Giovanni Darconza Potere, mito e scrittura nella narrativa ... · strettamente connesse tra loro.5...

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ARACNE Potere, mito e scrittura nella narrativa ispanoamericana del Novecento Giovanni Darconza

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ARACNE

Potere, mito e scrittura nella narrativa ispanoamericana

del Novecento

Giovanni Darconza

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ISBN 88–548–0132–1

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I edizione: maggio 2005

Le nazioni del nostro tempo non potrebbero far sì che nel loro seno le condizioni non siano eguali, ma dipende da esse che l’eguaglianza le conduca alla servitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria.

Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America La hispanidad, ansiosa de justicia absoluta, se vertió allende el océano, en busca de su destino, buscándose a sí misma, y dio con otra alma de tierra, con otro cuerpo que era alma, con la americanidad.

Miguel de Unamuno, La raza vasca y el vascuence. En torno a la lengua española

La historia tiene la realidad atroz de una pesadilla; la grandeza del hombre consiste en hacer obras hermosas y durables con la sustancia real de esa pesadilla. O dicho de otro modo: transfigurar la pesadilla en visión, liberarnos, así sea por un instante, de la realidad disforme por medio de la creación.

Octavio Paz, El laberinto de la soledad

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Indice del volume

Introduzione 9 Cap. I: I due volti dell’America 19 Cap. II: Mito, storia e potere 45 Cap. III: Le origini del mito del dittatore 59 Cap. IV: Linguaggio e mito in El Señor Presidente di Miguel Ángel Asturias 85 Cap. V: La dittatura di un uomo illuminato. El recurso del método di Alejo Carpentier 129 Cap. VI: Il potere della scrittura in Yo el Supremo di Augusto Roa Bastos 171 Cap. VII: L’eternità della dittatura. El otoño del patriarca di Gabriel García Márquez 213 Cap. VIII: Lo scrittore rivoluzionario 251 Bibliografia 263

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Introduzione

A partire dall’inizio della Prima Guerra Mondiale si ha uno spo-stamento dell’asse del potere, quello che Marcello Carmagnani, rifa-cendosi a un termine della classicità, definisce translatio imperii, ov-vero il trasferimento del centro economico e culturale della civiltà oc-cidentale in America in concomitanza con il declino della vecchia Eu-ropa 1. L’idea della decadenza europea viene ripresa anche dagli ispa-noamericani che rivendicano a loro volta di essere gli eredi dell’umanesimo europeo e, in quanto tali, degni di svolgere un ruolo nuovo nello scenario internazionale. Nestor García Canclini, a proposito del crescente influsso culturale del modello nordamericano nel sottocontinente ispanoamericano, sottolinea come «el predominio estadounidense en los mercados comunicacionales redujo el papel de metrópolis culturales que España y Portugal tuvieron desde el siglo XVII, y Francia desde el XIX, hasta principios del siglo XX en América latina. Sin embargo, el desplazamiento del eje económico y cultural hacia Estados Unidos no es uniforme en todos los campos» 2. A partire da questo istante si profila una nuova minaccia per l’identità culturale ispanoamericana, legata non solo alla crescente politica interventista nordamericana, ma anche all’imposizione di modelli culturali estranei alle società sudamericane.

Del primo grande conflitto europeo finirono per beneficiare, anche se in modo diverso, sia gli Stati Uniti che le nazioni latinoamericane, e in particolare nell’approvvigionamento di beni di consumo primari per

1 M. CARMAGNANI, L’altro occidente. L’America Latina dall’ invasione euro-

pea al nuovo millennio, Torino, Einaudi. 2003, p. 304. 2 N. GARCÍA CANCLINI, Latinoamericanos buscando lugar en este siglo, Buenos

Aires, Paidós Estado y Sociedad 2002, p. 61.

Introduzione 10

le nazioni in guerra 3. Ad una prima fase di neutralità degli Stati Uniti seguì un ripensamento del presidente Wilson. Se in una dichiarazione dell’agosto del 1914 il governo di Washington aveva bandito i prestiti dei banchieri americani alle nazioni in guerra, divenne presto unanime giudizio che tale neutralità avrebbe provocato una recessione negli Stati Uniti. Così con la dichiarazione di guerra del 2 aprile 1917, «dol-laro e Federal Reserve divengono centro dell’Occidente e dunque del Mondo» 4.

La translatio imperii è un fenomeno destinato a mutare profonda-mente le sorti della storia mondiale del XX secolo, e non solo a livello politico ed economico. Da sempre gli stati più potenti da un punto di vista economico e militare hanno avuto la facoltà di dettare i propri modelli culturali sulle nazioni più deboli. Da questo punto di vista l’egemonia statunitense ha finito per creare un divario enorme tra le due Americhe, portando a due situazioni tanto diverse eppure così strettamente connesse tra loro.5 In America Latina si affermerà il mito del dittatore, negli Stati Uniti quello del presidente. Due personaggi legati a due forme antitetiche di governo,eppure due fenomeni che, se analizzati in profondità, non fanno che mostrare le due facce di una stessa medaglia e trovano la propria origine nel diverso atteggiamento che i due continenti hanno adottato nel corso del Novecento.

Il presente lavoro si propone di studiare i rapporti tra potere, mito e scrittura nel romanzo ispanoamericano, analizzando prima e metten-do a confronto successivamente alcuni testi significativi pubblicati prevalentemente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si ve-drà come il rapporto-scontro tra scrittore e autorità sia spesso caratte-rizzato da una vera e propria ossessione nei confronti delle figure che incarnano il potere. Tutto ciò conduce alla creazione di nuovi miti in grado di imprimersi indelebilmente nell’immaginario collettivo.

3 Questo aspetto sarà evidenziato in maniera particolare nell’analisi del romanzo

di Alejo Carpentier che verrà preso in esame più avanti nel corso di questo lavoro. (A. CARPENTIER, El recurso del método, Madrid, Alianza 1998).

4 G. ALVI, Il secolo americano, Milano, Adelphi 1996, p. 15. 5 Per un’analisi dettagliata della supremazia culturale ed economica degli Stati

Uniti sul continente latinoamericano e sulla crisi d’identità avvertita dalle popola-zioni si fa riferimento a N. GARCÍA CANCLINI, Latinoamericanos buscando lugar en este siglo, cit., oppure a M. CARMAGNANI, op. cit.

Introduzione 11

Lo spunto ideale per iniziare il nostro studio può essere dato dall’analisi di due poesie, scritte in tempi diversi, da due autori latino-americani. Nella prima, intitolata “Ser y estar”, lo scrittore uruguaiano Mario Benedetti si rivolge a un ipotetico marine statunitense con lo scopo apparente di cercare di spiegargli la differenza sostanziale che esiste in spagnolo tra l’uso del verbo ser e il verbo estar, dal momento che per il soldato angloamericano «todo es to be». L’io poetante si sforza allora di «aclarar las cosas», elencando al marine alcuni esem-pi. La prima barriera da superare, sembra suggerire Benedetti, è quella linguistica, poiché da questa prima grande differenza che separa i due continenti vi è il pericolo di fuorvianti incomprensioni. Vale la pena riportare le strofe finali della poesia:

por ejemplo un hombre es listo cuando obtiene millones por teléfono y evade la conciencia y los impuestos y abre una buena póliza de seguros a cobrar cuando llegue a sus setenta y sea el momento de viajar en excursión a capri y a parís y consiga violar a la gioconda en pleno louvre con la vertiginosa polaroid en cambio un hombre está listo cuando ustedes oh marine oh boy aparecen en el horizonte para inyectarle democracia 6. Le due espressioni ser listo e estar listo contengono in spagnolo

una differenza di significato tutt’altro che irrilevante 7. Apportando e-sempi concreti al soldato nordamericano, la breve lezione di lingua spagnola si tramuta ben presto in un atto di accusa nei confronti dello strapotere imperialista nordamericano sul continente ispanoamericano.

6 M. BENEDETTI, “Ser y estar”, in Antología poética, Madrid, Alianza 1999, pp.

97-99. 7 Lo stesso problema nell’uso spagnolo di ser y estar si pone anche per un ita-

liano e questo rende la poesia di Benedetti particolarmente difficile da tradurre.

Introduzione 12

Il marine “es listo”, ovvero è furbo poiché, mascherando il proprio operato dietro l’apparenza di una missione di redenzione del mondo intero sotto la bandiera della democrazia e della libertà, in realtà è in-teressato unicamente a sfruttare fino all’osso i paesi “barbari” che in-tende civilizzare per trarne il massimo profitto economico. Il sistema capitalistico statunitense, modello per l’intera civiltà occidentale, non è strumento di progresso, ma un mezzo per soddisfare i propri bisogni egoistici, per guadagnare milioni di dollari, evadere il fisco, aprire una polizza di assicurazione da usare una volta giunti all’età della pensio-ne e poter così “violare” con le macchine fotografiche le opere d’arte disseminate per il mondo.

In cambio l’uomo ispanoamericano deve “estar listo”, deve cioè mantenersi pronto per affrontare il momento in cui il soldato statuni-tense giungerà minaccioso all’orizzonte per “iniettargli democrazia.” In queste ultime due parole vi è il nucleo del contrasto tra i due conti-nenti che ha caratterizzato, e continua a caratterizzare, l’ultimo secolo di storia politica ed economica americana. Particolarmente significati-vo è l’uso del verbo “iniettare”, poiché esso può rimandare a una du-plice sfera di significato. Da un lato è possibile iniettare un medica-mento, e sicuramente è in questo senso che i nordamericani vedono la propria missione salvifica, proponendo la propria democrazia come fosse la cura per tutti i mali che da tempi immemorabili affliggono l’intera umanità, e in particolare i paesi più arretrati del pianeta. Ma si può iniettare anche una droga, ed è in questo secondo senso che i paesi dell’America Latina hanno da sempre avvertito l’intrusione nordame-ricana nei propri affari di stato. Il modello nordamericano si tramuta agli occhi degli ispanoamericani in una minaccia alla propria identità culturale oltre che alla propria libertà.

