Giornale di Brescia Giovedì 25 Febbraio 2010 47 Cultura ...€¦ · La cosmogonia cristiana,...

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Data e Ora: 24/02/10 21.03 - Pag: 47 - Pubb: 25/02/2010 - Composite «H o intinto (il mio pennello) nel ros- so del suolo della mia terra, nel suo mare di sangue». Chissà per- ché solo i poeti come Daniel Va- rujan e le scrittrici come Antonia Arslan riescono a raccontare le atrocità, trasformando un coagulo emotivo potente in musica struggente come sono le melodie armene intonate dai duduk e dai loro lievi echi flautati. L’altra sera nella Sala Bevilac- qua della Pace, in città, su iniziativa della Coopera- tiva Cattolico democratica di Cultura, è stata la vo- ce dolce della scrittrice Antonia Arslan, impastata al miele dei paklavà, a raccontare una delle pagine più vergognose della storia, il primo genocidio del ventesimo secolo. Per ordine del partito dei Giova- ni Turchi un milione e mezzo di armeni furono ster- minati negli anni 1915-’16. «Possiamo fare quel che vogliamo; chi ricorda più il genocidio degli armeni?» affermò Hitler nel 1939 rivolto ai suoi col- laboratori. Quelle morti non sono state invano L’autrice è stata presentata ad un pubblico nu- meroso e partecipe dall’amico Pietro Gibellini, or- dinario di Letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia che, citando Dante, ha rimarca- to quanto sia compito precipuo dell’autore arric- chire la nostra conoscenza. Ed è esattamente ciò che Antonia Arslan con «La masseria delle allodo- le» e «La strada di Smirne», è riuscita a fare offren- doci una riflessione, seppur dolorosa, su di un pas- sato che debba essere di costante monito per il fu- turo. Dal primo romanzo che ha raggiunto un suc- cesso straordinario, 26 edizioni tradotte in 15 lin- gue, è stato tratto un film per la regia dei fratelli Taviani. Il plot narrativo è drammatico ma la scrit- trice riesce a far filtrare una luce di speranza, una sorta di iridescenza come dopo quel diluvio univer- sale che, come indica la tradizione, vuole proprio Noè sulla cima del monte Ararat, tanto caro agli armeni. La speranza va preservata sempre, non so- lo per i sopravvissuti, ma anche per la famiglia Ar- slanian che finì falcidiata dalle scimitarre delle guardie del Talaat Pascià. Quelle morti non sono state invano. È come ve- dere un ramo secco germinare, anche la morte dà i suoi frutti. E dalla tragedia della sua gente, la Ar- slan è riuscita a riemergere attingendo all’infanzia. Nei prologhi dei suoi romanzi i ricordi rievocano il nonno patriarca Yerwant che la porta nella basili- ca di Sant’Antonio a Padova o, nel più recente, la piccola Antonia che ricorda l’incidente del press papier, una boule di cristallo che sbadatamente aveva fatto cadere. Con coraggio di fronte al non- no furente, assume la responsabilità del misfatto, assolvendo la tutrice. «Ho sentito il dovere di dire la verità», una sorta di imperativo etico che, nella coscienza di una bambina, ha gettato un seme; il tempo ha fatto fiorire i frutti e, in età adulta, è di- ventata denuncia. Si definisce una cantastorie la Arslan: «Ho rac- colto le memorie di un popolo in diaspora, un popo- lo solo di sopravvissuti, condannati all’esilio. Den- tro di loro c’è un deserto interiore assimilabile alle distese dell’Anatolia». Lei ne ha ascoltato le voci restituendole alla narrazione. Con gli armeni anche assiri, greci e ucraini La sua volontà di denuncia dei crimini contro l’umanità ricorda le parole di Raphael Lemkin: «La nostra intera eredità culturale è il prodotto di tutti i popoli...». Fu l’esule polacco ad interessarsi per primo dello stermino armeno, coniando nel 1944 la parola genocidio. Antonia Arslan elenca le stragi organizzate non solo contro gli armeni, gli assiri, i greci del Ponto che subirono dure persecuzioni ad opera degli ottomani e poi dei nazionalisti turchi. Nel 1923 i sopravvissuti massacrati furono espulsi e rimandati in Grecia. Lo sterminio degli ucraini, 5 milioni di contadini fatti morire di fame... Sono molte le verità storiografiche taciute, anche quelle più attuali che riguardano Cipro e la progressiva cancellazione dell’identità