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Una delle devozioni più diffuse tra il popolo cristiano è la devozione al sacro Cuore di Gesù. Non si tratta tuttavia di una devozione fra tante, perché è stata rivestita dalla Chiesa di una dignità tutta particolare e si situa al centro della rivelazione cristiana. Il mese di giugno ci ripropone l’opportunità di questa devozione. Il documento guida in materia è certamente l'enciclica di Pio XII, Haurietis aquas (Attingerete alle acque) del 15 maggio 1956, testo che andrebbe letto e meditato per intero. Questa devozione - contenuta in germe nella Sacra Scrittura, approfondita dai santi Padri, dai Dottori della Chiesa e dai grandi mistici medioevali - ha avuto un particolare incremento e la sua configurazione odierna in seguito alle apparizioni di Gesù Cristo a santa Margherita Maria Alacoque, nel monastero di Paray-le-Monial, a partire dal 27 dicembre 1673. Da allora, superate numerose difficoltà teologiche e liturgiche, si è diffusa rapidamente fra tutte le categorie del popolo cristiano, mentre la Chiesa la ha elevata alla dignità liturgica di «solennità». In effetti essa rappresenta il centro della spiritualità cristiana e la chiave di comprensione insieme più semplice e più profonda di tutta quanta la storia della salvezza. Pio XII sottolinea che - nonostante l'importanza di Paray-le-Monial per il suo sviluppo - l'origine della devozione è nella Scrittura. È lo stesso Gesù che per primo presenta il suo Cuore come fonte di ristoro e di pace: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30). In san Giovanni si legge come venne trafitto il Cuore di Cristo, l'uscita da esso del sangue e dell'acqua e il particolarissimo significato simbolico che il quarto evangelista attribuisce al fatto (Gv 19,33-37). Anche nell'Apocalisse Gesù è presentato come un Agnello «ucciso», cioè «trafitto» (cfr. Apoc 5,6; 1,7). Certamente la devozione al Cuore di Gesù non è la celebrazione del culto di una parte anatomica del suo corpo; si tratta della devozione e del culto dello stesso Cristo Gesù e alla sua Persona, al suo essere il Figlio di Dio, il Redentore dell’uomo che con “cuore” infinitamente grande ha tanto amato i suoi da dare la vita per loro fino a morire in croce. Sulla croce quel cuore fu trafitto dalla lancia di un soldato e subito ne uscì sangue ed acqua, come ricordano i Santi Evangeli.Di fatto l’iconografia di questa devozione non ha mai mostrato soltanto “il Cuore”, ma come direbbe S. Agostino - il Cristo tutto, con il suo Cuore in mano (o altre nobili varianti). Ma l’oggetto della nostra adorazione è il Figlio Unigenito del Padre, Gesù Salvatore e Redentore; a Lui si dirige la nostra preghiera. La devozione al sacro Giugno 2016 - Anno 18 (n° 211) Mensile della Comunità Parrocchiale di Torri del Benaco

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Una delle devozioni più diffuse tra il popolo cristiano è la devozione al sacro Cuore di Gesù. Non si tratta tuttavia di una devozione fra tante, perché è stata rivestita dalla Chiesa di una dignità tutta particolare e si situa al centro della rivelazione cristiana. Il mese di giugno ci ripropone l’opportunità di questa devozione. Il documento guida in materia è certamente l'enciclica di Pio XII, Haurietis aquas (Attingerete alle acque) del 15 maggio 1956, testo che andrebbe letto e meditato per intero. Questa devozione - contenuta in germe nella Sacra Scrittura, approfondita dai santi Padri, dai Dottori della Chiesa e dai grandi mistici medioevali - ha avuto un particolare incremento e la sua configurazione odierna in seguito alle apparizioni di Gesù Cristo a santa Margherita Maria Alacoque, nel monastero di Paray-le-Monial, a partire dal 27 dicembre 1673. Da allora, superate numerose difficoltà teologiche e liturgiche, si è diffusa rapidamente fra tutte le categorie del popolo cristiano, mentre la Chiesa la ha elevata alla dignità liturgica di «solennità». In effetti essa rappresenta il centro della spiritualità cristiana e la chiave di comprensione insieme più semplice e più profonda di tutta quanta la storia della salvezza. Pio XII sottolinea che - nonostante l'importanza di Paray-le-Monial per il suo sviluppo - l'origine della devozione è nella Scrittura. È lo stesso Gesù che per

primo presenta il suo Cuore come fonte di ristoro e di pace: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30). In san Giovanni si legge come venne trafitto il Cuore di Cristo, l'uscita da esso del sangue e dell'acqua e il particolarissimo significato simbolico che il quarto evangelista attribuisce al fatto (Gv 19,33-37). Anche nell'Apocalisse Gesù è presentato come un Agnello «ucciso», cioè «trafitto» (cfr. Apoc 5,6; 1,7). Certamente la devozione al Cuore di Gesù non è la celebrazione del culto di una parte anatomica del suo corpo; si tratta della devozione e del culto dello stesso Cristo Gesù e alla sua Persona, al suo essere il Figlio di Dio, il Redentore dell’uomo che con “cuore” infinitamente grande ha tanto amato i suoi da dare la vita per loro fino a morire in croce. Sulla croce quel cuore fu trafitto dalla lancia di un soldato e subito ne uscì sangue ed acqua, come ricordano i Santi Evangeli.Di fatto l’iconografia di questa devozione non ha mai mostrato soltanto “il Cuore”, ma – come direbbe S. Agostino - il Cristo tutto, con il suo Cuore in mano (o altre nobili varianti). Ma l’oggetto della nostra adorazione è il Figlio Unigenito del Padre, Gesù Salvatore e Redentore; a Lui si dirige la nostra preghiera. La devozione al sacro

Giugno 2016 - Anno 18 (n° 211)

Mensile della Comunità Parrocchiale di Torri del Benaco

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Cuore di Gesù è la quintessenza del Vangelo e del piano di salvezza di Dio per l’umanità; per cui il culto al Sacro Cuore è adorazione a Cristo come espressione dell’amore di Dio Parlare del Cuore di Gesù parlare della sua umanità, di Colui che ci ha “amato con cuore d’uomo”. Parlare del Cuore di Gesù è parlare dell’amore di Dio per gli uomini: “Ti ho amato con amore eterno!” Facciamo dunque festa al Cuore di Gesù in questo mese di giugno, consacrandoci a lui per attingere abbondantemente ai tesori del suo amore.

