alabardieri

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ATTO I La scena si svolge nel XVI secolo nel palazzo Ducale di Mantova: il Duca sta parlando con il cortigiano Borsa e gli confida che si è interessato ad una fanciulla incontrata in Chiesa e nello stesso momento corteggia la Contessa di Ceprano. Rigoletto, il buffone di corte, si beffa del marito della donna, il Conte di Ceprano. Presente alla scena anche il Cavalier Marullo, il quale ha scoperto che Rigoletto ha un'amante segreta: Ceprano istiga dunque i cortigiani a deridere il gobbo vendicandosi della sua crudeltà. Un altro personaggio, il Conte di Monterone, appare sulla scena accusando il Duca di aver sedotto sua figlia. Così, il Conte lancia una maledizione al sovrano e a Rigoletto. Quest'ultimo, ossessionato dalle parole del vecchio Conte di Monterone, viene circondato dal sicario Sparafucile, il quale promette a Rigoletto di servirlo in caso di bisogno. Intanto, il gobbo torna a casa, dove trova la figlia Gilda, unico orgoglio della sua vita che, diventando un'adulta, è sommersa da dubbi e desideri: vuole conoscere la sua età, chi è sua madre, il suo nome, il proprio lavoro. Ma Rigoletto è tormentato da ciò che il mondo potrebbe fare a sua figlia; tuttavia, anche quest'ultima nasconde un segreto: un uomo l'ha seguita fino in chiesa. Aiutata da Giovanna, la governante, l' ammiratore di Gilda entra in casa e le rivela il suo nome: Gualtier Maldè, un povero studente. In realtà, solo Giovanna conosce la vera identità del giovane: egli è infatti il Duca di Mantova. Alcuni rumori provenienti dalla strada convincono Gualtier, ovvero il Duca, a fuggire, lasciando la giovane da sola, sempre più innamorata del giovane. Sulla via del ritorno, Rigoletto incontra un gruppo di cortigiani e si convince che siano lì poiché desiderano rapire la Contessa di Ceprano. Incoscientemente, divertito dall'episodio, Rigoletto si offre di aiutarli ma realizzerà in futuro che la vittima di quella beffa è in realtà sua figlia. ATTO II Il Duca si reca da Gilda ma realizza che essa è scomparsa. Una volta giunto al palazzo, triste per la perdita della giovane, è circondato dai cortigiani che gli confessano di aver rapito l'amante di Rigoletto. Il Duca corre a soccorrere Gilda, prigioniera nel suo palazzo mentre Rigoletto, esasperato, è costretto a confessare che Gilda è in realtà sua figlia. La giovane, sentendo la voce del padre, esce dalla camera da letto del Duca e Rigoletto le confessa di essere il buffone a servizio del suo amato. Rigoletto, alla vista di Monterone, decide di vendicare il vecchio conte ma anche il duca, nonostante le suppliche di Gilda che invoca pietà per colui che le ha ferito il cuore. ATTO III Passati trenta giorni, la giovane Gilda pensa ancora che il duca la ami. Rigoletto, disperato per sua figlia, decide di condurla ai bordi della città, dove è costretta ad osservare di nascosto il Duca, vestito addosso da semplice soldato, mentre si abbandona al piacere fisico con Maddalena, una professionista nonché sorella di Sparafucile. Convinta dalle suppliche del padre, Gilda si traveste da uomo e lascia la città. Rigoletto rimane a Mantova per completare, assieme a Sparafucile, il piano per uccidere il Duca. Anche Maddalena, però, è rimasta colpita dal fascino del duca.

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Gilda, tuttavia, non riesce ad abbandonare la città e arriva in tempo per sentire ciò che Maddalena e il fratello si dicono: la donna supplica Sparafucile di non uccidere il giovane soldato. Il sicario decide comunque di uccidere la prima persona che in quella notte di tempesta chiederà ospitalità. Gilda, dopo aver ascoltato, decide di sacrificarsi al posto del suo amato. Mentre le campane suonano la mezzanotte, Sparafucile consegna a Rigoletto un sacco contenente il cadavere. Il gobbo, trionfante, trascina via il sacco pronto per gettarlo nel fiume. In quel momento, sente qualcuno cantare: è il Duca che, su le note de “La donna è mobile” si allontana. Dopo aver aperto il sacco, Rigoletto scopre che per mano sua è riuscito ad uccidere il bene più prezioso che possedeva: sua figlia.

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IL TROVATORE

Il Trovatore è la seconda opera della "trilogia popolare"

di Giuseppe Verdi creato tra Rigoletto e La Traviata.

Il Trovatore è un dramma in quattro atti e otto quadri,

ambientato in Spagna al principio del secolo XV, che

racconta, con un bel canto espressivo, fiammeggianti

passioni come l'amore, la gelosia, la vendetta, l'odio e la

lussuria .

Manrico e il Conte di Luna, innamorati della stessa donna, nel dramma si fronteggiano fino alla morte come nemici, senza sapere che sono fratelli. Appartenenti a due diverse classi sociali, essi condividono solo l'amore di Leonora, il ché raddoppia l'esistente astio del conflitto sociale. Il dramma in alcune parti potrebbe cadere nell'incredibile,

ma la musica di Verdi e la poesia del libretto riscattano l'opera trasformandola nell'opera migliore del musicista. Il 1851 fu un anno di grande impegno per Giuseppe Verdi che da Parigi, dopo il successo del Rigoletto, lavora a distanza con il librettista napoletano Salvatore Cammarano al libretto de "Il Trovatore", ma nel contempo ha firmato un contratto con l'Opéra di Parigi per una nuova opera "Les Vêpres siciliennes". Verdi stesso aveva consigliato il librettista Salvatore Cammarano di ispirarsi al soggetto di "El Trovador" dello scrittore spagnolo Antonio Garcìa-Gutiérrez, un dramma d'ispirazione romantica, rappresentato a Madrid nel 1836 e che aveva colpito il Maestro per la potenza e l'originalità della trama e dei personaggi. Nel marzo 1852 il Maestro tornò a Busseto, assieme a Giuseppina, e continuò a lavorare sul Trovatore, pur essendo continuamente ostacolato dalle precarie condizioni di salute del suo librettista e da quelle del padre (la madre era morta l'anno prima). Corrispondeva inoltre con Francesco Maria Piave per il libretto della Traviata. Il 19 gennaio 1853 Il Trovatore viene rappresentato all'Apollo di Roma e per Verdi fu un successo senza precedenti: il pubblico ne fu entusiasta, La Gazzetta Musicale lo definì come un trionfo meritato e Il Trovatore fu definito un capolavoro, come viene considerato tutt'oggi.

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TRAMA

ATTO I - Il Duello

Scena I - Palazzo dell'Aliaferia in Biscaglia. Nell'atrio del palazzo, i familiari e gli armigeri del Conte di Luna attendono il rientro del loro giovane signore. Il conte è innamorato di Leonora, dama della regina, e trascorre buona parte della notte a sorvegliare la casa della giovane, preoccupato ch'ella ceda alla corte del suo temuto rivale: il Trovatore.

