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AChAB - Rivista di Antropologia

Numero XII - febbraio 2008

Direttore Responsabile

Matteo Scanni

Direzione editoriale

Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi

Redazione

Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini,Sara Zambotti

Progetto Grafico

Lorenzo D'Angelo

Referente del sito

Antonio De Lauri

Tiratura: 500 copie

Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di MilanoBicocca

Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005

* Immagine in copertina di Norangela Romero Bevilacqua, Temple Isurumuniya, Anuradhapura (SriLanka), May 2005.

Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori,scrivete a: [email protected]

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In questo numero...

2 Storia e attualità dell'ayllu nel contesto boliviano

di Alessandro Vigiani

Dossier: Il movimento come pratica di vita13 Premessa

di Cristina Papa

14 Père-Lachaise: “il cimitero vivente”

di Michelangelo Giampaoli

21 Corpo, cibo e immagine

Nuove merci e significati simbolici nel turismo enogastronomico a Montepulciano (SI)

di Alessia Fiorillo

29 Donne in movimento

La divisione internazionale del lavoro riproduttivo nell'epoca della globalizzazione

di Elisa Ascione

39 Il pellegrinaggio hindu come doppio spostamento

Viaggio religioso e movimento trasversale alla realtà sociale indiana

di Isabella De Ponti

46 Diritto alla salute e fenomeni migratori

Alcune riflessioni a partire dal caso della provincia di Caserta

di Luigi Mosca

51 Sul venire appesi da vivi all’albero dei morti

Crestomazia relativista

di Valerio Fusi

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Premessa

L'ayllu (termine quechua il cui corrispondente aymara è "jatha"),istituzione panandina di origine preincaica, è un oggetto diindagine antropologica assai insidioso e controverso, e questo perpiù di una ragione.Anzitutto, si configura come una vera e propria "istituzionetotale" in cui si intersecano una pluralità di pratiche e credenze diordine sociale, politico, economico e religioso profondamenteinterrelate, tali da costituire un insieme complesso decifrabile solodall'interno e solo nella sua indissociabile integrità. Con una certaapprossimazione, si può dire che alla base di tale insiemecomplesso di pratiche e credenze sta il sentimento, tipicodell'uomo andino, di un cosmo formato da elementi distinti,talvolta contrapposti, e tuttavia ricondotti a unità da un principiod'ordine gerarchico operante nella totalità dell'universo come inogni sua singola porzione.Occorre poi aggiungere che gli ayllu hanno conosciutoun'evoluzione molto differenziata da una zona all'altra delle Ande,soprattutto per l'estrema varietà dei condizionamenti che hannosubito da parte dei dominatori esterni di volta in volta succedutisinel corso della loro storia secolare. In genere gli ayllu delle zonepiù impervie e marginali sono riusciti a mantenere con una certacontinuità la loro organizzazione tradizionale, mentre quelliubicati in aree più strategiche per i conquistatori di ieri e di oggihanno subito degli sconvolgimenti tali da decretarne in molti casila scomparsa, oppure la sopravvivenza solo al prezzo di unaconsistente "mutazione genetica".Infine, in anni recenti, l'ayllu è stato oggetto privilegiato di studioe di rivisitazione da parte di un nutrito gruppo di intellettualiquechua e aymara, che vi hanno individuato la chiave di volta perun'emancipazione sociale, economica e culturale dei popolioriginari. Questo rinnovato interesse per un'istituzione percepitacome una sorta di distillato dell'identità quechua e aymara si ètradotto in un insieme di strategie volte alla ricostituzione il piùpossibile completa dell'organizzazione territoriale eamministrativa del Qollasuyu, che peraltro ha già dato i suoi primiesiti. Tuttavia questo processo, oltre a suscitare inquietudine perla posizione di potere di fatto assunta dai leader indigeni neiconfronti delle comunità originarie, è intriso di una componenteideologica così forte da far apparire quantomeno ambiguo il

rapporto tra l'ayllu storico e quello ricostituito, che rischia diapparire come una costruzione artificiosa scaturita da una più omeno consapevole manipolazione di dati storici e tradizioniculturali.In questo saggio tratterò dapprima dell'ayllu tradizionale e, incerta misura, idealtipico. Successivamente accennerò ad alcunidei processi evolutivi a cui è andato incontro nel tempointeragendo con fattori esogeni di diverso tipo. Infine,limitandomi al caso boliviano, analizzerò la posizione che lo statocreolo ha tenuto nei confronti di questa istituzione così estraneaalle concezioni filosofico-politiche europee e il ruolo che essa hagiocato e continua a giocare nell'ambito delle teorie indianiste edei movimenti indigeni contemporanei.

L 'ayllu, istituzione del pensiero olistico andino

Gli antropologi hanno il più delle volte definito l'ayllu nei terminidi un gruppo parentale, fondato in genere sulla discendenzapatrilineare e sull'endogamia, i cui membri godono del diritto diaccedere alle risorse di un determinato territorio gestendole inmodo collettivo e mutualistico.Questa definizione, oltre a risultare alquanto approssimativa1, hail grosso limite di non cogliere la reale valenza di un'istituzioneche, ben lungi dall'essere una mera forma di organizzazionesociale di tipo corporativo, esprime un modo di sentire e di vivereaffatto peculiare, irriducibile a una qualsivoglia categoriaelaborata dal sapere antropologico occidentale.Quanto a me, tenterò di descrivere l'ayllu a partire dal punto divista emico, ribadendo però, in via preliminare, che ci troviamo difronte a un'istituzione la cui analisi dovrebbe servire, piuttosto chea sondare le capacità ermeneutiche del pensiero occidentale, asuggerire la necessità di incentivare la pratica di un'antropologiacritica e riflessiva, più attenta a riconoscere i propri limiti che agongolare nell'esibizione compiaciuta delle proprie elucubrazioni.D'altra parte, per venire all'attualità, la riconsiderazione dell'aylluin una prospettiva emica è essenziale per cercare di spiegare ilruolo che l'ideologia connessa a questa istituzione ricopreall'interno dei movimenti sociali della Bolivia contemporanea,specie in quei loro settori che ostentano una marcata connotazionenativista.

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Storia e attualità dell'ayllu nel contesto bolivianodi Alessandro Vigiani

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L'ayllu come pacha2

Al centro del pensiero quechua e aymara c'è un concetto, quellodi pacha, da cui forse conviene partire per avvicinarsi allacomprensione dell'ayllu. Pacha è un termine che, oltre al più notosignificato di "terra", condensa le nozioni generiche di spazio e ditempo. In effetti, dal punto di vista autoctono, l'ayllu è una "unitàspazio-temporale" che comprende un determinato territorio(inteso come insieme del suolo e di ciò che è al di sopra e al disotto di esso), tutti gli esseri viventi e non viventi3 che vi sitrovano e inoltre tutti gli antenati comuni della gente che vi vive.Occorre dunque isolare due aspetti fondamentali dell'ayllu, quellodi un territorio con le sue risorse naturali e quello di una societàumana formata da parenti reali o fittizi che vivono nell'al-di-quao sono trapassati nell'al-di-là. Emblematico punto dicongiunzione e sintesi cognitiva tra territorio e società misembrano quegli elementi naturali (ad esempio pietre di aspettoinconsueto) in cui gli indigeni tendono a identificare e onorare ipropri antenati: tali elementi appartengono allo stesso tempoall'ayllu-territorio e all'ayllu-società nei due risvolti dell'al-di-quae dell'al-di-là, assurgendo a simboli potentissimi di quella unità diparti distinte su cui si impernia la filosofia cosmica andina e chesola, credo, può rendere ragione della valenza culturale eidentitaria di questa istituzione nella prospettiva autoctona.

L'ayllu-società

Venendo all'aspetto più rilevante ai fini della mia trattazione, ènello stesso ayllu-società (tama) che il suddetto sentimento diunità cosmica dei distinti risulta apertamente manifesto, sia nellerelazioni fra i membri sia nei rapporti tra questi e la terra su cuivivono.Il legame simbiotico che unisce la gente alla terra (coltivi epascoli) non consente di parlare dell'organizzazione socialedell'ayllu senza fare contestualmente riferimento alla suaorganizzazione territoriale. Questa si articola generalmente su trelivelli ecologici: suni, comprendente i pascoli situati alle altitudinimaggiori; antipampa, la zona intermedia in cui si situano leabitazioni e i terreni principali dell'ayllu; qhirwa, composta daiterreni vallivi da cui la comunità ricava quei prodottiindispensabili per la propria sussistenza (ad esempio il mais e lacoca) che non potrebbe ottenere nelle più ostili condizioniclimatiche dell'antipampa.Suni, antipampa e qhirwa costituiscono nel loro insiemel'uraqpacha, il territorio di pertinenza dell'ayllu, il cui legittimopossesso spetta esclusivamente alla comunità in quanto tale.Tuttavia, mentre suni e qhirwa si trovano in genere sotto la direttaamministrazione delle autorità comunali, l'antipampa è suddivisain appezzamenti di dimensioni variabili (qallpas) riservati allesingole unità familiari, che comunque sono tenute a gestirlisecondo le direttive e i ritmi colturali stabiliti dalla comunità.Ogni unità familiare dispone inoltre in forma esclusiva di unterreno, detto sayaña, commisurato alle sue esigenze e

corrispondente al suolo occupato dall'abitazione e alle terrelimitrofe, che la famiglia può utilizzare liberamente per le proprienecessità produttive4 purché ciò avvenga senza pregiudizio alcunodella comunità.La cellula fondamentale dell'ayllu è l'unità familiare, composta dauna coppia sposata con la rispettiva prole. La coppia costituisce lapersona (jaqi) cui la comunità riconosce obblighi e diritti, e su cuiquindi ricade la responsabilità della conduzione della famiglia,dell'uso delle risorse che le sono state assegnate edell'adempimento dei doveri verso la collettività.Le unità familiari che si riconoscono come appartenenti a unmedesimo patrilignaggio si riuniscono in gruppi più ampi, dettiali, che gravitano su un determinato spazio territoriale (estancia)e nominano autorità proprie (p'iqi).In ultimo, l'ayllu-società è un gruppo di discendenza formato dapiù ali che condividono l'uraqpacha e riconoscono alcune autoritàsomme, jilaqata e mallku5.Come si evince da questa sommaria descrizione, l'organizzazionesocio-territoriale dell'ayllu verte idealmente sull'interazione tralivelli via via più inclusivi, ciascuno dei quali risulta suddiviso inframmenti distinti e portatori di istanze potenzialmente inconflitto tra loro (l'uomo e la donna, le famiglie, gli ali), chetuttavia rispetto al livello immediatamente superiore sono tenutiad agire come unità corporate, ipostatizzandosi nelle varieautorità.Esiste poi, intersecata a questa in modi che non ho avuto lapossibilità di appurare, un'ulteriore suddivisione territoriale inmetà (saya), identificate sulla base della loro posizione relativasecondo le coppie oppositive alto-basso (aran-urin) e destra-sinistra (kupi-ch'iqa), con la prevalenza gerarchica del primotermine sul secondo. Questa bipartizione (o quadripartizione, nelcaso in cui le due coppie di marcatori operinocontemporaneamente) risale all'epoca precoloniale e ha rilevanzasoprattutto in ambito procedurale (ad esempio regola la rotazionenell'accesso alle terre coltivabili e nel compimento degli incarichicivico-religiosi) e rituale (ad esempio detta l'ordine con cui iljilaqata "ravviva" periodicamente le pietre sacre ai confinidell'ayllu attraverso la cerimonia del muyu, oppure definisce igruppi che si affrontano nei tinku, violenti scontri rituali mediantei quali sembrano trovare sfogo le tensioni accumulate in seno allacomunità).Tuttavia tale suddivisione in metà risulta anche connessa allatradizionale organizzazione diarchica del potere, in base allaquale ogni autorità viene sempre affiancata, nello svolgimento deipropri compiti, da un'altra autorità di grado leggermente inferiore.Questo modello dualistico gerarchizzato, pienamente sfruttato inepoca incaica (basti ricordare l'istituzione del doppio inca, ormailargamente avallata dagli studiosi), fu invece ignorato daigovernanti spagnoli, che favorirono un'organizzazione piùunitaria e centralistica, introducendo inoltre nuove figure difunzionari secondo l'uso iberico6. Nonostante ciò, esso vige ancoroggi all'interno degli ayllu, a partire dall'autorità familiare jaqi,formata dall'unione uomo-donna (con quest'ultima in posizionelievemente subordinata), fino ai gradi sommi di autorità, con il

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mallku che viene assistito nelle sue funzioni da un rantín (lanti inaymara)7.In conclusione, si può asserire che negli ayllu si trovano aconvivere, talvolta con ambiti di competenza distinti talaltra conparziali sovrapposizioni, due modelli di organizzazione socio-territoriale, la cui origine è difficilmente ipotizzabile ma che sonostati alternativamente valorizzati in epoca precoloniale ecoloniale. Mi pare comunque assai significativo che entrambe leforme organizzative possano essere ricondotte senza forzature aun peculiare schema interpretativo del cosmo, inteso come unatotalità di elementi dissimili che si contrappongono a un certolivello di realtà amalgamanandosi invece al livello di realtàsuccessivo. Con il che siamo tornati a quel sentimento di unità deidistinti che sembra riflettersi in ogni dove nell'universo mentale epratico dell'uomo andino.

Le pratiche di reciprocità

Una delle caratteristiche più appariscenti e significativedell'organizzazione dell'ayllu è la centralità assunta dalle pratichedi reciprocità nelle relazioni tra i suoi membri e nei rapporti fral'ayllu-società e l'ayllu-territorio. In un'ottica funzionalista, lareciprocità potrebbe essere interpretata come la risposta che ungruppo umano stanziato in un territorio assai avverso all'uomo,come è quello andino, ha dato al problema della suasopravvivenza. Questa ipotesi è senza dubbio degna diconsiderazione, ma occorre anche aggiungere che il valore dellareciprocità si inserisce quasi necessariamente all'internodell'attitudine olistica tipica dei popoli originari, traducendosi inpratiche che realizzano nel mondo umano quel fondamentalesentimento di unità cosmica dei distinti di cui ho diffusamentediscorso in precedenza.Le pratiche di reciprocità, come accennavo, non riguardanosolamente l'ayllu-società, ma includono anche l'ayllu-territorio.Nel primo caso, non sono tanto le singole persone o unitàfamiliari che si scambiano favori, piuttosto è la comunità tutta cheora dà ora riceve un beneficio, e le persone che partecipano aquesto scambio di prestazioni agiscono ora in qualità dirappresentanti del gruppo ora come singoli membri ad essoriconoscenti. Il meccanismo di reciprocità è messo in moto da unbeneficio originario di valore inestimabile, tale da non poter maiessere contraccambiato: è la comunità che concede la terra e lesue risorse, e con queste la possibilità di vivere. Ogni membro puòmantenersi in vita, oltre che esistere socialmente, solo in virtùdella benevolenza della comunità, e questa consapevolezza creaun legame indissolubile e un sentimento di gratitudineinestinguibile tra ciascuno e tutti. Tale vincolo è allo stesso temporiconosciuto, rinnovato e rafforzato dalle pratiche di reciprocità,che consistono essenzialmente nello scambio di prestazionilavorative (ad esempio mutuo aiuto nelle attività agricole epastorizie e nella costruzione di abitazioni, assistenza a invalidi,vedove e orfani, cura delle qallpas di chi si allontana dalterritorio) e nell'adempimento dei doveri comunitari (ad esempio

prestazione delle mit'a - turni di lavoro nelle terre e nei pascolicomunali oppure servizi artigianali a vantaggio del gruppo -,partecipazione alle pubbliche assemblee, assolvimento diincarichi politici e religiosi). Anche la società dell'al-di-là prendeparte a questa dinamica di scambi, ovviamente in modosimbolico: si ritiene che gli antenati assicurino la protezionedell'uraqpacha, e per questo li si ricompensa con omaggi ecerimonie di vario tipo.Le pratiche di reciprocità fra ayllu-società e ayllu-territoriodiscendono invece direttamente dalla relazione di dipendenza chetiene unito l'uomo alla terra. La Pacha Mama (Madre Terra) è lafonte ultima del ben-vivere della comunità. Ad essa i comunariossi affidano per la buona riuscita del raccolto come pure per lasalute di uomini e animali; in cambio le dedicano riti e sacrificipropiziatori, difendono le frontiere territoriali e curano ilbenessere del suolo attraverso la pratica delle rotazioni colturali8.

L'organizzazione politica

L'organizzazione politica dell'ayllu si impernia sull'assemblea deicapifamiglia, che si autoconvoca ogniqualvolta vi sia la necessitàdi prendere decisioni di una certa rilevanza per l'intera comunità,in genere almeno una volta al mese secondo il procedere deilavori comunali. Poiché i capifamiglia sono rappresentati dallaparte maschile della persona-jaqi, a partecipare all'assembleasono gli uomini, che spesso però vi espongono punti di vistaprecedentemente discussi e concordati con le rispettive spose.L'assemblea funge anche da efficientissimo mezzo di controllosociale, in quanto essa valuta la condotta delle autorità e deisingoli membri, emettendo sanzioni nel caso di comportamentigiudicati non consoni al sistema di valori comunitari.Chiunque partecipi all'assemblea ha la facoltà di esprimere lapropria opinione su tutte le questioni discusse; in genere tutte leposizioni sono tenute nello stesso conto e la decisione finale nonè quella che ottiene un maggior numero di consensi, bensì quellache si viene costruendo attraverso il confronto, spesso assaiacceso, tra posizioni distinte, ricevendo in ultimo l'approvazionedi tutti.Uno dei punti salienti su cui l'assemblea deve pronunciarsiperiodicamente è la nomina dei membri alle varie carichecomunali. Le cariche comunali hanno allo stesso tempo contenuticivici e religiosi, essendo volte, ciascuna per le propriecompetenze, all'ordine della comunità e alla cura delle attività diculto.In teoria, ogni persona nel corso della sua vita sociale è tenuta aricoprire in successione tutte le cariche. Ogni carica richiedeimpegno e risorse materiali, ma fa avanzare le persone nelprestigio sociale. L'ascesa di ognuno in seno all'ayllu rispecchiauno dei principi fondamentali per il ben-vivere dell'uomo e dellacomunità, quello del cammino thaki, che consiste nel procedereverso la meta avendo sempre consapevolezza della stradapercorsa per non smarrire la via.L'obbligo teorico per ciascuno di compiere il cammino sociale

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thaki fa sì che l'assemblea assegni le cariche a rotazione. Tuttavia,in accordo con un tradizionale principio di "successione del piùabile", dalla rosa dei membri eleggibili vengono sempreselezionati quelli che, in ragione di considerazioni di vario tipo,siano ritenuti più idonei a rivestire l'incarico. Nella pratica,quindi, solo una minoranza di comunarios giunge alla più altacarica dell'ayllu, quella del jilaqata9.Al giorno d'oggi il prestigio sociale non si acquisisce più soltantosulla base degli incarichi pubblici svolti all'interno dellacomunità, ma anche attraverso altri meccanismi sorti dalle semprepiù frequenti interazioni dei comunarios con la società esterna. Ladiffusione della scuola, l'inclusione volontaria o coattanell'economia di mercato, il trasferimento periodico o ladefinitiva emigrazione in città di un numero più o menoconsistente di membri, la possibilità di entrare a far parte diorganizzazioni accademiche, sindacali o politiche, la conversionea nuove religioni sono tutti fattori che hanno concorso adeterminare nuove opportunità di ascesa sociale. Di norma i duesistemi, quello del cammino thaki interno all'ayllu e quello delriconoscimento per i meriti acquisiti nellasocietà esterna, coesistono. Così, se è vero che le persone sonosempre più restie a seguire la trafila degli incarichi civico-religiosi, è altrettanto vero che i comunarios che hanno successoal di fuori dell'ayllu sono soliti candidarsi ad assumere su di sél'onere dell'organizzazione di feste e riti comunitari,accompagnando all'ascesa nella società esterna l'aumento diprestigio nella comunità d'origine.

Una disuguaglianza controllata

Da quanto suesposto e stando ad alcune distorsioni ideologichetuttora molto in voga, sembrerebbe che l'ayllu sia un perfettomodello di società ugualitaria. In realtà attualmente non è così e,come avrò modo di mostrare, è lecito dubitare che lo sia mai statoanche in passato.Ai giorni nostri in ogni ayllu ci sono famiglie di buona e cattivareputazione, leader e seguaci, "ricchi" e "poveri". Lastratificazione sociale è strettamente correlata con la diversapossibilità che ogni famiglia ha di accedere alla terra, che dipendesia dalle strategie di alleanza matrimoniale e dai meccanismisuccessori, sia dalla capacità di ottenere vantaggi negli scambi dibeni e di disporre di introiti monetari.All'interno degli ayllu, però, sono attivi dei meccanismi dicontrollo della disuguaglianza che fanno sì che questa non diventiinsostenibile dal punto di vista economico e sociale. Ad esempio,i più ricchi sono tenuti ad accettare gli incarichi più onerosi, comel'organizzazione delle feste comunitarie più importanti. Lacombinazione dei processi di differenziazione e di bilanciamentogenera nel complesso una situazione di "disuguaglianzacontrollata".I casi di vera e propria sperequazione sociale sono estremamenterari, e comunque sempre associati all'influenza di qualche fattoreesterno non controllabile dalla comunità (il pieno coinvolgimento

nell'economia di mercato, la presenza di membri che si dedicanoal contrabbando o a traffici transfrontalieri illegali ecc.). Insituazioni simili, alcune sayaña possono risultare fino a centovolte più estese delle altre, mentre all'opposto alcuni comunariospossono esserne del tutto privi. Costoro possono scegliere ditrasferirsi in un altro ayllu o emigrare in città, oppure di mettersiper un certo periodo al servizio di famiglie benestanti diventando"figli della casa" (utawawa).

Prima della Bolivia: le dinamiche del cambiamento nell'ayllu

etnico

L'epoca preincaica

Quando, a partire dall'inizio dell'Orizzonte Tardo, gli incaallargarono il loro dominio al di là delle valli cuzqueñe,inglobarono nel loro regno formazioni politiche più o menostrutturate, tra cui alcuni potentati emersi dalle dinamiche diconflittualità endemica caratteristiche delle Ande centrali nelPeriodo Tardo Intermedio.Si trattava di società che, ancorché basate in prevalenzasull'istituzione dell'ayllu, dovevano già presentare al loro internouna qualche forma di distinzione di rango, sia per effetto dellaconvivenza tra popoli vinti e popoli vincitori, sia perché eranoloro stesse a esprimere quelle figure di curaca (signori etnici) chegli inca seppero incorporare abilmente nella rete di funzionariamministrativi del Tahuantisuyu. Del resto, una riprova delpossibile delinearsi di un'organizzazione gerarchica in seno a unsistema socio-economico imperniato sull'ayllu ci è data dagli incastessi, presso i quali la tradizionale presenza di questa istituzionenon poté ostacolare la formazione di lignaggi aristocratici(panaca) in concorrenza tra loro. Verosimilmente potevano essere riconosciuti come curaca queicapi militari che si fossero particolarmente distinti durante leguerre interetniche, ma non è da escludere che in talune societàandine di epoca preincaica fosse già all'opera un qualche processodi differenziazione nell'accesso alle risorse collettive. A questo riguardo costituisce un elemento di riflessione la praticadella mink'a, una forma di scambio precocemente documentatanegli ayllu etnici (e osservata anche ai giorni nostri) che consistenella prestazione di un servizio lavorativo in cambio dell'offertadi beni da parte del beneficiario (cibo, bevande, parti del raccolto,animali). Secondo alcuni studiosi, la mink'a si configurerebbecome una forma di reciprocità sbilanciata in uso tra persone dirango diverso e con una diversa disponibilità di risorse: da unaparte i semplici comunarios, dall'altra i loro signori etnici.Un ulteriore indizio della suddivisione della società in ranghipotrebbe essere ravvisata nell'istituzione dello yanaconato,incentivata nel Tahuantisuyu ma risalente all'epoca anteriore allaconquista incaica. Gli yana formavano una categoria di personededite esclusivamente ai servizi per la comunità e per i curaca;svolgevano il ruolo, insomma, di una specie di "servitoripubblici", una condizione che confermerebbe la diffusione dipratiche di reciprocità sbilanciata all'interno degli ayllu.

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In ogni caso, sarebbe azzardato inferire l'esistenza di una vera epropria stratificazione sociale prima dell'avvento degli inca, siaperché in tutta l'area andina l'accesso alle cariche era regolato dalprincipio di successione del più abile che di fatto ne impediva latrasmissione diretta per via ereditaria, sia perché parte dellerisorse mano a mano acquisite dalla comunità veniva ripartita trale singole unità familiari secondo le rispettive esigenzescongiurando il rischio di una loro eccessiva concentrazione, siainfine perché lo yanacona non era una figura tenuta in spregio eper di più era passibile di una considerevole mobilità sociale(sembra persino che alcuni curaca fossero degli yana).

Il periodo del Tahuantisuyu

Il dominio degli inca turbò le suddette "pratiche compensative"che avevano tutto sommato impedito il cristallizzarsi di statussociali all'interno delle diverse comunità preesistenti.La prima macroscopica differenziazione fu di carattere etnico, econsistette nel disporre l'egemonia dei lignaggi reali incaici sututti i popoli sottomessi. Al vertice dello stato si collocavano isovrani inca, che godevano di un accesso pressoché illimitato allerisorse umane e naturali del territorio, benché dissimulato sotto letradizionali forme della reciprocità. Ma le pratiche di reciprocità,oltre a essere marcatamente asimmetriche, erano affiancate, efinirono con l'essere soppiantate, da un modello di scambigerarchici, controllati e diretti dal centro, propriamente di tiporedistributivo. Gli inca esigevano da tutte le comunità laprestazione di mit'a finalizzate al mantenimento della corte e deisoldati e alla costruzione delle infrastrutture per usi civili emilitari. Le mit'a, soprattutto agricole e tessili, garantivano allepanaca reali l'accumulo di un'eccedenza di beni che esseutilizzavano prevalentemente per atti di generositàistituzionalizzata volti a ottenere la fedeltà dei sudditi (in primoluogo quelli di rango superiore, deputati al controllo dellecomunità locali). Inoltre gli inca provvedevano periodicamentealla ridistribuzione di "terre dello stato" sulla base dei bisogniespressi dalle singole comunità. Immediatamente al di sotto dei sovrani nella gerarchia statalec'erano i cosiddetti apu, generalmente loro fratelli o zii, ai qualiera affidata la reggenza di ciascuna delle quattro regioni in cui erasuddiviso il Tahuantisuyu (Chinchaysuyu, Antisuyu, Qollasuyu,Quntisuyu). Nelle varie province in cui erano ulteriormenteframmentate queste grandi ripartizioni territoriali, poi, operavanoi tocricoc, funzionari anch'essi appartenenti ai lignaggi reali (ocooptati al loro interno) investiti di compiti amministrativi ogiudiziari. Solo al di sotto di questi livelli gerarchici erano ammesse autoritàestranee alla casta degli inca, tra le quali i curaca locali. Tuttavia,anche lo statuto e le mansioni di queste autorità tradizionalisubirono delle trasformazioni per adattarsi al nuovo modelloamministrativo centralistico. Anzitutto il diritto di nomina del curaca fu sottratto alle comunitàrendendo la carica ereditaria. Per di più i successori in pectore

erano tenuti a trascorrere un lungo periodo alla corte cuzqueña ocomunque presso gli emissari locali del sovrano; una simileprassi, mentre gettava le basi di quel rapporto di reciprocità cheavrebbe irrimediabilmente compromesso le autorità locali con idominatori inca, logorava la loro solidarietà nei confronti dellacomunità d'origine, rendendoli inoltre sospetti agli occhi deicomunarios stessi.Anche le pratiche di reciprocità tra signori etnici e semplicimembri dell'ayllu, seppure già in passato non completamenteparitarie, subirono una corruzione a favore di un sistema discambi palesemente sbilanciati, con i curaca che tendevano aspecializzarsi nelle mansioni amministrative e religiose esigendoche la comunità offrisse come contropartita regolari prestazionilavorative a loro beneficio (mit'a agricole e tessili, serviziartigianali in genere, cura del bestiame).Tutto ciò minava l'equilibrio socio-economico delle comunitàassoggettate, ma ancor più deleterie dovettero essere due pratichecui gli inca fecero ricorso in maniera che non è dato sapere quantoconsistente: l'incorporamento di coloni di comprovata fedeltàall'interno di ayllu particolarmente maldisposti all'obbedienza,con la contestuale dispersione coatta di intere popolazioni riottosefra comunità più ligie; il prolungato trasferimento di numerosimit'ayoc in territori lontanissimi dal loro luogo d'origine (ilmodello dei piani ecologici tipico dell'ayllu fu applicato su vastascala ma, perduta ogni funzione di diversificazione produttiva,degenerò in un sistema "ad arcipelago" con isole dislocate qua elà sul territorio e prive di qualsiasi legame effettivo con lecomunità).Alla vigilia dell'invasione spagnola, poi, si stava profilandoun'ulteriore evoluzione dell'organizzazione socio-politica delTahuantisuyu, con la progressiva emancipazione della castadominante dalle prassi redistributive e dalle fedeltà di lignaggio.Nella stagione del crepuscolo sembravano ormai prevalere altrilegami di dipendenza agli inca, del tutto svincolatidall'appartenenza etnica e dagli obblighi di parentela. Questainversione di tendenza sarebbe testimoniata dalla documentatacrescita del numero degli yana al servizio dei sovrani, come puredall'affermarsi di nuove figure quali le aclla ("spose del Sole",fanciulle vergini scelte dall'inca per lo svolgimento di incarichirituali) e i cam'ayoc (lavoratori o funzionari statali).Nel complesso queste categorie sociali erano sorte al di fuori deirapporti e delle norme che regolavano la vita di comunità,identificandosi invece con gli interessi particolaristici degli inca.Come questa nuova evoluzione si sarebbe riflessa sui singoli ayllunon è dato sapersi. Certo è che la conquista spagnola, foriera pergli indigeni di tanti soprusi e atrocità, almeno all'inizio diedel'illusione di poter quasi provvidenzialmente arrestare quelprocesso di erosione del tessuto socio-economico delle comunitàetniche che il Tahuantisuyu aveva invece favorito.

L'epoca coloniale

La conquista spagnola frammentò rapidamente la struttura

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politica del Tahuantisuyu, privilegiando un'organizzazione dellapopolazione in comunità discrete la cui unità fondamentale eracostituita dal pueblo. In genere fu questa unità politica,singolarmente o in combinazione con altre dello stesso tipo, aessere affidata in encomienda a conquistatori e coloni, a formareuna parrocchia nell'organizzazione ecclesiastica cattolica e adiventare oggetto della giurisdizione di un corregimientonell'organizzazione politica coloniale.La concessione dei territori in encomienda non comportava perl'encomedero il diritto di proprietà sulle terre comunitarie, ma loautorizzava a esigere dai comunarios l'effettuazione di corvée neisuoi possedimenti e il pagamento di un tributo, inizialmente sottoforma di prodotti agricoli. La suddivisione in pueblos non rispecchiava quella originaria inayllu (soprattutto perché per gli spagnoli era del tuttoinconcepibile il mantenimento della struttura ad arcipelago, chepresupponeva la discontinuità territoriale dei possedimenti dellecomunità)10, ma in linea generale le autorità coloniali tolleraronola coesistenza fra il nuovo sistema politico-amministrativo distampo iberico e i modelli organizzativi tradizionali, e dunque lapersistenza delle divisioni comunitarie all'interno di uno stessopueblo.In effetti, benché i pueblos furono obbligati abbastanzaprecocemente a esprimere le medesime istituzioni di governo deimunicipios metropolitani (cabildos presieduti da un alcaldemayor e con alcaldes ordinarios, alguaciles, regidores ecc.),l'adozione di tali istituzioni e dei relativi meccanismi di nominanon implicava la sparizione delle autorità indigene, che anzispesso ottenevano di essere cooptate nel nuovo sistemaamministrativo.Tipico era il caso di curaca che sollecitavano, e di norma sivedevano riconoscere, l'attribuzione del titolo di alcaldesmayores, presentando una petizione in cui facevano riferimento alloro lignaggio aristocratico e rievocavano il sostegno offerto aPizarro o ad altri conquistadores.In ultima analisi, la strategia di dominazione degli spagnolipostulava un'alleanza tra le istituzioni coloniali e i curaca etnici aiquali, in cambio della collaborazione nell'amministrazione dellecomunità, veniva riconosciuta la facoltà di continuare a goderedei privilegi connessi al loro ruolo tradizionale e l'esenzione daltributo.In teoria, la carica di curaca doveva trasmettersi per via ereditaria,secondo l'uso vigente nel Tahuantisuyu. Tuttavia, poiché le normedi successione risultavano abbastanza flessibili e manipolabili einoltre molti lignaggi aristocratici locali si erano estinti con laconquista, non era raro che fosse assegnata arbitrariamente daglispagnoli a qualche indigeno di loro gradimento.A qualunque titolo e sotto qualunque forma si trovassero allaguida delle comunità, i capi indigeni locali rappresentavano lostrumento più efficace di cui le autorità coloniali potevanodisporre per la promozione delle istituzioni della parrocchia,dell'encomienda e del corregimiento, rette dagli spagnoli. Dietrola maschera di un formale riconoscimento dei modelli politiciindigeni si configurava così un sistema di indirect rule ante

litteram, destinato a indurre un'evoluzione sociale e culturalegravida di conseguenze negative per i popoli originari.Occorre tuttavia rilevare, all'interno di questa situazionegeneralizzata nel Vicereame del Perù, il particolare statutoassunto da buona parte dei territori del Qollasuyu, i quali nonfurono concessi in encomienda ad alcuno ma furono sottopostialle dirette dipendenze della Corona spagnola. Ciò garantìun'autonomia relativamente maggiore alle comunità locali, chefino a un certo punto poterono preservare gli usi venuti in voganel periodo del Tahuantisuyu. Ad esempio John Murra (1980),commentando alcuni documenti che attestano l'organizzazionedel regno lupaqa nel 1567, riferisce di curaca che derivavanoancora il loro potere dalla capacità di ostentare generositàistituzionalizzata. Ad ogni modo, con il consolidamento delleattività di evangelizzazione dei missionari domenicani el'introduzione delle nuove autorità spagnole, anche presso ilupaqa l'influenza e il potere dei signori etnici dovetteroattenuarsi. Ma un impatto ancora più funesto sul loro statusdovettero avere le nuove attività economiche in cui furonocoinvolti (gli spagnoli li sfruttarono per entrare in possesso ditessuti da commercializzare, per ottenere mulattieri da utilizzareper il trasporto di merci, in genere per servizi che esulavano dallatradizionale sfera dei rapporti di reciprocità) e, soprattutto,l'imposizione della mit'a nelle miniere di Potosí.A ben vedere, il coinvolgimento coatto nei circuiti produttivi ecommerciali controllati dagli spagnoli, di norma nel ruolo passivodi fornitrici di beni o di manodopera sfruttata, compromise gliequilibri sociali, economici, politici e culturali delle popolazioniindigene di tutto il vicereame ben più delle misure di carattereistituzionale che ho ricordato sopra. In particolare, la mit'a nelleminiere di Potosí e Huancavelica, imposta dagli spagnoli a tutti ipueblos indigeni, ebbe un effetto assolutamente devastante nonsolo perché provocò, a causa delle disumane condizioni di lavoro,la morte di innumerevoli mit'ayoc, non solo perché privò lecomunità di tanti membri che si inurbarono e, anchevolontariamente, non fecero più ritorno al loro luogo di origine,ma soprattutto, direi, perché a livello simbolico scardinò uno deiprincipi sommi della cultura nativa, quello della sacralità einviolabilità delle risorse naturali, al cui cinico sfruttamento,invece, gli indigeni venivano ora forzosamente associati.Un ulteriore colpo alla sopravvivenza delle comunità-ayllu fuinflitto, nella seconda metà del XVI secolo, dalla disposizione cheil tributo dovuto alle autorità coloniali non potesse più esserecorrisposto in natura, come era stata consuetudine sino ad allora,ma dovesse essere pagato in moneta, costringendo le comunità ainserirsi all'interno delle dinamiche dell'economia coloniale alfine di procurarsi il denaro.L'esposizione delle comunità ai mercati coloniali ebbe anzituttocome conseguenza di trasformare il ruolo del curaca, facendogliassumere funzioni di organizzazione e controllo della produzionee della commercializzazione di beni di consumo. Ciò conferì aquesta figura dei connotati di forte ambiguità. Infatti il curacapoteva utilizzare la sua specifica capacità di accedere alla forzalavoro e alle risorse economiche della comunità per proteggerla

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dal peso delle esazioni coloniali, mobilitando manodopera per lacoltivazione di prodotti agricoli e la lavorazione di tessuti richiestisul mercato e poi incaricandosi egli stesso dellacommercializzazione; oppure poteva sfruttare questa posizioneprivilegiata per accumulare un capitale commerciale individualecon cui entrare in proprio nel circuito di scambi coloniali.In questa congiuntura, il brusco calo della popolazione autoctonarese poi vacanti vaste superfici di terre comunitarie, che nellamigliore delle ipotesi furono poste in vendita dalla comunità eacquistate a prezzi irrisori dai nuovi grandi proprietari terrieri,nella peggiore furono semplicemente usurpate. In effetti dalla fine del Cinquecento, di pari passo con la crescenteesigenza di implementare le entrate finanziarie della Corona e dialimentare l'economia coloniale, l'istituzione socio-economicadell'encomienda fu progressivamente rimpiazzata da quelladell'hacienda, la grande proprietà terriera sorta come unitàintegrata ai mercati dei centri minerari e politico-amministrativi.All'interno delle haciendas venivano incorporate intere comunitàindigene. Una porzione delle terre, normalmente la più fertile, erasfruttata a beneficio esclusivo dell'hacendado, il quale si avvalevadei turni di lavoro dei comunarios. Il resto dei terreni eraaccessibile alla comunità, che li utilizzava secondo la tradizionaletripartizione in pascoli, aynuqa e sayaña e in base ai consueti ritmicolturali.Molte terre comunitarie, dicevo, non furono acquistate, bensìvennero usurpate dai coloni spagnoli mediante raggiri legali.Nonostante la palese irregolarità di molti titoli di proprietà dellaterra così ottenuti, dal 1590 la Corona spagnola, spinta dallecrescenti necessità finanziarie, cominciò a legalizzarli mediante ilsistema della composición, che consisteva nella regolarizzazionedei possedimenti tramite il pagamento di una tassa all'HaciendaReal.La vendita o confisca arbitraria delle terre comunitarie, oltre arappresentare dal punto di vista simbolico l'infrazionedell'ancestrale schema di reciprocità fra comunità e terra, causòun progressivo assottigliamento dei terreni a disposizione deicomunarios, che con il trascorrere del tempo e la ripresademografica potevano non essere più sufficienti a soddisfare leloro esigenze produttive. Di conseguenza sorse una categoria diindigeni senza terra che avevano dinanzi a sé essenzialmente treopzioni: emigrare in altre comunità più fortunate (dove andavanoa formare una classe di "forasteros" che aveva accesso alle terresolo ai fini dell'autosussistenza ed era estromessa dagli incarichipolitici, riservati agli "originarios"), offrirsi come yana al serviziodei possidenti spagnoli, mettersi alla ricerca di un lavoro salariatoin città o nelle grandi haciendas delle terre basse.La forza lavoro indigena a disposizione degli hacendadosrisultava dunque composta da tre categorie principali: i mit'ayocdelle comunità incorporate nell'hacienda; gli yana, che ricevevanoin usufrutto piccole parcelle di terra per la propria sussistenza manessuna remunerazione monetaria; i braccianti o lavoratori agiornata salariati che si davano in affitto volontariamente, spessoper saldare un debito contratto nei confronti degli hacendados.Non era insolito, infatti, che i facoltosi possidenti terrieri

anticipassero denaro agli indigeni per il versamento dei tributi o,più tardi (a partire dalla metà del XVIII secolo), per assolvere gliobblighi di pagamento imposti dall'odiosa pratica dei repartos,che consisteva nel costringere i membri delle comunità originariead acquistare merci da "venditori istituzionali" appositamenteinviati presso di loro. Gli hacendados esigevano che i comunariosindebitati lavorassero le loro terre per salari scandalosamentebassi, fino all'improbabile estinzione del debito. Furono queste leorigini della piaga del peonaggio.Per riassumere, come effetto delle strategie che miravano ainglobare i territori e le comunità autoctone nella fitta trama direlazioni politiche ed economiche esistenti tra colonia emadrepatria, in seno alla società indigena vennero a formarsialcuni tipi sociali inediti (il curaca imprenditore commerciale,l'indio salariato rurale o inurbato, il peón) che, pur mantenendotalvolta i diritti e gli obblighi consuetudinari all'interno dellecomunità d'origine, erano di fatto proiettati verso una dimensionedi vita e di pensiero già pienamente europea, vittime e insiemeveicolo di processi acculturativi che determinarono col tempoquella mutazione genetica dell'ayllu-comunità cui accennavonella premessa di questo saggio.Alla fine del XVIII secolo, poi, cadde anche quella finzioneformale che rendeva le autorità tradizionali locali compartecipidell'amministrazione coloniale. Creoli e meticci cominciarono adappropriarsi delle più importanti cariche dei cabildos, cosicchémolti pueblos indios si trasformarono in comunità ibride abitateda piccoli e medi agricoltori, ormai prive di qualsiasi vincoloparentale e solidaristico fra membri comuni e autorità11.Inoltre, a seguito del susseguirsi di ribellioni di indigeni dirette dacapi che, presentandosi come epigoni delle dinastie aristocraticheinca, rivendicavano il riconoscimento effettivo del loro potere, glispagnoli sospesero i titoli e le funzioni dei curaca disponendo cheda quel momento in avanti le genealogie aristocratiche inca, vereo presunte, dovessero essere sottoposte all'approvazione del re diSpagna.Nello sconforto di questo quadro complessivo, molti ayllu delleterre alte riuscirono comunque a mantenere sostanzialmenteintatta la loro struttura tradizionale, non subendo l'assalto deglihacendados avidi di terra e riuscendo ad adempiere gli obblighiistituzionali della mit'a e del tributo senza alterare i sistemi diorganizzazione sociale e produttiva consuetudinari. Questecomunità sfuggirono al meticciamento e finirono col costituire, alivello pratico e simbolico, i nuclei di resistenza della societàindia al colonialismo e neocolonialismo di età moderna econtemporanea.

