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Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantorpologici Potere femminile in Africa Occidentale Candidata Relatrice Annalisa Canofari Prof.ssa Cecilia Pennacini 1

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Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantorpologici

Potere femminile in Africa Occidentale

Candidata Relatrice

Annalisa Canofari Prof.ssa Cecilia Pennacini

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INDICE

Introduzione 4

Capitolo IFigure di potere femminile tra Ghana e Nigeria

1 Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali 9 tra gli oru-igbo e gli ondo-yoruba.

1.1 Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di Oguta 12

1.2 Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni rituali. 21

2 Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igbo 27

3 Il controllo nei mercati cittadini: 35

market-queen e associazioni di commercianti

Capitolo IIPotere politico e ricerca di autonomia

1 Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo 42di Benin City.

2 Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra Leone 54

3 Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminili 65

Capitolo IIIRegine Madri

1 Regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali 75

1.1 Iyoba 75

1.2 Kpojito 80

2 Regine madri in Ghana tra Ashanti e Krobo 86

2

Capitolo IVIl ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio delFort Apollonia Museum of Nzema Culture and History:

1 Musei e sviluppo 98

1.1 Quadro generale 99

1.2 L’istituzione museale Africa 103

2 Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History 108

2.1 Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopolitico 109

2.2 Fort Apollonia 114

2.3 Un progetto di valorizzazione integrale 116

2.4 Il Museo 120

2.5 Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempi 125

3 Regine madri Nzema e proposta di installazione nel Museo 130

3.1 Ambito socio-politico 132

3.2 Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazione 139

Conclusioni 144

Bibliografia 148

Sitografia 151

3

IntroduzioneIl presente lavoro nasce da un’esperienza di campo durata tre mesi e mezzo, in area

nzema, da luglio a novembre del 2010 Durante la mia permanenza ho assistito e

collaborato alla realizzazione del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History,

una struttura che non si chiude in se stessa, ma che vuole aprirsi al territorio

circostante attraverso la creazione di sentieri eco-turistici e la creazione di attività volte

allo svilupo locale. Il mio interesse si è rivolto prevalentemente alle aemaa, le

rappresentanti femminili del potere tradizionale. La Missione Etnologica Italiana in

Ghana (MEIG), presente sul territorio dal 1945, ha prodotto una cospicua quantità di

studi sulla chieftaincy, ma nessuno di questi ha approfondito il ruolo delle regine madri

nell’area. La mia indagine ha quindi preso le mosse dalla letteratura scientifica

riguardante altre zone, in particolare sulla regione degli ashanti, che rientrano, come gli

nzema nel gruppo Akan. Il mio campo di interesse si è poi allargato ad un più

composito insieme di autorità femminili che operano, o hanno operato, in alcune zone

dell’Africa occidentale.

Gli studi occidentali che si sono occupati di questioni relative il potere femminile in

Africa hanno utilizzato il termine “regine madri” per riferirsi ad un insieme eterogeneo di

cariche detenute da donne legate a vario titolo al lignaggio reale. Tali figure, presenti

sia in gruppi con sistemi di discendenza patrilineare che matrilineare, esercitano un

potere spesso complementare a quello esercitato dal re.

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Sul piano simbolico esse rappresentano un modello ideale che deve essere di esempio

per tutte le altre donne.

La carica può essere ereditata all’interno dello stesso lignaggio o conseguita per

merito. Nel primo caso re e regina sono legati da rapporti di parentela, come

fratello/sorella, zia/nonna-nipote, etc. Nel secondo caso la regina madre potrebbe

essere la moglie o la sorella di un ex sovrano, la madre biologica, classificatoria o

adottiva del re o addirittura un membro della società esterno alla casa regnante, ma

dotato d’influenza e ricchezza.

Roscoe (Roscoe, 1911) e Oberg (Oberg, 1948), concentratisi sulla regione dei grandi

laghi, hanno tentato di offrire una chiave interpretativa della carica di regine madri in

senso rituale.

Secondo gli autori, la ragione principe dell’esistenza di simili figure fornire protezione

magica al re e al suo trono è considerata la ragione principe dell’esistenza di simili

figure

Choen critica questa posizione facendo notare come, sebbene spesso molte di loro

ricoprano anche responsabilità nell’ambito rituale, non va dimenticata la presenza di

professionisti della sfera magico-religiosa dediti alla tutela della casa regnante (Choen,

1997).

Nello stesso articolo, Choen prende le distanze anche dalla posizione espressa da Luc

De Heusch, 1958, il quale aveva focalizzato la sua attenzione sul significato

dell’incesto reale.

Egli elabora la sua teoria a partire da dati inerenti vari rituali di corte nelle regioni

interlacustri dell’Africa centro-orientale. Il focus della sua analisi risiede nella

separazione rituale del re attraverso la cerimonia d’insediamento. Durante tale

cerimonia, nelle società prese in considerazione, il re consuma una pratica incestuosa

con una delle sue sorellastre. De Heusch propone che quest’ultima sia una sostituta

simbolica della madre del re: questa, infatti, ricoprirà la carica di co-reggente e dovrà

rimanere casta per il resto della sua esistenza, mentre alla sorellastra sarà precluso

partorire figli (De Heusch, 1958).

Sempre secondo De Heusch, le strutture di autorità centralizzata vanno oltre i legami di

parentela poiché ogni classe e gruppo di discendenza concorre all’organizzazione del

5

sistema politico (De Heusch, 1962).

La separazione del futuro re dal resto della società è frutto, secondo De Heusch, di una

serie di pressioni selettive, sviluppatesi su uno sfondo politico non statalizzato, che ha

dato forma allo statuto simbolico della regalità (Choen, 1997: 15).

Affinché il re possa governare è necessario quindi che esso sia separato sia dal suo

gruppo di discendenza sia dalla popolazione.

La cerimonia d’insediamento e la recita (concreta o simbolica) del dramma edipico

coincidono con la rappresentazione di questa separazione.

Il fatto che il nuovo re assuma al suo fianco la propria madre implica la vittoria di

questo sul suo predecessore. In quest’ottica, la carica di regina madre è strettamente

legata al riconoscimento del nuovo potere e non ha altra ragione che fornire legittimità

allo status simbolico del neo-eletto sovrano.

Choen (Choen, 1997) si distacca dalla rappresentazione che abbiamo qui brevemente

descritto di De Heusch fornendone una di stampo sociopolitico. La sua analisi prende

le mosse da una serie di dati sul regno di Biu (nord-est della Nigeria) in cui si può

vedere che la regina madre rappresenta il segmento di lignaggio che viene escluso

dalla successione al trono. Egli assume che l’organizzazione statale necessita di

accordi tra governanti e governati; le relazioni che nascono da questi accordi sono alla

base dell’organizzazione dello stato e della sua continuità (Choen, 1997: 16).

La carica di regina madre aveva la funzione di arginare il pericolo di disgregazione del

fragile sistema politico concorrendo così all’unità simbolica dello stato.

Sul piano politico era in grado di stringere alleanze fondamentali al mantenimento di

equilibri precari; è stata quindi vista da Choen, come uno degli elementi che hanno

permesso il passaggio ad una forma di governo politico centralizzato (Choen, 1997).

L’accento posto sulla centralità delle regine madri come punti di equilibrio e ponti per le

alleanze trova riscontro in molti casi documentati, ma Choen commette l’errore di

reificare la figura femminile relegandola a ponte passivo di alleanze strette tra uomini.

Secondo Barnes (Barnes,1997) Choen non riesce a superare l’approccio che classifica

aprioristicamente la donna come agente passivo e l’uomo come attore attivo. Da

questa dicotomia se ne generano altre per le quali l’uomo è agente di

divisione/conflittualità mentre la donna incarna l’integrazione e la stabilità; il tutto come

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in un gioco di potere dominato da soli uomini.

Va detto che, mentre il re trova la propria ragione d’essere in se stesso, il titolo di

regina madre è sempre acquisito in relazione ad un’altra figura.

Il rapporto che lega i due può essere più o meno formalizzato a seconda dei contesti,

ma da questa relazione vengono fuori le funzioni attribuite alla carica in questione.

Aspirare al titolo o detenerlo già vuol dire incarnare tutte quelle caratteristiche legate

alla maternità (protezione, nutrimento, cura, difesa, punizione).

Nel caso delle regine madri, queste caratteristiche sono amplificate, escono dalla sfera

domestica ed agiscono nella sfera del pubblico e del sociale.

In sintesi: il titolo rende formali i doveri di ogni madre e poiché l’accesso al potere è

sempre conseguenza di una competizione, queste caratteristiche assumono contorni

politici (Barnes, 1997).

Gli studi femministi hanno aperto una prospettiva di genere sulle figure di potere

femminile. I casi passati in rassegna non si concentrano esclusivamente sulle regine

madri, ma riguardano un ampio spettro di situazioni in cui a vario titolo, le donne hanno

esercitato ed esercitano il proprio potere politico.

Ho voluto mutuare da Flora Kaplan (Kaplan, 1997) una definizione allargata di potere

politico inteso come “possibilità di prendere decisioni intorno a risorse, materiali e

immateriali, che interessano uno o più gruppi nelle arene pubbliche…(tale potere è)

ampiamente definito e applicato alle associazioni di donne basate su interessi reciproci

e attività scarsamente strutturate e anche informali” (Kaplan, 1997: 248).

Quello che mi propongo di fare è mostrare come le donne, in Africa Occidentale hanno

agito ed agiscano attivamente, ponendosi, a volte, come elementi in grado di generare

conflitto. Intendo inoltre mostrare la loro capacità di cogliere opportunità offerte dalle

circostanze contingenti per ottenere un miglioramento della propria condizione e

proporre che questa predisposizione dovrebbe essere tenuta in considerazione nelle

pratiche di patrimonializzazione applicate al contesto africano.

Si vedrà quindi che non sempre l’influenza dei governi coloniali ha causato una perdita

di potere da parte delle donne, ma che, in qualche caso, questi si sono mostrati

interlocutori aperti che ne hanno incentivato e promosso l’azione individuale e politica.

Nel primo capitolo si prenderanno in considerazioni tre diverse sfere di esercizio del

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potere che mettono in risalto la tensione conflittuale nei rapporti tra generi (sfera rituale

e gruppi femminili incorporati nella struttura sociale), e la spinta verso tendenze

modernizzatrici a partire dalla tradizione (associazioni di commercianti e regine dei

mercati)

Il secondo capitolo intende rendere conto della capacità di operare scelte soggettive

allo scopo di servire i propri interessi personali. Si farà riferimento sia a importanti

donne di palazzo (regno del Kongo) che a capi femminili legittimati dalla tradizione

(regine mende).

Ci si riferirà infine alle azioni delle donne dello stato di Edo, che durante il periodo

coloniale, hanno lottato per raggiungere un maggior margine di autonomia rispetto alle

rigide strutture patriarcali che le vedevano come poco più che merce.

Il terzo capitolo esamina il ruolo delle regine madri in diversi contesti storico-culturali. I

casi proposti riguardano sia situazioni in cui l’ascesa delle madri reali si è legata

fondamentalmente a situazioni d’instabilità politica (Dhaomey e Lagos precoloniali), sia

contesti contemporanei (ashanti, krobo) dove le regole di successione sono ben

definite ed il ruolo delle regine madri assume contorni più specifici.

Il quarto capitolo vuole rendere conto della mia esperienza di campo in area nzema e

della realizzazione di un museo dedicato al loro territorio e alla loro cultura.

A partire dalle tematiche al centro dei dibattiti museali contemporanei, in merito

all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo (De Varines, 2005), si vuole

proporre il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History come buon esempio

di pratica museale nei contesti africani. Si renderà conto della mia indagine sulle

aehmaa nzema e si avanzeranno delle proposte in merito al coinvolgimento attivo delle

donne nelle attività di sviluppo previste dal progetto del Museo.

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Capitolo IFigure di potere femminile tra Ghana e Nigeria

1. Divinità femminili sacerdotesse e performances rituali tra gli oru-igbo e gli ondo-yoruba. Si vuole qui rendere conto di alcune sfere di azione femminile che trovano spazio

nell’ambito delle performances rituali, sia che si tratti di un agire concreto, in qualità di

sacerdotesse o officianti, sia che si parli di partecipazione a determinati rituali. Le

popolazioni prese in considerazione sono quella degli oru-igbo, e gli ondo-yoruba.

Il gruppo linguistico degli igbo è situato soprattutto in Nigeria, della quale costituisce il

17% della sua popolazione, ma sono presenti significativi insediamenti anche in

Cameron e nella Guinea Equatoriale.

In questo contesto si fa riferimento più specificatamente agli oru-igbo della zona di

Oguta.

Prima di passare alla trattazione vera e propria pare opportuno dare una sommaria e

più generale descrizione dell’organizzazione socio-politica di questo variegato insieme

di popolazioni comunemente riunito sotto il nome di olu non igbo (coloro che vivono

nelle pianure e negli altipiani).

Prima del colonialismo europeo, i sottogruppi igbo vivevano in localizzate comunità di

villaggio interrelate tra loro da scambi matrimoniali e commerciali come da migrazioni

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o guerre di conquista.

A livello di organizzazione politica si hanno due differenti situazioni:1

repubblica democratica di villaggio: si tratta di comunità gestite da un capo (obi o

eze), visto come a servizio della comunità, e dai suoi consiglieri (nze) che hanno il

compito di rappresentarlo e di aiutarlo nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella

difesa da eventuali intrusioni esterne;

Monarchia costituzionale: comunità con a capo un vero e proprio sovrano (obi),

come nel il caso di Onitsha e da una serie di consiglieri ed alti capi.

A questa figura di potere maschile ne corrispondeva una femminile, parallela e

complementare (omu) il cui ruolo fu però sospeso in epoca coloniale e mai più

reintrodotto.

L’organizzazione sociale è basata su unità esogamiche patrilineari (umunna, ogbe,

idumu, esi), ma in passato in determinate aree si sono avute anche forme di

discendenza matrilineare o bilaterale.

Il compound, la fondamentale unità residenziale, è abitato da un uomo, i suoi figli, le

sue co-mogli ed eventuali cugini patrilineari. Generalmente ogni moglie ha il proprio

spazio, dove vive con i bambini piccoli e le figlie femmine, mentre i figli maschi abitano

in residenze separate. Qualche villaggio è cresciuto fino a diventare una città o un

regno.

In epoca precoloniale, la giustizia era amministrata soprattutto a livello di lignaggio e

solo nei casi più gravi, o laddove non si fosse riusciti a risolvere le controversie

all’interno dei nuclei famigliari, si ricorreva al consiglio di villaggio o di città, che era

composto dal capo (o dal re a seconda delle zone), dai suoi consiglieri o sotto- capi e

da altri uomini titolati.

La costa del Niger è stata un importante punto di contatto, nel periodo che va dal 1434

al 1807, per quanto riguarda il commercio degli schiavi.

I primi europei venuti in contatto con le città costiere tra il XV e il XVI secolo furono i

portoghesi seguiti dagli olandesi nel XVII e dagli inglesi Nel XVIII secolo. Nel tardo XIX

secolo gli interessi coloniali e quelli della missione cristiana collaborarono per la

colonizzazione dei territori igbo. L’impatto del colonialismo ha avuto forti ripercussioni

1 http://www.everyculture.com/Africa-Middle-East/igbo-Sociopolitical-Organization.html

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sull’influenza attiva delle donne a livello amministrativo.

Esistono tuttavia numerosi spazi di intervento e influenza da parte delle donne, a livello

associativo e individuale.

La società igbo è spesso descritta come altamente egualitaria, nel senso che il potere

e le varie prerogative sono distribuite attraverso varie forme di titoli e associazioni,

secondo una divisione che va dal genere alle classi d’età e che consente una discreta

mobilità sociale. Per quanto riguarda gli yoruba2, con questo termine ci si riferisce ad

un composito gruppo di popolazioni appartenenti a uno dei sottogruppi linguistici dei

linguaggi kwa, all’interno della più vasta famiglia Niger-Congo.

Siti in gran parte della Nigeria sud-occidentale, in parte del Benin (ex Dhaomey) e in

Togo, occupano un territorio caratterizzato da una situazione climatica che spazia dalla

foresta tropicale pluviale all’aperta savana.

La popolazione negli anni 90 era stimata aggirarsi intorno ai 20 milioni di persone. Per

quanto riguarda i sistemi di discendenza, sono presenti forti tendenze bilaterali ma

mentre a nord, dove in passato il gruppo di discendenza coincideva con l’unità

residenziale, si tende a porre maggior enfasi sui legami agnatizi, a sud c’è più

dispersione e si accentua il legame cognatico.

Spesso questi gruppi portano il nome dei propri fondatori e al loro interno la posizione

degli anziani ancora riveste una certa importanza nella risoluzione delle controversie e

nelle decisioni da prendere, mentre in passato svolgevano anche funzioni di

rappresentanza per quanto riguardava le relazioni con l’esterno.

Lo status sociale è determinato dall’età, dal genere e dalle linee di discendenza anche

se c’erano (e ci sono) casi in cui una persona riusciva ad emergere grazie alla propria

istruzione, occupazione e benessere economico.

Spesso l’unità residenziale era composta dal largo gruppo degli agnati, le loro mogli

che vivevano in spazi separati e i loro figli.

Raggiunta la pubertà i figli maschi coabitavano in uno spazio dedicato a loro mentre le

ragazze lasciavano in giovane età la residenza natale per raggiungere quella del

marito. 2 Il termine yoruba è stato dato a queste popolazioni dalle popolazioni confinanti ed in seguito adottato dai missionari

verso la metà del XIX secolo. Gradualmente queste popolazioni hanno accettato questa definizione, ma quando si riferiscono a se stessi parlando tra di loro utilizzano le denominazioni dei rispettivi sottogruppi come ad esempio ondo , Ife, Ibadan…

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Il sistema politico era basato su un capo supremo e sull’assemblea consultiva dei capi

che a vario titolo rappresentavano i settori più disparati della società.

I loro compiti, oltre la consulenza, riguardavano la sfera amministrativa, legislativa, e

giudiziaria.

Prerogative del re erano l’esecuzione di alcuni rituali, le relazioni estere, il

mantenimento della pace, il diritto di vita e di morte sui propri sudditi.

Le strutture dei villaggi periferici replicavano in piccola scala quella della capitale ed i

rapporti tra questi ed il centro erano tenuti assieme dai funzionari di palazzo. Le cariche

reali e di comando erano ereditarie e i rami di una casa regnante potevano scegliere

tra i vari candidati. Per quanto riguarda la sfera di azione femminile, sebbene a costoro

non fosse impedito di accedere a determinate cariche, questo avveniva raramente,

perché nell’opinione comune era l’uomo ad essere ritenuto più adatto allo svolgimento

di determinati incarichi.

Oggi queste cariche permangono con funzioni mutate e perlopiù al servizio del governo

locale.

La prima annessione, da parte della Gran Bretagna, del territorio yoruba, avvenne nel

1861 e essa riguardava gli insediamenti costieri del Lagos.

Agli albori del XX secolo tutti gli yoruba erano sotto il controllo dell’impero.

Una precoce esposizione alla formazione cristiana ha agevolato l’accesso a maggiori

risorse economiche. Al momento dell’indipendenza (1960), gran parte delle più alte

cariche amministrative della regione erano ricoperte da esponenti yoruba.

Questo stato di cose ha consentito un passaggio relativamente agevole a una forma di

governo burocratizzato di stampo occidentale.

1.1 Il culto di Mammy Water o Obguide presso gli oru igbo di OgutaOguta è una città fluviale dello stato di Imo famosa per il lago omonimo nel quale

confluiscono i fiumi Urashi, Njaba e Okposha.

In epoca precoloniale il sistema politico era basato sulla coesistenza di una carica

suprema maschile e di una femminile. Le due cariche erano parallele e complementari.

Il patrilignaggio esercitava ed esercita il controllo sui propri membri e sulle terre nonché

su tutti gli affari interni ed esterni.

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Gli oru tracciano le loro origini a partire da una massiccia migrazione dal Benin

avvenuta dieci generazioni fa.

L’obi (il re) prende l’appellativo di eze igwe (re divino), ma le sue funzioni differiscono

da quelle dell’obi del Benin poiché quella degli oru si configura come una società

essenzialmente egualitaria.

Al di là delle strutture tradizionali sono presenti associazioni di commercianti, devoti al

culto delle divinità acquatiche, classi d’età e società segrete.

Si vuole qui dare un’idea del culto della principale divinità acquatica nota come Nne

mmiri (madre acqua) tra gli igbo e come Obguide o Ubammiri 3 tra gli oru-igbo di Oguta

facendo riferimento ai lavori di Sabine Jell Bahlsen (Bhalsen,1993) e a quello di Flora

Nwapa (Nwapa,1991).

Presso gli igbo il termine per indicare la parola acqua è mmiri. Le sacerdotesse di Nne

mmiri portano il nome di eze mmiri (regina dell’acqua), mentre i suoi devoti sono riferiti

come ndi mmiri (popolo dell’acqua). (Jell Bhalsen,1993).

E’ interessante notare che il termine utilizzato per designare i sacerdoti di sesso

maschile non fa riferimento all’acqua, infatti eze ugo sta a significare “re coronato” o re

con una piuma d’aquila”.

Uno dei principali attributi della divinità è quello di proteggere la gente di Oguta dagli

invasori: la leggenda vuole che durante la guerra civile4 tenne lontane le truppe

nemiche grazie al suo ventaglio gigante.