Ferrando, capitano delle guardie, racconta la fosca vicenda di una zingara, condannata al rogo per maleficio e di sua figlia Azucena che, per vendicare la madre, rapì uno dei due figli del vecchio Conte di Luna. Il nobile signore morì sopraffatto dal dolore quando Azucena buttò il figlioletto rapito sullo stesso rogo della madre. Il racconto è raccapricciante e i presenti imprecano contro la malvagia Azucena, di cui si sono perse le tracce, mentre il fantasma della vecchia zingara infesta ancora il castello, dove appare allo scoccare della mezzanotte terrorizzando la servitù. Scena II - Giardini del palazzo. Leonora, confida all'amica Ines il suo amore per il "trovatore", cavaliere sconosciuto, vincitore di tornei, il quale intona per lei affascinanti canti nel silenzio della notte. Quando le due donne rientrano, avanza il Conte di Luna, deciso a parlare a Leonora, ma il suono del liuto del Trovatore ed il suo canto lo fermano. Consumato dalla gelosia, il conte cerca di attirare l'amata in una trappola: si nasconde nel mantello e attende. Leonora scende in giardino attratta dalla musica, scambia il conte per l'amato, lo abbraccia dichiarandogli il suo amore. Il Trovatore assiste sbigottito ed accusa Leonora d'infedeltà, ma lei chiarisce l'equivoco e si getta ai suoi piedi confermandogli così il suo affetto. Furente d'ira, il Conte costringe il rivale a dichiarare la sua identità: egli è Manrico, un seguace del ribelle Conte Urgel. Il conte, sdegnato, lo sfida a duello e i due si allontanano con le spade sguainate, mentre Leonora sviene. Nel duello il Conte rimarrà ferito, ma il rivale gli risparmierà la vita.

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ATTO II - La Gitana Scena I - Un accampamento di zingari sulle montagne in Biscaglia Manrico è con Azucena, di cui crede di essere figlio, mentre lei gli racconta di come sua madre fu accusata, da un arrogante Conte, di avergli stregato il figlio e di come la povera donna fu incatenata. Racconta poi che lei aveva seguito piangendo la madre mentre veniva portata al rogo dicendo le sue ultime parole: "Vendicami". Manrico le chiede della vendetta e Azucena gli risponde che per vendicarla, come presa da un raptus crudele, rapì il figlio del conte e lo gettò sul rogo mentre bruciava ancora. Però, quando l'ira e l'allucinazione passò, la zingara si accorse di avere ancora il figlio del conte al suo fianco: il bambino bruciato nel rogo era il suo! Azucena è sconvolta e Manrico è inorridito dal racconto e si chiede chi sia lui se non è figlio di Azucena? Si chiede anche perché nel duello con il Conte di Luna non lo ha ucciso. Azucena gli assicura di essere sua madre e spiega che il ricordo di quell'orribile rogo l'ha indotta a dire parole senza senso e lo esorta a compiere lui la vendetta. Nel frattempo, un messaggero porta la notizia che Leonora, ritenendolo morto, stia per farsi suora per sfuggire alle insidie del Conte. Il Trovatore, nonostante l'opposizione di Azucena, decide di andare al Convento per impedire all'amata di entrare in convento. Scena II - Notte, in un convento vicino alla fortezza di Castellor. Anche il Conte di Luna giunge con i suoi fidi al convento per strappare al chiostro Leonora. Leonora sta per entrare a far parte della comunità religiosa e conforta le sue dame che l'accompagnano e che si mostrano tristi per la sua decisione. Il Conte le sbarra il passo con la ferma intenzione di rapirla, ma all'improvviso compare Manrico. Nasce un acceso scontro, nel corso del quale l'arrivo dei seguaci di Urgel disarmano il Conte e i suoi facendo in modo che Manrico possa allontanarsi con l'amata. ATTO III - Il Figlio della Zingara Scena I - Accampamento delle truppe regie vicino alla fortezza di Castellor. Le truppe regie, al comando del Conte di Luna, sono accampate nei pressi di Castellor, espugnato dagli armigeri di Urgel, ed attendono di sferrare l'attacco per il quale giungono rinforzi. Ferrando, capitano delle guardie, annuncia al Conte la cattura di una zingara ritenuta una possibile spia: è Azucena. Interrogata, la donna dichiara di venire dalla Biscaglia per ritrovare il figlio che l'ha abbandonata, ma Ferrando riconosce in lei la rapitrice del bambino. Azucena invoca il soccorso di Manrico: il Conte è allora soddisfatto di avere nelle sue

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mani l'assassina di suo fratello e di sapere che è la madre del suo rivale in amore. Scena II - Atrio della Cappella di Castellor Manrico e Leonora stanno andando all'altare per sposarsi e coronare il loro sogno. Leonora è preoccupata per l'attacco dell'esercito del re, ma il Trovatore la rassicura dicendole che, una volta suo sposo, combatterà con maggiore coraggio. Arriva trafelato Ruiz, per comunicare che gli sgherri stanno preparando il rogo per Azucena e Manrico rivela allora a Leonora che la zingara è sua madre e corre in suo soccorso.

ATTO IV - Il supplizio

Scena I - Un'ala del palazzo dell'Aliaferia Manrico è stato catturato, incarcerato nella torre del palazzo dell'Aliaferia e condannato a morte. Si ode la campana a morto ed il canto del "Miserere" per i condannati. Leonora ai piedi della torre ascolta l'ultimo addio dell'amato, poi, decisa a salvarlo a prezzo della propria vita, si offre al Conte di Luna in cambio della libertà del Trovatore. Il nobile Conte, sempre innamorato di

Leonora, accetta e le concede di portare, lei stessa, la notizia della grazia al prigioniero. Di nascosto la coraggiosa ragazza ingoia furtivamente del veleno che teneva racchiuso in una gemma. Scena II La prigione all'interno della Torre nel Palazzo Reale in Biscaglia. Nel carcere, Manrico veglia Azucena tormentata dalla sua vicina esecuzione del figlio, quando giunge inaspettata Leonora che gli si getta fra le braccia annunciandogli la grazia ed esortandolo alla fuga. Egli dapprima esulta felice, poi, capito il duro prezzo del riscatto, aggredisce la donna e rifiuta sdegnosamente la clemenza del rivale. Ma il veleno fa effetto rapidamente e Leonora muore. Mentre Manrico si strugge dal dolore e dal rimorso, il Conte di Luna si rende conto del raggiro dell'amata per salvare il Trovatore e ordina agli sgherri di eseguire immediatamente la sentenza di morte di Manrico, obbligando Azucena ad assistere al supplizio dalla finestra della prigione. Quando la scure ha decapitato l'infelice, la zingara, quasi impazzita, grida al Conte, inorridito: "Egli era tuo fratello! Madre, ora sei vendicata!”

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BRANI CELEBRI

Atto I

Di due figli vivea padre beato, aria di Ferrando Tacea la notte placida, aria di Leonora

Atto II

Vedi! le fosche notturne spoglie, coro dei gitani Stride la vampa, aria di Azucena Condotta ell'era in ceppi aria di Azucena Il balen del suo sorriso, aria del Conte di Luna

Atto III

Ah sì, ben mio, coll'essere, cantabile dell'aria di Manrico Di quella pira, cabaletta dell'aria di Manrico

Atto IV

D'amor sull'ali rosee, aria di Leonora Miserere d'una alma già vicina, tempo di mezzo dell'aria di Leonora

ORGANICO ORCHESTRALE

L'orchestrazione di Verdi si compone di:

2 flauti (anche ottavino), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti

4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, cimbasso

timpani, grancassa, triangolo

archi

L'opera include anche:

martelli con incudini (all'inizio del II atto)

organo (III atto)

Sulla scena:

campane, tamburo, arpa, corno

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LA TRAVIATA

La traviata è un'opera in tre atti di Giuseppe Verdi su

libretto di Francesco Maria Piave, tratto dalla pièce

teatrale di Alexandre Dumas (figlio) “La signora delle

camelie”.

La prima rappresentazione avvenne al Teatro La

Fenice di Venezia il 6 marzo 1853. L'inizio dell'opera

piacque al pubblico, ma dal secondo atto in poi

cominciò a scemare e l'esito complessivo, a detta

dello stesso Verdi, fu un fiasco.