Lo stato boliviano contro l'ayllu aymara

L'indipendenza della Bolivia non favorì il riscatto sociale,economico e culturale delle popolazioni indigene, tutt'altro. Inuovi governanti appartenenti all'élite creola optarono condecisione per una politica progressista, imperniata sui tre cardinidella proprietà privata, del libero mercato e della stratificazione

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della società in classi integrate entro una struttura produttivanazionale. Questo intendimento di fondo si tradusse in unsupporto istituzionale all'hacienda, che si voleva orientataall'agricoltura commerciale, con la creazione di un sistema socio-economico fondato sull'alleanza clientelare fra i latifondisti e lostato.Il caposaldo di questa politica agraria fu la Ley de Exvinculacióndel 1874, che imponeva che le terre comunitarie fossero suddivisein parcelle a proprietà individuale. Una volta stabiliti i titoli diproprietà, nessun gruppo di persone si sarebbe più potutocostituire in ayllu o comunità né presentare reclami in questaveste davanti ad alcuna autorità. Per garantire l'applicazione dellalegge furono istituite delle ispezioni catastali con l'obiettivo dideterminare i confini dei lotti di terreno e attribuire i relativi titolidi proprietà. Il risultato fu che le terre comunali ispezionatefinirono in gran parte nelle mani dei latifondisti creoli. Il processo di privatizzazione si protrasse negli anni, senza potermai essere portato a compimento per la pervicace resistenza dellapopolazione aymara, che organizzò centinaia di rivolte, scioperi,occupazioni delle terre comunitarie espropriate. Negli anni '20 del Novecento la Bolivia conobbe un forte sviluppoindustriale e un parallelo crescente fenomeno di urbanizzazione.Nelle zone rurali l'espansione senza freno della grande proprietàprivata comportò la progressiva erosione delle basi materiali disussistenza delle comunità aymara, inducendo la loro sempremaggiore dipendenza dai mercati urbani. L'integrazione dellecomunità all'interno dei circuiti economici nazionali significò laloro sostanziale trasformazione in collettività di contadini, con lariproduzione di schemi socio-economici tipici dell'Europamoderna. Inoltre la politica delle exvinculaciones, benché mai portatacompletamente a termine, ottenne di liberare manodoperacontadina da impiegare nel nascente comparto industriale (specieestrattivo) e nelle haciendas a vocazione capitalistica delle terrebasse del paese. Queste sono le basi di quel cruciale fenomeno diproletarizzazione degli indigeni che si manifestò con evidenzanegli anni successivi.Nel complesso, si stava verificando il tentativo, sapientementeorchestrato dai governi e dall'oligarchia economica creola (e, inun secondo tempo, anche meticcia), di trasformare una categoriaetnica in una classe sociale subordinata agli interessi del capitalenazionale ed estero. In questa congiuntura, nel paese furono introdotte le idee marxistee socialiste e le sollevazioni aymara assunsero sempre piùobiettivi rivendicativi, strutture organizzative e forme di lottaaffini a quelli del sindacalismo europeo. Allo stesso tempo siconfigurava la saldatura fra i settori rurali più modernizzati e lanuova classe di indios inurbati, uniti sotto il comune obiettivo didifendere gli interessi dei ceti svantaggiati anche in nome di unaspecifica identità culturale. Fu in questo contesto, infatti, cheiniziò ad avere presa, a cominciare dagli indios istruiti, il richiamoal passato incaico, sottoposto a una idealizzazione mitica che lotrasfigurava in una sorta di età dell'oro antitetica rispetto all'epocacoloniale e repubblicana.

Sulla base di questa nuova ideologia, insieme classista ed etnica,dopo la guerra del Chaco (1932-1935) sorse un forte movimentosindacale urbano di operai, minatori e artigiani che mirava acollegarsi al tradizionale movimento indigeno per larivendicazione delle terre.Con il passare del tempo, la componente ideologica che esaltaval'appartenenza di classe piuttosto che quella etnica prese ilsopravvento, anche perché il risentimento degli indigeni fucanalizzato entro la lotta politica e sindacale dall'affermarsi dinuove organizzazioni di matrice chiaramente non autoctona, qualiad esempio il Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR),movimento populista egemonizzato dai ceti medi, il PartidoObrero Revolucionario (POR), di tendenza trotskista, e la CentralObrera Boliviana (COB), il più grande sindacato operaio.Il sindacato si radicò poco alla volta anche nelle campagne e moltiayllu, di fatto, si conformarono alla nuova organizzazione,strutturandosi come sue unità di base. Le stesse autorità assunseroi titoli e le mansioni di dirigenti sindacali (ad esempio il curaca sitrasformò in "segretario generale")12, pur continuando a esercitarele cariche nel rispetto dei principi tradizionali e secondo ilconsueto schema di incarichi civico-religiosi.Anche la riforma agraria che fu approvata nel 1953 sotto lapresidenza di Paz Estenssoro, pur disponendo l'espropriazione deilatifondi, la restituzione alle comunità delle terre usurpate el'abolizione dei servizi personali gratuiti nei possedimentipadronali, non era pensata come strumento per valorizzare lestrutture socio-economiche tradizionali e i saperi autoctoniancestrali. Certo, veniva rifiutata la "via latifondista" alcapitalismo, ma l'obiettivo dell'incentivazione di un'agricolturaorientata al mercato veniva ribadito. Il modello di produzione chesi intendeva privilegiare era quello della piccola proprietàmeticcia, che avrebbe potuto stare al passo con il mercato in virtùdella progressiva tecnologizzazione dei processi produttivi edell'introduzione di nuove forme di sinergia fra contadini, adesempio le cooperative agricole. Queste direttive di ordineeconomico si coniugavano, a livello politico, con una strategiafinalizzata a consegnare la guida degli ayllu nelle mani delladirigenza sindacale creola-meticcia.Nel complesso il governo rivoluzionario perseguì la costruzionedi uno stato progressita, nazionalista, an-etnico e interclassista.Questa "politica dell'ibridazione", funzionale all'interesse dei cetimedi, trovò un'esemplificazione paradigmatica nella decisionegovernativa di abrogare, in riferimento ai lavoratori rurali aymara,l'uso della qualifica etnica di "indio" o "indígena", sostituendolacon quella, anodina, di "campesino".Nel 1964, il golpe di Barrientos inaugurò un'epoca di governimilitari che restrinsero ancora di più, se possibile, l'autonomiadelle comunità rurali, imbrigliandole, mediante il Patto Militare-Campesino, in una struttura clientelare che impediva loroqualunque rappresentanza al di fuori di quella fittizia delpresidente della repubblica, autoproclamatosi leader unico eindiscusso del contadinato. Questo fu lo sconcertante esito didieci anni e più di politiche corporativiste e assimilazioniste.

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Dai kataristi alla Bolivia di Morales

Nel cuore del Novecento all'interno della popolazione aymara eraandata sempre più delineandosi una diversificazione culturale,con la formazione di una intellighenzia di origine rurale compostada studenti, maestri di scuola e professori, ricercatori etnografici,funzionari di organizzazioni pubbliche e private dedite allapromozione agricola. Costoro, pur mantenendo i legami con lecomunità di origine, risiedevano in prevalenza in città, a strettocontatto con gli indios inurbati, che ormai esprimevano unasubcultura e delle aspirazioni politiche, sociali ed economiche bendifferenziate da quelle del contadinato indigeno.Il livello di istruzione raggiunto permise a questi intellettuali dielaborare un discorso rivendicativo che mirava a superare lasubordinazione ideologica a cui erano stati ridotti gli aymara,munendoli di una piattaforma politica propria. Allo stesso tempoil particolare pensiero che andavano sviluppando era condizionatodalla loro posizione di mediatori fra i due distinti mondi indigeni,quello rurale, molto più consistente, e quello urbano, minoritarioma più avvezzo alle pratiche della lotta politica.Furono questi i presupposti per la nascita, negli anni Settanta, delmovimento katarista e di numerose altre organizzazioni indianisteradicali, in seno a cui prese forma una retorica rivoluzionaria daiconnotati insieme etnici e classisti. Il grande fervore teorico diquegli anni si smorzò in breve tempo senza riuscire a incidere, acausa della sua autoreferenzialità, sui reali meccanismi dioppressione dei popoli indigeni. Tuttavia ebbe il merito dipreparare il campo alla riscoperta e ricostruzione di un'identitàindigena comune, trasversale agli aymara di qualunque cetosociale. Il seme gettato dai kataristi e dagli indianisti radicali fu raccoltonel decennio successivo dal Taller de Historia Oral Andina(THOA), fondato nel 1983 da alcuni intellettuali indigeni con ilproposito di vagliare le fonti disponibili e altre inedite al fine discrivere la storia india e proporla come fondamento per unarinnovata rivendicazione identitaria. L'investigazione del THOAsi concentrò sugli anni 1860-1950, periodo caratterizzato dallaresistenza degli aymara al tentativo dell'oligarchia creola emeticcia di disintegrare la loro organizzazione sociale, politica edeconomica tradizionale.La circolazione dei testi prodotti dal THOA fu inizialmentelimitata all'ambito accademico ma, per non ripetere l'errore deiteorici kataristi, si decise di volgarizzarli e diffonderli tra tutta lapopolazione nella forma di drammi a puntate trasmessi attraversole radio in lingua aymara. La storia scritta dal THOA assunse cosìla portata di una vera e propria epopea indigena, con tanto di sagadi eroi ed eroine nazionali. Soprattutto funse da cernieraideologica tra indios rurali e urbani, che si scoprirono eredi di unatradizione di resistenza comune nella quale potevano ritrovarel'esempio di una lotta condotta in quanto aymara contro icolonizzatori creoli. La ricostruzione delle vicende che avevanoopposto i loro antenati allo stato boliviano in anni non remotimetteva in luce che i presupposti dello scontro erano ancoraattuali, che le parti in causa e le poste in gioco non erano

cambiate, che al centro della contesa permaneva l'annosaquestione del possesso delle terre comunitarie e della persistenzadi tradizioni e istituzioni specificamente indigene in uno statomonopolizzato da forme di organizzazione e poteri non autoctoni.Il nucleo della rinnovata consapevolezza identitaria non potevache essere l'ayllu, l'istituzione totale dei popoli andini, e la lottaper l'emancipazione aymara non poteva che passare attraverso lasua valorizzazione come "ritorno al proprio". Queste sono le origini del "Movimento di ricostituzionedell'ayllu", al quale prendono tuttora parte quelle comunitàindigene che, sottrattesi all'egemonia del sindacato agrario, hannoristabilito le forme organizzative dell'ayllu originario (o suppostotale) e si sono unite sotto autorità comuni nella prospettiva di unarifondazione del Qollasuyu13.Frattanto, all'alba del nuovo millennio, in opposizione al semprepiù spregiudicato imporsi delle politiche neoliberiste, in Boliviasono sorti molteplici movimenti sociali popolari e indigeni che,attraverso strategie di resistenza quotidiana ed eclatantisollevazioni di massa, hanno conseguito significativi successipolitici: dall'accantonamento del piano Banzer per l'eradicazioneforzata della coca dal Chapare, al ritiro dal paese dellamultinazionale Aguas del Tunari aggiudicataria di un progetto perla fornitura dell'acqua alla città di Cochabamba, al rovesciamentodel governo filostatunitense di Gonzalo Sánchez de Losada reo divoler svendere il gas boliviano alla California.Si tratta di movimenti distinti, nati spontaneamente per ottenereobiettivi ben definiti mediante azioni di lotta condotte su scalalocale e di durata limitata, ma capaci di organizzarsi in rete perconseguire scopi comuni. Il proliferare di simili movimenti socialiha trasformato la Bolivia in un tassello di spazi di conflitto didiversa ampiezza ed entità, specie tra indigeni ed élite di poterebianco-meticce da una parte e tra indigeni e stato dall'altra. Tutte le mobilitazioni degli ultimi anni sono state accompagnatedall'esibizione di un corredo simbolico di carattere prettamenteetnico: dalla wiphala multicolore del Qollasuyu, ai ponchosrosso-verdi, agli awayus, ai pututus, alla foglia di coca,all'evocazione di eroi ed eroine della resistenza indigena. Questisimboli sono diventati veicolo di un nuovo protagonismo sociale,sorto in una congiuntura che ha visto la caduta di tutti i precedentischemi ideologici di riferimento, il ridefinirsi delle divisioni diclasse e ceto, il subentrare di potentati economico-finanziariassoluti che, supportati da istituzioni internazionali fittiziamentesuper partes, sono stati in grado di condizionare a loro piacimentole politiche degli stati rendendoli apparati di potere avulsi dalleproblematiche e dagli interessi dei cittadini e dei territori.L'emergere di queste strutture voraci, operanti al di fuori di ognicontrollo e senza alcun obiettivo al di là del proprio tornaconto,ha portato, specie nelle tante periferie del mondo globalizzato, aun feroce attacco all'identità e alla dignità di interi gruppi umani.In Bolivia la reazione dal basso a questo stato di cose ha assuntoil carattere di rivolta di un popolo che ha riaffermato un'identitàdapprima rinnegata, quindi riscoperta e incubata da un ristrettogruppo di intellettuali, infine compartecipata ed esibita da unnuovo soggetto politico di massa.

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Alla fine del 2005 la pressione dei movimenti sociali è approdataall'elezione alla presidenza della Bolivia di Evo Morales Ayma,leader del movimento cocalero del Chapare, esponente di puntadel partito nato come ideale prolungamento di quell'esperienza dilotta sociale nelle sedi istituzionali (il MAS, Movimiento alSocialismo), nonché aymara originario di un ayllu della provinciadi Oruro.Evo Morales ha inaugurato un nuovo corso politico, contrastandocon forza le sperequazioni socio-economiche, lo sfruttamentodelle risorse nazionali da parte delle multinazionali, l'ingerenzadelle lobby di potere interne ed esterne, la corruzioneistituzionale. La sua azione di governo si è da subito caratterizzataper un inedito mix di riformismo statalista e richiamo ai valoritradizionali andini, il tutto nell'ottica di un radicale rinnovamentodello stato. Il progetto di rifondazione è culminato nella stesura diuna nuova carta costituzionale, in attesa di essere sottoposta areferendum popolare confermativo, che ridefinisce la Boliviacome "Stato Unitario Sociale di Diritto PlurinazionaleComunitario". Questa dicitura condensa il proposito di garantire,entro il quadro dell'unità statale, il riconoscimento delle tantecomponenti etniche del paese e di porre al centro degli interessidel governo il ben-vivere della collettività. Nella nuovacostituzione non viene fatto alcun riferimento diretto agli ayllu,ma viene prevista la formazione di "entità territoriali indigenecampesine autonome", libere di organizzarsi secondo le proprie

consuetudini politiche, giuridiche ed economiche e titolari deldiritto esclusivo di attingere alle risorse naturali rinnovabili delterritorio di pertinenza. Inoltre le istituzioni tradizionali vengonoincorporate nella struttura generale dello stato e le comunitàindigene acquisiscono il diritto ad essere consultate ogniqualvoltasi discutano provvedimenti legislativi o amministrativi che leriguardano. L'organizzazione economica comunitaria vienericonosciuta e tutelata dallo stato, così come la proprietà collettivadella terra, che è dichiarata indivisibile e non soggetta a imposte. La nuova costituzione dà adito a forti interventi di redistribuzionedelle terre, proibendo il latifondo14 e disponendo l'attribuzionedelle terre fiscali alle comunità che non ne abbiano a sufficienza.Il cammino di rinnovamento è ancora erto e pieno di insidie,specie per l'opposizione dell'élite bianca e meticcia dell'Est delpaese, che ha promosso un referendum per l'autonomia regionalee si è già mostrata pronta a sabotare con ogni mezzo il processodi riforma costituzionale. Se, alla fine, la rifondazione del paesegiungerà a compimento, il movimento degli ayllu potrà senz'altrobeneficiare dei principi stabiliti dalla nuova carta, purché siadisposto ad accantonare una volta per tutte le velleità diricostituzione del Qollasuyu.

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Note

1. Senza entrare nel dettaglio, rilevo che all'interno dell'ayllu sono ben documentate pratiche di trasmissione di beni per viamatrilineare. Inoltre l'endogamia al livello della comunità convive con un'esogamia al livello dei lignaggi che compongono l'ayllu.2. Sono grato a Carlos Mamani e a Jorge Alberto Montoya Maquín, che con i loro suggerimenti e le loro analisi (cfr. bibliografia) mihanno permesso di compiere questo tentativo di considerazione dell'ayllu in una prospettiva emica.3. Uso qui i termini "vivente" e "non vivente" per amor di chiarezza ma in modo improprio, dato che questa distinzione non è pertinenteper i popoli originari, che attribuiscono un qualche empito vitale a tutto ciò che si trova in natura.4. Prima che i comunarios, in epoca coloniale, venissero coinvolti negli scambi monetari, ogni unità familiare deteneva il possessoassoluto e inalienabile della sayaña, degli attrezzi essenziali per i lavori agricoli e artigianali, di un esiguo numero di capi di bestiame,degli indumenti necessari per vestire i propri componenti. Solo limitatamente a questi possessi si può parlare, se proprio lo si vuole,di una forma effettiva di "proprietà privata", benché dal punto di vista simbolico-ideologico neppure questa comparazione sia corretta.5. La distinzione tra jilaqata e mallku non è perspicua. Ho trovato questo secondo termine (che significa "condor") usato talvolta comeepiteto del jilaqata stesso, talvolta per designare una ulteriore carica di grado gerarchico superiore (laddove più ayllu si trovino unitiin una marka, talvolta per identificare la condizione di colui che, compiuto l'intero percorso di incarichi comunali, vienesimbolicamente incorporato nel panteon degli antenati. Verosimilmente l'uso dei termini varia da una zona all'altra delle Ande. Nelprosieguo della trattazione sarà il contesto a rendere chiaro il senso in cui utilizzo il termine "mallku".6. In casi non sporadici queste nuove figure introdotte dagli spagnoli si sovrapposero semplicemente alle autorità preesistenti, che difatto mantennero la loro preminenza all'interno delle comunità modificando le loro competenze e i loro titoli. Lo stesso avvenne perle nuove figure che si aggiunsero dopo che i creoli ottennero l'indipendenza dalla Corona spagnola e, in Bolivia, dopo lasindacalizzazione forzata delle comunità nella seconda metà del XX secolo. Nel corso della trattazione avrò modo di ritornare sullaquestione.7. Lo stesso mallku, d'altronde, viene concepito come persona solo in unione alla t'alla, la sua sposa.8. Il sistema di avvicendamento delle colture si basa sulla suddivisione della superficie agricola di pertinenza dell'ayllu in una certaquantità di aynuqa, che dipende dal numero di colture praticate e dal numero di anni di riposo ritenuti necessari per il recupero della

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fertilità. Ad esempio, se in un ayllu si coltivano orzo, patate e coca e gli anni di riposo sono tre, le aynuqa saranno in numero di sei,tre delle quali tenute alternativamente a maggese. Ciascuna aynuqa è poi suddivisa in tante qallpas quante sono le unità familiari.9. Il jilaqata, oltre a dirigere i riti comunitari di reciprocità rivolti alla Pacha Mama e agli antenati, assolve i doveri tipici di un'autoritàpolitica: organizza i turni di lavoro nelle terre comunali, avalla e controlla la regolarità degli eventuali scambi di terra o di altri benitra comunarios, raccoglie le loro contribuzioni, assegna i diritti di eredità, sana i conflitti tra membri delle famiglie o tra unità familiari,amministra la giustizia, rappresenta la propria comunità all'esterno ecc.10. Va comunque ricordato che, nonostante le pressioni contrarie di corregidores, encomenderos e hacendados, esistono molte provedella persistenza degli arcipelaghi durante i secoli della colonia e, più oltre, fino ai giorni nostri. 11. L'usurpazione delle cariche politiche tradizionalmente prerogativa dei curaca indigeni fu una delle cause delle grandi sollevazioniche si ebbero in tutto il Qollasuyu negli anni 1780-1783 sotto la guida di Tomás Katari, Tupaj Amaru II e Tupaj Katari. Questa seriedi rivolte costituisce tuttora un punto di riferimento ideale per le rivendicazioni delle nazioni originarie quechua e aymara.12. A volte "segretario generale" fu il nuovo titolo assunto dal jilaqata in sostituzione o in aggiunta a quello tradizionale; altre volte lacarica del jilaqata si conservò, ma con un ruolo subordinato rispetto al segretario generale.13. Nel 1997 gli ayllu delle zone tradizionali e quelli ricostituiti hanno formato il Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qollasuyu(CONAMAQ), organizzazione rappresentativa degli ayllu della Bolivia che persegue la restituzione dei diritti collettivi alle comunità,il riconoscimento ufficiale delle nazioni indigene (suyu) e la formazione di un governo distinto da quello statale sotto l'egida di autoritànominate autonomamente.14. L'articolo 398, relativo alla proibizione del latifondo, è l'unico sul quale l'assemblea costituente non ha raggiunto la maggioranzaqualificata dei due terzi. Gli elettori saranno chiamati a un referendum per stabilire se la superficie massima consentita debba esseredi cinque o diecimila ettari.

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Questo dossier è l’esito di un seminario promosso dai dottorandidell’università di Perugia nel quadro delle attività dell’ AEDE(Dottorato europeo in etnologia e antropologia). Il dottorato èstato istituito due anni fa per iniziativa dell’Università di Perugiae coinvolge le università di Parigi X, ULB di Bruxelles e l’SNPEA di Bucarest. Docenti e allievi del dottorato appartengonodunque a quattro diverse università che mettono utilmente aconfronto idee ed esperienze e con un esito più problematicoanche quattro diverse burocrazie e legislazioni.Sulla difficoltà di conciliare burocrazie e legislazioni si potrebbedire molto e il dottorato stesso potrebbe costituire uno strumentoe un oggetto di ricerca antropologica comparativa sulle istituzioniuniversitarie. Ma questa non è l’occasione giusta per interveniresul tema rispetto al quale al momento possiamo contare soltantosu impressioni ed esperienze oltre alle numerose suggestioni cheil numero di Achab dedicato all’università fornisce (cfr.AchabVII).Il tema a cui si legano in vario modo gli articoli di questo numero,il movimento come pratica di vita ha tuttavia a che fare anch’ essocon la natura di questo dottorato, che tra i suoi fini istituzionalicontempla anche la circolazione di docenti e allievi tra leuniversità. Un tema familiare in quanto metafora della vitacontemporanea in generale e più in particolare in quanto praticadi vita degli autori, vicino all’esperienza ma che, modulato inrelazione ai rispettivi terreni di ricerca e osservatocomparativamente assume dimensioni caleidoscopiche capaci diprodurre quel distanziamento utile a vedere ciò che una eccessivaprossimità al contrario nasconde. Il tema ha evidentemente anchealtri ancoraggi in primo luogo ai temi di ricerca specifici diciascuno da un lato e dall’altro, laddove questo riferimento non ècosì stringente, alla prospettiva della ricerca antropologicacontemporanea che tende a collocarsi nel flusso del cambiamentopiuttosto che negarlo come in passato. Per tutte queste ragioni e in ognuno forse con una diversaangolatura è diventato il tema del seminario dottorale intorno acui si sono raccolti gli allievi perugini nei tempi “vuoti” o “liberi”dalla loro “circolazione” universitaria e nei loro rispettivi campi.Proprio lo spostamento che ha toccato il loro tempo in modo

differenziale li ha sollecitati a trovare un momento comune diriflessione, un seminario come direbbe de Certeau in cuisperimentare una procedura di “uscita e di rientro” ma anche unluogo di investimento personale, amicale, cooperativo, unamodalità per costituire un “noi”. I testi che sono qui presentati siesercitano sul tema con tagli differenti e differenti livelli diapprofondimento etnografico e teorico, con la stessa“provvisorietà” che li ha fatti oggetto del seminario e che licaratterizza per essere anche momenti di un lavoro di ricerca in progress. Il tema è modulato rispetto a differenti ambiti e a diversi soggetti:vengono toccati i temi della migrazione per trovare lavoro, quellidel turismo e dunque dello spostamento volontario e temporaneo,non determinato da ragioni di sopravvivenza ma piuttosto daparticolari stili di vita e di consumo. Lo spazio è dilatato e mettein crisi le tradizionali distinzioni tra campagna e città, dove siconcentrano le grandi masse di popolazione che si sonourbanizzate negli ultimi decenni, che tuttavia da quelle siallontanano con sempre maggiore frequenza per mete, lontane oculturali, dando luogo a nuove forme di produzione della località.Non c’è la pretesa di delineare quadri di riferimento generali sulmondo contemporaneo e sul senso dei flussi che lo caratterizza,una tematica sfuggente che non a caso ha dato luogo ad unaaggettivazione della modernità come fluida, liquida, in polvere,che mentre pone l’accento sul movimento, l’incertezza, lamancanza di confini ben descrive anche la difficoltà acomprenderla e ancor più a dirigerla e controllarla.Piuttosto, al centro sono le pratiche di soggetti e di gruppi messein relazione con le molteplici influenze a cui sono esposti, letrasformazioni e le contraddizioni che il loro movimento producein loro stessi, nel loro contesto relazionale più stretto, negli spazifisici ma anche in quelli politici e istituzionali più in generale. Edunque anche le chiusure, i conflitti, le ostilità che cercano didelimitarli e controllarli, e che appaiono l’altra faccia di unaglobalizzazione che mentre sollecita il movimento crea anchebarriere, esclusioni e nuove gerarchie.

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Presentazionedi Cristina Papa

DossierIl movimento come pratica di vita

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Creato nel 1804, per volere dell'allora prefetto della SennaFrochot, sulla collina di Charonne, all'epoca ancora terrenoagricolo ad est di Parigi, il Cimetière de l'Est (più comunementechiamato Cimetière du Père-Lachaise - dal nome del padregesuita François d'Aix de la Chaize, confessore di Luigi XIV, cheabitò a lungo quel terreno assai prima che venisse destinato anecropoli) è oggi interamente inserito nel tessuto urbano dellacapitale francese. Di più, è a tutti gli effetti considerato il piùgrande spazio verde della cosiddetta Parigi "intra-muros",ovverosia la parte centrale della metropoli, quella delimitata dallenumerose "portes" spesso capolinea di differenti linee del Métro(Porte Dauphine, Porte de Lilas, Porte d'Orléans,…) egraficamente rintracciabile con una certa approssimazione comecompresa all'interno del grande raccordo stradale che la circondadenominato "Périphérique". Si tratta in sostanza della Parigi chetutti noi riconosciamo, quella rappresentata in mappe, depliant ecarte stradali, al di là della quale si estende la banlieue, lasterminata periferia.Ingrandito in fasi successive nel corso dei secoli, il Père-Lachaisecopre attualmente una superficie di circa 44 ettari (pressappocol'identica dimensione della Città del Vaticano all'interno diRoma), interamente compresa, a livello amministrativo,all'interno del XXéme arrondissement, di cui rappresenta dunqueuna porzione considerevole. Inoltre, e questo è un dato sul qualeè necessario porre una certa attenzione, con i circa due milioni divisitatori che ogni anno vi si recano, rappresenta il principalecentro d'interesse turistico dell'arrondissement nonché, assiemealla Place de la Bastille ed al più recente Parc de la Villette,dell'intera area orientale di Parigi. E' utile qui ricordare che si sta parlando, in termini di ricezioneturistica, di quello che comunque resta essenzialmente, perstatuto, utilizzo e gestione dello spazio, un cimitero, un luogo incui vengono interrati o cremati i defunti si potrebbe dire "a pienoregime" (si calcolano circa 900 inumazioni e 5000 cremazioniall'anno)1.Non è questa la sede in cui intendo trattare della complessitàsimbolica e della molteplicità di dinamiche sociali, religiose2,economiche che si sovrappongono in relazione a questo luogo,trattandosi questo dell'oggetto specifico e ben più complesso dellatesi di dottorato cui sto attualmente lavorando. In queste paginecercherò di illustrare come, partendo dall'analisi di spunti diriflessione proposti da alcuni osservatori particolari, dai lavori dei

pochissimi antropologi che si siano avvicinati con interesse alPère-Lachaise3 e dall'osservazione diretta sul terreno, si possaaffrontare in maniera articolata e polivalente, in riferimento adesso, il tema centrale del "movimento", comune denominatore atutti gli articoli presenti in questo dossier.Muoversi attorno ad un luogo, attraverso di esso, dirigervisi opiuttosto evitarlo costantemente e di proposito. Frequentarlo incerti giorni, a determinate ore, o solo in particolari condizionimeteorologiche o climatiche; farlo quanto più possibile dinascosto o invece cercando in ogni modo di farsi notare. Tutto ciòriconduce essenzialmente alla presa di coscienza dell'esistenza diun dato luogo, al rapporto individuale ed unico che ciascunointrattiene, più o meno consciamente, con esso. Questo muoversidentro, fuori, attorno ad un dato spazio, è la misura dellaconsapevolezza che ogni persona ha che esso esiste (non importaquanto soggettiva, approssimativa, parziale essa sia - rispetto acosa poi, ad una qualche definizione "ufficiale" dello stesso?) e sitrova là, e della relazione che con esso viene intessuta.Il cimitero del Père-Lachaise, proprio per la sua conformazione eposizione geografica all'interno di Parigi, ma anche per la suastoria, la sua funzione pratica ed in numerosi input che da essopartono verso differenti gruppi di ricezione, è uno di quei luoghiad altissimo impatto nella percezione comune. In questo senso siintegra bene nella definizione che Marc Augé propone - conl'intento di poter poi costruire, in antitesi, la celebre nozione dinonluogo - di "luogo antropologico", al tempo stesso identitario,relazionale e storico. Addirittura sembra quasi, in virtù dellamolteplicità di riferimenti - spesso esclusivi - che esso produce edel complesso di relazioni che in rapporto a tale spazio vengonoa crearsi, superare tale definizione o comunque richiedere unulteriore sforzo interpretativo che provi a definirne la sfaccettatarealtà, senza tuttavia perdere di vista la funzione originaria eprincipale, quella di essere un cimitero, con tutte le conseguenzepratiche, culturali e di rapporto ad esso che ciò comporta. E qui siritorna all'unicità, si potrebbe dire all'esemplarità di questo luogo,come nucleo centrale di un'elaborazione teorica ad esso riferita.Ed è nella continua tensione tra il suo essere per creazione edutilizzo necropoli, con prerogative e dinamiche comuni a migliaiadi altre, e le numerose specificità che la rendono invece cosìmeritevole di attenzione, che si crea e può venir compreso ilvalore (così come la magia) di questo spazio eccezionale.Tornando - per non allontanarmi troppo dal tema centrale di

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Père-Lachaise: “il cimitero vivente”di Michelangelo Giampaoli

dossier

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questo articolo - alla riflessione su come un luogo sia definitoanche in base alla percezione che se ne ha e ne viene data adifferenti livelli, il Père-Lachaise, in quanto parte di un complessotessuto urbano e poiché raffigurabile (e spessissimo raffigurato) inmappe o carte topografiche, una sua "dimensione ufficiale" l'haavuta da sempre. E' stato ufficialmente creato e denominato"Cimetière de l'Est" nel 1804, anche se fin da subito vennechiamato dai parigini "le cimetière du Père-Lachaise". Nel corsodel tempo è stato più volte ingrandito, misurato e quindiinteramente cinto da un imponente muro, interrotto solo da cinquedifferenti ingressi oggi costantemente sorvegliati. E' stato ripartitoin divisioni (novantasette, compreso il complesso delCrématorium-Colombarium, la Conservation e le aree destinate adeposito) a loro volta separate l'una dall'altra da numeroseAvenues o Chemins, o solcate al proprio interno dal altricamminamenti più piccoli e tortuosi. Mentre le Divisioni sonosemplicemente numerate in maniera progressiva da uno anovantasette, ciascuna di queste vie che attraversano la necropoliha una propria denominazione ufficiale (Avenue de la chapelle,Avenue Carette, Chemin Denon…) con tanto di targhe edindicazioni ad ogni estremità od incrocio; la scelta del toponimoè in genere dovuta alla tomba di qualche illustre personaggio sitain quella particolare area della necropoli o alla collocazione delcammino all'interno del perimetro del cimitero. Tale ripartizione edenominazione pubblica del luogo sono poi quelle che siritrovano al momento della "presentazione ufficiale" del cimitero,per lo più in occasione di celebrazioni o del ripristino di aree inabbandono, o ad uso e consumo dei numerosi turisti, attraversocarte pieghevoli, stampe, diffusione tramite internet4 e viadicendo. Parleremo più avanti del se e quanto questatoponomastica ufficiale sia conosciuta ed utilizzata da chifrequenta questo luogo più o meno abitualmente, od invece restisolo confinata alla forma scritta ed a rare occasioni pubbliche.Il flusso turistico, che abbiamo già rilevato essere più checonsiderevole a livello quantitativo e, aggiungiamo qui, ripartitoin maniera pressoché omogenea durante tutto l'anno (con unacerta prevalenza nei mesi più caldi e in occasione di particolarifestività), è certamente l'aspetto che più di tutti rende "unica"questa necropoli rispetto a pressoché qualsiasi altro luogo inEuropa avente le stesse funzioni5, e contribuisce a movimentarnela già di per sé complessa quotidianità. E' con tale flusso e con la sua onnipresenza (intesa comefenomeno di massa, l'esperienza è molto spesso breve, mirata etalvolta unica nella vita per il singolo visitatore) durante tuttol'arco di ciascuna giornata, ad eccezione forse delle primissimeore del mattino o dei giorni particolarmente piovosi, che devonoconfrontarsi coloro per i quali invece il Père-Lachaise, le suemura, i camminamenti, le tombe o cappelle, gli alberi e cespuglirappresentano parte integrante del contesto urbano e socialeall'interno del quale sono soliti muoversi ed intessere relazioni. Aquesto proposito un passo tratto da un libro che lo scrittorefrancese Michel Dansel ha dedicato al Père-Lachaise dipinge unquadro che, meglio forse di qualunque altra descrizione, credopossa rendere un'idea del quotidiano sovrapporsi di queste due

differenti categorie di persone. Va però specificato che la seconda,quella riferibile agli habitués del luogo, è assai complessa ediversificata al suo interno, come vedremo più avanti.Il testo che segue è un buon punto di partenza per la visita,immaginaria, che le pagine di questo articolo vogliono proporre,in maniera necessariamente veloce, della grande ed affascinantenecropoli parigina.Bisogna specificare che il libro cui ci si riferisce è apparso nel1976 e che dunque i trent'anni che lo separano dall'attualità vannotenuti in considerazione, pur se la situazione nell'insieme nonrisulta oggi modificata in maniera tale da rendere le righe cheseguono obsolete o prive di valore.