Don Giuseppe

Riflessione del Card. Carlo Maria Martini su

LA DEVOZIONE AL SACRO

CUORE DI GESÙ Ricordo molto bene il tempo in cui uscì l’enciclica Haurietis aquas in gaudio(1956). Io ero allora studente di Sacra Scrittura e membro della comunità del Pontificio Istituto Biblico, dov’era professore l’illustre biblista padre Agostino Bea, poi fatto cardinale da papa Giovanni XXIII. Padre Bea era uno stretto collaboratore di papa Pio XII, e si diceva nella comunità, penso con buone ragioni, che egli avesse contribuito a preparare questo documento. Certamente colpiva l’impostazione biblica di tutto il testo, a partire dal titolo, che è una citazione dal libro di Isaia (12, 3). Perciò l’enciclica (che portava la data del 15 maggio 1956) fu letta con molta attenzione dalla comunità dell’Istituto Biblico, che ne apprezzava in particolare il fondamento sui testi della Scrittura. Nel passato invece tale devozione, che di per sé ha una lunga storia nella Chiesa, si era sviluppata tra il popolo a partire soprattutto da cosiddette “rivelazioni” di tipo privato, come quelle a santa Margherita Maria nel secolo XVII. La

percezione di come in essa venisse sintetizzato concretamente il messaggio biblico dell’amore di Dio era qualcosa che ci riavvicinava a questa devozione tradizionale, che nel passato recente era stata molto sentita soprattutto nella Compagnia di Gesù, in particolare nella sua lotta contro il rigorismo giansenista. Il fatto che papa Benedetto abbia voluto scrivere una lettera per ricordare questa enciclica proprio al superiore generale della Compagnia di Gesù si deve certamente anche al fatto che i Gesuiti si consideravano particolarmente responsabili della diffusione di questa devozione nella Chiesa. Ciò veniva anche affermato da santa Margherita Maria, secondo la quale questo incarico era stato voluto dallo stesso Signore che si manifestava a lei. Fu così che la devozione al Sacro Cuore mi fu presentata nel noviziato dei Gesuiti, negli anni Quaranta del secolo passato. Ciò mi portava a riflettere sul modo con cui fosse possibile vivere questa devozione e d’altra parte lasciarsi ispirare nella propria vita spirituale dalla ricchezza e dalla meravigliosa varietà della parola di Dio contenuta nelle Scritture. E questa domanda si poneva con tanta più insistenza in quanto anche il mio personale cammino cristiano si era imbattuto in qualche modo fin dalla fanciullezza con questa devozione. Essa mi era stata instillata da mia madre con la pratica dei primi venerdì del mese. In questo giorno la mamma ci faceva alzare presto per andare alla messa nella chiesa parrocchiale e fare la comunione. C’era la promessa che chi si fosse confessato e avesse fatto la comunione per nove primi venerdì del mese di seguito (non era permesso saltarne uno!) poteva essere certo di ottenere la grazia della perseveranza finale. Questa promessa era molto importante per mia madre. Ricordo che per noi ragazzi c’era anche un altro motivo per recarsi così presto alla messa. Infatti si prendeva

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allora la colazione in un bar con una buona brioche. Una volta fatta la comunione per nove primi venerdì di seguito, era opportuno ripetere la serie, per essere sicuri di ottenere la grazia desiderata. Ne venne poi anche l’abitudine di dedicare questo giorno al Sacro Cuore di Gesù, abitudine che poi da mensile era divenuta settimanale: ogni venerdì dell’anno era dedicato in qualche modo al Cuore di Cristo. Così era nel mio ricordo la devozione di allora. Essa era concentrata soprattutto sull’onore e sulla riparazione al Cuore di Gesù, visto un po’ in sé stesso, quasi separato dal resto del corpo del Signore. Alcune immagini riproducevano infatti soltanto il Cuore del Signore, coronato di spine e trafitto dalla lancia. Uno dei meriti dell’enciclica Haurietis aquas era proprio di aiutare a porre tutti questi elementi nel loro contesto biblico e soprattutto di mettere in risalto il significato profondo di tale devozione, cioè l’amore di Dio, che dall’eternità ama il mondo e ha dato per esso il suo Figlio (Gv 3, 16; cfr. Rm 8, 32, ecc.). Così il culto del Cuore di Gesù è cresciuto in me col passare del tempo. Forse si è un po’ affievolito per quanto riguarda il suo simbolo specifico, cioè il cuore di Gesù. È diventato, per me e per tanti altri nella Chiesa, una devozione verso l’intimo della persona di Gesù, verso la sua coscienza profonda, la sua scelta di dedizione totale a noi e al Padre. In questo senso il cuore viene considerato biblicamente come il centro della persona e il luogo delle sue decisioni. È così che vedo come questa devozione ci aiuta ancora oggi a contemplare ciò che è essenziale nella vita cristiana, cioè la carità. Comprendo

anche meglio come essa è in stretta relazione con la Compagnia di Gesù, la quale è generata spiritualmente dagli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola. Infatti gli Esercizi sono un invito a contemplare a lungo Gesù nei misteri della sua vita, morte e resurrezione, per poterlo conoscere, amare e seguire. Grande merito di questa devozione è stato dunque quello di avere portato l’attenzione sulla centralità dell’amore di