Il compositore sostenne ripetutamente (come aveva

già lasciato presagire prima del debutto), che la

responsabilità dello scarso entusiasmo del pubblico

non era imputabile alla musica, ma ai cantanti,

reputati non altezza sia vocalmente che fisicamente.

In rotta con l'amministrazione del Teatro La Fenice,

rea di non aver accolto le sue critiche sulla scelta degli artisti, Verdi decise di non

autorizzare altre messe in scena de "La Traviata" se i panni di Violetta, Alfredo e

Giorgio Germont non fossero stati indossati da artisti fisicamente e tecnicamente

adeguati ai ruoli.

A causa della forte critica alla società borghese del tempo, l'opera, nei teatri di Firenze,

Bologna, Parma, Napoli e Roma, fu rimaneggiata dalla censura e messa in scena con

alcuni pezzi totalmente stravolti. Sempre per sfuggire alla censura, La Traviata dovette

essere spostata come ambientazione cronologica dal XIX secolo al XVIII secolo.

Il lavoro che Verdi compie musicalmente e Piave drammaturgicamente sul personaggio di Violetta è quanto di più raffinato e completo si possa chiedere. Nel corso dell’opera si percepisce un cambiamento che è tanto vocale quanto psicologico: dall’“usignolo meccanico”, interpretabile soltanto da un soprano d’agilità che raggiunga velocemente note anche molto distanti sul pentagramma e molto alte, che impariamo a conoscere nel primo atto, arriviamo ad una giovane donna caratterizzata da un canto drammatico, profondo anche nelle tonalità acute, passando, nel secondo atto, per la sofferenza del compimento del sacrificio per amore di Alfredo cantata con vocalità di soprano lirico. È un processo, questo, volto a mostrare la vera personalità di Violetta, spesso considerata frivola e vagamente disposta al pentimento cristiano, immortalata ad un passo dalla morte, nel buio della propria camera durante il periodo del Carnevale (che si svolge fuori da casa sua come se nulla fosse), nella splendida e tragica aria “Addio del passato”. Violetta, a dispetto della giovane età, è del tutto cosciente di ciò che attende lei e la propria memoria, si rivolge spesso a Dio accompagnata da una melodia che la segue come un presagio dal preludio al primo atto. La vita mondana, l’usignolo meccanico, le feste nella società perbene, perfino

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l’amore di Alfredo – che torna da lei, con la coda fra le gambe, quando sta esalando gli ultimi respiri e il cui padre si presenta al suo capezzale per chiedere perdono quando è troppo tardi – sono ormai ricordi. La breve esistenza di Violetta Valéry, nonostante lo scintillio di facciata, nasconde il dolore di quelle “più belle cose” che vivono “solo un giorno come le rose”.

Un altro elemento fondamentale dell’opera di Verdi è la concezione del tempo. La protagonista sa che non le rimane molto da vivere, che la malattia la sta logorando e non più piano, ma sempre più rapidamente; ciò lo possiamo ascoltare, musicalmente, nell’utilizzo del valzer – all’epoca considerato ballo immorale perché l’uomo e la donna ballano insieme “chiusi” e perciò descrittivo anche del personaggio principale – in tre ottavi che rappresenta delle spirali, dei vortici in cui Violetta viene imprigionata e che, spesso, diminuendo di terzine, diventa sempre più veloce. È il famoso “Libiamo ne’ lieti calici” l’esempio più conosciuto di valzer scritto da Verdi in quest’opera, da rappresentare rigorosamente senza alcuna coreografia in scena, il cui intervallo di sesta è la trasposizione musicale del gesto che si fa levando il bicchiere durante il brindisi.

È un’opera emblematica quella del maestro di Parma, che rende dignità, al pari del romanzo di Dumas, alla storia sfortunata di una giovane donna che il destino, dopo la morte, ha voluto consegnare al mondo.

PERSONAGGI

Violetta Valéry - soprano

Flora Bervoix, sua amica - mezzosoprano

Annina, serva di Violetta - mezzosoprano

Alfredo Germont - tenore

Giorgio Germont, suo padre - baritono

Gastone, Visconte di Létorières - tenore

Il barone Douphol – baritono

Il marchese d’Obigny - basso

Il dottor Grenvil - basso profondo

Giuseppe, servo di Violetta - tenore

Un domestico di Flora - basso

Un commissionario - basso

Servi e signori amici di Violetta e Flora, Piccadori e mattadori, zingare, servi di Violetta e Flora, maschere

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TRAMA

ATTO I

La protagonista Violetta Valéry, donna mondana amante del barone Douphol, confessa all’amica Flora Bervoix di aver paura per il proprio futuro, viste le sue instabili condizioni di salute. Nel frattempo, alla festa a cui stanno partecipando tutti i protagonisti, il visconte Gastone di Letorières presenta a Violetta il giovane amico Alfredo Germont, che la invita a ballare.

La donna, però, viene colpita da un malore improvviso. Alfredo le rimane accanto, confidandole tutto il suo amore. Turbata, lei gli regala il suo fiore preferito, una camelia, invitandolo a tornare da lei quando sarà appassito. Rimasta da sola, Violetta si rende conto di essersi innamorata di lui.

ATTO II - SCENA I

Alfredo e Violetta vivono insieme in una villa fuori Parigi, ma la loro situazione economica è disastrosa. Così, l’uomo decide di tornare a Parigi per porre rimedio. Rimasta sola, Violetta riceve la visita del padre di Alfredo, Giorgio Germont, che la accusa di aver causato la rovina economica del figlio.

L’uomo le chiede inoltre di rinunciare al suo amore per Alfredo per poter permettere alla sorella del ragazzo – il cui fidanzamento è stato messo in pericolo dalla relazione scandalosa del fratello – di sposarsi. La donna, allora, nel tentativo di fare il bene del suo amato e della sua famiglia, accetta, promettendo che dirà ad Alfredo di non amarlo più.

Tornato Alfredo, che rivela alla donna della volontà del padre di incontrarla (non sapendo che ciò è già avvenuto). Violetta lo abbraccia fortemente, gli dichiara il suo amore e scappa via. Alfredo trova la lettera d’addio scritta da Violetta e, deluso, si fa convincere dal padre a tornare a casa.

ATTO II - SCENA II

Violetta si reca a una festa a casa dell’amica Flora, insieme al barone Douphol. Tra gli invitati, però, c’è anche Alfredo, che la ignora totalmente e continua a giocare d’azzardo, vincendo contro tutti gli avversari, compreso lo stesso Douphol. Innervosito, il barone lo sfida a duello e a quel punto Violetta implora Alfredo di lasciare la festa.

La donna dice anche all’ex amante di non volerlo rivedere mai più, scatenando la sua reazione irosa: il ragazzo le lancia una borsa piena di soldi, insultandola e provocando

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lo sgomento dei presenti, compreso quello del padre Giorgio, che lo rimprovera senza svelargli la verità. Poco dopo, Violetta ammette di amare ancora Alfredo, che viene sfidato a duello dal barone Douphol.

ATTO III

Violetta è a casa, gravemente malata di tisi. Il medico conferma che non le rimane molto da vivere. La donna legge una leggera di Giorgio Germont, nella quale l’uomo le confessa di aver detto tutta la verità ad Alfredo, che sta andando da lei a chiederle scusa.

Violetta però teme di non sopravvivere fino al suo arrivo. All’arrivo di Alfredo, i due si abbracciano, sognando un futuro insieme. Tuttavia, però, la donna ha un nuovo malore e dopo aver salutato Giorgio Germont, arrivato nella casa, si spegne tra le braccia di Alfredo. Augurandogli di trovare una bella sposa e donandogli un medaglione con il proprio ritratto. “Così non mi dimenticherai”, gli dice.