La sua figura è talmente popolare che le sue sacerdotesse, raccolta l’acqua del lago

Oguta dove si ritiene che essa risieda, la vendono al mercato come se fosse parte

della divinità stessa.

Prima dell’avvento delle strade, le vie di trasporto acquatiche sono state a lungo

fondamentali per i rapporti di tipo commerciale sui quali le donne di Oguta avevano il

dominio quasi assoluto.

Generalmente le sacerdotesse conducono una vita isolata e agiscono individualmente,

3 Nel corso di questo paragrafo per fare riferimento alla divinità in questione si utilizzeranno indifferentemente i suoi vari nomi (Nne mmiri, Obguide, Ubammiri).

4 La guerra civile nigeriana, nota anche come “Guerra del Biafra”, ebbe luogo fra il 6 luglio 1967e il 13 gennaio 1970, in seguito al tentativo di secessione delle province sudorientali igbo, autoproclamatesi repubblica del Biafra. L'azione militare del governo centrale nigeriano portò la popolazione di intere regioni a essere decimata dalla fame, e accuse di genocidio furono mosse da esponenti igbo alla Nigeria.

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ma in caso di grandi pericoli come guerre, inondazioni5, carestie o pestilenze possono

giungere in gruppo in mezzo alla comunità e scongiurare il pericolo pregando e

danzando. La loro prerogativa assoluta è quella di mantenere la pace e la stabilità.

La controparte maschile esiste, ma è piuttosto raro trovare degli uomini che si

dedichino al sacerdozio di Obguide/Nne mmiri.

Secondo Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Nwapa, questo è dovuto al fatto che

il celibato è un sacrificio troppo grande per loro, mentre le donne riescono ad affrontare

con più disciplina le restrizioni cui sono sottoposte dal loro ruolo (Nwapa,1991). Il loro

potere deriva da una divinità di potere superiore, ma è la dea a scegliere i suoi adepti e

nessuno può impedire a una persona di esercitare ciò che ha così ricevuto in dono.

Sabine Jell Bhalsen (Bhalsen, 1993) si concentra sull’analisi di un’ immagine popolare,

importata dalla Germania nel 1926, in cui è raffigurata una bellissima donna con i

capelli lunghi e affiancata da una coppia di serpenti.

Opera di un autore ignoto, la cromo-poligrafia rappresentava in origine una divinità

indiana che è stata identificata a Oguta e nei suoi dintorni con una divinità acquatica il

cui nome inglese si è affermato come Mammy Water.

Prendendo le distanze dalle interpretazioni che ipotizzavano l’origine straniera del culto

e influenze esterne nell’immaginario locale, l’autrice rintraccia nella mitologia e nella

simbologia locali quegli elementi che han fatto sì che l’immagine in questione si

guadagnasse lo status di icona della dea Obguide.

Il lavoro di analisi di J. Bhalsen, prende quindi le mosse dall’analisi di quegli elementi

iconografici che hanno una forte valenza simbolica all’interno dell’universo culturale

igbo e precisamente: la figura femminile; i pitoni; il colore bianco, da solo o in

combinazione con il rosso e l’aspetto selvaggio della capigliatura fluente.

Agli approcci che vedevano nell’accoppiata donna-serpente, o la soppressione del

dramma edipico (Wintrob, 1970) o il desiderio represso nei confronti della donna

bianca e quindi del benessere degli occidentali (Fabian, 1978), Bahlsen identifica, in

accordo con i suoi informatori, i due serpenti come la coppia di serpenti reali e i quattro

serpenti nel riquadro in basso a destra come i quattro giorni settimanali del mercato

5 Le inondazioni determinano l’andamento dei cicli agricoli sono quindi necessarie, ma anche molto pericolose nella loro imprevedibilità. Questo aspetto è dunque di fondamentale importanza ed è necessario eseguire rituali specifici e offrire sacrifici ai santuari sotto la supervisione di sacerdotesse e sacerdoti.

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delle donne di Oguta ed associa il numero quattro al lato femminile dell’universo.

Se qualcuno dovesse uccidere un coccodrillo, animale prediletto della dea, morirà

avvelenato da un pitone. Questo rettile, che si rinnova cambiando la propria pelle, è

associato ai cicli di morte e rinascita, alla fluidità dell’acqua come a quella della donna

e in definitiva a quella della dea.

L’immagine della coppia di serpenti reali ricorre spesso associata a coccodrilli o

tartarughe ed è ritenuto molto pericoloso uccidere uno dei due perché si andrebbe

incontro a morte certa per intervento dell’altro.

La figura del pitone ricorre anche sui tamburi da guerra in quanto anch’esso, come gli

aggressori, circonda le proprie vittime.

Guardati con riverenza e timore esattamente come la dea, non hanno nulla a che

vedere con un simbolo di sessualità repressa, piuttosto sono ritenuti seminare veleno

per conto degli dei ed incarnano il potere divino sulla vita e sulla morte.

Il colore bianco assume un connotato che si lega al ciclo nascita-morte e fa riferimento

anche all’argilla bianca del lago Oguta, ritenuta essere il cibo degli spiriti ed impiegata

per placare le febbri dei posseduti.

Viene utilizzato come ornamento di sacerdotesse e sacerdoti ad indicare il tocco e la

vista degli spiriti e durante i rituali di nascita e nei funerali viene adoperato per colorare

il corpo di donne e parenti. Essendo ritenuto il colore preferito di Obguide si crede che

la dea preferisca ricevere animali bianchi in sacrificio.

Elemento di transizione associato alla freddezza e alla mobilità dell’acqua e della

donna è assimilato anche al blu turchese del lago.

La freddezza e la mobilità connaturati all’essere femminile sono elementi acquatici,

caratteristici del lago e della dea che lo abita, ma in una valenza tutt'altro che negativa.

Il femminile, in tutta la sua fluidità e mutevolezza, è ritenuto essenziale al perpetuarsi

del ciclo vita -morte-rinascita. La donna, come la dea, è il tramite tra il mondo della vita

e il mondo che la precede e la segue; l’atto del procreare è assimilato all’attività

creatrice del dio e ogni nascita è vista come segnale di buon auspicio.

A sottolineare l’importanza accordata dagli igbo all’atto procreativo, Bhalsen fa notare

come il bianco compare sempre associato al rosso in ogni occorrenza rituale che ha a

che vedere con Mammy Water. Se il bianco è un colore femminile, associato alla

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fluidità e alla potenza vitale dell’elemento acquatico, il rosso è associato al calore e alla

virilità maschili nonché al sangue e alla noce di cola, altro elemento che ricorre spesso

in offerte sacrificali e in rituali divinatori. Così come il blu è assimilato al bianco, allo

stesso modo il giallo-marrone del calcare giallo è assimilato al rosso. Giallo torbido è

anche il colore del fiume Urashi il cui dio, che porta lo stesso nome, è sposo di

Obguide.

Figura 1 Mammy Water nella popolare icona del 1926 (Fonte: Jell Bhalsen , 1993)

L’accoppiamento dei due colori nel poster di cui si sta trattando rimanda, tra gli igbo,

all’indispensabile equilibrio tra maschile e femminile per il perpetuarsi dell’esistenza.

Per quanto riguarda l’inusuale capigliatura fluente e selvaggia dell’icona, J. Bhalsen,

facendo riferimento all’universo simbolico degli igbo, si pone in posizione critica nei

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confronti degli approcci che considerano questo elemento di derivazione occidentale.

In realtà, presso queste popolazioni, la crescita incontrollata della capigliatura è

associata al disordine e a ciò che sfugge al controllo. Stregoneria, malattia, morte,

forze della natura e spiriti acquatici sono collegati a questo elemento.

La crescita incontrollata dei capelli è vista come un pericolo per la persona che

potrebbe ammalarsi nel corpo e nella mente. Come per la chiamata sciamanica, la crisi

può nascondere qualcosa di più profondo.

I Dada (persone con i dreadlocks) sono considerati individui speciali, folli o in contatto

con le forze della natura.

Per le donne la crescita incontrollata dei capelli assume una valenza ancora più

profonda. Ci sono due diversi tipi di bellezza negli ideali femminili igbo.

Esiste la bellezza adolescenziale, ed esiste una bellezza più matura, che si acquisisce

quando con il matrimonio si diventa donne a pieno titolo.

Le capigliature femminili sono molto elaborate, ma sempre composte, come composto

è l’ideale di fascino della donna adulta che assume su di sè le responsabilità

assegnatele dai dettami sociali.

Il passaggio all’età adulta è segnato dall’ingrassamento forzato tra le mura domestiche,

dall’acquisizione delle capacità di governare una casa e dalla clitoridectomia, che

segna la morte rituale della ragazza e la sua rinascita come donna.

Se già ai tempi della ricerca di Jelsen, spesso tale l’intervento era praticato in

ospedale, tuttavia una donna che avesse usufruito di tale opzione era considerata

meno appetibile, in termini matrimoniali, rispetto ad una che seguiva i metodi

tradizionali.

Questa transizione è un momento così difficile e delicato, che non tutte accettano

senza remore di uniformarsi alle norme imposte dalla tradizione.

Negli anni a cavallo tra il 1870 e il 1940 coloro le quali erano dedite al commercio,

fornivano bellissime donne, avute come pagamento o tramite adozione, a influenti

mercanti inglesi e francesi nel tentativo di mantenere la loro centralità commerciale nel

nuovo panorama che si andava configurando.

I figli nati da questa unione erano chiamati Mammy Water ed è in questo periodo,

secondo Flora Kapwa, che l’immagine di Obguide cominciò ad assumere connotati di

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una bellissima donna mulatta dai lunghi capelli fluenti (Nwapa, 1991).

La crescita incontrollata dei capelli è uno dei segni della chiamata al sacerdozio come

si arguisce dalle parole della madre di una sacerdotessa: “Lei è diventata una

sacerdotessa di Mammy Water. Dalla preparazione dei suoi capelli, si vede che lei è

Mammy Water in persona” (Jell-Bahlsen 1993: 118 ).

L’associazione qui è tra l’essere umano e il non conforme, il selvaggio, le forze della

natura e uno dei segnali di questo legame è appunto da ravvisarsi nella capigliatura

non curata. Al di là dei ruoli inerenti il sacerdozio, il culto di Obguide ha moltissimi

adepti che sono in gran parte di sesso femminile.

Anche se maritate, le donne son tenute a dedicare uno dei quattro giorni settimanali

riservati al mercato, alla devozione della dea, essendo legittimate a trascurare gli

impegni domestici e muliebri.

C’è quindi una sorta di rifiuto per le regole derivanti dalla condizione di mogli, che porta

alcune donne ad abbracciare il culto di Mammy Water.

Sacerdotesse e adepte scambiano la vita e i doveri matrimoniali con il coinvolgimento

spirituale legato al rapporto con la dea dell’acqua, il cui culto viene ad assumere un

significato di rivolta e di riscatto perfettamente incorporato nell’universo culturale igbo.

Per comprendere appieno la portata di questo tipo di sacerdozio6 occorre far

riferimento all’universo cosmologico igbo, dove all’apice del pantheon è posto Chi-

Ukwu.

Si tratta di un’entità astratta e asessuata, pertanto indescrivibile che può manifestarsi

sotto forma di pitone e al di sotto del quale esiste una moltitudine di spiriti, maschili e

femminili seguiti dagli spiriti degli antenati.

Gli spiriti addetti a far da tramite tra questa entità e il mondo degli umani sono gli Arishi

e tra questi vi è la deità acquatica generalmente nota come Nne mmiri (madre acqua) o

Obguide/Ubammiri.

Chi-Ukwu, l'entità astratta di ordine superiore, è conosciuta anche come divinità del

destino (Chi).

Al momento dell’incarnazione, l’anima riceve un proprio destino da perseguire in terra.

6 Oltre la vocazione/possessione esistono altre due forme di sacerdozio tra gli igbo: una si eredita per linea maschile ed una riguarda le mogli dei capi. In entrambi i casi come nel caso della possessione si può avere che inizialmente ci sia riluttanza nell’accettare la carica, per i pesanti sforzi che queste comportano.

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Prima di entrare nel mondo dei vivi, cosi come avviene prima dell’uscita dallo stesso,

l’anima deve attraversare il fiume dove entra in contatto con il dio della terra

Onabulowa o con Nne Mmiri, che lo sfidano a scommettere sulla sua impresa.

A questo punto l’individuo può scegliere se mantenere il patto con Chi-Uwku o se

stringere un nuovo patto con la dea; nel secondo caso, parte della sua vita sarà

dedicata a lei in forma devozionale o di sacerdozio.

Sebbene i poteri provengano dalla divinità del destino, è la dea a decidere a chi

trasmetterli. La crisi del corpo e della mente è segno di disordine, indica la rottura di un

equilibrio tra l’essere singolo e la sfera sociale o quella naturale e sovrannaturale. La

malattia, che preannuncia la chiamata, è segno dell’infrazione di questo patto, che va

ricomposto se non si vuole incorrere in conseguenze sempre peggiori.

La gelosia delle divinità acquatiche può colpire in vari modi.

Ezemiri, la sacerdotessa intervistata da Kwapa, aveva ricevuto la sua chiamata in

giovane età e per tutto il tempo della sua adolescenza era stata considerata pazza.

La consapevolezza di essere stata chiamata le giunge solo dopo il matrimonio e dopo

aver messo al mondo tre figli. Una volta compiuto un sacrificio e diventata

sacerdotessa di Obguide, la sua vita diventò soddisfacente e più serena.

In Efuru (Nwapa, 1966), una delle novelle della studiosa, la donna è descritta come

dotata di straordinarie capacità e dai rinomati successi in ambito commerciale, ma

piuttosto sfortunata riguardo altre sfere della vita.

Infatti i suoi due matrimoni erano falliti e il suo unico figlio deceduto.

Per lei la vocazione si manifesta in tarda età e questo può portare a chiedersi se la

chiamata non fosse una sorta di compensazione per le sofferenze occorse.

Ne La concubina (Nwapa, cit. in Bhalsen, 1993) troviamo una situazione analoga: in

quanto compagna favorita del dio del mare essa non poteva essere corteggiata senza

che i suoi aspiranti subissero una qualche disgrazia a causa della di lui gelosia.

Ezemiri, allo stesso modo di Efuru, era una bambina diversa dalle atre, nessuno poteva

comprenderla e solo una volta accettato il suo destino poté condurre una vita normale.

Nonostante fosse stata abbandonata dal marito, una volta riconciliatasi col proprio

destino, fece in modo che la propria sorella gli andasse in moglie.

Questo gesto potrebbe rivelare una superiorità della sacerdotessa nei confronti del

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marito, ma come fa giustamente notare Kwapa, potrebbe trattarsi anche di una

sottolineatura del ruolo di moglie che è tenuta ad avere cura del proprio marito.

Quando Ezemiri si era sposata, creando un disequilibrio col suo chi, veniva visitata di

notte da Urashi che si mostrava geloso. Ogni notte era portata nel bosco dagli spiriti

che le insegnavano i segreti delle erbe affinché fosse in grado di poter curare chi si

sarebbe rivolto a lei.

Una volta riabbracciato il proprio destino Ezemiri ha iniziato a condurre una vita serena

e a guarire le persone riappacificandole, se fosse il caso, con il proprio chi.

Una sacerdotessa di Obguide è ritenuta essere al servizio di chiunque si rivolga a lei,

anche se straniero.

Essa conosce le proprietà benefiche e malefiche delle piante acquatiche e grazie a

queste conoscenze esercita funzioni di guaritrice, ma non è l’unica persona in grado di

assolvere a questo compito e allo stesso tempo la sua sfera di azione non si riduce a

quelle di guaritrice. Ci si rivolge loro soprattutto per quanto riguarda questioni legate ai

bambini: vita, morte, reincarnazione, scelta del nome.

Sacerdoti e sacerdotesse rispondono direttamente alla dea che parla per loro tramite,

se qualcuno dovesse fare un uso improprio dei poteri acquisiti sarebbe duramente

punito con malattie, disgrazie e in alcuni case anche con la morte.

Obguide esprime la centralità del ruolo della donna nella continuità dell’esistenza.

Questo ruolo supera la complementarità tra maschile e femminile nell’atto procreativo e

ciò è ben espresso nella capacità di Nne Mmiri di cambiare i destini umani.

La divinità acquatica è connessa alla concezione circolare del tempo, alla mobilità e

fluidità del femminile e alla maternità come asse fondamentale attorno a cui la vita può

perpetuarsi.

I rituali officiati reiterano il concetto di complementarità tra vita e morte, statico e

dinamico, creazione e conservazione spiriti/antenati e esseri umani.

Tra gli oru igbo, la figura di Mammy Water come divinità femminile è rimasta centrale

nonostante il boicottaggio da parte del governo britannico.

La devozione da parte maschile nei confronti di antenati e divinità del loro stesso sesso

sono state meglio documentate in coerenza con la volontà da parte delle potenze

europee, di imporre il proprio modello di completa dominazione maschile in tutte le

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sfere del sociale.

Si veniva così ad ignorare completamente il delicato equilibrio su cui era basata la

divisione di competenze tra i generi.

La coppia di pitoni reali non è asessuata e come coppia riflette il delicato equilibrio del

cosmo. Non è un caso se il culto di Obguide si è conservato e se l’immagine di

Mammy Water abbia attecchito in modo così profondo.

Obguide rappresenta il lato femminile dell’universo che nutre e dà la vita, ma è anche

molto esigente, gelosa e potenzialmente pericolosa.

Meravigliosa e terribile, benevola e misteriosa, richiede che i suoi devoti siano persone

straordinarie. La sua figura è anche un modo per trattare il non conforme, come non

conformi sono i dada, i parti gemellari, le inondazioni e i contatti con gli stranieri.

Non è un caso se anche per quanto riguardava i commerci erano le donne ad

occuparsi di quest’ultimo aspetto.

Spesso può essere difficile per una donna dotata di talento conciliare gli affari

domestici con la propria autoaffermazione nel mondo degli affari, così può capitare che

qualcuna scelga la devozione rituale come mezzo per raggiungere uno statuto di

benessere e di parità con l’uomo.

Pertanto si hanno più sacerdotesse che sacerdoti non tanto perché (come spiegato da

Ezemiri) le donne sono più predisposte al sacrificio, quanto perché tali ruoli offrono loro

una possibilità di riscatto e di avanzamento sulla scala sociale.

La vocazione può rappresentare una via di fuga attraverso la quale legittimare il proprio

rifiuto nei confronti dello status di moglie. Il fatto che il destino di una persona sia

contrattato dalla nascita e che, se disatteso, possa comportare gravi conseguenze, ne

è ulteriore conferma.

Un ex paziente delle sacerdotesse potrebbe anche intraprendere la strada

dell’iniziazione ed è generalmente considerato pericoloso sposare una potenziale

sacerdotessa, poiché in quanto moglie di spiriti acquatici non dovrebbe accompagnarsi

a persone ordinarie.

Una sacerdotessa di Obguide potrebbe anche fondare e comandare un proprio

lignaggio.

La crisi della mente e del corpo è, il segno di un disagio più profondo che trova

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soluzione nella ricomposizione, attraverso il sacerdozio, tra l’individuo che infrange la

norma e le regole sociali.

1.2 Potere femminile tra gli ondo-yoruba: alcune espressioni ritualiIl potere rituale non va inteso come prerogativa esclusiva di sacerdotesse devote a una

divinità ben determinata.

Esistono altre figure che, a vario titolo, svolgono importanti funzioni in questo senso pur

senza abbracciare nessun culto.

Nello stesso tempo ci sono rituali che sottolineano la centralità dell’essere femminile e

che sono fondamentali al mantenimento della stabilità e alla riaffermazione del potere

vigente.

Jacob K. Olupona (Olupona, 1991), nell’analizzare una serie di rituali tra gli ondo-

yoruba7, esplora i rapporti di potere che intercorrono tra i generi e rintraccia in questi

una costante tensione che affonda le proprie radici in un passato mitico.

La parola ondo è il risultato della contrazione di edo du do, che sta ad indicare che il

bastone di jam non riesce ad entrare nel terreno.

Il mito di fondazione yoruba designa come progenitore mitico Oduduwa.8

Il racconto vuole che una delle sue mogli diede la nascita a due gemelli, ma trattandosi

della sua favorita, la vita fu loro risparmiata. La madre e i gemelli dovettero tuttavia

abbandonare ile ife.

Nel corso del loro peregrinare ricevettero la profezia secondo la quale si sarebbero

dovuti insediare laddove, appunto, edo du do.

Ad essere nominata obi, regnante suprema, fu Pupupu, una dei gemelli nati da

Oduduwa. Nel mito le origini matrilineari della società ondo.

Sempre all’interno del medesimo però si narra di come fu chiesto all’obi, che era molto

in là con gli anni, di nominare qualcuno che avrebbe potuto assumere i suoi compiti e

di come costei scelse suo figlio, chiamato in seguito Aisero (il sostituto).

Un’altra versione della stessa storia, parla di una presa di potere da parte degli anziani,

che insediarono il figlio di Pupupu in quanto uomo poiché la loro obi precedente si era

7 Nel corso del testo i termini ondo e yoruba vanno intesi come interscambiabili.8 Secondo speculazioni di vario genere Oduduwa potrebbe anche essere stato di sesso femminile, ma mancano dati solidi

che supportino questa ipotesi (Olupona ,1991)

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mostrata più volte inadempiente nei confronti del suo ruolo e aveva prediletto gli affari

domestici.

Nel mito è presente anche la descrizione di insediamento di Aisero, durante il quale

l’ormai ex obi aveva avuto, come vedremo, una parte più che determinante.