bizantina. Il genocidio degli armeni ora si trova di fronte a storici turchi che si battono coraggiosamente con le loro «anime d’acciaio», contro il negazionismo di Stato. L’entrata in Europa della Turchia non può pre- scindere da un atto doveroso di scusa verso quello sterminio compiuto 95 anni or sono, ha precisato la scrittrice. La Germania lo ha fatto nei confronti d’Israele, ora il 98 per cento degli studiosi sanno, grazie a documenti, testimonianze e fotografie, che negli anni 1915-’16, uomini inermi vennero ucci- si in campi di concentramento, mentre le donne nel deserto siriano con marce estenuanti vedeva- no i loro bambini morire, come nella ninna nanna delle deportate. Non avevano più latte nei loro se- ni, solo rosso sangue sgorgava dai loro occhi. Emanuela Zanotti «Narro il deserto interiore di ogni uomo in esilio» Per la scrittrice, ospite l’altra sera in città, il racconto del genocidio armeno è la denuncia di tutti i crimini compiuti contro l’umanità «C’ erano uomini con un solo occhio e altri con un muso di cane, i quali mangiavamo gli uomini», annotò Cristoforo Colombo nei suoi diari di bordo il 4 novembre 1492, descrivendo gli abitanti delle terre appe- na scoperte. Parole rivelatrici del turba- mento provato dagli europei nel render- si conto che anche la fascia temperata situata al di sotto dell’invivibile equato- re era abitata. Ma chi poteva vivere in simili luoghi oltre i confini del mondo ci- vilizzato, chiamati «antipodi» da Plato- ne perché opposti rispetto all’Europa? Solo esseri abnormi, «sciapodi, cinocefa- li, blemmia, bramini», nomi che per noi non significano più nulla ma che per Marco Polo e per il poco più tardo John Mandeville, autore di un «Libro delle me- raviglie del mondo» che influenzò Co- lombo, indicavano dei mostri, per esem- pio con i piedi rovesciati o con la faccia sul torace. Così ebbe inizio l’invenzione europea dell’indio, gravida d’implicazio- ni e di drammatiche conseguenze, come racconta Paolo Vignolo, docente di Sto- ria all’Università nazionale di Bogotà, in Colombia, nello stimolante saggio «Can- nibali, giganti e selvaggi. Creature mo- struose del Nuovo Mondo» (Bruno Mon- dadori, 169 pp., 28 €). Come si coniugò l’antico concetto di antipodi all’irrompere di una visione moderna dello spazio geografico? Il concetto di antipodi nasce con la co- smogonia greca - mi risponde. - Se si pensa alla Terra come ad una sfera, sor- ge spontaneamente l’inquietudine su chi siano coloro che vivono a testa in giù, dall’altra parte del globo: un mondo alla rovescia era il modo d’immaginare altri mondi possibili. Fino agli albori del- l’epoca moderna si pensò che gli antipo- di fossero irraggiungibili, poi l’evento sconvolgente: a metà del Quattrocento i portoghesi oltrepassano l’equatore in Africa Occidentale, e l’immagine della Terra e gli equilibri geopolitici mondiali subiscono una radicale trasformazione. A quel punto le leggende sugli antipodi servirono a forgiare l’immaginario del Nuovo Mondo: quell’antica teoria si rive- lò utilissima nel passaggio dalla cosmo- logia tardo-medievale alle nuove cono- scenze geografiche. Sotto il profilo religioso che accadde? La cosmogonia cristiana, fondata sul- la discendenza di tutti i popoli da Ada- mo ed Eva, entrò in crisi, visto che non ci si poteva spiegare come gli indigeni fossero potuti arrivare in quei luoghi. Il Nuovo Mondo parve a molti l’avve- rarsi di credenze secolari come l’età del- l’oro, il paradiso perduto o il paese di Cuccagna. Perché? L’età dell’oro, che torna in auge con l’Umanesimo rinascimentale, trova il suo scenario ideale agli antipodi: quale migliore luogo per localizzare un passa- to remoto? Qualcosa di simile avviene con l’Eden: Colombo, quando giunge al delta dell’Orinoco, dichiara di aver trova- to uno dei quattro fiumi del paradiso ter- restre, che i conquistadores poi cerche- ranno sulla Cordigliera delle Ande. An- che il sogno di un regno dell’abbondan- za e della libertà - il paese di Cuccagna, - proprio della cultura popolare tardo-me- dievale, ha un potente corrispettivo nel- le terre popolate da selvaggi, che vivono ignudi, senza inibizioni sessuali