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ORGANICO ORCHESTRALE

La partitura di Verdi prevede l'utilizzo di:

ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti

4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, cimbasso

timpani, grancassa, piatti, triangolo

archi

Banda:

2 ottavini, 4 clarinetti

2 corni, 3 trombe, 2 tromboni, cimbasso

grancassa, tamburello, castagnette

arpa

2 contrabbassi

BRANI CELEBRI

Atto I

Preludio

Libiamo ne' lieti calici - Violetta, Alfredo e coro

Un dì felice, eterea - Alfredo e Violetta

È strano! È strano...Follie! Delirio vano è questo...Sempre libera - Violetta

Atto II

De' miei bollenti spiriti - Alfredo

Pura siccome un angelo - Germont e Violetta

Che fai?/ Nulla / Scrivevi?... Amami Alfredo - Alfredo e Violetta

Di Provenza il mar, il suol, - Germont

Noi siamo zingarelle/È Piquillo un bel gagliardo - Coro

Mi chiamaste? Che bramate? - Alfredo e Violetta

Qui testimon vi chiamo

Finale

Atto III

Teneste la promessa - Violetta

Addio, del passato bei sogni ridenti - Violetta

Parigi, o cara - Alfredo e Violetta

Gran Dio! Morir sì giovane – Violetta

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I CARATTERI DELLA VOCALITÀ VERDIANA

La vocalità delle opere verdiane presenta caratteri che variano dai primi agli ultimi lavori. All'inizio della sua carriera, Verdi fu soprannominato "Attila delle voci": la critica lo accusava di non saper comporre per i cantanti, di non essere in grado di gestire il rapporto tra strumenti e voci e di esser fuori dagli schemi compositivi che avevano caratterizzato le opere degli altri autori (Donizetti, Bellini, Rossini) . A

differenza dei suoi colleghi compositori, Verdi prediligeva timbri realistici, considerandoli più espressivi. Tra i suoi primi modelli vi furono Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, ma ben presto se ne discostò adottando criteri del tutto nuovi, che rivoluzionarono anche le tecniche di canto. Verdi indicò un nuovo modo di fare teatro in musica: l'azione scenica drammatica e l'elemento interpretativo avrebbero dovuto avere il sopravvento sulla purezza melodica, sul suono cristallino e sulla prassi belcantistica. Le melodie verdiane costituiscono ciò che più tocca l'esecutore e il pubblico; la loro funzione teatrale consiste nella raffigurazione di stati d'animo, pensieri, sentimenti vissuti dai personaggi e ciò viene espresso dai fraseggi, dal ritmo, dal materiale tematico.

La varietà di colori e d'intensità costituiscono gli elementi principali per costruire un corretto fraseggio, elementi peculiari dello stile verdiano. Verdi pretendeva che i cantanti fossero attori e inserì, nelle partiture, indicazioni precise di ciò che egli esigeva dagli interpreti rispetto al fraseggio, ai colori, ai suoni, agli accenti, perché apparisse chiaro quale fosse la vocalità appropriata.

INTERPRETI

Per rendere al meglio la psicologia del personaggio di Violetta si richiedono tre tipi di vocalità

VIOLETTA: In passato questo ruolo è stato interpretato dalle voci più diverse, a partire dalla sua prima interprete nel 1853, Fanny Salvini Donatelli. Il soprano che portò al grande successo La traviata fu Maria Spezia, Violetta nella trionfale ripresa dell'opera al Teatro San Benedetto di Venezia nel 1854. Altre interpreti che lasciarono un'impronta sul ruolo furono Virginia Boccabadati, Marietta Piccolomini, Gemma Bellincioni, Rosa Ponselle, Claudia Muzio, Maria Callas, e poi ancora Renata Scotto, Anna Moffo, Montserrat Caballé, Beverly Sills, Mirella Freni, Cecilia Gasdia, Renata Tebaldi, Antonietta Stella, Edita Gruberová, Mariella Devia.

AFREDO: La voce del tenore verdiano, in questo caso di Alfredo Germont, si caratterizza per un timbro più ampio e squillante, capace di passare da un canto più lirico, doloroso e nostalgico ad uno più declamato e sillabico. I maggiori interpreti

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SIMON BOCCANEGRA

Simon Boccanegra è un'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez. La prima ebbe luogo il 12 marzo 1857 al Teatro La Fenice di Venezia. Oltre vent'anni dopo Verdi rimaneggiò profondamente la partitura. Le modifiche al libretto furono effettuate da Arrigo Boito, il futuro librettista di Otello e Falstaff. La nuova e definitiva versione andò in scena il 24 marzo 1881 al Teatro alla Scala di Milano.

STORIA DELL’OPERA

All'inizio del 1856 la direzione del teatro La Fenice propose a Verdi di scrivere un'opera nuova, ma il musicista rifiutò, essendo già impegnato in altri progetti (la composizione del

mai realizzato Re Lear e i rifacimenti di Stiffelio e della Battaglia di Legnano) e trovandosi già in trattative con il San Carlo di Napoli e La Pergola di Firenze.

L'anno successivo il librettista Francesco Maria Piave gli rinnovò la proposta e a maggio Verdi, sospese le trattative con gli altri teatri e abbandonato il progetto di musicare Re Lear, firmò il contratto con il teatro veneziano.

Il soggetto della nuova opera è tratto, come quello del Trovatore, da un dramma di Gutiérrez, mai pubblicato in italiano, nel quale si narra la storia di Simone Boccanegra, il corsaro genovese che nel Trecento riuscì a salire al trono dogale grazie all'appoggio di un amico e che al termine di una vita funestata da tragici eventi – la morte della donna segretamente amata, appartenente a una famiglia patrizia, e la scomparsa della figlia – morì avvelenato da quello stesso amico.

E’ un melodramma composto da un prologo e tre atti

Personaggi:

PROLOGO

Simon Boccanegra, corsaro al servizio della repubblica genovese (baritono) Jacopo Fiesco, nobile genovese (basso) Paolo Albiani, filatore d’oro, genovese (baritono) Pietro, popolano di Genova (basso) Marinai, popolo, domestici di Fiesco.

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PERSONAGGI DEI TRE ATTI

Simon Boccanegra, corsaro al servizio della repubblica genovese (baritono) María Boccanegra, sua figlia, sotto il nome di Amelia Grimaldi (soprano) Jacopo Fiesco, nobile genovese, sotto il nome di Andrea (basso) Gabriele Adorno, gentiluomo genovese (tenore) Paolo Albiani, cortigiano favorito del doge (baritono) Pietro, altro cortigiano (baritono) Un capitano dei balestrieri (tenore) Un’ancella di Amelia (mezzosoprano) Soldati, marinai, popolo, senatori, corte del Doge, prigionieri africani Le vicende si svolgono a Genova e nelle sue vicinanze

Epoca: 1339 (Prologo) e 1363 (tre atti)

PROLOGO

Siamo a Genova, di notte, in una piazza sulla quale si affaccia il Palazzo Fieschi. Il nuovo doge sta per essere eletto e in città si scontrano il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e il partito aristocratico, legato al nobile Jacopo Fiesco. Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l’ascesa al trono dogale di Simon Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla Repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simon, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il recalcitrante Simon ad accettare la candidatura facendogli intendere chiaramente che, una volta eletto doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simon e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donne. Tutti si allontanano. Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Sopraggiunge Simon e, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un’anziana nutrice in un paese lontano, ma poi la nutrice morì e la bambina scomparve. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simon, che entra nel palazzo in cerca della donna che scopre morta. Proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo doge.