Dio come chiave della storia della salvezza. Ma per cogliere questo era necessario imparare a leggere le Scritture, a interpretarle in maniera unitaria, come una rivelazione

dell’amore di Dio verso l’umanità. L’enciclica Haurietis

aquas segnò un momento decisivo di questo cammino. Come si è avuto e si avrà ancora in futuro uno sviluppo positivo dei

semi lanciati dall’enciclica nel terreno della Chiesa? Penso che un momento fondamentale è stato quello del Concilio Vaticano II, nella sua costituzione Dei Verbum. Essa ha esortato l’intero popolo di Dio a una familiarità orante con le Scritture. Di qui anche le diverse “devozioni” ricevono approfondimento e nutrimento solido. Il punto di arrivo odierno lo potremmo vedere nella enciclica di papa Benedetto XVI Deus caritas est. Egli

scrive: «Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, Dio ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all’Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto…»; e conclude dicendo: «Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr. Sal 73 [72], 23-28)». Si tratta perciò di leggere con sempre maggiore intelligenza spirituale le Sacre Scritture, tenendo desta l’attenzione a

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ciò che sta alla radice di tutta la storia di salvezza, cioè l’amore di Dio per l’umanità e il comandamento dell’amore del prossimo, sintesi di tutta la Legge e dei Profeti (cfr. Mt 7,12). In questo modo saranno messe a tacere anche oggi quelle che sono state lungo i secoli le obiezioni al culto del Sacro Cuore, che lo accusavano di intimismo o di fomentare un atteggiamento passivo, a scapito del servizio del prossimo. Pio XII ricordava e confutava queste difficoltà, che non sono scomparse neppure ai nostri tempi, se Benedetto XVI può scrivere nella sua enciclica: «È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo» (n. 37). Un altro merito dell’enciclica Haurietis aquas consisteva nel sottolineare l’importanza dell’umanità di Gesù. In questo riprendeva le riflessioni dei Padri della Chiesa sul mistero dell’Incarnazione, insistendo sul fatto che il cuore di Gesù «dovette indubbiamente palpitare d’amore e d’ogni altro affetto sensibile» (cfr. nn. 21-28). Perciò l’enciclica aiuta a difendersi da un falso misticismo che tenderebbe a superare l’umanità di Cristo per avvicinarsi in maniera in qualche modo diretta al mistero ineffabile di Dio. Come hanno sostenuto non solo i Padri della Chiesa, ma anche i grandi santi come santa Teresa d’Avila e sant’Ignazio di Loyola, l’umanità di Gesù rimane un passaggio ineliminabile per comprendere il mistero di Dio. Non si tratta quindi di venerare soltanto il Cuore di Gesù come simbolo concreto dell’amore di Dio per noi, ma di contemplare la pienezza cosmica della figura di Cristo: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui… perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza» (Col 1, 17.19). La devozione al Sacro Cuore ci ricorda anche come Gesù abbia donato sé stesso “con tutto il cuore”, cioè volentieri e con entusiasmo. Ci viene dunque detto che il

bene va fatto con gioia, perché «vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9, 7). Ciò tuttavia non deriva da un semplice proposito umano ma è una grazia che Cristo stesso ci ottiene, è un dono dello Spirito Santo che rende facile ogni cosa e ci sostiene nel cammino quotidiano, anche nelle prove e nelle difficoltà. Infine vorrei far menzione di quello che è chiamato Apostolato della preghiera, che è nato nel secolo XIX, a opera di padri gesuiti, in stretta connessione con la devozione al Sacro Cuore. Ritengo che esso metta a disposizione di tutti i fedeli, con l’offerta quotidiana della giornata in unione con l’offerta eucaristica che Gesù fa di sé, uno strumento molto semplice per mettere in pratica quanto dice san Paolo nell’inizio della seconda parte della Lettera ai Romani, dando una sintesi pratica della vita cristiana: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1). Tante persone semplici possono trovare nell’apostolato della preghiera un aiuto per vivere il cristianesimo in maniera autentica. Esso ci ricorda anche l’importanza della vita interiore e della preghiera. A Gerusalemme si sente in maniera particolare come la preghiera, e in particolare l’intercessione, costituisca una priorità. Non naturalmente soltanto la povera preghiera di ciascun singolo, ma una preghiera unita all’intercessione di tutta la Chiesa, la quale a sua volta non è che un riflesso dell’intercessione di Gesù per tutta l’umanità. Quest’intercessione si eleva senza interruzione da parte di Gesù al Padre per la pace tra gli uomini e per la vittoria dell’amore sull’odio e sulla violenza. Abbiamo tanto bisogno di questo ai nostri giorni, soprattutto in questa “città della preghiera” e “città della sofferenza” che è Gerusalemme.

Card. Carlo Maria Martini

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1 maggio 2016

S. MESSA DI PRIMA

COMUNIONE

Domenica 1 maggio è stata un giorno di

grande festa per i ragazzi di quarta

elementare che hanno ricevuto per la

Prima volta Gesù Eucarestia.

A questo incontro tanto atteso si sono

preparati in questo anno di catechesi,

cercando sempre più di fare esperienza del

Signore. In quest’ultimo mese si sono

incontrati con don Giuseppe insieme ai loro

genitori per prepararsi meglio alla

celebrazione. Hanno cercato di capire le

varie parti della Messa, ma soprattutto che

la cosa fondamentale è l’amore di Gesù per

noi, il suo dono d’amore; dono che si è fatto

tangibile nel segno del pane e del vino.

Hanno visto come il Signore proprio loro il

giorno della Prima Comunione avrebbe

preparato il cenacolo per donarsi a loro.

Hanno poi partecipato con i proprio genitori

alla Messa delle 10.

Il giovedì prima della prima comunione ci

siamo ritrovati tutti insieme per il ritiro

durato tutta la giornata, in cui non solo

abbiamo preparato il cuore per ricevere il

Signore ma abbiamo vissuto dei bei

momenti insieme.

Il giorno fatidico un po’ tutti eravamo

emozionati bambini genitori e catechisti. La

Messa è stato il momento più bello e più

forte. I ragazzi hanno partecipato con gioia

e trepidazione. Hanno dato voce alle

richieste di perdono, alla preghiera dei

fedeli e al momento del ringraziamento.