né caren- ze alimentari, in ambienti paradisiaci. Lei scrive che il continente america- no, «tabula rasa» dei desideri e delle pa- ure europei, divenne una proiezione del- l’Europa, che lo popolò di creature attin- te al ricco immaginario dell’Oriente… L’indio è una proiezione europea, a partire dalla stessa etimologia del termi- ne. E le tre grandi regioni disegnate sul- le prime carte del nuovo continente prendono il nome da mostruosi esseri asiatici: il Caribe-cannibale, retaggio del- le popolazioni antropofaghe che si crede- va abitassero la Scizia; l’Amazzonia, il cui nome fa riferimento alle donne guer- riere di origine omerica; e la Patagonia, che evoca i giganti patagoni dei libri di cavalleria. Dall’indio abominevole si passò al mi- to del buon selvaggio: come si spiega questo capovolgimento di giudizio? Più che di un capovolgimento direi che si tratta di un’ambivalenza. Fin dai primi giorni Colombo e i suoi uomini sta- biliscono una dicotomia: da una parte gli indigeni buoni, abitanti edenici di un mondo incontaminato dal male, facili da convertire in buoni cristiani e in doci- li sudditi; dall’altra i cannibali mostruo- si. Ma alla fin fine feroce cannibale e buon selvaggio sono due facce della stes- sa moneta, che avrà corso per tutta l’epoca coloniale e che tuttora circola. Ai conquistadores tornò utile affer- mare la natura bestiale degli indios che ne faceva degli schiavi nati; quale atteg- giamento ebbero in merito la Corona spagnola e la Chiesa? Fin dai primi anni della Conquista la disputa intorno allo status dell’indio è innanzitutto una lotta di potere tra di- verse forme di colonizzazione e dominio. I conquistadores, interessati ad avere mano d’opera a basso costo per miniere e piantagioni, spingono per schiavizzare gli indigeni, cercando giustificazioni in Aristotele. La Corona non ha bisogno di schiavi, ma di sudditi, e tenta di frenare le ambizioni di questi avventurieri. La Chiesa, infine, pensa agli indigeni come ad anime da convertire. Maria Pia Forte ANTONIA ARSLAN U no dei grandi problemi irri- solti del nostro tempo è la persistenza di un’ampia fa- scia di povertà che colpisce in varia misura tutti i continenti e in particolare l’Africa subsahariana. Nep- pure la globalizzazione è riuscita a smuovere quel mondo vittima di Go- verni corrotti, di guerre tribali, di ma- lattie endemiche, della fame. Mentre i Paesi che si affacciano sul Mediterra- neo sono riusciti, nel corso del tempo, ad inserirsi sia pure timidamente nella corrente di sviluppo che interessò l’Eu- ropa moderna, l’Africa occidentale af- facciata sull’Atlantico è rimasta estra- nea a questo processo e, quando ven- ne risucchiata nei commerci oceanici, ciò accadde solo perché offriva un be- ne prezioso e molto ambito, gli schiavi. Generazioni di storici di diversa estrazione culturale hanno contribuito a tenere in vita questa visione che ha il vantaggio di essere semplice e sugge- stiva: su una sponda stavano le poten- ze coloniali promotrici del ripugnante traffico schiavista, sull’altra le vittime sacrificali di questa secolare ingiusti- zia. Neppure gli storici nazionalisti afri- cani hanno contribuito a correggere questa immagine distorta del loro con- tinente, un cliché tanto inesatto quan- to duro a morire, la cui revisione richie- deva una ricerca di respiro internazio- nale per chiarire il ruolo degli africani nei rapporti con gli europei e il loro con- tributo alla formazione del Nuovo Mon- do. Ci ha provato - con successo - John Thornton con «L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico. 1400-1800» (Il Mulino). Lo storico americano si pone subito una serie di domande che trovano poi risposte molto convincenti. «È corret- to - si chiede - assegnare all’Africa un livello di sviluppo inferiore rispetto al- l’Europa e indicare nello squilibrio che ne consegue la causa della tratta degli schiavi? Gli africani parteciparono al commercio atlantico come partner eguali o furono esclusivamente vittime della potenza e dell’ingordigia euro- pee? Gli schiavi africani furono eccessi- vamente brutalizzati perché potessero esprimersi culturalmente e socialmen- te? E, dunque, in