Peter Lloyd e Donald Bender, sottolineano come in passato il sistema di discendenza

ondo fosse bilaterale e nel mito troviamo indicazioni che vanno oltre la suggestione in

merito ad un sistema originariamente matrilineare.

L’organizzazione sociale ondo continua a configurarsi come basata sul parallelismo di

genere.

Le strutture di potere tradizionali si basano su una tradizionale gerarchia di governo a

capo del quale è l’obi. L’organo immediatamente al di sotto nella scala gerarchica è

costituito dall’ehare, il consiglio dell’obi e dei suoi capi.

A ogni figura di capo maschile ne corrisponde una femminile denominata opoji.

Il titolo femminile più alto è quello di lòbun, che corrisponde non ad una regina parallela

al re, quanto al ruolo di capo delle donne. La sua sfera di azione spazia dall’ambito

rituale a quello commerciale, ma il suo ruolo più importante è quello di installare il

nuovo obi.

In caso di decesso della lòbun, la carica rimarrà vacante fino al momento in cui non

sarà necessario proclamare un nuovo obi :

“ obi wa Utiade‘

se duo kù o

Di’ lòbun jè” (Olupona, 1991: 327)

(Muori o nostro re Utiade e lasciaci nominare una nuova lòbun)

Questi versi fanno parte di una delle canzoni registrate da Olupone durante l’oramfe,

l’annuale festival destinato a propiziare un eroe culturale ondo.

Il cuore di queste celebrazioni, detto Opepee, è una notte di danza itinerante durante la

quale, al ritmo del tamburo sacro, chiunque può inserirsi e introdurre una nuova

canzone.

I temi spaziano da un più generico quadro di riferimenti valoriali, come l’importanza

attribuita all’alfabetizzazione e all’istruzione, ad argomenti che riguardano una buona

condotta morale.

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La maggior parte delle volte sono le donne a proporre un nuovo argomento che, se a

volte riguarda genericamente questioni femminili, spesso coincide con il dileggio o la

messa in discussione del comportamento dell’obi. Costui è, di volta in volta, accusato

di non essere in grado di mantenere le proprie mogli o di non aver rispettato la norma

che prevede la restituzione del pegno pagato dagli aspiranti a cariche di comando.9

Nell’esempio di cui sopra si giunge ad auspicare il decesso del re per poter installare

una nuova lòbun.

Pur trattandosi di versi satirici che fanno riferimento a voci popolari, queste canzoni

sono pur sempre espressione della vox-populi e in quanto tali sono indice di qualcosa

che va oltre lo scherno.

Le critiche nei confronti dell’obi, l’invito rivolto allo stesso a morire, riflettono le tensioni

insite tra componente femminile e regalità maschile.

La notte satirica dell’opepee ha quindi come principale funzione quella di ricomporre

ritualmente la protesta, serrandola nei ranghi dell’universo culturale.

Le tensioni sono dunque rese innocue e incorporate dall’ordine costituito, che in tal

modo viene riaffermato ( Turner, 1957; Gluckman, 1965). Una funzione analoga, anche

se limitata alla cerchia di mogli dell’obi, è svolta dalla seconda parte dell’odun-obi,

l’annuale festival dedicato al mantenimento e alla continuità della regalità.

La cerimonia consta di due parti: una ha luogo al mattino ed è rivolta principalmente

alla figura dell’obi, mentre la seconda, che incomincia alle tre del pomeriggio di fronte

al palazzo reale, è rivolta alle mogli e ai figli del re.

Si tratta di una situazione abbastanza particolare perché è l’unica durante la quale l’obi

attende, assieme agli altri capi e alla popolazione, anziché essere atteso.

Una delle caratteristiche peculiari di questa fase della celebrazione è data dal

prolungarsi dell’attesa.

Pur se invitate più volte da Baba Mesi (emissario del re) a presentarsi alla folla, le

mogli con i loro figli si lasciano attendere fino al momento in cui l’impazienza degli

astanti, obi in primis, raggiunge il culmine.

Quando arriva il momento ha inizio la processione: tutte le donne devono portare un

9 E’ costume tra gli ondo, che tutti gli aspiranti ad una carica, paghino un tributo all’obi e agli altri capi che compongono il consiglio elettorale. La consuetudine vuole che, una volta giunti alla nomina, i candidati non vincitori abbiano indietro quanto versato.

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bambino sulla schiena e nel caso di madri con figli non troppo piccoli si rimedia

ricorrendo ad una bambola. Durante la processione vengono offerti sacrifici e preghiere

per la famiglia reale e nel medesimo tempo la folla prega anche per se stessa.

In questa occorrenza è il rinnovamento della stirpe reale, possibile solo grazie alla

capacità riproduttiva delle mogli dell’obi, ad essere esaltata.

Il fatto che tutte le mogli debbano avere un bambino sulla schiena, sia esso vero o sia

una bambola, esplicita molto bene questa funzione.

Nel pregare per il rinnovarsi e perpetuarsi della chieftancy, la comunità prega anche

per sé, nel potere procreativo c’è anche quello di investire tutta la comunità di una forza

di auto rinnovamento.

L’elemento della maternità non è l’unico aspetto portante di questa cerimonia.

L’apparente ritardo con il quale la famiglia del re si manifesta è indice anch’esso di

tensioni latenti.

In primo luogo si mette alla prova la pazienza dell’obi, il quale in questo caso non è

trattato come essere divino, cosa che è accordata alle sue mogli e ai loro figli. Secondo

e più importante aspetto è l’affronto perpetrato nei confronti dell’obi da parte delle sue

consorti.

Si tratta anche in questo caso di una ribellione rituale nei confronti di chi detiene il

controllo della loro sessualità. Se ad essere esaltata è la maternità, come unico

strumento che possa garantire il perpetuarsi della stirpe reale, ad essere esorcizzata è

la ribellione di coloro che detengono il potere riproduttivo.

Il bisogno di ricomporre ritualmente le tensioni tra la sfera di potere maschile e quella

femminile non si limita a cerimonie che vedono le donne in qualità di partecipanti, per

quanto attive, alle medesime, ma anche e soprattutto in quelle che le vedono come

protagoniste attive in qualità di officianti.

Si è detto che il massimo titolo femminile è quello della lobun e che la sua ragion

d’essere principale è quella di insediare un novo obi.

Se è vero che un re può essere in carica senza che ci sia in vita una lobun, è anche

vero che senza la presenza di costei nessun re potrà essere nominato. Tralasciando

l’intera fase di selezione e preparazione del candidato vincitore, ci si concentrerà sulla

cerimonia di insediamento vera e propria (ifobiie).

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Dopo i tre mesi di reclusione previsti, il nuovo obi si reca in pellegrinaggio all’odierna

Epe, il luogo mitico di fondazione dello stato di ondo, ribadendo in tal modo il legame di

discendenza con la progenitrice Pupupu e rinnovando il legame con il passato

ancestrale. Compiuto questo passo la lòbun esegue i rituali di insediamento in

conformità con il racconto mitico.

Nel racconto Pupupu, avendo raggiunta l’età di 220 anni ed essendo stata invitata a

scegliere qualcuno come sostituto, scelse suo figlio Aisero.

Condottolo fuori di casa, lo fece inginocchiare e gli pose la corona sopra il capo per tre

volte. Effettuata questa operazione chiese alla gente di accompagnarlo in casa dove lei

li avrebbe raggiunti. Una volta giunta nei pressi del trono dove il neo eletto re sarebbe

asceso, eseguì qualche altro rito.

Durante l’installazione, la lòbun trasferisce il potere al nuovo obi prendendogli la mano

destra; insieme girano intorno all’akoko, l’albero sacro che simboleggia l’axis mundi.

Mentre la folla acclama in segno di accettazione al grido di “Abaye”, lei lo nomina re

per tre volte. La cerimonia termina con l’ascesa dei due alla collina primordiale che

indica l’ascesa al trono.

“è una grande gioia per noi che la conoscenza esca fuori oggi, essa segue sentiero

della verità come all’inizio dei tempi” ( Olupona, 1991: 331)

In queste parole, la lòbun intervistata da Olupona esprime la necessità di ribadire il

passato mitico e di perpetuarne la conoscenza.

La stessa lòbun parla dell’obi come di suo figlio. Non esistono tabù tra di loro.

E se questa parentela serve a rinnovare ancora una volta il legame tra passato e

presente essa sottolinea ulteriormente la centralità della lòbun, in quanto madre,

nell’affermazione della regalità.

La cerimonia di insediamento legata al racconto mitico porta con sé due fondamentali

conseguenze: nel rinnovare il legame tra presente e passato ancestrale, la regalità

trova la propria legittimità, che è rafforzata dall’acquisita parentela tra la lobun e l’obi.

La lòbun, in un certo senso, veste ritualmente i panni di Pupupu, è questo il motivo che

rende fondamentale il suo ruolo. La cerimonia seda il conflitto latente generato

dall’estromissione delle donne dal potere. Tale estromissione ebbe luogo nel momento

in cui, alla progenitrice ancestrale subentrò un uomo.

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La ricomposizione è legata al fatto che la successione può essere legittimata soltanto

dall’approvazione della “madre” del nuovo obi.

Nei tre rituali passati in rassegna, appare chiaro come tensioni e conflitti siano sempre

presenti, in virtù di un soppresso passato in cui la sfera di azione politica non era di

esclusivo appannaggio degli uomini.

In questo spazio non è possibile analizzare tutti i rituali della società ondo, basterà

accennare al fatto che il santuario più importante dedicato al dio della guerra Odun, è

affidato ad una sacerdotessa e non ad un sacerdote.

Anche per quanto riguarda quindi affari ritenuti di sensibilità più prettamente maschili,

la figura della donna è di centrale importanza tra gli ondo.

Se, in base a quanto abbiamo visto finora, l’ambito devozionale tra gli oru coincide con

una possibilità di riscatto e di rafforzamento da parte delle donne, qui abbiamo

constatato che la concentrazione di grandi responsabità rituali in mano a esponenti di

sesso femminile, risponde all’esigenza di contenere conflitti e tensioni che potrebbero

destabilizzare gli equilibri di potere che sono, almeno per quanto riguarda il massimo

grado di autorità, di appannaggio maschile.

2.Associazioni e classi d’età presso Gli oru-igbo e gli onitsha-igboSi è detto che presso gli igbo sono presenti una serie di istituzioni, titoli e associazioni

che partecipano all’organizzazione sociale esercitando funzioni di controllo, pressione

o svolgendo un ruolo riconciliatorio e di appoggio.

Uno dei cardini dell’organizzazione sociale igbo è costituito dalla divisione per classi

d’età maschili e femminili che raggruppano tutte le persone dello stesso sesso nate

nell’arco di due o tre anni.

Le persone appartenenti allo stesso gruppo d’età stabiliscono un particolare legame di

solidarietà tra loro.

A prescindere dallo status sociale dei suoi membri, la classe d’età d’appartenenza

pone tutti sullo stesso livello e, se è abbastanza forte, può intervenire in modo decisivo

in caso di controversie che riguardano uno dei propri membri.

Questo aspetto è particolarmente importante, per quanto riguarda eventuali problemi

che potrebbero insorgere tra una donna e il proprio marito.

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Presso gli igbo, il gruppo ritenuto veramente attivo è costituito dagli uomini tra i 18 e i

45 anni.

Oltre ad esercitare pressione per l’approvazione di leggi riguardanti la moralità

pubblica, costoro si pongono come garanti dell’ordine pubblico e assolvono il compito

di recuperare debiti insoluti per conto dei creditori che si rivolgono loro.

La loro attività investe anche l’ambito ludico ricreativo superando quindi i confini del

villaggio nella realizzazione di eventi e festival (Ijoma, 2000).

Si è detto che la società igbo è caratterizzata da una discreta mobilità sociale che

consente ai propri membri di accedere a posizioni di prestigio attraverso l’acquisizione

di titoli10.

L’uomo titolato gode di gran prestigio in quanto il suo status lo pone agli occhi della

comunità come una persona saggia e in discrete condizioni economiche.

La nomina di maggior prestigio è quella di Ozo (o Ndi Nze). Fino ai primi anni del XX

secolo solamente gli uomini potevano accedervi, spesso aiutati economicamente dalle

mogli e dalle sorelle di lignaggio che svolgevano e svolgono un ruolo determinante nei

confronti della vita dei propri fratelli.

Gli uomini così titolati raggiungevano il rango di sacerdoti, avvicinandosi in tal modo

allo spirito degli antenati.

Ad essi era consentito svolgere cerimonie dalle quali le donne erano escluse,

comprese quelle che riguardavano l’accesso alle risorse economiche e spirituali del

patrilignaggio. Alle donne era preclusa la carica di capo ed erano pertanto estromesse

dai casi di giudizio che potevano comportare una condanna a morte.

Helen Kreider Henderson ci informa di come tra gli igbo di Onitsha, nonostante la

soppressione della carica di omu, esistono vari gruppi attraverso i quali le donne

esercitano la loro influenza all’interno della società. (Henderson 1997)

Simili, ma non del tutto corrispondenti sono i gruppi di cui ci parla Flora Nwapa

(Nwapa, 1991) in riferimento agli oru-igbo.

Onitsha è stata la città stato degli onitsha-igbo. Sorta sulla riva orientale del fiume

Niger è oggi un importante centro commerciale, crocevia tra le regioni della Nigeria

occidentale e orientale, ma già in epoca precoloniale era famosa per il suo grande 10 L’acquisizione dei titoli, a seconda delle zone, può avvenire per merito personale o può essere acquistata da altri detentori.

In questo caso occorrerà dimostrare che il denaro utilizzato per la transazione sia stato guadagnato in modo onesto.

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mercato che era di dominio prettamente femminile.

Nel 1992 la popolazione era stimata intorno ad un milione di persone circa di cui 25000

erano igbo. L’insediarsi di nuove attività da parte di persone non igbo è un fattore di

rischio per la partecipazione delle donne alle attività di mercato e rischia inoltre di

compromettere i luoghi dove sorgono i santuari tradizionali di Onitsha. Sebbene le

richieste da parte delle donne di reintrodurre la figura dell’omu, ad oggi non siano state

ancora soddisfatte, costoro possono agire ed acquisire prestigio attraverso altri canali.

Henderson (Henderson,1997) riporta l’esistenza di un’associazione denominata Otu

Odu (portatrici d’avorio), ancora attiva negli anni 60 e ben documentata nei racconti dei

viaggiatori del XIX secolo.

L’appartenenza a questo gruppo è di norma appannaggio di ricche commercianti, una

volta favorita l’acquisizione del titolo di Ozo da parte del marito.

Anche se in qualche caso l’acquisizione del titolo onorifico può essere sponsorizzata

dai figli della donna, indicando così i forti legami esistenti tra la stessa e i propri affini di

lignaggio, spesso è la persona stessa a provvedere da sé a tale acquisto.

L’appartenenza a questo gruppo non è segno dell’incorporamento nel lignaggio del

marito, infatti si può appartenere all’Otu Odu sia nel proprio lignaggio che in quello

affine.

Solitamente le donne dotate di questo titolo provvedono ad acquistare avori anche per

le loro figlie dichiarando che difficilmente un uomo farà lo stesso per una moglie o per

le proprie figlie (Henderson 1997). Il prestigio e il rispetto acquisito le avvicina in

qualche modo agli uomini Ozo, ma anche se i loro funerali rispecchiano l’alta

considerazione di cui godono in società per aver elevato se stesse ad un rango

superiore, ad esse non è consentito officiare rituali nei santuari degli antenati.

Sia Henderson che Nwapa (Henderson, 1997; Nwapa, 1991), fanno riferimento a due

gruppi d’appartenenza per le donne degli oru e onitsha igbo.

All’interno dell’organizzazione sociale igbo infatti le donne sono ritenute appartenere al

lignaggio paterno in quanto figlie e a quello del marito in quanto mogli.

Nel trattare delle sacerdotesse di lignaggio, Henderson si riferisce a tale carica come

isi ada, capo delle mogli, senza fare riferimento all’umuada, cui pure aveva fatto cenno

e di cui fa esplicita menzione anche Kwapa.

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Pertanto quando si utilizzerà il termine Umuada si intenderà dire che si sta parlando

degli oru-igbo.

Sotto il nome di Umuada, si intende l’insieme di tutte le figlie di un lignaggio, maritate o

meno (Henderson, 1997; Nwapa, 1991).

Il loro potere proviene dagli antenati e le loro azioni sono svolte collettivamente.

E’ infatti dalla loro unità che esse traggono potere ed è dalla loro soddisfazione che

deriva la stabilità del lignaggio. Il loro potere all’interno del lignaggio è talmente grande

che un uomo tenderà a scontentare la propria moglie piuttosto che le proprie sorelle.

Questa forza ha valore solamente all’interno del proprio segmento di origine, mentre

perde totalmente valore nei confronti del lignaggio del marito.

Il legame con il patrilignaggio non è mai scisso del tutto e a conferma di ciò, al

momento della morte di una donna, il corpo di costei sarà seppellito nella casa dalla

quale proviene.

Va da sé che una madre e una figlia non potranno mai appartenere allo stesso gruppo

di Umuada. Il capo del gruppo delle figlie è la figlia maggiore tra tutte, assistita dalle

due che la seguono in età.

La loro azione è rivolta ai propri fratelli: il loro dovere principale è quello di lottare per

loro, difenderli in caso di controversie o offese ricevute, occuparsi dei loro funerali e

celebrarli degnamente nel caso in cui dovessero acquisire un titolo.

In occasione delle onoranze funebri si occupano della veglia funebre piangendo,

intonando lodi e preghiere, controllando che ogni cosa vada per il verso giusto. Fino a

che i riti non sono conclusi è loro dovere occuparsi dei figli del defunto accogliendoli

nelle loro case e offrendo loro cibo e protezione. Nei confronti della moglie del defunto

hanno invece un atteggiamento decisamente poco benevolo. Infatti, in caso di morte

prematura, la moglie è la prima ad essere accusata del decesso ed è costretta a subire

prove e umiliazioni di vario genere, come bere l’acqua utilizzata per lavare il corpo del

marito per dimostrare la propria innocenza e per far sfogare la rabbia delle sorelle.

Come si è già detto, il gruppo trova nella coesione la propria forza, non partecipare al

funerale di un membro del proprio patrilignaggio sarebbe considerata una gravissima

mancanza e la colpevole potrebbe essere multata o ostracizzata giungendo al

boicottaggio in massa dei suoi funerali.

30

L’altra occasione in cui la forza dell’umuada è resa manifesta si ha in occorrenza di

un’eventuale presa di titoli da parte di uno dei loro fratelli.

E’ necessario in questo caso, informare immediatamente le sorelle dell’avvenuta

nomina; se qualcuno dovesse ignorarle tralasciando questo fondamentale passaggio

incorrerebbe nella loro ira.

Durante le celebrazioni esse sono le invitate d’onore: i migliori cibi e bevande son

riservate loro in quantità spropositate. Alla moglie del festeggiato non è consentito

invitare il proprio Umuada, ma è dato il permesso di far partecipare le appartenenti alla

sua classe d’ età. Queste devono, in ogni caso, mantenere un comportamento

rispettoso e non offendere in alcun modo le sorelle del marito.

Se dovessero crearsi dei malcontenti da parte di questo gruppo, l’intero lignaggio ne

risentirebbe, in quanto la loro capacità di destabilizzazione è particolarmente forte. Allo

stesso modo, se dovessero verificarsi delle tensioni al suo interno ci sarebbe il rischio

che l’umuada possa interrompere le proprie funzioni generando caos e disequilibrio.

Le mogli del clan sono raggruppate all’interno dell’umunwunyeobu nel quale entrano a

far parte automaticamente al momento del matrimonio.

Il potere di questo gruppo non è minimamente paragonabile a quello dell’umuada ed è

fondamentalmente atto a istruire le giovani mogli sul corretto comportamento che è

necessario osservare in quanto spose.

Se questo gruppo è abbastanza influente e coeso può essere un utile strumento di

difesa contro la tirannia dei mariti, ma generalmente la loro premura principale, in caso

di fuga da parte di una moglie, è quella di convincerla a ricongiungersi al loro sposo.

Sebbene possano esercitare una certa forma di pressione sui consorti delle

consociate, esse possono facilmente trovarsi di fronte l’ostilità dell’umuada che ha

pieno diritto di interferire negli affari che riguardano i propri fratelli.

Come gruppo esse possono in qualche modo contestare le decisioni prese dai mariti

nei loro confronti rifiutandosi di cucinare per loro e, in casi estremi, sfruttando il loro

potere riproduttivo e astenendosi dal dormire con loro.

In linea di massima però va ribadito ancora una volta come questo sia un gruppo con

funzioni più riconciliatorie che di effettiva tutela reciproca.

Questo ruolo è invece svolto con più successo dal gruppo di donne della stessa classe

31

d’età, in quanto caratterizzato da una grandissima solidarietà derivante dall’aver

attraversato insieme tutte le fasi della vita.

Le appartenenti al gruppo avvertono quindi con più forza il bisogno di difendersi le une

con le altre essendo in generale, anche se non necessariamente, svincolate da legami

di parentela con il marito in questione.

Una donna maltrattata dal marito potrà rivolgersi a loro, che accoreranno in massa per

intimargli di desistere dal suo comportamento. In caso di accuse sarà loro cura aiutare

la donna a dimostrare la sua innocenza o, al contrario, convincerla a scusarsi e trovare

una riconciliazione. Si è visto come questi tre gruppi svolgano, ognuno a suo modo,

funzioni di rilievo all’interno della società oru. Essi hanno inoltre la facoltà di creare

risorse, a cominciare da un autofinanziamento che viene di regola ridistribuito e messo

in circolazione in modo da creare una minima base di reddito.