Hanno fatto proprie promesse battesimali

dette per loro nel giorno del battesimo dai

genitori. Lo hanno fatto con una candela in

mano segno della fede passata loro dai

genitori come per dire che la nostra fede ci

viene trasmessa proprio da loro.

Parlando con loro tutti hanno espresso una

grande emozione, mescolata con un po’ di

paura, e il desiderio di ricevere il Signore.

Tutti hanno affidato al Signore la propria

vita e i propri familiari.

Quando ho ricevuto Gesù ero molto felice

perché Gesù era dentro il mio cuore e la mia

mente.

Quando sono tornata al mio posto mi sono

inginocchiata e ho detto una preghiera a

Gesù perché è venuto nel mio cuore

Ho provata tanta emozioni… anche perché

ero circondato da molte persone

Ho pregato per ogni persona cara della mia

famiglia

L’augurio per questi bambini che sempre

conservino nel cuore la gioia e l’emozione

di questo giorno e si ricordino di essere

sempre accompagnati dell’Amore del

Signore in ogni situazione della loro vita. Il

Signore li benedica , custodisca, mostri loro

il suo volto e doni Pace.

Le Catechiste

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ESORTAZIONEESORTAZIONEESORTAZIONEESORTAZIONE APOSTOLICA APOSTOLICA APOSTOLICA APOSTOLICA

“AMORIS LA“AMORIS LA“AMORIS LA“AMORIS LAETITIA”ETITIA”ETITIA”ETITIA”

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continuazione CAPITOLO QUARTO

Crescere nella carità coniugale

120. L’inno di san Paolo, che abbiamo percorso, ci permette di passare alla carità coniugale. Essa è l’amore che unisce gli sposi, santificato, arricchito e illuminato dalla grazia del sacramento del matrimonio. È «un’unione affettiva», spirituale e oblativa, che però raccoglie in sé la tenerezza dell’amicizia e la passione erotica, benché sia in grado di sussistere anche quando i sentimenti e la passione si indebolissero. Il Papa Pio XI ha insegnato che tale amore permea tutti i doveri della vita coniugale e «tiene come il primato della nobiltà». Infatti, tale amore forte, versato dallo Spirito Santo, è il riflesso dell’Alleanza indistruttibile tra Cristo e l’umanità, culminata nella dedizione sino alla fine, sulla croce: «Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi come Cristo ci ha amato. L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale». 121. Il matrimonio è un segno prezioso, perché «quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del Matrimonio, Dio, per così dire, si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amore. Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza».

Questo comporta conseguenze molto concrete e quotidiane, perché gli sposi, «in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei». 122. Tuttavia, non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio».

Tutta la vita, tutto in comune

123. Dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la «più grande amicizia». E’ un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza tra gli amici che si va costruendo con la vita condivisa. Però il matrimonio aggiunge a tutto questo un’esclusività indissolubile, che si esprime nel progetto stabile di condividere e costruire insieme tutta l’esistenza. Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo, chi vive intensamente la gioia di sposarsi non pensa a qualcosa di passeggero; coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo; i figli non solo desiderano che i loro genitori si amino, ma anche che

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siano fedeli e rimangano sempre uniti. Questi e altri segni mostrano che nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo. L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre, è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana; e, per i credenti, è un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà: «Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto: nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio» (Ml 2,14.15.16). 124. Un amore debole o malato, incapace di accettare il matrimonio come una sfida che richiede di lottare, di rinascere, di reinventarsi e ricominciare sempre di nuovo fino alla morte, non è in grado di sostenere un livello alto di impegno. Cede alla cultura del provvisorio, che impedisce un processo costante di crescita. Però «promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata». Perché tale amore possa attraversare tutte le prove e mantenersi fedele nonostante tutto, si richiede il dono della grazia che lo fortifichi e lo elevi. Come diceva san Roberto Bellarmino, «il fatto che un uomo e una donna si uniscano in un legame esclusivo e indissolubile, in modo che non possano separarsi, quali che siano le difficoltà, e persino quando si sia persa la speranza della prole, questo non può avvenire senza un grande mistero».

125. Il matrimonio, inoltre, è un’amicizia che comprende le note proprie della passione, ma sempre orientata verso un’unione via via più stabile e intensa. Perché «non è stato istituito soltanto per la procreazione», ma affinché l’amore reciproco «abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità». Questa peculiare amicizia tra un uomo e una donna acquista un carattere totalizzante che si dà unicamente nell’unione coniugale. Proprio perché è totalizzante questa unione è anche esclusiva, fedele e aperta alla generazione. Si condivide ogni cosa, compresa la sessualità, sempre nel reciproco rispetto. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato dicendo che «un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi».

Gioia e bellezza

126. Nel matrimonio è bene avere cura della gioia dell’amore. Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione. La gioia, invece, allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie, anche nelle fasi della vita in cui il piacere si spegne. Per questo san Tommaso diceva che si usa la parola “gioia” per riferirsi alla dilatazione dell’ampiezza del cuore. La gioia matrimoniale, che si può vivere anche in mezzo al dolore, implica accettare che il matrimonio è una necessaria combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri, sempre nel cammino dell’amicizia, che spinge gli sposi a prendersi cura l’uno dell’altro: «prestandosi un mutuo aiuto e servizio». 127. L’amore di amicizia si chiama “carità” quando si coglie e si apprezza “l’alto valore” che ha l’altro. La bellezza –