Del resto è significativo che la poesia venga rivolta ad un marine piuttosto che a un americano qualunque. Il primo contatto tra i due mondi è di tipo conflittuale, poiché gli statunitensi non vogliono la convivenza pacifica, bensì la guerra. L’operato del sistema imperiali-stico militare americano verrà più volte paragonato, sia dagli scrittori ispanoamericani che da quelli angloamericani, alle imprese dell’antico

Introduzione 13

Impero Romano, tanto da giustificare l’affermazione che «los gringos son los romanos de América. Y contra Roma no se puede» 8.

La seconda poesia è quella del poeta nicaraguense Rubén Darío. Iniziatore del movimento modernista, destinato a rivoluzionare pro-fondamente la lirica in lingua spagnola (non solo sul continente ame-ricano), Darío è oggi ricordato in particolar modo per la sua poesia di evasione, legata a temi esotici, mitologici, legati alla storia antica. Ma Darío è stato anche un attento osservatore della scena internazionale e, vivendo in Spagna per molti anni, subì a sua volta l’influsso dello spirito critico della Generación del 98, preoccupandosi del problema della crisi d’identità dell’uomo ispanico. 9

Nella celebre poesia “A Roosevelt”, pubblicata nel 1905 nella raccolta Cantos de vida y esperanza, Darío prende spunto dai fatti di cronaca contemporanea per criticare l’emergente politica imperialisti-ca nordamericana e al contempo per cercare di richiamare gli ispano-americani ad una presa di coscienza volta a riscoprire le proprie origi-ni di fronte alla minaccia degli invasori anglosassoni. L’episodio a cui Darío si riferisce è l’atto attraverso il quale Theodore Roosevelt pro-vocò e sostenne la ribellione indipendentista di Panama contro la Co-lombia, per poter costruire, e successivamente disporre, del canale transoceanico 10. La poesia di Darío si apre con una invocazione dal

8 A. CARPENTIER, El recurso del método, Madrid, Alianza 1998, p. 277. Questa identificazione tra gli Stati Uniti d’America e l’Impero Romano affonda le proprie radici già nel mondo puritano degli inizi del Settecento, prima ancora della Dichia-razione d’Indipendenza, quando Cotton Mather esaltava le figure dei primi governa-tori delle colonie del New England (in particolare John Winthrop) paragonandole a famosi personaggi della Grecia antica (Licurgo) o del mondo romano (Numa Pompi-lio). Si veda ad es. C. MATHER, Magnalia Christi Americana, Books I and II, Cam-bridge Massachussets, Harvard University Press 1977, p. 213.

9 Per gli influssi reciproci tra Darío e la Generación del 98 si veda J.M. MARTÍNEZ, introduzione a R. DARÍO, Azul y Cantos de vida y esperanza, Madrid, Cátedra 1998; G. BELLINI, Storia della letteratura ispanoamericana, Milano, LED 1997; J. CANAVAGGIO (a cura di), Historia de la Literatura Española, vol. VI, El Siglo XX, Barcelona, Ariel 1995.

10 Il canale fu ceduto agli Stati Uniti il 18 novembre del 1903, con la firma Hay-Varilla. L’attitudine imperialistica di Roosevelt fu bersaglio di numerosi rimproveri da parte del mondo ispanico e ottenne un’ampia risonanza nelle pubblicazioni dei giornali dell’epoca. L’apertura del canale di Panama non porterà a quell’idilliaco «marriage of continents, climates and oceans» che Walt Whitman auspicava quando,

Introduzione 14

tono biblico, nel quale l’io poetico, con «voz de Biblia o verso de Walt Whitman» 11 cerca di arrivare a capire le motivazioni del Caza-dor americano. I versi iniziali dipingono la figura del presidente nor-damericano così come viene visto dagli occhi di un ispanoamericano:

Primitivo y moderno, sencillo y complicado, Con un algo de Washington y cuatro de Nemrod! Eres los Estados Unidos, Eres el futuro invasor De la América ingenua que tiene sangre indígena, Qué aún reza a Jesucristo y aún habla en español 12. Nell’affermazione «tu sei gli Stati Uniti» Darío riconosce nel pre-

sidente la personificazione stessa dell’intera nazione, poiché egli ne incarna lo spirito e gli ideali. Ma è anche consapevole del crescente potere economico e militare degli Stati Uniti, quando profetizza la fu-tura invasione dell’America Latina, le cui qualità specifiche sono connotate dal carattere meticcio delle sua cultura (ispanica e indigena) dalla religione cattolica e dalla lingua castigliana. Ma la vera critica a Roosevelt è nella riflessione che in lui (e di conseguenza nella nazio-ne di cui è il simbolo) è rimasto ormai ben poco dell’antico spirito democratico che aveva animato il primo presidente George Washin-gton. Roosevelt è semmai la rappresentazione moderna del personag-gio biblico Nemrod, la cui abilità come cacciatore è diventata prover-biale. In un articolo intitolato “El arte de ser presidente de la República. Roosevelt”, inviato alla rivista La Nación, Darío aveva os-servato come nel presidente si fondessero due condizioni apparente-

anni prima, aveva cantato il proprio elogio per l’apertura dell’altro importante cana-le, quello di Suez. Si veda ad es. W. WHITMAN, “Passage to India”, in Foglie d’erba, Milano, RCS Libri 2004.

11 A Rubén Darío bisogna riconoscere il merito di aver scoperto l’importanza della poesia di Walt Whitman a partire dal 1888, quando ancora il suo nome era po-co conosciuto in Europa. Del grande poeta americano dirà che è “en mi opinión el más grande de los poetas de la América del Norte. En Francia no se le conoce aún lo suficiente.” A lui Darío ha dedicato anche una poesia, “Walt Whitman”, pubblicata nella raccolta Azul.

12 R. DARÍO, “A Roosevelt”, in op. cit., pp. 359-360.

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mente opposte: quella dell’uomo di lettere e quella dell’uomo di sport 13.

La critica al presidente americano si inasprisce quando Darío con-testa a Roosevelt di credere che la vita è un incendio e il progresso un’eruzione violenta, che il futuro del continente è laddove va a finire la pallottola sparata dal suo fucile. La poesia prosegue giungendo a mettere a confronto le due Americhe:

Los Estados Unidos son potentes y grandes. Cuando ellos se estremecen hay un hondo temblor Que pasa por las vértebras enormes de los Andes. […] Sois ricos. Juntáis al culto de Hércules el culto de Mammón; Y alumbrando el camino de la fácil conquista, La Libertad levanta su antorcha en Nueva York 14. Significativa è la metafora con cui il poeta nicaraguense arriva ad

identificare il continente americano con un organismo vivente, al pun-to che ad ogni scossone o sussulto a nord corrisponde un profondo tremore che passa attraverso le vertebre andine. Ma la vera differenza tra lo spirito ispanico e quello anglosassone consiste nel fatto che i primi credono nel culto della forza fisica e militare (Ercole), nella ric-chezza economica e nei facili guadagni (Mammone) 15, intraprenden-do in tal modo un cammino di conquista mascherato dietro il nobile ideale di portare la libertà al mondo intero.

Diametralmente opposta è invece l’altra America, l’América nue-stra. Darío conclude lanciando un appello disperato allo spirito ispa-nico sulle due sponde dell’Atlantico, per cercare di risollevarlo dallo stato di profonda crisi politica, economica ed esistenziale in cui sem-bra sprofondare fatalmente; un appello a quella America cattolica di matrice ispanica, l’America di Montezuma, degli Inca, di Cristoforo

13 R. DARÍO, nota alla poesia “A Roosevelt”, in op. cit., p. 360. La passione di

Roosevelt per la caccia era giunta a conoscenza di Darío attraverso la lettura di una biografia, nella quale aveva appreso che il presidente americano aveva ottenuto un dottorato in scienze e scritto persino opuscoli sullo sport della caccia.

14 Ivi, pp. 360-361. 15 Per i Fenici Mammone era il dio della ricchezza e dei metalli preziosi.

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Colombo, che al materialismo dei nordamericani ha sempre privile-giato la spiritualità. In breve quella America

Que tiembla de huracanes y vive de amor; Hombres de ojos sajones y alma bárbara, vive. Y sueña. Y ama, y vibra; y es la hija del Sol. Tened cuidado. ¡Vive la América española! Hay mil cachorros sueltos del León Epañol. Se necesitaría, Roosevelt, ser por Dios mismo, El Riflero terrible y el fuerte Cazador, Para poder tenernos en vuestras férreas garras. Y, pues contáis con todo, falta una cosa: ¡Dios 16! (Corsivo mio) Il finale della poesia sottolinea ripetutamente lo scarto che esiste

tra l’anima spagnola che ama, vive, sogna, e l’anima “barbara” degli anglosassoni. Qui si comincia a delineare una delle caratteristiche pe-culiari nella letteratura del Novecento ispanoamericano, nel ribalta-mento tra i concetti di civiltà e barbarie, che come vedremo costitui-ranno un tema fondamentale nell’opera degli scrittori che ci appre-stiamo ad analizzare (in particolare Carpentier e García Márquez). Barbari non sono i popoli primitivi che vivono a contatto con la natu-ra, gli indigeni, i sudamericani, bensì coloro che, mascherando i pro-pri istinti egoistici, dietro l’illusione di portare civiltà, progresso e li-bertà si macchiano del sangue di molti innocenti. All’anima “barbara” dei nordamericani manca qualcosa di importante, nel loro ossessivo culto a Mammone è andato perso un elemento importante: la divinità, e con essa ogni ricerca volta all’interiorità dell’individuo, alla spiri-tualità e ad un contatto più autentico con la terra.

Si profila così, in tutta la sua drammaticità, la tensione tra civiltà e barbarie, di cui si tratterà più approfonditamente più avanti in questo lavoro; tra il modello politico e culturale nordamericano, che privile-gia le grandi metropoli e il commercio, e quello ispanoamericano, più arretrato, legato alla terra e a forme di governo primitive. La dicoto-mia tra civiltà e barbarie, tra città e natura, tra materialismo e spiritua-lità, tra cultura anglosassone e cultura latina, finirà col riflettersi inevi-tabilmente anche sulle forme di governo dei rispettivi paesi, e in parti-

16 Ivi, pp. 361-362.

Introduzione 17

colare sui simboli che incarnano il potere. Analizzare vicissitudini e imprese di questi personaggi diventa, per gli scrittori ispanoamericani, un modo per ricercare le origini dei mali che affliggono i propri paesi, per analizzare luci ed ombre della vita contemporanea e capire i moti-vi per cui, nel ventesimo secolo, questi uomini politici siano riusciti ad entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo fino ad assumere spesso i contorni di figure mitiche.