Si distinguono facilmente questi villeggianti profani dagli iniziati,a partire dalle rispettive andature: i primi fanno riferimento amappe sottoposte all'arbitrarietà più turistica: il loro itinerariopassa sempre per Balzac, Edith Piaf, Chopin, Musset… e,curiosamente, mai per Apollinaire, Gérerd de Nerval, Modigliani,Francis Poulenc o Daumier. Attraversano il Père-Lachaise apasso di carica per non omettere di andare a salutare quel talemorto celebre presente nel loro universo culturale. Generalmente,temendo di perdersi, preferiscono prendere i viali principali.I secondi, gli iniziati, sono lungi dal mostrare lo stesso tipo diatteggiamento. Tra di essi sono da annoverare i discepoli di AllanKardec, di Gaëtan Leymarie, di Delanne (le autorità incontestatedello spiritismo), i fedeli del celebre Papus - il dottor Encausse -, gli ornitologi, i convalescenti, gli eruditi, i vagabondi dellavoluttà, i "guardoni" e maniaci di ogni sorta, i pensionati cheancora possono beneficiare di un po' di tempo, ai quali siaggiunge una folta compagnia, dalle donne incinte fino allegiovani mamme intente a sferruzzare, accompagnate dai loromarmocchi cui esse offrono clorofilla arricchita. (…) Degli efebidai pantaloni fin troppo attillati si lasciano volentieri seguire darispettabili signori (…) …dei ragazzetti del liceo Voltaire virubano la verginità di qualche compagna, probabilmenteignorando che dei fini conoscitori assistono si loro svaghi. (…)Amanti clandestini. (…) Poi ci sono gli esibizionisti patentati;(…) I pomeriggi dei giorni lavorativi, un gran numero di signoreben vestite, dalla piacevole conversazione, vengono adammazzare il tempo al Père-Lachaise.6

Di certo un panorama quantomeno eterogeneo e particolare peruna necropoli, descritto certo con toni enfatici volti a stupire escioccare il lettore7, ma non per questo così lontano dalla realtàdei fatti e da ciò che qualunque visitatore, specialmente seaccorto, non possa ancor oggi vedere o almeno percepire.Alcune considerazioni vanno comunque fatte, a complemento edarricchimento di quanto scritto da Dansel; soprattutto perché, perdiverse ragioni, dal suo lungo elenco sono escluse almeno tre altrecategorie di persone che invece oggi, come nel passato recente,costituiscono parte integrante e in certi casi fin troppo invasivadella quotidianità di questo luogo. In primis mi riferisco alle visiteguidate del cimitero condotte da "guide ufficiali" della Mairie e,stando alle notizie reperibili in diversi settimanali di informazione

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(ad esempio "Pariscope"), da almeno tre diverse guide "semi-ufficiali" - sarebbe meglio dire più o meno conosciute e tolleratedal personale del cimitero - ciascuna delle quali presentaovviamente se stessa come la migliore, la più preparata, l'unica ingrado di rivelare tutti i segreti che questo luogo nasconde, edunque in conflitto più o meno velato con le altre. E' interessantenotare a tal proposito, ed in relazione al tema centrale delmovimento all'interno di questo spazio ed in rapporto ad esso,come il percorso di ciascuna di queste visite guidate semi-ufficiali(condotte regolarmente ogni week-end, ad eccezione dei mesi piùfreddi dell'anno) sia studiato, e lo spazio della necropoli ripartitoin "zone" fin dalla scelta del luogo di ritrovo con i visitatori. Tuttee tre, ad esempio, organizzano una visita guidata intorno alle ore14:30; talvolta queste visite sono effettuate in giorni differenti ma,per sicurezza, il rendez-vous con i clienti viene fissato da ciascunadelle guide presso una ben precisa fermata della metro tra quelleche si trovano rispettivamente a tre dei quattro angoli delperimetro del cimitero, ben distanti l'una dall'altra: Gambetta,Père-Lachaise e Philippe Auguste. Lì ciascuno effettua una sortadi biglietto il cui prezzo standard è 10 euro, rilasciando unaricevuta (come quella rilasciatami in una di queste occasioni erecante la dicitura Bertrand Beyern - Nécrosophe…) ed una voltaall'interno della necropoli si può essere certi che ben difficilmentei differenti gruppi di turisti in visita guidata incontreranno i loroomologhi a seguito di un'altra guida, così che ciascuna possarassicurarli che solo lei è in grado di presentare nella maniera piùcompleta, in oltre due ore di visita, questo luogo così ricco dianeddoti, leggende, sepolcri di immortali. I percorsi sono poispesso stabiliti per seguire un comune denominatore che leghi ledifferenti tappe della visita e non includa così in un'unica voltatutte le tombe più celebri (il che sarebbe, va aggiunto, quasiimpossibile). Così, ad esempio la stessa persona può partecipareuna volta al tour "humour noir au Père-Lachaise" e vedere soloalcune tombe o luoghi particolari, tornando a distanza di un po' ditempo per seguire magari la visita alle "célébrités du Père-Lachaise", oppure scoprire "le Père-Lachaise érotique - safarinécropolisson" e così via… "Julien Potel ha parlato della morte da vedere e da vendere" ciricorda in una delle sue opere più conosciute l'antropologofrancese Louis V. Thomas…8.Un' altra categoria di visitatori che potremmo definire "tipici" delPère-Lachaise, ed anche in questo caso il forte legamecomunemente percepito tra essi e questo luogo è dovuto al loronumero elevato e costante come categoria (mentre per il singolopuò trattarsi, come già accennato, di un' esperienza assai rara opersino unica nella vita), è quella dei fans di Jim Morrison, ilcelebre cantante dei Doors morto a Parigi nel 1971 e sepoltoall'interno della 6a divisione. Neppure essi sono menzionati nelbrano sopra riportato, ma l'autore ne dà comunque contoall'interno del suo lavoro, soprattutto rimarcandone i trattinegativi. Più in generale, chiunque si presenti come esperto,appassionato, frequentatore abituale, difensore del Père-Lachaise,finirà inevitabilmente per parlarvi tristemente ed in manierapiuttosto severa dell'invasione "selvaggia" e "maleducata" che,

ormai da oltre trentacinque anni, questo luogo consacrato devesopportare ad opera dei "barbari" fanatici di Morrison9.Per molti di loro infatti il grande cimitero è solo un luogo daattraversare, per recarsi a rendere omaggio alla tomba del grandepoeta e cantante. Dato che la tomba, di per sé piuttosto piccola esemplice, si trova in una delle aree più belle ma anche piùimpervie e scomode del cimitero, sovrastata e nascosta alla vistada alberi, cespugli e numerose tombe di maggiori dimensioni,arrivarvi non è sempre facile né immediato; c'è dunque chiapprofitta della passeggiata, stando alle critiche più spesso mosse,per prendere qua o là da altre tombe fiori, piante, oggetti daportare poi in dono sulla tomba di Jim. Altri, più attenti, possonoaddirittura scorgere scritte od incise sui muri di molte tombe, inpratica in tutto il cimitero, frecce indicanti la direzione da seguireper arrivare alla tomba di Morrison, talvolta accompagnate anchedalla distanza approssimativa in metri e quasi sempre dal nome"Jim" (Foto 1 e 2) ; è questa l'opera di fans passati prima di loro iquali, altruisticamente, vogliono evitare ai neofiti di perdersi a

loro volta fra gli innumerevoli sentieri dell'enorme cimitero. Al dilà di ogni lecita considerazione sul carattere vandalico di taliiscrizioni, questa "segnaletica morrissoniana" assolutamente nonlegata a quella ufficiale (e probabilmente inconsapevole edisinteressata alla stessa) rappresenta comunque una forma diappropriazione e scoperta di questo luogo assai particolare e dicerto interessante, assieme ad altri aspetti legati a tale fenomeno. In merito al tema specifico qui trattato del movimento in rapportoa questo spazio, la tomba stessa di Jim Morrison e le immediatevicinanze rappresentano da anni uno dei centri nevralgici delPére-Lachaise e di certo il luogo che più di tutti ha causato e causaancora preoccupazione nelle autorità preposte al controllo, cosìcome in molti frequentatori abituali. Ad oggi è probabilmentel'unica tomba al mondo di privato cittadino sita all'interno di in unpubblico cimitero che necessiti di essere sorvegliata nell'arcodell'intera giornata, fino alla chiusura dei cancelli, da almeno unaguardia di sicurezza; il 3 luglio, anniversario della morte del

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Foto 1 - Indicazioni "fai da te" per raggiungere la tomba di Jim Morrison

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cantante, le guardie impiegate possono essere anche una decina.Negli ultimi anni un'area di circa 30 metri quadrati intorno allatomba, comprendente necessariamente altre tombe contigue, èstata transennata ed interdetta all'accesso, il che non impedisceperò che la tomba continui ad essere costantemente coperta difiori, piante, candele, bottiglie di vino o birra, sigarette, accendini,bigliettini ed oggetti di ogni sorta. Come una volta mi ha detto unadelle guardie, "basta che uno si volti un attimo…".Tutto ciò è dovuto al fatto che, per decenni, l'area attorno allatomba di Morrison, nel cuore del Père-Lachaise, sia stata uno dei

più rinomati centri di spaccio di droga dell'est di Parigi, nonchéluogo di improvvisati concerti e piccoli o grandi party con decinee decine di partecipanti da tutto il mondo, scene ed atmosferedegne più di una Woodstock che di una necropoli monumentale.A contorno di tutto ciò, pressoché tutti i muri di cappelle nellevicinanze erano coperti di scritte (oggi a fatica rimosse e talvoltaancora visibili) ed incisioni recanti messaggi per il cantante, testidelle sue poesie e canzoni o semplicemente il nome dell'autore delgraffito, la data e l'origine. Assieme alla foto di rito davanti allatomba è questo lo strumento principale per far sapere e poterdimostrare, ai propri amici come a chiunque passi, di "essere statilì", aver visitato quel luogo così particolare, e far parte della"Doors family", dell'elite dei fans della rock band americana e diJim Morrison in particolare. A detta di molti, il flusso di visitatoriè andato man mano diminuendo negli ultimi anni, e le occasionidi sregolatezza e disturbo della quiete ridotte al minimo dallacostante sorveglianza del luogo; resta il fatto che ancora oggi sononumerosissime le persone che da ogni parte del mondo si recanosu questa tomba, di certo uno dei "biglietti da visita" più popolaridel Père-Lachaise.Ma un certo tipo di devozione popolare non è esclusivamenteappannaggio della rock star americana; come già rilevato nelpasso tratto dal testo di Michel Dansel, la tomba di Allan Kardeced in misura minore quelle di altre illustri personalità dellospiritismo sono a loro volta visitate regolarmente da centinaia dipersone (l'osservazione diretta ha rivelato che per la maggior

parte si tratta di donne). Della tomba di Kardec si dicecomunemente che sia la più fiorita del cimitero10. In ogni casoanche coloro che si recano in maniera più o meno costante sullatomba del padre dello spiritismo non possono essere annoveraticome semplici turisti o visitatori del Père-Lachaise, con i qualiintrattengono piuttosto un rapporto di costante fastidio e reciprocadiffidenza. Se infatti coloro che si recano presso la tomba perpoter toccare il busto in bronzo del maestro e quindi poter entrarein contatto con i defunti - questa è la credenza più diffusa etuttavia smentita ufficialmente dall' "Union Spirite Française etFrancophone" - necessiterebbero di quanta più possibile quiete ediscrezione, ciò risulta essere pressoché impossibile. La tomba diAllan Kardec si trova infatti lungo uno dei viali principali dellaparte più moderna del cimitero, all'angolo della 44a divisione, nonlontano dalle tombe di Marcel Proust, Apollinaire o Delacroix,costantemente oggetto di interesse per la maggior parte dei turisti.La tomba stessa di Kardec, ben evidenziata in ogni mappa o cartadel cimitero, è sovente presa d'assalto da visitatori armati dimacchina fotografica o videocamera ansiosi di immortalare nonsolo l'imponente dolmen che sormonta il busto del pensatore, mapossibilmente anche qualche devoto fedele nell'atto diraccogliersi in preghiera appoggiato alla statua. E' evidente comel'incontro tra questi due flussi di persone, differenti per aspetto,motivazione, sicurezza nel conoscere e percorrere il luogo, nonpossa che avvenire a partire da aspettative differenti e talvoltainevitabilmente conflittuali. Sarebbe tuttavia ingenuo nonsottolineare almeno di sfuggita in queste pagine, come siaprobabilmente ben chiaro a molti degli stessi seguaci di Kardecche recarsi al Père-Lachaise alle tre o alle quattro del pomeriggio(piuttosto che alle otto del mattino) equivalga all'impossibilità ditrovare il luogo deserto od almeno poco frequentato, ed al tempostesso dia loro la certezza di avere un folto "pubblico" di personecui palesare la propria devozione per il maestro e l'intensità delleproprie preghiere.La terza categoria di habitués del grande cimitero che merita diessere menzionata con particolare interesse è quella che,prendendo in prestito il termine utilizzato dall'antropologo YvesDelaporte11 in un saggio di etnozoologia urbana, chiameremo"Chatomanes", la cui traduzione italiana forse più correttasemanticamente è quella di "gattare" - pur se, come vedremo, conriferimento al Père-Lachaise tale termine deve tenere conto anchedi uomini dediti a tale attività (alcuni dei quali provvedono anchea nutrire i numerosi corvi che hanno eletto il grande cimitero apropria dimora e che sembrano accettare di buon grado taliattenzioni, mantenendo tuttavia una certa diffidenza verso gliumani). Pur se il Père-Lachaise non è l'unica area verde della capitale adessere popolata da una nutrita colonia di gatti semi-addomesticatie visitata regolarmente da persone auto-elettesi custodi dei felinistessi (il cimitero di Montmartre presenta, ad esempio, unasituazione assai simile, seppur in scala ridotta), tale fenomenomerita di essere qui approfondito soprattutto in relazione alrapporto che queste persone instaurano al tempo stesso fra di loro,con i gatti e con il cimitero in quanto spazio percorribile.

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Foto 2 - Indicazioni "fai da te" per raggiungere la tomba di Jim Morrison

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…Gattare, conosciute dalle centinaia di gatti che trovano asiloall'interno del cimitero (…) Esse si dividono la necropoli insettori...12

Per chi abbia l'occasione di percorrere il cimitero evitando i vialiprincipali, ma piuttosto addentrandosi negli stretti sentieri cheserpeggiano tra una cappella e l'altra, tra una stele ed un foltocespuglio, non sarà difficile scorgere, di tanto in tanto, scatole dicartone imbottite di coperte collocate all'interno di cappelle inrovina o tazze di latte fresco lasciate in luoghi riparati. E' ciò chefanno queste "chatomanes" perprovvedere ai "loro" felini. Sullabase di numerose testimonianze sipuò affermare che la collocazioneed il mantenimento di tali rifugiper i gatti, così come il modo incui vengono nutriti, non è frutto,oggi ed ormai da moltissimotempo, dell'arbitrio e dell'iniziativadi un singolo. Piuttosto, è evidentecome vi sia una consapevoleripartizione dello spazio e deltempo da parte di un gruppostrutturato e numericamenteimportante di persone, il cui scopoprincipale, in una giornata tipo, siaprovvedere che i gatti del Père-Lachaise abbiano tutto ciò di cuisembrano dover disporre.Si tratta per lo più di donne, ma visono anche alcuni uomini in etàpensionabile, che hanno imparatose non a conoscersi comunque ariconoscersi l'un altro, asuddividersi il grande cimitero inaree di competenza, a conoscereperfettamente il tipo di cibo checiascuno porterà con sé ed a qualeorario, e dunque a regolarsi diconseguenza in modo da esseresempre "complementari" gli uniagli altri, nell'interesse superioredei gatti.

"Qui metto giusto un po' di patè, solo per farli pazientare, c'è ilsignor M. che deve passare nel pomeriggio" (…) "C'è un signoreche fa il quadrato di Allan Kardec, non so come si chiami" (…) Ilcibo è distribuito sul posto ai gatti che accorrono, ciò che avanzaviene ripartito all'interno delle cappelle che fungono da tane. Unpercorso dura, a seconda dei casi, da una a tre ore, ed è costellatoda una mezza dozzina fino ad una trentina di soste13.

Ecco dunque un'altra categoria di persone per le quali il continuo

flusso turistico che anima il cimitero non può che costituire unfastidio, ed essere fonte di preoccupazione per il loro rapporto coni gatti i quali, magari infastiditi da altre persone, potrebbero nonavvicinarsi più con facilità neppure a loro. Tuttavia, sia i gatti chei loro benefattori, evitano costantemente le aree più frequentatedai visitatori, preferendo incontrarsi presso tombe più riparate, inzone lontane dai percorsi "abituali" delle visite guidate o dei flussipiù imponenti di persone (dirette verso la tomba di Morrison,quella di Edith Piaf, il Mur des Fédérés, ecc.).C'è però un tratto che accomuna, certo inconsapevolmente, lediverse tipologie di frequentatori più o meno assidui del Père-

Lachaise finora menzionate. Piùnello specifico si può rilevarecome il processo di conoscenza edappropriazione di questo luogo chepressoché ciascuno fa, sia nellamaggior parte dei casi marcatodalla totale noncuranza per ladenominazione e la segnaleticaufficiale dello stesso. E' rarissimoinfatti che all'interno del cimitero,nel corso di una visita, di unapasseggiata, dando o chiedendoun'indicazione, o anche dal difuori, parlando della necropolistessa nel corso di unaconversazione (che non sia, comegià detto, un discorso "ufficiale",una cerimonia solenne e viadicendo) vengano utilizzati qualipunti di riferimento i toponimiufficiali, i nomi propri deglichemins o delle avenues, talvoltala stessa numerazione progressivadelle divisioni.

Ma le tombe sono molto spessorintracciate sulla base dei nomi dicoloro che vi riposano… (…) Si va"da Balzac" o "presso Chopin", cisi ritrova "dietro dove sta Colette"oppure si sale "fino da Neveu" e siridiscende "da Casimir (Perier)"…

(…) L'aspetto che più colpisce di questa toponomastica, giàrilevato da C. Pétonnet (1982), è la totale ignoranza dei nomi deisentieri14.

Un' "ignoranza" che, ripetiamo, non è propria solo dei turisti dipassaggio o dei visitatori più distratti, ma anche e soprattutto dicoloro che del Père-Lachaise hanno fatto un luogo difrequentazione abituale. In questo luogo più che di ignoranza insenso lato si può parlare di non utilizzo, talvolta anche didisinteresse, in genere di una conoscenza della toponomasticaufficiale che tuttavia non ne implica l'utilizzo nel quotidiano. La

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Foto 3 - In raccoglimento sulla tomba di Allan Kardec

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stessa Colette Pétonnet, citata nel passo precedente da Delaportequale primo esempio di antropologo ad aver riportato taleinteressante fenomeno in riferimento al Père-Lachaise, è ancorapiù chiara nel passo che segue:I nomi dei sentieri non servono a niente. Del cimitero esse hannoun'altra conoscenza: "Siete salita fino ai Marescialli? Li avete visti ifinocchi? Quando portano una chiave appesa, questo significa chesono liberi. C'è molto verde lassù e grandi cappelle tutte praticamenteabbandonate…- Ne sapete di cose! - Lo si è appreso con il tempo,venendo qui. Anche voi, vedrete! Se vi prende il pallino"15.

Tra le molteplici possibilità e forme di rapportarsi a questo luogocui abbiamo accennato, e le differenti tipologie (per classe d'età,sesso, provenienza, frequenza delle visite) di persone che possonoriconoscersi in ciascuna delle categorie riportate nelle pagineprecedenti, un tratto comune che può emergere nel rapporto con ilPèrè-Lachaise - oltre all'utilizzo dello stesso come spazio in cuimuoversi ed intessere relazioni - è proprio questa "familiarità"diffusa nel ricostruirne la geografia. Tale familiarità sembra essere originata da quella cheintimamente, si potrebbe dire "inevitabilmente", in molti casi sisente di avere verso numerose personalità e vedettes sepolteall'interno della necropoli. Le tombe di Chopin, di Balzac, diGioacchino Rossini o di Oscar Wilde, così come decine di altre,divengono tanto agevolmente punti di riferimento geografici etermini correnti nell'orientamento all'interno del Père-Lachaiseperché prima di tutto queste figure sono punti di riferimentoculturali per la maggior parte di coloro che vi entrano. E se épossibile che diverse persone non conoscano alcuna delle opere diWilde o delle composizioni di Chopin, é altrettanto vero chequesti nomi risultano ben più familiari, orecchiabili, altisonanti ericchi di potenziali significati che non nomi ufficiali qualipossono essere "Avenue Transversale n° 2" o "Avenue Carette".Chiunque potrà chiedere, ad una persona incontrata per casolungo gli oltre cento chilometri di viali e sentieri che solcano ilcimitero, come si faccia ad arrivare "da Edith Piaf" o "da Proust",magari semplicemente pronunciando il nome qualora non siconosca la lingua dell'interlocutore: un'occhiata alla mappa sequesti é un turista, rapidi gesti o sicure spiegazioni se si tratta diun frequentatore abituale del luogo (e perché no la possibilità diesservi accompagnato di persona, occasione per entrambi diintessere nuove relazioni umane, concluse magari nell'arco di una

passeggiata) e non sarà difficile raggiungere la propria mèta.Ecco dunque che quella lontananza, quella diffidenza di fondo,quell'incomunicabilità in termini di sensazioni ed aspettative, checosì tanto distinguono il semplice turista dal discepolo di AllanKardec, la gattara dall'adolescente fan di Jim Morrison, in unospazio comunque ridotto e delimitato da alte mura quale è,nonostante tutto, la più grande necropoli parigina, in alcuneoccasioni sembrano quasi smussarsi e perdere vigore. Talvoltaesse possono cedere il posto alla curiosità reciproca, alladisponibilità, alla voglia di saperne un po' di più su chi altro siaggiri per questo luogo che dunque risulta, nonostante la suafunzione precipua, così vitale. Tutto ciò all'ombra dei secolarialberi del Pére Lachaise, delle grandi statue e colonne, dei nomiimmortali, dei recessi più nascosti che ancora oggi attirano nelcimitero centinaia di "iniziati" ed oltre due milioni di turisti ognianno.In conclusione si può constatare, riprendendo il discorsoaccennato nelle prime pagine del presente articolo, quantol'unicità di questo luogo e la molteplicità di relazioni che siproducono all'interno ed in rapporto ad esso, siano necessarie efunzionali l'una all'altra, e per questo inscindibili a livello diriflessione teorica. Il Père-Lachaise, con la sua storia, il suoposizionamento all'interno del tessuto urbano parigino, il suofascino scolpito nella pietra e nella memoria collettiva non solofrancese, la rilevanza simbolica che ne fa un luogo unico edinconfondibile è, come si è visto, fonte di continua attrazione pernumerosissime persone, che vi si recano da ogni dove e per imotivi più disparati, in alcuni casi totalmente indifferenti al fattoche esso sia una necropoli. Al tempo stesso è proprio questavastità e diversità di percezioni, utilizzi, comportamenti relativi aquesto luogo, il suo essere contenitore - anche in senso fisico - ditante differenti produzioni culturali e religiose, che contribuisce arinforzarne l'eccezionalità di cui si parlava, a renderlo complessoed affascinante come nessun altro luogo simile al mondo. Sempreche vi siano luoghi simili, e non soltanto spazi geografici limitatiche condividano con esso alcune funzioni specifiche, senza peròche ad esse si aggiungano quelle condizioni di eccezionalità chelo rendono non solo e non più un cimitero, seppur monumentale,ma "semplicemente" il Père-Lachaise.

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Note

1. Cfr. CHARLET C.: Le Père Lachaise - Au cœur du Paris des vivants et des morts, 2003, Découvertes Gallimard, Paris, p.119.2. Il Père-Lachaise è, in pratica dalla sua creazione, un cimitero "laico" per eccellenza. Ancor più oggi che sono scomparsi gli antichimuri divisori che separavano ad esempio il settore ebraico o l'enclos mussulmano dal resto della necropoli. 3. "Le cimetière du Père-Lachaise présente la particularité d'abriter un grand nombre de personnages célèbres: Il est régulièrementvisité par les touristes: Pour toutes ces raisons il n'entrait pas dans nos préoccupations". PÉTONNET C.: L'observation flottante.L'exemple d'un cimetière parisien. In L'Homme 22 (4), 1982, Ed. EHESS, Paris, p. 39.

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Bibliografia

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4. A questo proposito vale la pena menzionare in questa sede almeno le due principali pagine web relative al Père Lachaise. Si trattadi quella contenuta all'interno del sito della Mairie del XX arrondissement (www.mairie20.paris.fr) ed ancor più del sito ufficiale,sicuramente ben strutturato, che consente di compiere una vera e propria visita guidata virtuale del cimitero (www.pere-lachaise.com).E' possibile dunque, in un certo qual modo, "muoversi" all'interno del Père-Lachaise e scoprire buona parte della sua conformazionegeografica e storico-artistica, pur restando seduti di fronte al proprio pc, magari a casa propria in Australia come in Canada.5. Si potrebbe ad esempio proporre un parallelo con il cimitero monumentale di Staglieno a Genova; oppure con il piccolo cimitero diSăpânţa, vera attrazione della regione di Maramures (Romania) con le sue celebri croci dipinte in blu ad opera dello scultore Ion StanPatras. In questo caso bisogna tenere però presenti le enormi differenze a livello di dimensione, contesto, struttura del luogo, numerodi visitatori.6. DANSEL M.: Au Père Lachaise - Son histoire, ses secrets, ses promenades. 1976, Fayard, Paris, pp. 31-33. La traduzione dalfrancese del testo, così come quelle che seguiranno, è ad opera dell'autore del presente articolo.7. I temi qui accennati senza troppi giri di parole riguardo l'utilizzo di questo luogo per incontri clandestini (oggi soprattutto ad operadi omosessuali maschi) o per cerimonie di tipo esoterico, emergono in moltissime conversazioni informali con riferimento al Père-Lachaise. 8. THOMAS L. V.: Morte e potere, 2006 (prima ed. 1978), Ed. Lindau, Torino, p. 79.9. La stessa Mairie del XX arrondissement, nella pagina web dedicata al Père-Lachaise, pur nell'insieme di una presentazioneaccattivante volta a presentare nel modo migliore al pubblico la propria principale attrazione, si sofferma in maniera assai dura suquesto aspetto.10. L'unica tomba che forse potrebbe rivaleggiare in questa particolare "sfida" è quella del compositore Frédéric Chopin, costantementevisitata da innumerevoli turisti ogni giorno, mèta obbligata di ogni visita guidata del cimitero e soprattutto punto di riferimento idealeper la nutrita comunità polacca residente a Parigi e dintorni.11. DELAPORTE Y.: Les chats du Père Lachaise. Contribution à l'ethnozoologie urbaine. In Terrain 10, 1988, CID, Paris, pp. 37-50.12. DANSEL M.: Op. cit., p. 39.13. DELAPORTE Y.: Op.cit. pp. 40-41.14. DELAPORTE Y.: Op. cit. pp. 48-49.15. PÉTONNET C.: Op. cit. p. 43.

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Sono arrivata a Montepulciano nel maggio del 2005 grazie ad uncorso di formazione promosso dalla Provincia di Perugia efinalizzato alla costruzione di una nuova professionalità: la guidaenoturistica. Abbiamo organizzato una gita, esperienza formativadiretta alla conoscenza di un territorio ben pianificato, almeno daquando il Movimento Turismo Vino si è posto l'obiettivo ditrasformare l'enoturismo in consumo di massa.Siamo arrivati come turisti, con il pulmino e con due ciceronid'eccellenza: la moglie di uno dei produttori locali e ungiornalista, cresciuto tra le cronache sportive e prestatoall'enogastronomia per diletto, figura chiave tra i docenti cheavrebbero fatto di noi delle guide capaci di proporre un nuovo tipodi offerta. Durante il corso abbiamo parlato spesso dei prodottiagroalimentari, della qualità, del legame con il territorio, dellaloro capacità evocativa. Il nostro compito, una volta completato l'iter di formazione,avrebbe dovuto essere quello di costruire percorsi turistici pensaticome esperienze corporee e sensoriali. Avremmo dovutoraccontare il 'territorio' e la sua storia attraverso il viaggio nelleaziende, risvegliare la memoria dei turisti attraverso ladegustazione del vino e dei piatti tipici, stimolare l'acquisto deiprodotti vendendoli quasi come talismani, dotati di efficaciasimbolica nella costruzione di un modello di vita desiderabile eautentico. I tre momenti individuati costituiscono gli elementi fondanti delturismo enogastronomico inteso come consumo di tempo liberoed esperienza, e sono al tempo stesso le fasi essenziali dei tour edegli eventi1 organizzati a livello locale dagli attori sociali eistituzionali preposti a tale compito, come per esempio la Stradadel vino, le APT e la Provincia e che qui verranno analizzati nelcontesto del comune di Montepulciano.L'orizzonte di riferimento della costruzione del turismoenogastronomico tuttavia è più ampio: il ruolo e le azioni deisoggetti privati e delle istituzioni locali si inseriscono nel quadrodelle politiche europee e si collocano ai vari livelli di definizione

delle leggi e dei regolamenti applicativi. Esemplificativa in talsenso la Strada del vino, associazione locale che accoglie soggettipubblici e privati, che si caratterizza per il coinvolgimento di tuttele attività economiche che fanno riferimento al vino e trasformanoil territorio in risorsa fruibile sottoforma di turismo.Visto in quest'ottica il turismo enogastronomico si collocanell'orizzonte europeo di rilancio dell'agricoltura, all'interno di unprocesso di patrimonializzazione delle produzioni alimentari e delpaesaggio (Papa 2004). Il fenomeno, che è una delle espressioniconcrete della definizione di agricoltura multifunzionale, implicaal tempo stesso il rilancio turistico del vecchio continente e lacostruzione di mercati alimentari integrati con le altre attivitàproduttive del territorio.

Oggetti in movimento

L'obiettivo primario di questo lavoro è l'analisi nell'enoturismodell'immaginario come pratica sociale (Appadurai 1996)attraverso gli 'oggetti' in movimento nei tre momenti chiavedell'offerta enoturistica - viaggio, degustazione e acquisto. Ilviaggio sottintende lo spostamento delle persone, ovvero lacircolazione dei corpi nel territorio (Simonicca 2004). Ladegustazione comporta uno spostamento da fuori a dentro delcibo, un atto alimentare che implica l'incorporazione e attraversodi esso la diffusione dei valori che l'immagine del prodottoveicola (Fischler 1990). Infine l'acquisto rimanda allacircolazione dei prodotti, cui è affidato un compito che litrascende: far circolare il 'territorio', ovvero l'insieme dei benipatrimoniali e inalienabili (Papa 1999, 2002; Papa-Piermattei2004) che ne aumentano il valore aggiunto.Per quanto riguarda l'analisi dei flussi di persone ho isolato alcunieventi e, al loro interno, ho cercato di individuare i circuiti dicircolazione delle persone attraverso la partecipazione diretta aitour e l'osservazione dello spazio cittadino. I valori relativi al cibo

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Corpo, cibo e immagineNuove merci e significati simbolici nel turismo enogastronomico

a Montepulciano (SI)

di Alessia Fiorillo

…il consumo nel mondo contemporaneo è spesso una forma di asservimento, parte del processo capitalistadi civilizzazione. Però dove c'è consumo c'è piacere, e dove c'è piacere c'è azione.

La libertà d'altra parte è un bene più sfuggente.

Arjun Appadurai, Modernità in polvere

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veicolati nella degustazione sono analizzati a partire dalleimmagini pubblicitarie e dal complesso tessuto iconograficopresente nei depliant, nelle brochure delle aziende e nellemodalità di presentazione degli alimenti all'intero di alcuni eventipromozionali. La circolazione dei prodotti, agroalimentari eturistici, è stata studiata focalizzando l'attenzione sullatrasformazione del prodotto in immagine, ovvero in 'oggettovirtuale' ricco di valore aggiunto e capace di creare flussi didesideri e denaro. Ho cercato di analizzare tutti e tre gli 'oggetti in movimento' in unorizzonte globale e nella tensione con la realtà locale. Le personeche circolano nel territorio sono per il 50% turisti stranieri, mastranieri sono anche molti di coloro che oggi lavorano quellastessa terra in cui nascono i "prodotti tipici locali"; l'attoalimentare rimanda ad un sistema di esperienze e di valori chespostano nel tempo e nello spazio l'immaginario del consumatore;la circolazione materiale dei prodotti che, nei tour e negli eventi èlocale, rimanda ad una organizzazione internazionale del mercato.Lo stesso processo di rilancio economico della zona, non puòprescindere da un processo di costruzione di un orizzonte europeoin rapporto dialettico con i processi locali e regionali didefinizione dell'identità. Questa relazione tra località e globalitàsi evidenzia già nella stessa definizione del prodotto tipico, la cuicomplessa realtà è in qualche modo emblema delle contraddizionidella modernità (Papa 2002, p. 161).

La circolazione dei corpi

Montepulciano è in posizione strategica tra Siena e Pienza, lavisita della città segue la fama del suo centro storico e dei suoipalazzi d'arte. Vino e prodotti agroalimentari sembranoaccompagnare il viaggio: una volta raggiunta la piazza èimpossibile non imbattersi nelle cantine monumentali di PalazzoRicci o nelle Cantine Contucci. Piazza Grande, spazio dirappresentanza politica ed ecclesiastica, di scambio e di mercato,arena in cui si fronteggiano da sempre i poteri che governano lacittà, è ancora oggi il luogo dove il paese mette in scena se stessoe si mostra ai viaggiatori.L'arrivo dei turisti segue cicli stabili di anno in anno, da novembrea marzo regnano silenzio e pioggia, con aprile ritornano i primituristi stranieri e le gite scolastiche, in agosto gli italiani invacanza si uniscono ai visitatori stranieri nella scoperta dei centricittadini. Fin dagli anni '70 le retoriche di promozione della zonadecantano, oltre ai beni artistici e architettonici, le bellezze delpaesaggio e la sapiente produzione di un vino aristocratico edelegante. Dagli anni '90 la Comunità Europea, con la formulazione delconcetto di agricoltura multifunzionale, ha costruito un percorsolegislativo che incentiva la trasformazione delle aziende agrarie,favorendo l'inserimento delle produzioni alimentari di qualità inpercorsi turistici strutturati: la creazione di "pacchetti"enogastronomici diventa così parte integrante della filiera dipromozione e vendita dei prodotti locali2.

I tour, organizzati dall'Associazione Strada del vino, sono veri epropri pacchetti: passeggiate che attraversano la città collegandol'arte al vino, e percorsi che attraversano la campagna circostanteper una visita alle attività produttive. Ma le opportunità offertesono molto più numerose: si possono visitare i 'set del cinema',accedere a piccoli corsi di cucina, incontrare le aziende lungo ipercorsi delle mountain bike. Il "pacchetto turistico" è concepitocome esperienza totale, incontro dialogico, narrazione molteplicee pluristratificata, vi trovano spazio la storia del territorio e gliantichi mestieri, l'arte e le cantine monumentali. La degustazioneè pensata come un atto di affiliazione, desiderato dai turisti eofferto come dono dalle aziende. L'acquisto è il controdono chelegittimamente le aziende si aspettano. La partecipazione ai tour rivela tuttavia delle disgiunture forti trapromesse e pratiche, tra offerta sulla carta e viaggio nel territorio:se è vero che il paesaggio stesso narra la storia del territorio aduno sguardo acculturato, è vero anche che il tour raramente sitrasforma in esperienza e incontro. La rotazione degli obblighiverso l'associazione determina quali aziende verranno visitate, ilproduttore non è sempre presente e non sempre l'offerta di ciboaccompagna la degustazione del vino. Il flusso turistico è internazionale, ma spesso la lingua è unabarriera difficile da superare e l'incontro si risolve in un'offertasilenziosa, che non ha nulla della convivialità che la tradizionevuole legata alla condivisione del cibo e delle bevande alcoliche.Se è innegabile lo sforzo di costruzione di un'offerta turistica'autentica e significativa', è tuttavia impossibile non accorgersiche spesso l'esperienza si trasforma in un viaggio nel territoriomolto simile all'osservazione distaccata che si può avere dalfinestrino di un treno3: il turista spesso affida alla guida anche lapropria curiosità e diventa spettatore passivo di un'incontro idealeche, nei fatti, non avviene. Lo scenario cambia completamente quando si passa alle feste delmese di agosto, dove il contrasto tra offerta turistica e convivialitàcittadina diventa evidente nel susseguirsi frenetico di eventi tantosimili da perdere la propria specificità. Si inizia con Rosso di Serae Calici di Stelle, eventi costruiti sull'offerta e la degustazione delvino, segue il Bruscello, prodotto della trasformazione del teatropopolare, e ancora Cantine in Piazza, fiera di settore in miniatura,per finire con il Bravìo delle Botti, ovvero la corsa delle botti concui, a partire dal 1972, si concludono le celebrazioni in onore diSan Giovanni Decollato, patrono della città. Durante i giorni di festeggiamento le Contrade allestiscono cucinee tavoli nelle sedi e nei giardini adiacenti, l'intero paese ècoinvolto nella gestione dell'offerta alimentare e non è raro vedereautorità pubbliche e personalità cittadine in cucina, mentreragazzi e bambini servono ai tavoli. Il vino, etichettato e non,accompagna ogni pasto, e i produttori aiutano a servire incontrada. I festeggiamenti tornano a riempire la piazza anche dinotte, conoscenze e amicizie si riformano attorno alla tavola,vengono organizzati giochi tradizionali e riffe, ma anche feste abase di sangria e musica brasiliana. La festa 'tradizionale', messain scena come corteo in costume e come rievocazione storica delconflitto tra famiglie cittadine, si arricchisce dei momenti di

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convivialità sentita e partecipata degli attori sociali e suggerisceanche alleanze e appartenenze politiche o economiche chemeritano un'etnografia approfondita.L'osservazione attenta degli eventi estivi ha mostrato lacompresenza di flussi e circuiti di persone che non si incrociano,esperienze diverse che convivono nello stesso spazio e nellostesso tempo senza incontrarsi. I turisti seguono le vie principali econsumano la messa in scena del corteo medievale (performanceche si colloca tra l'attrazione turistica e la conferma delle relazionitra poteri cittadini), mentre la festa che coinvolge la comunitàlocale si svolge nelle contrade. Mentre l'afflusso turistico si concentra nelle principali vie dellacittà, il paese si riunisce attorno alle cucine e prepara la settimanadell'orgia culinaria. Le contrade si sfidano all'interno di una'manifestazione pubblicitaria' accessibile a pochi: "A tavola con ilNobile". Vera e propria competizione in cui le sapienti mani dellecuoche locali si sfidano nella presentazione dei cibi proposti,creando disegni astratti e giochi di colori, oltre che di sapori. Unevento costruito intorno all'incontro tra produttori e giornalisti,che mostra come il cibo diventa arte culinaria di preparazione epresentazione, compiendo definitivamente la trasformazione delcibo in piacere, esperienza e sperimentazione. Piccoli gruppi, vere e proprie giurie, attraversano la città, passanodi contrada in contrada in una maratona alimentare arricchitadalla presenza di un testimonial di fama nazionale, cui, come inogni promozione che si rispetti, è affidato il compito di renderevisibile l'evento. La performance agita dagli attori locali -produttori, autorità cittadine, ma anche la popolazione locale -non si sottrae ad uno sguardo esterno, anzi lo sguardo el'ammirazione esterna filtrata dai media e dagli esperti dienogastronomia sono la sua finalità. Nella promozionedell'immagine, amplificata da riviste e televisioni, i produttoricollocano le loro merci in un mercato "selezionato" e rendonoappetibile il territorio attraverso un'offerta trasformata in prestigiosociale e qualità della vita. La costruzione di un circuito in cui viene messo in scena eutilizzato il capitale sociale delle élite economico-politiche diMontepulciano ha un duplice obiettivo esplicito: costruirecoesione attorno all'attività principale di valorizzazionedell'economia locale - la produzione vitivinicola per primaaccompagnata da quella agroalimentare e dalle attività ricettive -e promuovere il prodotto attraverso una campagna pubblicitariache è in sé esperienza élitaria, e che prelude all'esperienza delviaggiatore. L'evento mediatico favorisce nei consumatori lacostruzione di un immaginario locale relativo all'enogastronomiae propone una pratica sociale che è status symbol: la degustazionedella cucina tradizionale diventa così lo strumento di accesso aduna pratica considerata élitaria, e tuttavia largamente disponibilecome prodotto.

Incorporazione del cibo e circolazione dei valori

La costruzione di una cultura sempre più diffusa, che definisce

'oggetti di culto', regole di presentazione e assaggio, retoriche dinarrazione e linguaggi specifici colloca l'enogastronomianell'ambito della moda. L'ampia diffusione odierna della 'culturaenogastronomica' come moda può essere interpretata in varieprospettive: secondo la teoria proposta da Bourdieu (1979) sicolloca all'interno del processo di appropriazione di pratichesociali élitarie da parte dei ceti in ascesa, secondo la teoria diAppadurai (1996) si fonda sul bisogno di disciplina, ripetizione eabitudine proprio delle tecniche del corpo e che, nelle societàcomplesse, danno spazio e voce a pratiche edonistiche di piaceree consumo, che ormai hanno assunto una vera e propria 'forzadell'abitudine'. Ma quali sono i valori relativi al cibo che vengono veicolatiattraverso il turismo enogastronomico? Per rispondere a questadomanda ho analizzato le immagini pubblicitarie di alcuneaziende seguendo il suggerimento di Roland Barthes cheindividua nella pubblicità un fertile campo di studio dei valoriattribuiti al cibo nelle società complesse (1961). Arte, musica e letteratura fanno da sempre parte di un consumoélitario e rituale del cibo e delle bevande alcoliche.Montepulciano, 'perla del Cinquecento' e terra di nascita diAngelo Poliziano fonda la sua immagine aristocratica e coltasull'architettura e i personaggi letterari, la storia affonda le sueradici nel tempo degli etruschi e percorre i secoli attraverso losviluppo delle grandi fattorie nobiliari. Gli elementi che mostranola storia letteraria dei vini di Montepulciano ricorrono in tutte lebrochure che puntano sull'accostamento alla cultura 'alta', tuttaviala diversificazione delle aziende, che nasce alla fine degli anni '60con il crollo del sistema mezzadrile e che trova un'ulteriore spintadagli anni '90 in poi, rivaluta anche la forza attrattiva delpaesaggio e il sapiente lavoro della terra operato dai contadini. Con la costruzione del prodotto tipico certificato e l'enfasi postasui cibi naturali, il vino viene accostato ai piatti tipici locali in unprocesso che progressivamente estende il valore aggiunto ad altribeni come gli alimenti, il paesaggio e la natura, la cultura e latradizione, ma anche la popolazione locale e la sua capacità diaccoglienza, i saperi locali e l'artigianato. Tutti questi elementi,presenti nelle immagini aziendali, entrano a far parte dellacostruzione di un'identità locale e una tradizione che vengonoconsiderate un valore patrimoniale comune, strettamente legato alrispetto per l'ambiente e la natura, e che deve essere salvaguardato(Papa 2002, 2004; Papa-Piermattei 2004) al fine di garantiresalute e benessere proprio a partire dall'alimentazione. Una caratteristica diffusa delle immagini consiste in accostamentiche collocano la degustazione a livello di un'esperienza sensorialeche travalica la semplice ingestione degli alimenti, un livello checoinvolge tutti i sensi, come già sottolineano le retoriche degliassaggiatori professionali. Un'esperienza che rimanda al piaceredel mangiare, alla memoria dei pasti condivisi e all'emozione deimomenti vissuti intensamente. In questo gioco di accostamenti,capita anche di vedere il formaggio pecorino stagionato collocatoin un bicchiere di vetro da cocktail con tanto di fetta di arancia efragole, immagine che rimanda al contesto di un aperitivo, praticasociale di convivialità ormai uscita dalle élite dei ceti medio alti e

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diventata anch'essa consumo di massa, attribuita però alformaggio con un accostamento che suscita meraviglia e stupore.In realtà la giustapposizione di immagini che stravolgonol'abbinamento consueto dei sapori è un meccanismo di creazionedi valore aggiunto e di spostamento dell'alimentazione a livellodel piacere e dell'arte: arte nell'accostamento dei cibi, ma anchearte della presentazione. Se è nota la ricostruzione degli animalinella presentazione dei cibi durante i banchetti rinascimentali,anche l'enfasi sulla leggerezza e sulla capacità di mantenere ilgusto 'autentico' degli ingredienti, tipica delle retoriche e dellesperimentazioni culinarie attuali, si esprime attraversol'impiattamento.Ma il turismo enogastronomico non si è fermato alla costruzionedi un'esperienza sensoriale astratta ed altamente estetizzata; nelcaso dei 'pacchetti tematici' finalizzati alla sperimentazione delletecniche di assaggio, l'esperienza è anche apprendimento,attentamente condotto in lingua straniera dalla guida turistica odalla guida dell'azienda. Quando poi la conoscenza dei luoghi diproduzione prevede la preparazione di un pasto locale,l'accoglienza dello straniero si trasforma in performancestrutturata: alcune aziende, dotate di strutture ricettive, offronol'opportunità agli avventori di essere coinvolti nella preparazionedei pici, pasta tipica della zona. La cuoca, abile massaia di originecontadina oggi impiegata nella ristorazione, viene trasformata in'maestro di cerimonia' e alla fine del momento di 'apprendimentoludico' il gruppo degusta la creazione collettiva, per sedersi poi atavola a consumare la cena, premio all'impegno dimostrato edesperienza sensoriale autentica che viene trasmessa insieme algusto dei veri pici. Nel caso sopra descritto l'esperienza investe ilcorpo del turista non solo nella degustazione ma anchenell'apprendimento di un saper fare locale, concludendo con unavera e propria incorporazione dell'esperienza: la degustazione.Quale incontro si crea in questo set altamente formalizzato, chepermette di dimenticare la mercificazione dell'offerta, ma che haperso la forza del pasto inteso come accoglienza rituale dellostraniero? Che differenza c'è tra le danze balinesi o quelle degliindiani d'America, riproposte al turista al di fuori del ritooriginario, e l'abilità culinaria proposta al di fuori del ritoquotidiano del pasto? Quale affettività viene condivisa e qualimodelli di consumo vengono appresi? Quali valori vengonoattribuiti all'esperienza mercificata del pasto tradizionale? Non èforse un rito tutto occidentale di affiliazione del ceto medio adun'élite transnazionale che può permettersi di parlare di cibo comeesperienza sensoriale, arte ed esaltazione estrema del piaceresensuale?Domande a cui allo stato attuale del mio lavoro non è ancorapossibile rispondere, ma la loro stessa formulazione consente disottolineare la complessità della trama dei significati e dei pianicoinvolti. L'esperienza corporea trasformata in prodottoenoturistico svela una trasformazione più profonda, quella deivalori legati all'incorporazione del cibo e alla destrutturazionedella ritualità ad esso connessa. Se il viaggio nelle campagneitaliane, ricche di storia, è percepito da molti turisti come scopertae appropriazione di un tempo mitico in cui i contadini vivevano in

armonia con la natura e garantivano la qualità dei cibi coltivati,l'incorporazione di quello stesso cibo diventa segno e simbolodell'affrancamento da una condizione che nella realtà era tutt'altroche armonica e serena. Il percorso enoturistico alla ricerca dellecucine tradizionali sembra rivelare un'ideologica quantoinappagabile nostalgia nei confronti di un passato "genuino" cheviene ampiamente idealizzato allo scopo di sfuggire le angosce,non solo alimentari, del presente (Baronti 1999). La tradizionealimentare, proprio nel momento stesso in cui viene propostacome cardine di un rilancio economico, sociale e culturale, perdele sue connotazioni di tempo e di occasione che definivano anchela ricchezza dei valori attribuiti al cibo fondata sulla differenza,puntuale e vissuta, tra cibo quotidiano e cibo festivo, suisignificati religiosi che scandivano il calendario annuale, e cheoggi si perdono nella memoria di chi conosce le pratichetradizionali e un'arte dell'accostamento dei pochi alimenti e deisapori che la terra avaramente dava, e che oggi, con più o menoentusiasmo, costituiscono parte del tessuto su cui proliferano icuochi dell'alta cucina e i piccoli ristoranti, ovvero di una filieracaratterizzata prima di tutto da esigenze di profitto che hannostravolto i valori attribuiti al cibo.