HANNO CELEBRATO IL

MATRIMONIO CRISTIANO

DAVIDE e SERENA

DAVIDE e LETIZIA MARIA

LUCA e CONSUELO

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“l’alto valore” dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche – ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla. Nella società dei consumi si impoverisce il senso estetico e così si spegne la gioia. Tutto esiste per essere comprato, posseduto e consumato; anche le persone. La tenerezza, invece, è una manifestazione di questo amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso egoistico. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà. L’amore per l’altro implica tale gusto di contemplare e apprezzare ciò che è bello e sacro del suo essere personale, che esiste al di là dei miei bisogni. Questo mi permette di ricercare il suo bene anche quando so che non può essere mio o quando è diventato fisicamente sgradevole, aggressivo o fastidioso. Perciò, «dall’amore per cui a uno è gradita un’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratis». 128. L’esperienza estetica dell’amore si esprime in quello sguardo che contempla l’altro come un fine in sé stesso, quand’anche sia malato, vecchio o privo di attrattive sensibili. Lo sguardo che apprezza ha un’importanza enorme e lesinarlo produce di solito un danno. Quante cose fanno a volte i coniugi e i figli per essere considerati e tenuti in conto! Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci. Questo è ciò che esprimono alcune lamentele e proteste che si sentono nelle famiglie. “Mio marito non mi guarda, sembra che per lui io sia invisibile”. “Per favore, guardami quando ti parlo”. “Mia moglie non mi guarda più, ora ha occhi solo per i figli”. “A casa mia non interesso a nessuno e neppure mi vedono, come se non esistessi”. L’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano. 129. La gioia di tale amore contemplativo va coltivata. Dal momento

che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: «Regala e accetta regali, e divertiti» (Sir 14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: «Come delizierai gli angeli!». È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui. 130. Per altro verso, la gioia si rinnova nel dolore. Come diceva sant’Agostino, «quanto maggiore è stato il pericolo nella battaglia, tanto più intensa è la gioia nel trionfo». Dopo aver sofferto e combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena, perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o perché possono maggiormente apprezzare quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso.

Sposarsi per amore

131. Voglio dire ai giovani che nulla di tutto questo viene pregiudicato quando l’amore assume la modalità dell’istituzione matrimoniale. L’unione trova in tale istituzione il modo di incanalare la sua stabilità e la sua crescita reale e concreta. E’ vero che l’amore è molto di più di un consenso esterno o di una forma di contratto matrimoniale, ma è altrettanto certo che la decisione di dare al matrimonio una configurazione visibile nella società con determinati impegni, manifesta la sua rilevanza: mostra la serietà dell’identificazione con l’altro, indica un

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superamento dell’individualismo adolescenziale, ed esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione, che sarebbe una privatizzazione del matrimonio. Il matrimonio come istituzione sociale è protezione e strumento per l’impegno reciproco, per la maturazione dell’amore, perché la decisione per l’altro cresca in solidità, concretezza e profondità, e al tempo stesso perché possa compiere la sua missione nella società. Perciò il matrimonio va oltre ogni moda passeggera e persiste. La sua essenza è radicata nella natura stessa della persona umana e del suo carattere sociale. Implica una serie di obblighi, che scaturiscono però dall’amore stesso, da un amore tanto determinato e generoso che è capace di rischiare il futuro. 132. Scegliere il matrimonio in questo modo esprime la decisione reale ed effettiva di trasformare due strade in un’unica strada, accada quel che accada e nonostante qualsiasi sfida. A causa della serietà di questo impegno pubblico di amore, non può essere una decisione affrettata, ma per la stessa ragione non la si può rimandare indefinitamente. Impegnarsi con un altro in modo esclusivo e definitivo comporta sempre una quota di rischio e di scommessa audace. Il rifiuto di assumere tale impegno è egoistico, interessato, meschino, non riesce a riconoscere i diritti dell’altro e non arriva mai a presentarlo alla società come degno di essere amato incondizionatamente.

D’altra parte, quelli che sono veramente innamorati, tendono a manifestare agli altri il loro amore. L’amore concretizzato in un matrimonio contratto davanti agli altri, con tutti gli obblighi che derivano da questa istituzionalizzazione, è manifestazione e protezione di un “sì” che si dà senza riserve e senza restrizioni. Quel “sì” significa dire all’altro che potrà sempre fidarsi, che non sarà abbandonato se perderà attrattiva, se avrà difficoltà o se si offriranno nuove possibilità di piacere o di interessi egoistici.

Amore che si manifesta e cresce

133. L’amore di amicizia unifica tutti gli aspetti della vita matrimoniale e aiuta i membri della famiglia ad andare avanti in tutte le sue fasi. Perciò i gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose. Nella famiglia «è necessario usare tre parole. Vorrei ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave!». «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia». Non siamo avari nell’utilizzare queste parole, siamo generosi nel ripeterle giorno dopo giorno, perché «alcuni silenzi pesano, a volte anche in famiglia, tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli». Invece le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno. 134. Tutto questo si realizza in un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio, è chiamata ad una costante maturazione, perché ad essa bisogna sempre applicare quello che san Tommaso d’Aquino diceva della carità:

È NATA KRYSTAL

Congratulazioni a mamma Cristina e a papà Nicola.

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«La carità, in ragione della sua natura, non ha un limite di aumento, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo. Nemmeno da parte del soggetto le si può porre un limite, poiché col crescere della carità, cresce sempre più anche la capacità di un aumento ulteriore». San Paolo esortava con forza: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (1 Ts 3,12); e aggiunge: «Riguardo all’amore fraterno vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più» (1 Ts 4,9-10). Ancora di più. L’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri. Il marito e la moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono». Il dono dell’amore divino che si effonde sugli sposi è al tempo stesso un appello ad un costante sviluppo di questo regalo della grazia. 135. Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere. Un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo. Come hanno ricordato i Vescovi del Cile, «non esistono le famiglie perfette che ci propone la pubblicità ingannevole e consumistica. In esse non passano gli anni, non esistono le malattie, il dolore, la morte. La pubblicità consumistica mostra un’illusione che non ha nulla a che vedere con la realtà che devono affrontare giorno per giorno i padri e la madri di famiglia». È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a

coltivare la solidità dell’unione, accada quel che accada.