che misura il back- ground africano ha inciso nella forma- zione della cultura afroamericana?». Per fornire subito una chiave di lettu- ra, Thornton sottolinea che la ricerca su cui si fonda il suo libro «porta a con- cludere che gli africani parteciparono attivamente alla vita del mondo atlan- tico, sia per quanto riguarda il commer- cio tra l’Africa e l’Europa (inclusa la tratta degli schiavi) sia come schiavi nel Nuovo Mondo». Lungi dall’essere le vittime predesti- nate dell’ingordigia europea, le élite africane parteciparono consapevol- mente ai commerci atlantici, ivi com- preso quello degli schiavi, il cui merca- to era già fiorente prima dell’irruzione degli europei («La tratta atlantica de- gli schiavi - sottolinea Thornton - fu un’appendice di questo mercato inter- no»). Se la schiavitù era tanto diffusa la spiegazione va ricercata altrove. La terra non poteva essere acquistata e venduta da privati come in Occidente. Chi possedeva capitali investiva la ric- chezza nell’altro fattore di produzione cruciale, il lavoro. Una volta acquistato non era difficile impiegarlo sulla terra per creare nuova ricchezza. La sola condizione richiesta era che non fosse già coltivata da altri. Gli schiavi hanno così sostituito la terra come forma di investimento di lungo periodo. Il libro si ferma alle soglie dell’Otto- cento quando incominciò a formarsi la «grande divergenza» fra l’Occidente e il resto del mondo e la storia prese un’altra direzione. Ora possiamo com- prenderla meglio, e restituire all’Africa un’immagine più appropriata. Giovanni Vigo L’Africa dissanguata dagli africani schiavisti Quei mostri che esorcizzarono la scoperta del Nuovo Mondo «Cannibali» da combattere o «buoni selvaggi» da civilizzare: un saggio di Paolo Vignolo analizza i racconti degli esploratori Si allarga al Capitolium (nella foto), cambia intito- lazione, ma viene riconfermata come unica candidatu- ra italiana. La marcia dei beni artistico-monumentali della civiltà longobarda in Italia verso l’ingresso nella lista del patrimonio dell’Unesco, riparte da queste novi- tà, dopo le osservazioni dell’Icomos - l’organismo prepo- sto a valutare le candidature - che lo scorso anno aveva- no temporaneamente rallentato l’iter. Lo ha conferma- to il sindaco di Brescia, Adriano Paroli, dopo l’incontro avvenuto ieri in città con Attilio Vuga, sindaco di Civida- le del Friuli, presidente dell’associazione «Italia Lango- bardorum» e primo proponente la candidatura, che as- sieme a Brescia e Cividale vede «in rete» anche i siti lon- gobardi di Castelseprio, Spoleto, Campello sul Clitun- no, Benevento e Monte Sant’Angelo. Vuga ha spiegato come il lavoro svolto dagli esperti, pilotati da Angela Maria Ferroni del Ministero per i be- ni e le attività culturali, abbia esaudito le richieste del- l’Icomos. Brescia, in particolare, ha visto rafforzata la propria valenza con l’estensione della candidatura al- l’area archeologica del Capitolium adiacente il comples- so di San Salvatore - Santa Giulia. Per corrispondere all’ottica europea suggerita dall’Icomos è stato inoltre modificato il titolo della candidatura, ora definito «I Longobardi in Italia. I centri del potere (568-774 d.C.)», ad accentuare il valore della immissione di tradizioni di altri popoli europei nella cultura classica operata dai Longobardi. Condivisa dai due sindaci è la volontà di sostenere e promuovere la candidatura nell’arco del 2010, in attesa dell’ultima ispezione Icomos e del pro- nunciamento definitivo dell’Unesco previsto per il 2011. Da parte sua, l’assessore alla Cultura Andrea Arcai ha voluto ricordare «l’ottimo lavoro compiuto, e l’impe- gno profuso dall’équipe dei Civici Musei nell’aggiorna- mento del dossier» richiesto dall’Icomos, dichiarandosi «fiducioso» del buon esito della candidatura. La corsa per l’Unesco riparte dai «Longobardi in Italia» Cambia intitolazione e si allarga, in città, al Capitolium la candidatura «in rete» a patrimonio dell’umanità Lascrittrice di originearmena Antonia Arslan a Brescia (ph. Reporter/Campanelli) Il professor Pietro Gibellini Cultura & Spettacoli Giornale di Brescia Giovedì 25 Febbraio 2010 47