La circolazione del prodotto

Il cibo è al tempo stesso bisogno, piacere e segno. Fino alla finedell'800 l'abbondanza o la scarsità degli alimenti segnavano ladistinzioni tra classi popolari e classi benestanti, con la nascitadell'industria alimentare, lo sviluppo dei trasporti, ilmiglioramento delle tecniche di lavorazione e conservazione delcibo, e infine con l'istituzionalizzazione della CEE e ladefinizione di politiche agrarie comunitarie l'Europa si affrancadalle carestie. Nella seconda metà del '900 l'Italia, di pari passocon l'industrializzazione del paese, porta a compimento ilprocesso di rivoluzione alimentare (Montanari 1993, Baronti1999). Da quel momento in poi sarà la qualità degli alimenti, e non laquantità, a segnare posizione sociale e appartenenza. […] Lalogica stessa della produzione industriale non poteva tenereescluse a lungo le classi inferiori dal godimento delle risorsealimentari. Per funzionare l'industria ha bisogno di consumatori,e dal momento in cui l'agricoltura comincia a modificare ilproprio statuto economico, trasformandosi da produttrice di ciboin fornitrice di materie prime all'industria alimentare,quest'ultima sollecita l'allargamento sociale del mercato deglialimenti (Montanari 1993, p. 192). Anche il vino viene investitodal processo di industrializzazione e la Toscana trova ancora unavolta la sua spinta economica nel Chianti del Castello di Brolio.Montepulciano, piccola zona vitivinicola, riesce ad avere ilproprio riconoscimento ed entra fra le prime DOC. Nelleimmagini d'archivio le retoriche su bellezze artistiche e paesaggiogià si ancorano alla tradizione vitivinicola4 e la cucina regionaleviene promossa come punto di forza dell'ospitalità dellapopolazione locale. Quello che cambia nel tempo è la complessità

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della messa in scena, l'immaterialità attuale dei prodotti el'orizzonte internazionale della circolazione delle merci.Secondo Walter Benjamin a partire dalla metà dell'800 lafotografia contribuisce potentemente ad estendere l'ambitodell'economia mercantile, offrendo sul mercato una quantitàillimitata di personaggi, scene e avvenimenti che rinnovanocontinuamente il prodotto (Benjamin 1982). Con la nascita delleesposizioni universali le immagini, contenute nel packaging enelle etichette, sono destinate ad acquisire un'importanza sempremaggiore, nelle attuali fiere di settore la rappresentazione delprodotto costituisce il cardine dell'incontro tra domanda e offerta:lo stand, le etichette, le brochure servono a creare un acquisto inpotenza e uno scambio commerciale per lo più smaterializzato. La pubblicità trasforma le merci in significati, crea una grandeenciclopedia di senso di facile accesso e cognita a tutti, genera unalfabeto e un linguaggio e svolge un ruolo primario nellaetichettatura sociale delle merci che il consumatore completeràpoi divenendo parte attiva della costruzione di una sintassi delconsumo […] (Fabris 2003, p. 70). Il valore di scambio diventapiù importante del valore d'uso, e si trasforma in scambio sociale,significante e segno dell'accesso ad un determinato bene. Lacostruzione del valore monetizzabile delle merci trovameccanismi di espansione sempre più immateriali e il consumo sitrasforma da consumo dell'oggetto a consumo del segno (Fabris2003, p. 71).La costruzione dell'immagine è parte integrante dell'attivitàdell'azienda attraverso i piani di marketing. Se la 'cultura alta' dasempre ha contribuito a valorizzare i luoghi, attualmente lostrumento che permette di collegare i beni inalienabili ai prodottialienabili aumentandone il prezzo è il concetto di 'territorio'. Lapatrimonializzazione dei prodotti agroalimentari, attraverso lacostruzione di un legame socialmente riconosciuto con un luogodi produzione unico e irripetibile, è uno dei meccanismi diaccrescimento del valore aggiunto (Papa 2002). Il territorio, così come l'identità, devono essere messi in scena,resi visibili attraverso azioni concrete e pratiche. Tra le azionimesse in opera dagli attori sociali ed economici abbiamo visto lacostruzione dei tour e degli eventi, ma le direttive europeepongono l'accento su altre possibilità, come l'allestimento dimostre e la costruzione di musei locali. In questo gioco dipromozione e vendita, il prodotto è sempre costruito come unico,significativo e scarso5: l'abbinamento di una particolare etichettaad una mostra, rende la bottiglia di vino segno e simbolo diun'appartenenza. L'etichetta stessa rimanda ad un capitale socialee culturale (Bourdieu 1979) mobilitato nella costruzionedell'evento: studiosi e autorità cittadine sono presentiall'inaugurazione e al convegno di apertura, e al tempo stessosono investiti del compito di farsi ambasciatori dei prodotti localiall'estero. Esemplare in tal senso l'operazione promossa dallaRegione Toscana insieme al Comune di Montepulciano el'Università di Firenze, che ha portato il vino Nobile direttamentea Bruxelles insieme agli studi sulla diffusione dell'industriavitivinicola nel Chianti6. La cristallizzazione del prodotto e del suo valore nell'immagine

raggiunge il livello massimo di smaterializzazione dello scambionell'e-commerce. I siti aziendali sono ancora statiche vetrine deiprodotti, ma possono diventare l'interfaccia diretto tra azienda econsumatore, creando le premesse alla costruzione di rapportivirtuali di compravendita. Se la vendita tramite internet è ancoralontana dal suo pieno sviluppo, la smaterializzazione on-line delprodotto si fa garante della qualità e giustifica il prezzo elevato.Nell'ultimo Vinitaly una delle novità più importanti, pubblicizzatedagli esperti, è stata la 'rintracciabilità' telematica di ogni singolabottiglia: ogni tappo contiene un codice che, digitato, ricostruisceil 'viaggio della bottiglia' a partire dalla sua gestazione. Il carattere immateriale del prodotto, che costituisce un valoremonetizzabile in aumento, contrasta fortemente con il richiamo aiconcretezza dei sensi e alla tangibilità della degustazione, etuttavia quello stesso valore immateriale, alla base è alla basedella costruzione dei nuovi prodotti legati all'enoturismo: eventi,tour, week-end benessere, corsi di cucina, occasioni culinarie,tutti prodotti che offrono un'alta qualità della vita.

L'immaginazione come pratica sociale

L'immaginazione, secondo Appadurai (1989) è un pratica socialediffusa, non più appannaggio di particolari élite che attraverso diessa svolgono precise funzioni nella comunità, ma è impulsoall'azione, contribuisce alla costruzione di desideri e futuripossibili, è un mezzo per costruire traiettorie di individui o gruppidi interesse, è lo strumento attraverso il quale il soggetto scegliele proprie strategie di azione. Ma l'immaginazione è anche ilprocesso che permette di creare valore aggiunto e di rinnovare lemerci, ed è il collettivo attraverso il quale i soggetti siriconoscono in una collettività che viene continuamenterielaborata a partire dal riconoscimento di un passato comune.Proviamo adesso a ripercorrere i tre momenti del viaggio, delladegustazione e dell'acquisto cercando di evidenziare il ruolo chericopre l'immaginazione nella circolazione.Il turismo enogastronomico, in quanto consumo di tempo liberodiventa al tempo stesso merce e pratica sociale. La costruzione diun'immaginario condiviso relativo alla cultura enogastronomicacome esperienza sensoriale, agisce richiamando persone neiluoghi attraverso la promozione di una duplice esperienzacorporea: il viaggio e l'assaggio delle specialità gastronomiche.Nella costruzione di un'esperienza potenziale, che può esseresperimenta solo in loco, l'immaginario agisce come motore dellepersone, crea continuamente una nuova motivazione allospostamento e alla degustazione. Nel caso del consumo di cibo l'immaginario agisce creandomodelli di vita: attraverso la costruzione di un'esperienzarappresentata come autentica e accessibile a pochi, che è al tempostesso esaltazione dei sensi ma anche sperimentazione di unmodello di vita desiderabile, la comunità locale crea un circuitoturistico che propone l'eccellenza del territorio come garanzia diun'alta qualità della vita. Nel caso particolare del comune diMontepulciano si sta compiendo un passaggio dall'heritage

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tourism ad un turismo rurale7 che sembra la promessa di un futurodesiderabile, lontano dai ritmi cittadini e che è vicino alla natura,vero e proprio modello di vita capace di rispettare l'ambiente egarantire un'alimentazione sana, preludio al benessere e allasalvaguardia della salute8. Nel caso della circolazione dei prodotti le affermazioni chepossono essere fatte allo stato attuale della ricerca sono soloun'indicazione di indagine perché il campo di applicazionedell'immaginario sia nella costruzione di nuovi prodotti che nellafruizione degli stessi è ampio e di particolare interesse. Neiprodotti l'immaginario diventa parte integrante della produzione:il lavoro astratto, costruito organizzato e gestito con lacomplessizzazione della 'cultura d'impresa' e del legame traorganizzazione del lavoro, pubblicità, marketing e vendita, vieneincorporato nelle merci, nel loro corpo materiale e in quellovirtuale del e-commerce, trasformando le merci in soggetti ecreando così un dialogo tra merci e consumatori. Un dialogofinalizzato all'incremento del consumo, quindi delle vendite,ovvero al sostegno di un'economia che non si fonda più solamentesullo scambio delle merci, ma che è diventata principalmentescambio di segni, significati e simboli (Fabris 2003).Il processo di costruzione del valore aggiunto si ancora prima ditutto all'esistenza di un passato che dà valore al prodotto, unpassato continuamente reinventato (Papa 2002) che permette altempo stesso di creare coesione in una comunità che si riconoscein una tradizione che viene continuamente ricodificata. Il concettodi territorio che, come abbiamo visto, è l'attuale strumento divalorizzazione delle risorse locali, ha favorito la costruzione diprodotti complessi e immateriali che beneficiano sia dellacapacità creativa degli operatori del marketing, sia dellepossibilità individuali dei singoli consumatori di costruire nel loroimmaginario l'ideale di un'esperienza desiderata che può esserepensata proprio grazie alla fitta rete di immagini disponibili sulmercato locale, nella stampa specializzata, nei siti internet.

Dall'esaltazione dell'esperienza alla mercificazione dei sensi

L'immaginario quindi, attraverso il richiamo all'esperienzadiretta, diventa 'motore immobile' di flussi di persone, desideri edenaro, ma anche strumento di scelta individuale, processocreativo si definizione delle strategie individuali necessarieall'appropriazione di pratiche e modelli di vita. Il turismo è uno dei meccanismi più evidenti di mercificazionedell'immateriale: agenzie, operatori, portali telematici, marchiterritoriali contribuiscono a dare tangibilità allo scambio tramoneta ed esperienza potenziale. Con il turismo enogastronomicoanche il cibo entra nel circuito virtuale di esperienze possibili, el'abilità territoriale consiste nel creare desideri e costruireemozioni. Nella provincia di Siena questo gioco di vincoliintangibili tra la realtà concreta, il concetto di territorio el'esperienza sensoriale raggiunge le sue vette con l'organizzazionedelle 'degustazioni ad arte'9, evento promozionale gratuito e pocopubblicizzato, elaborato secondo una fitta trama di

corrispondenze tra caratteristiche del territorio, beni culturali eprodotti agroalimentari. Il sito dedicato alla promozione turistica della Provincia di Sienaè il risultato di un ingegnoso progetto che imbriglia ilconsumatore in ogni momento, ciò che viene promossodall'ipertesto virtuale viene ripreso dalle brochure distribuite neipunti di informazione, la diversificazione delle offerte copre unavasta gamma di potenziali interessi. Con un astuto gioco travisibilità dell'offerta, riconoscibilità degli standard evalorizzazione delle attrazioni locali, costruisce un sottileequilibrio tra omologazione dell'immagine e particolarità locali. Su questa base sono stati costruiti gli appuntamenti delle'degustazioni ad arte': manifestazione itinerante, riproposta ascadenza regolare da novembre 2006 a luglio 2007, organizzataogni volta in un luogo d'arte, come per esempio il Salone dellefeste di Palazzo Contucci, l'Abbazia di San Galgano (SI), ilMuseo Civico e Diocesano di Arte Sacra a Montalcino. L'eventoè costruito su un tessuto di corrispondenze tra territorio e prodotti,tra i cinque sensi e l'incorporazione del cibo, tra l'arte e lapercezione. La proposta di un video che mostra le bellezze delluogo in questione, i cui ambasciatori sono il vino servito e gliassaggi, guida i singoli passi della degustazione collegandocolori, profumi e sapori alla natura e all'arte: il Brunello diMontalcino viene proposto durante la proiezione di un video chemostra il Riposo durante la fuga in Egitto, opera di FraBartolomeo della Porta conservata nel museo Diocesano diPienza. Il tutto finisce con un gioco che coinvolge il pubblico: inun foglio che viene messo sul tavolo apparecchiato c'è una schedasu cui è possibile scrivere l'annata del vino e un pensiero suscitatodalla performance, in un gioco di riconoscimento delle abilità delconsumatore che dà importanza al cliente conferendoglil'illusione di una esperienza attiva. Se la corrispondenza traretorica ed esperienza suggerisce un'analisi approfondita dellinguaggio relativo alla percezione sensoriale al fine di verificarnel'efficacia, è importante sottolineare la soddisfazione degliavventori, l'affiliazione riuscita di alcuni autoctoni e l'effettivodecentramento territoriale del turismo. L'immaginario quindi finisce per investire direttamente i sensi ela percezione soggettiva, mentre la retorica del sentimento e delleemozioni diventa il fattore principale del marketing esperienziale.La contraddizione profonda in tutto questo risiede nell'estremaesaltazione del corpo e dei sensi a fronte di merci sempre piùdematerializzate e intangibili.

Conclusioni

Riprendendo la riflessione di Appadurai, possiamo dire checonsumatori deterritorializzati incontrano prodotti altamentelocalizzati. All'interno di questo quadro di riferimentol'immaginazione assume un ruolo nuovo, diventa pratica sociale,motore di aspirazioni, desideri, modelli culturali, stili di vita eazioni. Secondo l'autore esiste un nesso molto stretto tra laproliferazione incontrollabile delle immagini, la circolazione

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Note

1. Quando si parla di eventi in questo caso ci si riferisce all'offerta costruita dai territorio per promuovere in loco il consumo e lavendita del prodotto vino in abbinamento con i prodotti agroalimentari, come per esempio Cantine Aperte e Calici di Stelle. Per capirela storia della costruzione di queste giornate nazionali di promozione del prodotto vino cfr. www.movimentoturismovino.it 2. Il processo è molto complesso e si caratterizza per un'alta diversificazione delle esperienze, la conflittualità tra i livelli di definizionedelle strategie collettive esemplifica la tensione identitaria tra il locale e il globale e si risolve in una stratificazione di prodotti eproduttori che merita più attenzione. Tuttavia il turista non percepisce nulla di tutto questo, il borgo e le terrazze panoramiche aprono

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delle informazioni, la costruzione individuale di futuri possibili elo spostamento delle persone. Se l'autore focalizza l'attenzione su processi di dimensioneplanetaria, non bisogna sottovalutare l'impattodell'immaginazione ad altri livelli di costruzione del sociale e delculturale, come per esempio quello della naturalizzazionedell'autorità e del consolidamento del potere politico in specificiambiti, o come quello del consumo come fattore essenziale dellosviluppo economico attuale. […] L'opera dell'immaginazione,vista in questo contesto non è né completamente libera nécompletamente sotto controllo, ma è invece uno spazio di contesain cui gli individui e i gruppi cercano di annettere il globale entrole loro pratiche del moderno (p. 18).L'immaginario fornisce un orizzonte condiviso di pratiche socialiche stimolano i viaggiatori al consumo in loco dei prodotti, econtemporaneamente contribuisce a costruire un corpus di valoriche sfociano nella costruzione di uno stile di vita desiderabile;colloca al centro dell'esperienza il desiderio e fa leva sul piacerecome spinta all'azione passando attraverso l'erotizzazione delcibo10 e l'avvicinamento all'arte.Le immagini forniscono gli elementi per la costruzione di unfuturo desiderabile, un utopia necessaria all'azione che puòtrasformarsi in esperienza corporea attraverso la stimolazione deicinque sensi, ma che tuttavia resta al di fuori tuttavia di uncontesto rituale che sancisca definitivamente le trasformazioni.L'industria agroalimentare si appropria del sogno, mentre l'arteculinaria formalizza pratiche e occasioni di incontro e chiude ilcerchio tra il consumo alimentare e un bisogno emergente che nonè più quello del nutrimento necessario alla sopravvivenza, ma unbisogno di condivisione delle emozioni intrinsecamente legatoalla socialità umana e sempre più relegato ad un passato mitico diarmonia con i ritmi naturali.Il linguaggio evocativo, l'esaltazione dei sensi, il richiamo allamemoria corporea del consumatore sono gli elementi su cui èstata costruita una cultura della degustazione che si distacca dallacertificazione organolettica del prodotto per trasformare queglistessi saperi in consumo di massa. In questo processo diformalizzazione del consumo l'esperienza rivela tutte lecaratteristiche del liminoide di cui parla Victor Turner, ovverol'esistenza di un set altamente formalizzato in cui gli attori sociali

giocano i propri ruoli, ma che ha perso le caratteristicheperformative proprie del rituale, tra cui il potenziamento deglistati di percezione e l'efficacia simbolica delle pratiche condivise.Il depotenziamento dell'esperienza, che appare evidente nellamercificazione dei sensi, rimanda ad un processo molto più vastodi destrutturazione della ritualità nelle società complesse.L'esaltazione del piacere e la sollecitazione dei sensi non perdeinvece efficacia né a livello di spinta al consumo, e quindi dicircolazione delle merci, né come veicolo di coesione identitaria.I due livelli anzi vanno avanti di pari passo, seguendo un fittointreccio tra diffusione di sottoculture e costruzione dei mercati.Per trovare un esempio pratico di quanto affermo, si può fareriferimento al sito di Slow Food, dove la cultura diun'alimentazione sana, descritta nel manifesto programmatico, siframmenta in sottogruppi tematici, che a loro volta danno luogo aeventi, veri e propri mercati locali, polverizzati su tutto ilterritorio comunitario, e che diventano l'arena competitiva dovetrovano spazio le produzioni tradizionali.Una particolare attenzione, nel corso dei prossimi anni, andrebbeposta a queste arene internazionali dove si fronteggiano i varipaesi e dove, molto probabilmente si gioca l'accesso ai canaliinternazionali di circolazione delle merci e la legittimità politica allarappresentanza di specifici interessi e valori, come per esempio il rifiuto deiprodotti OGM e la salvaguardia dell'ambiente, argomenti che oggi sonooggetto della competizione per l'autorità decisionale in merito ad equilibriglobali. La domanda lecita, a cui tuttavia è impossibile rispondere allo statoattuale della ricerca riguarda il legame tra i processi di circolazione dellemerci, la stratificazione dei mercati e i meccanismi di legittimazionedel potere politico. Esiste, e quale forma assume la competizione relativa ai prodotti tipici e aicibi tradizionali tra territori appartenenti alla Unione Europea? Qualeappartenenza comunitaria è necessario costruire per legittimare l'esistenzadi organismi comuni di decisione in merito alla questione alimentare? Equale responsabilità si assumono tali organismi nei confronti deiconsumatori? Quale autorità rivendicano di fronte ai paesiextraeuropei?

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la vista su una vasta zona collinare, 'tipico paesaggio toscano', mentre il corso e la piazza mostrano un'ampia scelta di bottiglie di vinoe cibi locali.3. Quasi l'esperienza dell'eccesso e l'assenza di spaesamento in un mondo fatto di nonluoghi (Augé 1992) fosse ormai diventato unmodo di essere e di rapportarsi al mondo profondamente radicato nel occidente, un vero e proprio modello di esperienza.4.I video sono disponibili presso la Videoteca della Marroca, grazie al paziente lavoro di Antonio Fatini che ha costruito un archiviostorico delle immagini di Montpeulciano.5. Cfr. anche Cristina PAPA 2002 - Il prodotto tipico come ossimoro: il caso dell'olio extravergine di oliva umbro, pp. 150-189; inValeria SINISCALCHI 2002, Frammenti di economia: ricerche di antropologia economica in Italia, Luigi Pellegrini Editore, Messina. 6. L'efficacia economica di simili eventi non è immediatamente quantificabile in termini di vendite, tuttavia l'importanza di azioni dilobbing nel cuore del potere centrale della comunità europea rimanda ad un altro importante compito affidato alla promozione deiprodotti alimentari: legittimare il potere politico e la rappresentatività di alcune realtà economiche locali.7. Per la definizione delle tipologie di turismo cfr. SIMONICCA 2004.8. Resta da chiedersi quale funzione politica abbia tutto questo nel gioco degli equilibri internazionali. Se l'accostamento agli equilibripolitici può sembrare arduo, basta leggere l'introduzione agli atti dell'esposizione dei prodotti locali a Siena, avvenuta nel 1870, percapire che nelle fiere è in gioco anche l'immagine politica della comunità di appartenenza . Se alla fine dell'800 il processo identitarioin atto si riferiva alla conquista dell'Unità d'Italia, oggi l'orizzonte comunitario è quello europeo. E ancora una volta le retoricheriguardano il rapporto dialettico tra la costruzione di un'identità collettiva e il rispetto delle diversità locali.9. Per una comprensione del complesso meccanismo costruito dalla Provincia e 'condensato' in questa serie di degustazioni consultareil sito www.provincia.siena.it10. Un'erotizzazione del cibo ormai depurata da quei processi di colpevolizzazione che rischiavano di rendere inefficaci le pubblicità,come invece nota Roland Barthes in Pour une psycho-sociologie de l'alimentation contemporaine (1961).

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1.1 Introduzione

Le migrazioni contemporanee sono parte di una rivoluzionetransnazionale che sta trasformando le società e le politiche nelmondo intero (Castles e Miller 1993). Le Nazioni Unite hannoosservato nel 2006 che la metà dei 95 milioni di migrantiinternazionali è composta di donne e ragazze (UNFPA 2006). La“femminilizzazione della migrazione” è una delle tendenzeprincipali riscontrabili nei movimenti migratori contemporanei:c’è un numero sempre maggiore di donne che si spostano per varimotivi. Alcune hanno raggiunto gli uomini attraverso iricongiungimenti familiari, molte si sono mosseindipendentemente per ragioni economiche, come studentesse, ocome rifugiate. L’importanza delle donne nelle migrazioni nonconsiste solo nella loro aumentata percentuale, ma nei contributieconomici e sociali che apportano ai paesi di provenienza e diaccoglienza. Nonostante l’aumento della presenza delle donneimmigrate in Europa, molta della letteratura sulle migrazioni, finoagli anni ’80, è stata di genere neutro, utilizzando modellimigratori basati prevalentemente sulle esperienze maschili(Simon e Bretell 1986): i fenomeni migratori sono stati letti apartire dalle stratificazioni di classe e etniche, mentre la variabilegenere è stata trascurata fino agli anni Ottanta. Oggi si considerafondamentale prendere in esame la “formula trinitaria” delgenere, dell’etnia e della classe per capire la posizione deimigranti nelle società d’accoglienza e comprendere diverse formedi stratificazione sociale (Campani 2000, p.38). Studi antropologici e sociologici svolti fino ad ora in Europa e inNord America sottolineano le differenze di classe, etniche,nazionali delle donne migranti e l’eterogeneità dei contesti diprovenienza e di destinazione: non si può generalizzare sullacondizione delle “donne immigrate” come se non ci fosseroprofonde differenze tra di loro. Esistono tuttavia dellecaratteristiche simili all’interno dei movimenti migratorifemminili nei paesi occidentali: ad esempio la concentrazionedelle donne in particolari settori lavorativi quali il serviziodomestico, l’industria del sesso e i locali di intrattenimento(Anthias-Lazaridis 2000, p.4). In Europa e in Nord America ledonne entrano in un mercato del lavoro che è altamente segregatoper sesso e per nazionalità e, a meno che siano in possesso dispecifiche qualifiche professionali, le scelte di lavoro disponibiliper loro sono confinate a una ristretta cerchia di servizi domesticie di cura o al mercato del sesso: lavori tradizionalmente associatialle donne e ai ruoli femminili. Spesso le donne emigrano come

lavoratrici domestiche quale unico modo per entrare legalmentein un paese occidentale (Kofman et al. 2000, p.25). Sebbene ci sia un numero rilevante di uomini tra i lavoratoridomestici salariati, questo articolo prende in esame la crescentefemminilizzazione della professione, soprattutto nella forma dilavoro di cura e accudimento agli anziani.

1.2 La globalizzazione della cura e del lavoro domestico

In Europa e in Nord America l’uso del lavoro domestico salariatosi sta espandendo molto rapidamente, tanto che si è parlato di unasua vera e propria “rinascita”. Questa crescita ha smentito visionimoderniste secondo cui il lavoro domestico salariato èun’occupazione destinata a scomparire in un contesto di maggioreindustrializzazione e urbanizzazione. Coser (1973) descrive ilservizio domestico, anche se tutelato da un contratto, come unmestiere pre-moderno, marcato da rapporti quasi feudali tralavoratori e datori di lavoro, destinato ad avere minore rilevanzanelle economie del capitalismo avanzato: “Nel mondo moderno,gli apparecchi elettrici nelle case che fanno risparmiare fatica, inuovi modelli di distribuzione e altri progressi tecnologici hannodeterminato un minore bisogno di domestici nelle case […] Quelruolo sta morendo. Le famiglie non potranno più divorareavidamente le personalità dei propri domestici” (Coser 1973, p.39). In realtà questo tipo di lavoro ha conosciuto un notevolesviluppo ed è importante considerare i radicali cambiamentiavvenuti negli ultimi due decenni: sono diversi i soggetti chechiedono e offrono servizi domestici, sono diverse le necessitàdella domanda e dell’offerta e le norme che tutelano i lavoratoridomestici e i datori di lavoro. Sempre maggiore è il numero didonne che, come risposta alla diffusione globale di politicheeconomiche neo-liberali e all’incremento delle attività lavorativesalariate femminili, emigrano per offrire questo tipo di servizioalle famiglie europee: il lavoro domestico è diventato un’attivitàtransnazionale, in cui le donne lasciano i loro paesi d’origine perlavorare per un certo numero di anni in un paese straniero, spessoper sostenere le proprie famiglie (Momsen 1999, p. 14).Saskia Sassen (1998) sostiene che il movimento internazionaledelle lavoratrici domestiche e della cura va inserito nell’attualeeconomia globale e nelle teorie della globalizzazione. In genere larappresentazione prevalente della globalizzazione economica èlimitata ad uno spazio analitico ristretto in cui, attraverso una“narrativa dell’esclusione”, si trascurano tutta una serie di

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Donne in movimentola divisione internazionale del lavoro riproduttivo nell'epoca della globalizzazione

di Elisa Ascione

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lavoratori e settori che non si adattano alle immagini dominantidella globalizzazione (Sassen 1998, p.106). Esiste una crescenteconnotazione razziale del mercato del lavoro che porta adisconoscere gli apporti produttivi forniti dai lavoratori immigratie sono all’opera processi che valorizzano e ipervalorizzano certitipi di prodotti, lavoratori e imprese mentre ne sminuiscono altri.L’autrice evidenzia, inoltre, l’importanza teorica del genere percomprendere, tra le altre cose, come la svalutazione dei lavoriconsiderati tipicamente femminili facilitino i processi didevalorizzazione del lavoro domestico (Sassen 1998, p.111):occorre specificare i luoghi in cui il genere si estrinsecastrategicamente e in cui affiorano nuove forme di presenzafemminile, piuttosto che fornire un’elencazione esaustiva delleineguaglianze di genere (Sassen 1998, p.107). Il lavoro domesticosalariato è proprio uno di questi luoghi di estrinsecazionestrategica del genere nell’economia globale. Nei nuovi “regimioccupazionali” delle città e attraverso i “circuiti di sopravvivenzafemminili”, le donne che emigrano da sole per lavorare comebadanti e domestiche nei paesi del Primo Mondo incontrano duedinamiche distinte:“Da un lato queste donne costituiscono una classe di lavoratoriinvisibili e privi di potere al servizio di settori strategicidell’economia globale [...] Dall’altro l’accesso a un salario, perquanto basso, la crescente femminilizzazione dell’offerta dilavoro e la femminilizzazione delle opportunità di impiegodeterminata dall’informalizzazione sovvertono le gerarchie digenere in cui queste donne sono inserite.” (Sassen 2002, p.239)Varie ricerche svolte in diversi paesi del mondo hanno osservatocome il mercato internazionale del lavoro di cura si inserisce neiprocessi di globalizzazione economica. In uno studio sullacondizione delle donne filippine a Roma e a Los Angels, Parrenas(2001) utilizza tre differenti livelli di analisi - macrostrutturale,intermedio e soggettivo- per comprendere come si organizzano ledislocazioni: i modi in cui le lavoratrici domestiche affrontano leforze esterne della società, la maniera in cui le condizioni dilavoro e le politiche governative influenzano la loro possibilità diresistere o negoziare le difficoltà che incontrano (Parrenas 2001,p.3). Proprio alcuni macroprocessi della globalizzazionecontribuiscono a intrappolare le donne filippine in questoparticolare settore della forza lavoro internazionale: la“denazionalizzazione” dell’economia nel paese di provenienza e iprogrammi di aggiustamento strutturale spingono le donne adover accettare lavori pagati poco all’estero, mentre la“rinazionalizzazione” delle politiche e la rinascita deinazionalismi nei paesi occidentali impedisce loro di acquisirepieni diritti di cittadinanza nei paesi ospitanti (Parrenas2001,p.26). Una ricerca sulle lavoratrici messicane a San Diego, California,conferma che l’alto numero di lavoratrici domestiche immigratein Nord America è legato ai cambiamenti nell’economia globale:la de-industrializzazione e l’espansione di un’economia basata susalari minimi ha avuto effetto sulle vite delle donne sia nei paesipoveri che in quelli ricchi (Mattingly 2001). La dipendenza neiconfronti delle politiche imposte dalle compagnie che offrono

prestiti internazionali hanno favorito l’indebolimento dellafornitura statale di servizi sociali, strutture sanitarie ed educative:questi processi, in concomitanza con l’aumento dei lavori senzagaranzie e mal pagati, hanno sovraccaricato la vita delle donne diresponsabilità nei confronti dei nuclei familiari e hannocomportato la necessità di emigrare per provvedere ai lorobisogni. Lo studio dimostra che nelle case di San Diego lerelazioni della cura e riproduzione sociale delle donne messicanee nordamericane attraversano i confini nazionali. Le datrici dilavoro fanno affidamento sulla manodopera a basso costo perandare incontro alle necessità imposte dalla “doppia presenza” nellavoro e in casa, mentre le domestiche messicane fannoaffidamento sui propri legami familiari transnazionali per badarei figli e i familiari rimasti nel paese di origine. Le lavoratricidomestiche immigrate e le datrici di lavoro di San Diego creanodei network di cura che “connettono la casa con il mondo”(Mattingly 2001, p. 371), perché sono locali (la cura dei corpiavviene nelle case) ma incorporati in circuiti internazionali.In seguito alla globalizzazione dell’economia neo-liberale illavoro domestico e il lavoro di cura sono diventati dei prodotti chepossono essere comprati internazionalmente: i mercati del lavoromondiale impoveriti e deregolati offrono una grande riserva diquesto tipo di lavoratrici. Nei paesi poveri del sud del mondo onelle economie post-socialiste dell’Europa orientale le donne,anche quando hanno capacità professionali, non riescono aguadagnare abbastanza per mantenere le proprie famiglie e quindiemigrano dove c’è bisogno di loro. Nei paesi occidentali, però, leloro capacità professionali spesso non sono riconosciute e ciò cheviene richiesto loro sono delle capacità che si pensa tutte le donnepossiedano (sia che si considerino doti “naturali” o il risultato diuna socializzazione di genere): la capacità di pulire, stirare,cucinare, riordinare e prendersi cura di bambini e anzianipazientemente (Lutz 2002, p.95). Lutz (2002) sostiene che esisteun contratto di genere implicito che differenzia il lavoroprofessionale e il lavoro di cura, e che l’entrata massiccia delledonne straniere nel servizio domestico confermi e allo stessotempo ponga delle sfide a questa tesi. Per l’autrice l’impiego diservizio domestico immigrato non è solo una conseguenzadell’entrata delle donne occidentali nel mondo del lavoro.Trasformare questa correlazione in un nesso causale contribuiscead essenzializzare la “donna” come colei che provvedenaturalmente ai servizi domestici e di cura e che, lasciando lospazio della casa e diventando una lavoratrice salariata, deviadalla precedente situazione di normalità. Secondo questa logica, iservizi domestici vanno comprati da altre donne, invece cheessere redistribuiti diversamente tra uomini e donne all’internodelle società (Lutz 2002, p.90). L’autrice sostiene che, alcontrario, un grande numero di donne occidentali è entrato nelmondo del lavoro retribuito senza riuscire ad apportarecambiamenti all’organizzazione e alle prospettive degli ambitiprofessionali patriarcali e che sono fallite le campagne dellefemministe che richiedevano “salario per i lavori domestici” opretendevano un’eguale distribuzione di compiti domestici tradonne e uomini all’interno delle unità familiari (Lutz 2002, p.96).

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Il lavoro domestico è diventato un servizio che può esserecomprato a basso costo sul mercato del lavoro, creando esfruttando nuove forme di differenza e gerarchie tra donne didiversa nazionalità (Lutz 2002, p.100).Studi storici, antropologici e sociologici hanno dimostrato che illavoro di cura continua ad essere la prima responsabilità delledonne in Europa, Nord America e nei paesi che esportano illavoro domestico: sia i rapporti di genere che il lavoro di curahanno però subito importanti trasformazioni nell’epocacontemporanea e occorrono ulteriori ricerche che indaghino imodi in cui le disparità tra donne, tra uomini e donne, e tra paesidiversi sono radicate, agite, incorporate e contestate nei nuovisistemi di cura (Litt e Zimmerman 2003, p.163).