Parte di quanto già riferito per gli oru vale anche presso la gente di Onithsa e cioè: il

patrilignaggio esercita e continua ad esercitare il pieno controllo sui propri membri

anche una volta sposati o, nel caso delle donne, trasferitesi nella residenza cui fa capo

un altro patrilignaggio.

Una donna divorziata, anche se non ha diritti sulle risorse del patrilignaggio, può

comunque essere accolta nella casa del fratello e reclamare per suo figlio il diritto di

accesso alle terre finanche il conseguimento del titolo di Ozo.

In riferimento all’organizzazione del patrilignaggio, Henderson (Henderson,1991)

riporta dell’esistenza di due figure di potere, una maschile e una femminile, nel ruolo di

sacerdoti e sacerdotesse. Entrambe queste figure sono Investite del potere degli

antenati grazie all’ofo, il bastone sacro del lignaggio e attengono ai diversi ambiti rituali

che competono loro.

Alla sacerdotessa spettano le pratiche di purificazione di un corpo prima

dell’inumazione o delle case dei membri maschili in caso di tradimento da parte delle

mogli. E’ inoltre suo compito controllare le figlie del lignaggio in qualità di capo. Queste

si riuniscono periodicamente per condividere il cibo a partire dalla persona più anziana,

risolvere eventuali dispute, scegliere canti e danze e discutere di questioni riguardo ai

santuari di villaggio che sono principalmente propiziati dalle donne.

Come per L’Umuada oru, sarebbe gravissimo se una di costoro non assolvesse alle

32

funzioni cerimoniali o se si rifiutasse di pagare la tassa regolarmente dovuta. In caso di

inottemperanze di questo genere, il capo delle figlie potrebbe multarle sequestrando

loro gli utensili da cucina per non restituirli fino a debito saldato.

E’ opinione diffusa presso gli anziani di Onitsha che abilità e responsabilità delle

sacerdotesse non siano equiparabili a quelle dei sacerdoti maschi (Henderson, 1997), i

quali per poter avere accesso a questa carica devono necessariamente aver

conseguito il titolo di Ozo.

Qualcosa di simile all’umunwunyeobu oru è rintracciabile nell’organizzazione delle

mogli del villaggio, che racchiude tutte le mogli di un determinato patrilignaggio a capo

delle quali è la donna maritata da più tempo. Anche in questo caso il gruppo deve

formare le nuove arrivate in merito alla giusta condotta da tenere e funge da deterrente

per i cattivi comportamenti da parte dei mariti nei riguardi delle rispettive consorti.

Il loro ruolo durante le celebrazioni funebri riveste una certa importanza in quanto sono

loro ad essere incaricate della preparazione del banchetto cerimoniale. Inoltre esse

gestiscono un piccolo fondo con il quale acquistare costumi per le danze e per offrire

dei doni a chi riceve un lutto, cosa che potrebbe indicare sia una certa solidarietà tra

affini che una condizione di inferiorità delle mogli nei confronti del patrilignaggio di cui

sono spose.

Come tra gli oru, anche presso gli igbo di Onithsa, se qualcuna dovesse venire meno ai

propri doveri o dovesse essere continuo motivo di destabilizzazione nei riguardi di

decisioni prese in assemblea, sarebbe punita con una multa o cadrebbe vittima

dell’ostracismo da parte degli altri membri.

Un discorso a parte va fatto per l’ikporo (“la città delle mogli/madri”) che raggruppa

nominalmente tutte le donne sposate indipendentemente dal segmento di lignaggio cui

sono legate. A capo di questo gruppo c’è la donna più anziana della città, le cui

decisioni possono tuttavia essere messe in discussione da altri membri anziani.

Intervengono in casi di emergenza come carestie, epidemie o invasioni straniere anche

se a partecipare alle riunioni sono i membri più maturi come le donne in menopausa o

coloro che detengono il titolo di portatrici d’avorio e di madre della Masquerades11.

Henderson riferisce che, negli anni 60, pur avendo perso gran parte dell’influenza sui 11 La società segreta delle Masquerades ha funzioni di controllo sociale ed è preclusa alle donne, a meno che non abbiano

raggiunto la menopausa e non posseggano risorse sufficienti ad accedere al titolo di Madre delle Masquerades

33

mercati in seguito ai processi di occidentalizzazione, il loro capo conservava la

prerogativa di vietare alle donne, sotto pena di una multa, di recarsi al mercato nei

giorni che coincidevano con le festività religiose. Rimaneva intatto inoltre il diritto a

presiedere alle controversie che potevano sorgere nei mercati minori.

Altro ruolo importante riguarda la propiziazione dei santuari in zone d’acqua o in

prossimità dei mercati più importanti. Tali santuari erano ritenuti tenere lontani i pericoli

di malattie, invasioni e quant’altro poteva giungere dall’esterno.

Sebbene la donna in carica fosse in grado di eseguire le oblazioni necessarie ai rituali

di comunione con gli antenati, questo privilegio non le era accordato; quando si trattava

di pregare per la città dovevano essere assistite dai membri appartenenti alla classe

d’età degli uomini maturi. Costoro erano chiamati dalla donna “i miei figli” e loro si

rivolgevano a lei nei termini di “nostra madre” ( Henderson 1991).

Le donne a loro volta erano considerate figlie dei santuari di loro pertinenza che,

generalmente, si trovavano presso fonti acquatiche di ogni genere e il cui elemento

liquido era ritenuto spegnere “i fuochi delle difficoltà”.

Poteva capitare a volte che lo spirito di un luogo sacro apparisse in sogno ad una delle

mogli/madri per avvertire della necessità di un rito purificatore.

Le dimensioni del gruppo, che includeva tutte le donne sposate degli igbo di Onitsha,

poteva generare delle scissioni.

Poteva infatti capitare in caso di conflitti tra vari segmenti della società, che i membri

della 2città delle madri” interrompessero le proprie attività perché ognuna sosteneva

parti differenti a seconda dell’eventuale grado di affinità o consanguineità che le legava

alle parti in causa.

Tendenzialmente manifestavano un certo favore per il lignaggio del marito, in quanto i

suoi figli appartenevano a quel segmento, ma se la controparte avesse dovuto

coincidere con il segmento paterno, allora costei avrebbe forse tenuto segretamente le

parti del proprio patrilignaggio.

In ogni caso, eventuali periodi di inattività possono essere indice di ostilità, più o meno

estese.

Quanto esposto finora, riflette il conflitto e la tensione delle tradizioni Onitsha che

esprimono le posizioni contraddittorie delle donne di potere in un contesto sociale e

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culturale sostanzialmente patriarcale.

Anche se le donne sono state in grado di realizzare la loro libertà di azione e l'accesso

alle risorse economiche, è chiara la matrice restrittiva di divieti culturali intesi a limitare

questi poteri. Già ai tempi in cui scriveva Henderson (Henderson 1991), il ruolo delle

donne nei mercati era particolarmente compromesso.

Gran parte dei santuari è stata messa a repentaglio dall’azione di gente non igbo, e il

fatto che le donne continuassero a premere affinché il ruolo dell’omu fosse reintrodotto

non fa che sottolineare la loro consapevolezza in merito all’esigenza di avere un

referente politicamente forte che le aiuti a rivendicare le loro sfere di azione.

3. Il controllo nei mercati cittadini: market-queen e associazioni di commerciantiIn molte zone dell’Africa occidentale, in epoca precoloniale, la gestione di gran parte

delle attività mercantili era prerogativa femminile.

Tra gli igbo di Onitsha le attività commerciali erano considerate poco virili e le donne si

occupavano anche di gestire i rapporti con mercanti che giungevano dall’esterno.

Costoro erano scoraggiati dal vendere i loro prodotti in prima persona; la cosa più

opportuna era che commercianti femminili acquistassero da loro per poi rivenderli al

mercato principale. Gli igbo dell’interno potevano però, dietro pagamento di una tassa

al re, ai capi e al capo donna del mercato, vendere le proprie merci direttamente.

Il capo della città delle madri eseguiva periodici rituali purificatori per i mercati oltre a

risolvere le controversie che sorgevano al suo interno. Inoltre, gran parte dei santuari

che ricadevano sotto la sfera femminile erano ubicati in zone d’acqua o nelle vicinanze

di un mercato (Henderson,1991).

I processi di occidentalizzazione degli scambi economici hanno ridotto notevolmente

l’influenza delle donne nelle transazioni commerciali, ma esistono ancora oggi, seppur

con poteri limitati, importanti figure femminili nell’organizzazione di molti mercati

cittadini.

In qualche caso queste figure hanno assunto il titolo di Market Queens, cosa che

riveste una certa importanza in un contesto matrilineare come quello ashante.

Gli ashante appartengono al gruppo degli akan, un composito insieme di popolazioni

perlopiù caratterizzate da un sistema di discendenza matrilineare e diffuso in tutto il

35

sud del Ghana e in Costa d’ Avorio.

Kumasi è la capitale amministrativa della regione Ashanti e corrisponde grosso modo al

territorio occupato dagli ashante in epoca precoloniale.

L’organizzazione politica tradizionale è basata sulla chieftaincy, a capo della quale ci

sono l’ashantehemma (ahemaa degli ashante) e l’ashantehene, (ohene degli ashante)

rispettivamente tradotti come king e queen mother. Questo modello è replicato per ogni

città o villaggio e, in ogni caso,i capi, gli ohene e le ahemaa devono essere

costantemente in contatto con il consiglio degli anziani, il mpanyinfuo (J.Stoeltjes,

1997).

Garcia Clark (Clark, 1997) riferisce della presenza di donne con ruoli di potere

all’interno dei mercati dell’area a cominciare dal XX secolo.

Costoro detenevano e detengono il titolo onorifico di ͻhema (sing. di ahemaa)

nonostante non godano di alcun riconoscimento né a livello amministrativo né sul piano

dell’organizzazione politica tradizionale.

Nel 1979, l’ashantehemma collaborò con i tentativi del governo di delegittimare le

leader di mercato sottolineando che queste non avevano alcun diritto di assumere il

titolo di ahemaa, tradizionalmente ereditato all’interno dei lignaggi reali. Si spinse oltre

dichiarando ironicamente che sarebbe stato meglio chiamarle "capi-tribù”,

sottintendendo che, avendo assunto competenze che prima della conquista coloniale

erano di appannaggio maschile, in qualche modo avevano cambiato la loro identità

sessuale (Clark, 1997).

Pur non godendo di alcun riconoscimento, esse hanno giocato un ruolo chiave nei

processi economici, soprattutto durante i periodi crisi.

Tanto per fare un esempio, quando nel 1979 il governo nazionale dichiarò che, nel giro

di un mese e mezzo circa, il sistema di valuta sarebbe stato rinnovato con un cambio di

dieci a sette, le leader dei vari gruppi si preoccuparono di condurre campagne

informative e di discussione fino a giungere alla decisione di chiudere alcuni cantieri di

vendita all’ingrosso per minimizzare le perdite che sarebbero seguite allo svantaggioso

cambiamento (Clark, 1997).

Per ogni tipologia di bene esistono dei gruppi (anche se non era scontata

l’appartenenza agli stessi per il semplice fatto di condividere la tipologia di merce

36

messa in vendita), ognuno dei quali elegge la propria ͻhema che prende il nome dal

prodotto in questione.

Il nome di un’ͻhema tradizionale è preceduto da quello della città o villaggio cui fa

capo; così la responsabile del gruppo del bayere (yam) si chiama bayere-hemma

(Clark, 1997).

All’interno del proprio gruppo di pertinenza, ogni ͻhema agisce per suo conto e,

qualora il caso lo richieda, consultandosi con il mpanyinfuo (consiglio degli anziani), ma

quando si rende necessario discutere di questioni più generali, costoro si riuniscono e

decidono collettivamente. Nel mercato di Kumasi la massima autorità tra i leader è il

capo dei commercianti di igname, la bayerehemma, che in occasione di cerimonie o

nelle trattative esterne, guida la delegazione di ahemma e parla per loro.

Ciò sembra riflettere l'importanza economica dei tuberi in questo particolare mercato,

che occupa ancora oggi una posizione centrale per il commercio interregionale nei

prodotti alimentari. La bayerehemma non può prendere una decisione importante

senza consultarsi con le ahemaa di patate dolci, manioca, pomodori, cocoyam, e altri

prodotti di una certa importanza. Se convocate, esse hanno il dovere di rispondere alla

chiamata ufficiale per partecipare alle discussioni di interesse comune.

La principale funzione cui deve rispondere un leader di un gruppo di commercio è la

risoluzione delle controversie che inevitabilmente possono sorgere tra i co-membri. Per

rafforzare la solidarietà e la collaborazione tra le venditrici occorre che si crei fiducia e

questo è possibile solo nel caso in cui le loro postazioni siano vicine. La loro prossimità

rende possibile lo scambio di informazioni e di mutua assistenza, come nel caso in cui

una di loro debba allontanarsi momentaneamente. La copresenza nel medesimo

spazio facilita la ricomposizione delle liti da parte degli anziani che assumono

un’importante e non ufficiale ruolo di mediazione.

La mutua assistenza, la possibilità di accedere a forme di credito e la veloce

risoluzione di eventuali controversie rendono appetibile la partecipazione a queste

“associazioni”, ma non per tutte è possibile accedervi.

Uno dei doveri fondamentali dei membri risiede infatti nel partecipare ai funerali delle

proprie compagne e inoltre esse devono essere presenti alle riunioni. Tutto ciò

comporterebbe un eccessivo dispendio di tempo e denaro per coloro che vivono a

37

distanze non gestibili. Tali gruppi sono perlopiù caratterizzati dal medesimo sesso e

dalla medesima appartenenza etnica.

Questa omogeneità etnica e di genere porta a un accordo generale sulle caratteristiche

dei leader e facilita la condivisione delle occorrenze cerimoniali (Clark, 1997).

L’elezione di un’ͻhema, a differenza di quanto avviene a livello di chieftaincy, non ha

nulla a che vedere con l’ereditarietà, e coinvolge tutte le commercianti associate.

I criteri per la selezione sono più orientativi che vincolanti. Questi riguardano il

temperamento, l’esperienza, l’età, le condizioni economiche, la proprietà di linguaggio

e le abilità diplomatiche.

La candidata ideale deve essere una persona che si è mostrata paziente e di

temperamento pacifico. Questi tratti, così come le capacità di fungere da pacieri

possono emergere nelle pratiche quotidiane designando una preliminare rosa di

probabili favorite.

Un altro elemento da non sottovalutare è la capacità di esprimersi con un vocabolario

articolato e in modo incisivo, sia per incrementare il prestigio del gruppo, che per avere

maggiori probabilità di successo nelle negoziazioni con l’esterno. In linea di massima si

ritiene che la candidata ideale debba avere accumulato sufficiente anzianità di servizio

all’interno del mercato, ma nello stesso tempo non debba essere eccessivamente

anziana, in modo da poter assicurare una stabilità prolungata al gruppo.

D’altro lato un’ ͻhema troppo giovane oltre che inesperta potrebbe risultare troppo

occupata nella cura dei suoi figli per poter assolvere ai suoi molteplici doveri.

Il ruolo di leader comporta un notevole dispendio di tempo e non prevede introiti di

nessun genere se non in termini di prestigio. Per questo motivo si crede che una

discreta ricchezza rispetto agli altri membri sia un requisito importante.

Un eccessivo benessere però potrebbe comportare il disinteresse nei confronti delle

questioni di gruppo per mancanza di tempo o peggio di volontà.

Anche le relazioni con l’esterno possono essere d’aiuto in quanto per gruppi

particolarmente forti e grandi può essere opportuno godere del favore e della

protezione di ambienti politicamente influenti.

Si è accennato a come, presso gli igbo di Onitsha, il capo della “città delle madri”

svolga dei rituali di purificazione dei mercati cittadini.

38

Nulla di tutto ciò compete alle ahemaa, il cui ambito di azione riguarda più che altro

l’apparato cerimoniale in qualità di partecipante. In ossequio alla coesione tra i membri

di un medesimo gruppo, la partecipazione collettiva al funerale di uno dei suoi membri

è un fattore di cruciale importanza, così come l’assistenza reciproca in caso di malattia

o di feste. Dovere di una leader è quello di partecipare alle esequie delle proprie

associate e dei loro parenti più stretti come a quelle delle altre ahemaa e dei loro

familiari più prossimi.

In qualità di rappresentante deve partecipare anche alle occasioni pubbliche in cui si

ricevono ospiti importanti e rendere omaggio all’ashanthema e all’ashanthene in

occasione di festività ritenute importanti.

Quest’assenza di un corpus rituale formalizzato si può forse spiegare con il carattere

non tradizionale del suo ruolo. Ogni cosa risponde a funzioni immediate ed esplicite,

prima tra tutte la difesa e la rappresentanza del gruppo ed il proseguire del flusso dei

commerci.

In caso di liti o dissapori non c’è modo di fare appello alla rabbia degli antenati e la

cosa non avrebbe alcun senso. L’unica cosa sulla quale essa può fare conto è la buona

volontà da parte delle contendenti nel risolvere i loro dissapori nel modo più rapido e

indolore possibile. Essere partecipi di questa volontà è nell’interesse delle associate

che preferiscono rivolgersi alla loro ͻhema piuttosto che ricorrere ai canali ufficiali, sia

per una questione di tempistica che per mantenere buone relazioni con le proprie

colleghe.

Inoltre, molte convenzioni che non hanno alcuna rilevanza dal punto di vista legale, si

basano sul buon senso. Per esempio, sottrarre un cliente a una compagna fino al

momento in cui questa non ha abbandonato definitivamente la trattazione è

considerato poco opportuno (Clark, 1997).

Le norme fondamentali di buona condotta necessitano quindi dell’intervento di una

persona imparziale e con una profonda conoscenza delle consuetudini di mercato che

le faccia rispettare.

Se un membro ritiene di aver subito un torto da parte di un’altra commerciante, per

prima cosa inizierà a lamentarsi della cosa con una persona anziana e in seguito, in

caso di mancata ricomposizione, si rivolgerà all’autorità del loro capo.

39

Se qualche creditrice dovesse rivolgersi a lei per recuperare quanto gli è dovuto,

nessuna conseguenza graverebbe sulla debitrice, a meno che questa non si rifiuti

ancora di saldare, commettendo una sorta di “oltraggio alla corte” (Clark, 1997).

L’operazione di libero assemblaggio di elementi della tradizione, quali quelli cui si è già

fatto riferimento, con il cooperativismo di stampo occidentale e la tensione ad

incorporare figure di tipo amministrativo, era funzionale ad ottenere legittimità su

entrambi i piani e a rafforzare la coesione interna ed esterna dei gruppi.

Quando i venditori di yam si registrarono come cooperativa, la loro ͻhema divenne

presidente, gli anziani divennero vice-presidente, tesoriere, etc, e il consiglio degli

anziani fu rinominato come comitato esecutivo (Clark, 1997).

Questo status ufficiale è stato inseguito nella speranza di poter ottenere qualche

agevolazione di tipo finanziario e nella speranza di ridurre le ostilità del governo che, a

partire dagli anni 80, aveva mostrato un forte accanimento nei confronti dei gruppi di

commercianti e delle loro leader.

Tale prassi solo raramente diede qualche risultato e le politiche persecutorie (pestaggi,

confische, arresti) ridussero notevolmente l’ambito di azione dei gruppi. L’uhemmafuo

di Kumasi, pur essendo ancora attivo, ha perso gran parte della sua attrattiva e le

funzioni delle leader sono molto limitate.

Gruppi di beni suscettibili di un mercato in espansione, come quello della stoffa, sono

scomparsi sotto i costanti attacchi del governo.

La creatività delle donne dei mercati ha dovuto fare i conti con tutti quei fattori esterni

che, pure in qualche modo, aveva cercato di accattivarsi.

Sebbene a livello tradizionale abbiano incontrato un’aperta opposizione solo nel 1979,

di sicuro non hanno mai goduto dei favori della chieftaincy.

Scorporati da entrambi i modelli cui avevano fatto riferimento, rappresentano

comunque uno straordinario esperimento di auto-regolamentazione e incremento delle

proprie possibilità in un’ottica di gestione democratica di risorse e attività dove

l’interesse del singolo non è nemmeno pensabile se non riferito al benessere degli altri

soci-membri.

Il lavoro di Adesuwa C. Emovon (Emovon, 1997), rende conto di una situazione

formalmente simile tra i mercati dello stato di edo, in Nigeria, ma dagli sviluppi

40

notevolmente differenti.

Anche qui troviamo associazioni di venditrici, una per ogni tipo di bene venduto, con a

capo un leader che svolge varie funzioni. Oltre la risoluzione delle controversie, si

occupano di verificare che nessuno dei membri operi una concorrenza sleale nei

confronti degli altri e fissa i prezzi cui membri son tenuti ad adeguarsi.

In alcuni casi può essere richiesto un tributo periodico che costituirà una base di credito

per finanziare i membri in difficoltà e Il tasso d’interesse è di norma inferiore a quello

degli istituti di credito ufficiali (C. Emlovon, 1997).

Al di là del sostegno finanziario, il gruppo si sostiene in caso di lutto, malattia, o

sventure di qualunque genere. Se qualche socio del mercato muore, la sezione adibita

alla sua associazione è chiusa per l’intera giornata.