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Data e Ora: 24/02/10 21.03 - Pag: 47 - Pubb: 25/02/2010 - Composite

«Ho intinto (il mio pennello) nel ros-so del suolo della mia terra, nelsuo mare di sangue». Chissà per-ché solo i poeti come Daniel Va-

rujan e le scrittrici come Antonia Arslan riescono araccontare le atrocità, trasformando un coaguloemotivo potente in musica struggente come sonole melodie armene intonate dai duduk e dai lorolievi echi flautati. L’altra sera nella Sala Bevilac-qua della Pace, in città, su iniziativa della Coopera-tiva Cattolico democratica di Cultura, è stata la vo-ce dolce della scrittrice Antonia Arslan, impastataal miele dei paklavà, a raccontare una delle paginepiù vergognose della storia, il primo genocidio delventesimo secolo. Per ordine del partito dei Giova-ni Turchi un milione e mezzo di armeni furono ster-minati negli anni 1915-’16. «Possiamo fare quel chevogliamo; chi ricorda più il genocidio degliarmeni?» affermò Hitler nel 1939 rivolto ai suoi col-laboratori.

Quelle morti non sono state invanoL’autrice è stata presentata ad un pubblico nu-

meroso e partecipe dall’amico Pietro Gibellini, or-dinario di Letteratura italiana all’Università Ca’Foscari di Venezia che, citando Dante, ha rimarca-to quanto sia compito precipuo dell’autore arric-chire la nostra conoscenza. Ed è esattamente ciòche Antonia Arslan con «La masseria delle allodo-le» e «La strada di Smirne», è riuscita a fare offren-doci una riflessione, seppur dolorosa, su di un pas-sato che debba essere di costante monito per il fu-turo. Dal primo romanzo che ha raggiunto un suc-cesso straordinario, 26 edizioni tradotte in 15 lin-gue, è stato tratto un film per la regia dei fratelliTaviani. Il plot narrativo è drammatico ma la scrit-trice riesce a far filtrare una luce di speranza, unasorta di iridescenza come dopo quel diluvio univer-

sale che, come indica la tradizione, vuole proprioNoè sulla cima del monte Ararat, tanto caro agliarmeni. La speranza va preservata sempre, non so-lo per i sopravvissuti, ma anche per la famiglia Ar-slanian che finì falcidiata dalle scimitarre delleguardie del Talaat Pascià.

Quelle morti non sono state invano. È come ve-dere un ramo secco germinare, anche la morte dà isuoi frutti. E dalla tragedia della sua gente, la Ar-

slan è riuscita a riemergere attingendo all’infanzia.Nei prologhi dei suoi romanzi i ricordi rievocano ilnonno patriarca Yerwant che la porta nella basili-ca di Sant’Antonio a Padova o, nel più recente, lapiccola Antonia che ricorda l’incidente del presspapier, una boule di cristallo che sbadatamenteaveva fatto cadere. Con coraggio di fronte al non-no furente, assume la responsabilità del misfatto,assolvendo la tutrice. «Ho sentito il dovere di dire

la verità», una sorta di imperativo etico che, nellacoscienza di una bambina, ha gettato un seme; iltempo ha fatto fiorire i frutti e, in età adulta, è di-ventata denuncia.

Si definisce una cantastorie la Arslan: «Ho rac-colto le memorie di un popolo in diaspora, un popo-lo solo di sopravvissuti, condannati all’esilio. Den-tro di loro c’è un deserto interiore assimilabile alledistese dell’Anatolia». Lei ne ha ascoltato le vocirestituendole alla narrazione.

Con gli armeni anche assiri, greci e ucrainiLa sua volontà di denuncia dei crimini contro

l’umanità ricorda le parole di Raphael Lemkin: «Lanostra intera eredità culturale è il prodotto di tuttii popoli...». Fu l’esule polacco ad interessarsi perprimo dello stermino armeno, coniando nel 1944 laparola genocidio. Antonia Arslan elenca le stragiorganizzate non solo contro gli armeni, gli assiri, igreci del Ponto che subirono dure persecuzioni adopera degli ottomani e poi dei nazionalisti turchi.Nel 1923 i sopravvissuti massacrati furono espulsie rimandati in Grecia. Lo sterminio degli ucraini, 5milioni di contadini fatti morire di fame... Sonomolte le verità storiografiche taciute, anche quellepiù attuali che riguardano Cipro e la progressivacancellazione dell’identità bizantina. Il genocidiodegli armeni ora si trova di fronte a storici turchiche si battono coraggiosamente con le loro «animed’acciaio», contro il negazionismo di Stato.