1.3 Prospettive contemporanee sul lavoro domestico

Le prospettive contemporanee sul lavoro domestico sonorintracciabili in una letteratura molto eterogenea, incluse le teoriefemministe sul lavoro domestico non retribuito, la letteratura sullemigrazioni e le analisi dell’assetto delle classi sociali all’internodel mercato del lavoro (Andall 2003). In realtà la letteratura sullavoro domestico non retribuito e sul lavoro domestico salariato sisono sviluppate in maniera disgiunta, tendendo ad analizzareseparatamente le traiettorie e le esperienze vissute dalle diverseprotagoniste: le donne bianche di classe media e le donneimmigrate. Il lavoro domestico non retribuito e quello salariatosono in realtà fortemente correlati e servono ulteriori lavori checontribuiscano a collegare questi due ambiti di ricerca (Andall2003, p.43). Bisogna analizzare le esperienze delle colf e badantistraniere alla luce del più ampio dibattito sul genere all’interno deipaesi di accoglienza, invece di considerare solo le caratteristicheinterne alle comunità di origine o ridurre l’analisi alle motivazionieconomiche e demografiche che spingono le donne a partire perlavorare come domestiche. Allo stesso tempo occorre andare oltreil genere e leggere i movimenti migratori femminili come unaparte integrante dei circuiti internazionali della forza lavoro,analizzando le costrizioni sociali entro cui le donne migranti simuovono (Morokvasic 1983, p.26).Molte femministe occidentali del passato hanno considerato illavoro domestico non retribuito come oppressivo per tutte ledonne: la collocazione del lavoro di cura femminile nella sferaprivata (lavoro riproduttivo) era percepita come socialmente edeconomicamente inferiore alla sfera produttiva maschile. Lefemministe europee e nordamericane della seconda generazione,riprendendo le celebri osservazioni di Engels in L’origine dellafamiglia, della proprietà privata e dello stato, hanno individuatonel lavoro di cura e nel lavoro domestico non retribuito un modoin cui si manifestava la subordinazione femminile: “Con la famiglia patriarcale, e ancor più con la famiglia singolamonogamica […] [l]a direzione dell’amministrazione domesticaperdette il suo carattere pubblico. Non interessò più la società.Divenne un servizio privato; la donna divenne la prima serva,esclusa dalla partecipazione alla produzione sociale. Soltanto la

grande industria dei nostri tempi le ha riaperto, ma semprelimitatamente alla donna proletaria, la via della produzionesociale. Ma in maniera tale che se essa compie i propri doveri nelservizio privato della sua famiglia, rimane esclusa dallaproduzione pubblica, e non ha possibilità di guadagnare nulla; sevuole prendere parte attiva all’industria pubblica e vuoleguadagnare in modo autonomo, non è più in grado di adempiereai doveri familiari. […] La moderna famiglia singola è fondatasulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata […].”(Engels, [1884]1970, pp.100-1)Le femministe “post-coloniali” o della terza generazione hannoinvece problematizzato l’idea di universalità dell’oppressivitàdella famiglia e del lavoro non pagato che le donne svolgonoall’interno di essa. Ad esempio Bell Hooks (1984) ha criticatol’idea che la famiglia sia stata un’istituzione oppressivauniversalmente per tutte le donne e ha mostrato che per le donnenere negli Stati Uniti la famiglia è stata spesso un luogo diresistenza contro il razzismo della società.Nell’analisi dei rapporti che governano la cura e il lavorodomestico molte femministe occidentali del passato hannoprivilegiato l’aspetto di genere, trascurando l’intersezione di altreforme di ineguaglianza e differenziazione sociale (Ongaro 2001);è stato dato poco spazio fino a poco tempo fa allaproblematizzazione del lavoro domestico e del lavoro di curaretribuito svolto dalle donne immigrate, di come esso si collochiall’interno delle famiglie e risolva i conflitti di divisione dellavoro di genere e generazionale.Ignorare la posizione delle lavoratrici domestiche/di curaimmigrate significa non riconoscere le divisioni di classe,nazionalità e “razza” del lavoro riproduttivo (Anderson 2000,p.1). Il lavoro domestico/di cura è, infatti, profondamentecondizionato dalla diversità di status sociale, anche se ciò nonsempre è evidente. Per Anderson (2002, p. 108) il lavorodomestico si differenzia sotto molti aspetti da altri impieghi conorari lunghi, scarsa remunerazione, e compiti a volte consideratiumilianti. Attraverso i resoconti di alcune lavoratrici domesticheresidenti in Gran Bretagna, l’autrice dimostra che gran parte deltempo delle lavoratrici viene impiegato per mantenere stili di vitache i datori di lavoro non potrebbero sostenere se dovesseroprovvedervi personalmente: la differenza di status tra datori dilavoro e lavoratori diventa evidente quando questi ultimi devonofare cose non necessarie: “Abiti stirati, ninnoli ben spolverati,pavimenti lustri e finestre pulite non sono vere e proprie necessità,ma simboli che testimoniano lo stato sociale della famigliamostrando che ha la possibilità di accedere a risorse finanziarie eumane.” (Anderson 2002, p.109) L’autrice sostiene che l’impiegodi una donna delle pulizie permette alla donna borghese diassumere il ruolo femminile di supporto morale e spirituale dellafamiglia e di essere allo stesso tempo liberata dal ruolo femminiledi fornire servizi e svolgere faccende sgradevoli: “L’impiego diuna collaboratrice domestica a pagamento aiuta a mantenere ilproprio status sociale, non solo attraverso il mantenimento dioggetti che ne sono il simbolo, ma perché mette in risalto le dotidella padrona di casa.” (Anderson 2002, p.109)

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Per Ehrenreich e Hochschild (2002 p.9), invece, l’accresciutamigrazione femminile riflette una rivoluzione di genere su scalamondiale, in cui sia le donne benestanti sia quelle più poverehanno la possibilità di mantenersi in modo indipendenteattraverso il proprio lavoro. Le donne immigrate riescono però aconseguire questo obiettivo assumendo soprattutto i ruolidomestici che le donne del Primo Mondo hanno rifiutato. Iltrasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolotradizionale della moglie apre, per le autrici, una nuova fasedell’imperialismo o del neocolonialismo globale: ancoradipendenti dalla manodopera agricola e industriale dei paesipoveri, ora si cerca anche di attingere a nuove risorse emozionali:“E’ come se la parte ricca del mondo stesse impoverendosi dipreziose risorse emotive e sessuali e dovesse rivolgersi alle zonepiù povere per riceverne delle nuove” (Ehrenreich e Hoschild2002, p.11). Per le autrici, questa redistribuzione globale dellemansioni tradizionali delle donne getta una nuova luce sull’interoprocesso di globalizzazione, abbattendo la dicotomiapubblico/privato, mettendo a nudo le enormi disparità di privilegie opportunità tra le donne nel mondo:“[…] si instaura una relazione globale che sotto molti aspettirispecchia il tradizionale rapporto tra i sessi. Il Primo Mondoassume il ruolo che nella famiglia spettava un tempo all’uomo,viziato, depositario di diritti, incapace di cucinare, di pulire, e diritrovare i propri calzini. I paesi poveri assumono il ruolotradizionale della donna, fatto di accudimento, pazienza eabnegazione. Una divisione del lavoro che le femministecriticavano quando era “locale”, oggi è diventata,metaforicamente parlando, globale. Proseguendo nella metafora,la relazione che ne risulta non è però un “matrimonio”, in quantoè priva di riconoscimento ufficiale […].” (idem, p.18)Bisogna perciò tenere conto della complessità dei rapporti globalie locali in cui si inseriscono le domestiche e le badanti straniere:studiare il lavoro domestico e di cura a pagamento non puòlimitarsi ad una osservazione dell’incontro tra domanda e offerta,né può essere descritto come un semplice fenomeno di “culture acontatto”. Le relazioni tra lavoratori domestici/di cura immigratie datori di lavoro non possono essere spiegate solamente comedifferenze culturali, ma come negoziazione, accomodamento eresistenza nei confronti di rapporti sociali strutturati suasimmetrie di status e privilegi che si dispiegano su scala globale(Momsen 1999, p.1).

1.4 Domestiche e badanti in Italia

Il mercato del lavoro domestico è una realtà economica rilevanteanche in Italia. Sempre più famiglie italiane si rivolgono alledonne straniere per vari motivi: aumento delle donne italiane chelavorano fuori casa, invecchiamento della popolazione,asimmetria di genere nella distribuzione delle responsabilitàfamiliari, insufficienti investimenti pubblici nei servizi di cura eassistenza, crescente disponibilità di manodopera straniera abasso costo (cfr. Pruna 2007, p. 89-90).

Le donne immigrate si sono inserite all’interno del lavorodomestico a pagamento in tre tappe storiche. Durante la primafase (dagli anni ’60 agli anni ’80) le immigrate rappresentavanoancora una presenza minoritaria nel mercato del lavoro domesticoe le colf straniere provenivano prevalentemente dalle ex colonieitaliane (Eritrea, Etiopia, Somalia), seguite poi dallecapoverdiane, dalle filippine e dalle sudamericane (Fucilitti 2005,p.290). Durante la seconda fase (tra gli anni ‘80 e ‘90) si èregistrato un considerevole aumento di lavoratori domesticiimmigrati: mentre fino agli anni ‘90 il lavoro domesticorappresentava l’occupazione di solo un sesto degli immigratioccupati, nel 1994 gli addetti stranieri del settore sono saliti a51.000, diventando un quarto del totale. Alla fine degli anni ‘90 lecolf straniere hanno raggiunto il 50% del totale (durante laregolarizzazione del 1995 si è verificato un raddoppio deglistranieri nel settore). La terza fase è iniziata nel 2000 e haraggiunto il suo culmine dopo la regolarizzazione del 2002:attualmente gli stranieri rappresentano il 74% degli addetti ailavori domestici (Fucilitti 2005, p. 291).Secondo i dati raccolti dall’INPS, il settore della collaborazionedomestica è stato sempre a prevalenza femminile, ma nel periodo1999-2002 le donne sono passate dai tre quarti del totale (77,2%)ai quattro quinti (81,8%) perché il collocamento delle donne si èallargato all’accudimento agli anziani, dove è preferita lapresenza femminile. Il più alto tasso di femminilizzazione siriscontra tra gli iscritti all’INPS dell’Est Europa (91,5%) e quellidell’America Latina (94,4%) mentre tra i filippini il tasso èinferiore alla media (75,1%) perché un numero sempre maggioredi uomini filippini partecipa alla collaborazione domestica. Laprovenienza continentale, prima della regolarizzazione del 2002,ha visto prevalere l’Asia (39,9%), seguita dall’Europa (28,2%),dall’America (18,6%) e dall’Africa (13,3%): dal 1999 a questaparte l’Est Europa ha però guadagnato 10 punti in percentualerispetto alle altre provenienze (INPS 2004, p.9). La regolarizzazione di colf e badanti del 2002 ha visto un forteincremento di nazionalità fino ad allora poco rappresentate: nelsettore della collaborazione familiare e dell’assistenza lanazionalità più coinvolta è stata l’Ucraina, seguita dalla Romania,la Polonia, l’Ecuador e la Moldavia. I dati registrati hanno anchereso possibile ricostruire l’età media delle regolarizzate nei varisettori: nel settore domestico l’età media è di 33,4 anni (le ucrainecon una media di 40,9 anni, le moldave di 36 e le rumene di 30,1)mentre nell’assistenza l’età media cresce a 38,3 anni (INPS 2004,p.11).Alla fine del 2003 si è calcolata una presenza totale di 266.127lavoratori domestici dell’Est Europa che hanno raggiunto lamaggioranza assoluta tra le altre provenienze. Oltretutto, inseguito all’adesione di nuovi Stati membri all’Europa, lacollaborazione domestica ha coinvolto un numero maggiore dilavoratori comunitari. Nel 2003 si è quindi arrivati a circa mezzomilione di lavoratori domestici regolarizzati, triplicati rispettoall’anno precedente per effetto della regolarizzazione, con uncambiamento radicale delle provenienze. (INPS 2004, p. 18).Nonostante i dati ufficiali, la quantificazione precisa del numero

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delle badanti e delle lavoratrici domestiche è quasi impossibile,perché collocate in un settore da sempre connotato dal lavoroirregolare. Si stima, tuttavia, che oggi in Italia ci sarebbero, traregolari e irregolari, più di un milione di lavoratori domestici suuna popolazione di 57 milioni, ossia più domestici di quante cen’erano un secolo fa, in numero sia assoluto che relativo (Sarti2004, p. 20). Questi dati descrivono il cambiamento del ruolo dellavoro domestico in Italia rispetto alla società di antico regime: inpassato impiegare persone di servizio era un lusso riservato aigruppi sociali benestanti laddove in epoca contemporanea laschiera dei datori di lavoro si è allargata ai nuclei familiari di cetomedio e medio-basso (Sarti 2004, p. 22).Andall (2000) mostra che le lavoratrici domestiche immigrate inItalia si sono inserite in un settore che storicamente è sempre statomarginalizzato, sia per condizioni di lavoro che per aspetti legali(Andall 2000, p.108). Ad esempio, il primo contratto nazionaleper i lavoratori domestici risale al 1974 (garantendo per la primavolta un limite delle ore lavorative giornaliere, riconoscendo glistraordinari e periodi di vacanze) mentre in altri settori i contrattierano stati introdotti già dai primi anni ’60: fino al 1969 il lavorodomestico era definito dalla legge come “atipico” e non soggettoalle stesse regolamentazioni di altri mestieri, contribuendo allamarginalità dei lavoratori domestici. Il ritardo nella contrattazionerispetto ad altri ambiti lavorativi va attribuito al fatto che il settoreè stato monopolizzato, dal 1946, dall’ACLI-COLF,un’associazione cristiana nata nel contesto della polarizzazionepolitica italiana del dopo guerra. Come associazione cristianal’ACLI cercò, fino agli anni ‘70, di sviluppare una prospettiva sullavoro diversa da quella comunista e socialista incoraggiandorelazioni armoniose tra lavoratori e datori di lavoro, promuovendola conciliazione, piuttosto che la conflittualità, tra capitale e classelavoratrice. Analizzando i documenti dei convegni dell’ACLI-COLF, Andall (2000) ne ha riscostruito la particolare visione dellavoro domestico. Negli anni ‘50 e ‘60, l’ACLI-COLFconsiderava che il lavoro domesico fosse dissimile da altri lavoriperché particolarmente importante per l’istituzione della famiglia:nei congressi del 1952 e del 1955 il Segretario Nazionale avevadichiarato la famiglia un luogo ideale di lavoro per una donna,esortando le lavoratrici a considerare il nucleo familiare in cui siprestava servizio come il proprio, a intendere il lavoro non comeun sacrificio forzato ma come un dono generoso. Anche Papa PioXII, in una comunicazione ufficiale, aveva incoraggiato ledomestiche a vedere i datori di lavoro non come capi ma comepadri (Andall 2000, p.96).Dagli anni ‘70 agli anni ‘80, in seguito ai cambiamenti avvenutiin Italia in ambito politico e nei rapporti di lavoro, l’ACLI-COLFha adottato una strategia e un vocabolario diametralmenteopposti, non considerando più la professione come una vocazionema sottolineando le ragioni socioeconomiche che spingono ledonne in questo lavoro, all’interno di un più ampioriconoscimento dello sfruttamento dei lavoratori su base classista.E’ proprio in questo contesto che vengono stipulati i primicontratti nazionali che garantiscono maggiori tutele ai lavoratoridomestici (Andall 2000, p.106). Tuttavia a partire dagli anni ‘80

appare dai documenti ufficiali e dagli atti dei convegniun’inversione di tendenza e un nuovo modo di concepire laposizione delle lavoratrici domestiche. Da quando le donneimmigrate hanno rimpiazzato le italiane in questa professione,l’ACLI-COLF ha posto nuovamente l’accento sulla gestionearmoniosa dei rapporti, stavolta tra donne italiane e donnestraniere, entrambe viste come “vittime comuni” di rapporti digenere loro sfavorevoli, sorvolando su altre forme didiseguaglianza che invece continuano a mantenere le lavoratriciin una posizione di minori diritti rispetto alle datrici di lavoro(cfr. Andall 2004, p. 92).Le donne immigrate, quindi, quando sono entrate in questo settorelo hanno trovato già strutturalmente svantaggiato:“Il quadro di riferimento riguardo l’inserimento el’inquadramento lavorativo delle donne straniere è ancorapenalizzante. Infatti questo tipo di attività sono, non di rado, privedelle garanzie più basilari dei diritti dei lavoratori, quali il rispettodell’orario di lavoro, del giorno di riposo, della tutela dellamaternità, del rischio di licenziamenti senza preavviso. Inoltre, lasvalutazione del lavoro domestico e di cura trova riscontro nelnon godere di un pieno riconoscimento a livello sociale edeconomico: ad esempio, quello della colf è l’unico contratto dilavoro a livello nazionale che non riconosce alla lavoratrice ildiritto all’allattamento.” (CNEL 2003, p.16)Nel 2007 è stato firmato il nuovo contratto di lavoro per lecollaboratrici familiari. Il contratto distingue chi presta assistenzaagli anziani da chi è solamente addetto alla manutenzione dellacasa. Tra le principali novità del contratto di lavoro troviamo(Pasquinelli-Rusmini 2007):- l’introduzione di 4 livelli di lavoro con altrettante categorie‘super’ in cui vengono inquadrati gli addetti all’assistenzasecondo l’esperienza e le mansioni da svolgere;- l’aumento dei minimi contributivi: il vecchio contrattoprevedeva un minimo di 563€ mensili per le assistenti familiariconviventi, quello nuovo 850€ per il personale non qualificato e1.050€ per il personale con esperienza;- la possibilità di orario ridotto a 30 ore anche in regime diconvivenza;- applicazione del job sharing (introdotto dalla Legge Biagi) cherende possibile assumere due persone per un medesimo contratto;- l’impegno a dare vita ad una Cassa Malattia Colf. Fino ad ora ilavoratori domestici non avevano avuto diritto a un’indennità dimalattia Inps: la Cassa Malattia prevede invece una trattenutasulla busta paga e un versamento da parte del datore di lavoro, conla possibilità di ricevere prestazioni da parte dell’Inps in caso dimalattia.I sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro non hanno invecetrovato un accordo sulla riduzione delle 54 ore di lavorosettimanali previste nel vecchio contratto e mantenute anche inquello nuovo.Nonostante i notevoli miglioramenti introdotti dal nuovocontratto a favore delle lavoratrici domestiche, gli stessi sindacatiche hanno partecipato alla sua stesura hanno espresso qualcheriserva. Ad esempio per Ramona Campari, responsabile nazionale

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di Filcams-Cgil per il lavoro domestico, si doveva fare di più perla protezione della maternità visto che la nuova legge tutela lelavoratrici domestiche solo fino al terzo mese dopo il parto, dopodi che, se non tornano al lavoro, possono essere licenziate pergiusta causa: le lavoratrici occupate in altri mestieri hanno invecediritti di maternità fino al primo anno di vita dei figli. Oltretutto lemadri che lavorano come assistenti o colf non hanno diritto agiorni di permesso per curare i propri bambini, perchè il contattonon prevede il permesso di maternità (www.dirittiglobali.it). Per Ambrosini (2007), insieme al nuovo contratto di lavoro,sarebbe anche augurabile una politica più robusta di sostegnoeconomico nei confronti delle famiglie a basso reddito che hannobisogno di assistenza familiare; dovrebbe essere introdotta lapossibilità immediata di regolarizzare i rapporti di lavoro, al di làdi quote e sanatorie, per far emergere il lavoro nero; bisognerebbesocializzare i costi della cura: “Nel campo dell’assistenza, la soluzione auspicabile è quella delsuperamento della privatizzazione del rapporto di lavoro trafamiglie e assistenti domiciliari, interponendo soggettiorganizzativi terzi (enti bilaterali, istituzioni pubbliche, impresesociali..), che, assumendo la lavoratrice, la collocherebbero in unaposizione più simile a quella di un normale dipendente. I relativicosti non potrebbero che essere assorbiti dalla collettività, che nonpuò illudersi di risolvere i problemi dell’assistenza agli anzianicon il fai-da-te del welfare informale.” (Ambrosini 2007, p.1)Alla marginalità strutturale del settore lavorativo entro cui ledonne straniere si sono inserite, si è aggiunto il loro status diimmigrate. Le lavoratrici domestiche immigrate godono infatti diminori diritti di cittadinanza (politica, economica e sociale)rispetto ai loro datori di lavoro (Bakan e Stasilius, 1995): ciòcontribuisce a indebolire la loro capacità di negoziare, adattarsi ocontrastare le dinamiche di sfruttamento o subordinazione cuipossono andare incontro.La sanatoria del 2002 per colf e badanti ha attribuito, ad esempio,al datore di lavoro e non allo straniero il potere di denunciare ilrapporto di lavoro e regolarizzare la sua posizione: “E’ palesel’enorme potere contrattuale che il datore di lavoro eserciterà sullavoratore il quale accetterà qualsiasi condizione pur di farsifirmare i documenti necessari alla sua regolarizzazione”(Ballerini-Benna 2002, p. 131). Il permesso di soggiornorilasciato dopo la sanatoria è stato limitato alla durata di un anno,rinnovabile solo dopo aver dato prova della continuazione delrapporto e della regolarità della posizione contributiva. Conquesta legge si è legato il permesso di soggiorno allacontinuazione dello stesso rapporto di lavoro, non prevedendoalternative in caso di cessazione del rapporto, di fatto obbligandouna lavoratrice domestica a restare con lo stesso datore di lavoroanche in condizioni a lei non favorevoli, pur di non perdere ildiritto di rimanere in Italia. Attraverso le sanatorie per colf ebadanti lo Stato Italiano ha dimostrato di essere a conoscenzadella domanda e dell’offerta che esiste nel settore del serviziodomestico. Per Marfleet (2006) quando gli stati ricorrono asanatorie per gli immigrati irregolari svelano la demagogia delleloro politiche migratorie: da un lato negano la possibilità di

entrare legalmente in un paese dimostrando di essere “forti”contro l’immigrazione, dall’altro concedono amnistie perchéconoscono la presenza reale e il bisogno di lavoratori immigrati,contribuendo a incentivare, invece di combattere, la presenza di“irregolari”.

1.5 Badanti e datori di lavoro: lo studio del lavoro domestico

a pagamento in Italia

Ricerche svolte in Italia hanno analizzato diversi aspetti delle vitedelle lavoratrici domestiche straniere. In molti di questi studirisulta evidente che le donne che lavorano in Italia come badantinon sono “vittime” di una struttura su cui non hanno alcun potere.Queste donne, nonostante i problemi e le difficoltà che incontranonelle fasi della migrazione, nel lavoro e nella vita in un paesestraniero, spesso dimostrano intraprendenza e un grande desideriodi autonomia economica e sociale. Ad esempio, interviste agiovani donne dell’Europa orientale hanno rilevato che, attraversola migrazione, esse tentano di opporsi non solo alla lorocondizione di disoccupazione nel paese di origine, ma anche amodelli sociali e culturali che le vogliono dipendenti dai loromariti (Maluccelli 2002, p.233). Comunque sia, anche quandomigrano, le donne rimangono le prime responsabili della cura deifigli e dei familiari lasciati nel paese d’origine. Una ricerca svoltain Ucraina e in Romania con i familiari di madri emigrate in Italiaha sottolineato che, nonostante la distanza fisica, esiste unafortissima continuità relazionale tra i membri di una famigliatransnazionale, specialmente tra madri, figli e nonni rimasti nelpaese d’origine: essi rinegoziano i ruoli di cura e di aiutoreciproco senza che avvenga necessariamente una“disorganizzazione” della famiglia (Piperno 2007, p.37). Ledonne che emigrano per fornire cura alle famiglie italiane lascianoa casa propria dei familiari di cui rimangono le primeresponsabili, e spesso delegano ad altre donne i loro doveri dimadri o figlie. E’ interessante notare che, sebbenel’invecchiamento della popolazione italiana sia una delleprincipali ragioni di attrazione di lavoro femminile straniero, inrealtà anche in alcuni paesi esportatori di cura il trenddemografico è simile a quello italiano. In Ucraina ad esempio iltasso di fecondità è tra i più bassi del mondo (1,1 figli per donna)e nei prossimi anni si prevede che l’età media della popolazionecrescerà notevolmente. In Romania il tasso di fecondità è di 1,3figli per donna e la popolazione con più di 60 anni rappresenta il19,26% della popolazione totale, creando una situazione del tuttosimile a quella italiana (Piperno 2007, p.41). Come concilierannoin futuro le “badanti” il bisogno di cura nei loro paesi e nelle lorofamiglie con la necessità di vendere la loro cura in Italia?Le ricerche svolte fino ad ora hanno evidenziato che le mansionisvolte in ambito domiciliare, sebbene raggruppate sotto ilgenerico “lavoro domestico”, sono in realtà diverse edifficilmente ascrivibili a categorie precise: lavoro per la casa, perla persona, di cure sanitarie, di relazioni con i parenti, di relazionicon il vicinato, di socializzazione e lavoro con la rete dei servizi

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territoriali. Esso presenta una grande molteplicità di compiti e unaflessibilità che serve agli esseri umani di cui ci si occupa (pp.23-24). Esistono oltretutto enormi differenze tra chi presta servizio adore, svolgendo mansioni di pulizia e riordino, e chi convive con idatori di lavoro, assistendo gli anziani o lavorando come baby-sitter.Uno dei nodi particolarmente problematici di questa professione èproprio la modalità domiciliare. La coresidenza con i datori dilavoro implica intensità relazionali e ambiguità che possonocausare isolamento, mancanza di privacy e addirittura sfociare insituazioni di soprusi e violenza. La coresidenza è tuttavia spessouna scelta consapevole delle donne soprattutto all’inizio delpercorso migratorio quando, arrivate in Italia senza conoscere lalingua e senza reti di supporto, possono lavorare risparmiandovitto e alloggio sui soldi che guadagnano (Castagnone e Petrillo2007, p. 29).La coresidenza con le famiglie e le persone da assistere spessoimplica che il lavoro riempie ogni parte della vita delle lavoratrici,non permettendo loro una netta scansione tra tempo del lavoro etempo libero. Una ricerca sulle assistenti agli anziani hadimostrato che ogni momento della giornata può diventare unmomento di lavoro. Molte donne, ad esempio, cominciano alavorare la mattina appena aprono gli occhi: spesso devonopreoccuparsi dell’anziano che assistono senza avere la possibilitàdi una routine personale di preparazione (bere un caffè, farecolazione, farsi una doccia ecc.) separata dall’orario di lavoro(Degiuli 2007, p. 196). Poiché i compiti da svolgere sono vari edifficilmente elencabili molte lavoratrici si ritrovano a dovernegoziare continuamente disposizioni di lavoro che cambiano neltempo rispetto agli accordi presi al momento del contratto formaleo informale. Col passare del tempo e una volta imparato a parlarecorrentemente l’italiano, le lavoratrici trovano comunque modo didifendere i loro diritti e la loro privacy; riescono ad acquistare uncerto potere di contrattazione nei confronti del datore di lavorodiventando “insostituibili” o ottenendo il permesso di soggiorno(Degiuli 2007, p. 203). Alcune ricerche hanno inoltre descritto laquantità di emozioni che il lavoro di cura comporta: occuparsi deibisogni di una famiglia o di un anziano implica un lavoroemozionale costante e continuo (Morini 2001).Esistono, in Italia, pochi studi che hanno come oggetto di ricercaanche gli altri attori sociali coinvolti nella relazione del lavorodomestico retribuito: i datori di lavoro, le famiglie, le agenzie dicollocamento. Tra questi, Alemani (2004) analizza in una ricercaqualitativa svolta a Milano la domanda di lavoro domestico: leinterviste ai datori di lavoro evidenziano che appaltare il lavorodomestico e di cura è una fonte di tensioni e conflitti chetrascendono l’ambito del privato (Alemani 2004, p.137). L’autriceriscontra che, essendo il rapporto di lavoro basato sullarelazionalità, i datori di lavoro confondono le competenze chepossono richiedere ad una lavoratrice con le qualità soggettivedella persona: il sovrapporsi di questi ambiti rende il rapporto dilavoro faticoso e stressante (Alemani 2004, p.148). Esistonotuttavia grandi differenze tra datori di lavoro con redditi più omeno elevati, e con sistemi etico-valoriali diversi. Ad esempio

coloro che tendono ad accentuare le differenze sociali tra colf edatore di lavoro costruiscono il rapporto di lavoro domestico inmaniera molto diversa da chi invece tende a minimizzare ledifferenze (Alemani 2004 p.151). Le datrici di lavoro cheminimizzano le differenze fanno, ad esempio, fatica a “dareordini” o a detenere il potere decisionale perché vogliono apparirebuone e accomodanti: solo con lo sviluppo della relazione con lalavoratrice si attenua il senso di responsabilità decisionale(Alemani 2004, p.154). Scrinzi (2004) invece ha osservato comenei servizi di collocamento del lavoro domestico nella città diGenova vengono elaborate categorie che assegnano alle donneimmigrate differenze culturali e “naturali” rispetto alle donneitaliane, costruendo una sorta di femminilità “altra” che le rendeadatte al lavoro domestico e di cura (Scrinzi 2004, p.130).L’osservazione compiuta nei centri di collocamento per badanti ecolf di Genova ha messo in risalto la costruzione da parte deglioperatori e dei clienti del servizio di una sorta di “vocazioneetnica” a certi tipi di lavoro domestico: si dice ad esempio che ledonne peruviane sono più adatte delle nigeriane ad assistere glianziani o che le marocchine sono più predisposte ai lavori dipulizia (Scrinzi 2003, p.3).Secondo Andall (2000) è comunque necessario svolgere ulterioriricerche che mettano in correlazione le esperienze delle lavoratricidomestiche immigrate con le datrici di lavoro e con le struttureentro cui esse si muovono. L’autrice, nella sua ricerca sulle donnenere in Italia, evidenzia che, ad esempio, esiste un doppiostandard di costruzione di “femminilità” delle donne italiane edelle donne immigrate nel servizio domestico. Ricostruendo lastoria dei rapporti di genere in Italia, l’autrice evidenzia chementre le italiane hanno rifiutato a partire dalla fine degli anniSessanta un’identità fondata solo sulla maternità e sul matrimonioa scapito dell’identità di lavoratrici, per le donne immigrate chevivono con i datori di lavoro è vero l’opposto. Alle domestiche atempo pieno viene spesso negato il diritto alla famiglia e adesempio non riescono a trovare lavoro se hanno considerevoliimpegni familiari: le badanti si preferiscono libere e disponibili alavorare. A queste donne è spesso negata qualsiasi altra identitàche non sia quella di lavoratrice, a scapito delle altre identità digenere, di madri e di mogli (Andall 2000, p.4). “La famiglia”difesa dai politici italiani e dalla chiesa cattolica è quindisoprattutto la famiglia italiana, non quella delle badantiimmigrate.

Conclusioni

Il movimento delle donne che migrano come badanti e colf versol’Italia è un fenomeno che ha conosciuto una forte crescita negliultimi decenni. In questo articolo la vendita della cura vieneinserita nel più ampio dibattito sulla globalizzazione economica esulle migrazioni internazionali. Lo studio del lavoro domestico edi cura in Italia ha aperto nuovi dibattiti sulla divisionepubblico/privato, sul significato di “emancipazione” femminile,sui cambiamenti nella famiglia, sul welfare, sulle politiche

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migratorie, sui diritti dei lavoratori. In Italia il lavoro domesticosalariato non è un nuovo fenomeno, molte sono le donne e gliuomini che nel dopo guerra sono emigrati dalle campagne perandare a servizio da famiglie benestanti nelle città. L’ingressodelle persone immigrate in questa professione ha avviato perònuovi processi da studiare e comprendere. Non è più sufficienteanalizzare il lavoro domestico salariato come sempliceconseguenza di differenze di classe, poiché molte delle colf ebadanti straniere appartengono alla stessa classe sociale deidatori di lavoro. Occorrono ulteriori ricerche che analizzino imodi in cui la nazionalità, l’etnia, la “razza” e il generediventano pratiche discorsive nei rapporti tra datori di lavoro elavoratori: come vengono esercitate o contrastate le “polimorfetecniche di potere” (Foucault [1976] 1998, p. 11) che esistonoall’interno del lavoro domestico e di cura salariato? Lo studio dei fenomeni migratori ha, in aggiunta, dato luogo adelle importanti riflessioni sul movimento delle personeattraverso i confini nazionali. La fine degli imperi coloniali, losmantellamento dei regimi socialisti, la globalizzazionedell’economia neoliberale sono alcuni tra i fattori che hannosollecitato un notevole movimento di persone che da “casa loro”sono arrivate “qui da noi”, inducendo le identità nazionalieuropee a decostruire le proprie concezioni di Altro e Medesimo,a delineare nuovi confini fisici e ideologici, a determinare nuovelegislazioni e strutture di inclusione o di esclusione dei migrantie dei richiedenti asilo. E’ proprio nell’era delle comunicazioni, diinternet, delle imprese multinazionali, di retorica delle frontiereabbattute, di voli low-cost che permettono spostamenti rapidi,che invece l’Europa e l’Italia hanno inasprito le loro politichemigratorie: il movimento delle persone viene spesso paragonatoa “onde” e “flussi”, quasi fossero catastrofi naturali pronte aabbattersi con violenza sulle proprie coste, che effettivamentesono diventate il luogo di morte di molti di coloro che cercano dientrare in Italia. Per Sayad (2002) la migrazione è un fattore universale erappresenta una delle condizioni ricorrenti nella storiadell’umanità: il migrante è pertanto “fuori luogo” solo se pensatonel quadro dello stato-nazione. Dato che lo stato-nazione per suastessa natura discrimina (poiché aspira all’omogeneità politica,sociale, economica e religiosa) quando si traccia una linea didemarcazione tra cittadini e stranieri si pensa l’immigrazionesempre in termini nazionalisti:“Definire un movimento richiede di tracciare una riga econvenire che essa è stata attraversata. Dove tale linea vengatracciata geograficamente e amministrativamente èsostanzialmente una costruzione sociale e politica.” (Massey2002, p.47)L’immigrazione infatti rappresenta il limite dello statoperturbandone l’ordine, intaccandone la perfezione mitica e lasua logica intrinseca, impedendone il totale compimento.Interrogare l’immigrazione significa invece de-naturalizzare lostato e storicizzarlo: lo stato non è un oggetto statico, naturale,eterno, ma un processo in continua costruzione e contestazione.Lo stato e la nazione non esistono a priori, non sono una sorta di

“naturale” prolungamento dei legami di parentela, di famiglia, dietnia, non esistono nel sangue come una sorta di richiamoprimigenio, come invece sostiene Clifford Geertz (1963), cheadotta una visione “primordialista” del legami etnici e nazionali.Secondo Geertz “[…] alcuni legami sembrano sgorgare più daun senso di naturale - o spirituale - affinità che dall’interazionesociale.” (1963, p.42) Questa visione dell’appartenenza etnica enazionale come innata e “naturale” è stata criticata da moltiautori per il suo riduzionismo, essenzialismo e mancanza dipotere esplicativo (Eller-Coughlan 1993).E’ stato invece dimostrato che le identità etniche e nazionali nonesistono a priori, ma sono processi legati all’intenzionalità,relazionali e situazionali: invece di essere ineffabili einspiegabili, esse possono essere manipolate e usate per farfronte a diverse circostanze (Nagel 1998).Lo stato quindi è una “comunità immaginata” (Anderson 1983),legittimato da una serie di tradizioni inventate e auto-celebrative(cerimonie pubbliche, monumenti, bandiere, inni ecc.)(Hobsbawm 1983), una formazione egemonica che insiste solosu certe identità e ne rifiuta altre:

“[…] per fare questo un’intera serie di modelli positivi onegativi di controllo sociale vengono usati: frontiere, passaporti,muri di Berlino, e anche modi di socializzazione: linguenazionali, religioni di stato, affermazioni obbligatorie pubblichedi fedeltà alla madrepatria. Lo stato può anche imporre delleidentità etniche a livelli inferiori che la società nel suo insieme,designando alcuni dei suoi soggetti come ‘ebrei’, ‘ispanici’ ecosì via.” (Worsley 1984, p.246) La “logica della nazione” (l’idea di un corpo chiuso, omogeneo,non permeabile, indivisibile, culturalmente auto-sufficiente eche pretende una devozione esclusivista) presenta quindi delledifficoltà e delle imperfezioni: a livello empirico (perché inrealtà su un territorio convivono una molteplicità di gruppi edidentità), a livello etico (perché questa logica spinta all’estremopuò portare al genocidio e al totalitarismo) e a livello teorico(perché è impossibile eliminare completamente la differenza)(Sayyid 2000, p.33). La “logica della nazione” viene quindicontinuamente sfidata dalla presenza dei migranti, dei rifugiati,dei richiedenti asilo o di chiunque sia visto come “fuori luogo”:attraverso la loro stessa presenza i migranti pospongonocontinuamente la volontà di chiusura della nazione e il suoassolutismo. Ecco perché lo stato continua a percepire lapresenza di migranti e rifugiati come una minaccia, e lacompresenza di più culture come una forza centrifuga che va inqualche modo evitata. I migranti sono percepiti come: “anti-nazione, una presenza che sovverte, divide e rende ibridal’identità nazionale, sottolineando l’impossibilità di costituireuna nazione” (Sayyid 2000, p.43).Se l’idea di uno stato nazionale che all’interno di uno spaziodelimitato racchiude una sola identità e appartenenzaterritorializzata riuscisse invece a trasformarsi in pratiche dicittadinanza inclusiva e partecipatoria, sarebbe possibile lacostruzione di una “italianità” che offre spazio anche a diverseculture, valori e aspirazioni. Un diritto di appartenenza non

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esclusivista realizzerebbe, forse, anche un “multiculturalismocritico” che non si limiti a “capire” e “tollerare” le diversità, macomporti una trasformazione politica, uno scambio dialogico conla differenza, e non solo con i suoi aspetti estetici e esteriori. Il“multiculturalismo critico” prevede infatti l’incorporazione(Goldberg 1994) ossia una trasformazione dei valori dominanti daparte di tutti i gruppi coinvolti e una negoziazione dell’arenapolitica e culturale ogni volta che un nuovo gruppo viene adinserirsi:“Il corpo delle relazioni politiche è alterato in manierairreversibile poiché nuove parti si uniscono e si fanno strada neimeccanismi di potere e nelle espressioni culturali.L’incorporazione mina i terreni dell’integrazione edell’esclusione, perchè offre potere a chi è marginale in relazioneal corpo politico dominante. Estende il suo potere trasformativo,non si appropria delle espressioni culturali dell’Altro mentre lo

tiene ad una distanza non minacciosa. Cerca invece di indeboliree alterare, all’interno della stessa struttura dominante, i valori checontrollano e confinano.” (Goldberg 1994, p.9)Oltretutto, riconoscendo ai migranti pieni diritti di cittadinanza(nella sfera civile, politica e sociale) (Van Steenbergen 1994) lasocietà sarebbe, probabilmente, meno colpita dalla violenza, dallacriminalità, dai fondamentalismi religiosi e culturali, dalle attivitàdei gruppi di estrema destra contro gli immigrati:“…il modo in cui migranti e rifugiati vengono al momento trattati,l’ineguaglianza nei diritti e il trattamento che ricevono, non puòinfondere in loro il senso di appartenenza e quindi laresponsabilità verso gli altri, che a lungo andare è nell’interesse ditutti.” (Spencer 1995, p.14)

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Tirtha come passaggio

La destinazione finale del pellegrino hindu è il tirtha. Il terminederiva dalla radice vedica “rta” che significa transitare, passare,attraversare. La connotazione di tirtha si è evoluta nel tempo: inprincipio, in riferimento ai testi vedici, designava un “guado” insenso letterale e, in seguito, ha assunto significato di guado“spirituale”, luogo di passaggio tra il samsara, ciclo dellerinascite, e il moksa, liberazione1. Successivamente, nei celebritesti religiosi Mahabharata e Purana compare il terminetirthayatra per riferirsi al pellegrinaggio come ricerca, cammino2.Questi testi affermano che ogni pellegrinaggio è da compiersi inparticolari periodi dell’anno considerati particolarmente propizi,specialmente nel mese di Kartik (ottobre-novembre) durante laluna piena. La religione hindu, infatti, è pervasa profondamentedall’idea che le vite delle persone e gli eventi che accadono sianoinfluenzati dal movimento dei pianeti. L’astrologia pertanto è divitale importanza per determinare il momento adatto e favorevoleper iniziare un rito o un viaggio. Il pellegrinaggio, in particolare,grazie allo sviluppo di ottimi sistemi di comunicazione e trasportoin tutta l’India, è divenuto una pratica molto popolare ed èconsiderato particolarmente fausto se intrapreso seguendo lacorretta prescrizione astrologica oppure durante la festività legataal particolare tempio da visitare.Tutti i centri di pellegrinaggio sono collegati l’uno all’altro comei nodi di una mappa la quale traccia una linea immaginaria lungoi luoghi in cui si narra nei testi religiosi la discesa degli avatara,manifestazioni divine sulla terra. Il modo in cui i fedeli hinduconcepiscono i tirtha è legato a una visione del cosmo presentatanei Veda e persistente ancora oggi nell’immaginario collettivo.Secondo tale concezione il referente simbolico dei tirtha non è il‘sacro’ ma la totalità, tanto che lo spazio del tempio, ksetra, è ingrado di racchiudere lo spazio dell’universo nella sua interezza.Come mette in luce C. J. Fuller:

“the logic of macrocosm and microcosm is relevant forunderstanding pilgrimage centers. In the end, any pilgrimagecenter, like any temple, can be homologized with the human body,so that a journey to the site is (or is like) a pilgrimage withinoneself. The enlightened Hindu may then partecipate inpilgrimage without phisically moving anywhere, just as a

worshiper may revere a god or goddess within his own bodyconceived as a temple. Because the pilgrimage center (and thebody) can also be equated with the cosmos, such a center issimultaneously a microcosm of India, the world, and the universe.Hence the development of “sacred geography”, in which theuniverse is mapped on to the site.”3

La coincidenza tra microcosmo e macrocosmo nello spazio delsantuario è di primaria importanza: il tempio è associato al corpoumano cosicché il pellegrinaggio verso un santuario è anche unpellegrinaggio dentro se stessi4. Entrambi, lo spazio del santuario e il corpo, a loro volta sonointesi come cosmo tanto che la circumambulazione, pradaksina,ossia il cammino in senso orario attorno al santuario, centro delpellegrinaggio, è concepito come percorso attorno all’universo.I tirtha, secondo la mitologia classica, possono mutare,trasformarsi in seguito alle azioni dei pellegrini e degli asceti chevi giungono: uno dei maggiori effetti che si narra venganoprodotti in questi luoghi è il tapasya, il calore ascetico generatodagli esercizi di meditazione, rinuncia e controllo del sé. Si pensache il movimento stesso del pellegrino sia in grado di produrreenergia, calore ascetico attraverso le difficoltà e la fatica delcammino lungo l’itinerario spesso impervio. Sia nella lingua sanscrita, sia in quella dravidica è evidente che itermini utilizzati per designare il pellegrinaggio (gam-, gaccha-,yam, yaccha-, yatra) contengono implicitamente nella propriaradice la connotazione dell’andare, del muoversi. Il movimento,lo spostamento, specialmente se effettuati con sforzo, con dolore,con fatica, sono aspetti centrali della pratica del pellegrinaggiotanto che quest’ultimo è considerato maggiormente meritorio seeffettuato a piedi. I tirtha, situati in prossimità di templi, gravitano spesso intornoall’acqua di un fiume concepita come elemento catartico. L’acquadel Gange in particolare rappresenta un oggetto di devozione e diculto il cui momento focale consiste in bagni, abluzioni e nellaraccolta della Gangajal, acqua del fiume considerata di estremapurezza e da conservare in speciali anfore da utilizzareeccezionalmente durante rituali religiosi5.Il fiume stesso personifica la dea Ganga, la “Grande Madre”concepita come una delle manifestazioni della Devi, ossia ilprincipio femminile per eccellenza associato al dio Siva e