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Capitolo I: I due volti dell’America 1.1. Civiltà atlantica e democrazia

Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, una tra le più grandi gui-de intellettuali del Novecento spagnolo, ha definito l’idea di occidente come il risultato di tre principi che hanno reso possibile la conforma-zione della società e della cultura negli odierni paesi più sviluppati: la democrazia liberale, la sperimentazione scientifica e l’industrializza-zione (queste ultime due potrebbero essere riunite sotto una stessa de-nominazione: la tecnica) 1. Se è vero che si deve in gran parte alla cul-tura anglosassone l’invenzione e lo sviluppo di alcuni di questi princi-pi (all’Inghilterra l’industrializzazione e agli Stati Uniti l’idea di de-mocrazia), è altrettanto vero che la maggior parte della popolazione ispanoamericana ha continuato a vivere per molto tempo ai margini di questi principi.

Le popolazioni dell’America Latina non solo sono state tagliate fuori dai benefici dell’idea di democrazia e di progresso, ma sono ri-maste saldamente ancorate a tradizioni popolari che affondano le pro-prie radici nelle antiche civiltà precolombiane. I quasi due secoli che sono intercorsi dalle rivoluzioni per l’indipendenza e dalla formazione delle singole nazioni non sono stati sufficienti per migliorare questa situazione di forte ritardo nei confronti dei paesi più progrediti, anzi hanno accentuato, se possibile, le differenze sociali. Le classi contadi-ne e lavoratrici non hanno fatto che cambiare padrone, passando dall’antico sistema spagnolo, crudele e dispotico, delle encomiendas agli abusi e alle oppressioni delle oligarchie e dei despoti che a turno hanno governato tali paesi. Per capire l’enorme abisso che si è venuto

1 J. ORTEGA Y GASSET, cit. dall’introduzione a M.A. ASTURIAS, El Señor

Presidente, Madrid, Cátedra 2001, p. 13.

Capitolo I 20

a creare tra le due Americhe è necessario cercare di risalire alle cause politiche e sociali che hanno caratterizzato la storia del Nuovo Mondo.

Il tratto più significativo dell’evoluzione del continente americano negli ultimi due secoli è la continua alternanza fra le due opposte ten-denze, da un lato ad isolarsi dal resto del mondo, tanto da negare per-sino ogni legame con la vecchia Europa, dall’altro ad aprirsi ad una dimensione internazionale. Le origini di questa tensione tra mondia-lizzazione e isolazionismo sono molto importanti per cercare di capire più a fondo le relazioni tra le due Americhe e vanno ricondotte, oltre che a scelte politico-commerciali, anche a motivazioni di carattere prettamente geografico.

David Mauk e John Oakland, parlando a proposito della percezione peculiare che gli Stati Uniti hanno di se stessi (ma lo stesso concetto può estendersi anche alle popolazioni dell’America Latina), indivi-duano due fattori che hanno caratterizzato gran parte di storia di poli-tica estera sul continente 2. In primo luogo, l’isolamento del continente americano è legato alla presenza di due vasti oceani che lo separano in maniera netta dagli altri continenti. Secondariamente, la maggior parte della popolazione e delle terre coltivate e praticamente tutte le altre potenze mondiali sono localizzate in Europa e in Asia.

Nell’arco di un periodo di circa 300 anni il relativo isolamento ge-ografico ha fatto sì che tutti coloro che erano immigrati nelle Ameri-che avessero l’impressione di lasciarsi dietro le spalle tutto ciò che non andasse nelle società in cui erano nati e cresciuti. Dunque l’origine del mito dell’America come una nuova Terra Promessa, co-me nuovo inizio per l’umanità, era già contenuta, allo stato latente, in queste speciali caratteristiche geografiche del continente. Da qui nac-que la base per l’isolazionismo statunitense e ispanoamericano, nella profonda convinzione che l’uomo americano potesse in qualche modo sottrarsi a ogni tipo di coinvolgimento con il resto del mondo. Inoltre, via via che la frontiera americana si spingeva verso ovest, si scoprì che le grandi estensioni del territorio avrebbero potuto concedere agli americani di poter vivere in uno stato di autarchia. L’America costi-

2 D. MAUK e J. OAKLAND, American Civilization, London and New York,

Routledge 2001, p. 182.

I due volti dell’America 21

tuiva in breve un mondo a se stante, completo, e ai fini della propria sussistenza non necessitava né dell’Europa né dell’Asia.

Paradossalmente però il relativo stato di isolamento geografico contribuì a creare anche, soprattutto nell’animo dei nordamericani, un senso di insicurezza nazionale. Gli Stati Uniti si sono sempre sentiti isolati e al tempo stesso accerchiati dalle grandi potenze di Europa e Asia 3. Quest’ansia è sfociata a poco a poco nella creazione di organi-smi e strategie mirati a garantire la sicurezza nazionale, tanto che gli Stati Uniti si sforzeranno sempre di rimanere l’unica grande potenza nelle Americhe, cercando in ogni modo di allontanare le potenze eu-ropee, con frequenti ripercussioni negative sui paesi dell’America La-tina.

Esigenze di sicurezza nazionale sono state spesso addotte dal go-verno nordamericano per giustificare la propria espansione territoriale attraverso la guerra, l’acquisizione o la negoziazione. Le prime popo-lazioni a fare le spese di questa preoccupazione per la sicurezza nazio-nale furono naturalmente i nativi americani. Man mano che la frontie-ra si spostava verso ovest e gli indiani venivano massacrati o rinchiusi in anguste e aride riserve, cresceva nella mentalità americana un senso di “missione superiore”, nella convinzione che fosse destino degli Sta-ti Uniti di “civilizzare” l’intero continente, e più tardi il mondo intero. Una volta raggiunte le coste del Pacifico, il senso di ansia dell’uomo nordamericano nei confronti delle altre potenze non si è attenuato, an-zi si è rivolto verso nuove frontiere, a partire dalle nazioni centroame-ricane e caraibiche, spingendosi in un secondo tempo verso il Suda-merica, poi verso l’Estremo Oriente (Vietnam, Corea, ecc.) e infine alla colonizzazione dello spazio.

Vale la pena soffermarsi sull’idea nordamericana di “missione”, mettendola in relazione con l’altro importante concetto originatosi in America e che ha finito per avere il sopravvento nel mondo, dando o-rigine a quella che oggi noi chiamiamo civiltà occidentale: l’idea di democrazia. L’idea di missione era già presente in molta “letteratura di propaganda” scritta dai primi esploratori europei approdati nel Nuovo Mondo che avevano previsto che dall’America si sarebbe evo-luta una nuova e migliore fase di civiltà. Non corrotto dal proprio pas-

3 Ibidem.

Capitolo I 22

sato, il continente americano avrebbe offerto ai suoi abitanti l’occasione di poter ricominciare da zero, evitando gli errori che erano stati commessi nella vecchia Europa. A partire dall’arrivo dei primi colonizzatori, l’America era stata descritta come una nuova Terra Promessa, un suolo vergine da poter plasmare nel migliore dei modi. Da qui nasce la retorica dell’American exceptionalism 4, cioè la con-vinzione che gli affari di politica estera degli Stati Uniti fossero detta-ti, a differenza di quelli di altre nazioni, dalla missione di offrire al mondo una forma migliore di società. Gli Stati Uniti si ponevano co-me modello dell’occidente. Già il ministro puritano John Winthrop aveva in mente una comunità religiosa che si sarebbe imposta come modello per le generazioni future quando scrisse che «wee must Con-sider that we shall be as a Citty upon a Hill, the eyes of all people are uppon us» 5. Tutti i presidenti americani, da George Washington a Ge-orge W. Bush, riprenderanno le parole di Winthrop nei secoli a venire, confermando il sentimento americano di una missione salvifica posta come esempio per il mondo intero, cioè quella di esportare la libertà e la democrazia americana. L’aspetto più interessante nelle parole di Winthrop è forse il fatto che egli vede l’esempio americano connesso alla città piuttosto che alla campagna, anticipando profeticamente quello che diventerà una delle caratteristiche più rilevanti dello svi-luppo statunitense. 1.2. Democrazia e isolazionismo

Per capire i motivi per cui da una fase iniziale di isolazionismo si è successivamente passati a una fase di interventismo, e spesso di colo-nialismo, internazionale da parte degli Stati Uniti sull’America Latina, sarà bene soffermarsi sull’idea di democrazia e sul successo che tale idea ha avuto nel mondo occidentale. Come ha osservato Felipe Fer-nández-Armesto, gli ultimi quattro secoli di storia dell’umanità sono stati caratterizzati dal predominio di quella che noi conosciamo sotto il

4 Ivi, p. 184. 5 J. WINTHROP, “A Model of Christian Charity”, in The Harper American Litera-

ture, 2nd Edition, New York 1994, vol. I, pp. 164-169.

I due volti dell’America 23

nome di civiltà occidentale e che lui definisce “civiltà atlantica” 6. Tut-tavia ai suoi esordi la civiltà atlantica era una realtà fragile e frammen-taria. In particolare quando nel 1776 gli Stati Uniti dichiararono la propria indipendenza dall’Inghilterra, ponendosi come esempio da se-guire per tutte le emergenti nazioni ispanoamericane, la sopravvivenza stessa della civiltà atlantica fu minacciata da una serie di rotture simili. La Spagna si vide costretta a garantire l’indipendenza della maggior parte delle sue colonie americane tra il 1810 e il 1828 e il Brasile si emancipò dal Portogallo nel 1829 7. L’Atlantico sembrò allora essere diventato un golfo che separava le une dalle altre le popolazioni situa-te sulle due sponde opposte. Ma proprio quando la sopravvivenza del-la civiltà atlantica sembrava definitivamente compromessa, dai suoi frammenti cominciò a ricostituirsi una nuova unità. Legami commer-ciali, scambi intellettuali e migrazioni di gente tra le due sponde si fe-cero molto più numerosi dopo l’indipendenza di quanto non lo fossero stati in precedenza.