Tra il Prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il doge Simon esilia i capi degli aristocratici e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio sotto il nome di Andrea Grimaldi. Anni prima, la famiglia Grimaldi aveva trovato una bambina nel convento in cui era appena morta Amelia, loro figlia. L’avevano adottata dandole il nome della figlia morta; ma questa orfana, all’insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni, Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, l’unico in realtà a sapere che Jacopo Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona. Gabriele e Jacopo congiurano contro il doge plebeo.

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ATTO I

Quadro I

(Giardino dei Grimaldi, fuori Genova)

Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simon. Pietro annuncia l’arrivo del doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un’orfanella a cui lui e i Grimaldi hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e lo benedice. Squilli di trombe annunciano l’entrata del doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana. Simon, sentendo la parola orfana, la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l’immagine di Maria; agnizione, padre e figlia si abbracciano felici. Al ritorno di Paolo, Simon gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la notte successiva il rapimento di Amelia.

Quadro II

(Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati)

Il Senato è riunito e il doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia, ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simon scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida della folla contro di lui, fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, il quale confessa di aver ucciso il plebeo Lorenzino che aveva rapito Amelia per ordine di un «uom possente». Supponendo che costui sia Simon, si slancia contro di lui per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si frappone supplicando il padre di salvare Adorno e raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, fissando Paolo, dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simon rivolge all’assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace. Gabriele gli consegna la spada ma il doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l’intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire se stesso.

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ATTO II

Nella stanza del doge, nel Palazzo ducale di Genova, Paolo chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, chiede a Fiesco, l’organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone. Quando giunge Amelia, il giovane l’accusa di tradimento con il doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l’arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l’Adorno e lo supplica di salvarlo. Simon, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l’acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l’accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia. Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al doge la sua vita. Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.

ATTO III

Siamo all’interno del Palazzo ducale. La rivolta è fallita, il doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannato a morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele.

Giunge il Boccanegra, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando l’aria del mare. All’improvviso gli si avvicina Fiesco che gli annuncia che la sua morte è vicina. Da quella voce inesorabile, dopo averlo osservato bene in volto, Simon riconosce con stupore l’antico nemico, ch’egli credeva morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione invade l’anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l’inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra. Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simon invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo doge di Genova.

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LA FORZA DEL DESTINO

La prima rappresentazione assoluta ebbe luogo al Teatro Imperiale di San Pietroburgo il 10 novembre 1862. Il debutto italiano avvenne al Teatro Apollo di Roma il 7 febbraio 1863, con il titolo Don Alvaro. La seconda versione debuttò al Teatro alla Scala di Milano il 27 febbraio 1869, diretta da Angelo Mariani. Inoltre il finale fu cambiato, perché nella prima versione russa, l'opera terminava con il suicidio di Alvaro, dopo la morte di Leonora, gettatosi da un burrone.

TRAMA

Tra il primo e il secondo atto passano circa 18 mesi. Tra il secondo e il terzo alcuni anni; e tra il terzo e il quarto oltre un lustro.

ATTO I

Donna Leonora di Vargas e don Alvaro, meticcio, per evitare l'opposizione al loro matrimonio del padre di lei, il marchese di Calatrava , si preparano a fuggire nottetempo da Siviglia. Leonora, affezionata nonostante tutto al padre, medita sull'incertezza del proprio destino e dice addio alla terra natia. L'arrivo di Alvaro le fa svanire gli ultimi dubbi, ma i due vengono sorpresi dal marchese, che, tornato all'improvviso, rinnega la figlia e ordina ai servi di arrestare il giovane. Questi, proclamandosi unico colpevole, si dichiara pronto a subire la punizione del marchese e getta a terra la pistola, da cui parte un colpo che uccide il vecchio. I due sventurati amanti scompaiono nella notte.

ATTO II

Il fratello di Leonora, don Carlo, deciso a vendicare la morte del padre, è alla ricerca dei due amanti. Giunto a Hornanchuelos si spaccia per uno studente agli occhi degli avventori di un'osteria, tra i quali si trovano dei pellegrini, la zingara Preziosilla, alcuni

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soldati, un mulattiere, e la stessa Leonora che, travestita da uomo, si sta dirigendo al Monastero della Vergine degli Angeli, nei pressi del quale intende vivere in eremitaggio. Dal racconto di don Carlo Leonora scopre che don Alvaro, creduto morto, è ancora in vita, e teme per la propria stessa incolumità: si appresta quindi a ritirarsi dal secolo con rinnovato vigore. Giunta al monastero, la giovane si affida alla Vergine pregando perché i propri peccati siano perdonati, quindi chiede un colloquio al padre guardiano, cui rivela la propria identità e il desiderio di espiazione. Il padre, indulgente e comprensivo, l'avverte però che la vita che l'attende è piena di stenti e cerca di convincerla per l'ultima volta a ritirarsi in convento invece che in una misera grotta. Constatando la fiduciosa costanza di Leonora, tuttavia, acconsente al volere di lei e, consegnatole un saio, chiama a raccolta i monaci che, maledicendo chiunque oserà infrangere l'anonimato dell'eremita, si rivolgono in coro alla Madonna.

ATTO III

Siamo in Italia, vicino a Velletri. È notte, infuria la lotta tra gli spagnoli e gli imperiali. Don Alvaro è capitato nei granatieri spagnoli e, non potendo sopportare oltre le sue sventure, spera di trovare la morte in battaglia. Rievocando il proprio passato di orfano, figlio di discendenti della famiglia reale Inca, ripensa alla notte fatale in cui vide per l'ultima volta Leonora, e, convinto che la giovane sia morta, le chiede di pregare per lui. Ad un tratto, sente il lamento di un soldato in difficoltà, accorre in suo aiuto e gli salva la vita: l'uomo altri non è che don Carlo, che però non riconosce il giovane indio. I due si giurano eterna amicizia. L'indomani, tuttavia, Alvaro stesso cade ferito e viene trasportato da don Carlo. Alvaro morente affida a Carlo una valigia con un plico sigillato contenente un segreto che non dovrà mai essere rivelato: alla sua morte il plico dovrà essere bruciato. Carlo giura di farlo, ma una volta solo, insospettito dall'orrore provato dall'amico al nome dei Calatrava, apre la valigia, dentro la quale trova un ritratto di sua sorella Leonora: vedendo confermati i propri sospetti, sfida don Alvaro a duello. I due hanno già incrociato le spade quando sopraggiunge la ronda: Alvaro scappa e trova rifugio in un monastero. Nell'accampamento, intanto, ricomincia la vita di sempre: la zingara Preziosilla predice il futuro e incita i soldati alla battaglia.

ATTO IV

Nei pressi del Monastero degli Angeli il frate Melitone distribuisce la minestra ai poveri. Questi, lamentandosi per il suo comportamento sgarbato, rimpiangono l'assenza del padre Raffaele, il nome scelto da don Alvaro al momento dell'entrata in monastero. Lo stesso padre Raffaele è richiesto da don Carlo che, scoperto il nascondiglio di don Alvaro, lo sfida nuovamente a duello. In un primo momento don Alvaro rifiuta il confronto ma, sentendosi chiamare codardo e mulatto, si prepara ad incrociare nuovamente il ferro con lui. Presso la grotta dove si è ritirata, Leonora, riconoscendosi ancora innamorata

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di don Alvaro, piange il proprio destino. Sentendo improvvisamente dei rumori nelle vicinanze, si rifugia nel proprio abituro, ma è richiamata proprio da don Alvaro che, avendo ferito don Carlo a morte, cerca un confessore per dare all'agonizzante gli ultimi conforti. Terrorizzata, Leonora chiama aiuto ma, inaspettatamente riconosciuta dal giovane, si accinge a ricongiungersi con lui. Messa a parte del ferimento di don Carlo, tuttavia, si precipita da lui che, ancora ossessionato dal desiderio di vendetta, la pugnala. Raggiunta dal padre guardiano, Leonora spira tra le braccia di don Alvaro, augurandosi di ritrovarlo in cielo. Egli, rimasto definitivamente solo sulla terra, maledice ancora una volta il proprio destino.