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Il pellegrinaggio hindu come doppio spostamentoViaggio religioso e movimento trasversale alla realtà sociale indiana

di Isabella De Ponti

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rappresentata come sua compagna6. Immergersi nelle acque delfiume significa entrare in contatto fisico con l’elemento divinointeso non come un’astrazione, bensì come qualcosa di vivo,certamente inafferrabile, ma comunque reale e immanente. Nelpellegrinaggio e durante le abluzioni nel fiume, il fatto che sipreghi attraverso il corpo e il movimento mostra come glielementi della corporeità e della sensorialità giochino un ruolocentrale nelle pratiche rituali hindu. Il movimento e il corpo sono protagonisti, infatti, di molti ritualiche si svolgono nel luogo di pellegrinaggio e primo fra tutti è ilpradaksina, o circumambulazione, a cui ho già accennato più inalto. In questo rituale, che consiste nel cammino in senso orarioattorno al santuario, il movimento non riguarda solo il pellegrino,ma secondo la concezione hindu, concerne anche il dio: da un latoil devoto che viene dall’esterno effettua diversi giri attorno altempio avvicinandosi sempre più all’altare del dio, sanctasanctorum situato al centro dell’edificio. Inversamente la divinità,dopo un rituale appropriato, si pensa lasci il centro del santuarioseguendo il percorso di centri concentrici sempre più larghi fino auscire dall’edificio e rientrarvi solo dopo una completacircumambulazione.Secondo l’immaginario hindu trasmesso sin dai Veda, tutte lemanifestazioni materiali e immateriali necessitano di uno spaziodi esistenza (loka): dei, uomini, animali, piante, fuoco, terra,acqua, vento, sentimenti, pensieri e via dicendo. Come si è visto,gli dei si manifestano nello spazio del tempio meta dipellegrinaggio. Pertanto, al movimento centripeto dell’uomo perraggiungere il Darsana, la visione del divino al centro delsantuario, corrisponde il movimento centrifugo del divino ilquale, attraverso un’uscita dal tempio, si crede si manifesti nellospazio esteriore. Come sottolinea Axel Michaels:

“a pilgrimage is distinguished from the everyday worship of adeity mainly by the joy and efforts of a pilgrimage, which is madevaluable and meritorious by the darsana, the beneficial view ofthe deity […] With every tour (Pradaksina), the pilgrim receivesthe sacred power possessed by the enclosed space. This can be abrief walk around the gods in the temple, but also a five-daysprocession […].”7

La circumambulazione culmina, come ho già accennato, nellavisione della divinità nel tempio. Questo momento èparticolarmente significativo per il pellegrino. Infatti si crede chedurante la visione divina venga sprigionato un potere in grado dicurare malattie, in particolare la sterilità delle donne. Durante questa fase del pellegrinaggio, la quale corrisponde,secondo la tradizione hindu, non solo alla semplice visione diun’immagine divina, bensì all’apparizione del dio stesso, il fedeleoffre in dono fiori, frutti e dolci. Questa offerta è detta puja,termine sanscrito che si può tradurre approssimativamente con“adorazione”. Nei centri di pellegrinaggio la puja assume formespeciali: in questi templi si prevede di solito un bagno ritualedell’icona (abhiseka) durante il quale olio di sesamo e lattecagliato vengono cosparsi sulla superficie della statua. A questo

punto la divinità è rivestita di abiti nuovi e adornata di oro, gioiellie profumi, simbolo di una nascita in un’alta casta. Questacerimonia di lavaggio e vestizione dell’icona della divinità vieneeseguita dai sacerdoti del tempio i quali recitano i mantra, versisacri.In seguito all’offerta di elementi vegetali, monete, fiori e incenso,si riceve la benedizione dal sacerdote sotto forma di tilaka, unsegno in centro alla fronte fatto con pasta di sandalo (candana) ocon polvere rossa di curcuma (kunkuma). Le offerte sonoconsacrate dal contatto con la divinità e parte di esse ritorna aldevoto sotto forma di prasad, “avanzo” di cibo divino il qualeviene consumato insieme agli officianti del tempio e aglispecialisti rituali.Questi ultimi, durante la fase finale del rito, fanno oscillare conmovimento rotatorio varie lampade di canfora di fronte all’iconae poi le avvicinano ai fedeli i quali vi pongono le proprie manisocchiuse per poi toccarsi occhi e volto prendendo parte così alcalore e alla ‘luce divina’. Un altro elemento centrale dei luoghi di pellegrinaggio sono leprocessioni che trasportano le statue delle divinità. Esse mostranocome lo spazio del santuario non sia chiuso in sé stesso,circoscritto, fisso, stabile, bensì in movimento e in continuaapertura con lo spazio esteriore che si allarga durante i cortei. Inalcuni casi, infatti, le processioni si spingono a diversi chilometridal centro da cui partono e spesso si congiungono a corteiprovenienti da altri tirtha creando così una rete di relazioni tratempli e, di conseguenza, tra culti di diverse località.Molto spesso la visita ai tirtha rappresenta per i devoti una visitaagli antenati. In particolare presso il fiume si va per soddisfare ipitr, padri, cosicché il pellegrinaggio rappresenta un beneficionon solo per colui che lo compie, bensì per tutto il lignaggio.Le motivazioni che spingono i devoti hindu a compiere unpellegrinaggio sono svariate come svariati sono i tipi di pellegrinie pellegrine che vi partecipano. Spesso tali motivazioni sonofinalizzate a chiedere segretamente una grazia o l’esaudimento diun desiderio schiettamente pratico e concreto riguardo la famiglia,la salute, il lavoro, il denaro. In altri casi, specialmente per quantoriguarda sadhu e rinuncianti, il fine ultimo del pellegrinaggiocoincide con la meta ultima e suprema, ossia la liberazione dalciclo delle rinascite, causa di imperfezione e sofferenza. Il concetto di liberazione, di morte è collegato allo spaziosimbolico del tirtha: le persone anziane che aspettano di morirespesso si recano nei luoghi di pellegrinaggio per prendersi curadei templi e dei ghat8. Il movimento è dunque centrale in tutto il percorso delpellegrinaggio, non solo perché il viaggio in sé verso il tirtharappresenta uno spostamento in senso stretto, ma anche perché intale pratica sono implicati molteplici fattori che riconducono alconcetto di passaggio, concetto peraltro intrinseco al terminestesso, tirtha, riferito al “guado”. Movimento, passaggio,attraversamento dal mondo dei vivi al mondo degli antenati, dalciclo delle rinascite alla liberazione, da uno spazio e tempoquotidiani ad una sfera spazio-temporale straordinaria in cui,tuttavia, la distinzione tra l’una e l’altra dimensione si fa meno

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netta e mostra contorni labili, effimeri, inconsistenti. Movimento del pellegrinaggio, inoltre, inteso come mototrasversale che perfora tutti gli strati della società hindu al di ladelle distinzioni di casta, genere, lingua e culto e mette tutti,almeno apparentemente, sullo stesso piano di pellegrini in gradodi immaginarsi e percepirsi appartenenti ad un’unica, enormecomunità religiosa.

Pellegrinaggio come movimento trasversale al sistema sociale

hindu

L’antropologia in passato ha tralasciato spesso di parlare dipellegrinaggio perché considerato come una pratica eccezionale,non regolare, non quotidiana, non abituale. Esso, in realtà, è daconsiderarsi come un processo complesso in grado di incarnare erappresentare ruoli sociali e mettere in scena valori e significaticollettivi. E’ interessante chiedersi in che modo un rituale sociale anticocome il pellegrinaggio possa modellarsi e assumere nuove formerispetto ai cambiamenti storico-sociali. Il pellegrinaggio è un ritoprototipico, ma non atemporale o astorico, infatti, inserito nelprocesso di trasformazione o di assestamento sociale, questo tipodi viaggio non si sottrae ai mutamenti e alle dinamiche dellacultura, della politica, dell’economia. Adeguandosi alle diversestrutture economiche e sociali, i pellegrinaggi hanno assuntoforme e significati diversi in relazione alle ansie, ai desideri e allenecessità che i fedeli hanno dovuto affrontare nel corso dei secoli.Il pellegrinaggio, pertanto, non va interpretato comeun’esperienza rituale cristallizzata, ma inquadrato nei varicontesti culturali, nei diversi modi in cui ogni volta si sonoespressi gli uomini. E’ inevitabile che flotte di fedeli in viaggio abbiano condizionatola realtà socio-economica, e a loro volta ne siano staticondizionati. Infatti muovendosi in direzione dei santuari,conoscevano e venivano a contatto con nuovi, inediti modi divivere, effettuavano incontri con altra gente. Lungo gli itinerari dipellegrinaggio, si istituì una fitta rete di comunicazione tra popolidi diversa provenienza tanto da trasformare i centri urbani, le viedi trasporto e le attività produttive. Si è dovuto disporre struttureper l’incolumità dei pellegrini lungo i tragitti spesso impervi cheli conducevano ai santuari, costruire ricoveri per accoglierli,sfamarli e dissetarli, strade per facilitare il loro passaggio,dispensari per curarli in caso di epidemie, associazioni perpianificare i viaggi. In prossimità dei centri di pellegrinaggio elungo le strade che conducevano ad essi nacquero cerimonie,commerci e attività di vario genere e man mano che crescevano lenecessità e i bisogni dei pellegrini si sviluppava un complesso enuovo sistema ricettivo e lo stesso territorio in qualche modocambiava, si modificava. Come è possibile considerare questo microcosmo realeestremamente composito? Come pensare la complessità delrituale del pellegrinaggio, ambito in cui convergono valori esimboli intesi non tanto come categorie rigide, definite una volta

per tutte, bensì come costruzioni continuamente contrattate nellagrande varietà degli atteggiamenti, delle motivazioni e delle storiedi vita delle diverse persone che vi partecipano?Mi pare di grande interesse occuparsi della complessità delletrame relazionali e simboliche che caratterizzano la vita di unpellegrino hindu dei giorni nostri. In questo senso la pratica delpellegrinaggio sembra trovarsi in mezzo a due diverse tendenze.Da una parte è un’istituzione dotata di una potente forzaconservatrice e conformista che mette in scena e incorpora unaserie di valori e simboli tradizionali i quali vanno a rinvigorirel’ordine sociale dominante. Dall’altro lato il rituale delpellegrinaggio pare essere uno spazio fortemente dinamico, attivoe reattivo, ovvero un ambito in cui si mettono in gioco posizioni,ruoli, si discutono valori, si elaborano strategie. In tale ambitocircolano persone, idee, esperienze, denaro, tutti elementi inmovimento che spesso vanno ad intersecarsi con l’industriaturistica legata ai cosiddetti viaggi ‘sacri’. La turisticizzazione e spettacolarizzazione del momento delpellegrinaggio sono enfatizzate e collocabili entro un contestopolitico, economico e sociale profondamente reazionariofinalizzato a rafforzare ed esibire le cosiddette identitàtradizionali. Anche sotto questa luce è interessante indagare ilrituale del pellegrinaggio chiedendosi, da un lato, fino a che puntosia una pratica istituzionalizzata per supportare sistemi di valorivigenti e, dall’altro lato, se e, eventualmente, come possa essereconsiderato spazio aperto vulnerabile a tutti gli eventi ecambiamenti storico-sociali in cui possano essere discussi,problematizzati, trasformati e ridisegnati ideali, ruoli e simbolitradizionali.I maggiori centri di pellegrinaggio in India stanno divenendosempre più importanti a livello pan-indiano poiché molto spessoinglobano, sotto un’idea omogeneizzante e astratta di religiosità,differenti tipi di culto locali e differenti tipi di fedeli. La strutturarigidamente gerarchizzata e differenziata della folla inprocessione (differenze di casta, lingua, provenienza e genere) èinglobata in una sorta di unico culto mobile: la flotta di pellegriniin movimento mette in scena una collettività che si identifica nelmedesimo rituale eseguito nella medesima maniera. Sotto l’egidadi questo emblema di unificazione religiosa, una collettivitàeterogenea si identifica e rafforza attraverso il pellegrinaggio unapropria religiosità universale svincolata dall’ancoraggioterritoriale.Interessante mi pare dunque problematizzare sulle politiche, lestrategie e le retoriche socio-economiche che sottostanno eorganizzano l’estetica del pellegrinaggio, domandandosi cheruolo possano giocare i nuovi movimenti nazionalistici hindu.Come è noto, infatti, tra questi è diffuso il senso di nostalgia peril passato, un desiderio di ritorno all’ordine dei presunti valori‘autentici’ e tradizionali. Pertanto l’elaborazione dell’identitàhindu è fortemente correlata all’idea di stato-nazione, un’idea diidentità che si fonda su una contrapposizione rispetto agli indianimusulmani, ai cristiani, al cosiddetto processo dimodernizzazione e all’ideologia laica occidentale9. Che ruolo puògiocare il pellegrinaggio hindu studiato sotto questa luce?

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Come sottolinea T. P. Varma:

“where political ambitions united or devided the country,pilgrimage wrought a unity based on religion, on a faithin certaineternal verities […] Pilgrimage to sacred rivers, pools, mountainsand to shrines at or near some holy places has held a powerfulattraction not only for the common folk but also for the mentallyand spiritually elevated personages […] The tirthayatra is open toall, whether he is a dvija or sudra, man or woman, married orunmarried, king or ascetic.”10

Ci sono vari tipi di pellegrinaggio riconducibili a differenti livelligeografici: alcuni fungono da centri di congregazione per i devotistanziati nelle immediate vicinanze e fanno capo a divinità locali,spesso dee. Altri tirtha, come Hardwar, Varanasi lungo il Gange,costituiscono dei punti focali per l’intero subcontinente indiano.Infine esiste tutta una serie di luoghi di pellegrinaggio regionaliche, insieme agli altri due tipi, genera una fitta e gigantesca reteattraverso cui valori e simboli fluiscono e vengonointerminabilmente negoziati e ridisegnati in uno spazio collettivoin cui i pellegrini, nonostante le profonde diversità diprovenienza, si immaginano e si percepiscono appartenenti adun’unica grande comunità nazionale hindu. Come affermaSurinder M. Bhardwaj:

“Numerous sacred places distributed in various parts of Indiaattract millions of pilgrims; some places draw pilgrims from allover the country, other largely from the neighboring villages.Thus, religion assumes an important role in generating acirculation mechanism in which all the social strata of Hinduismpartecipate. The liberal distribution of sacred places throughoutIndia has created an essentially continuous religious space inwhich the otherwise great regional cultural diversity becomes lesssignificant for the movement of pilgrims over long distances.”11

Ancora oggi, ma in particolare nel passato, erano i purohit,specialisti rituali nei pressi dei tirtha, a promuovere e organizzareil pellegrinaggio dei fedeli persuadendo questi ultimi aparteciparvi, soprattutto attraverso la citazione di antichi testisacri nei quali era fortemente raccomandata la pratica delpellegrinaggio come estremamente meritoria12. Attualmentel’istituzione del pellegrinaggio è rafforzata dal fenomeno deimedia i quali ne diffondono a livello pan-indiano notizie e netrasmettono su radio e televisione le cerimonie principali,cosicché anche un hindu che non ha la possibilità di parteciparvimaterialmente, può comunque accedervi virtualmente in unospazio simbolico di condivisione e appartenenza. Il fatto che oggiil pellegrinaggio diventi anche virtuale e, per certi versi,deterritorializzato, che sia divenuto un rito di massa e che simescoli sempre più con l’industria turistica mostra la complessitàdel fenomeno13.Questo vasto movimento che porta milioni di fedeli hindu ognianno a visitare i sacri tirtha esercita una forte influenza nelrinvigorimento dei valori tradizionali, contribuendo ad alimentare

quel potente sentimento di appartenenza a una comunitànazionale hindu percepita come omogenea, nonostante leprofonde differenze religiose, linguistiche e sociali checaratterizzano le varie realtà locali indiane.Non è casuale che nel 1983 il VJP, un’organizzazione collegataalla RSS, organizzò una tripla processione, l’Ekatmata RathYatra, “il pellegrinaggio dei carri per l’unificazione”, dell’acquadella Ganga per dimostrare ed esibire l’unità degli hindu. Tutte leprocessioni (da Gangasagar in Bengala a Somanath nel Gujarat,da Hardwar nell’Uttar Pradesh a Kanyakumari nel Tamil Nadu, daKatmandu in Nepal a Rameshwaram in Tamil Nadu) siincontrarono a Nagpur, città in cui sorse il RSS. Su ogni carrovennero installate immagini e icone di Madre India e della Gangae ogni processione trasportava acqua del Gange, simbolodell’unità hindu. Se il successo del nazionalismo nell’era modernaè dovuto al carattere “sacro” che la nazione ha ereditato dallareligione, il caso del nazionalismo hindu è emblematico e cimostra molto bene come l’idea di nazione possa intrecciarsi epersino identificarsi in una divinità, come, nello specifico, laGrande Madre India con la Ganga, incarnazione della Deaomonima14.Tuttavia, questa omogeneità di culto e religione è solo apparentee altro non fa che celare differenze non solo di culti e provenienza,ma anche di casta e genere le quali, non solo restanonotevolmente presenti, ma vengono spesso persino rafforzate. Nello spazio e nel tempo eccezionali del rituale il controllosociale sembra affievolirsi, la forte divisione di ruolo tra donna euomo e tra diverse caste pare negata di fronte all’apparenteomogeneità: in tale ‘promiscuità’ tutti si percepiscono nellacondizione di pellegrini e condividono il medesimo orizzontevaloriale. Asimmetrie e barriere di casta o genere sembranosospese in tale contesto in cui sono proiettati modelli ideali diuguaglianza. Tuttavia questa sospensione dei rapporti sociali èsolo temporanea e illusoria e altro non fa che fondare ancora unavolta il sistema di regole su cui si basa la realtà quotidiana. Ilcontesto quotidiano e ordinario e quello eccezionale delpellegrinaggio rappresentano una coppia di fattori complementaripoiché l’uno conferma l’altro e lo rispecchia: essi, lungidall’essere due fenomeni a sé stanti, possono essere consideraticome due canali comunicanti per cui le tensioni dell’uno siriversano nell’altro. L’ideale di parità nel rituale sembra avere unafunzione specifica, ossia, come base di ogni rapporto sociale,rafforza ancora una volta gli antagonismi e i conflitti che soloapparentemente e temporaneamente sono negati nel tempoeccezionale del pellegrinaggio15. Come mette in luce I. Karve nel suo studio su un pellegrinaggioin Maharashtra, le divisioni sociali tra hindu persistono e sonoforti anche sotto l’apparente egualitarismo devozionalistico enazionalistico che spesso sembra emergere come vorrebberoalcune organizzazioni politiche di cui si è parlato più sopra16. Lastudiosa descrive nel suo lavoro come i membri appartenenti adifferenti caste camminano insieme, ma mangiano separatamente,le donne vengono spesso omesse da rituali e preghiereesclusivamente di dominio maschile e, nel frattempo, si occupano

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della preparazione del pasto, mentre specialisti religiosi mettonoin scena violente competizioni con sacerdoti che mirano adetenere il potere rituale sui fedeli. Il pellegrinaggio, nonostanteil suo richiamo all’uniformità del culto hindu, in realtà è uncontesto in cui avviene una intensa teatralizzazione dei rapporti diforza e autorità. In tale momento extraquotidiano si rendonomanifesti molteplici meccanismi sociali che emergono e vengonoespressi mostrando conflitti, lacerazioni e disparità. Ognipellegrino porta con sé una propria storia, classe, cultura e ruolosociale, di conseguenza il momento apparentemente egualitariodel rituale, del dono e dell’offerta è dotato, in realtà, di un propriocodice di socializzazione che fa intravedere e conferma il sistemacomunitario.Il pellegrinaggio, letto dal punto di vista del movimento, dunque,può assumere diversi significati. Può essere concepito comeviaggio lungo un itinerario che conduce al tirtha e intrapreso persvariate motivazioni, sia pratiche sia spirituali, tutte volte al fineultimo rappresentato dal Moksa, liberazione dal ciclo dellerinascite. Può essere interpretato anche come una sorta di rito di

passaggio la cui liminalità non si risolve in semplice fase ditransizione, bensì rappresenta una potenzialità in grado di svelarequei processi collettivi che agiscono sotto il simbolismo rituale. Ilpellegrinaggio, la cui indagine è stata spesso confinata all’ambitodi studi esclusivamente di carattere religioso, va perciò indagatoda un punto di vista innovativo, ossia come pratica certamentereligiosa, ma non solo, poiché attorno ad esso ruota e si innescauna rete di logiche, comportamenti e gesti slegati dalla sfera delsacro e riconducibili ad altri ambiti più “mondani”. Ilpellegrinaggio, quindi, potrebbe essere considerato come lametafora della cultura in movimento e, se da un lato taleperformance effettua una rottura con la sfera quotidiana emondana della comunità poiché la trascende, dall’altro lato èprofondamente imbrigliata in essa e, insieme ad essa, getta le basidei rapporti sociali.

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Note

1. Il Veda è un vasto corpo di scritti composti in sanscrito venerato come rivelazione divina (sruti) e fonte del dharma, dovere moraleche ogni hindu, in base alla casta a cui appartiene, deve compiere. Veda significa conoscenza e si riferisce alla conoscenza che fuoriginariamente rivelata agli antichi saggi (rsi) da essi trasmessa alla comunità e tramandata all’inizio oralmente di generazione ingenerazione. Gli studiosi fanno risalire la parte più antica dei Veda al 1400 a.C. circa.2. Il Mahabharata, “Il grande poema epico dell’India” (400 a.C.- 400 d.C.) è attribuito al saggio Vyasa e descrive grandi gesta diguerrieri. La grande battaglia narrata nel Mahabharata, in cui l’umanità viene decimata, segna l’inizio del mondo attuale, il Kali Yuga,l’ultima e la peggiore delle quattro ere in cui è suddiviso il ciclo del tempo secondo la concezione hindu. I Purana, invece, sonoraccolte di miti e leggende di carattere storico e religioso in cui viene descritta la geografia sacra dell’India.3. C. J. Fuller, The Camphor Flame. Popular Hinduism and Society in India, Princeton University Press, Princeton, 1992, p. 209. 4. La metafora corporea riferita al pellegrinaggio è particolarmente evidente nei Tantra o Tantrasastra, testi religiosi compostiprobabilmente a partire dall’VIII secolo e che assumono generalmente la forma di un dialogo tra Siva e la Dea. Questi scritticontengono la concezione che ha infatti portato alla famosa equazione tra tirtha e corpo: da un lato i luoghi di pellegrinaggio sonoconcepiti come le parti del corpo smembrato della Dea disperse in tutto il territorio indiano, dall’altro lato il corpo del devoto èconsiderato come il centro sacro per eccellenza, luogo privilegiato della manifestazione divina. In breve, i Tantra offrono metodi,pratiche e forme di meditazione che sfruttano il corpo come principale luogo di pellegrinaggio alla ricerca dell’intima relazione tracorpo materiale, corpo sottile e corpo divino. Un tirtha può essere una una montagna, la sorgente di un fiume, un prayag, confluenzadi fiumi, il luogo di nascita di un santo o il santo stesso. Ognuno di essi, che sia un luogo o un santo, può giustificare un pellegrinaggio5. Lungo il corso del fiume Gange, detto anche Ganga, sono ubicati alcuni tra i maggiori centri di pellegrinaggio dell’India del nord.Tra i principali: Varanasi, Hardwar, Gangotri visitati ogni anno da moltissimi pellegrini e turisti non solo hindu.6. Esistono diversi miti della tradizione hindu che narrano la nascita del fiume. Ganga è concepita come una dea in relazione sia aSiva sia a Vishnu. Quando Vishnu nel suo avatara come nano compie i tre passi che lo rendono poi un gigante, rompe l’uovo cosmicopermettendo alle acque cosmiche, Ganga appunto, di scorrere. In un altro mito, quando Agastya beve tutto l’oceano, il saggioBhagiratha si dedica a pratiche di estremo ascetismo per ottenere che Siva fermi con i suoi capelli la caduta della via Lattea sulla terra,e così Ganga continua a fluire dalla testa di Siva, l’Himalaya, sulla terra.7. Axel Michaels, Hinduism. Past and Present, Princeton University Press, Princeton, 2004, p. 288 e p. 312.8. La città di Varanasi, anticamente Kasi, è probabilmente la meta per eccellenza per i devoti che cercano la liberazione dal ciclo dellerinascite. In questa città particolarmente nota per i ghat, gradinate che digradano nel Gange, i pellegrini si bagnano e i cadaverivengono cremati. Morire a Varanasi significa ottenere automaticamente la liberazione nel momento della morte poiché essa èconcepita come il grande campo di cremazione (mahasimasana) al centro dell’universo dove tutte le mete di pellegrinaggioconvergono.

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9. Jackie Assayag, “Nationalism: Imported or Invented Tradition?” in Revue des deux mondes, sett.-ott., 2001, pp. 74-75. Come è noto,l’uomo che assassinò Gandhi era un membro del RSS, un’organizzazione nazionalistica estremistica che si contrapponeva al laicismoimpegnato e al pluralismo culturale e religioso sostenuto dal Partito del Congresso. In seguito, sono nati molteplici gruppi nazionalisticidi estrema destra il cui principale obiettivo era ed è quello di promuovere un ideale politico dello stato indiano come unicamente etipicamente hindu, non come democrazia laica. Questa idea è profondamente connessa al concetto di stato-nazione, costruzione politicatipicamente moderna, che si fonda sulla proiezione di un’identità autentica e pura proveniente da un antico passato. Similicongregazioni nazionalistiche costruiscono la propria base politica in opposizione agli indiani musulmani, ai cristiani, all’idea di laicitàe modernizzazzione. Paradossalmente, però, l’idea stessa di nazione è estremamente moderna ed è qualcosa di profondamente diversodal naturale amore per la propria terra. Pertanto il ruolo di molti rituali quali il pellegrinaggio rappresentavano e rappresentanosoprattutto tutt’oggi performance finalizzate a esibire e riprodurre questa identità.10. T. P. Varma, “Tirthayatra: Fountainhead of Cultural Unity” in D. B., Dubey (a cura di) Pilgrimage Studies. Text and Context,Lallanji Gopal Ed, Allahabad, 1990, p.71.11. Surinder M. Bhardwaj, Hindu Places of Pilgrimage in India. A Study in Cultural Geography, Thompson Press, Delhi, 1973, p. 1.12. Il notevole ruolo degli specialisti rituali nei tirtha non va oggi sottovalutato. Essi, infatti, intrattengono ancora stretti rapporti coni propri jajmans, “clienti”, ossia i pellegrini i quali, per ragioni di lignaggio, sono legati sin dalla nascita a uno specifico purohit cheesercita la propria funzione rituale in uno specifico territorio locale. Questi sacerdoti di origine brahmina e specializzati nei rituali neipressi dei tirtha accompagnano di solito dall’inizio alla fine i propri “clienti” pellegrini lungo l’itinerario e, rispettivamente, ricevonoda essi un daksina, un’offerta in denaro in cambio dei rituali eseguiti. Questa reciprocità nella relazione tra specialista rituale epellegrino è stato un fattore importante rispetto alla diffusione dei pellegrinaggi, fortemente incentivati e incoraggiati dai purohit i qualine traevano e ne traggono tuttora benefici materiali. Per essi l’istituzione del pellegrinaggio costituisce un’immensa fonte economicae, pertanto, attraverso essa si innescano strategie, antagonismi e competizioni tra coloro che mirano a detenere il potere rituale suifedeli. 13. Un altro fenomeno che oggi tocca il pellegrinaggio è la cosiddetta deterritorializzazione. Infatti un hindu di Chicago puòraggiungere le acque sacre del Gange a poche ore di aereo e un turista occidentale può partecipare a un pellegrinaggio hindu accedendoa uno dei centri più sacri dell’induismo. Questo fattore mette in luce nuovi elementi per considerare il pellegrinaggio oggi: lacircolazione di immagini, valori, significati e simboli provenienti da universi culturali differenti e lontani, offre risorse inedite agliindividui per costruirsi un sé collettivo, un’identità comune e la componente immaginativa fornisce nuovi modi di comunicare, agiree pensarsi appartenenti a una comunità o legati ad una specifica identità. Sia i media, sia le persone contribuiscono a questa sorta digioco improvvisato in cui significati e valori, inseriti in ambiti culturali nuovi, vengono assimilati, rifiutati, riformulati in una sorta didialogo simbolico. I media fanno circolare rapidamente idee e messaggi i quali, spesso, seguono meccanismi e logiche sfuggenti einedite secondo cui il locale si mescola al globale e viceversa. Le persone, in grado di muoversi sempre più velocemente a distanzeenormi, portano con sé, oltre alla speranza di migliori condizioni di vita, una miriade di storie, possibilità, modi di vivere in grado disovvertire e trasformare altre forme contestuali e, soprattutto, di creare universi simbolici sincretici e nuovi.14. Cfr, J. R., Llobera, The God of Modernity. The Development of Nationalism in western Europe, Berg, Oxford-Washington DC,1994, p. 220.15. Clara Gallini, Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna, Laterza, Bari, 1971, p. 50.16. I. Karve, “On the Road: a Maharashtrian Pilgrimage” in Eleanor Zelliott e Maxine Berntsen (a cura di), The Experience ofHinduism: Essays on Religion in Maharashtra, Albany, University of New York Press, 1988.

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Diritto alla salute e fenomeni migratoriAlcune riflessioni a partire dal caso della Provincia di Caserta

di Luigi Mosca

Introduzione

In questo contributo vorrei discutere di alcuni elementi emersidalla mia ricerca etnografica sulle pratiche di assistenza sanitariaai migranti irregolari nella Provincia di Caserta, i quali misembrano in tema con il filo conduttore del presente dossier. Misoffermerò sulla rappresentazione del migrante come soggettoprecario in movimento, un’immagine presente sul pianonormativo che regola l’accesso alla assistenza sanitaria nazionale,ed in particolare sulle conseguenze che questa rappresentazioneha nelle pratiche di assistenza medica e, in generale, sullarelazione tra diritti di cittadinanza e fenomeni migratoricontemporanei. Le pratiche di assistenza sanitaria costituiscono uno degli ambitidentro i quali lo Stato, le forze sociali, le forze economiche e lerappresentazioni culturali si scontrano quotidianamente nelladefinizione di chi può o non può accedere ai diritti di cittadinanzaattraverso il sistema dello stato sociale. L’apertura dell’Italia aiflussi migratori internazionali contemporanei ha posto lanecessità di avviare un ripensamento dei principi che governanola definizione dell’essere cittadino sul piano giuridico1 e ditrasformare quei servizi e quelle istituzioni che garantisconol’operatività dei diritti di cittadinanza dentro lo spazio socialeitaliano. Da questo punto di vista un’analisi delle realtà migratorieterritoriali, della loro relazione con le istituzioni statali e con lasocietà italiana diventa uno strumento utile per la progettazione dipolitiche di inclusione e di allargamento dei diritti di cittadinanza.

Il contesto della ricerca.

La scelta della Regione Campania come terreno di osservazionedi queste dinamiche risponde, dunque, a questa necessità dicarattere generale, ma anche ad alcune specificità del territorio edella realtà migratoria in esso presente. La Campania, come altreregioni del Meridione, si caratterizza per una presenza notevole diimmigrati irregolari. L’occupazione della popolazione immigrataè distribuita e concentrata in alcuni settori: l’assistenza domesticaa famiglie e anziani, l’edilizia e i lavori stagionali agricoli2. Nellaprovincia di Caserta la distribuzione degli immigrati secondo lenazionalità, l’occupazione e la ripartizione tra sessi può esserecosì schematizzata: nella zona del litorale domitiano, a nord della

provincia di Napoli fino ai comuni di Castelvolturno eMondragone si concentrano migranti provenienti dai paesidell’Africa Occidentale (Ghana, Nigeria, Liberia, Costad’Avorio), i quali sono occupati nel settore agricolo enell’edilizia, soprattutto nei comuni dell’entroterra aversano,come Casal di Principe e Villa Literno, nonché sul litorale stesso;la zona interna dell’agro aversano comprendente l’area di Aversa,Casal di Principe, Villa Literno, vede la presenza di numerosedonne provenienti da Romania, Ucraina, Moldavia e Bulgaria, lequali sono impiegate come domestiche e badanti nelle case dellefamiglia italiane; inoltre in questa area vi sono numerosecomunità di tunisini e magrebini che si raccolgono attorno allaMoschea e centro islamico di San Marcellino, nei pressi diAversa; infine vi è l’area che comprende i comuni di Cancello eArnone, Grazzanise e il capuano dove la presenza di allevamentidi bufale per la produzione di mozzarelle ha attirato un flussoimmigratorio proveniente dall’India e dal Pakistan. Di particolareinteresse è il mercato del lavoro stagionale agricolo, ricostruitodalla ONG Medici Senza Frontiere in un recente dossier3, il qualeè costituito principalmente da immigrati irregolari e richiedentiasilo; essi si muovono nei diversi periodi dell’anno tra le regionimeridionali per effettuare la raccolta dei diversi prodotti agricoli.Si parte nella stagione estiva nei campi di frutta e ortaggi dellaprovincia di Caserta, o nei campi di pomodori della provincia diFoggia, per approdare in autunno alla raccolta dell’uva in Siciliae concludersi con la raccolta degli agrumi in Calabria. Dentroquesto circuito degli stagionali la Campania costituisce un luogoin cui gli immigrati risiedono per la maggior parte dell’anno e allostesso tempo come base per gli spostamenti stagionali. I rapportidi lavoro in questo settore, così come in molti altri, sonocontraddistinti dalla presenza del caporalato, in particolare nellepiazze di alcuni paesi dell’area compresa tra Caserta e Napoli,come Villa Literno, Giuliano, Aversa, dove i migranti si recanoverso le quattro e trenta del mattino e dove sono reclutati daicaporali e condotti nei luoghi di lavoro. La paga giornalieraoscilla tra i 25 e i 35 euro e la giornata lavorativa può arrivare finoa dieci ore. Come mostra il rapporto di MSF, e come ho potutocostatare da alcune uscite effettuate insieme con operatori emediatori presso le abitazioni di fortuna di questi lavoratori(fabbriche e edifici abbandonati, capanne costruite conimmondizia, in un caso il rimorchio di un camion abbandonato),la sussistenza dei migranti nella provincia di Caserta, così come

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in molte altre province del Sud Italia, si scontra quotidianamentecon diverse problematiche che hanno delle ripercussioni sul pianodella tutela della salute. Spesso la totale mancanza di acqua,servizi igienici e l’isolamento rispetto alla società locale è la causadell’insorgere di malesseri di carattere sia organico chepsicologico. Si assiste alla presenza di malattie infettive assenti opresenti in minima parte nella popolazione italiana, come peresempio scabbia e tubercolosi. Anche le patologie muscolo-scheletriche provocate dal lavoro nei campi o nei cantieri sonoabbastanza comuni, così come traumi e ferite. Sul piano dellasalute mentale e delle condizioni psicologiche di esistenza vi sonoalcune problematiche che affliggono diversi migranti: moltedonne ucraine, rumene, bulgare, impiegate come badanti ecollaboratrici domestiche hanno mostrato problemi di depressionee fanno uso di psicofarmaci o alcool; alcuni immigrati dell’Africaoccidentale, soprattutto richiedenti asilo in fuga da situazionidifficili, presentano problemi di salute mentale e sono soggetti acrisi di nervi, a volte alimentate anche dall’assunzione di alcool.La presenza di numerose famiglie di immigrati con donne incintee bambini a carico pone la necessità di avere accesso a forme diassistenza particolari, come per esempio la consultazione di unginecologo o di un pediatra. Infine occorre ricordare, come sievince anche dal rapporto di MSF, che l’insorgere di questepatologie è legato alle condizioni di vita in Italia e quasi mai acondizioni patologiche importate dal paese di provenienza.

Il sistema dei servizi: breve storia del diritto alla salute per i

migranti in Italia e in Campania

Di fronte a queste problematiche occorre comprendere quali sonole risposte e le pratiche messe in campo da parte delle istituzionilocali e nazionali sia sul piano normativo che su quello dei servizi.La normativa nazionale sull’immigrazione, in particolare il TitoloV del decreto legislativo 296/1998, stabilisce due regimi diassistenza sanitaria distinti tra immigrati regolari ed irregolari: peri primi l’accesso alle cure mediche e al Sistema SanitarioNazionale è garantito dal possesso del permesso di soggiorno e diun regolare contratto di lavoro, per i secondi è istituito il codiceSTP, “straniero temporaneamente presente”, che si basa sullatemporaneità della presenza del migrante irregolare, sullaemergenzialità della condizione patologica, sulla indigenza delpaziente e sull’anonimità dell’utente del servizio, e che si ottieneattraverso una dichiarazione di indigenza e di necessità di cure daparte di un medico di base. Si tratta di un servizio immaginatocome temporaneo e di emergenza, che corrisponde ad una visionedei fenomeni migratori immaginati più come emergenzaumanitaria che come problema di politica dei diritti dicittadinanza. L’immigrazione irregolare è considerata comeproblema transitorio e soprattutto marginale rispetto alla presenzadegli immigrati regolari. Tuttavia la realtà migratoria dellaprovincia di Caserta, così come di altre zone del Sud Italia,capovolge questa immagine, mostrando invece una presenza deimigranti irregolari strutturalmente inserita dentro le relazioni

economiche e produttive locali. Nel 2001, come risposta alla esigenza di rendere operativa lalegge del 1998, la Regione Campania stabilisce i principi diattuazione del servizio STP attraverso una circolaredell’Assessorato alla Sanità: la gestione dei servizi sanitari rivoltiagli immigrati irregolari è affidata ad ambulatori specifici dedicatiai pazienti STP nei quali, però, non sono previste figure di medicistabili stipendiati dalle ASL, ma medici di base chevolontariamente affiancano al proprio lavoro ambulatoriale anchequello per gli immigrati irregolari. Si creano in questa manieradue servizi paralleli e due percorsi terapeutici diversi. Neldistretto sanitario di Aversa, facente capo alla ASL di Caserta 2, ilservizio parte nel 2001 grazie alla disponibilità di alcuni medicivolontari; viene attivato un ambulatorio STP nella cittadina apertodue volte la settimana. In seguito sono aperti altri ambulatoridedicati a Villa Literno, San Cipriano e Castelvolturno. Durante ilprimo periodo di attività incominciano a sorgere problemi nellagestione degli ambulatori; da un lato il numero di utenti si èrivelato superiore alle aspettative, e dall’altro i tempi e le modalitàdel volontariato si sono rivelati inadeguati alle esigenze. Nelcorso del tempo il numero di medici volontari inizia a veniremeno, con conseguente riduzione dell’orario di apertura degliambulatori. Dai colloqui effettuati con alcuni di questi medicivolontari sono emerse una serie di problematiche che riguardanol’attività di ambulatorio, problematiche che vengono spiegatecome la risultante di una serie di contraddizioni insite dentro lescelte politico istituzionali. La prima contraddizione sta appuntonella definizione di “straniero temporaneamente presente”, ladove i medici intuiscono che si tratta di una presenza e diun’utenza tutt’altro che momentanea e passeggera. Le parole diquesto medico mi sembrano indicative: “Ci sono persone chevengono da tre, quattro, cinque anni. Io conosco un ragazzo chesoffre di mal di testa, ma è una vita che lo conosco. Ha fatto tuttoquello che doveva fare”. La necessità della continuità e dellacostanza delle cure, come nel caso di patologie croniche, ponedifficoltà alla pratica medica a partire dalla stessa scelta delvolontariato: il paziente è visitato da diversi medici chesaltuariamente prestano servizio; possono sorgere contrasti tra levarie scelte terapeutiche dei medici che determinanoun’insicurezza da parte del paziente nel seguire le indicazioni enel sapersi orientare dentro un’istituzione medica che spessorisulta già in partenza ignota e incomprensibile. In un incontroavvenuto alla fine del mese di luglio 2007 tra i medici volontari siè presa la decisione di adottare una cartella clinica informatizzatae di dotare l’ambulatorio di un computer in cui tenere le cartellecliniche dei pazienti per cercare di rendere i percorsi terapeuticichiari e condivisi a tutti i medici volontari ed evitare equivoci eripetizioni. La seconda contraddizione che emerge dentro lapratica ambulatoriale rispetto ai principi normativi che laregolano sta nella emergenzialità e nella necessità dellasomministrazione delle cure: spesso le patologie presenti sonopatologie comuni e in molti casi da me osservati l’utilizzo delservizio da parte degli immigrati risponde solo ad esigenzeburocratiche, come il rinnovo del tesserino sanitario temporaneo

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(il tesserino rilasciato ai pazienti STP vale sei mesi) o il rilascio diricette per farmaci e visite specialistiche. Anche questo è unmotivo avvertito dai medici come una delle cause delsovraffollamento e del cattivo funzionamento del servizio. Comedichiara un medico: “Ma se noi andiamo a vederel’emergenzialità e la necessità ma sai quanta gente dovrebbeessere cacciata?”. Vi è dunque un utilizzo di routine di un servizioche dovrebbe essere di emergenza e che in realtà si vastrutturando come un servizio permanente e parallelo a quello, travirgolette, normale. La terza contraddizione sta nella gratuitàdelle cure connessa all’indigenza presunta del paziente. A talriguardo ho potuto constatare come molti utenti del servizio nonsono affatto indigenti, ma hanno un lavoro in nero; inoltre moltiutenti non sono nemmeno immigrati irregolari, ma sono rifugiatio hanno un permesso di soggiorno per motivi di lavoro eutilizzano il servizio STP proprio perché permette l’accesso allecure specialistiche e alla somministrazione dei farmacigratuitamente. Vi è infine un’ultima contraddizione che riguardala garanzia di anonimità dell’utente del servizio e che si rivelaessere un elemento destabilizzante per la possibilità stessa dellasomministrazione delle cure. A tal proposito è interessante latestimonianza dei medici volontari in relazione alla questionedelle malattie infettive. La legislazione sanitaria prevede nei casidi malattie infettive che possono mettere a rischio la salutepubblica l’obbligo per il medico curante di effettuare unadenuncia alla ASL competente, la quale deve attivare una bonificadel luogo dove risiede il paziente che ha contratto la malattiainfettiva. In molti casi tale denuncia non è effettuata perché ilpaziente dichiara di essere senza fissa dimora o da un domiciliofalso senza che vi sia la possibilità di effettuare delle verifiche,come afferma uno dei medici volontari: “Sì, io parecchie volte lavolevo fare però poi mi è venuto un dubbio e sono andato a vederedove abitano e spesso c’è scritto ‘senza fissa dimora’ o nellamaggior parte dei casi è falsa perché se loro dicono che abitano aGricignano devono andare a fare il libretto a Sant’Arpino per cuidicono falsi indirizzi. Per i senza fissa dimora io come faccio afare la denuncia per fare l’intervento di bonifica?”. Ciò influisceanche nella cura della malattia che rischia di insorgerecontinuamente anche dopo la somministrazione della cura, comenel caso della scabbia la quale presenta molti casi soprattutto tra ilavoratori agricoli che dormono nelle case abbandonate o nellecampagne in capanne costruite con l’immondizia.