Ciò che fece da elemento coesivo tra le due coste dell’Atlantico a partire dal 1830 fu l’idea di democrazia sorta negli Stati Uniti 8. Que-sta idea venne considerata in un primo tempo come una delle peculiari istituzioni dell’America del Nord, ma era vista con sospetto dalle altre nazioni, e in particolare da quelle europee, dove, nonostante lo spirito di progresso che l’idea sembrava portare con sé, essa era considerata in principio con riserva e talvolta con ripugnanza dalle élites. Alla lunga però l’idea democratica si tramutò nella grande lezione ameri-cana, appresa e adottata ai due poli dell’Atlantico perché simbolo di libertà e progresso. Diversi viaggiatori europei in visita negli Stati U-niti videro nel modello americano il modo ideale per unire i popoli per

6 F. FERNÁNDEZ-ARMESTO, Civilizations, London, Pan Books 2001, p. 536. 7 M. CARMAGNANI, L’altro occidente. L’America Latina dall’invasione europea

al nuovo millennio, Torino, Einaudi 2003. Rimando in particolare all’utile cartina riportata a p. 157, nella quale vengono indicati gli anni in cui ciascun paese sudamericano ha conquistato la propria indipendenza.

8 Con “idea di democrazia” si adotta qui l’espressione usata da F. Fernández-Armesto, che parla della democrazia americana in termini di idea, institution e infine come an American lesson (F. FERNÁNDEZ-ARMESTO, op. cit., pp. 526 e ss.). Fernán-dez-Armesto sottolinea come nel periodo più critico per la sopravvivenza della civil-tà atlantica «ideas proved particularly powerful in this respect».

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il bene comune. Nel 1831 il filosofo francese Alexis de Tocqueville vide nella democrazia il mezzo per tenere a freno l’egoismo che scatu-riva dalla nuova libertà acquisita. Fu solo verso l’ultima decade del XIX secolo che l’influenza culturale nord-americana si fece largo ol-treoceano, plasmando una volta per tutte la scena mondiale. In breve molti europei si trovarono d’accordo con Louis Kossuth nell’affermare che «democracy is the spirit of our age» 9. Fu subito chiaro che l’individualismo costituiva il carattere distintivo più marca-to del nuovo pensiero condiviso dagli Stati Uniti e dall’Europa Occi-dentale 10.

Gli Stati Uniti si pongono, a partire dalla Dichiarazione d’Indipendenza, come eccezione alle vecchie leggi della storia euro-pea. Ispirati dalla sensibilità razionale del secolo dei lumi, i nordame-ricani crearono se stessi. Questo atto di creazione fu l’opera soprattut-to di Thomas Jefferson, un coltivatore della Virginia pieno di talenti e destinato a diventare il terzo presidente degli Stati Uniti d’America. La Dichiarazione d’Indipendenza costituisce il più importante docu-mento nella storia americana e pone le basi della civiltà atlantica. «All men are created equal», sancisce il documento, e aggiunge che «they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness» 11.

Life and Liberty verranno d’ora innanzi considerati come una cop-pia inseparabile (unite anche nell’allitterazione delle consonanti inizia-li) nella retorica politica americana, in netto contrasto con i termini contrari death and slavery, due condizioni deprecabili che le genera-zioni future avrebbero dovuto ad ogni costo evitare. Ma la ricerca del-la felicità era un concetto nuovo per una nazione, benché restasse vago nella sua espressione. Tuttavia l’idea che lo stato esistesse con l’intento di promuovere il benessere e la felicità dei suoi cittadini co-stituiva una rottura totale con il sistema di classi gerarchiche della vecchia Europa. Resta il fatto che la felicità promessa dalla Dichiara-

9 F. FERNÁNDEZ-ARMESTO, op. cit., p. 527. 10 Si veda in particolare A. de TOCQUEVILLE, La Democrazia in America, Mila-

no, Rizzoli 1984, oppure A. de TOCQUEVILLE, Antologia degli scritti politici, Roma, Carocci 2004.

11 T. JEFFERSON, “The Declaration of Independence as Adopted by Congress”, in The Harper American Literature, cit., vol. I, p. 545.

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zione si rivelerà poi essere strettamente connessa con l’acquisizione di un benessere materiale, e che per raggiungere tale stato di ricchezza, l’economia e il commercio si mostreranno la via prediletta, spingendo gli Stati Uniti verso una fase di apertura internazionale.

Jefferson non è stato il fondatore del sistema politico americano quanto piuttosto l’inventore della grande Idea Americana. Il vecchio sogno di Jefferson era sempre stato una specie di Arcadia costituita da allevatori e coltivatori indipendenti. Egli incarnava gli ideali del sud degli Stati Uniti. Il suo grande nemico, Alexander Hamilton, di New York, preferiva di gran lunga le città alle fattorie, il commercio inter-nazionale alla condizione di autosufficienza sognata dal suo rivale. Il contrasto tra Jefferson ed Hamilton era la grande dicotomia che porta-va nel suo seno l’America fin dai primordi e sarebbe stata la vera ori-gine profonda che avrebbe scatenato da lì a poco la guerra civile.

I paradossi e le contraddizioni hanno da sempre contraddistinto l’Idea Americana sorta dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Jefferson aveva dichiarato che tutti gli uomini sono creati uguali. Dovette però fare un’eccezione per gli schiavi importati dall’Africa, basandosi sull’assunto che, dopo tutto, essi non erano propriamente esseri umani. Lui stesso era il proprietario di duecento schiavi, alcuni dei quali suoi figliastri.

Notevole importanza ebbero pure i Dieci Emendamenti annessi alla Costituzione, conosciuti sotto il nome di Bill of Rights, che dovevano garantire ad ogni cittadino libertà di parola, di assemblea, ecc. Gli Emendamenti costituiscono la seconda grande innovazione e la prova legale dell’eccezionalità nordamericana, anche se la storia degli Stati Uniti, da allora, sarà caratterizzata da abusi di potere che finiranno gradualmente con il privare i cittadini di alcuni di questi diritti.

Se è vero che l’idea di democrazia sarà alla base dell’odierna civil-tà occidentale, è altrettanto vero che dei vantaggi di questo concetto beneficeranno soprattutto Stati Uniti e Europa occidentale, tagliando fuori dallo sviluppo economico e politico quella porzione di continen-te americano che Marcello Carmagnani ha definito come “l’altro Oc-cidente” 12.

12 M. CARMAGNANI, op. cit.

Capitolo I 26

In America Latina le guerre d’indipendenza avevano favorito l’ascesa al potere di capi carismatici spesso di estrazione rurale, quelli che lo scrittore argentino Sarmiento chiamò caudillos 13. I caudillos erano persone, spesso di umili origini, che si erano distinte nelle guer-re d’indipendenza, ribellandosi al potere centrale spagnolo, ed aveva-no acquisito grande esperienza militare direttamente sui campi di bat-taglia. Come ricorda Carmagnani, per capire bene le funzioni del caudillo, può essere utile risalire all’etimologia della parola. Caudillo deriva dal latino caput, ovvero persona che è a capo di una colonna. Dunque «il caudillo è colui che, appoggiandosi ai nuovi rapporti clientelari padrone-padrone, assume nella sua qualità di governatore provinciale o di comandante militare la guida di una colonna» 14. I caudillos riuscirono spesso a concentrare nelle proprie mani grandi poteri e finirono per instaurare nelle zone sotto il proprio controllo dei veri e propri regimi tirannici. Sono loro i veri precursori dei dittatori ispanoamericani del Novecento, benché il popolo nutrisse nei loro confronti sentimenti misti di paura e rispetto 15. Tra i numerosi caudil-los che caratterizzarono la storia ispanoamericana del XIX secolo, vale la pena citare almeno i nomi di Facundo Quiroga e Juan Manuel Rosas (contro i quali si scaglierà la critica di Sarmiento) in Argentina, José Gaspar Rodríguez de Francia (il Doctor Francia di cui scriverà Augu-sto Roa Bastos) in Paraguay e García Moreno in Ecuador 16.

13 D. F. SARMIENTO, Facundo. Civilización y barbarie, Madrid, Cátedra 1997. 14 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 191. 15 Di questo duplice atteggiamento farà tesoro Gabriel García Márquez nel ro-

manzo che analizzeremo più avanti nella nostra discussione. Da ricordare inoltre che un altro grande dittatore del Novecento, lo spagnolo Francisco Franco, scelse di a-dottare, una volta salito al potere dopo la guerra civile spagnola, proprio l’epiteto di Caudillo, per emulare il Duce e il Führer.

16 Il poeta messicano Octavio Paz, in uno dei saggi fondamentali del Novecento sulla storia e la cultura ispanoamericana, ha scritto che «En América Latina, conti-nente inestable, los caudillos nacen con la independencia; en nuestros días se llaman Perón, Castro y, en México, Díaz, Carranza, Obregón, Calles. El caudillo es heroico, épico: es el hombre que está más allá de la ley, que crea la ley. […] El caudillismo, concebido como el remedio heroico contra la inestabilidad, es el gran productor de inestabilidad en el continente. La inestabilidad es consecuencia de la ilegitimidad». (O. PAZ, “Vuelta a El laberinto de la soledad: Conversación con Claude Fell”, in El laberinto de la soledad, Madrid, Cátedra 2000, pp. 425-426).

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Negli stati latinoamericani la scelta di una forma di governo si pose fin dall’inizio come un processo assai lungo e travagliato. Forte era la tensione tra forze centrifughe e centripete, a determinare un’instabilità che dipendeva dalla difficoltà di correlare le diversità regionali con la forma di governo adottata. A differenza del Nordamerica, dove la Co-stituzione e la nuova idea di democrazia agirono, come si è visto, da forte elemento di coesione, nel sottocontinente si scateneranno fortis-sime forze centrifughe volte a frammentare le unità nazionali e a tra-dursi in ampie autonomie regionali. L’unica forza coesiva nel conti-nente ispanoamericano è costituita dalla Chiesa, poiché «la forza della Chiesa discende dalla quasi totale identificazione della popolazione nelle pratiche sincretiche cattoliche» 17. Il cattolicesimo è l’unico vin-colo che unisce i popoli ispanoamericani in un momento in cui tutti gli altri, compresa la monarchia, vengono meno. Da ciò segue che l’intreccio tra religione e politica non sarà che il prodotto del peso del-la Chiesa stessa nella vita sociale e culturale dei paesi latinoamericani. Questo fatto si rivelerà di particolare importanza nel momento in cui andremo ad analizzare il rapporto tra potere e mito, poiché il dittatore ispanoamericano verrà spesso identificato con il Dio cristiano, e in particolare con la figura di Cristo. Così come il Figlio di Dio si è fatto uomo per portare la luce della speranza tra gli uomini, allo stesso mo-do il caudillo prima, e in seguito il dittatore, non saranno che incarna-zioni di un potere divino volto però a portare agli uomini l’oscurità delle tenebre.