Tutti i membri della sezione saranno tenuti a partecipare alla veglia funebre e alla

sepoltura, pena l’applicazione di una penale. Poche settimane dopo la sua morte,

all’interno del mercato hanno luogo rituali di fuoriuscita dell’anima del defunto dal

mercato per evitare che questa continui a vagare al suo interno.

Nel corso degli ultimi anni le donne appartenenti a queste associazioni sono entrate a

far parte di organi di governo ed esercitano una notevole influenza. Spesso sono

invitate a prendere parte a discussioni che riguardano decisioni seriamente importanti e

son tenute in grande considerazione dallo stesso obi.

Un esempio che valga su tutti a riprova della grande influenza da loro esercitata,

riguarda la decisione di non accettare il prestito del fondo monetario internazionale

(Emovon, 1997).

Queste donne sono associate anche al National Council of Women’s Societies12 i cui

membri sono in gran parte esponenti di una élite istruita.

Nel 1986 è stato istituito il Mamser (Mobilisation for Social and Economic

reconstruction for Social Justice)13 allo scopo di coinvolgere la popolazione e di portarla

ad interessarsi alle questioni che avevano a che vedere con la politica.

Le donne del mercato dello stato di Bendel erano in dialogo costante con la Direzione 12 L’associazione è stata inaugurata in Nigeria nel 1959, con lo scopo di favorire lo sviluppo femminile. Nel 2010 una sua

filiale è stata inaugurata in a Denver, in Colorado e raccoglie donne americane come donne nigeriane. Attualmente entrambe sono registrate come ONG

13 MAMSER era l'acronimo di: “mobilitazione di massa per l'autonomia, la giustizia sociale e la ripresa economica”. La sua creazione fu voluta dall’allora presidente della repubblica Federale di Nigeria Babangida. Attualmente porta il nome di NOA (Agenzia Nazionale di Orientamento) ed ha filiali in ognuna delle 774 aree di governo locali.

41

del Mamser sulle azioni da adottare per mobilitare le donne per la partecipazione

politica.

Seminari e workshop sono stati organizzati per gruppi di donne per l’accrescimento

della loro consapevolezza sociale e politica.

Il numero di donne che sono andate a votare o che hanno votato per loro nelle elezioni

amministrative del 1990, è una testimonianza per le attività delle associazioni delle

donne in Bendel (Clark, 1997).

Perché le associazioni di mercato femminili che nel Bendel godono di tanta popolarità

hanno riscontrato invece una così profonda ostilità nella regione Ashanti? Forse le

ragioni del fallimento sono da ricercarsi nella mancata capacità di dialogare con le

realtà politiche che in vario modo potevano rafforzare la loro posizione attraverso

mutue collaborazioni e percorsi condivisi di rafforzamento della condizione femminile,

anche attraverso una presa di coscienza politica che non fosse primariamente diretta a

un immediato ritorno economico.

Inoltre la forza delle donne di Benin city è stata quella di agire in gruppo per l’interesse

di tutta la collettività, aprendosi così dei canali che hanno loro consentito di accedere a

cariche influenti.

I gruppi di Kumasi agivano per interposta persona tramite le loro ahemaa, cosa tra

l’altro abbastanza comprensibile considerato il contesto matriarcale di appartenenza.

Se da un lato quindi c’è stata l’incapacità reciproca tra governi e gruppi di commercio

nel dialogare tra loro, dall’altro si è avuta la totale mancanza di appoggio e

probabilmente anche una forma di invidia da parte di altri influenti strati della società.

Capitolo IIPotere politico e ricerca di autonomia

1) Autodeterminazione e acquisizione di autonomia tra le donne edo di Benin City.

In uno studio sulle donne edo di Benin City pubblicato nel 1997 ( Kaplan, 1997), Kaplan

definisce il potere politico come “ La possibilità di prendere decisioni intorno a scarse

risorse, materiali e immateriali, entrambe percepite come reali, che interessano uno o

42

più gruppi nelle arene pubbliche.” (Kaplan, 1997: 248)

I gruppi di mercato delle donne edo (e fino a un determinato momento anche quelli

ashante) del Bendel esercitano, come si è visto, una forte influenza politica, e pur non

essendo riconosciuti né a livello tradizionale né istituzionale, sono rispettati e tenuti in

grande considerazione.

Se a livello associativo l’azione politica, come sopra definita, si fa più esplicita ed è

agita collettivamente, lo studio di Kaplan mostra come nei primi tempi del governo

coloniale britannico, le donne edo di Benin City14, abbiano trovato nei nuovi tribunali

coloniali, spazi di azione pubblica dove rivendicare il proprio diritto

all’autodeterminazione.

Potere politico inteso quindi come espressione del sé in uno spazio pubblico e come

azione tesa a conquistare il diritto all’autodeterminazione.

Anche se il loro ruolo è agito a livello individuale in qualità di testimoni, querelanti o

imputate, l’effetto cumulativo delle loro azioni ha inciso sulla possibilità di scegliere

personalmente il proprio marito ed ha inoltre migliorato le aspettative di qualità di vita

per individui che nella società precoloniale erano considerati poco più che schiavi.

La prospettiva adottata da Kaplan è interessante in quanto, come vedremo, rovescia lo

sguardo sugli effetti del colonialismo, che caratterizza gran parte degli studi di genere

in Africa occidentale.

Benin City è la capitale dell’attuale stato di edo nella Nigeria centro-occidentale. Gli edo

appartengono al gruppo linguistico edoid all’interno della famiglia kwa.

Si hanno fonti certe riguardo alla loro presenza nel territorio dell'ex regno del Benin a

partire dalla fine del XV secolo, ma ipotesi non ancora dimostrate ritengono che i loro

primi insediamenti possano risalire all’XI secolo (Connah’s, 1975).

Il sistema di discendenza patrilineare non comportava la trasmissione ereditaria di titoli,

ad eccezione che per la famiglia reale. Per ciascuno dei 35 egbee (termine che è

riferito sia al gruppo di discendenza più ampio che al segmento di lignaggio cui si

appartiene) sono previsti dei taboo alimentari e dei saluti specifici per il mattino.14 Benin City è una città della Nigeria, capitale dello stato di Edo che fu accorpato al protettorato inglese della Nigeria Del

Sud nel 1897. Il regno di Edo conosciuto anche come regno del Benin conobbe vicende alterne. Al momento dell’arrivo dei primi esploratori portoghesi, all’inizio del XV secolo, il regno era all’apice della sua espansione ed esercitava la sua autorità a vari livelli sui popoli confinanti tra cui gli igbo occidentali e gli yoruba del Nord-est. Nel 1963 il territorio fu separato dalla Nigeria e assunse il nome di Midwest che divenne poi Bendel nel 1976 per essere infine diviso nel 1991 in regno del Benin, e stato di Edo della repubblica Federale della Nigeria.

43

L’organizzazione sociale è basata prevalentemente sulle classi d’età. Raggiunta la

pubertà i ragazzi vengono iniziati al grado Iroghae e svolgono operazioni di pulizia e

manutenzione del villaggio.

Gli uomini intorno ai 25-30 anni entrano a far parte degli ighele ed eseguono quanto

ordinato loro dagli edion (anziani); costoro costituiscono il consiglio giudiziario del

villaggio e sono sotto la guida dell’odionwere, un anziano titolato.

Al vertice dell’organizzazione politica c’era l’oba (re) che, oltre ad essere il teorico

proprietario di tutte le terre, aveva l’ultima parola sulle questioni amministrative,

religiose, commerciali, e giudiziarie. Sua madre, l’iyoba, deteneva un titolo in una delle

società di palazzo ed aveva la sua propria corte vicino a Benin City.

La burocrazia era composta da tre tipologie di capi: i sette uzama , i capi di palazzo, e i

capi villaggio. Costoro costituivano il Consiglio di Stato, che aveva un ruolo importante

nella creazione delle leggi, nella regolazione del ciclo rituale, nell’aumentare le tasse e

nelle questioni militari. I titoli erano concessi dall’oba in persona, che non poteva

revocarli se non in caso di provato tradimento.

Il regno era suddiviso in unità territoriali localizzate che erano tenute a versare tributi ai

capi locali che fungevano da intermediari tra questi e l’oba.

Un altro importante compito dei titolati era quello di raccogliere informazioni e prove

durante una controversia portata all’attenzione dell’oba che era anche l’amministratore

della giustizia. Chiunque poteva ricorrere al consiglio del re di Benin City, ma

generalmente la tendenza era quella di ricomporre le controversie a livello familiare o

locale.

Il principio generale del sistema giudiziario prevedeva che ogni capo di lignaggio,

villaggio o città fosse giudice nelle controversie sorte nella propria giurisdizione. Per i

casi più gravi quali accuse di stregoneria, questioni relative all’eredità o sospetto

tradimento, si ricorreva al consiglio del re a Benin City.

La riforma amministrativa operata dagli inglesi portò alla creazione di un sistema

bipartito tra corte suprema, basata sul diritto britannico, e i native council che agivano

sulla base del diritto tradizionale. Il Benin native council, istituito nel 1908, venne in

seguito chiamato native court e poi ancora rinominato customary court (Kaplan, 1997).

Durante i primi anni di attività il native council era presieduto da un commissario di

44

distretto inglese che assieme al vicepresidente obaseki15 e ad altri cinque capi,

ascoltava e giudicava i casi. La presenza inglese nei tribunali nativi aveva teso a

mitigare le punizioni perpetrate nei confronti delle donne portate a giudizio e si era

spesso schierata dalla loro parte per la questioni che riguardano la richiesta di divorzio.

Questa situazione non durò a lungo, infatti nel 1914 un tentativo di riforma operata da

Sir Frederik Lugard rimosse gli amministratori coloniali dalla presidenza dei concili

locali riducendo la loro influenza nei casi portati all’attenzione della corte nativa. La

costituzione del 1947 istituì un sistema giudiziario dotato di una corte suprema, una

corte d’appello e un’alta corte a livello federale.

Lo stato di edo ha oggi la sua alta corte che coesiste con la corte d’appello tradizionale.

Lo studio di Kaplan è basato sul confronto di due serie di casi portati all’attenzione di

corti native coloniali nel periodo che va dal 1912 al 1916 e in quello che abbraccia gli

anni 1959-1965. Per entrambe le serie, la fonte di riferimento principale è costituta

dagli Archivi del Benin Traditional Council (BTCA).

Kaplan ha preso visione inoltre di fonti d’archivio riguardanti i casi registrati nel 1908 e

quelli registrati nel periodo 1909-1911, ma data l’incompletezza dei dati, non si è

avvalsa di queste ultime fonti a livello statistico.

Durante il primo lasso di tempo, ad andare in giudizio come querelanti erano

soprattutto gli uomini, che denunciavano la fuga delle proprie mogli e ne reclamavano il

ritorno.

Presso gli edo, come in altre società africane, il matrimonio non è una semplice unione

tra due individui, ma un patto che lega due famiglie. I relativi dell’uomo, maschi e

femmine, si rivolgevano alla sua sposa nei termini di “nostra moglie” e anche alla morte

di questo era difficile per lei potersi allontanare dalla nuova famiglia cui apparteneva.

L’importanza del matrimonio per un uomo e per la sua famiglia è legato anche qui alla

capacità riproduttiva della donna e al bisogno di perpetuare il nome del lignaggio, oltre

che alla risorsa che costituisce in sé in quanto forza-lavoro.

Il patto matrimoniale veniva stipulato tra le due famiglie fin dalla primissima infanzia

15 Quando nel 1987 il regno del Benin fu annesso al protettorato della Nigeria del sud l’allora oba Ovonrawen fu esiliato e la carica temporaneamente sospesa. Gli inglesi affidarono l’amministrazione locale ad alcuni capi da loro nominati a comando dei quali posero obaseki. Alla morte dell'oba esiliato, gli inglesi tronizzarono suo figlio, oba Eweka II (1914). Ne risultarono considerevoli tensioni che il nuovo oba tentò di appianare conferendo a obaseki il titolo di iyase (comandante dei capi villaggio) e dandogli in moglie una delle sue figlie.

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della bambina e, a volte, prima ancora che questa venisse al mondo.

Non c’era nessuna possibilità di scegliere il proprio compagno di vita e una volta

maritate erano obbligate a restare con lui.

Il processo acquisizione di una moglie era lungo. Si incominciava con una serie di

regali e servizi prestati alla famiglia della ragazza. Dopo che il prezzo della sposa era

stato pagato, la ragazza avrebbe dovuto essere consegnata all’uomo appena entrata in

età riproduttiva, ma per varie ragioni poteva capitare che i tempi si allungassero.

Tra i servizi richiesti al promesso sposo dalla famiglia della ragazza c’era a volte il

saldo di debiti contratti da quest’ultima. Poteva capitare quindi che una bambina fosse

promessa a due uomini differenti per trarre vantaggi economici dalla tradizionale

consuetudine del prezzo della sposa. Poteva anche darsi di famiglie che tendevano a

consegnare la loro figlia con gran ritardo rispetto alla raggiunta età puberale affinché

l’uomo continuasse a prestare mano d’opera gratuita.

Nei primi anni di attività della corte si hanno varie testimonianze di simili situazioni. Una

volta che il prezzo era stato pagato, la ragazza apparteneva alla famiglia del futuro

sposo che poteva disporne a proprio piacimento, maltrattarla, picchiarla e anche

abbandonarla impunemente. In caso di vedovanza senza prole la donna poteva essere

ereditata dal primogenito del defunto. In caso di impotenza si ricorreva spesso a un

tacito accordo che consentiva alla donna di avere figli da un altro uomo, ma la

questione era in genere trattata con gran discrezione.

Da una buona moglie ci si aspettava (e ci si aspetta) che sia sottomessa al marito, di

carattere docile e non lamentoso.

Una volta abbandonata la famiglia essa avrebbe potuto farvi ritorno solo raramente e

con il consenso del marito poiché questo spostamento avrebbe potuto costituire

l’occasione per fuggire.

In linea di massima il lignaggio di origine non accoglieva di buongrado eventuali

lamentele da parte della figlia, sia perché una separazione avrebbe comportato la

restituzione di quanto ricevuto in pagamento, sia per il disonore che ne sarebbe

inevitabilmente seguito. Rompere il patto matrimoniale era considerato un atto

riprovevole e vergognoso che sarebbe stato di onta per tutta la famiglia.

Un’altra forma di maltrattamento era costituita da un'eccessiva applicazione degli iwu,

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marchi tribali incisi sul corpo di uomini e donne.

La pratica fu resa illegale da oba Azenuka II nel 1940 (Kaplan, 1997), ma ancora oggi

quello del maltrattamento fisico delle mogli è un problema diffuso.

Mogli turbolente e figlie intrattabili potevano anche essere inviate presso l’harem

dell’oba dove sarebbero state rieducate attraverso il duro lavoro e punizioni fisiche.

Per quanto riguarda le mogli reali, le iloy, costoro dovevano essere di buon esempio e

ci si aspettava quindi che il loro comportamento fosse ancora più docile e remissivo.

L’oba può scegliere le proprie future spose a ogni livello sociale, anche tra gli strati più

umili. Generalmente la prima moglie o la sua favorita sarà colei che partorirà l’erede al

trono e verrà titolata come iyoba.

Molte delle mogli dell’oba sono frutto della sua libera scelta, ma alcune tra loro gli sono

state assegnate in dono: o a titolo di pagamento di un debito, o nella speranza di

ricavare da ciò dei benefici o per punire una moglie che aveva fatto adirare il marito. In

qualche caso si ha che la rinunzia a una figlia faccia seguito a un voto espresso alla

sua nascita o alla speranza di una vita migliore per essa. Una volta entrate a far parte

dell’harem, la loro diventava una vita di confino e nessuno, ad esclusione di eventuali

relative al loro seguito in qualità di servitrici, poteva entrare in quello spazio separato.

Se la condizione di mogli reali poteva offrire una possibilità di innalzamento sociale

attraverso il conseguimento del titolo di iyoba, per tutte le altre la condizione generale

non era di molto superiore a quella delle donne comuni, in quanto costrette a vivere in

isolamento e senza la possibilità di vedere la propria madre se non in rare occasioni.

Oltre al titolo riservato alla madre del futuro oba ne esistevano altri che erano simili a

quelli riservati ai capi16, ma le loro funzioni erano segrete e venivano esercitate

all’interno del palazzo dell’harem, in privato piuttosto che in spazi pubblici come era per

gli uomini (Kaplan, 1993).

Una iloy fuggiasca non poteva ricevere cerimonie funebri pubbliche e chiunque avesse

tentato di aiutarla sarebbe stato considerato un nemico dell’oba, gettando grave

disonore sulla propria famiglia.

I dati raccolti da Kaplan mostrano come al momento dell’istituzione dei primi tribunali

coloniali, la fuga delle mogli fosse già una pratica diffusa da tempo e che, soprattutto 16 Tanto per citarne alcuni ricordiamo quello di Eghaevbho nbre corrispondente alla carica maschile di capo villaggio, e

quello di Eghaevbho nbgbe, ossia capo di palazzo.

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nei primi anni di dominazione coloniale, subì una rapida impennata. Non c’è traccia

presso gli edo di gruppi di solidarietà come quelli che abbiamo visto tra gli igbo, né di

classi d’età al femminile che potessero dare sostegno e mostrarsi amichevoli nei

confronti dei propri membri.

In caso di maltrattamento, l’unica alternativa al rassegnarsi era scappare.

Da quanto si evince dalle testimonianze raccolte durante le cause che coinvolgevano le

donne, violenza e abbandono a danno di queste ultime era la regola anziché

l’eccezione.

Gran parte dei casi che coinvolgevano le donne, nel primo periodo preso in

considerazione da Kaplan (1912-1916), faceva riferimento proprio al preteso ritorno

delle mogli in fuga (63% dei casi). A esercitare il diritto di proprietà sulle mogli non

erano solo i mariti, ma anche i loro parenti che reclamavano il possesso della donna,

fuggita dopo il decesso del consorte. Questi casi andavano spesso ad inglobare parte

di quelli per adulterio.

Difficilmente il querelante ricorreva in giudizio per ottenere il risarcimento della dote e

regolarizzare la separazione; sia perché lo status di un uomo era misurato in base al

numero di mogli e figli che esso possedeva, sia perché non erano previste sanzioni per

un uomo che abbandonava la propria donna.

Gli inglesi sovrapposero il significato del prezzo della sposa, a quello occidentale di

dote e stabilirono un prezzo unico, da versarsi in moneta.

In caso di risarcimento di casi precedenti l’immissione della nuova norma, il dovuto

veniva calcolato anche in base ai servizi resi alla famiglia della consorte (Kaplan,

1997).

C’è una duplice accettazione in questa norma. Da un lato gli uomini edo che

intravedono la possibilità di acquisire una sposa in modo più rapido; dall’altro i

funzionari inglesi, che incorporarono nella loro idea di dote anche i regali e i lavori

offerti alla famiglia della futura consorte.

Affinché una separazione fosse legittima occorre che tale dote sia risarcita e in molti

casi il rifiuto, da parte della famiglia dell’uomo, di accettare tale rimborso, era oggetto di

controversia.

Durante i primissimi anni di attività del benin native council, il ruolo dei funzionari interni

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come presidenti era teso a favorire le donne che erano evase da una situazione di

violenza e maltrattamento continue, ma la situazione cambiò dopo la riforma del 1914.

I dati analizzati da Kaplan (Kaplan, 1997) mostrano come nel totale dei casi dei due

periodi presi in considerazione, la percentuale di concessione di divorzi si aggirava

intorno al 50%. Le accuse mosse dagli anziani e dagli esponenti della chiesa

anglicana, secondo i quali l’attività coloniale aveva favorito il decadimento della

moralità a causa della facile concessione di divorzi, non trovano riscontro in queste

percentuali.

Se è vero che il fenomeno delle mogli in fuga subì una rapida impennata con

l’istituzione di questi nuovi strumenti giudiziari, è anche vero che gli stessi uomini

seppero trarre vantaggio dal nuovo stato di cose.

Nel periodo compreso tra il 1912 e il 1916, i querelanti erano soprattutto uomini che

citavano in giudizio altri uomini in quanto il loro diritto alla proprietà era stato leso. Molti

casi riguardavano fughe avvenute anche dieci o dodici anni prima e che avevano dato

seguito alla nascita di figli tra la donna e il nuovo compagno.

L’amministrazione inglese dovette pertanto porre un limite temporale di tre anni

trascorsi tra la fuga e il ricorso in giudizio, ma la regola fu quasi sempre disattesa. La

nuova fisionomia del prezzo della sposa e del risarcimento monetario inoltre rendevano

più immediata e semplice l’acquisizione di nuove spose come si evince dal fatto che,

tra il 1959 e il 1965, la percentuale dei casi in cui si richiedeva il ritorno della moglie

scende al 10%.

Gran parte dei casi riportati da Kaplan fanno riferimento a donne evase dal compound

del marito, che si sono unite ad altri uomini e con loro hanno intrattenuto relazioni

stabili, generando prole, ma si dava anche il caso di mogli che tentavano di

raggiungere stati confinanti alla ricerca di migliori condizioni di vita senza

necessariamente legarsi ad altri compagni.

Questa cosa era spiegata dagli uomini come una frivolezza femminile che le spingeva

a cercare stili di vita mondani in città vicine.

Igbafe (Igbafe, 1979) riporta di come gli abitanti dell’area Ishan si fossero rivolti al

commissario delegato in visita affinché si stabilissero delle sanzioni per gli autisti che

aiutavano le donne a raggiungere Lagos e altre aree limitrofe.