Temporaneità e permanenza: gli approcci alla salute degli

immigrati tra politiche della cittadinanza e umanitarismo

Dalle testimonianze riportate emerge, dunque, un contrasto tra iprincipi che regolano le politiche sanitarie nazionali e le scelteamministrative regionali e locali da un lato e una realtà migratoriapiù complessa dall’altro. Sul piano normativo e amministrativo lafigura del migrante irregolare è immaginata come una presenzamobile, temporanea, e la tutela della salute di questa fascia dipopolazione è strutturata sul paradigma umanitario

dell’emergenza, attraverso una serie di passaggi burocratici chetendono a isolare le richieste di assistenza e dei servizi da parte diquesti immigrati rispetto alla questione delle politiche dicittadinanza, e a instaurare un regime di assistenza specificofondato più su valori quali la carità e l’aiuto umanitario.All’interno della pratica medica ambulatoriale, tuttavia, si assisteallo scontro tra questi principi e le necessità dettate da una realtàmigratoria che presenta invece caratteri di permanenza e richiedeinterventi strutturati e costanti che spingono a ri-orientarel’impostazione dei servizi STP dentro un quadro di politichesanitarie a lungo termine. Si va instaurando in questa maniera unoscollamento tra le modalità attraverso cui sono pensate e agite leazioni di intervento assistenziale, fondate proprio sulla categoriadi movimento e mobilità, e le esigenze di una popolazioneimmigrata che, per quanto giuridicamente e statisticamenteassente, fa parte integrante del tessuto sociale regionale. Lacoscienza di queste contraddizioni che stanno alla base delle varieforme di conflittualità che giornalmente si sperimentano dentro lospazio ambulatoriale dei servizi, diventa allora un nodo centralenella sperimentazione di nuove politiche di inclusione e diallargamento dei diritti di cittadinanza; ed essa va emergendo nonsolo dentro il quadro istituzionale dei servizi pubblici, ma anchein relazione alla presenza nello stesso territorio di un interventoumanitario promosso dalla ONG Medici Senza Frontiere.Dal 1999 MSF, per conto della sua sezione belga, ha avviato unprogetto di assistenza sanitaria alla popolazione immigrata inItalia. Il progetto, denominato Missione Italia, ha come obbiettivoquello di colmare la carenza dei servizi pubblici di assistenza pergli immigrati in collaborazione con le istituzioni italiane; a talproposito sono stipulate convenzioni con le ASL dei territori doveè maggiore la presenza di immigrati irregolari e dove sonomaggiormente carenti le strutture STP. Nel 2005 l’ONG stipuladue convenzioni in Campania con le ASL di Napoli 2 e Caserta 2,attraverso cui MSF prende in gestione alcuni ambulatori STP. Lamia ricerca etnografica si sta concentrando proprio sul territorioservito da quest’ultima nella provincia di Caserta. Attualmentel’ONG gestisce cinque ambulatori nella provincia di Caserta sitinei comuni di Aversa, San Cipriano-Casal di principe, VillaLiterno, Castelvolturno e Mondragone. Ogni ambulatorio èfornito di un medico, un operatore sociale, un mediatore culturalee linguistico e, recentemente, di un’infermiera. Nella gestionedell’ambulatorio l’associazione ricorre agli strumentiamministrativi forniti dalla normativa, ovvero una dichiarazionedi indigenza e una dichiarazione di essenzialità e urgenza dellecure, in base ai quali è rilasciato il tesserino sanitario temporaneoSTP. Nella fase attuale del progetto l’ONG ha effettuato unpassaggio di consegna degli ambulatori aperti nelle sedi dellaASL di Napoli 2, i quali adesso sono gestiti in collaborazionedalla ASL e da una cooperativa sociale. Nel caso della ASL diCaserta 2 questo passaggio ancora non è stato effettuato e non siprevede per il prossimo anno di effettuarlo dal momento che laASL non è in grado di assumersi la gestione del serviziototalmente. Se pur inquadrata nei principi umanitari elaborati dalla ONG4

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l’azione di Missione Italia assume un ruolo ambiguo collocandosia cavallo tra l’aiuto umanitario e le questioni di politica dellemigrazioni e della cittadinanza. Tale ambiguità pone alcuni dubbisulla reale indipendenza e neutralità di Medici Senza Frontiere inquanto soggetto umanitario, ambiguità che è avvertita non tantosul piano della rappresentazione dell’azione e nelle dichiarazioniufficiali della ONG, ma soprattutto dentro la pratica ambulatorialesul territorio. Come mi è stato indicato dai colloqui avuti conmedici e operatori, lo status di Missione Italia, i suoi obbiettivi ele modalità di azione, difficilmente possono essere paragonati allemissioni che MSF conduce in altri paesi, soprattutto nei paesipoveri o in situazione di conflitto armato, in quanto i fenomenimigratori non sono un’emergenza, ma sono fenomeni strutturaliche riguardano la politica dello Stato e il controllo del territorio.Non a caso per definire tale tipologia di intervento è stata creatauna categoria di emergenza umanitaria apposita, la “emergenzaumanitaria permanente”, la quale presenta nella contrapposizioneossimorica tra “emergenza” e “permanete” l’ambiguità di fondodi tale spazio di intervento. In una delle interviste da me condotteè stato evidenziato proprio questa ambiguità dentro l’azione diMissione Italia fino ad arrivare ad una critica di tale paradigmaumanitario: “… MSF non è capace di occuparsi di immigrazioneperchè se ne occupa come un’emergenza umanitaria.[…] MSF èbravissima a livello di emergenza umanitaria, va, agisce con unaquantità di soldi enorme, con la tecnologia e con mediciiperspecializzati e fa quello e poi se ne rivà. Però non puòoccuparsi di sviluppo, non può occuparsi di HIV, non puòoccuparsi di tubercolosi, non può occuparsi di malnutrizionecronica, non può occuparsi di integrazione sociale degliimmigrati”. Il rischio evidenziato in questa riflessione è proprioquello di cui parlavamo sopra, ovvero lo spostamento di problemiche riguardano le politiche della cittadinanza sul pianodell’emergenza umanitaria. Contro questo rischio si vastrutturando la coscienza della necessità di riformulare dunque ilruolo di MSF dentro il campo sanitario locale, una coscienza cheproviene dal contatto quotidiano con gli immigrati e i loroproblemi di salute.

Diritto alla salute e politiche di cittadinanza in Europa

Prendiamo un caso che ho avuto modo di osservare: Radu è unrumeno che vive in Italia da sei anni. Vive insieme con suo padrea San Cipriano in un appartamento in affitto. Radu è emofiliaco ea causa di questa malattia e delle continue emorragie da essaprovocate ha i ginocchi deformi. Nella sua particolare condizionefisica egli è inabile per la maggior parte dei lavori disponibili sulterritorio, e la condizione di malato cronico necessita tutta unaserie di forme di assistenza sanitarie e sociali continuative. Inquanto clandestino ha avuto accesso ai servizi STP fino a quando,nel gennaio 2006, la Romania è entrata a far parte dell’UnioneEuropea, quindi il suo status legale è passato da clandestino aquello di neo comunitario in attesa di una regolarizzazione tramiteun contratto di lavoro. Nel caso dei neo comunitari il

cambiamento di status comporta sul piano dell’assistenzasanitaria l’abbandono del regime di assistenza STP e l’iscrizioneal SSN dopo aver regolarizzato la posizione lavorativa; tuttavia ilMinistero della Salute, attraverso una circolare, ha prolungatol’accesso al servizio STP fino al dicembre 2007 per i neocomunitari che al 31 dicembre 2006 erano già in possesso deltesserino sanitario. Il caso di Radu è emblematico dellacondizione in cui si trovano i neo comunitari rumeni presenti inCampania; la maggior parte di questi, pur avendo un lavoro, nonha un contratto regolare e per tale motivo è nella pratica privo didiritti pur essendo un cittadino europeo, dal momento chel’accesso ai diritti di assistenza sociale e sanitaria in base allalegge sull’immigrazione sono garantiti dal lavoro e non dal fattodi essere cittadini europei. Oltretutto la condizione di malatocronico di Radu è ancora più difficile in quanto allo scadere delpresente anno perderà la possibilità di curarsi con il codice STP e,date le sue condizioni fisiche, difficilmente riuscirà aregolarizzare la sua posizione da solo, rischiando di perdere lapossibilità di avere le iniezioni che periodicamente deveeffettuare, le quali hanno un costo elevato al di fuori della suaportata. Recentemente Radu è stato seguito da MSF nell’accessoai medicinali e nel percorso terapeutico. In particolare è uno deidue operatori sociali che segue le vicende di Radu chiamandologiornalmente per le varie esigenze di carattere medico o legale.Nonostante gli sforzi e la dedizione con cui gli operatori di MSFsi occupano di casi come quello di Radu, rimane la necessità dicostruire interventi di assistenza che non consentano più chepersone in tale stato di necessità debbano essere aiutate solograzie alla volontà morale ed etica di alcune persone.Recentemente gli operatori di MSF hanno deciso di sollevare ilproblema di casi come questi agli occhi della ASL e con una seriedi colloqui con i responsabili si è riuscito a far inserire Radu nelservizio di assistenza domiciliare. Dalla fine dell’estate Radu èassistito a casa da personale della ASL che dovrebbe provvederea prelevare le iniezioni dalle farmacie comunali e consegnargliele.Tuttavia recentemente sono sorti dei problemi e l’assistenzadomiciliare è venuta meno. Nella sua terapia Radu deve seguireun piano sanitario che gli è assegnato dal suo medico curante;questo piano trimestrale indica la quantità di medicinale di cui ilpaziente necessita e di cui può disporre dalle farmacie. Da quandoRadu ha iniziato ad essere seguito dal personale ASL, le farmaciecomunali non hanno accettato più il piano, ma hanno iniziato arichiedere settimanalmente anche le ricette del medico,assegnando solo piccole quantità di medicinale e per pochi giorni.Il venir meno della costanza e della sicurezza dell’accesso aifarmaci ha avuto delle ripercussioni sulla intera esistenza di Radu:dovendosi procurare spesso da solo sia le ricette che le iniezioni ècostretto a togliere tempo alle altre attività, come per esempio laricerca di una situazione lavorativa migliore, gettandolo in unostato di preoccupazione e insicurezza continuo. Nelle ultimesettimane la stessa assistenza domiciliare per ragioni sconosciuteè venuta meno e Radu è stato costretto a procurarsi da solo lemedicine rivolgendosi di nuovo a MSF.

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Conclusioni

La storia di Radu mostra alcuni aspetti interessanti degli intreccitra percorsi migratori e dinamiche politiche locali, nazionali edeuropee, e mostra come le pratiche terapeutiche sono inseritedentro questi quadri più ampi. In un primo momento, comeimmigrato clandestino, Radu ha diritto ad essere curato in quanto“straniero temporaneamente presente”. Oggi, cittadino europeo,può ricevere assistenza solo se lavoratore. Probabilmente, comespesso lui dice, se si trovasse in un altro luogo, tipo in una cittàdel Nord Italia, non sarebbe in queste condizioni; forse avrebbeun lavoro e potrebbe permettersi di contribuire alle cure chericeve pagando le tasse. In questa storia le dinamiche politichelocali, nazionali ed europee si intrecciano all’interventoumanitario della ONG e mostrano come spazio umanitario ecampo politico siano uniti. È interessante quindi confrontarequesti due diversi modi di agire dentro l’assistenza sanitaria, così

come ho cercato di fare in questo contributo, e comprendere ledinamiche attraverso cui si costruisce il legame tra istituzioni,migranti e territorio, e valutarne il peso sul piano delle politichedi cittadinanza. Nel caso della provincia di Caserta l’assistenzasanitaria ai migranti irregolari e la messa in opera dei serviziprevisti dalla legge incontra diverse difficoltà legate alle difficoltàche in generale le amministrazioni e i servizi hanno, comemostrano le vicende di Radu e come emerge dalle testimonianzedei medici volontari. Tuttavia la presenza di un soggetto esternoalle istituzioni come MSF costituisce uno stimolo e un elementodi confronto e di collaborazione che in una certa misura spinge leistituzioni a confrontarsi con le realtà migratorie locali e amisurarsi con le problematiche che questa fascia di popolazionepone.

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Note

1. Durante la stesura di questo articolo è in corso la discussione al Parlamento della proposta di una nuova legge sulla cittadinanza cheverte proprio sulla questione dell’allargamento dei diritti di cittadinanza per gli immigrati di seconda generazione.2. Per un quadro sulla situazione migratoria in Campania vedi Ambrosiani 2001, Calvanese e Pugliese 1991 e Caritas 20053. Vedi Medici Senza frontiere 2005.4. Per un’analisi sull’umanitarismo e su MSF si veda Redfield 2005, 2006 e Fox 1995.

Bibliografia

Ambrosini M. (2001) La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia, il Mulino, Bologna.Calvanese F. e Pugliese E. (1991) La presenza straniera in Italia. Il caso della Campania, Franco Angeli Editore, Milano.Caritas (2005) Immigrazione. Dossier statistico 2005. Quindicesimo rapporto, Nuova Anterem Editore.Fox R. (1995) “Medical Humanitarism and human rights: reflections on Doctor Without Borders and Doctors of The World”, Social

Science & Medicine 41;12: 1607-16.Medici Senza Frontiere (2005) I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto, Sinnos Editrice, Roma.Redfiled P. (2005) “A less modest witness: collective advocacy and motivated truth in medical humanitarian movement” American

Ethnologist 33;1: 3-26.

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Tumoana Kotore Whakairi Oratia, in breve Tuwhakairiora, vennechiamato così perché era stato appeso all’albero dei morti che eraancora vivo. Un anno, sarebbe dovuto stare a marcire lì sopra, epoi l’avrebbero trasferito nel luogo definitivo del suo riposo. Malui era soltanto addormentato, e quando si risvegliò, da sopraquell’albero cominciò a chiamare che lo tirassero giù. Così i suoi parenti tornarono indietro e se lo riportarono a casa,dove visse ancora per lungo tempo. Per questo fu chiamato Whakairi (colui che è stato sollevato – piùo meno) e Oratia (vivo). Ma oratia è un passivo, così almenodicono le grammatiche, e whaka è un prefisso causativo, anchequesto dicono le grammatiche, vale a dire l’opposto di un passivo. Può darsi che non disponendo di risorse più appropriate, il maoriabbia voluto dar conto della condizione di passivitàappoggiandola allo stativo ora (o forse ha visto bene,considerando più il risultato che l’atto dell’appendere), anche seforse poteva più ragionevolmente rimediare apponendo il suffissopassivante al verbo causativo, cosa che si può fare (come ognialtra lingua, il maori può fare tutto quello che gli sembra sensato,se ha un senso per lui e per chi lo ascolta). Di sicuro ogni maori che abbia sentito pronunciare quel nome neavrà capito perfettamente il significato, e probabilmente avràimmaginato soltanto da quello anche una parte della storia.

Dove mettere un passivo

Fatto sta che i maori mettono i passivi un po’ dove capita (oltreche, spesso, anche nei posti che a noi sembrano giusti,naturalmente), e ne mettono talmente tanti che i verbi attivi sonoin netta minoranza nel loro discorso; e il prefisso causativo, anchequello lo mettono un po’ dappertutto. E fanno con grande naturalezza anche una quantità di altre cose,con la loro lingua, che a noi risultano assai strane. In particolare imaori sono molto sensibili a tutta la grammatica (e al lessico, ealla sintassi) dell’azione, e non mancano mai di segnalare conmolta precisione i modi in cui si genera, si sviluppa, siamministra, si relaziona, si potenzia e si depotenzia, sidistribuisce nel mondo e tra gli uomini. In un certo senso è quello che a nostro modo facciamo anche noi,naturalmente, ma il nostro modo di farlo ci è così naturale cheneanche ce ne rendiamo conto, e possiamo notarlo solo percontrasto, per comparazione, quando entriamo in contatto con unidioma così diverso dal nostro, che tratta nella maniera piùimprevedibile (o addirittura ignora) gli oggetti e le normelinguistiche che a noi stanno più a cuore (in termini di senso), epresta assoluta attenzione a fatti per noi irrilevanti. I tempi, i modie le persone, i generi, i deittici, i numerali, i possessivi: quasitutto, a guardar bene.

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Queste note nascono come rielaborazione personale di uno scambio di idee tra amici, a margine del convegno grossetanodedicato al la-voro di Roberto Ferretti sulla stregoneria in Maremma.Col tempo ne è venuto fuori uno zibaldone piuttosto voluminoso e di-scontinuo, in cui ho cercato soprattutto di fare un po’di ordine nel mio personale sistema di credenze.Non avendo una reputazione scientifica da tutelare ho preferito evita-re un approccio crudamente dottrinale – per il qualenon sarei co-munque attrezzato -, lasciando che il discorso mi portasse dove me-glio credeva, e fosse quello che fosse.D’altra parte sono convinto che l’eccesso di dottrina finisce per per-dere in profondità quello che acquista in chiarezza esimmetria, e che ci sono cose troppo importanti per essere lasciate del tutto ai profes-sori delle università ed ai tecnicismiaccademici.Questa è la prima parte, poi si vedrà

Sul venire appesi da vivi all’albero dei mortiCrestomazia relativista

di Valerio Fusi

… it’s a lesson too late for the learningmade of sand,

made of sand…

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Le avventure della prima persona singolare

Ma c’è anche un altro interessante insegnamento indiretto chepossiamo ricavare dalla vicenda di Tu che fu appeso ancora vivo:Mohi Turei, che l’ha raccontata per primo, il reverendo MohiTurei della tribù degli Ngati Hokopu, così accurato ed efficace neldescrivere i fatti di questa storia, non si curava, per converso, didistinguere stabilmente le persone verbali nel racconto, e parlavadi Tu qualche volta alla terza persona, e qualche volta alla prima,come se lui stesso fosse Tu. La storia alla fine risulta altrettanto comprensibile (ammesso checoncordiamo preventivamente sulla quantità di dati comuni chedeve essere ammessa perché una cosa sia ritenuta comprensibile,e la soglia di rilevanza accettabile per ciascuno di quei dati), maassume per il lettore occidentale un aroma indefinibile e bizzarro,quasi come se il mondo che lì viene descritto ne risultassesfuocato, spiazzante, e insieme trasmettesse tuttavia la senzazionedi possedere una coerenza e una solidità sue proprie. D’altra parte già Ernst Cassirer aveva sottolineato la curiosatendenza di certe ‘società primitive’ ad attribuire piuttostovagamente la responsabilità e le coordinate temporali delle azioniindividuali, rifacendosi al noto aneddoto raccolto da Elsdon Bestsecondo il quale un guerriero maori poteva sostenere di aversconfitto il proprio nemico intendendo – in perfetta buona fede -che la sua gente, svariati decenni prima, aveva sbaragliato unatribù ostile.

L’amico Pritz

L’aneddoto, come tutti quelli di questo tipo nella letteraturaantropologica delle origini, è da prendersi con molta cautela,ovviamente, ma una quantità di altre fonti ed esempi specifici nonfanno che indicarci tutti questa stessa problematica: nellacomunità maori c’è, insieme, un processo di identificazione delsingolo con la dimensione sociale (tribale, familiare) diappartenenza, e, all’interno di questa, una percezione solomoderatamente differenziata di personalità, agenzia,responsabilità, possesso, ecc. E quindi insieme a questo, in conseguenza di questo, unapercepibile, differente collocazione (e messa in valore) nel tempodelle esperienze private e collettive, ammesso che ‘esperienza’,‘privato’ e ‘collettivo’ (e tanto più ‘valore’) siano termini a cui unmaori avrebbe potuto riconoscere una legittimità semantica diqualche genere.Ancora J. Pritz Johansen - misconosciuto e geniale studioso delmondo mentale maori a cui ha nuociuto l’aver scritto in danese lamaggior parte dei suoi lavori – ricorda come il maori facesse usodella prima persona verbale (quello che Pritz chiama l’egotribale) riferendosi ai suoi antenati mitici ed alle loro gesta, ecome gli risultasse naturale rappresentare a sé stesso le azioni delpresente nei termini degli eventi leggendari del passato.

Cosa pensa un maori

Certo non mi sentirei di sostenere che questi di cui parlano Pritz,e Cassirer, e Best, siano dati di fatto, benchè forse loro ne fosseroin qualche modo convinti. Si tratta piuttosto di tentativi didescrivere, di rendere - all’interno di un racconto - il senso, lapercezione di qualcosa che nel nostro mondo, nel mondo dellanostra esperienza, non esiste, o esiste in forme sostanzialmentedifferenti.

Forse non possiamo dire che cosa veramente pensi un maori, macerto avvertiamo chiaramente che il suo modo di pensare èqualcosa di (molto) diverso dal nostro (ammesso che il terminepensare abbia un senso qualsiasi nel contesto della suaesperienza).

La percezione di questa diversità, la presa d’atto dellairriducibilità di quel pensiero al nostro, produce uno stato diinquietudine mentale, e origina quella che Rodney Needhamdefinisce ‘perplessità essenziale’ - cioè quel senso di stupore, omeraviglia, o spaesamento (ihi, si dice in maori, ma anche inquesto caso non si tratta davvero esattamente della stessa cosa),che nei laici non è altro che un sentimento grezzo e pre-scientifico, ma rappresenta per un antropologo il moventeineffabile della propria passione scientifica e professionale.

La differenza, allora

La differenza, allora. La differenza è propriamente ciò di cui ciparla l’antropologia, il suo oggetto d’elezione, il suo mottoaraldico, e il suo rovello epistemologico. La differenza origina un dualismo concettualmenteinsopportabile. Scoprire che le cose funzionano per gli altri in unmodo diverso da come funzionano per noi - pur continuando,appunto, a funzionare – e che il loro funzionare si origina (e dàorigine) a spiegazioni del mondo diverse (anchesorprendentemente diverse) da quella che pensiamo buona per noistessi, invita l’antropologo (ma anche l’uomo comune, ammessoche l’antropologo non sia un uomo comune) a riflettere sulcontenuto di verità di quelle cose, di quel funzionare, e insiemesul contenuto di verità delle cose del suo proprio mondo e del lorofunzionare. Perché il discorso dell’antropologo, così come quello di ogniscienziato (vale a dire quel tipo particolare di professionista cheoccupa il proprio tempo cercando spiegazioni di ordine generale),ha proprio quello come scopo: la ricerca della verità. I suoimoventi, la sua inquietudine conoscitiva è a quello che si devono:il bisogno di identificare una verità. E’ quella che vuole, è in nome di quella che parla. La suaconvinzione, il suo credere in quello che dice, il suo affidarsi adun discorso, nascono dalla consapevolezza, o dal desiderio, di direla verità, di conoscere la verità, di parlare in nome della verità.

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Un pò crudo

La verità, allora. Detta così crudamente la cosa fa una certaimpressione, in un tempo in cui anche i ragazzi sanno quanto pococredito si debba dare a questa parola in contesti epistemologici unminimo avvertiti. La filosofia ci ha insegnato come sia ingenuoaffidarsi ad un concetto così ingannevolmente autoevidente einsidiosamente apodittico, senza aver praticato prima unaadeguata igiene linguistica e concettuale. E’ per questo che ogni filosofo sa bene come si debba trattaredella verità, ed è per questo che i dizionari e le enciclopediefilosofiche non fanno che allinearne una quantità di definizionimolto sofisticate e per lo più incompatibili o incommensurabili: laverità come corrispondenza, come coerenza, come conformità, laverità ontologica, esistenziale, semantica, logica, ecc. ecc.Ma quando avremo enumerato una per una le definizioni che cene danno quei repertori, ed esaurito il catalogo, ci accorgeremoche tutta questa complessa classificazione ci può insegnare soload essere più cauti, più pessimisti probabilmente, nell’affidarci alnostro linguaggio naturale. Non ci offre davvero una linea dicondotta praticabile per il nostro lavoro.

Livree

Non ci offre cioè proprio quello di cui abbiamo bisogno, quello dicui ha bisogno l’antropologo, come qualsiasi altro scienziato.Qualcosa da cui partire, e insieme una pietra di paragone, unosfondo opaco di contro al quale possa dare un senso erappresentare la sua visione, e la sua interpretazione, dei mondiche vuole descrivere, e insieme del suo proprio mondo.In questo contesto l’indecidibilità, l’eccesso di complessità, leaporie concettuali di cui è lastricato il discorso sulla verità nonpossono che essere dannose, pericolose persino. Lo sono per l’antropologo, e a ben vedere non servono neanche alfilosofo, una volta che anche lui debba dismettere la sua livrea, esedersi a tavola con gli altri. Anche il filosofo dovrà tornare acasa, prima o poi, e togliersi le scarpe, distendersi su un letto.Anche lui deve prendere un treno in orario, e si aspettaragionevolmente che il mondo che frequenta sia vero, siaveramente quello che a lui sembra che sia. La sua filosofia non gliinsegna un modo diverso di allacciarsi le scarpe, non ha influenzasulla sua vita di tutti i giorni, nei suoi elementari moventi ecomportamenti, che per lui si svolge come se non ci fosse altroche quella, così come accade a tutti noi.E’ così perché deve essere così, perché a un certo punto c’è unlavoro da fare, decisioni da prendere, strade da imboccare, ebisogna fare ognuna di queste cose come se: come se il mondofosse davvero quello che sembra a noi. Lo scienziato deve essere un filosofo ingenuo, per esserescienziato: deve credere ad una verità, deve credere nellapossibilità della verità, senza farsi troppe domande. Per quelle,pensa, ci sarà tempo dopo, ed è fiducioso che alla fine i contitorneranno.

Come stanno veramente le cose

Per il filosofo, almeno da questo punto di vista, le cose non sonocosì complicate: quando ha formulato la sua filosofia, il filosofoha già fatto il proprio lavoro. Ma invece è proprio da lì che l’antropologo deve cominciare,perché il suo discorso deve descrivere, deve rappresentare ladifferenza: diversamente dal filosofo, l’antropologo deve dare unasenso di verità a quello che dice, vale a dire deve comunicare aisuoi lettori - con fatti, con prove, con argomenti convincenti ecoerenti, con strategie affabulatorie (o anche con la pura esemplice propaganda, a voler credere a Feyerabend) - lasensazione che le cose stanno davvero come lui dice, che queimondi, quegli uomini, quelle lingue che descrive sono in effetticome lui li descrive, che quelle bizzarrie, quei comportamentiapparentemente assurdi, quelle pratiche ripugnanti, quei follicostumi e tutto il resto hanno in fin dei conti un sensocomprensibile per gli uomini uguali a lui, quelli che condividonocon lui il suo stesso mondo mentale (che è come dire il suomondo, tout court), leggono gli stessi libri, frequentano le stessescuole, osservano lo stesso orrido tipo di televisione, siedono atavola con lui e ripetono come lui lo stesso gesto, a sera, quandosi tolgono le scarpe per stendersi su un letto.

Un gioco di specchi

La verità, appunto. E’ questo lo spartiacque che rende cruciale ildiscorso sulla differenza, perché la verità ha a che fare con lanostra vita, con le nostre certezze, con le rassicuranti architetturesulle quali abbiamo allestito il nostro mondo, alle quali abbiamoaffidato la nostra esistenza. E’ per questo che la differenza va concettualizzata, esorcizzata,domata: perchè la differenza è innanzitutto una sfida a ciò da cuidifferisce, un dubbio sulla verità di quello in cui abbiamo decisodi credere, in cui ci è stato insegnato a credere e a cui nonpossiamo fare a meno di credere.Così la differenza per essere maneggiata ha da essere collocatad’ufficio nel letto di Procuste della Verità, reclutata nella suaintollerante compagine, e può essere tollerata, accettata, compresae persino concettualizzata solo se la sua perturbante alteritàaccetta di venire a patti con la ontologia totalitaria di ciò che èvero: assolutamente, indubitabilmente, necessariamente vero. Per questa ragione c’è un tipo di differenza buona, domestica, eduna intrattabile e bandita, maligna, come accade per i tumori.Se la verità è una sola, e non può essere che così, le faccemolteplici della differenza devono essere ricondotte a quellaunicità in cui tutte si possano riflettere, come in uno specchiofrantumato, appunto, che in ognuno dei suoi frammenti rimandasempre la stessa immagine; o uno specchio deformato, in cui ognipunto dell’immagine corrisponde comunque ad un punto di ciòche è riflesso; o lo specchio del paese delle meraviglie, che puòessere attraversato, ma al di là del quale il mondo èsemplicemente rovesciato.

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Per quanto ostico, per quanto deforme, il volto della Verità chequegli specchi rimandano è comunque, appunto, qualcosa a cui sirimanda: una pietra di paragone, un punto di partenza rispetto alquale la differenza possa essere addomesticata e resa trattabile.

Minerve

Perchè il discorso sulla differenza, come ogni altro discorso, nonsi produce dal nulla. Come Minerva dalla testa di Giove, ildiscorso nasce già armato di tutto punto da una mente che giàconosce il suo mondo, e da un occhio che già ha deciso cosa devevedere.E’ questa mente che pone le condizioni, che accerta la differenzacome qualcosa che è altro da sè, che fissa i confini all’interno deiquali può essere convenientemente apprezzata, all’interno deiquali si possono definire le condizioni di identità e di divergenza,la loro misura e i margini rispettivi di tolleranza.Perché prima ancora di pensare la differenza abbiamo già decisochi siamo, cosa vogliamo, di cosa ci interessa discutere e in chetermini vogliamo discuterne, e che tipo di soddisfazione ciaspettiamo di trarne. Abbiamo deciso dove vogliamo arrivare, per quanto cicompiaciamo di credere di star vagando senza meta; in nome diche cosa parliamo e con quale scopo.La verità, insomma: quella già la conosciamo. Pensavamo diesserci messi in cammino alla sua ricerca, ed era lei invece, pertutto il tempo, il nostro compagno di viaggio.In questo contesto la differenza non è più un pericolo, non fa piùpaura: ci sorprende, ci affascina, spesso ci inquieta, ma nei mondiai quali ci introduce riconosciamo la stessa aria di famiglia, lostesso paradigma che fa del nostro mondo quello che è. E’ per questo che il dilemma tra relativismo e universalismo, ilconflitto, il dualismo originario della materia antropologica, il suoenigma fondativo è soltanto, a ben vedere, un conflitto retoricoche è risolto prima ancora di essere posto come problema, risoltonel momento stesso in cui viene posto come problema.

Per speculum in enigmata

Il relativismo è l’antimateria concettuale; tutti sanno bene dove sitrova, ma nessuno è in condizione di andarci, e comunque lamaggior parte non lo desidera. Come la Medusa del mito greco, è possibile avvicinarlo solo inmodo indiretto, volgendogli le spalle e osservandone attraversouno specchio l’immagine rovesciata, che è quella di ununiversalismo frustrato e sconfitto dalle sue contraddizioni, dallaimpossibilità di applicare a sé stesso le sue proprie leggi. A ben vedere, in fondo, la visione universalista non è menoesposta di quella relativista alla contraddizione ed all’aporia,benchè in questo caso esse vengano - in genere - minimizzate ocaritatevolmente ignorate per necessità di bottega.

Per questo è necessario, come dice Wittgenstein nel suo snervantelinguaggio apodittico, che ad un certo punto le spiegazioni siinterrompano. Perché ad un certo punto si deve pur vivere, e pervivere servono leggi, norme, statuti, descrizioni, discorsipraticabili, verità: tutte cose prive di fondamento, ma allo stessotempo fondamenti indispensabili della nostra vita quotidiana,prima ancora che strumenti professionali dello scienziato. Così succede un po’ come in quei cartoni animati dove si vedequalcuno camminare nel vuoto perché non si è accorto di nonavere più la terra sotto i piedi. E se pure accade qualche volta che un filosofo, o un antropologo,ci mostrino quel vuoto, se accade di avvertirlo nella differenzairriducibile delle culture aliene con cui veniamo in contatto, nonpossiamo fare altro che continuare a camminarci dentro come seniente fosse, o al più con quel brivido mentale che cogliechiunque davanti alle soglie del sacro.

Camminare nel vuoto

Nessuno può fare a meno del fondamento, perchè senzafondamento non si può vivere, ma allo stesso tempo nessuno puòaffidarsi del tutto al fondamento, perché il fondamento non puòpermettersi il tenore di vita cognitivo che assicura invece allefabbriche concettuali che vi si costruiscono sopra.E allora, per quanto poco appetibile, la sola via praticabile èquella ossimora del fondamento debole, l’opzione caritatevole eipocrita (e fallace, naturalmente) che ci fa dire che le cose, ilmondo in cui viviamo, in cui crediamo, è sì fondato, ma un poco,soltanto un poco. E anche se la scelta dell’ipotesi debole altro non è che il tentivodi venire a patti con l’impraticabilità di quella forte,mascherandola sotto l’aspetto benigno e più digeribile di unaadesione dubitosa e con riserva, è quella comunque l’unica sceltapercorribile.E’ così e non può essere altro che così. L’alternativa delrelativismo ontologico, dello scetticismo radicale, benchéepistemologicamente potente e in ultima istanza imbattibile, nonconsente di costruire o comunicare un discorso qualsiasi, enemmeno è argomentabile logicamente, nemmeno èrappresentabile.

La realtà sta nell’occhio di chi guarda

Dire ‘come stanno le cose’ - che è l’equivalente colloquiale deldire la verità – non è che un indispensabile autoinganno, perchénessuno può avere certezza che le cose di cui ciascuno di noi parlasiano davvero le stesse per chi ascolta, e perché le cose non‘stanno’, non possiedono una configurazione oggettiva che sialoro propria in quanto ‘cose’, in quanto ‘fatti’, non sono glioggetti mentali che riteniamo che siano quando li rappresentiamoattraverso un linguaggio che struttura la comunicazione

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esclusivamente per oggetti. Mohi Turei, nel descrivere quella vicenda di appesi vivi, non siponeva nessuno di questi problemi, lui pensava semplicemente,raccontando la sua storia, di dire la verità. Né più né meno. E’ la stessa cosa che capita a noi quandoraccontiamo i fatti nostri: è della verità di quei fatti che diamotestimonianza, della loro corrispondenza a ciò che riteniamoeffettivamente accaduto, del nostro credere al loro essere ‘fatti’.La verità: chi racconta si colloca in una postura mentale dicredenza, di affidamento implicito rispetto a quello che racconta,ritiene che quei fatti siano ‘veri’, ed è solo in relazione alla loropotenziale credibilità [cioè al loro essere coerenti con l’orizzontedi intelligibilità del mondo in cui si ritiene di vivere, e con lapersistenza e la solidità delle strutture concettuali che lo rendono‘nostro’, che ci danno agio nel viverci], alla loro potenzialeveridicità [cioè al loro essere ricompresi all’interno di unoscenario condiviso ed indiscusso di verità e di realtà] che chiascolta si dispone ad ascoltare.

Enters Wittgenstein (fluorish)

Cominciamo da qui:

… qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana

Questo dice Wittgenstein in una pagina di quello che PietroClemente chiama “il libretto grigio” (d’altra parte non c’è già unblue book e un brown book?), quelle Note sul ramo d’oro, librettoche qualcuno ha trovato ‘aureo’, benché non sempre sia detto chetutto ciò che riluce debba esserlo.Quella frase serve a Wittgenstein per rifiutare, con quella sintesialquanto apodittica e un poco oracolare che gli è abituale,l’insieme delle spiegazioni che potremmo definire ‘storico-genetiche’: le spiegazioni di Frazer, le spiegazioni in antropologia(nell’antropologia del tempo di Wittgenstein, almeno), ma più ingenerale la spiegazione in quanto tale. Certo, che la vita umana, la sua essenza (così è la vita umana…),possa essere racchiusa in una descrizione, uno scenario (… sivorrebbe dire: ha avuto luogo questo e quest’altro evento, ridinese puoi), qualcosa insomma che risulti da una collazione di datidell’esperienza (… basta comporre correttamente quello che sisa, senza aggiungervi altro, perché subito si produca quel sensodi soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione) è unaottima notizia, perché ci permette, tanto per cominciare, didissolvere in una sola mossa tutti i dubbi di cui si è detto piùsopra, ma anche di risparmiare una quantità di penoso lavorostorico e filologico del quale avremmo sempre voluto fare ameno, e che ora diviene inutile, almeno per i nostri scopi. Per quello che mi riguarda, ho tentato anch’io di ‘comporrecorrettamente’ quello che sapevo, ma temo di non essere riuscitoa sperimentare quel senso di soddisfazione di cui parlaWittgenstein. Forse quello che sapevo non era abbastanza, forse non l’ho

composto ‘correttamente’. Ma certo il risultato è stato del tutto l’inverso: quello che so,messo insieme in qualche modo, tutto quello che so a fronte ditutto quello che vorrei sapere - a fronte, ancora una volta, di unaspiegazione - mi crea solo disagio, e “quella sensazione disoddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione”, quellarassicurante epifania del senso e dell’agio cognitivo, rifiutaostinatamente di prodursi.

La coda del diavolo

Forse manca qualcosa, in questo scenario. La spiegazione,qualunque cosa sia, è solo uno dei corni della questione. Ha pocosenso domandarsi a quali condizioni una spiegazione possa essereadeguata, possa produrre quella ‘sensazione di soddisfazione’ chesi diceva, se non ci rendiamo conto che quella stessasoddisfazione che cerchiamo nella risposta è già codificata nelladomanda alla quale la spiegazione dovrà corrispondere. Ci dovremmo chiedere allora se il porre la domanda, l’atto stessodi individuare un problema come problema, di classificarlo cometale, non si origini dall’aver preso possesso preventivamente dellarisposta possibile, quanto a tipologia e natura, dall’aver costruitoa partire da quella la nostra domanda.Non sono le risposte pertinenti, le spiegazioni adeguate che cimancano. Quello che manca, quello che dobbiamo accettare senzauna spiegazione (appunto), è la ragione della domanda, il suofondamento, la sua ontologia, il suo darsi come originatrice eproduttrice di senso. E’ da questa assenza che si genera una sensazione perturbante dirovesciamento, l’impressione inevitabile che in qualche modosiano state le risposte a venire per prime, e sopra di queste, apartire da queste, si siano poi formulate tutte le domande, e poiancora la domanda per eccellenza, la domanda senza risposta. Si può ammettere, si può perfino desiderare che una domanda nonabbia risposta, ma a condizione che continui ad essere, comunque,una domanda, che al vuoto di quella risposta che manca siopponga il pieno di una interrogazione (“I may not know theanswer, but I do believe the plan”, dice il poeta, che come è notosa sempre meglio dei filosofi dove il diavolo tenga la coda). Quello che non si può ammettere è che qualcosa stia lì, in quelpieno, senza essere una domanda, perché questo offende lanecessità che le cose abbiano un senso, il rendersi indispensabileche ogni cosa abbia un valore e una spiegazione, perché anche ilmondo, infine, divenga qualcosa che può essere spiegato, perchési possa tenere a bada la morte.