A tagliare fuori i paesi latinoamericani dai benefici dell’idea demo-cratica occidentale, a relegare le popolazioni in una fase dominata dall’arretratezza politica ed economica, non furono soltanto motiva-zioni interne. Molto pesarono soprattutto alcune scelte di politica este-ra nordamericana. Del resto la storia dell’America Latina, a partire dalla scoperta di Colombo, può essere letta come la cronaca della spo-gliazione continua delle sue ricchezze, di metalli preziosi prima ad o-pera di spagnoli, portoghesi e inglesi, e di materie prime (frutta, pesce, ecc.) ad opera delle multinazionali nordamericane nel Novecento.

17 M. CARMAGNANI, op. cit.

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1.3. L’America agli americani e la Dottrina Monroe

Per capire a fondo le relazioni tra i due continenti americani sarà u-tile tornare al periodo coloniale, nell’epoca degli Stati Uniti appena costituiti. Durante questo periodo ogni guerra tra le potenze europee conobbe una sua fase americana. Esemplificativo è a tal proposito il romanzo The Last of the Mohicans di Fenimore Cooper, nel quale la lunga sequenza centrale dell’assedio vede in lotta non solo francesi contro inglesi, ma tribù indiane contro altre 18. La nuova nazione non poteva permettere che questa situazione continuasse se voleva stabi-lizzare le proprie istituzioni politiche ed economiche. Per questo moti-vo gli Stati Uniti rifiutarono a lungo di essere coinvolti nelle guerre napoleoniche e nella Rivoluzione Francese, benché i francesi si fosse-ro dimostrati indispensabili alleati nella Guerra d’Indipendenza contro l’Inghilterra 19.

Fu George Washington alla fine del suo mandato come primo pre-sidente a stabilire in termini generali le direttive della politica estera statunitense nel suo Farewell Address (1796) il cui principio base con-sisteva nell’evitare in futuro alleanze politiche e militari, pur conser-vando e coltivando relazioni commerciali con altre nazioni. Ogni qualvolta gli Stati Uniti deviarono da questi principi, come quando ad esempio entrarono nelle guerre napoleoniche al lato della Francia nel 1812, i risultati si rivelarono disastrosi. Le forze inglesi bruciarono Washington D.C. e i costi bellici furono ingenti. Dopo questa disfatta, le basi del Farewell Address di Washington rimasero una delle colon-ne portanti della politica estera americana del XIX secolo.

Sicuramente la svolta più importante nell’indirizzo di politica este-ra, e ulteriore testimonianza del forte senso d’ansia e d’insicurezza dei nordamericani, fu la Monroe Doctrine (1823), destinata a caratterizza-re in futuro i rapporti tra le due Americhe. Il presidente degli Stati U-niti Monroe, in seguito a una forte pressione popolare, riconosceva i nuovi stati latinoamericani appena emancipati, considerandoli paesi

18 J. F. COOPER, The Last of the Mohicans, Ware, Wordsworth 1992. Il romanzo di Cooper è ambientato nel 1757, prima dell’Indipendenza, ma lo scrittore america-no scrive più tardi, deplorando uno stato conflittuale che sarebbe continuato anche dopo il promulgamento della Costituzione.

19 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit.

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autonomi completamente sciolti dagli antichi legami con l’Europa, ma al contempo temeva un possibile intervento di Inghilterra e Francia per riportare tali paesi nuovamente sotto il controllo spagnolo. Pur es-sendo troppo deboli per impedire un intervento europeo in Sudameri-ca, gli Stati Uniti espressero formalmente la propria opposizione all’interferenza straniera negli affari americani ribadendo che le Ame-riche erano degli americani.

La Dottrina Monroe può essere riassunta in tre punti principali. Il primo (non-colonization) si basava sull’opposizione degli Stati Uniti a nuove colonie europee nelle Americhe. La seconda (non-intervention) richiedeva che le potenze europee si tenessero fuori dagli affari delle nazioni del Nuovo Mondo. La terza (non-interference) si basava sull’accettazione delle restanti colonie (Guaiane, Portorico, Cuba, ecc.) come proprietà delle potenze europee, di modo che gli Stati Uniti non avrebbero più interferito negli affari europei 20.

La Dottrina trasformò la neutralità degli americani in isolazioni-smo, combinandolo con la nuova convinzione secondo la quale gli Stati Uniti avevano una missione speciale da portare avanti nel mon-do. Le Americhe furono in breve dichiarate sfera d’interesse esclusivo degli Stati Uniti, tagliando fuori dall’emisfero le politiche e i regni del Vecchio Mondo. La Dottrina esprimeva già, nella sua enunciazione, l’ambivalenza ideologica del concetto di democrazia, mescolando ide-alismo e volontà di dominio, un aspetto, quest’ultimo, che sarebbe di-ventata una delle caratteristiche principali dei rapporti tra le due Ame-riche a partire dalla fine dell’Ottocento.

Da questo momento comincia il movimento di espansione degli Stati Uniti, caratterizzato in un primo tempo dallo spostamento della frontiera verso ovest, eliminando poco a poco l’ostacolo rappresentato dai nativi americani e arrivando in un secondo tempo a dichiarare guerra al Messico nel 1846 per ottenere la California. La politica adot-tata contro i messicani fu particolarmente aggressiva. Il presidente Polk offrì ai messicani una cifra irrisoria per acquistare i territori con-tesi. In realtà l’acquisto non era che una scusa per prendere con la for-za quel che il Messico non avrebbe potuto far altro che rifiutare. Il Generale Ulysses Grant, futuro eroe delle forze nordiste durante la

20 Ibidem.

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guerra civile e futuro presidente degli Stati Uniti, scrisse più tardi che quella contro i messicani era stata una delle guerre più ingiuste contro una nazione più debole 21. Egli era convinto che la guerra civile fosse stata una punizione divina inflitta agli americani per punirli di questa trasgressione. Gli Stati Uniti sconfissero i messicani ed ottennero la California e, da lì a poco, l’oro che in quello stato sarebbe stato sco-perto. Gli Stati Uniti si apprestavano a diventare ricchi e i sogni e-spansionistici dei suoi presidenti stavano per tramutarsi in realtà. I so-stenitori dell’espansionismo americano erano sempre convinti, natu-ralmente, di estendere, con la loro opera, i vantaggi della democrazia alle popolazioni meno evolute.

A partire dalla fine del XIX secolo, in stretto rapporto con la mag-giore importanza che la dimensione economica era venuta ad acquista-re nella definizione di potenza di uno stato, l’espansionismo nordame-ricano cominciò a manifestarsi, a partire da un’area centrale forte (New York, Boston, Washington D.C. e Chicago), in tutti gli stati dell’Unione nordamericana e creando successivamente una zona d’influenza che comprendeva il Messico settentrionale, l’America Centrale e i Caraibi, che divennero ben presto una sorta di “lago ame-ricano” 22. Questo espansionismo incoraggiò e rafforzò le politiche di potenza degli stati latinoamericani che, per contrastare la minaccia sta-tunitense, si appoggiarono alle potenze europee. Alcuni paesi, come l’Argentina e l’Uruguay, riuscirono ad elaborare politiche in grado di attirare molti milioni di immigrati, in particolare provenienti dalle zo-ne mediterranee, per favorire così un ripopolamento del paese e l’introduzione di nuovi capitali. Quel che è importante sottolineare è che a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo sia le repubbliche la-tinoamericane che gli Stati Uniti cercarono di proiettarsi attivamente, benché con esiti diversi, negli affari internazionali abbandonando l’impostazione isolazionista che avevano assunto a partire dalle rispet-tive conquiste d’indipendenza. Come sottolinea Carmagnani, le zone americane «spinte dalla ridefinizione economica dell’equilibrio delle

21 G. VIDAL, The American Presidency, Chicago, Odonian Press 1999. Grant di-menticò di sottolineare che i messicani erano la seconda popolazione contro cui gli Stati Uniti avevano combattuto ingiustamente, poiché non aveva considerato nel suo computo i nativi.

22 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 214.

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potenze, abbandonano l’isolazionismo e fanno propria, specialmente gli stati latinoamericani, l’idea del non intervento negli affari interni degli Stati e del mantenimento di buoni rapporti con tutti i paesi» 23.

L’evento più significativo della storia nordamericana tra il 1860 e il 1914, dopo la Guerra Civile, le cui ripercussioni sulla supremazia mi-litare americana nel mondo verranno discusse più avanti, è senza dub-bio la comparsa degli Stati Uniti sulla scena internazionale e la sua trasformazione da paese debitore a paese creditore. Questo fatto favorì il passaggio dalla fase di espansionismo geografico a quella della co-struzione di un vero e proprio impero “informale” (proprio perché ma-scherato da nobili propositi salvifici e umanitari) caratterizzato dall’estensione della presenza nordamericana in alcuni stati sudameri-cani tramite occupazioni militari, annessioni, protettorati e pressioni economiche.