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Il favore accordato alle donne nel riconoscimento della separazione riguarda in realtà

solo i primissimi anni di attività dei tribunali coloniali.

Nel 1920 uno scandalo coinvolse Obaseki e altri capi che facevano parte delle corti

native. Le accuse loro rivolte si basavano sul fatto che spesso le donne alle quali era

stato concesso il divorzio entravano a far parte temporaneamente o in via definitiva nei

loro harem (Kaplan, 1997). Le accuse di abusi di potere assieme alla riforma del 1914

che aveva escluso i commissari britannici dalla presidenza delle corti native aveva reso

più improbabile l’acquisizione di libertà da parte delle mogli in fuga. Nonostante ciò

l’imput iniziale era stato dato e la possibilità di migliorare le proprie condizioni, intravista

all’inizio del secolo, continuava a dare coraggio e spinta alle consorti maltrattate.

I loro tentativi di fuga ripetuti, nonostante le ordinanze della corte, sono segno di una

loro presa di coscienza più forte e di una grande volontà di autodeterminazione a

dispetto delle tradizioni che le volevano come proprietà privata, dei padri prima e dei

mariti poi.

A questo proposito un altro dei dati forniti da Kaplan merita di essere commentato. Tra

il 1912 e il 1916 solo il 13% dei casi che riguardavano le donne, le vedeva come

querelanti, il restante 87% era composto dalla controparte maschile.

Ben diversa appare la situazione tra il 1959 e il 1965, quando la percentuale femminile

di querelanti sale al 35%.

Questi dati ci dicono che le aspettative delle donne nei confronti di una migliore qualità

di vita erano aumentate. Si tratta principalmente di donne che reclamano il divorzio

perché maltrattate o perché il disinteresse del primo marito nei confronti dei loro figli ,

ne aveva causato il decesso.

Il 17,20 % dei casi è rapprsentato da mogli abbandonate dai loro mariti che

reclamavano un aiuto economico per il mantenimento dei propri figli, nonostante

questo genere di richiesta gettasse il disonore sulla donna e sulla sua famiglia.

Questo è un importante segnale di emancipazione, soprattutto considerando il fatto

che, nei casi precedentemente esaminati, non si facaveva minimamente cenno a

questo tipo di richieste.

L’introduzione del prezzo unico da versarsi in moneta e il conseguente risarcimento

monetario in caso di separazione ha trovato una rapida accettazione tra gli uomini edo,

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come dimostra lo scarto percentuale delle richieste di ritorno della moglie nei due lassi

di tempo presi in considerazione da Kaplan (63,3% tra il 1912 e il 1915; 10 % tra il

1959 e il 1965).

Durante la prima fase oggetto della contesa erano le donne mentre nella seconda si

punta più sul risarcimento monetario, che avrebbe agevolato l’acquisto di nuove mogli.

Sull’aumentata fiducia delle donne nei confronti della possibilità di scegliere il proprio

destino ha pesato anche il diffondersi, verso la metà del XX secolo, della famiglia come

unità monogama e il conseguente venir meno del controllo coercitivo esercitato da

parte degli anziani.

Non si ha infatti più traccia di richieste da parte di madri o altri parenti del marito

affinché dopo il decesso di questo la vedova restasse presso di loro.

Per una serie di mutate condizioni era diventato più probabile che la donna andasse a

vivere presso i propri figli in una sua casa qualora ne avesse avuto i mezzi.

Fin dal 1863 il governo inglese aveva tentato di arginare il fenomeno della poligamia

attraverso una serie di ordinanze che non ebbero però alcun effetto nell’immediato. La

prima ordinanza di monogamia in questo senso risale al 1863. Ne fece seguito una

seconda nel 1884 cui seguì la validazione nel 1914.

Nessuna di queste imposizioni ebbe però effetto e le norme furono costantemente

disattese(Kaplan, 1997).

La tendenza verso questa nuova forma di unione fu piuttosto determinata da ragioni di

ordine economico e dalle mutate credenze religiose anche se ancora oggi esistono

forme di unione non ufficialmente riconosciute che continuano comunque ad avere

luogo in una forma di poligamia reinventata.

Si ha infatti che, prima o dopo il matrimonio considerato legittimo, un uomo possa

avere una o più amanti, amiche, giovani mogli alle quali si unirà attraverso il solo rito

tradizionale. I figli nati da queste unioni ricevono sostentamento a seconda delle

possibilità dell’uomo, ma non sono considerati legittimi come legittime non sono le

unioni.

Attualmente il matrimonio è visto principalmente come una scelta dettata da un

sentimento reciproco che unisce due individui, ma si tratta di un’affermazione

applicabile perlopiù a esponenti di una classe medio-agiata, istruita anche all’estero e

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con più opportunità di mobilità.

Ancora si ha il caso di mogli inviate a giovani che stanno completando la loro

formazione lontano dal villaggio di provenienza. I due potrebbero incontrarsi anche solo

un paio di volte prima che la donna raggiunga il futuro compagno.

Pur essendo venuta meno la coercizione da parte dei membri della famiglia dell’uomo

sulla sua sposa, il matrimonio resta un affare di famiglia. Attualmente un matrimonio

legittimo ,oltre l’approvazione delle due famiglie, prevede sia il rituale tradizionale che

quello civile o ecclesiastico. Inoltre il pagamento della dote (e la sua restituzione in

caso di separazione ), resta imprescindibile. Tale restituzione deve avvenire anche in

caso di vedovanza senza prole. Solo a risarcimento avvenuto, la donna potrà

legittimamente unirsi a un nuovo compagno e avere dei figli da quest’ultimo.

Nelle aree urbane si tende oggi a dare lo stesso tipo di educazione ai propri figli e le

donne sono impiegate ad ogni livello, come medici, poliziotte, avvocati etc. Eppure

ancora oggi è possibile per un uomo maltrattare la propria moglie in mezzo alla strada

senza incorrere nella riprovazione sociale.

Per questo motivo le donne dei vicini igbo o yoruba difficilmente accettano di prendere

un uomo edo come consorte e donne edo sono generalmente più propense ad unirsi

con gli uomini delle sopracitate popolazioni.

La mancanza di gruppi di solidarietà dotati di una certa influenza, all’infuori di

associazioni di ordini professionali, ha probabilmente un certo peso nel limitare l’azione

sopraffattrice dei mariti sulle mogli.

Le associazioni riguardano gruppi professionali che condividono interessi e attività

comuni, alcune delle quali si legano alle attività del National Council of Women’s

Societies, fondato nel 1958 in Nigeria per favorire il rafforzamento della componente

femminile della popolazione, come nel caso delle associazioni di commercianti del

Bendel.

Nel 1987 l’allora First Lady della Nigeria, Maryam Babangida, istituì il Better Life

Programme (BLP) rivolto alle donne che vivono nelle aree rurali, al fine di promuovere

piani di sviluppo e miglioramento delle tecniche di produzione e vendita dei prodotti

alimentari. Il piano si è basato sulla messa in condivisione delle esperienze acquisite,

soprattutto per quello che riguardava saperi direttamente connessi alle sfere di attività

52

commerciali, come il saper far di conto. Il sistema di istruzione istituzionale primario è

legato a nozioni considerate inutili ai fini delle attività pratiche e quotidiane e questo

causava un abbandono precoce del percorso di istruzione.

Queste pratiche di insegnamento alternative suscitavano interesse da un lato e

dall’altro fornivano gli strumenti per poter svolgere un’attività commerciale che desse

risultati soddisfacenti.

L’attività di produzione e vendita del cibo nelle aree rurali è stata sempre prerogativa

femminile, in questa come in altre aree. Non stupisce quindi che un programma di

rafforzamento delle attività delle donne in aree rurali si sia concentrata soprattutto su

questo punto.

La crescita economica e l’espandersi delle attività dei gruppi di mercato ha portato ad

una conseguenza importante nel modo comune di vedere le donne: da proprietà

privata del marito e cittadini di seconda classe son passate ad essere viste come

indispensabili produttrici di risorse alimentari per l’intera comunità piuttosto che al solo

livello familiare.

Nel 1991 nasce ad opera di alcune influenti donne del Benin, l’edo State Women

Association (ESWA) che durante le prime fasi di attività si era rivolta al supporto del

lebbrosario di Abudu. Le donne commercianti si sono rivolte a loro per chiedere aiuto

poiché le condizioni in cui si trovavano a lavorare la terra dei mariti e a vendere i loro

prodotti erano di scarso livello e senza prospettiva di sviluppo17.

Non interessa in questa sede ripercorrere le iniziative che, a vario titolo, hanno favorito

lo sviluppo delle attività commerciali delle donne edo. Si vuole piuttosto sottolineare

ancora una volta l’impulso autonomo,verso un miglioramento delle proprie condizioni.

Così come nei primi anni di attività delle corti coloniali, queste avevano colto

l’occasione per vedere legittimati i loro tentativi di conseguire un livello di qualità di vita

decente, negli ultimi 30 anni si sono appoggiate ad associazioni con connessioni

istituzionali per migliorare la propria esistenza.

Se nelle aree urbane l’accesso a livelli più alti di mobilità e istruzione ha portato in molti

casi a concrete realizzazioni personali, nelle aree rurali la condizione femminile soffre

ancora di un elevato grado di incuria e sottomissione da parte delle famiglie.

17 Per saperne di più sulle attività dell ESWA cfr. http://www.edowomen.org/EdoBrochure.pdf

53

La principale attività economico-riproduttiva delle donne in quelle aree è legata appunto

alla coltivazione della terra e alla vendita di beni alimentari ed è quindi naturale che le

spinte associative e di mutua collaborazione si siano mosse in quella direzione.

Se gran parte delle riflessioni nei confronti delle conseguenze dell’azione del

colonialismo sulla condizione di vita delle donne hanno sottolineato il fatto che le

amministrazioni coloniali hanno limitato, se non escluso, la sfera di influenza femminile

a livello politico e rituale, questo caso dimostra come gli amministratori inglesi si siano

mostrati sensibili verso la condizione femminile ed abbiano offerto loro una possibilità

di riscatto.

Appena le donne hanno intravisto la possibilità di vedere legittimate le loro scelte sono

ricorse inizialmente a qualche loro parente maschio prima, individualmente poi, per

cambiare la propria condizione. La loro azione è stata una sfida continua all’autorità:

sia quella detenuta dagli anziani e dai loro mariti, che quella dei tribunali, cui

ignoravano le disposizioni ripetendo costantemente le loro fughe, in caso di insuccesso

giudiziario.

Anche se non si può certo affermare che la condizione femminile delle donne edo sia

oggi prossima all’emancipazione e all’acquisizione di pari diritti con la controparte

maschile, qualcosa in quella direzione si è sicuramente mossa e questo è stato frutto

dell’effetto cumulativo di azioni individuali che hanno saputo muoversi in un campo

tutto sommato favorevole.

La spinta nata all’inizio del XX secolo e l’influenza dei fattori economici e religiosi, uniti

ad un incremento del livello di istruzione e mobilità delle nuove generazioni e alle

attività delle associazioni che agiscono su più fronti nel territorio nigeriano, lascia

sperare in un futuro in cui le donne edo siano sempre più padrone del proprio destino e

delle proprie scelte, a meno che non giungano politiche governative che muovano in

verso opposto ad una tendenza che, iniziata anche prima del colonialismo, trova

sempre più spazio di azione e legittimità.

2) Leadership politica femminile tra i Mende della Sierra LeoneI Mende appartengono alla famiglia linguistica niger-kordofonian e sono penetrati nel

sud della Sierra Leone attraverso una serie di ondate migratorie dalla regione dell’alta

Guinea tra il XII e il XV secolo.

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Il diritto di proprietà allodiale ha dato luogo a una serie di domini indipendenti tra loro e

organizzati sulla base di una struttura gerarchica all’apice della quale stava un capo

supremo, discendente del lignaggio, che per primo occupò il territorio interessato.

I gruppi residenziali, basati sul principio della virilocalità, sono costituiti da un gruppo di

fratelli e dalle loro mogli, retti generalmente dall’uomo più anziano. Spesso accade che,

in momenti successivi, un figlio, con le proprie mogli, dia luogo ad un insediamento

separato del quale sarà a capo.

Un ruolo fondamentale all’interno dell’harem di ogni uomo è svolto dalla sua prima

moglie, che ha il compito di organizzare tutto quanto ruota intorno al gruppo poliginico,

inclusi i rapporti con eventuali clienti esterni e, in passato, la gestione del lavoro degli

schiavi.

Il “capo delle mogli” di un lignaggio al potere potrebbe essere chiamata dal marito a

succedergli anche se non ha diritti di discendenza sul territorio retto dal lignaggio

affine.

Società poligamica basata su un sistema di discendenza patrilineare, quella Mende, è

organizzata sulla divisione sessuale del lavoro e in base all’appartenenza alle società

segrete del Poro per gli uomini e del Sande per le donne.

Durante il periodo di iniziazione, uomini e donne vengono preparati al passaggio all’età

adulta segnato dall’incorporazione vera e propria nelle società.

Per quanto riguarda il Sande, con lo stesso termine ci si riferisce sia all’associazione

vera e propria che allo spirito che protegge le donne e le guida durante il corso della

loro vita pubertà; ogni suo membro viene istruito in merito al retto comportamento che

una donna adulta è tenuta ad osservare sulla base di ideali di armonia, bellezza, amore

e giustizia.

Il Sande è l’essere unite nella propria femminilità, come sorelle che agiscono e si

confrontano liberamente tra loro.

E’ l’appartenenza alla Sande che rende maritabile una donna, lo spirito del Sande

viene evocato e propiziato attraverso una serie di performances dove le maschere

richiamano gli ideali propugnati dalla società ed evocano lo spirito stesso associato

all’elemento acquatico.

La struttura della società segreta è impostata gerarchicamente e al vertice troviamo la

55

figura della sowie, incarnazione massima dei valori di modestia ed equilibrio cui una

donna mende deve aspirare. Ogni sowie detiene il controllo sui saperi segreti

indispensabili al conseguimento della felicità individuale e collettiva ed è in contatto con

gli spiriti degli antenati e con le forze della natura.

Uno dei loro compiti fondamentali consiste inoltre nel proteggere le donne della loro

comunità da abusi di ogni genere. I ranghi successivi corrispondono alla Ligba Wa

(senior) e alle Ligba Wulo (junior). In ogni gruppo c'è una sola Ligba Wa, che svolge

ruoli esecutivi all’interno del Sande, come quello di guida nelle attività artistiche. Il

termine nyaha si riferisce ad un’ iniziata ordinaria. Un proverbio Mende riportato sulla

brochure di una mostra sulle maschere sowei tenutasi nel 2010 al Bayly Museum of

Art, University of Virginia, recita che: Sande nyaha ndopo ii le (una donna sande non è

una bambina)”18 ad indicare che l’appartenenza al Sande assicura la trasformazione di

una bambina in donna prima e in moglie poi.

Le donne hanno esercitato attivamente la loro leadership politica come sowie, capi

famiglia, capi delle mogli e come capi villaggio, giungendo ad avere, sotto la

legittimazione del governo coloniale inglese, sfere di influenza molto ampie, che sono

state oggetto di un dibattito il cui focus riguardava la legittimità, da un punto di vista

tradizionale, dei ruoli di “paramount chief” detenuti da governanti femminili tra la fine

del XIX e ‘inizio del XX secolo.

Poco prima dell’imposizione del governo coloniale, sul finire del XIX secolo, il territorio

Mende era caratterizzato da nove stati, cinque dei quali basati su confini territoriali

(Shebro, Kpa-Mende, Bumphe, Lugbu e Gallinas); quattro definiti dalla fedeltà dovuta a

leader specifici (Makavoray, Nyagua, Mendegla, e Kai Londo). Ognuno di questi stati

era retto da un capo supremo cui ci si riferisce, nella letteratura, con il titolo onorifico di

sovrano ( Abrham, 1978).

Ciascuno di questi stati era suddiviso a sua volta in una serie di territori governati da

figure chiamate ndͻ-maheisia (capi della terra, Sing, ndͻ mahei) ciascuno dei quali

deriva il proprio potere su basi di discendenza o di rappresentanza di discendenti degli

antenati fondatori del lignaggio che detiene il controllo su quel territorio e che è

responsabile nei confronti della popolazione che vi risiede. 18 http://webcache.googleusercontent.com/searchq=cache:f5CaYl2tq4IJ:cti.itc.virginia.edu/~bcr/studentwork/milner/Writing

s/handout.txt

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A. M. S. Lavelie riporta l’emergere di un altro tipo di figura nelle turbolente vicissitudini

che caratterizzarono il XIX secolo, ovvero i kͻ mahei (capi della guerra). La loro

influenza poteva essere molto forte e giungere alla creazione di proto-stati o aree di

influenza con i quali ogni ndͻ mahei era tenuto a fare i conti attraverso una serie di

alleanze.

Pur dovendo fedeltà ad uno dei nove re, ogni capo territoriale vedeva internamente

legittimato il proprio potere, che non era mai imposto semplicemente attraverso l’uso

della forza militare (A. M. S. Lavelie, 1976).

Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) riporta dell’unico caso in cui a governare uno dei nove

stati di cui sopra fu una donna, madame Yoko che, ereditata dal marito la reggenza

sull’alto Bumpe, estese il proprio potere sull’intero stato dello Kpa Mende, con il

riconoscimento, nel 1884, del governo coloniale.

I resoconti locali e inglesi del periodo ce la descrivono come una donna dotata di una

straordinaria grazia e modestia nei modi, ma allo stesso tempo ferma e coraggiosa.

La madre di Yoko apparteneva al lignaggio a capo del Gorama, l’area dalla quale si

diffuse l’espansione degli kpa mende, costola del più ampio gruppo mende mentre suo

padre aveva partecipato come guerriero a quel movimento migratorio (P. Hoffer ,1977).

Come tutte le sue coetanee, fu iniziata alla società Sande raggiunta la pubertà e si

distinse particolarmente tra le sue compagne in special modo per quanto riguardava la

grazia nella danza. Raggiunto lo status di donna maritabile, sposò il figlio della sorella

di suo padre,19 ma si separò da questo in quanto particolarmente geloso e sospettoso.

Strinse un secondo matrimonio con Gbenje, figlio di uno dei guerrieri che avevano

portato avanti l’espansione Kpa- Mende verso Ovest.

Pur non essendo la prima moglie, essa si distinse in modo particolare mostrando le sue

capacità organizzative e il suo profondo senso di responsabilità, guadagnandosi il titolo

di capo delle mogli.

Tra i Mende una donna sposata non perde l’appartenenza al proprio lignaggio

d’origine; Yoko seppe mantenere rapporti molto stretti con i propri consanguinei

ricevendo spesso regali da questi; il più significativo le fu dato da uno dei suoi fratelli

che, fatta benedire una lingua di leone da un anziano musulmano, la consegnò alla 19 Nella società patrilineare Mende la forma di scambio matrimoniale preferenziale, da un punto di vista di ego maschile, è

quella con la cugina incrociata matrilaterale.

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sorella affinché la sua grazia ed intelligenza potessero essere incrementate attraverso

un legame con il potere cosmico racchiuso nel talismano. Alla morte del suo secondo

marito, in accordo con le forme di levirato, scelse e fu scelta da Gbanya, nipote del

defunto, per il suo terzo ed ultimo matrimonio.

Tra il 1860 e il 1870, Gbanya si era distinto come guerriero valoroso nell’area superiore

del fiume Bumpe fino ad essere considerato capo di quella zona, ottenendo anche il

riconoscimento degli ufficiali coloniali di Freetown20 che si avvalsero spesso dei servizi

delle sue truppe.

Nel 1861 in seguito a un incidente diplomatico Gbanya fu fatto prigioniero dal go-

vernatore Rowie e portato nella città di Taimawaro. Madame Yoko intervenne per-

sonalmente facendo appello al governatore per il rilascio del marito implorandone

l’innocenza e assumendosi la responsabilità di organizzare la cattura del vero

colpevole.

In seguito a questa dimostrazione delle sue abilità diplomatiche, Yoko fu incoraggiata

dal marito ad esercitare e valorizzare le proprie capacità politiche. Poco prima della

propria morte (1878), Gbanya stabilì che Yoko gli sarebbe succeduta nella sua carica e

si preoccupò che lo stesso governatore Rowe fosse informato della decisione presa.

Nel 1884 Madame Yoko fu riconosciuta dagli inglesi come regina di Sennehoo. Come

regina, avendo intuito l’entità politica dei cambiamenti che sarebbero sopraggiunti di li a

pochi anni, intrattenne rapporti diplomatici costanti con il governo di Freetown,

rinunciando alle prassi migratorie che avevano caratterizzato le attività dei primi capi

mende.

Carol P. Hoffer (P. Hoffer ,1977) descrive le strategie di alleanza da lei seguite sia nei

confronti della sua popolazione che nei confronti degli inglesi.

Grazie al suo carisma e alla sua femminilità costruì reti di relazioni importanti, ad

esempio intessendo amicizie durature con gli interpreti nativi del Governatore Rowe o

prestando le sue truppe nel momento in cui gli inglesi ne manifestavano il bisogno.