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MESSA DA REQUIEM

Il requiem è una messa secondo il rito liturgico della Chiesa cattolica eseguita e celebrata in memoria del defunto. Il requiem è anche una composizione musicale che utilizza i testi propri dei riti cattolici con una trama musicale. Si tratta di testi antichi e drammatici nella loro rappresentatività i quali hanno ispirato compositori come Mozart, con la sua Messa da requiem in re minore e Giuseppe Verdi con la sua Messa da requiem. La Messa da Requiem è una composizione sacra di Giuseppe Verdi del 1874 per coro, voci soliste e orchestra, per commemorare il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni.

Dopo il successo di Aida, Verdi si ritirò per un lungo periodo dal teatro d'opera. Non smise tuttavia di comporre e il suo lavoro più importante di questo periodo è appunto

la Messa da Requiem. In realtà Giuseppe Verdi aveva già pensato a una composizione di questo tipo e l’occasione per renderla pubblica fu proprio dopo la morte di Gioacchino Rossini nel 1869. Verdi promosse infatti, spinto dal profondo dolore, una messa funebre in suo onore (nota come Messa per Rossini). Nell’idea di Versi si doveva creare una commissione di “uomini intelligentiˮ in grado di scegliere i compositori e di distribuire tra loro i brani della messa. A Verdi, su sua stessa richiesta, fu assegnato il “Libera meˮ che però non fu realizzato a causa di rivalità e invidie. IL Libera me scritto da Verdi fu notato da Alberto Mazzucato, allora direttore del Conservatorio di Milano e membro della Commissione. Il 4 febbraio 1871 Verdi gli rispose con una lettera nella quale esprimeva la sua volontà di comporre una Messa per intero. Il 21 aprile 1873 chiese a l’editore Ricordi di poter usare il Libera me per la composizione del suo Requiem. Verdi nutrì una profonda ammirazione nei confronti di Manzoni sin dai suoi esordi artistici. Il Maestro lesse per la prima volta I promessi sposi intorno al 1835. Grazie alla frequentazione del salotto di Clara Maffei, Verdi riuscì ad entrare in contatto diretto con Manzoni il 30 giugno 1868. Manzoni, come Verdi, si era impegnato per l'unità di Italia avvenuta pochi anni prima, e condivideva dunque con lui i valori tipici del Risorgimento, di giustizia e libertà. Appresa la notizia che il 22 maggio 1873 il suo compatriota e amico Manzoni era morto, Verdi decise di scrivere all’editore Giulio Ricordi, manifestandogli l’intenzione di onorare la memoria dell’amico defunto. La sua morte gli fornì dunque l'occasione per celebrarlo come figura centrale della cultura italiana e di comporre l'intera messa. Il Requiem fu terminato il 10 aprile 1874. La prima fu realizzata con esito trionfale nella chiesa di San Marco a Milano in occasione del primo anniversario della morte dello scrittore il

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22 maggio 1874. Fu diretto dallo stesso Verdi ed i quattro solisti furono Teresa Stolz (soprano), Maria Waldmann (mezzosoprano), Giuseppe Capponi (tenore) e Ormondo Maini (basso). Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali. Il manoscritto autografo è conservato presso il Museo Teatrale alla Scala Milano.

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Sostenuto da una forza visionaria che attraversa tutti i sentimenti umani, dalla rabbia all'abbandono, scosso dal grido ripetuto dei “Dies Irae”(giorno dell’ira), questo Requiem appare come la corsa della vita che ha raggiunto il suo limite e si interroga sul mistero della morte. È significativo che Verdi non termini il suo lavoro sulla parola “Amen”. L’ascoltatore non sa infatti se la supplica finale sarà accolta oppure no, percepisce solo lo spegnersi della vita. La domanda dell’individuo, sospeso tra timore e speranza, non ha risposta, e il finale termina con l’unica certezza della morte terrena.

ANALISI

Il Requiem di Verdi trasmette molta energia, la Messa fu a lungo criticata in quanto la sua musica fu considerata più da teatro che da chiesa. Il Requiem è una riflessione sull’anima dopo la morte. Vi è il senso di umiltà dell’uomo, angosciato dalla propria vita e dal dolore, davanti al Dio supremo. Il Kyrie di Giuseppe Verdi inizia piano, sottovoce, come le anime supplichevoli di fronte ad un giudice. Esplode il Dies irae, il giorno del giudizio universale. L’orchestra è in fortissimo, il coro emette suoni laceranti, affiora il terribile giudizio e l’angoscia. Ma nel Requiem di Giuseppe Verdi vi è anche il lirismo del Recordare, un duetto tra il soprano e il mezzosoprano, un inno d’amore e d’affetto verso Gesù, ma anche del Lux Aeterna, dove i violini e il mezzosoprano danno l’idea della luce che viene da Dio, ma il basso, i timpani e ottoni ci ricordano che la punizione divina c’è per tutti. Il Requiem di Giuseppe Verdi è anche la disperazione del Lacrimosa, vera e propria gemma verdiana. Basterebbe solo ascoltare l’inizio degli archi in questo pezzo (che sembrano riprodurre un lamento) per capire la grandezza di Giuseppe Verdi.

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AIDA

Aida è un’opera di genere drammatico, tra le più celebri di Giuseppe Verdi, composta in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni. È basata su un soggetto originale dell’archeologo francese Auguste Mariette.

Isma'il Pascià, viceré d'Egitto, commissionò un inno a Verdi per celebrare l'apertura del Canale di Suez nel 1860, offrendogli un compenso di 80.000 franchi, ma Verdi rifiutò, dicendo che non scriveva musica d'occasione. Invece, quando fu invitato a comporre un'opera per l'inaugurazione del nuovo teatro de Il Cairo, Verdi accettò dopo aver analizzato uno schema di libretto egiziano di Auguste Mariette a lui sottoposto da Camille du Locle, direttore dell’Opéra-Comique di Parigi. La prima dell’opera venne rimandata a

causa della guerra franco-prussiana dato che tutti i costumi di scena erano a Parigi la quale era sotto assedio. Il teatro del Cairo si inaugurò non con Aida bensì con il Rigoletto nel 1869. Quando finalmente ebbe luogo la prima rappresentazione diretta da Giovanni Bottesini, il 24 dicembre 1871 al Teatro Khediviale dell’Opera de Il Cairo, riscosse molto successo e ancora oggi è una delle opere liriche più famose al mondo.

Originariamente, Verdi decise di scrivere un breve preludio orchestrale invece di una piena apertura per l’opera. Ha quindi composto una ouverture della varietà “pot-pourriˮ così da sostituire il preludio. Tuttavia decise però di non farla eseguire. I costumi e gli accessori per la prima sono stati disegnati da Auguste Mariette, che ha anche curato il design e la costruzione dei set, e realizzati dai pittori di scena dell'Opéra di Parigi. Anche se Verdi non partecipò alla prima, fu molto insoddisfatto poiché il pubblico era composto da politici e critici e non membri del pubblico comune. Egli ha pertanto considerato la prima italiana (e quindi europea), tenutasi a La Scala di Milano l’8 febbraio 1872 come la sua vera e propria prima. Verdi aveva anche scritto il ruolo di Aida per la voce di Teresa Stolz, che la cantò per la prima volta alla premiere di Milano. Il compositore aveva chiesto al fidanzato della cantante, Angelo Mariani, di dirigere la prima del Cairo, ma lui rifiutò, così la scelta ricadde su Giovanni Bottesini. Aida fu accolta con grande entusiasmo alla sua prima di Milano, di conseguenza fu riprodotta anche in altri teatri d'opera di tutta Italia, tra cui La Fenice e il Teatro Regio di Torino.