Una soluzione di compromesso

Così Wittgenstein non può fare di meglio, anche lui, cheaccreditare la stessa domanda, e a partire da questa offrirci la suarisposta (una soluzione, una spiegazione), e anche lui, come tuttiquelli che lo hanno preceduto e seguito, ci promette che ne

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saremo soddisfatti, ci intima di esserne soddisfatti.Per l’antropologo in cerca di una validazione filosofica,epistemologica del proprio operato professionale la proposta diWittgenstein risulta quanto mai appetibile e liberatoria, poichèlegittima e riconcilia i due fondamentali e (paradossalmente)contraddittori moventi della sua passione scientifica: l’attrazione,il fascino che esercita su di lui la stupefacente relatività delleculture (che è in un certo senso la ragione prima del suo interesse)di contro ad una implicita, radicata, inattaccabile fiducia nellaloro intelligibilità (che è la condizione di base per il suo lavoro). Da una parte lo sconcerto, il vero e proprio shock ontologico cheprova di fronte alla varietà, alla (apparentemente) irriducibilediversità delle altre culture, e dall’altra la sua propria professione,le sue scelte di vita, il suo posto nella società e nell’ordinamentodel sapere, lo strumento della sua personale sopravvivenza, chegli impongono di vedere sé stesso (e di proporsi) come untraduttore, un interprete, uno scopritore di leggi, o niente del tutto.Certo così invece è tutto più facile, perchè la descrizione diWittgenstein (o per meglio dire, una delle possibili interpretazionidella sua idea di descrizione, perché quel testo non è poi cosìlimpido e coerente come si potrebbe credere) si offre come unaalternativa gordiana alle ubbie epistemologiche dell’antropologoamletico.

Un uomo straordinario

La descrizione soddisfacente che Wittgenstein sostituisce a questotipo di approccio è niente più che una presa di atto dei modi in cuiuna cultura agisce, e la constatazione che questo agire contiene insé tutto quello che c’è da sapere su questa cultura. L’etnografia si prende così in un certo senso la rivincitasull’antropologia: una etnografia inquieta e carica di suggestionifilosofiche, trasfigurata dal compito che gli viene così affidato ditestimoniare il radicale umano (“lo spirito dell’uomo al suorisvegliarsi”), ma invariata nella sua natura originariamente,essenzialmente descrittiva.Un lasciapassare per i territori impervi del relativismo radicale,ma allo stesso tempo una opzione intransigente contro ognitentazione ottimisticamente evoluzionistica dell’epistemologiaantropologica.Non solo di quella – ormai abbandonata, ma sempre in vigileattesa di essere revocata in scena – del vecchio Fraser (in cui piùesplicitamente si manifesta l’imposizione delle strutture mentali econcettuali dell’osservante agli eventi e ai dati – ai ‘fatti’ -osservati), ma ad ogni possibile epistemologia che si alimentiesclusivamente o soprattutto di nessi causali e storici, che appoggisulla ricerca genealogica di ragioni la individuazione di un sensoe le condizioni di intelligibilità di una cultura. In fondo l’ha detto Wittgenstein, un uomo – così dice RodneyNeedham - straordinario che tutto ha previsto e spiegato.

La descrizione sta nell’occhio di chi guarda

E però ‘descrizione’ è una parola difficile a trattarsi, benchéappaia talmente innocua che anche uno che la sa così lunga comeWittgenstein può finire per farne un uso così disinvolto.La descrizione sta nell’occhio di chi guarda (quasi tutto, in fondo,sta in quell’occhio): la descrizione, sembra superfluo dirlo, primaancora di essere descrizione è innanzitutto una spiegazioneimplicita, presuppone una spiegazione che è già data, un modo diguardare che ha già scelto cosa guardare, come e perché guardare,ed il suo è uno sguardo già compromesso, che vede solo quelloche si aspetta di vedere, solo quello che gli lasciano vedere glistrumenti che ha a disposizione. Non è un cannocchiale, né un microscopio: qualcosa come unalente colorata, piuttosto, o un filtro ottico che riduce al suo propriolinguaggio, ai suoi sensori, ai suoi mezzi ed alle sue idee il mondolà fuori di cui vuole rendere conto.E poi cosa è davvero “quello che si sa”, il dato elementarepresuntamente autoevidente che dovremmo “comporrecorrettamente” nella nostra descrizione, se non un’altradescrizione ancora? Non un dato primario, cioè, ma di nuovoqualcosa che si produce per mezzo della composizione di altridati. Dovremmo allora risalire indietro di un altro livello, o di altrilivelli ancora, nel tentativo di disintegrare la nostra descrizione inparti sempre più piccole, fino a che non si palesi quell’unitàprimaria e indivisibile, la cosa in sé che deve essere compostacorrettamente per dare luogo alla nostra descrizione veridica?Una teoria atomica, e ancora un processo regressivopotenzialmente infinito, uno di quelli da cui Wittgenstein - manon solo lui - ci ha sempre messo in guardia.Ecco allora dov’è il problema della descrizione, non nell’innocuaparoletta, nella sua asettica, volenterosa semantica: il problema èciò che ritiene di descrivere, il mondo là fuori che l’idea stessa didescrizione presuppone: un sustrato universale, compatto e solidoche si tratta semplicemente di fare emergere allarappresentazione, qualcosa che c’è di sicuro, diamine, perché sipuò toccare, e ricostruire con i mezzi che abbiamo a disposizione,come fa il cieco nel riconoscere i lineamenti delle persone.

Geometrie

Non saprei dire che faccia abbia per Wittgenstein il suo mondo, ilmondo in cui ‘crede’, quello che è sufficiente descrivere,componendo correttamente ciò che se ne sa, perché sia possibileraggiungere lo stato di soddisfazione che ricerchiamo nellaspiegazione. Ma certo si tratta ancora una volta di uno di quei mondi in fondoai quali - a dispetto della varietà stravagante delle culture e delleloro fastidiosa tendenza all’opacità – riluce pur sempre unbarlume universale (“lo spirito umano”), che lo redime e lo rendecomprensibile.

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In fondo ci troviamo ancora all’interno una logica tuttacomparativa e, a ben vedere, solo geometricamente alternativa aquella di Frazer: là la pretesa della risalita verticale dellaspiegazione attraverso i secoli e il progresso della storia, qui lalinea orizzontale che unisce il principio inconsutile dell’umanoestrapolandolo intatto dalle più disparate concezioni del mondo.L’ennesima epifania del diamante gnoseologico: il nucleo puro,cristallino e perfetto che si estrae per progressiva eliminazionedelle scorie. A conti fatti, allora, da un punto di vista di principio il mondo diWittgenstein, dove l’osservatore raggiunge lo stato di agiomentale nello sperimentare una percezione di umanità condivisacon l’osservato, non pare troppo diverso da quello implicitonell’anelito genealogico dell’antropologo ingenuo - così coloratoe sensibile alle suggestioni ed ai collegamenti storici, alleanalogie ed alle genealogie, alle discendenze, alle filogenesi, allearie di famiglia - nel quale la comparazione tra sedimenti di storiediverse all’interno di uno stesso fenomeno culturale produce allafine un identico risultato, estraendo da quella varietà un principioessenziale, comune di qualità umana. Così tutti e due ritengono allo stesso modo di avere regolato iconti con quella domanda che si diceva, la domanda pereccellenza, la domanda senza risposta, quello che W.H. Auden(ancora!) chiama ‘il pantocratico enigma’: chi sei tu e perché?

La filogenesi ripete l’ontogenesi

In effetti quello che davvero disturba Wittgenstein nella lezione diFrazer non è tanto il principio storico-genealogico, quantosoprattutto l’implicito contenuto evoluzionistico su cui siappoggia, l’idea di un progresso dall’errore alla verità codificatonella incomparabile complessità del moderno a fronte dei mondiselvaggi e primordiali dai quali ha preso avvio. Non la storia in sé, la filiazione, la progressione, ma piuttosto lapretesa che attraverso di essa si sviluppi (esca dal viluppo) piùpienamente, si esplichi (si decomprima) interamente, giungainsomma a compimento e completezza qualcosa che era soltantopresupposto, informe e fetale. Depurata da questo pregiudizio,dice Wittgenstein, “anche l’ipotesi evolutiva posso considerarlacome nient’altro che un travestimento di una connessioneformale”. In fondo, aggiunge, “la spiegazione storica, laspiegazione come ipotesi di sviluppo è solo un modo diraccogliere i dati – della loro sinossi”La filogenesi ripete l’ontogenesi, ma non vi aggiunge niente dipiù.

Quandoquidem dormitat?

La spiegazione storico genetica (quand’anche depurata dalpregiudizio evoluzionistico) più che sbagliata, si dimostra inutile,perché non fa che rimandare ad un’altra configurazioneinterrogante identica a quella di cui vorrebbe darsi ragione.

Il programma di Wittgenstein è un altro: è il programma di unocchio che vuole “conoscere il mondo nel suo centro, nella suaessenza” attraverso la “chiarezza e la trasparenza delle strutture”,che “resta laddove è e vuol sempre conoscere le stessacosa”[Osservazioni filosofiche]Ricercare la chiarezza e la trasparenza delle strutture, conoscerel’essenza del mondo: il sogno degli universalisti. Scoprire quelloche “impressiona lo spirito umano al suo risveglio”, come scrivenel libretto grigio.Wittgenstein allora pare convinto che ci sia uno “spirito umano”:non ci dice che cosa sia, tanto gli sembra ovvio (benchè pocherighe più sopra non abbia esitato a definire ‘ghost’ un ‘terminesuperstizioso’). Un principio in cui si manifesta l’unità essenziale dell’umano, inun certo senso immateriale, trascendente, un principio comune ditutta la specie. E questo spirito – qualunque cosa sia - è soggettoad “impressionarsi”, a reagire a ciò che è fuori di lui, e il suoimpressionarsi è presumibilmente la sua principale qualità, la suamodalità esistenziale, il suo modo di rapportarsi al mondo.[Lo spirito umano ‘si risveglia’: vuol dire quindi che gli capitaanche di dormire, qualche volta? Oppure con quella curiosaespressione Wittgenstein ha voluto rendere in metafora l’ideadella nascita, di un originario apparire all’orizzonte del mondo edella vita, l’aurora, il determinarsi dell’uomo in quanto uomo,dell’uomo universale?]

Come il Cid Campeador

Quindi quello che impressiona Wittgenstein nell’aneddoticafrazeriana e antropologica in generale è questa originariacomunità di spirito, o di quello che sia, di un principio unificanteche caratterizza l’umano in quanto umano. E trova in questasostanziale comunità del primitivo con l’uomo moderno unaoriginaria comunità naturale, priva di evoluzione. Per questo Wittgensein rileva l’affinità sostanziale che ci rendeidentici ai selvaggi in quanto partecipi ab origine della stessanatura, quella struttura che è compito dell’antropologo rendere‘chiara e trasparente’.Quando Wittgenstein scriveva le sue note, più o meno all’iniziodegli anni ’30, molta dell’antropologia – e certo il senso comune- del suo tempo condivideva ancora la visione evoluzionista el’approccio antiquario di Frazer, rispetto ai quali il punto di vistadelle note sul Ramo d’oro risulta singolarmente penetrante einnovativo.Oggi, senza dubbio, con il sofisticato senno del poi della modernaepistemologia antropologica, la sua posizione può essere rubricatacome una forma attenuata di relativismo sorretta da una buonadose di ottimismo gnoseologico. Una cosa, cioè, a cui ci haabituato tutta la più recente antropologia, che ha abbandonatogran parte delle onnipotenti illusioni frazeriane ma tradisce lanostalgia della sua sicurezza e della sua soddisfatta percezione diverità. Un’antropologia flebile, che per forza di cose è dovutavenire a patti con le proprie aporie epistemologiche.

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Vale la pena di insistere su questo punto, perché riguarda uno deicentri problematici della disciplina, il nodo irrisolto del rapportotra storia e tradizione, e del ruolo del progresso e dell’evoluzionenelle culture. In questa disputa non stupisce che qualcuno possaessere tentato di inscrivere d’ufficio Wittgenstein nel suo alberogenealogico, per indurlo a patrocinare il proprio punto di vista.In fondo, se può capitare di venire appesi da vivi all’albero deimorti, non stupirà che qualcuno possa essere issato da morto su uncavallo da guerra, come il Cid Campeador, per fare daspauracchio nella battaglia, come se fosse ancora vivo.

Wittgenstein, Frazer e altre creature fantastiche

Ma è poi vero che le severe osservazioni di Wittgenstein – el’orientamento prevalente della moderna antropologia – hannotolto del tutto credibilità al metodo di Frazer? L’impressione è che nonostante la critica dissolvente e inevitabilea cui è stato sottoposto, una parte del suo lavoro – nonnecessariamente la più originale, ma certo la più suggestiva –continui ad esercitare un certa influenza sugli studi. E questo perché Frazer ha sistematizzato ed epitomizzato unapproccio comparativo che è inscritto geneticamente nella naturadel sapere antropologico, nei suoi moventi e suggestioni, e nellasua peculiare ricerca di verità.Per questo sembra così difficile dire davvero addio a quel vecchiomaestro, per quanto si possa ironizzare sulle sue debolezze e lasua ingenuità. Così difficile che anche Carlo Ginzburg, nella sua StoriaNotturna, ha dovuto rassegnarsi a riammetterlo per la porta diservizio, salvo poi, una volta entrato, lasciare che la facesse dapadrone. L’idea non era quella, naturalmente. L’idea – a sentire Ginzburg – era di mandare Frazer a lezione daWittgenstein, renderlo presentabile in società nonostante le suecattive maniere a tavola. Ma questo particolare matrimonio d’interesse ha generato allafine solo una chimera paradossale, che ha la testa adamantinadell’uno e lo stomaco accogliente, le tenebrose viscere innervatedell’altro, e sembra niente più che il prodotto di una strategiaaffabulatoria allestita per gestire una contraddizione. In effetti tutto il lavoro di Ginzburg, tutta la sua ricerca, è unatipica impresa storico-genealogica, che deve a Frazer molto più diquello che ha preso da Wittgenstein. Lo stesso paradigma indiziario a ben vedere sembra poco più cheun elegante sinonimo per ben note, tradizionali e altrimentisdegnate prassi deduttive e comparative: un altro ovvio algoritmogenealogico. Così a conti fatti aver letto Wittgenstein non ha impedito al Frazerdi Ginzburg di continuare a togliersi le sue soddisfazioni, girandoin lungo e in largo per il mondo e indietro nel tempo alla ricercadei suoi gemelli perduti.

Ergo?

E’ questa la passione del genealogista, il suo obiettivo principe:risalire per gradi al grado zero, al punto di origine. E’ lì che luitrova il suo agio, che sperimenta quel senso di soddisfazione chesi ricerca mediante la spiegazione. Ma come Wittgenstein aveva capito da subito, il semplicemovente eziologico, la ricollocazione del tradizionale in unasequenza culturale che lo ricongiunga e lo redima in un priusstoricamente documentabile, cogliendone l’isomorfismo con ilrito ancestrale - quando anche filologicamente ineccepibile - nonfa che spostare su un altro piano la stessa domanda, alla quale nonsa offrire che risposte tautologiche: post hoc, ergo propter hoc.Una postura evemeristica che condivide con l’etimologista, alquale lo accomuna anche l’illusione di poter sublimare isignificati puri attraverso il regresso lineare, il processo inverso,la restituzione mediante l’indizio. In tal modo il tradizionale viene paradossalmente collocato alcentro di un duplice movimento, inverso e complementare: da unaparte la visione retrospettiva lo individua come relitto, residuocorrotto di una originaria purezza di strutture e di senso, dall’altrainvece come il primordio bruto di un approccio al mondo che ilprogresso dello spirito umano si è incaricato di correggere erendere razionale.

Arie di famiglia

Benchè espresso in questi termini crudi il paradigma genealogicorisulti indigeribile per molta della smaliziata epistemologiacontemporanea, se ne danno tuttavia versioni alternative piùconvincenti, che godono di una singolare longevità e persistenza,e gli assicurano una dignitosa sopravvivenza nell’ambiente ostiledell’antropologia post moderna.Perché il principio evolutivo, il progresso magnifico dall’errorealla verità non è una modalità intrinseca allo scorrere tempo, nèl’unico approccio praticabile nell’interpretazione della storia. E’un plusvalore tutto culturale che può essere refutato e dismessosenza che si debba rinunciare ad una comprensione d’insiemedella scansione temporale in cui è inevitabilmente cifrata lapercezione del nostro mondo. C’è qualcosa, infine, un sostrato, un nucleo meno solubile nellapolarità retrogada dello sguardo, una vocazione ed una spintaimplicita; qualcosa che nonostante tutto, e inaspettatamente,ricollega Frazer a Wittgenstein, a dispetto degli esiti opposti a cuili conducono le rispettive premesse. In fondo, sé è stato così facile sbarazzarsi dell’ingenuoetnocentrismo di Frazer, rimane ancora da fare i conti con lasostanza temporale di cui è impastata la tradizione, e i riti, e lanatura stessa della cultura; rimane ancora da fare i conti con laterribile fascinazione di quel vecchio re che, ansioso, aspetta nellaforesta il giovane pretendente venuto per ucciderlo, come accadeai leoni nella savana.

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E’ questo alla fine che colpisce Frazer, e Wittgenstein, e colpisceanche noi, è questo che ‘impressiona il nostro spirito’ è questo chevogliamo sentirci dire: scoprire il percorso fino alla nostrasoddisfatta esperienza quotidiana di quella primitiva tracciaanimale che si annida tra i solchi della nostra coscienza, nelsubstrato primordiale della corteccia cerebrale, avvicinarci a quelnucleo inspiegabile del comportamento che ci fa muovere come ileoni nella savana, o come insetti in un termitaio, dal quale siamoinsieme attratti e ripugnati. E scoprire cosa c’è che infine ci hareso, ci rende, diversi - se qualcosa ci rende diversi -, rivendicarela qualità umana del nostro modo di essere specie animale, einsieme la comunità universale e atemporale dell’umano.

Terribile e maestoso

C’è davvero qualcosa di terribile e di ‘maestoso’, come direbbeWittgenstein, qualcosa che davvero impressiona il nostro spiritoin questa percezione cruda di affinità, in questo riconoscersiattraverso il tempo e attraverso i mondi pure così distanti deinostri alleli e precursori, il gioco ambiguo e misterioso didifferenze e affinità che rappresenta insieme la materia elettivadell’antropologia e il suo primo movente. D’altra parte, se è il risveglio dello spirito umano che vogliamocogliere, il suo apparire all’orizzonte, la sua aurora e i suoiprimordi, bisognerà pure che la freccia del tempo mostri il suolavoro, bisognerà pure che lo sguardo possa volgersi indietro, piùindietro possibile. Certo, come dice Pietro Clemente, nella notte dei tempi c’è tantodi quel buio che non ci si vede niente. Eppure, procedendo atentoni in quel buio, può capitare talvolta - a chi cerchi “lachiarezza e la trasparenza delle strutture” - di mettere le mani benpiù che su qualche remoto rito ancestrale che spieghi senzaspiegare il perché delle nostre imbarazzanti tradizioni, ma diavvicinarci alla radice stessa che quei riti condividono con lenostra esperienza di uomini contemporanei, quella radiceattraverso cui vorremmo “conoscere il mondo nel suo centro,nella sua essenza”. E’ per questo che se pure conviene muoversi con circospezione inquella notte, non è detto che si debba rifiutarne sempre ecomunque la sfida, anche perché in fondo è altrettantoconsigliabile diffidare pure di certi flebili crepuscoliepistemologici, nei quali accade talvolta che il tenue bagliore diuna lucciola venga preso per la luce rischiarante di una lanterna.

Una passione da antiquari

In questo contesto, e a queste condizioni, la genealogia conservaun senso ed una funzione, e così pure la filologia e la critica deltesto, che di essa sono gli strumenti d’ordinanza, e sarebbesbagliato considerarle semplicemente come un lusso superfluoper l’antropologia, o una passione inconcludente di antiquari. In fondo non si deve sottovalutare il plusvalore di verità che la

filologia può produrre a sostegno della appropriatezza eperspicuità delle interpretazioni antropologiche, se non altro perridurne il grado di fallacia e la eccessiva prontezza nel riconoscere“strutture chiare e trasparenti” dove non c’è altro, talvolta, che unqualche idioletto evenementale. Un aneddoto personale minimo, ma molto appropriato, servirà achiarire meglio questo punto di vista.

Tagliare il roast beef a Wellington

Lavorando ad una ricerca sull’alimentazione tradizionale, una miacollega maori si chiedeva la ragione per cui sua madre, e suanonna, e sua bisnonna prima di loro - tutte della whanau Tuhoe -ripetessero ogni volta l’operazione di separare le due estremità daun pezzo di roast beef appena acquistato, prima di riporlo infrigorifero. Immaginando in questo la sopravvivenza di unaqualche ritualità ancestrale, filtrata chissà come nel modernocostume dei Tuhoe – qualcosa come l’offerta sacrificale al dioTane di una parte della cacciagione -, la mia amica intervistò sulfatto prima sua madre a poi sua nonna, ma entrambe non sepperodare altra risposta che era così che avevano imparato a fare e dasempre avevano visto fare in famiglia. Fu poi la bisnonna asciogliere l’enigma, spiegando che la ghiacciaia che la famigliapossedeva prima della guerra era troppo piccola per contenere ilroast beef nel formato in cui lo si vendeva a Wellington.L’abitudine aveva prodotto un circuito rituale minore in cui avevacontinuato a sopravvivere come deriva anche quando la famigliapotè permettersi frigoriferi abbastanza capienti da rendere inutilel’operazione.Benchè minimale, l’aneddoto rende bene la lezione, e puòsuggerire come qualche volta la prospettiva genealogica possarendere più appropriato “quello che si sa”, aumentarne ilcontenuto di verità, aiutandoci a “comporlo correttamente”,magari anche senza che ci sia necessità di risalire fino alla nottedei tempi.

Non c’è antropologia senza racconto

Se la descrizione è la fonte della conoscenza antropologica, ilmetodo che consente di comporre correttamente quello chesappiamo del mondo, il racconto è la forma elettiva delladescrizione antropologica. Non c’è antropologia senza racconto: descriviamo raccontando,costruiamo la nostra descrizione all’interno di un processonarrativo che, come tutte le narrazioni, si struttura e si definisceattraverso una sua retorica peculiare. E questa retorica non è puramente e semplicemente uno stilecomunicativo e discorsivo, una ‘forma’ prosodica ininfluente eindipendente dai contenuti che esprime (se mai esistono forme delgenere). E’ piuttosto ‘forma’ nel senso di ‘stampo’, un altro letto diProcuste nel quale la materia incandescente di “quello che si sa”

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viene fatta raffreddare in una composizione ritenuta corretta. Laretorica è la descrizione. Il medium è il messaggio.Ma cosa è “quello che si sa” per l’antrolopologia? Di che cosal’antropologo può dire: “questo è quello che so”? I dati, insoma: prima di cominciare il suo racconto, l’antropologodeve aver raccolto i suoi dati, e ha bisogno di essere certo che queidati siano corretti, siano ‘veri’ almeno in una qualche accezionepraticabile del termine. Siano cioè dati nel senso piùcandidamente etimologico della parola: qualcosa appunto che èdato, un presupposto, una condizione, qualcosa che c’era giàprima dell’antropologo, e del quale sta a lui testimoniarel’integrità e la inequivocabile datità (se la parola non vi ripugna).E però, come ogni altra cosa, i nostri dati, a dispetto del loronome, non sono affatto lì pronti per essere raccolti come frutti daun albero, e neanche si trovano allo stato puro in luoghi impervima comunque accessibili agli audaci, come diamanti in unaminiera. I dati non sono semplicemente “ciò che si vede”, cose che unocchio esercitato può individuare e restituire, il prodotto diun’osservazione.

Osservar, trasumanar

Ai bei vecchi tempi, quando il mondo era quello che tutti siaspettavano che fosse, e la scienza un metodo ineffabile etendenzialmente infallibile per tirarlo fuori intatto da sotto il velodi Maia, l’osservazione, l’atto di osservare, era un affarerelativamente semplice. Osservare, nel senso comune e nelliguaggio naturale, è l’opposto di agire. Si tratta solo di starsenelì, in un qualsiasi punto di osservazione (appunto), ed aguzzare lavista, come un cacciatore alla posta. Tutto qui. Il verbo osservare, nelle nostre lingue (Standard AverageEuropean), è quello che si dice un verbo medio. Un verbo, cioè, ilcui dominio semantico, a detta dei linguisti “si caratterizza comeun contesto di scarsa elaborazione dell’evento, al quale mancanole caratteristiche di trasmissione di forza tra due entità individuateche sono proprie dell’evento transitivo”. Certo, ci sarebbe ancorada chiarire che cosa davvero intendiamo con il termine ‘evento’ (esoprattutto ‘evento transitivo’), che cosa sia una ‘forza’, o una‘entità’, tutti concetti a proposito dei quali i linguisti – e non soloi linguisti - non sono abituati a farsi troppi scrupoli. Ma per ilmomento possiamo accettare anche noi questa definizione. In altre parole, in quanto diatesi media, il verbo osservare presentasì una costruzione formalmente, morfologicamente transitiva(come pure tipicamente transitivo è l’uso dei suffissi: osserva-to/osserva-tore), ma il suo soggetto non agisce, in senso proprio,e il suo oggetto non è agito. Ecco qui allora i due dioscuri dell’indagine scientifica: lo sguardoe il tema. Ma alla simmetria formale a cui soggiacciono comeparti del discorso non corrisponde alcuna simmetria semantica(ontologica). Non sono, quei due, i poli complementari di un

dualismo, yin e yang. Nella fisica ingenua del conoscere e del senso comune, il primo èsolo un occhio, niente più che uno strumento di registrazione, unsemplice figurante che tende a ritrarsi dal proscenio, che devescomparire perché l’altro sia adeguatamente rappresentato.

Un convitato di pietra

Perché si possa predicare qualcosa di qualcosa ci deve esserequalcuno che osserva, è talmente ovvio. Talmente che la suapresenza può essere tranquillamente presupposta. C’è undiscorso, c’è un racconto, ci sono gli oggetti del racconto, macolui che racconta non è sulla scena: è qui dietro, poco lontano, losappiamo, dietro le pagine del libro che leggiamo. In qualche casopossiamo anche vederlo, sentirlo parlare, ma è solo unostrumento, un veicolo, una voce attraverso la quale ci parla larealtà.Un medium, nel linguaggio delle scienze della comunicazione, maanche in quello dell’esoterismo: il mistagogo che accompagna nelmondo di qua le voci cavernose che provengono dal brumosodominio dell’essere.Sappiamo che ci può mentire, certo, che può non esprimersicorrettamente, può ingannarsi, ma la realtà che ci offre è sempre,comunque, tendenzialmente lo specchio di una sostanzaincorrotta, un substrato puro a cui ha cercato di avvicinarsi con ilsuo osservare e a cui vuole avvicinare noi con il suo racconto.In questa versione dei fatti non è l’osservatore quello che contadavvero, ma ciò che viene osservato, e insieme l’idea che esso sianaturalmente disponibile come un’entità data, qualcosa checonduce un’esisitenza autonoma dall’atto di essere osservato,qualcosa su cui si possa posare l’occhio, che esiste previamenteed indipendentemente da quello sguardo.Benchè il nostro senso comune non accetti altra versione chequesta, come d’altra parte accetta (a dispetto della scienza che siimpara a scuola) l’idea che il sole ruoti intorno alla terra, e tuttauna quantità di altre teorie erronee della fisica ingenua, ormai losanno anche i ragazzi delle superiori che le cose non stannodavvero così, e che invece, per dirla con la loquace formuletta chetutti conosciamo, “l’osservatore modifica l’osservato”.Così ogni alunno diligente sa bene che, nonostante le apparenze,osservare è un atto nel corso del quale si sprigiona un tipo moltoparticolare di energia, un atto in fin dei conti propriamente,intrinsecamente transitivo.

Chi modifica chi?

Solo che a conti fatti quella che ha luogo non è propriamente unamodificazione dell’osservato, una qualche misteriosapartenogenesi che lo rende diverso da quello che sarebbe stato sequalcuno non lo avesse osservato (come se un oggetto potesse

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essere tale indipendentemente dall’essere osservato,indipendentemente dall’essere, cioè, un oggetto). Si può dire semmai che l’osservato, il tema, l’oggetto dellosguardo, si determina, si costruisce, si struttura, viene all’esseresoltanto nel processo dell’osservazione.E’ all’interno di questo processo che i dati assumono un senso eduna consistenza. E’ qui che prendono la loro forma, che vengonoin essere e si costituiscono come dati, è questo processo che licrea in quanto dati, che fa di loro “quello che si sa”, quello chequalche volta ci compiaciamo di chiamare ‘la realtà’.Osservare non è come guardarsi intorno: è prima di tutto unapratica guidata dall’intenzione di chi osserva e strutturata nelcontesto dei suoi parametri di rilevanza. Se lo sguardo crea una cosa che prima non c’era, non lo fatirandola fuori magicamente dal nulla. Al contrario, potràcostruirla solo a partire dagli elementi di cui già dispone e che giàconosce, e quello che alla fine si produce non potrà che rimandareancora allo sguardo stesso che lo ha prodotto, come una specie digemello, la conseguenza di un rispecchiamento cognitivo.

Le fotografie dell’antropologia sono tutte mosse

Ma il discorso antropologico presenta una complessità in più, unsuo molto peculiare statuto di verità, che gli è dato dalla naturatutta particolare dei suoi oggetti e dei suoi dati.L’osservazione antropologica, ancor più di qualsiasi altro tipo diosservazione, non è come guardare un panorama, o strizzarel’occhio dentro un microscopio. Ha a che fare con la gente, conaltri uomini, con cose cioè che non sopportano di starsene fermesotto un vetrino, e non stanno in posa a farsi fotografare, neanchequando si mettono in posa per farsi fotografare. Le fotografie dell’antropologia sono tutte mosse, ed è lì che viveil proprio dell’antropologia, in quel movimento perturbante cheimbroglia la vista e complica la messa a fuoco, ed è lì che sta illavoro mai terminato dell’antropologo. E’ lì, in quelle immagini sfuocate che deve decifrare e rendereintellegibili per quelli come lui. Ma questo rende il suo lavoro di mediatore tra mondi, divolenteroso traduttore di uomini, qualcosa del tutto speciale, unlavoro per cui gli ordinari strumenti del traduttore non possonobastare, e rappresentano piuttosto un ingombro, una scorciatoiaingannevole che lo riconduce inevitabilmente, ogni volta, al puntodi partenza.

Lavorare alla torre

La traduzione è un processo – suggerisce l’etimologia – checonsiste nello spostare, trasferire (come nel gergo delle questure),in un certo senso travasare. Ancora una volta ricorre, nell’origine del termine, la stessa idea di

una scintillante continuità ontologica, un oggetto permanente,qualcosa come una specie di flogisto, una sostanza concettualeoriginaria che si trova allo stato puro nella mente di chi parla e chenon ha che da essere trasferita così com’è in quella di chi ascolta.Sopravvive tenace - nella fisica ingenua degli oggetti mentali -l’archetipo del codice, l’ideologia consolatoria di una unità delreale criptata nella varietà delle traduzioni, e che basti scoprirnela chiave per rimettere in sesto il mondo: una chiave, unostrumento unico che da solo ricomponga le perturbanti diversitàdel senso e apra la porta sugli altri mondi, sulle altre menti.In fondo la traduzione funziona – è l’argomento principe degliantirelativisti - perché il mondo, il nostro mondo, funziona. Dioha confuso le lingue, ma noi abbiano saputo aggirare l’ostacolo, eil lavoro alla torre non si è mai davvero interrotto. E’ l’esistenza della torre, la sua progressiva e continua elevazione,il nostro quotidiano arrampicarci su quei gradini, che dimostranol’efficacia delle nostre strategie per intenderci l’un l’altro.Chi può negare che gli uomini – anche quelli più radicalmente,stupefacentemente diversi da noi - si intendono, dialogano tra loroin qualche modo efficace, partecipano ad una costruzionecooperativa della realtà? La traduzione funziona: produce cioèrisultati e conseguenze reali, oggettive, nella cui oggettività sirispecchia la fondatezza e la sostanziale veridicità di un mondo disignificati e di concetti che deve per forza esserci, ed essere lostesso per tutti. Il tertium comparationis, la fenice degli universalisti: la prova deifatti, qualcosa che si può toccare con mano, vedere con i propriocchi.

Credere ai propri occhi

Ma l’antropologo sa di non potersi affidare ai propri occhi, perchéquello che vede è privo di senso - per lui e per i suoi lettori – e ilsuo lavoro consiste appunto nell’estrarre un sensodall’insensatezza apparente di ciò che vede e che deve descriveree raccontare. Per questo il suo racconto non può reggersi sulla evidenzaostensibile di dati di fatto, ma deve essere sempre costruito ericostruito mediante un processo dialogico con il mondo chedescrive. Quei dati vanno cercati presso chi li possiede: si deve chiedere esi deve saper chiedere, e ascoltare e saper ascoltare.Il racconto antropologico, anche quando si presenti nella formaautistica della descrizione scientifica, è sempre, implicitamente,una costruzione dialogica. Il racconto allora è il prodotto di un dialogo: al fondo c’è sempreun principio di interlocuzione, una transazione concettuale, unamediazione umana in virtù della quale si produce quella chequalcuno, con un termine agghiacciante, ha chiamato “la co-costruzione del racconto”.Il racconto si origina dalla tensione tra due opposte energie: la

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forza inerziale dell’assimilazione, che conosce soltanto peranalogia e isomorfismo, e la sotteranea provocatoria resistenzadel differente, la sua indocile, perturbante alterità.

Il fantasma della domanda

L’interlocuzione antropologica non è un ordinario contestointerpersonale, come non lo è l’interrogatorio di polizia, o l’esamedi stato, la confessione in chiesa, il setting psicoanalitico. Laasimmetria fisiologica, il gradiente umano e comunicativo delleinterazioni tra diversi vengono esaltati nel contesto dell’indagineantropologica. Qui uno dei due vuole sapere, dove l’altro cercasemplicemente di gestire un rapporto.Anche quando non si dà la pena di segnalarlo, o non ne sente ilbisogno, o semplicemente non si rende conto che avviene, ilracconto dell’antropologo, il racconto delle culture, è infestato dalfantasma della domanda e di colui che chiede, che alligna in ognipiega della sua descrizione con lo stigma di una invalicabiledifferenza.L’antropologo è lì a rappresentare la sua domanda, sua e di quellicome lui: “Perché fate questo, perché? Perché siete quello chesiete?”. Una versione di ordine minore del pantocratico enigma. E non valgono, ad evitare questo, i tentativi più raffinati dimimesi, la full immersion, l’illusione del rispecchiamento totale.Non importa se lui è stato sotto le piogge monsoniche ainfradiciarsi come il suo informatore, non importa se si è nutritocon le stesse disgustose pozioni dei suoi commensali aborigenisenza fare una piega, non importa quanti orribili insetti abbianovisitato il suo pagliericcio nella foresta. E non vale, a ben vedere,neanche il più insidioso frammettersi del sentimento edell’empatia transculturale nelle esperienze sul campo. Anchequi, come nella vita privata, non è affatto detto che l’amoreamplifichi le capacità di comprensione, e si dà invece più spessoil contrario, come testimoniano i non mai troppo deplorati diari dicampo di Malinowski, e, all’opposto, la Brevisima Relaciòn diLas Casas.

In mezzo a loro, ma non dei loro

D’altra parte l’illusione dell’efficacia, l’affidamento nel poteresapienziale della partecipazione nasce, oltre che da un modelloastrattamente ideologico, dallo scacco epistemologico che ha resoormai impraticabile il paradigma opposto, dal discreditogeneralizzato in cui è caduta, a seguito dell’editto di Heisenberg,la metafora dello scienziato all’opera nel contesto oggettivato esterile (in tutti i sensi) di un laboratorio in cui l’osservato possaessere preservato dalla contaminazione dello sguardo. Il mondo prototipale sul quale l’antropologo o il linguistapensavano di misurare sé stessi e gli altri, quel mondo-laboratorioin cui potessero essere eliminati tutti gli attriti, le impurità, lacorruzione che la pratica della vita introduce nell’astratto einfondato gioco delle regole linguistiche e dei processi mentali, èdiventato un luogo ormai inabitabile anche per i più ottimisti. L’antropologo partecipante cerca di aggirare l’ostacolo scegliendodi mettere in gioco integralmente sé stesso, transustanziarsi nelproprio oggetto, nell’aspettativa che questa trasmutazionealchemica finisca per dargli accesso al proprio di quel mondo cheosserva, spremerne ancora un’essenza, una proprietà radicale. Ma l’umiltà con la quale si dispone al suo compito, la francescanarinuncia ai propri abiti ed alle pompe del demonio occidentale,tradisce al contrario un più subdolo e pervasivo peccato diorgoglio etnocentrico e di arroganza epistemologica.L’antropologo vuole essere, insieme, osservato e osservatore,scienziato in guanti sterili e batterio in mezzo ai batteri (“in mezzoloro, ma non dei loro”, per dirla con il poeta), e così la suagenerosa mimesi è corrotta ab origine dall’intenzione che l’haprodotta, ed il suo programma cognitivo ne finisceirreparabilmente compromesso.

E-mail: [email protected]

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Seminario: Dipendenza, lavoro, diritti

Prospettive comparative

Sessione primaverile 2008:

“Resistenze e prassi egualitarie”

17 marzo Alberto Prunetti, Circuiti di resistenza e sopravvivenza nella Buenos Aires del terzo millennio

7 aprile Ivan Bargna, Arte e resistenza

21 aprile Anna Vanzan, Donne e giovani nella Repubblica Islamica d'Iran

Tutti gli incontri si terranno presso il Laboratorio di Etnologia, via S.Eufemia 19, Modena,a partire dalle ore 15,30.

L’intento del seminario è quello di riunire studiosi di diversi orizzonti disciplinari (antropologi, storici, scienziati sociali)accomunati dall’interesse per campi tematici quali la dipendenza personale e la subordinazione, con il loro corollario direlazioni di appartenenza e gerarchia, analizzati in contesti etnografici ‘classici’ (principalmente africani e asiatici), negliambiti di migrazione o nella storia più o meno recente, in una prospettiva di lunga durata.

Il ciclo dei seminari verterà, inoltre, sulla coppia oppositiva inclusione/esclusione, sul tema della continuità o meno tra formearcaiche e forme contemporanee della dipendenza personale, sul problema della schiavitù e del suo lento riassorbimento, sullasopravvivenza di forme di lavoro non libero (anche di derivazione coloniale), nonché sul sostanziale fallimento del passaggiodal lavoro coatto (schiavitù, pegno, lavori forzati, reclutamento) al lavoro salariato ‘libero’ negli ambiti coloniali e post-coloniali.

In modo più specifico, il seminario si propone di prendere in esame le nuove forme della dipendenza personale che si creanonei contesti di immigrazione, caratterizzati dalla mancanza di diritti di cittadinanza, sempre più soggetti a condizioni esterne(tutele, sponsorizzazioni, nuova personalizzazione della dipendenza), in un quadro generale di crisi dei rapporti di lavorofordisti, del lavoro salariato e di rimessa in discussione radicale dei modelli di welfare state. Parallelamente, saranno esploratele forme di lavoro non contrattuale che caratterizzano il “settore informale” (piccola impresa, micro-commercio, apprendistato)nei contesti africani e asiatici.

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Fear the people, Lorenzo D’angelo, Sierra Leone (2008)

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Visitate il nuovo sito di Achab

www.achabrivista.itLa rivista è interamente scaricabile in formato .pdf

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Foto di Antonio De Lauri, Kabul, 2007

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