Quando nel 1892 furono stanziate truppe di frontiera al di là dei confini della colonia, si

preoccupò di assicurare alle truppe di stanza a Senehun ogni confort necessario a 20 La prima compagnia di commercio inglese in Sierra Leone risale al 1663; nel 1787 vennero fondati i primi insediamenti

di Freetown, destinati ad accogliere gli schiavi liberati dai Britannici in seguito ad un trattato tra questi e i capi locali. Durante la seconda metà del XIX secolo i commerci inglesi subirono gravi perdite a causa di una serie di scontri locali, si giunse quindi, nel 1896, all’imposizione della Pax britannica e all’istituzione del protettorato della Sierra Leone.

58

soddisfare i loro bisogni quotidiani, ma le truppe erano perlopiù composte da ex-schiavi

o da giovani che non nutrivano alcun rispetto nei confronti dei capi tradizionali.

Episodi molto frequenti di saccheggio delle città scatenarono il malcontento di molti che

ritenevano che la responsabilità principale era da attribuire a Yoko e che lei stessa

stava depredando Senehun.

Il malcontento si estese nel 1896, con l’imposizione del protettorato e la conseguente

tassa di 5 scellini per nucleo residenziale che ogni capo avrebbe dovuto versare

all’amministrazione inglese. Madam Yoko accettò il pesante carico e dispose che i

sottocapi avrebbero dovuto raccogliere tali tasse.

In molti sostennero che pagare per qualcosa che si possiede di diritto equivale a

essere prossimi alla sua perdita e che il tradizionale rispetto dovuto loro era ormai

riservato alle truppe.

La situazione si aggravò ulteriormente con la requisizione da parte inglese di forza

lavoro locale che fu impiegata nella costruzione dei nuovi centri amministrativi; le

accuse si facevano sempre più pesanti, si parlava di Yoko come di una bambina

irresponsabile che né la sua famiglia nè la Sande avevano educato correttamente. Nel

frattempo la società Poro stava preparando la violenta rivolta delle tasse che esplose

nel 1898 e durante la quale madame Yoko rimase leale ai suoi alleati britannici, cosa

che le consentì di resistere ad attacchi rivolti anche contro di lei. Molti ragazzi e

ragazze catturati come prigionieri le furono affidati e, sedata la rivolta, ricevette una

medaglia d’argento come riconoscimento per la fedeltà dimostrata alla regina Vittoria.

In questa occasione fu nominata, davanti ad altri capi, sovrana suprema dello Kpa

Mende.

La vendetta dei guerrieri Mende non tardò ad arrivare e Senehm venne distrutta.

Il centro amministrativo fu trasferito a Moyaba, dove Yoko portò con sè circa 250

persone e dove insediò un ramo della Sande.

Proclamò che ogni suo sottocapo avrebbe dovuto avere una residenza all’interno del

suo compound, dove si sarebbe dovuto temporaneamente trasferire qualora lei li

avesse chiamati a raccolta e stabilì che l’iniziazione delle ragazze ai Sande di tutta

l’area sarebbe stata sua prerogativa. Questa strategia le consentì di stipulare

numerose alleanze in quanto le famiglie delle ragazze iniziate consideravano le loro

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figlie come proprietà di Madame Yoko, intravedendo la possibilità che queste avrebbero

potuto essere scelte come spose di uomini importanti.

Mentre un capo di sesso maschile stipula alleanze contraendo più matrimoni, che sono

comunque limitati al numero di mogli che può permettersi di mantenere, il sistema di

alleanze matrimoniali stretto attraverso la Sande consente una quantità di legami più

ampi che muovono in una doppia direzione: da un lato la famiglia delle ragazze

concesse in moglie, dall’altro personaggi influenti che le ricevono. Yoko non

corrispondeva alcun prezzo della sposa alle famiglie delle ragazze, i loro figli quindi

non le appartenevano.

Pur intrattenendo altre relazioni, ed evitando di sposarsi nuovamente, probabilmente

con il proposito di poter rendere un eventuale figlio suo erede, essa non ebbe mai figli.

Alla sua morte, avvenuta nel 1906 di sua mano21, la sua carica fu ereditata dal fratello

minore, il quale però si ammalò gravemente e morì nel 1917 senza aver avuto la forza

di esercitare un governo forte e stabile.

Una serie di disgrazie aveva colpito i fratelli di Yoko e non era rimasto più nessuno per

assumere la sua carica. Nel 1919 lo kpa-mende fu frammentato quindi in 14 unità

autonome e non ci fu più nessuno che potesse onorare la memoria della regina.

Carol P. Hoffer (Hoffer,1977)conclude affermando che le donne mende non erano

semplici strumenti passivi in una società patriarcale, avevano esercitato forme di potere

ad alti livelli e, nel 1914, il 15% dei domini erano governati da capi femminili.

Contesta quindi gli approcci di coloro i quali sostenevano che solo con l’intervento

coloniale le donne avevano potuto accedere a tali cariche in quanto appoggiate perché

ritenute più manipolabili.

La sua affermazione è diretta ad Abraham, l’autore di “Mende Government and Politics

Under Colonial Rule” (1978), nel quale affermava che la chieftaincy femminile era stata

un prodotto del colonialismo, sostenendo che prima di allora nessuna donna aveva

detenuto alte cariche di potere in quanto tradizionalmente questo era stato acquisito

attraverso la pratica della guerra, dominio del mondo maschile. Egli definisce Madame

Yoko come una marionetta del governo inglese e afferma che non avesse goduto della 21 Madame Yoko era in conflitto con il capo del regno di Kakua per questioni territoriali. Si trattava di stabilire a quale dei

due territori dovesse appartenere la città natale della regina. Il giorno della disputa il suo delegato si presentò in ritardo davanti alla commissione di distretto e madame Yoko perse lacausa. Pare che la vergogna per questa sconfitta abbia fiaccato definitivamente la volontà della regina che, in un gesto di estrema risoluzione, si tolse la vita

60

legittimità popolare.

Laddove P. Hoffer sostiene che ben prima del governo coloniale le donne Mende

abbiano legittimamente esercitato il potere in qualità di Capi delle mogli, capi-lignaggio,

capi delle società segrete e sovrane di territori più o meno estesi, Abraham ribatte che

il ruolo di Paramount chief era stato prerogativa degli uomini e che solo nel caso di

Madame Yoko, un prodotto delle politiche del governatore Rowe, si era avuto che una

donna avesse detenuto la carica su uno dei nove stati cui si è accennato sopra.

I punti chiave del dibattito, come fa notare Lynda R. Day (R. Day, 2007), ruotavano

attorno al ruolo di paramount chief, definizione di origine occidentale e coloniale, e nei

riguardi di una prospettiva di genere sull’esercizio del potere tradizionale.

Nel tentativo di mediare tra le due posizioni, Day riporta le vicende di Nyarroh un'altra

figura femminile che aveva saputo stringere le alleanze più adeguate per mantenere la

propria sfera di influenza nel distretto del Barrie, regno del Gallinas, all’apice del

colonialismo.

Le sue fonti, come gran parte di quelle di Hoffer, derivano da resoconti di

amministratori inglesi; perlopiù si tratta di carteggi di corrispondenza e indicano che

essa era già al potere nel momento in cui gli inglesi giunsero nella sua area. Tra le fonti

di Day ci sono anche alcune interviste condotte da Abrahm che esprime nei suoi

confronti le stesse riserve mostrate nei confronti di Madame Yoko, considerandola

debole e manipolabile. Nyarroh era ndͻ Mahei del Barrie district al momento dell’arrivo

degli inglesi nella zona.

Essa aveva ereditato la carica di capo di Bandasuma dal proprio marito e aveva

ricevuto l’incarico di reggere la città di Tunkia dal suo alleato e amante Boakie Gomna,

una figura di rilievo nell’alleanza del Gallinas superiore.

Entrambi dovevano fedeltà a Mendegala il re dell’omonimo territorio sotto la cui

influenza ricadeva Tunkia. Il Barrie district era il risultato dell’unione di Tunkia e

Bandasuma avvenuta all’incirca nel 1885 (R. Day, 2007).

Gli interessi commerciali britannici portarono gli amministratori inglesi di Freetown a

impegnarsi in una serie di sforzi diplomatici per sedare i conflitti che imperversavano

nell’area. Al centro di queste attività diplomatiche si collocano le attività di Nyarroh, che

agì in qualità di mediatrice tra le autorità inglesi e gli altri capi.

61

Il suo ruolo tuttavia non era limitato a questo e i resoconti studiati da Day mostrano

come essa sia stata una ndͻ-mahei a tutti gli effetti.

Sia il suo comportamento che la legittimità della sua carica, la collocano al pari degli

altri capi ed il suo ruolo nell’alleanza si è dimostrato essere centrale.

Essa inoltre, seppur legata a Boakie Gnomna, ha mantenuto autonomia decisionale in

più di un caso ad esempio stipulando una pace separata con uno dei nemici del suo

amante.

La sua azione risulta essere tutt’altro che marginale, infatti il suo nome compare in ogni

iniziativa presa da Gomna e da altri capi suoi sostenitori nei confronti dei suoi rivali22,

sia che si trattasse di negoziati sia in caso di rappresaglie.

Nel 1885, un gruppo di guerrieri comandati da Kobah compì una serie di razzie a

scapito di insediamenti costieri sotto la tutela inglese. Quando nel 1885 un inviato del

governatore Rowe gli chiese un incontro, questi riferì di agire al soldo di sette capi, tra

cui Nyarroh di Bandasuma, e che sarebbe stato opportuno rivolgersi a lei se era

intenzione inglese quella di trovare una mediazione tra i capi del Gallinas superiore e

quelli del basso fiume.

Una visita a Bandasuma di un diplomatico civile, Edmund Peel, nel 1889, pose le basi

per un rapporto che poteva sperarsi amichevole. Stando ai resoconti, Nyarroh mostrò

di condividere l’intenzione di porre fine alle guerre che continuavano a imperversare

nell’area, dichiarando che avrebbe riposto fiducia in loro anche se il parere di Gomna e

dello stesso Mendegala si fossero rivelati contrari.

Fu organizzato, di lì a poco e sotto iniziativa della donna, un incontro tra Rowe e i capi

promotori della guerra in atto, oltre che con i comandanti dei soldati impegnati nelle

operazioni belliche.

L’organizzazione dell’incontro fu condotta in modo esemplare e l’accoglienza riservata

al governatore fu degna di qualsiasi capo mende. L’incontro si protrasse per due

settimane durante le quali Nyarroh mantenne costantemente informati i suoi sottocapi,

Gomna e Mendegala, intorno a quanto stava avvenendo.

L’esito risultò positivo agli occhi degli inglesi e lo stesso Gomna accettò di 22 Nel 1885 nell’ alto Gallinas, c’erano due importanti fazioni in lotta per il controllo del Massaquoi: una sosteneva Momo

Kaikai, l’altra, cui apparteneva anche Boakie Gomna, parteggiava per Jabati. Gomna, che era visto come il naturale successore di Jabati in caso di una sua vittoria, fu accusato di aver complottato per l’ assassinio del principe Jaiah. Uno dei suoi nemici più accaniti era Fawundu, legato a Momo Kaik

62

accompagnare il governatore sulla costa per sigillare la pace; fu firmato un trattato noto

come accordo di Lavannah dove, tra le altre cose, si stabilì che Bandasuma era e

sarebbe rimasta un'area neutrale ed estranea ad ogni intervento armato, cosa che rese

il ruolo di Nyarroh nell’alleanza qualcosa di assolutamente unico

Ci furono altri incontri importanti nel 1886 quando Peel incontrò Mendegala; nel 1889

con l’incontro tra Mendegale e un commissario di Rowe che portò alla ratificazione di

un trattato, cosa che Mendegala non aveva accettato di fare nel 1885; nel 1893 con

l’organizzazione di un meeting che vide coinvolti all’incirca duecento capi che si

incontrarono con l’allora governatore dell’Africa occidentale, Fleming.

Questa neutralità però non era legata alla sola presenza inglese, in più casi infatti i capi

del Gallinas si erano incontrati nel territorio di Nyarroh per risolvere le loro controversie.

Si è già riferito di come i capi non partecipassero direttamente ai conflitti ma che

ricorressero a guerrieri acquistati al soldo con i quali mantenevano alleanze più o meno

instabili.

Nyarroh non fu da meno, aveva i suoi due personali leader di guerra (krobas) ai quali

faceva ricorso ogni volta che la necessità lo richiedeva.

In quegli anni il conflitto, lo spargimento di sangue e le rappresaglie erano prassi

politica e i legami obbligati con i guerrieri, mercenari disposti a vendersi al migliore

offerente, erano sempre inficiati dalla paura del tradimento.

Nel 1885 tale sospetto, tra l’altro giustificato, ricadde su Kobah, il leader guerriero che

aveva suggerito a Festing di cercare una mediazione in Nyarroh e che fu ucciso in

quello stesso anno su ordine del capo di Bandasuma.

Da quel momento in poi Nyarroh agì in funzione della difesa sua e della sua gente,

dalla rappresaglia che sarebbe seguita ad opera degli alleati di Kobah e si rifiutò di

tornare sui suoi passi, sostenendo che così come un traditore era stato ucciso, i suoi

sostenitori avrebbero potuto incorrere nella stessa sorte.

Due anni dopo il temuto avvenne, la città fu distrutta e Nyarroh rapita.

Il carteggio in merito all’azione del governo per il suo rilascio e i cambi di rotta di

Ndawa, il capo dei guerrieri alleati di Kobah, che aveva guidato la rappresaglia è

piuttosto consistente.

Quello che qui interessa è notare come la stessa Nyarroh si rivolse al governatore in

63

persona domandando il suo intervento e facendo esplicito riferimento al fatto che gli

inglesi si erano mossi costantemente nel perseguimento dei propri interessi,

intromettendosi in quelli del Gallinas. Pertanto li invitava a compiere un'opera di bene

nei confronti di un membro di quelle popolazioni che stavano contribuendo ad arricchire

i loro commerci.

Mai nessun capo aveva fatto esplicito riferimento a quanto alta era la posta in gioco nel

coinvolgimento degli inglesi nei loro affari interni; inoltre non è irrilevante la

consapevolezza da parte di Nyarroh di potersi permettere di richiedere l’intervento del

governo coloniale.

Lo stesso Ndawa era ben consapevole dei rapporti che legavano il governo Inglese al

suo ostaggio, infatti nonostante le minacce continuava a trattare con la richiesta di un

riscatto per il suo rilascio.

Si sa che nel 1888 Nyarroh era a Freetown, ma non è chiaro se la sua liberazione

fosse stata una conseguenza dell’assassinio di Ndawa o se il governo inglese avesse

infine deciso di pagare il riscatto. Nel 1889 è di nuovo a Bandasuma e nel 1890 inizia a

ricevere uno stipendio governativo assieme agli altri 12 capi firmatari del trattato di

amicizia firmato con Allerdige in quello stesso anno.

Alla sua morte, avvenuta nel 1914, la carica fu ereditata da sua figlia.

Nyarroh ha agito in tutto e per tutto come avrebbe agito qualsiasi altro capo del suo

tempo cercando le migliori strategie di difesa per sè e per la sua gente.

Il suo, come altri ruoli di potere detenuti dalle donne e dagli uomini capi in seguito

tradotti come paramount chief, erano legittimati dalla tradizione e riconosciuti dalla

popolazione.

La contestazione riguardo alla loro mancata partecipazione ai conflitti ha poco a che

vedere con la legittimità delle cariche poiché le questioni belliche erano affrontate

materialmente da appositi reparti di guerrieri e nessun capo partecipava attivamente ai

conflitti. Essa ha agito tra pari, come soggetto attivo nei mutamenti storico politici in

atto, non ultimo il passaggio alla nascente economia di mercato. Le osservazioni di

Abram contengono però una qualche verità nel momento in cui afferma la

fondamentale differenza tra il potere maschile e quello femminile in un ottica di genere.

La straordinaria posizione di mediazione riservata esclusivamente a Nyarroh e i suoi

64

atteggiamenti nei confronti dell’amministrazione britannica può, entro certi limiti, essere

intesa come una forma di collaborazione e non è da escludere che questo ruolo le

fosse stato attribuito in quanto donna.

Consuetudine voleva che in caso di tensioni e conflitti, fossero inviate mogli o figlie

come messaggere, laddove il presentarsi fisicamente avrebbe potuto costituire un

pericolo o significare debolezza.

Questo sostrato potrebbe aver contribuito a determinare Nyarroh come mediatrice

ideale riconosciuta come tale sia dagli amministratori coloniali che dalla popolazione.

Inoltre tra i patrilineari mende, il rapporto con la propria madre continuava ad essere

investito di una carica emotiva molto forte ed essa continuava ad essere trattata con

rispetto e riverenza dai suoi figli anche una volta che questi avevano raggiunto l’età

adulta.

I capi femminili sono considerati come madri della comunità in senso lato e non va

sottovalutato il fatto che, attraverso la Sande, le donne a capo dell’associazione erano

responsabili del passaggio all’età adulta delle ragazze eleggendole a possibili mogli.

In un momento di crisi e cambiamenti economici e politici, il potere femminile ha trovato

spazi di azione creativa che, pur uscendo fuori dai consueti canoni comportamentali,

trovavano la propria legittimità nella tensione alla difesa della propria popolazione dei

capi alleati e, non ultimo, del mantenimento e riconoscimento del proprio potere.

Per concludere, se è vero che i ruoli di potere maschile e femminile possono prevedere

modalità di gestione diverse determinate dal genere, questo non autorizza a pensare

che i ruoli femminili siano stati un’invenzione del governo coloniale e che non abbiano

una loro propria legittimità tradizionale.

3 Regno del Kongo: le sfere d’influenza delle élite femminiliIn un articolo del 2006 John K. Thornton, uno storico del regno del Kongo23, ripercorre

gli eventi salienti dell’area tentando di individuare in che modo le donne dell’élite reale

hanno esercitato la propria influenza. Egli si preoccupa di sottolineare come

inizialmente queste concorressero a tirare i fili da dietro le quinte, favorendo di volta in

volta parenti a loro prossimi nella successione al trono e mostra come abbiano 23 Il Regno del Kongo comprendeva le regioni oggi situate fra lo Zaire e l’Angola. Fu fondato nel XIV secolo, ma una serie

di conflitti interni incrementò le spinte disgregatrici fino alla sua disgregazione, nel XVII secolo, in numerosi domini.

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acquisito sempre più potere arrivando ad esercitarlo in maniera aperta ed esplicita. Il

regno si configurava come una struttura centralizzata le cui unità fondamentali di

villaggio erano riunite in province (wene). Ogni wene aveva il suo capoluogo (mbanza),

retto da un governatore (mwene) eletto dal re, la cui carica veniva riassegnata ogni tre

anni. Alcune province, come Mbata, erano tradizionalmente assegnate a membri della

famiglia reale. La successione non era determinata unicamente dal grado di

consanguineità, infatti la scelta del nuovo re era determinata da un’assemblea di

funzionari tra i quali gli mwene delle province più importanti. Tale impostazione limitava

la funzione del lignaggio nel determinare il futuro regnante. Il ruolo fondamentale in

questo senso era svolto dai mkanda (sing. kanda) che nella traduzione assegnata dai

portoghesi indica il clan o la gerarchia. Con questo termine oggi si intendono delle

fazioni che originatesi all’ interno dei singoli lignaggi, incorporavano sostenitori

attraverso l’acquisizione di schiavi o altre forme di clientelismo. I gruppi di alleanza

potevano essere più o meno labili. Questi si costituivano indipendentemente dal grado

di consanguineità o di divario generazionale ed entravano in conflitto a ogni nuova

successione dinastica.

Secondo quanto riferito da Thornton (Thornton, 2006), per un lungo periodo di tempo le

donne legate a vario titolo alla corte, esercitarono la loro influenza in modo più o meno

indiretto attraverso i loro figli, fratelli e mariti. Da un punto di vista di genere può

risultare interessante ripercorrere queste fasi per esplorare un’ altra delle forme

attraverso le quali queste donne hanno espresso il loro potere politico, influenzando in

un modo o in un altro la vita delle comunità di appartenenza.

In questo caso non si tratta di regine in senso stretto come si è visto per la Sierra

Leone. Non è in causa neanche la crescente capacità di autodeterminazione da parte

di donne comuni come è stato nel caso della fuga delle mogli. Si tratta qui di

intravedere, negli interstizi delle lotte per le successioni dinastiche, l’emergere di figure

influenti le quali, sia che operassero nell’ombra sia che agissero in modo più scoperto e

dichiarato, hanno avuto o avrebbero potuto avere un ruolo determinante nella scrittura

della storia del regno del Kongo.

Le vicende del regno sono state caratterizzate dall’incontro determinante con i

portoghesi e con la loro opera di evangelizzazione. Il primo contatto risale al XV secolo

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quando, tra il 1482 e il 1483, l’esploratore portoghese Diogo Cão rapì alcuni membri

della nobiltà del regno, portandoli in Portogallo e riconducendoli indietro due anni dopo.

Nel 1491, l’allora re Nzinga a Nkuwu e molti altri nobili decisero di convertirsi al

cattolicesimo.24 In questo periodo le mogli dell’harem del re, sapendo che la loro

posizione sarebbe stata compromessa dal dettame cattolico della monogamia, presero

contatto con le mogli dei più importanti nobili affinché questi dissuadessero il re dal suo

proposito. L’iniziativa non ebbe successo e il re cambiò il proprio nome in João I in

onore al re portoghese dell’epoca João II.