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TRAMA

L’Aida è ambientata in Egitto al tempo dei faraoni: Radamès, un valoroso comandante militare egiziano, viene incaricato di contrastare l’invasione dell’esercito nemico etiope. Egli è innamorato di Aida. Aida, figlia del re di Etiopia Amonasro, vive a Menfi come serva; essa è combattuta fra l’amore per Radamès e l’affetto per il suo popolo. Il padre di Aida, anch’egli fatto prigioniero, spia un incontro dei due innamorati, durante il quale Radamès confida ad Aida il luogo dove l’esercito egiziano attaccherà quello etiope. Quando il padre di Aida farà fallire l’attacco e la guerra verrà vinta dagli etiopi. Radamès, amareggiato per essere caduto nel tranello, si consegna nelle mani del gran sacerdote per farsi punire, egli lo condanna a morte ed ordina

di farlo seppellire vivo. Vicino al suo sepolcro trova inaspettatamente Aida che, coraggiosamente, affronta la morte con lui.

PERSONAGGI

Aida(soprano), principessa etiope Radamès(tenore), capitano dell’esercito faraonico Amonasro(baritono), re d’Etiopia e padre di Aida Amneris(mezzosoprano), figlia del re d’Egitto Ramfis (basso),gran sacerdote Re d’Egitto(basso) Una sacerdotessa Un messaggero

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ATTO I

Scena I: Durante una spedizione militare contro Etiopia, i soldati egizi catturano la principessa Aida facendola schiava ignorando la sua identità. Suo padre nel frattempo aveva organizzato un’incursione per liberarla, egli non sa però che sua figlia si era innamorata del giovane guerriero Radamès dal quale era ricambiata. Aida ha una rivale: la figlia del re d’Egitto Amneris la quale decide di consolarla falsamente per scoprire qualcosa in più su i due. Ramfis introduce un messaggero portante la notizia che l’esercito etiope stava marciando verso Tebe. Il Faraone decide di assegnare a Radamès il ruolo di comandante sarà lui quindi a combattere contro Amanasro. Aida è preoccupata: il suo cuore è diviso tra l’amore per il padre e la Patria e quello per Radamès.

Scena II: Cerimonie solenni per celebrare l’investitura di Radamès come comandante dell’esercito.

ATTO II

Scena I: Amneris rive nelle sue stanze la schiava Aida spingendola con l’inganno a dichiarare il suo amore per Radamès dicendole che egli era morto in battaglia. Aida rivela quindi il suo sentimento e Amneris, una volta scoperto, la minaccia dicendole che essendo lei di famiglia nobile può permettersi qualsiasi cosa al contrario suo. Aida

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rivela quindi il suo rango sociale ma se ne pente e chiede perdono. Le trombe suonano a festa: l’Egitto aveva sconfitto l’Etiopia. Aida si dispera.

Scena II: Radamès torna vincitore. Il faraone decreta che in quel giorno il trionfatore potrà avere tutto quello che vorrà. I prigionieri etiopi con Amonasro sono condotti dal Re. Aida corre ad abbracciare il padre, ma le loro vere identità sono ancora sconosciute agli Egizi. Amonasro infatti dichiara che il Re etiope è stato ucciso in battaglia e sepolto da lui stesso. Radamès per amore di Aida chiede il rilascio dei prigionieri. Il Re d'Egitto accoglie la richiesta ma poi decide di trattenere come ostaggi Aida e Amonasro. Per gratitudine il Faraone concede a Radamés la mano della propria figlia Amneris.

ATTO III

Scena I: Amonasro, tenuto in ostaggio con la figlia,medita una vendetta per la sconfitta subita, costringendo la figlia a farsi rivelare da Radamès la posizione dell'esercito egizio. Radamès nella notte in cui Amneris non c’è fidandosi di Aida decidono di fuggire insieme e le rivela le informazioni richieste dal padre. Amonasro, che era rimasto nei paraggi origliando la conversazione, rivela la sua identità e, all'arrivo delle guardie, fugge con Aida. Radamès, disperato per avere involontariamente tradito la sua Patria, si consegna prigioniero al sommo sacerdote.

ATTO IV

Scena I: Amneris vuole salvare la vita dell’uomo che ama ma lui la respinge, spinto dall’amore per Aida. Durante il suo processo Amneris si appella ai sacerdoti affinché gli mostrino pietà. Radamès però viene condannato a morte per alto tradimento e sarà sepolto vivo. Amneris maledice i sacerdoti mentre Radamès viene portato nelle prigioni.

Scena II: Radamès si accorge che Aida si era nascosta nella cripta per morire con lui. I due amanti accettano il loro terribile destino, confermano l'amore l'un per l'altro, dicono addio al mondo e aspettano l'alba, mentre Amneris nel tempio piange e prega durante le cerimonie religiose e la danza delle sacerdotesse.

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OTELLO

L’Otello è la penultima opera di Giuseppe Verdi, su libretto di Arrigo Boito.

La storia si ispira all'omonima tragedia di Shakespeare anche se Verdi e Boito tolsero l'atto primo della tragedia di Shakespeare per dare un movimento più serrato al racconto.

La prima rappresentazione dell'Otello verdiano avviene al Teatro La Scala di Milano nel 1887.

Per la messa in scena francese Giuseppe Verdi apporta qualche variazione e l'opera viene così rappresentata all'Opera di Parigi nel 1894.

PERSONAGGI

OTELLO, moro, generale dell'Armata Veneta (tenore)

IAGO, alfiere (baritono)

CASSIO, capo squadra (tenore)

RODRIGO, gentiluomo veneziano (tenore)

MONTANO, predecessore di Otello nel governo dell'isola di Cipro (baritono)

ARALDO, (basso)

DESDEMONA, moglie di Otello (soprano)

EMILIA, moglie di Iago (mezzosoprano)

Coro

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ATTO I

All’esterno del castello in una città di mare di Cipro, alla fine del XV secolo, la folla attende Otello, che sta giungendo attraverso il mare in tempesta, e prega per la sua sorte. Dopo aver trionfato sui musulmani e superato la tempesta, l’entusiasmo degli isolani lo accoglie, ad eccezione di Roderigo, innamorato di sua moglie, e Jago che, a causa dell’odio per il padrone, trama contro di lui, coinvolgendo Cassio durante un ricco banchetto. Questi, ubriaco sfida Montano a duello e lo ferisce, mentre Jago scatena una rissa, poi placata da Otello. Cassio viene degradato dal Moro, che poi si allontana con Desdemona, in vista della prima notte di nozze.

ATTO II

In una sala del castello, Jago architetta il suo piano, volto a rendere insicuro Otello, mentre esorta Cassio perché chieda a Desdemona di perorare la sua causa con il marito; medita quindi sul suo destino in un monologo. Quindi insinua in Otello la gelosia per Cassio, che è stato visto a colloquio con Desdemona. L’ira del moro si placa per poco, vedendo la moglie accolta con entusiasmo dagli isolani, ma, di fronte alle sue intercessioni per Cassio, si riaccende la sua gelosia. Jago riesce a ottenere da Emilia il fazzoletto caduto a Desdemona, che nasconde a casa di Cassio. Desdemona chiede perdono al marito per averlo scosso, ma Otello è ormai convinto di non avere più certezze; intanto Jago gli promette che gli mostrerà il fazzoletto in mano a Cassio, con un inganno ulteriore: gli riferisce infatti di avere sentito il suo rivale proferire in sogno frasi d’amore per Desdemona. Otello, distrutto, giura vendetta.