Alla riduzione della presenza economica europea si sostituì una crescente partecipazione statunitense sostenuta da investimenti diretti e prestiti ai governi latinoamericani. La politica nordamericana co-minciò a collegare strettamente l’intervento economico con quello po-litico-militare. In tal modo la Dottrina Monroe, nata con l’intento di preservare le Americhe lontano dalle politiche di potenza europee, finì con l’essere rielaborata alla fine dell’Ottocento a vantaggio degli Stati Uniti, garantendole la possibilità di intervento nel sottocontinente. In-fatti nei decenni successivi alla guerra civile gli espansionisti ameri-cani guadagnarono grande supporto da fonti differenti. Da un lato l’economia e l’agricoltura richiedevano l’apertura di nuovi mercati e-steri per evitare che la sovrapproduzione causasse una fase di depres-sione. Il settore militare sottolineava che una forte flotta e basi strate-giche oltreoceano sarebbero state necessarie per mantenere aperti tali mercati e garantirne la sicurezza. I ministri puritani infine fusero l’idea di destino nordamericano e la missione di dare supporto ai religiosi per “civilizzare” tutte le popolazioni arretrate del pianeta. I nazionali-sti d’altro canto, basandosi sulle teorie enunciate da Darwin, sostene-vano come gli americani fossero i più idonei per sopravvivere nella competizione internazionale per la conquista di territori e zone

23 Ivi, p. 219.

Capitolo I 32

d’influenza 24. In breve fu chiaro che, una volta chiusa la frontiera oc-cidentale nel 1890, gli Stati Uniti avrebbero potuto perdere la propria potenza se non l’avessero spostata all’estero 25. Fomentata da questo consenso dell’opinione pubblica la politica estera americana si fece sempre più imperialista, territorialmente ed economicamente, impo-nendo il proprio controllo sia in via formale (colonizzazione, occupa-zione militare, annessione) che informale (minaccia militare, domina-zione economica e sovvertimenti politici).

1.4. Inizio dell’imperialismo e Corollario Roosevelt La rielaborazione della Dottrina Monroe avvenne durante la presi-

denza di Theodore Roosevelt e dopo la dichiarazione di guerra ameri-cana del 1898 alla Spagna. Brooks Adams fu probabilmente il primo pensatore geopolitico statunitense 26. Come tanti altri egli mirava alla creazione di un impero nordamericano e credeva nell’importanza di allestire una potente flotta e basi navali in tutto il mondo per acquisire nel processo più colonie e, di conseguenza, più territori e mercati dan-do il via ad un processo politico circolare. Fu però ad opera del sena-tore Henry Cabot Lodge e dell’Assistente Segretario della Marina (e futuro presidente) Theodore Roosevelt, che il piano fu portato a com-pimento. Ma per potere fare ciò era necessaria una guerra. La Spagna costituiva il nemico perfetto per l’occasione, tanto più che le sue ulti-me colonie includevano, oltre alle strategiche Cuba e Portorico, anche le Filippine, il luogo ideale per un’eventuale futura espansione in E-stremo Oriente. Così quando la nave da guerra Maine esplose miste-riosamente nel porto dell’Avana, l’atto fu immediatamente attribuito dalla stampa statunitense ad un sabotaggio ordito dagli spagnoli. Gra-zie anche ad una campagna giornalistica in grado di risvegliare nel cuore degli americani un vero e proprio sentimento antispagnolo, fu mossa guerra contro gli iberici.

24 G. VIDAL, op. cit., p. 33. 25 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit., p. 188. 26 G. VIDAL, op. cit.

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La vittoria del 1898 ai danni di una Spagna imperialista che, stando alla retorica americana, stava reprimendo da molto tempo la libertà cubana, segnò nei fatti una transizione importante. Da un lato fu all’origine del profondo sentimento di smarrimento degli spagnoli co-nosciuto come il desastre del 98. La Spagna era da molti secoli ormai una potenza in decadenza, ma fu proprio nella sconfitta contro gli Stati Uniti che essa ricevette il colpo definitivo. Per la prima volta forse dai tempi di Carlo V e Filippo II (Edad de Oro) gli spagnoli si resero pie-namente conto di non contare più nulla sulla scena internazionale. D’altro canto però la vittoria degli Stati Uniti poneva le basi di quella che sarebbe diventata la superpotenza per eccellenza del ventesimo secolo, che da molti è stato denominato “il secolo americano” 27. Da questo momento in poi gli Stati Uniti non solo acquisiscono il control-lo economico su Cuba e il diritto di intervenire nei suoi affari esteri, oltre alle colonie di Portorico e Filippine, ma si arrogheranno il potere di intervenire negli affari latinoamericani fino agli anni Trenta.

Dopo l’assassinio del Presidente McKinley venne eletto proprio Theodore Roosevelt, il quale istigò e si assicurò il successo di una ri-volta permanente contro la Colombia nel 1903 per assicurarsi ogni di-ritto sulla costruzione e revisione del Canale di Panama. Un anno più tardi venne riformulata una revisione della Dottrina Monroe, cono-sciuta come Roosevelt Corollary. In base a tale Corollario l’intervento degli Stati Uniti negli affari interni degli stati ispanoamericani veniva giustificato dall’eventualità che le loro politiche o economie fossero divenute instabili. Le potenze europee venivano avvisate comunque del fatto che gli USA non avrebbero permesso alcun intervento nell’emisfero occidentale 28. Da allora le forme di controllo nordame-ricano in America Latina non furono sostanzialmente diverse da quel-le impiegate dalle potenze europee in altre aree del mondo. La princi-pale innovazione americana consistette in questo: le forme di annes-sione e protettorato erano precedute o accompagnate dalla massiccia presenza di aziende operanti nell’agricoltura tropicale e nelle miniere,

27 Si rimanda qui, tra gli altri, all’interessante libro di G. ALVI, Il secolo ameri-

cano, Milano, Adelphi 1996. 28 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit., p. 189.

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volte a sfruttare economicamente i paesi sotto il proprio controllo 29. L’imperialismo informale nordamericano rappresentò un’enorme sfida per governi, partiti politici e cittadini dell’America Latina, sfida a cui i paesi del sottocontinente risposero attivando politiche antiamericane o adottando misure volte a frammentare il loro potere imperialistico. Resta il fatto che tra il 1900 e il 1907 gli Stati Uniti intervennero atti-vamente in sei diversi stati latinoamericani 30. In breve l’America La-tina divenne strategicamente la “seconda frontiera” degli Stati Uniti 31.

A partire dagli inizi del secolo XX i paesi latinoamericani avrebbero desiderato un sostegno internazionale contro la minaccia di domina-zione politica nordamericana, mantenutasi particolarmente forte sino alla fine degli anni venti. Per gli Stati Uniti infatti le nazioni relativa-mente arretrate erano l’India, l’Indocina e i paesi tribali, non soltanto quelli africani, ma anche quelli caraibici. Inoltre, pur senza mai affer-marlo in maniera esplicita, è sempre stata viva tra i nordamericani l’idea che gli stati dell’America Latina fossero detentori di una sovra-nità limitata.

Di fronte alla minacciosa presenza nordamericana, alla diffusione dell’utilitarismo e all’economicismo del sistema capitalistico domi-nante e alla scarsa efficacia della Società delle Nazioni, i paesi del sot-tocontinente videro nel nazionalismo il vettore culturale per adeguarsi, senza contrapporsi, al contesto internazionale negativo che si instaurò tra le due guerre mondiali. Come ricorda Carmagnani, “il riorienta-mento del nazionalismo ispanoamericano si nutrì di tre stimoli impor-tanti: il fascismo, il nazismo e i corporativismi clerico-totalitari del franchismo spagnolo e del salazarismo portoghese” 32. Le ideologie

29 Significativa è in proposito la frase che Alejo Carpentier mette in bocca al proprio dittatore in El recurso del método (Madrid, Alianza 1998, p. 83): «hay que mostrar a esos gringos de mierda que nos bastamos para revolver nuestros problemas. Porque ellos, además, son de los que vienen por tres semanas y se quedan dos años, haciendo los grandes negocios. Llegan vestidos de kaki y salen forrados de oro».

30 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit., p. 189. 31 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 313. 32 Ivi, p. 310. Interessante è in particolare il confronto con il franchismo spagno-

lo, le cui colonne portanti erano costituite dall’esercito, la Falange (il partito unico dopo la soppressione degli altri partiti) e la Chiesa. L’impronta fortemente cattolica voluta da Francisco Franco per il suo regime ha spesso fatto parlare di nazionalcatto-

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totalitarie fornirono le basi ai governi per poter manifestare le proprie insoddisfazioni in merito al nuovo assetto internazionale. Le dottrine totalitarie consentirono agli stati di considerarsi lo strumento strategi-co per creare, sostenere e diffondere un’immagine che rappresentasse la forza e la vitalità della nazione.

Il Crollo della Borsa di Wall Street del 1929 e la successiva crisi rafforzarono l’ideologia nazionalista. A partire dagli anni trenta infatti le forze di mercato vennero considerate una minaccia all’integrità ma-teriale dei paesi ispanoamericani e le ricorrenti crisi economiche non fecero che consolidare l’idea che il capitalismo altro non fosse che uno strumento per depauperizzare le nazioni produttrici di beni primari ed impedirne l’industrializzazione.

In altre parole, nei paesi ispanoamericani la democrazia non era un valore diffuso e si confondeva spesso con i nazionalpopulismi e i mo-vimenti rivoluzionari che sovente arrivavano a istaurare nei paesi dei veri e propri regimi militari. L’occidentalizzazione della politica in America Latina, dai regimi totalitari alle democrazie liberali, si rivele-rà un processo assai lungo e tormentato, insieme di continuità e di-scontinuità, in quanto condizionato da un lato dalle trasformazioni che avvenivano nell’interazione tra dimensione nazionale e internazionale, e dall’altro dai mutamenti degli orientamenti ideologici dei governanti e della politica estera nordamericana. 1.5. Politica del buon vicinato e Dottrina Calvo-Drago

Le strategie politiche di potenza adottate dai nordamericani sui pa-esi del sottocontinente subirono un importante mutamento con il pre-sidente democratico Franklin D. Roosevelt, che nel 1933 inaugurò una nuova politica conosciuta come “politica del buon vicinato”, e fondata sul principio della non ingerenza negli affari interni dei paesi america-ni, principio per il quale i latinoamericani si erano battuti fin dal 1898. Il nuovo orientamento venne precisato nella conferenza panamericana tenutasi a Montevideo nel 1933. In occasione di questa conferenza gli

licesimo (si veda ad esempio G. DI FEBO e S. JULIÁ, Il franchismo, Roma, Carocci, 2003).

Capitolo I 36

Stati Uniti e diciotto stati ispanoamericani sottoscrissero una conven-zione che riconosceva l’uguaglianza delle sovranità americane e gli Stati Uniti accettarono il principio della Dottrina Calvo-Drago di non intervento. Elaborata già dall’internazionalista liberale argentino Car-los Calvo attorno agli anni sessanta dell’Ottocento, la dottrina Calvo si fondava appunto sul principio di uguaglianza di tutti gli stati sovrani, cosa che, come si è visto, era tutt’altro che scontata per i nordamerica-ni. Nessuno stato poteva godere di diritti extraterritoriali e, di conse-guenza, le richieste di riparazioni e, più in generale, quelle riguardanti i diritti di proprietà da parte dei sudditi stranieri dovevano essere risol-te unicamente ed esclusivamente dai tribunali nazionali.