Il dialogo

136. Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico. 137. Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”. 138. Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di

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riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di vista. È qui sottesa la convinzione secondo la quale tutti hanno un contributo da offrire, perché hanno un’altra esperienza della vita, perché guardano le cose da un altro punto di vista, perché hanno maturato altre preoccupazioni e hanno altre abilità e intuizioni. È possibile riconoscere la verità dell’altro, l’importanza delle sue più profonde preoccupazioni e il sottofondo di quello che dice, anche dietro parole aggressive. Per tale ragione bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo. 139. Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni. È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi. L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. E ci vuole anche astuzia per accorgersi in tempo delle “interferenze” che possono comparire, in modo che non distruggano un processo di dialogo. Per esempio, riconoscere i cattivi sentimenti che potrebbero emergere e relativizzarli affinché non pregiudichino la comunicazione. È importante la capacità di esprimere ciò che si sente senza ferire; utilizzare un linguaggio e un modo di parlare che possano essere più facilmente accettati o tollerati dall’altro,

benché il contenuto sia esigente; esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta, ed evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire. Molte discussioni nella coppia non sono per questioni molto gravi. A volte si tratta di cose piccole, poco rilevanti, ma quello che altera gli animi è il modo di pronunciarle o l’atteggiamento che si assume nel dialogo. 140. Avere gesti di attenzione per l’altro e dimostrazioni di affetto. L’amore supera le peggiori barriere. Quando si può amare qualcuno o quando ci sentiamo amati da lui, riusciamo a comprendere meglio quello che vuole esprimere e farci capire. Superare la fragilità che ci porta ad avere timore dell’altro come se fosse un “concorrente”. È molto importante fondare la propria sicurezza su scelte profonde, convinzioni e valori, e non sul vincere una discussione o sul fatto che ci venga data ragione. 141. Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce.

FRANCESCO

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29 giugno

SANTI PIETRO E PAOLO

Due apostoli e due personaggi diversi, ma entrambi fondamentali per la storia della Chiesa del primo secolo così come nella costruzione di quelle radici dalle quali si alimenta continuamente la fede cristiana. Pietro, nato a Betsaida in Galilea, era un pescatore a Cafarnao. Fratello di Andrea, divenne apostolo di Gesù dopo che questi lo chiamò presso il lago di Tiberiade e dopo aver assistito alla pesca miracolosa. Da sempre tra i discepoli più vicini a Gesù fu l'unico, insieme al cosiddetto «discepolo prediletto», a seguire Gesù presso la casa del sommo sacerdote Caifa, fu costretto anch'egli alla fuga dopo aver rinnegato tre volte il maestro, come questi aveva già predetto. Ma Pietro ricevette dallo stesso Risorto il mandato a fare da guida alla comunità dei discepoli. Morì tra il 64 e il 67 durante la persecuzione anticristiana di Nerone. San Paolo, invece, era originario di Tarso: prima persecutore dei cristiani, incontrò il Risorto sulla via tra Gerusalemme e Damasco. Baluardo dell'evangelizzazione dei popoli pagani nel Mediterraneo morì anch'egli a Roma tra il 64 e il 67. Fin dai tempi antichi la Chiesa di Roma celebra gli Apostoli Pietro e Paolo in un’unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. La fede in Gesù Cristo li ha resi fratelli e il martirio li ha fatti diventare una sola cosa. San Pietro e San Paolo, così diversi tra loro sul piano umano, sono stati scelti personalmente dal Signore Gesù e hanno risposto alla chiamata offrendo tutta la loro vita. In entrambi la grazia di Cristo ha compiuto grandi cose, li ha trasformati. Eccome li ha trasformati! Simone aveva rinnegato Gesù nel momento drammatico della passione; Saulo

aveva perseguitato duramente i cristiani. Ma entrambi hanno accolto l’amore di Dio e si sono lasciati trasformare dalla sua misericordia; così sono diventati amici e apostoli di Cristo. Perciò essi continuano a parlare alla Chiesa e ancora oggi ci indicano la strada della salvezza. Dio è così: ci trasforma, ci perdona sempre, come ha fatto con Pietro e come ha fatto con Paolo. Il libro degli Atti degli Apostoli mostra molti tratti della loro testimonianza. Pietro, ad esempio, ci insegna a guardare i poveri con sguardo di fede e a donare loro ciò che abbiamo di più prezioso: la potenza del nome di Gesù. Questo ha fatto con quel paralitico: gli ha dato tutto quello che aveva, cioè Gesù (cfr At 3,4-6). Di Paolo, viene raccontato per tre volte l’episodio della chiamata sulla via di Damasco, che segna la svolta della sua vita, marcando nettamente un prima e un dopo. Prima, Paolo era un acerrimo nemico della Chiesa. Dopo, mette tutta la sua esistenza a servizio del Vangelo. Anche per noi l’incontro con la Parola di Cristo è in grado di trasformare completamente la nostra vita. Non è possibile ascoltare questa Parola e restare fermi al proprio posto, restare bloccati sulle proprie abitudini. Essa ci spinge a vincere l’egoismo che abbiamo nel cuore per seguire decisamente quel Maestro che ha dato la vita per i suoi amici. Ma è Lui che con la sua parola ci cambia; è Lui che ci trasforma; è Lui che ci perdona tutto, se noi apriamo il cuore e chiediamo il perdono. Questa festa suscita in noi una grande gioia, perché ci pone di fronte all’opera della misericordia di Dio nel cuore di due uomini. E’ l’opera della misericordia di Dio in questi due uomini, che erano grandi peccatori. E Dio vuole colmare anche noi della sua grazia, come ha fatto con Pietro e con Paolo.

Camilla

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HANNO RICEVUTO

IL BATTESIMO

PIETRO

TOMMASO

NICOLE

Gesù confido in Te!Gesù confido in Te!Gesù confido in Te!Gesù confido in Te! La voce di un credenteLa voce di un credenteLa voce di un credenteLa voce di un credente

Preghiera di fiducia in DioPreghiera di fiducia in DioPreghiera di fiducia in DioPreghiera di fiducia in Dio

Mio Dio, Mio Dio, Mio Dio, Mio Dio,

non solamente confido in Te,non solamente confido in Te,non solamente confido in Te,non solamente confido in Te,

ma non ho che fiducia in Te.ma non ho che fiducia in Te.ma non ho che fiducia in Te.ma non ho che fiducia in Te.