ATTO III

Nella gran sala del castello, stanno per giungere gli ambasciatori veneziani, mentre Jago annuncia al Moro che presto avrà un faccia a faccia con Cassio. Desdemona, cerca di difendere il capitano, ma quando Otello le chiede di poter vedere il fazzoletto, ne subisce la furia, ed è costretta ad allontanarsi turbata. Ferito, Otello sfoga tutto il suo dolore, poi Jago lo spinge ad ascoltare il dialogo in cui, con l’inganno, induce Cassio a mostrare il fazzoletto, ritrovato in casa sua. Otello si convince del tradimento, ma alla notizia dell’arrivo delle navi veneziane, Cassio esce e il moro comunica a Jago di volere uccidere gli adulteri. Entrano Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari: Otello, sputo di dovere rientrare a Venezia per ordine del Doge, impazzisce e insulta la moglie. Desdemona piange, consolata da tutti. Il moro sviene, mentre tutti turbati escono e Jago si gode il suo trionfo.

ATTO IV

Nella stanza di Desdemona, ella congeda Emilia dopo averle narrato la storia dell’ancella Barbara. Dopo aver pregato la Vergine Maria, mentre sta per prendere sonno, giunge Otello, che, nonostante ella si proclami innocente, la soffoca prima del rientro di Emilia, che da l’allarme. Scampato all’agguato di Roderigo, accorre Cassio, seguito da Lodovico, Montano e Jago; quest’ultimo, scoperte le sue trame, è costretto a fuggire. Quindi Otello, congedandosi dalla vita terrena, si trafigge con un pugnale e spira dopo baciato le innocenti labbra di Desdemona.

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FALSTAFF

Falstaff, ultima opera di Giuseppe Verdi, è una commedia lirica in tre atti su libretto di Arrigo Boito, tratto dalla commedia Le allegre comari di Windsor e da Enrico IV di Shakespeare, il dramma storico nel quale per la prima volta è apparsa la figura di sir John Falstaff.

L’opera è stata rappresentata per la prima volta a Milano nell'ambito della stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala, il 9 febbraio 1893, con la direzione di Edoardo Mascheroni. Ha aperto le stagioni operistiche del Teatro alla Scala nel 1921, nel 1936 e nel 1980, risultando l'opera maggiormente rappresentata con trentaquattro stagioni e duecentonove recite.

PERSONAGGI

Sir John Falstaff - Baritono Ford, marito d'Alice - Baritono Fenton - Tenore Dr.Cajus - Tenore Bardolfo e Pistola, seguaci di Falstaff - Tenori Mrs. Alice Ford - Soprano Nannetta, figlia d'Alice - Soprano Mrs. Quickly - Mezzosoprano Mrs. Meg Page - Mezzosoprano L'Oste della Giarrettiera Robin, paggio di Falstaff Borghesi e popolani - servi di Ford - mascherata di folletti - di fate - di streghe

ecc.

La vicenda si svolge a Windsor sotto il regno di Enrico IV d'Inghilterra.

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ATTO I

Quadro I

L'anziano e imponente Sir John Falstaff, alloggiato con i servi Bardolfo e Pistola presso l'Osteria della Giarrettiera, progetta di conquistare due belle e ricche dame: Alice Ford e Meg Page. A questo scopo invia alle due donne altrettante lettere d'amore perfettamente identiche.

Quadro II

La circostanza provoca lo sdegno e l'ilarità di Alice e Meg che, insieme alla comare Quickly e a Nannetta, la figlia di Alice, innamorata del giovane Fenton, progettano uno scherzo ai danni dell'impudente cavaliere, tale da togliergli la voglia di atteggiarsi ad ardente seduttore.

Entrano due nuovi personaggi: il marito di Alice, Mastro Ford, e il pedante dottor Cajus, al quale Ford ha promesso la propria figlia Nannetta. Anch'essi, avvisati dai servi di Falstaff delle intenzioni del padrone, si preparano a contrastarlo escogitando a loro volta uno scherzo all'insaputa delle donne.

ATTO II

Quadro I

Mrs. Quickly consegna a Falstaff un messaggio di Alice che, avendo ricevuto la lettera, lo attende a casa «dalle due alle tre», l'ora in cui il marito è assente.

Partita Quickly si presenta Ford, sotto il falso nome di signor Fontana, supplicando Falstaff di ricorrere alle sue rinomate arti amatorie per conquistare Alice, affinché la bella, perduta la sua virtù, decida finalmente di concedersi anche a lui.

Falstaff naturalmente accetta, sedotto anche dall'offerta di una ricca borsa, e confida al falso signor Fontana che fra una mezz'ora, non appena «quel tanghero di suo marito» sarà uscito di casa, Alice cadrà fra le sue braccia. Quindi va a vestirsi e farsi bello per l'appuntamento galante.

Ford, gelosissimo, dapprima si dispera, poi decide di irrompere in casa propria con i suoi uomini per sorprendere gli adulteri.

Quadro II

Ma le donne fanno in tempo a nascondere Falstaff, recatosi euforico all'appuntamento amoroso, dentro la cesta del bucato. Al suo posto, dietro un paravento, Ford scopre la figlia Nannetta, intenta a scambiare tenerezze con Fenton. Infine Falstaff viene gettato nel fossato sottostante tra le risa di tutti i presenti.

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ATTO III

Quadro I

Alice rivela al marito la verità e tutti – uomini e donne – si coalizzano per giocare a Falstaff l'ultimo spettacolare scherzo: la comare Quickly lo convince a recarsi ad un secondo appuntamento con Alice e Meg, a mezzanotte, nel parco, travestito da Cacciatore Nero. Tutti si travestono da fate e folletti; nella divisione dei ruoli, a Nannetta tocca la splendida Regina delle fate ed il padre intende approfittare della confusione per sposare la figlia con il vecchio Dr. Cajus; mentre racconta il suo piano al dottore, indicando anche il travestimento che dovrà usare, viene udito per caso da Mrs. Quickly, che subito avverte la giovane.

Quadro II

L'incontro galante si trasforma in «tregenda»: mascherati da creature fantastiche, tutti gli abitanti di Windsor circondano il pingue seduttore, mentre una schiera di folletti (i bambini di Windsor) lo tormenta e lo costringe a confessare i suoi peccati.

Finalmente Falstaff riconosce il servo Bardolfo e comprende di essere stato, una volta ancora, beffato. Intanto Ford sposa quella che crede sua figlia Nannetta con il Dr. Cajus ma, tolto il velo si scopre che è invece Bardolfo! L'opera così finisce in allegria: Ford si rassegna, acconsente al matrimonio di Nannetta e Fenton e invita tutti a cena; e Falstaff – ritrovata l'antica baldanza – detta la morale della storia: «Tutto nel mondo è burla.»

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BIBLIOGRAFIA

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opera.html https://cultura.biografieonline.it/riassunto-rigoletto/ https://www.settemuse.it/musica/opera_il_rigoletto.htm http://www.liricamente.it/trama-opera.asp?opera=rigoletto Libretto Giuseppe Verdi, Rigoletto (Maggio Musicale Fiorentino, stagione

2015/2016, a cura dell' Ufficio Comunicazione e Immagine del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino)

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balletti stagione 200572006) Teatro del Maggio Musicale Fiorentino www.musicacolta.eu