L’entrata in Europa della Turchia non può pre-scindere da un atto doveroso di scusa verso quellosterminio compiuto 95 anni or sono, ha precisatola scrittrice. La Germania lo ha fatto nei confrontid’Israele, ora il 98 per cento degli studiosi sanno,grazie a documenti, testimonianze e fotografie,che negli anni 1915-’16, uomini inermi vennero ucci-si in campi di concentramento, mentre le donnenel deserto siriano con marce estenuanti vedeva-no i loro bambini morire, come nella ninna nannadelle deportate. Non avevano più latte nei loro se-ni, solo rosso sangue sgorgava dai loro occhi.

Emanuela Zanotti

«Narro il deserto interioredi ogni uomo in esilio»Per la scrittrice, ospite l’altra sera in città, il racconto del genocidioarmeno è la denuncia di tutti i crimini compiuti contro l’umanità

«C’erano uomini con unsolo occhio e altri conun muso di cane, iquali mangiavamo gli

uomini», annotò Cristoforo Colombo neisuoi diari di bordo il 4 novembre 1492,descrivendo gli abitanti delle terre appe-na scoperte. Parole rivelatrici del turba-mento provato dagli europei nel render-si conto che anche la fascia temperatasituata al di sotto dell’invivibile equato-re era abitata. Ma chi poteva vivere insimili luoghi oltre i confini del mondo ci-vilizzato, chiamati «antipodi» da Plato-ne perché opposti rispetto all’Europa?Solo esseri abnormi, «sciapodi, cinocefa-li, blemmia, bramini», nomi che per noinon significano più nulla ma che perMarco Polo e per il poco più tardo JohnMandeville, autore di un «Libro delle me-raviglie del mondo» che influenzò Co-lombo, indicavano dei mostri, per esem-pio con i piedi rovesciati o con la facciasul torace. Così ebbe inizio l’invenzioneeuropea dell’indio, gravida d’implicazio-ni e di drammatiche conseguenze, comeracconta Paolo Vignolo, docente di Sto-

ria all’Università nazionale di Bogotà, inColombia, nello stimolante saggio «Can-nibali, giganti e selvaggi. Creature mo-struose del Nuovo Mondo» (Bruno Mon-dadori, 169 pp., 28 €).

Come si coniugò l’antico concetto diantipodi all’irrompere di una visionemoderna dello spazio geografico?

Il concetto di antipodi nasce con la co-smogonia greca - mi risponde. - Se sipensa alla Terra come ad una sfera, sor-ge spontaneamente l’inquietudine suchi siano coloro che vivono a testa ingiù, dall’altra parte del globo: un mondoalla rovescia era il modo d’immaginarealtri mondi possibili. Fino agli albori del-l’epoca moderna si pensò che gli antipo-di fossero irraggiungibili, poi l’eventosconvolgente: a metà del Quattrocento iportoghesi oltrepassano l’equatore inAfrica Occidentale, e l’immagine dellaTerra e gli equilibri geopolitici mondialisubiscono una radicale trasformazione.A quel punto le leggende sugli antipodiservirono a forgiare l’immaginario delNuovo Mondo: quell’antica teoria si rive-lò utilissima nel passaggio dalla cosmo-

logia tardo-medievale alle nuove cono-scenze geografiche.

Sotto il profilo religioso che accadde?La cosmogonia cristiana, fondata sul-

la discendenza di tutti i popoli da Ada-mo ed Eva, entrò in crisi, visto che nonci si poteva spiegare come gli indigenifossero potuti arrivare in quei luoghi.

Il Nuovo Mondo parve a molti l’avve-rarsi di credenze secolari come l’età del-l’oro, il paradiso perduto o il paese diCuccagna. Perché?

L’età dell’oro, che torna in auge conl’Umanesimo rinascimentale, trova ilsuo scenario ideale agli antipodi: qualemigliore luogo per localizzare un passa-to remoto? Qualcosa di simile avvienecon l’Eden: Colombo, quando giunge aldelta dell’Orinoco, dichiara di aver trova-to uno dei quattro fiumi del paradiso ter-restre, che i conquistadores poi cerche-ranno sulla Cordigliera delle Ande. An-che il sogno di un regno dell’abbondan-za e della libertà - il paese di Cuccagna, -proprio della cultura popolare tardo-me-dievale, ha un potente corrispettivo nel-le terre popolate da selvaggi, che vivono

ignudi, senza inibizioni sessuali né caren-ze alimentari, in ambienti paradisiaci.