Donami dunque lo Spirito di Donami dunque lo Spirito di Donami dunque lo Spirito di Donami dunque lo Spirito di

AbbandonoAbbandonoAbbandonoAbbandono

per accettare le cose che non per accettare le cose che non per accettare le cose che non per accettare le cose che non

possono cambiare.possono cambiare.possono cambiare.possono cambiare.

Donami ancDonami ancDonami ancDonami anche lo Spirito di Forza,he lo Spirito di Forza,he lo Spirito di Forza,he lo Spirito di Forza,

per cambiare le cose che posso per cambiare le cose che posso per cambiare le cose che posso per cambiare le cose che posso

cambiare.cambiare.cambiare.cambiare.

Donami infine lo Spirito di Donami infine lo Spirito di Donami infine lo Spirito di Donami infine lo Spirito di

Saggezza per discernereSaggezza per discernereSaggezza per discernereSaggezza per discernere

ciò che dipende effettivamente da ciò che dipende effettivamente da ciò che dipende effettivamente da ciò che dipende effettivamente da

me,me,me,me,

allora fa' che io faccia la tua sola e allora fa' che io faccia la tua sola e allora fa' che io faccia la tua sola e allora fa' che io faccia la tua sola e

Santa Volontà.Santa Volontà.Santa Volontà.Santa Volontà.

Amen. Amen. Amen. Amen.

Blaise PascalBlaise PascalBlaise PascalBlaise Pascal

SANTUARIOSANTUARIOSANTUARIOSANTUARIO

MADONNA MADONNA MADONNA MADONNA DELLA CORONADELLA CORONADELLA CORONADELLA CORONA

24 GIUGNO 1522 24 GIUGNO 1522 24 GIUGNO 1522 24 GIUGNO 1522

SPIAZZI (VR)SPIAZZI (VR)SPIAZZI (VR)SPIAZZI (VR)

Uno dei più caratteristici Santuari, sia per l’austerità del paesaggio che lo circonda, sia anche per la sua storia, è sicuramente quello della Madonna della Corona che sorge sul Monte Baldo, in Diocesi di Verona. Il Monte Baldo è una stupenda catena prealpina che si estende tra il lago di Garda ed il fiume Adige, per una lunghezza di circa 40 chilometri e per una larghezza di 20. Il massiccio da sempre è chiamato «la Corona», «da quei monti che in giro piegando, formano intorno una corona». Per questo il Santuario dell’Addolorata prende il nome della «Corona».

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In un breve spiazzo incavato nella parete di roccia cruda, che si drizza a picco sull’abisso per una altezza di 400 metri, sta la chiesa, appiccicata sulla roccia come un nido di aquila.

La tradizione

La tradizione fa miracolosamente comparire il 24 giugno del 1522, sulla parete rocciosa del Baldo, la statua della Madonna. La Venerabile Elena da Persico (1869-1948), fondatrice delle Figlie della Regina degli Apostoli, riferisce che, in una notte del giugno 1522, una luce misteriosa illuminò le selve che coprivano le balze orientali del monte Baldo, in quella insenatura rocciosa, che scende a picco fin quasi all’Adige e guarda i monti sorgenti sull’altra riva del fiume. Così intensa e viva è quella luce che i terrazzani dei dintorni ne sono colpiti ed accorrono sui cigli della roccia per vederne la causa. Ma da lassù nulla possono scorgere, se non la meravigliosa luce. Allora i più coraggiosi, per mezzo di funi si calano giù al centro di quegli splendori. Sopra un brevissimo spiazzo, a mezza roccia, scorgono la statua di Maria col Figlio morto sulle ginocchia. La notizia si diffonde subito in tutti i dintorni ed è un accorrere di gente a venerare la statua miracolosa. Ma il luogo dove essa si trova è inaccessibile, ed allora si pensa di portarla alla borgata Spiazzi, composta di poche case, alla cima delle rocce. Superando grandi difficoltà, si riesce nell’impresa. L’immagine preziosa e venerata, a forza di argani, è portata sulla sommità del monte. Viene improvvisata una processione, alla quale prendono parte moltissimi fedeli accorsi dai paesi vicini, e la statua, tra canti di gioia, è collocata sopra un altare in una cappella di legno, costruita in tutta fretta. Ma il giorno seguente, quando i devoti accorrono

per venerarla di nuovo, la statua non c’è più! Pensando ad un furto, si cerca nelle case, negli antri delle rocce, nei boschi. Inutilmente! Finalmente qualcuno pensa di guardare sullo spiazzo roccioso, dal quale è stata tolta. Si trova proprio là. Allora i paesani rinnovano la fatica del giorno prima, scendono di nuovo a prendersi la preziosa statua e la riportano nel luogo dove già le hanno eretto un altare. E per la seconda volta Ella sparisce dalla Cappella di legno, e per la seconda volta è ritrovata nel breve spiazzo roccioso. Si decide allora di costruire sul posto una piccola chiesa. Per circa venti anni, i fedeli debbono calarsi giù dalle rocce con le funi dell’argano, finché non viene costruita una strada.

Un’altra spiegazione

Oltre alla tradizione che riferisce l’apparizione miracolosa della statua della Pietà, si ritiene che, già prima del 1522 in quella cavità rocciosa vivessero dei religiosi eremiti, ai quali Ludovico di Castelbarco fa dono, come ex voto, di una statua dell’Addolorata che la tradizione vuole sia giunta da Rodi, dopo la caduta dell’isola in mano ai Turchi. Infatti sul piedestallo della statua vi è la scritta «Hoc opus fecit fieri Ludovicus

de Castro Barco AD 1432». Attorno a questa statua fiorisce la devozione all’Addolorata, molto viva in quel tempo, e sorge il Santuario che con gli anni si sviluppa ed abbellisce fino alla forma attuale in seguito ad un radicale allargamento in roccia e a un completo rifacimento del Santuario più ardito d’Italia negli anni 1975- 1978.