Alla dottrina Calvo si aggiunsero poi le idee inviate in un memo-randum dal ministro degli esteri argentino Luis M. Drago al governo statunitense durante il blocco navale americano, tedesco, inglese e ita-liano ai danni del Venezuela nel 1901-02, per costringere il governo a onorare i contratti sottoscritti con gli imprenditori europei e americani. Drago fece presente ai governi che operavano il blocco che «il debito pubblico non poteva essere occasione di interventi armati e nemmeno di occupazione territoriale delle nazioni americane» 33.

L’accettazione da parte degli Stati Uniti della Dottrina Calvo-Drago mitigò in pratica la supremazia che i nordamericani si erano ar-rogati nell’intero emisfero con il Corollario Roosevelt. A partire da al-lora il debito estero di uno stato sovrano non avrebbe più potuto costi-tuire motivo di intervento armato esterno né giustificare occupazioni territoriali. La Dottrina Calvo-Drago permise di superare in un certo senso la forte asimmetria che si era venuta a creare tra le due Ameri-che agli inizi del secolo e che era durata per più di trent’anni. Tale su-peramento fu inoltre favorito dalla ricomparsa nel sottocontinente del-la presenza tedesca e italiana, resa possibile dall’acutizzazione del di-sordine internazionale nel decennio che precedette la Seconda Guerra Mondiale. In altre parole la Germania nazista e l’Italia fascista offriro-no una sponda alle rivendicazioni latinoamericane.

Nel disordine internazionale che caratterizzò il periodo tra le due guerre mondiali, i paesi latinoamericani non si sottrassero all’orientamento generale di badare egoisticamente ai propri interessi

33 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 309.

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nazionali. Questo orientamento opportunistico prevalse nei rapporti, spesso conflittuali, tra i diversi paesi e fu molto forte con i paesi con-finanti. Tale conflittualità sfociò ad esempio nella guerra del Chaco tra Bolivia e Paraguay (1928-35) o nel conflitto tra Ecuador e Perù (1938-42), motivate dal desiderio di appropriarsi delle risorse petrolifere che si riteneva esistessero nelle aree di frontiera.

Con la fine della II Guerra Mondiale si inaugurò una nuova stagio-ne della partecipazione delle aree latinoamericane al concerto interna-zionale e del loro rapporto con gli Stati Uniti, una stagione che affon-da le proprie radici nel sistema costruito a partire dalla Conferenza di San Francisco del 1945 che darà vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite. La visione del mondo del presidente Roosevelt dopo il grande conflitto, oltre che nella proposta per l’ONU, era espresso nei suoi co-siddetti Four Freedoms, che in parte erano diritti già contenuti nel Bill of Rights americano (libertà di religione, di parola e d’espressione) o costituivano delle estensioni di questi, come ad esempio la libertà dal-la povertà e dal terrore. Le Four Freedoms altro non erano che una versione più estesa del grande sogno americano 34. Compito delle Na-zioni Unite sarebbe stato quello di garantire che le “Quattro Libertà” divenissero una realtà in tutto il mondo. Tuttavia l’Organizzazione delle Nazioni poteva assumere l’incarico (e questa era una novità) di intraprendere azioni preventive e richiedere ai suoi membri di contri-buire a inviare truppe armate internazionali per “garantire la pace” ed agire contro eventuali aggressori anche senza l’approvazione di tutti i suoi membri. Le Nazioni Unite vennero progressivamente dotate di una serie di competenze inedite quali la protezione dei diritti civili e il progresso sociale che sino ad allora erano stati ritenuti di esclusiva competenza dei singoli stati nazionali. L’orientamento multilaterale delle Nazioni Unite cercò di moderare il nazionalismo nel Terzo Mondo, e in particolare nell’America Latina, che cessò in tal modo di considerare il sistema internazionale come una minaccia per la propria indipendenza e sovranità.

La partecipazione del continente ispanoamericano al sistema inter-nazionale nel periodo di maggiore confronto tra le due superpotenze in concomitanza dell’acuirsi della Guerra Fredda è stata spesso vista co-

34 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit., p. 193.

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me fortemente subordinata al potere nordamericano, con politiche e-stere carenti di qualsiasi autonomia. Questa visione ideologica tuttavia non tiene in debito conto il fatto che, nel momento della fondazione delle Nazioni Unite, i diciannove stati latinoamericani rappresentava-no circa il 40 per cento dei cinquantuno stati fondatori e che all’inizio degli anni Sessanta essi erano ancora gli unici rappresentanti dei paesi in via di sviluppo 35. L’importanza dei paesi latinoamericani non deri-vava unicamente dal loro peso quantitativo nell’assemblea generale delle Nazioni Unite, ma anche e soprattutto dal valore che gli Stati Uniti assegnavano al sottocontinente in relazione alla propria sicurez-za interna minacciata dal comunismo. Era una necessità avvertita an-che dai governi latinoamericani quella di opporsi alla penetrazione dell’Unione Sovietica nelle Americhe, e questo favorirà la stipulazio-ne di un accordo interamericano che si incrinerà soltanto nel 1959 con la Rivoluzione Cubana. Forte della politica del buon vicinato, la nuova politica nordamericana si sforzò di rendere compatibile il nazionali-smo latinoamericano con i parametri liberali statunitensi tramite la creazione di un’area democratica americana. L’America Latina costi-tuirà per molti versi il laboratorio della superpotenza americana per i paesi del Terzo Mondo nel periodo della Guerra Fredda. 1.6. Dottrina Truman e politica di contenimento

È importante analizzare anche i drastici cambiamenti che si ebbero

negli Stati Uniti dopo il 1945, quando i politici americani si convinse-ro che i Sovietici avevano l’intenzione di instaurare regimi comunisti in tutto il mondo. Il presidente Truman convinse l’opinione americana che il comunismo, da sempre identificato con scetticismo per il suo a-teismo, costituiva un’attrattiva troppo pericolosa per il mondo, a parti-re dall’Europa Orientale. Fu così che nel 1947 il presidente annunciò quella che divenne nota con il nome di Truman Doctrine, in occasione di un discorso tenuto al Congresso nel quale chiese fondi per combat-tere l’aggressione comunista in Turchia e in Grecia, mantenendo così

35 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 321.

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un’economia di guerra in tempo di pace e servendosi per i propri scopi dell’antica ansia americana per la sicurezza nazionale.

In base alla Dottrina Truman gli Stati Uniti dovevano seguire una politica di contenimento per prevenire l’espansione comunista nel mondo. L’ideologia sovietica, evidentemente una minaccia per le isti-tuzioni democratiche, doveva essere combattuta e arrestata. Nella Dot-trina si ripresentavano nuovamente i due elementi caratteristici della politica americana, da un lato l’insicurezza nazionale e dall’altro l’idea di missione salvifica nel mondo per preservare life and liberty. Tutto ciò condusse ad una nuova fase di interventismo americano nei conflitti e nelle guerre, non più solo in America Latina (dove l’intervento statunitense sembrava giustificato dal Corollario Roose-velt), ma nel mondo intero. La nuova politica di contenimento divenne ben presto la pietra miliare di tutta la politica estera americana che si prefiggeva in tal modo di contenere la minaccia del comunismo e in-sieme di proteggere ed espandere gli interessi economici statunitensi nel mondo.

Alla fine degli anni Quaranta gli Stati Uniti fecero un ulteriore pas-so che rivoluzionò drasticamente la propria politica estera e insieme il futuro del mondo. Quando i Sovietici rifiutarono piani di ispezione nazionale per rinforzare il divieto sullo sviluppo di armi nucleari, gli USA reagirono aumentando, pur se in tempo di pace, le proprie forze militari e investirono ingenti quantità di denaro nello sviluppo del proprio arsenale nucleare a discapito di un accrescimento del benesse-re interno. Il National Security Act del 1947 centralizzò il controllo di tutti i rami militari in un Dipartimento della Difesa e creò due organi-smi, il National Security Council (NSC) e la Central Intellicenge A-gency (CIA).

In un certo senso il National Security Act mise la nazione in uno stato di allerta militare permanente, trasferendo estesi poteri per la di-fesa al presidente e permettendogli più facilmente di intraprendere a-zioni aggressive a livello internazionale senza dover dichiarare guerra. Gran parte del mito dei moderni presidenti americani e del loro smisu-rato potere nel contesto della politica internazionale trova proprio in questa risoluzione le proprie origini. A questo va naturalmente aggiun-to un altro documento del 1950, mantenuto segreto fino alla metà de-gli anni Settanta, conosciuto come NSC Directive 68, che definiva

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l’atteggiamento americano, indicando che, ora più che mai, gli Stati Uniti avevano un’importante missione da svolgere nel mondo e su di essa gravava un enorme responsabilità, poiché la libertà di ogni popo-lo dipendeva dalle sue forze armate. Per portare a compimento tale missione la nazione dovette quadruplicare il proprio budget militare. La visione rooseveltiana di un mondo unito sotto la bandiera delle Four Freedoms scomparve e fu rimpiazzato dal sentimento crescente che il mondo intero non era ormai che un enorme campo di battaglia sul quale si combatteva il destino del genere umano tra le forze del progresso in nome della democrazia (Stati Uniti) e le armate del co-munismo (Unione Sovietica), mentre il pericolo di una distruzione nu-cleare si faceva via via più consistente.