Lei scrive che il continente america-no, «tabula rasa» dei desideri e delle pa-ure europei, divenne una proiezione del-l’Europa, che lo popolò di creature attin-te al ricco immaginario dell’Oriente…

L’indio è una proiezione europea, apartire dalla stessa etimologia del termi-ne. E le tre grandi regioni disegnate sul-le prime carte del nuovo continenteprendono il nome da mostruosi esseriasiatici: il Caribe-cannibale, retaggio del-le popolazioni antropofaghe che si crede-va abitassero la Scizia; l’Amazzonia, ilcui nome fa riferimento alle donne guer-riere di origine omerica; e la Patagonia,che evoca i giganti patagoni dei libri dicavalleria.

Dall’indio abominevole si passò al mi-to del buon selvaggio: come si spiegaquesto capovolgimento di giudizio?

Più che di un capovolgimento direiche si tratta di un’ambivalenza. Fin daiprimi giorni Colombo e i suoi uomini sta-biliscono una dicotomia: da una partegli indigeni buoni, abitanti edenici di un

mondo incontaminato dal male, facilida convertire in buoni cristiani e in doci-li sudditi; dall’altra i cannibali mostruo-si. Ma alla fin fine feroce cannibale ebuon selvaggio sono due facce della stes-sa moneta, che avrà corso per tuttal’epoca coloniale e che tuttora circola.

Ai conquistadores tornò utile affer-mare la natura bestiale degli indios chene faceva degli schiavi nati; quale atteg-giamento ebbero in merito la Coronaspagnola e la Chiesa?

Fin dai primi anni della Conquista ladisputa intorno allo status dell’indio èinnanzitutto una lotta di potere tra di-verse forme di colonizzazione e dominio.I conquistadores, interessati ad averemano d’opera a basso costo per minieree piantagioni, spingono per schiavizzaregli indigeni, cercando giustificazioni inAristotele. La Corona non ha bisogno dischiavi, ma di sudditi, e tenta di frenarele ambizioni di questi avventurieri. LaChiesa, infine, pensa agli indigeni comead anime da convertire.

Maria Pia Forte

ANTONIA ARSLANU

no dei grandi problemi irri-solti del nostro tempo è lapersistenza di un’ampia fa-scia di povertà che colpisce

in varia misura tutti i continenti e inparticolare l’Africa subsahariana. Nep-pure la globalizzazione è riuscita asmuovere quel mondo vittima di Go-verni corrotti, di guerre tribali, di ma-lattie endemiche, della fame. Mentre iPaesi che si affacciano sul Mediterra-neo sono riusciti, nel corso del tempo,ad inserirsi sia pure timidamente nellacorrente di sviluppo che interessò l’Eu-ropa moderna, l’Africa occidentale af-facciata sull’Atlantico è rimasta estra-nea a questo processo e, quando ven-ne risucchiata nei commerci oceanici,ciò accadde solo perché offriva un be-ne prezioso e molto ambito, gli schiavi.

Generazioni di storici di diversaestrazione culturale hanno contribuitoa tenere in vita questa visione che ha ilvantaggio di essere semplice e sugge-stiva: su una sponda stavano le poten-ze coloniali promotrici del ripugnantetraffico schiavista, sull’altra le vittimesacrificali di questa secolare ingiusti-zia. Neppure gli storici nazionalisti afri-cani hanno contribuito a correggerequesta immagine distorta del loro con-tinente, un cliché tanto inesatto quan-to duro a morire, la cui revisione richie-deva una ricerca di respiro internazio-nale per chiarire il ruolo degli africaninei rapporti con gli europei e il loro con-tributo alla formazione del Nuovo Mon-do. Ci ha provato - con successo - JohnThornton con «L’Africa e gli africaninella formazione del mondo atlantico.1400-1800» (Il Mulino).

Lo storico americano si pone subitouna serie di domande che trovano poirisposte molto convincenti. «È corret-to - si chiede - assegnare all’Africa unlivello di sviluppo inferiore rispetto al-l’Europa e indicare nello squilibrio chene consegue la causa della tratta deglischiavi? Gli africani parteciparono alcommercio atlantico come partnereguali o furono esclusivamente vittimedella potenza e dell’ingordigia euro-pee? Gli schiavi africani furono eccessi-vamente brutalizzati perché potesseroesprimersi culturalmente e socialmen-te? E, dunque, in che misura il back-ground africano ha inciso nella forma-zione della cultura afroamericana?».Per fornire subito una chiave di lettu-ra, Thornton sottolinea che la ricercasu cui si fonda il suo libro «porta a con-cludere che gli africani parteciparonoattivamente alla vita del mondo atlan-tico, sia per quanto riguarda il commer-cio tra l’Africa e l’Europa (inclusa latratta degli schiavi) sia come schiavinel Nuovo Mondo».