La statua

La statua della Madonna che si venera alla Corona è un gruppo in pietra alto cm 70; la Vergine è raffigurata in atteggiamento di profondo e composto

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dolore materno, mentre sorregge e contempla afflitta il corpo di Cristo deposto dalla croce. È una delle tante immagini e statue della Pietà (in tedesco «Vesperbild», cioè «Quadro

della sera») che ci riporta alla sera del venerdì santo, quando Maria riceve tra le braccia il corpo di Gesù deposto dalla croce. Una statua simile è quella che si venera nel Santuario altoatesino di Pietralba, «Maria Weissen- stein », in provincia di Bolzano, molto amato dall’indimenticabile Papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I. Queste raffigurazioni della Pietà sono in gran parte una forma artistica caratteristica della regione tedesca e alpina.

Le vie attuali al Santuario

Oggi per giungere al Santuario della Madonna della Corona si possono percorrere diverse vie: 1) Da Brentino, in Val d’Adige, si snoda lungo il costone del monte Cimo «l’antico sentiero del pellegrino», che si percorre a piedi:tratti di terreno battuto si alternano a rampe di gradinata (circ1600 gradini). È la via più ardita,che ogni anno è percorsa da molti pellegrini. 2) Una strada asfaltata scende dal piazzale “Giovanni Paolo II”a di Spiazzi e arriva alla Corona immergendosi nell’ultimo tratto in una galleria (scavata nel 1922). Questa strada è percorribile anche da autovetture , ma nei periodi di maggior afflusso è riservata ad un pulmino di linea. 3) Un’altra antica via «la via del pellegrino orante» è costituita da una lunga serie di scalinate che, partendo da Spiazzi, presso la fontana, o dal piazzale “Giovanni Paolo II”, portano al Ponte del Tiglio; da qui inizia la «via Matris», è l’ultimo tratto di scalinata a strapiombo sulla vertiginosa vallata.

Percorrendo queste scalinate si possono ammirare le visuali più suggestive del Santuario. Il numero dei gradini disseminati nei dintorni della Corona è di circa duemila (2.000). Ogni anno in questo angolo nascosto, sospeso tra cielo e terra, giungono numerosi pellegrini per chiedere alla «Pietà», che la tradizione popolare ama pensare giunta da Rodi, quell’aiuto di consolazione di cui è stata generosa “serva del Signore” a partire dalla sua tradizionale comparsa tra le rocce del Baldo il “24 giugno 1522”.

Elena

P.S. Il 17 aprile del 1988 giunse pellegrino al Santuario della Corona

San Giovanni Paolo II° , in quella

circostanza dopo aver sorvolato con l’elicottero la chiesa scavata nella

roccia lungo l’incantevole parete che a strapiombo da sulla Valle dell’Adige,

ebbe a dire: “ebbene, ho girato tutto il mondo … ma un Santuario come questo non l’ho mai trovato”. di

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AAAAAAAA PPPPPPPP PPPPPPPP UUUUUUUU NNNNNNNN TTTTTTTT AAAAAAAA MMMMMMMM EEEEEEEE NNNNNNNN TTTTTTTT IIIIIIII GGGGGGGG IIIIIIII UUUUUUUU GGGGGGGG NNNNNNNN OOOOOOOO 22222222 00000000 11111111 66666666

OGNI DOMENICA ore 10.00: S. MESSA DELLE FAMIGLIE. ore 17.00: ADORAZIONE EUCARISTICA E CANTO DEL VESPERO.

OGNI LUNEDÌ ore 9.00-12.00: ADORAZIONE EUCARISTICA E CONFESSIONI.

OGNI GIOVEDÌ ore 17.00: ADORAZIONE EUCARISTICA.

OGNI SABATO ore 15.00 - 18.00: TEMPO PER LE CONFESSIONI.

DALL’1 AL 13 GIUGNO TREDICINA DI SANT’ANTONIO

1 – 12 GIUGNO ORE 21.00 LITURGIA DELLA PAROLA CON PREGHIERE

IN ONORE DI S. ANTONIO.

LUNEDÌ 13

ORE 7.30 S. MESSA IN ONORE DI S. ANTONIO. ORE 20.30 CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PRESIEDUTA DA PADRE FEDERICO E PADRE MICHELE. SVOLGERÀ IL MINISTE RO LITURGICO DEL CANTO LA “CORALE DON LEONE”.

VENERDÌ 3 SOLENNITÀ DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

SABATO 4 SOLENNITÀ DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

ore 10.00: S. Messa in onore al Cuore Immacolato di Maria.

VENERDÌ 24 NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

DOMENICA 26 GIORNATA DELLA CARITÀ DEL PAPA

LUNEDÌ 29

FESTA PATRONALE

SOLENNITÀ SANTI PIETRO E PAOLO ore 10.00 S. MESSA

ore 18.00 S. MESSA SOLENNE

ore 19.00 AL PORTO BENEDIZIONE DELLE BARCHE

CELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIACELEBRAZIONE DELLA LITURGIA

PARROCCHIA DI TORRI

ORARIO FERIALE

ore 7.00 Lodi ore 17.00 Vespero

ore 18.00 S. Messa

ORARIO FESTIVO

Sabato ore 17.00 S. Messa ore 19.00 S. Messa

Domenica ore 7.00 S. Messa ore 8.30 S. Messa ore 10.00 S. Messa ore 11.15 S. Messa ore 17.00 Vespero ore 19.00 S. Messa

PARROCCHIA DI PAI

ORARIO FESTIVO

Sabato ore 20.00 Domenica ore 10.00

Bollettino di informazione Parrocchiale stampato in proprio La Redazione: Don Giuseppe Cacciatori – Daniela Pippa – Anna Menapace – Rosanna Zanolli –

William Baghini. Collaborazione fotografica: Mario Girardi Impaginato e stampato da: Daniela Pippa