Proprio per poter vincere questa epica lotta contro l’altra superpo-tenza, gli Stati Uniti ribaltarono il proprio rifiuto storico di formare al-leanze militari permanenti. Nel 1948 fu costituita l’Organization of American States (OAS)36, seguita immediatamente dal Patto Atlantico (NATO). L’internazionalismo americano rimpiazzava in tal modo defi-nitivamente il tradizionale isolazionismo che aveva caratterizzato gran parte della politica nell’Ottocento e, in parte, nel Novecento. La Guer-ra Fredda e la Dottrina Truman del contenimento diedero vita ad un rapporto interamericano che durerà sino agli anni Sessanta, allorché gli Stati Uniti abbandoneranno l’impostazione liberal-democratica di Roosevelt in favore della creazione di un rapporto consociativo con i governi latinoamericani fondato sull’offerta di vantaggi economici per gli stati dell’America Latina in cambio della loro sudditanza politica. Tale orientamento avrà come effetto un ritorno e una recrudescenza del fenomeno dittatoriale in alcuni paesi del sottocontinente. A partire dagli anni 1973-76, ad esempio, i tre paesi del Cono Sud dell’America Latina, Argentina, Cile e Uruguay, vennero brutalmente occupati dalle forze armate che per mandato costituzionale avrebbero dovuto proteg-gerli dalle minacce straniere. Una volta al potere e decretata l’abolizione delle istituzioni democratiche, i generali argentini, cileni e

36 Si è scelto qui di adottare, per comodità, la sigla inglese dell’Associazione. Per gli ispanoamericani naturalmente si parla di Organización de Estados Americanos (OEA), così come per gli italiani di Organizzazione degli Stati Americani (OSA). Lo stesso discorso vale anche per la NATO, che nel mondo ispanico diventa OTAN (Or-ganización del Tratado del Atlántico del Norte).

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uruguaiani, con l’appoggio politico e militare del governo degli Stati Uniti, instaurarono regimi totalitari che scatenarono una repressione feroce mirata ad azzerare le conquiste sociali e culturali raggiunte nel corso del Novecento. Sarà proprio nel corso degli anni Settanta che in America Latina rifiorirà in molte opere il tema del dittatore 37.

Resta il fatto che, nonostante le limitazioni istituzionali e le diffi-denze interamericane, uno dei principali successi degli anni ’50 e ’60 fu la fine della conflittualità tra i paesi latinoamericani che era iniziata nel secolo precedente e si era acuita nel periodo tra le due guerre mondiali. Una delle funzioni più significative dell’OAS fu appunto la mediazione nei conflitti tra i vari stati. In questo periodo le nazioni la-tinoamericane impararono a collaborare tra di loro per cercare di fre-nare lo strapotere nordamericano.

Inoltre il principale vantaggio della partecipazione del sottoconti-nente al blocco occidentale fu costituito dalle consistenti risorse ame-ricane e internazionali che cominciarono ad arrivare ai governi latino-americani. Ciononostante l’atteggiamento antiamericano, sia da parte dei governi che dell’opinione pubblica latinoamericana, si estese rapi-damente negli anni Sessanta.

All’inizio degli anni Cinquanta la paura per la minaccia comunista pose le basi al senatore Joseph McCarthy per iniziare un’ossessiva caccia a tutti coloro, americani e non, che fossero implicati in “attività antiamericane”, come spie al soldo dell’Unione Sovietica. È l’inizio di un dei periodi di maggiore tensione nel corso della Guerra Fredda, ca-ratterizzato da una paranoica insistenza nordamericana per la propria sicurezza e che finirà con l’accentuare notevolmente il dissidio tra Sta-ti Uniti e America Latina. Non fu McCarthy naturalmente a creare l’ondata di isterismo anti-comunista. Egli seppe semplicemente sfrut-tare le ansie di una popolazione risvegliate da lunghi anni di minaccia di distruzione nucleare. Molta letteratura americana si incentrerà sui fatti relativi a questo periodo (Spy-stories) e in particolare con il pe-riodo di massima tensione che verrà raggiunto sotto la presidenza

37 J. RIERA REHREN, Argentina, Cile, Uruguay: le culture contemporanee, Roma, Carocci 2003. Tre dei romanzi che verranno analizzati nel corso di questo lavoro, El recurso del método di Alejo Carpentier, Yo el Supremo di Augusto Roa Bastos e El otoño del patriarca di Gabriel García Márquez vengono pubblicati proprio tra il 1974 e il 1975, in concomitanza con il ritorno di questi regimi dittatoriali.

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Kennedy, con la disfatta americana nella Baia dei Porci, la conseguen-te crisi missilistica di Cuba e la rovinosa guerra in Vietnam. La mi-naccia nucleare alla sicurezza nordamericana rappresentata dai missili sovietici installati a Cuba in seguito all’ingresso dell’isola nel blocco sovietico (1962) costringerà le due superpotenze a rivedere il preesi-stente equilibrio fondato sulla dissuasione nucleare, noto anche come “l’equilibrio del terrore” 38.

La politica americana nei confronti degli stati ispanoamericani in questa fase fu caratterizzata da un atteggiamento di contenimento che portò in generale gli Stati Uniti a dare il proprio sostegno a regimi dit-tatoriali in alcuni stati sudamericani, poiché un’apparente stabilità sembrava in questo periodo più importante del rispetto dei diritti uma-ni 39. Tale scelta ebbe come conseguenza una rapida ondata di antia-mericanismo, sia da parte dei governi che dell’opinione pubblica ispa-noamericana, i quali non accettavano questa paranoica insistenza sta-tunitense per la propria sicurezza nazionale a detrimento di uno svi-luppo in senso democratico degli stati ispanoamericani. Conseguenza dell’incomprensione tra le due Americhe fu la secondaria importanza attribuita dagli ispanoamericani ai valori della democrazia e della libe-ra circolazione dei fattori produttivi nell’ordine atlantico e interameri-cano. Questo creò le premesse per un lungo periodo di incomunicabi-lità tra i due continenti che neppure l’Alleanza per il progresso kenne-diano riuscì a modificare.

Solo in seguito alla crisi cubana le relazioni tra le due superpotenze cominciarono a migliorare e, a partire dal 1970, sotto la presidenza di Nixon, iniziò una nuova fase politica di coesistenza pacifica, cono-sciuta come détente, caratterizzata da una graduale riduzione degli ar-senali nucleari e portata avanti anche dai presidenti successivi. Per i governi latinoamericani era questa un’occasione da non perdere per obbligare gli Stati Uniti a rivedere i loro rapporti con l’America Lati-na.

Gli anni che vanno dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta furono caratterizzati da un duplice atteggiamento. Da un lato i paesi dell’America Latina (unitamente a quelli di Asia e Africa) divennero

38 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 328. 39 D. MAUK e J. OAKLAND, op. cit., p. 198.

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maggioritari nelle assemblee delle Nazioni Unite e accelerarono così il processo di decolonizzazione. D’altro canto i governi ispanoamericani tentarono di riannodare i propri rapporti con i paesi dell’Europa Occi-dentale per bilanciare il potere statunitense. Inoltre al progressivo di-simpegno degli Stati Uniti dall’OAS, tanto che diminuì persino il con-tributo finanziario che erano tenuti a dare all’istituzione interamerica-na, seguì una pesante crisi finanziaria dell’istituzione stessa che per-mise però ai paesi latinoamericani di aumentare la propria presenza nell’OAS, tanto da imporre nel 1979, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, l’istituzione della Corte interamericana dei diritti umani. La “latinoamericanizzazione” dell’OAS risultò visibile a partire dagli anni Ottanta, quando l’istituzione cominciò a pronunciarsi a favore della democratizzazione politica. Nel novembre del 1980, per la prima volta nella sua storia, l’OAS condannò i regimi autoritari argentini, ci-leno, salvadoregno, haitiano, paraguaiano e uruguaiano per la loro co-stante violazione dei diritti umani e solo la minaccia dell’Argentina di ritirarsi dall’organizzazione bloccò la risoluzione favorevole a consi-derare tali paesi fuori dall’ordine interamericano 40.

Risulta chiaro, da tutte queste considerazioni storiche, come i de-stini delle due Americhe si siano intrecciati molto intensamente negli ultimi due secoli, influendo su numerosi aspetti della vita quotidiana degli americani. Se la fine dell’Unione Sovietica ha permesso all’Europa comunitaria e al Giappone (e più tardi anche alla Cina) di avviare un processo di maggiore presenza internazionale, ridimensio-nando sotto certi aspetti la potenza statunitense (se non quella militare, per lo meno quella economica), è pure vero che la trasformazione dei regimi autoritari in democrazie liberali negli stati latinoamericani si è rivelato un processo più lungo e faticoso del previsto. È vero che, co-me sottolinea Carmagnani, tra il 1955 e il 1995 il numero di stati lati-noamericani considerati come democratici è passato da sette a venti, ma è altrettanto vero che «l’opinione pubblica e i movimenti contrari al processo di occidentalizzazione del sottocontinente hanno sostenuto la necessità di mantenere stati nazionali forti, in quanto utili a evitare che la mondializzazione politica e culturale finisca con lo snazionaliz-

40 M. CARMAGNANI, op. cit., p. 333.

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zare le loro economie, condizionare la vita politica e trasformare la cultura nazionale» 41.

La vita democratica sul continente ispanoamericano è pesantemen-te ostacolata dal disinteresse e dall’apatia dell’opinione pubblica, ri-sultato delle mancate riforme istituzionali capaci di offrire i beni pub-blici essenziali, ossia giustizia, sicurezza, istruzione, salute. Ne conse-gue che le democrazie latinoamericane sono state considerate di “bas-sa qualità” e quindi estremamente vulnerabili, rendendo possibile il ripresentarsi della minaccia di nuovi regimi autoritari.

In America Latina persistono inoltre, specialmente tra i ceti medi, alcuni valori tradizionali quali il personalismo, i vincoli di amicizia e familiari e il senso della gerarchia, «valori che hanno ovviamente un orientamento antidemocratico. La tensione tra valori democratici e au-toritari, riscontrati nei comportamenti collettivi, sottolineano come il percorso per dare vita a un’interazione permanente e non episodica tra libertà e uguaglianza non sia facilmente raggiungibile» 42. Conside-rando l’aspetto fortemente patriarcale del potere e del senso di gerar-chia in America Latina, può essere interessante notare come la cre-scente partecipazione femminile alla politica a partire dagli anni Ses-santa abbia potenziato la cultura democratica, aprendo in tal modo uno spiraglio in direzione dell’acquisizione della grande idea americana, che, come si è visto, a distanza di più di due secoli dalla sua invenzio-ne, non è ancora riuscita a riunire pienamente le due Americhe sotto la stessa bandiera della democrazia.

41 Ivi, p. 336. 42 Ivi, p. 408.