Lungi dall’essere le vittime predesti-nate dell’ingordigia europea, le éliteafricane parteciparono consapevol-mente ai commerci atlantici, ivi com-preso quello degli schiavi, il cui merca-to era già fiorente prima dell’irruzionedegli europei («La tratta atlantica de-gli schiavi - sottolinea Thornton - fuun’appendice di questo mercato inter-no»). Se la schiavitù era tanto diffusala spiegazione va ricercata altrove. Laterra non poteva essere acquistata evenduta da privati come in Occidente.Chi possedeva capitali investiva la ric-chezza nell’altro fattore di produzionecruciale, il lavoro. Una volta acquistatonon era difficile impiegarlo sulla terraper creare nuova ricchezza. La solacondizione richiesta era che non fossegià coltivata da altri. Gli schiavi hannocosì sostituito la terra come forma diinvestimento di lungo periodo.

Il libro si ferma alle soglie dell’Otto-cento quando incominciò a formarsi la«grande divergenza» fra l’Occidente eil resto del mondo e la storia preseun’altra direzione. Ora possiamo com-prenderla meglio, e restituire all’Africaun’immagine più appropriata.

Giovanni Vigo

L’Africadissanguatadagli africanischiavisti

Quei mostri che esorcizzarono la scoperta del Nuovo Mondo«Cannibali» da combattere o «buoni selvaggi» da civilizzare: un saggio di Paolo Vignolo analizza i racconti degli esploratori

■ Si allarga al Capitolium (nella foto), cambia intito-lazione, ma viene riconfermata come unica candidatu-ra italiana. La marcia dei beni artistico-monumentalidella civiltà longobarda in Italia verso l’ingresso nellalista del patrimonio dell’Unesco, riparte da queste novi-tà, dopo le osservazioni dell’Icomos - l’organismo prepo-sto a valutare le candidature - che lo scorso anno aveva-no temporaneamente rallentato l’iter. Lo ha conferma-to il sindaco di Brescia, Adriano Paroli, dopo l’incontroavvenuto ieri in città con Attilio Vuga, sindaco di Civida-le del Friuli, presidente dell’associazione «Italia Lango-bardorum» e primo proponente la candidatura, che as-

sieme a Brescia e Cividale vede «in rete» anche i siti lon-gobardi di Castelseprio, Spoleto, Campello sul Clitun-no, Benevento e Monte Sant’Angelo.

Vuga ha spiegato come il lavoro svolto dagli esperti,pilotati da Angela Maria Ferroni del Ministero per i be-ni e le attività culturali, abbia esaudito le richieste del-l’Icomos. Brescia, in particolare, ha visto rafforzata lapropria valenza con l’estensione della candidatura al-l’area archeologica del Capitolium adiacente il comples-so di San Salvatore - Santa Giulia. Per corrispondereall’ottica europea suggerita dall’Icomos è stato inoltremodificato il titolo della candidatura, ora definito «I

Longobardi in Italia. I centri del potere (568-774 d.C.)»,ad accentuare il valore della immissione di tradizioni dialtri popoli europei nella cultura classica operata daiLongobardi. Condivisa dai due sindaci è la volontà disostenere e promuovere la candidatura nell’arco del2010, in attesa dell’ultima ispezione Icomos e del pro-nunciamento definitivo dell’Unesco previsto per il 2011.

Da parte sua, l’assessore alla Cultura Andrea Arcaiha voluto ricordare «l’ottimo lavoro compiuto, e l’impe-gno profuso dall’équipe dei Civici Musei nell’aggiorna-mento del dossier» richiesto dall’Icomos, dichiarandosi«fiducioso» del buon esito della candidatura.

La corsa per l’Unesco riparte dai «Longobardi in Italia»Cambia intitolazione e si allarga, in città, al Capitolium la candidatura «in rete» a patrimonio dell’umanità

La scrittrice di origine armena Antonia Arslan a Brescia (ph. Reporter/Campanelli)

Il professor Pietro Gibellini

Cultura&Spettacoli

Giornale di Brescia Giovedì 25 Febbraio 2010 47