La moglie scelta per restare accanto al re, Leonor, chiese di ricevere il sacramento del

battesimo ed agì da buona cattolica agli occhi del clero portoghese. Potendo gestire le

risorse economiche e alimentari della città, si mostrò magnanima nel patrocinare la

chiesa. Leonor era la cugina di primo grado del re; Thornton (Thornton, 2006) descrive

questa forma matrimoniale come una prassi dovuta al sistema di alleanze dei mkanda

sottolineando come di fatto, lo stretto legame di consanguineità nelle alleanze

matrimoniali, avesse rafforzato il ruolo delle donne collocandole in posizioni strategiche

rispetto alla scelta dei possibili contendenti al trono. Egli cita inoltre, più di un caso nel

quale la moglie del re era anche una delle figlie di un precedente sovrano, cosa che

deve avere conferito loro una certa sfera di influenza all’interno del proprio kanda. A

Giovanni I (morto intorno al 1509) succedette suo figlio Mvemba a Nzinga, che prese il

nome di Afonso I. Alla successione tentò di opporsi inutilmente un suo fratellastro.

Afonso I spiegò di aver avuto un presagio di vittoria in cui gli erano apparsi San

Giovanni e la Vergine Maria25 Tuttavia stando a quanto riferito da Thornton (Thornton,

2006),fù la madre di Afonso a spingerlo contro il fratellastro, fornendogli preziosi

consigli per conseguire la vittoria.

L’allora imperatore del Portogallo, João III, si riferì a Leonor come figlia e madre di un

re sottolineando il fatto che essa deteneva tradizionalmente, il potere su tutto il Kongo.

Nel 1513 Afonso I, dovendo assentarsi, affidò l’amministrazione e il controllo della

capitale a un portoghese di nome Lopez. L’improvviso divampare di una rivolta di

schiavi dà l’idea dell’influenza delle donne dell’élite reale. Infatti sedati i disordini e

arrestati i sovversivi Lopez intendeva limitarsi a punirli, ma dovette cedere davanti alla 24 http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno 25 http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Amministrazione_del_regno

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volontà della prima moglie di Afonso,(il cui nome ci è ignoto) che impose sugli schiavi

un destino di morte.

In questa fase di contatto con gli europei il commercio degli schiavi subì un’impennata

tale che lo stesso re dovette rivolgersi all’ imperatore del Portogallo, affinché esortasse

i suoi sudditi in Kongo a limitare il fenomeno.

La seconda moglie di Afonso, Catarina, fu ritenuta essere una donna timorata di Dio e

venne nominata istruttrice in una scuola femminile.

A causa del loro legame molto stretto ( tre gradi di consanguineità) Afonso dovette

ottenere una bolla papale affinché la loro unione fosse riconosciuta dalla chiesa. Alla

sua morte si crearono due fazioni opposte che videro coinvolti i governatori di

importanti province e membri del consiglio. Nella contesa entrarono in gioco anche gli

interessi del clero, che aveva acquisito potere politico durante il regno di Afonso

A contendersi la carica erano il figlio di Afonso (probabilmente avuto dalla sua prima

moglie) che fu incoronato come Pedro I nel 1542, e Nkumbi a Mpudi che lo detronizzò

nel 1545 prendendo in nome di Diogo I.

Pedro fuggì in esilio a Mbanza Kongo ed ordì una cospirazione assieme ai suoi

sostenitori e a un suo cugino di nome Rodrigo. Da un carteggio tra i due sappiamo che

Diogo aveva fatto arrestare Catarina, (sorella o cugina di Pedro) assieme alla sorella di

Rodrigo. Il titolo di manyluqueyne, riservato a Catarina,potrebbe indicare che lei sia

stata in quel tempo, la più anziana discendente di una persona chiamata Lukeny,

probabile fondatore o fondatrice del regno. Questo non fa che aumentare il sospetto

che, vista la sua importanza, costei avrebbe potuto costituire un serio pericolo per

Diogo il quale, venuto a conoscenza di un complotto, aveva deciso di imprigionare

nemici potenzialmente temibili.

Catarina doveva essere a capo del kanda Kilukeni al quale entrambi i contendenti

appartenevano. Da questa contesa nacquero le fazioni di Kibala, cui faceva capo

Pedro e una di cui non ci è giunto il nome che sosteneva Diogo. Nonostante vari

complotti e qualche perdita, quest’ultimo mantenne il controllo del territorio fino alla sua

morte (1561).

Dopo una serie di regni di breve durata fu eletto re, Άlvaro I (1568) che sua madre

Izabelle, (figlia di Afonso I), aveva avuto da una sua precedente unione, ma che era

68

ugualmente stato riconosciuto dall’ allora re Henrique I(figlio di Diogo).

L’ attuale regnante era quindi esterno al kanda degli ultimi due. Izabelle come già prima

di lei Leonor era figlia e madre di re, e la sua capacità di persuasione doveva essere

molto grande altrimenti sarebbe stato difficile fare accettare come nuovo sovrano un

figlio nato da un unione precedente. Essa era cugina in primo grado con Henrique ed

aveva legami di parentela con molti esponenti del consiglio non le fu quindi così difficile

fare eleggere suo figlio. Alla morte di questo però, i discendenti diretti di Diogo

entrarono nella contesa e Alvaro II (1587), discendente dal deceduto reggente dovette

stipulare una serie di alleanze con numerosi aristocratici a scapito dei propri parenti.

Oltre le alleanze matrimoniali si servì del conferimento del titolo di mwene (da allora

modificato in conte, duca, marchese) rendendolo permanente.

Due dei beneficiari di questa politica avrebbero giocato un ruolo determinante nei futuri

giochi di potere; si tratta di Manuel, nominato Conte di Soyo (a partire dal 1591) e

António da Silva, eletto Duca di Mbamba.

Nel frattempo, la figlia di Alvaro, al fine di legare le donne reali alla chiesa, si adoperava

per l’apertura dell’ordine delle suore Carmelitane E’ il terzo esempio di donna che tenta

di esercitare la propria influenza attraverso il clero, ma probabilmente si era spinta

troppo oltre, infatti la sua proposta non venne accolta.

Il potere di Da Silva era intanto cresciuto al punto che, nel 1614 poté permettersi di

essere lui a nominare Alvaro III come nuovo regnante. Dopo circa due anni, Da Silva

ordì una rivolta e anche Alvaro III fu costretto a stringere alleanze e elargire titoli

importanti, come quello di Governatore di Nsundi, assegnato a Manuel Jorda˜o e quello

di duca di Mbamba concesso a Pedro Nkanga a Mvika.

Alvaro dovette far fronte a molti nemici e non potendo contare sull’aiuto di uomini adulti

tra i suoi parenti, ricorse alle alleanze femminili inviando ad esempio,sua madre, sorella

del Duca di Nsundi, a trattare con lui.

Alla morte di questo, nel 1622, il duca Pedro di Mbamba si appellò alla sua parentela

con la terza figlia di Afonso, Non si sa se qualche donna abbia avuto influenza diretta

nell‘elezione di Pedro II, ma si ha notizia certa di almeno quattro potenti donne

all’interno della sua corte, appartenenti a fazioni reali e non. Le conosciamo attraverso

il rapporto di un Prete gesuita che visitò la corte nel 1925, quando a Pedro era

69

succeduto suo figlio Garcia I.

Tra queste c’era la moglie di Pedro II, Luiza. Essa va considerata come la protagonista

principale del kanda emergente di Pedro II,grazie al quale lo stesso, era giunto al

potere

L’altro kanda reale che potrebbe aver favorito l’ascesa di Pedro II era rappresentato da

Leonor Afonso, figlia di Alvaro II e sorella di Alvaro III. Probabilmente si trattava di una

di coloro che caldeggiavano la creazione dell’ ordine di Carmelitane all’interno del

Kongo. Questo kanda era rappresentato dalla moglie di Alvaro II, Escolastica.

Entrambi i makanda, capeggiati da donne, avevano reclamato immediatamente il trono

per Pedro II.

Cardoso, nel 1624 parla dell’ esistenza di due makanda, riferendoli a due famiglie reali.

Uno sarebbe stato quello di Kwilu, cui faceva parte Alvaro I; l’altro era il kanda di Pedro

II, ossia il kanda di Nsundi dove suo padre era stato duca e dove lui era nato.

( Thornton, 2006).

Oltre le donne reali, altre figure femminili molto potenti agivano all’ interno della corte.

Una di queste era Christina Afonso, vedova di quel Da Silva che aveva sostenuto

Alvaro III alla successione,ed ex duchessa di Mbamba. Costei aveva una grandissima

autorità ed agiva all’ interno del kanda Kwilu.

In seguito a intricati giochi di potere, le potenti donne di corte ad eccezione di Luiza, la

madre di Garcia I, succeduto a Pedro nel 1625, strinsero alleanza con il Duca di

Nsundi Manuel Jorda˜o per detronizzare Garcia a favore di Ambrosio, (nipote di Alvaro

III), Alla morte di Ambrosio si aprirono nuove lotte di successione e i makanda di Nsudi

e di Kwilu si fusero nel Kinlaza cui apparteneva il nuovo re Garcia II, discendente di

una figlia di Afonso.

Dopo la morte del conte Paulo (1641), sostenitore della dinastia Kinlaza, la contea di

Soyo passò nelle mani di Daniel da Silva, un aristocratico del casato di Kwilu probabile

erede eredi di quel Da Silva che era stato eletto duca di Mbamba da Alvaro II. Egli era

un sostenitore della casa di Kimpanzu, che si opponeva alla dinastia reale e cercò di

svincolare progressivamente la contea di Soyo dal controllo di Garcia II.

Il ducato di Soyo divenne quindi un rifugio per i delatori di Garcia II che si ritrovò ad

assegnare le cariche lasciate vacanti a suoi parenti e clienti. I rapporti tra Soyo e la

70

capitale si inasprirono ulteriormente con il rifiuto da Parte di Da Silva, di sposare la

figlia di Garcia II dopo che sia lui che suo fratello avevano preso due Da Silva come

mogli

Pur non essendo chiare le dinamiche è certo che le quattro donne di corte sono entrate

nelle contese, esattamente come le donne reali anni addietro e che queste donne

hanno cercato l’appoggio della chiesa in molti modi.

Tra queste la più importante era Leonor Afonso, legata, come già accennato,al kanda

Kwilu con il quale avrebbe potuto mediare. Essa era conosciuta come mwene nlaza,

(capo di un kanza fondato da qualcuno di nome nlanza). Era anche conosciuta come

mwene Simba uno Mpungi, titolo detenuto anche da Izabel, forse un titolo onorifico per

il quale alle due era corrisposto un vitalizio.

Una seconda Leonor, era sorella del conte di Soyo Da Silva e sorella della regina,

avrebbe invece potuto costituire il ponte tra i Da Silva e il consiglio reale

Garcia II però decise di fare ameno della attività diplomatica di queste due importanti

donne di palazzo, considerando di non averne più bisogno: le arrestò entrambe

assassinando la più giovane, mentre l’anziana Leonor potè in seguito rientrare nella

capitale.Le due donne avrebbero potuto svolgere un ruolo diplomatico non indifferente

con ambo i gruppi rivali del re, ma per la prima volta nella storia del regno si preferì

estrometterle.

Garcia II nel processo di consolidamento del suo potere, era stato insolitamente

spietato nei confronti dei i suoi rivali. Egli sembra essere stato il primo re del Kongo a

perseguitare direttamente le donne. Diogo ne aveva rimosse alcune dalla capitale, ma

generalmente i re avevano tollerato la presenza di donne collegate ai loro rivali. Questo

si vede bene durante il regno di Garcia I Queste donne, rappresentanti dei nemici

mortali del re, erano trattate con deferenza e i i re si erano mantenuti neutrali nei loro

confronti poiché si erano mostrate utili nelle negoziazioni.

La persecuzione delle due Leonor, nel 1652 era stata ampiamente percepita come un

orrore senza precedenti. (Thornton, 2006)

A questa fase corrispondono le prime testimonianze nei confronti delle donne dell’ élite

che operavano nelle aree rurali. La gestione autonoma delle ricchezze da parte di

queste, ha certamente fornito loro un’indipendenza superiore rispetto a quella di chi

71

risiedeva all’interno della corte reale. In qualche fonte del XVII si fa riferimento a donne

che governavano autonomamente piccole aree.

Nel 1650 un Cappuccino si trovò ad attraversare il territorio di Mpemba Kasi, a nord

della capitale San Salvador e primo insediamento governato dal primo re del Kongo. A

reggere questo insediamento era una donna il cui nome ci è ignoto, ma che aveva

l’appellativo di “Madre di tutto il Kongo” con evidente riferimento all’origine del potere

reale a Mpemba. Ancora, dieci anni dopo, un altro sacerdote riferisce che non solo

reggenze autonome femminili non erano rare, ma che queste donne potevano decidere

di sposare chiunque e che l’uomo era visto dalla popolazione locale come un semplice

aiuto alle attività della loro sovrana.

Nel 1661 viene incoronato Antonio I. Durante il suo regno si scatenò la guerra civile

contro il governo coloniale portoghese, che ottenne la vittoria nella battaglia di

Mbwila(1665). Secondo quanto riferito da Thornton, parte dei motivi dell’ intervento

portoghese erano legati al fatto che Antonio I intendesse spodestare Isabel dal suo

governo di Mbwila Gli scontri portarono alla morte del re e di molti membri della corte

indebolendo ulteriormente il potere reale a favore della contea di Soyo.

Lo scontro fra le dinastie Kimpanzu e Kinlaza intanto continuava a protrarsi e a

diventare più violento, tanto che, nel 1678, la stessa capitale San Salvador, fu

saccheggiata e distrutta. Il controllo del territorio andò sempre più frammentandosi (a

partire dall'indipendenza ottenuta dalla contea di Soyo), fino alla completa

disgregazione del potere centrale. Persino le due dinastie principali si scissero in rami

contrapposti.

Alla fine del XVII secolo, i due principali gruppi erano i Kinlaza e la linea di Kibangu,

che vantava discendenza mista Kinlaza e Kimpanzu. Nonostante le alleanze

matrimoniali, la frattura tra questi makanda continuò a protarsi.

Durante il periodo di crisi, una giovane donna di nome Kimpa Vita, sostenendo di avere

ricevuto da Sant’ Antonio la missione di riunificare il regno, si attribuì il nome di Donna

Beatriz. Fu ricevuta prima da Pedro IV della casa di Kibangu nel 1704 e poi da João III,

che governava su Mbula. Non avendo ottenuto nulla dai due sovrani, si recò nella

capitale abbandonata di San Salvador, e diede inizio a un movimento popolare che

raccolse migliaia di persone e che rifondò formalmente l'antico Regno del Kongo.

72

Beatriz non ebbe la pretesa di essere regina come sarebbe stato nel suo pieno diritto,

ma promise che sarebbe stata il tramite di Dio nella scelta del nuovo Re. Quando la

sua scelta cadde su Constantinho, (alleato di un Da Silva), Pedro IV re di Kibangu

decise di farla processare per stregoneria con un pretesto Nel 1707 Beatriz fu quindi

arsa al rogo e Pedro IV, portò a termine l’ opera di riunificazione(1709).

Per porre fine alle lotte di successione si stabilì un principio di rotazione,ma la regola

fu seguita per poco tempo e senza continuità.

Il periodo immediatamente successivo alla battaglia di Mbwila non è ben documentato,

ma verso la fine del XVII secolo, emerge un quadro più chiaro, in cui le donne erano

ormai impiegate attivamente nelle cariche di potere locale.

Una di queste fu Donna Suzanna de No'brega, capo del lignaggio Kimpanzu.

Supportata da potenti Conti di Soyo, Donna Suzanna vedeva costantemente

assecondate le sue pretese e molti suoi figli detennero il potere a San Salvador

Nel XVII secolo l’ apice del potere femminile è comunque rappresentato da Donna Ana

Afonso de Leao, sorella di Garcia II e moglie di Afonso II. Dotata del titolo mwene

nlaza, era il capo riconosciuto del kinlaza. Durante la resistenza contro Raphael I essa

fu un membro molto attivo, per non dire che ne fu la principale promotrice. Rifugiatasi a

Mbanza Nkondo ha operato inizialmente per l’installazione di Joao II, un suo parente, e

in seguito per suo nipote Alvaro.

Joao aveva come roccaforte Mbula, retta dal fratello Pietro III ed era sotto la guida di

sua madre Potencia. La sorella di Joao era una collaboratrice stretta di Pietro, loro

comune fratello, e aveva quindi più influenza rispetto a Potencia. Tuttavia, quando

Pietro dovette allontanarsi lei fu disertata da molti nobili sostenitori di Pedro IV, che

reclamava il suo diritto al trono in quanto discendente da i makanda Kimpanzu e

Kinlaza.

Mbula era divisa quindi in due fazioni anche se probabilmente i sostenitori di Re Pedro

erano più che altro semplicemente ostili a Elena che comunque fu riconosciuta come

avente diritto al governo della zona.

Nel frattempo Donna Ana esercitava sempre più influenza nei dintorni di Nkondo e

favorì molti suoi parenti e sostenitori nell’ acquisizione di importanti cariche. La sua

autonomia e forza sono dimostrate da due fatti.

73

Primo:nel 1700 Ana firmò un trattato di pace scritto di suo pugno, nel quale si

impegnava a mantenere la pace per conto dei suoi nipoti titolati.

Secondo e ancora più sorprendente, le fu concesso addirittura l’ onore di indossare le

vesti di frate Cappuccino. (Thornton, 2006)

Durante il XVIII secolo, il potere effettivo era giocato a livello di province piuttosto che

nella capitale.

Alla morte di Manuel II (1743), gli successe nell'ufficio Garcia IV, appartenente alla

stessa fazione di Joao II. Egli era probabilmente uno di quei nobili che avevano

disertato per Pedro IV intorno al 1700.

Quando il sacerdote cappuccino Bernardo Ignazio d' Asti visitò San Salvador nel 1747,

notò che Garcia era un re molto pio giovane, mentre Luvota, una delle province, era

controllata dalla vedova di Manuel considerata altrettanto pia(Thornton, 2006). La

donna impose ai suoi seguaci di seguire la via del cristianesimo pur non avendo mai

ricevuto missionari. Il compromesso di Pedro IV non fu accolto di buon grado e i

governati di Luvota tentarono più di una volta di ascendere al trono.

Oltre i casi citati numerose donne hanno dominato il paesaggio del Kongo a vario titolo,

alcune come capi di piccole province, altre con ruoli più rilevanti in marchesati e ducati

strategici. Queste erano legate agli uomini che si andavano succedendo al trono, da

vincoli di parentela, ma mentre i re cambiavano abbastanza rapidamente, gli esercizi

delle donne erano più o meno permanenti. C’era chi tra loro esercitava un potere quasi

regale e chi era considerata una vera e propria regina Nkondo, ad esempio,

riconosciuto semi-indipendente nel 1760, è stato sempre retto da una donna. Una

figura interessante in questo senso è quella della Regina Violante. Costei aveva

ricevuto il ducato di Wadu da una precedente donna il cui nome ci è ignoto, ma della

quale sappiamo che tutti si rivolgevano a lei con l’appellativo di “madre. Quando

Violante venne eletta regina,il vecchio ducato si era trasformato in uno dei quattro regni

usciti fuori dal vecchio Kongo.

Wandu era parte di quei territori che includevano Nkndo e Holo, percepiti dai

governanti come una continuazione orientale del Regno del Kongo. La stessa regina

percepiva se stessa come una parte vitale del vecchio Kongo; aveva infatti inviato,nel

1764, le sue truppe contro Alvaro XI in favore dei propri parenti.

74

Un’ altra azione militare a danno dei portoghesi in Angola le costò la carica nel 1766 e

al suo posto fu insediata una Da Silva.

In questo caso la regina deteneva un potere concreto ed effettivo al punto di sentirsi

autorizzata ad organizzare spedizioni militari. Il regno era stato riunificato solo

formalmente e nel corso del XVIII secolo i tumulti interni non si erano stabilizzati.

Pedro V nella seconda metà dell‘ ottocento concesse poteri sempre più forti ai

Portoghesi, i quali ottennero gran parte del regno del Kongo in seguito alla Conferenza

di Berlino (1884-1885). La figura del sovrano si svuotò progressivamente del proprio

potere, acquisendo un significato puramente simbolico

L’ultimo re del Kongo fu Manuel III che rimase sul trono fino al 1914, quando il titolo fu

definitivamente abolito dal governo potoghese.26

Da quanto riferito emerge che il ruolo delle donne dell’élite del Kongo è andato sempre

più rafforzandosi nel corso del tempo. Se inizialmente queste agirono in qualità di

consulenti, o ricorrendo a figure di uomini potenti per favorire i loro protetti, poi

iniziarono ad esercitare potere, attraverso i kanda, all’interno della corte e del consiglio

reale. Esse agirono sia come mediatrici che come tessitrici di complotti favorendo di

volta in volta chi ritenevano opportuno. Se già nel XVII secolo quelle che detenevano il

potere nelle aree rurali avevano una discreta autonomia decisionale, i loro ruoli si

rafforzarono con la frammentazione del territorio. Con l’evolversi degli eventi

acquisirono cariche dirette arrivando ad essere considerate regine a tutti gli effetti in

grado anche, come nel caso della regina Violante di muovere un esercito in armi per il

conseguimento dei propri interessi.

CAPITOLO IIIREGINE MADRI

1)regine e Madri: supporto politico nel Dhaomey e nel Lagos precoloniali1.1) iyobaNel descrivere le lotte di successione che hanno caratterizzato il regno del Lagos

(attuale stato del Benin) tra il 1816 e il 1853, Sandra Barnes (Barnes, 1997) sottolinea il

26 http://it.wikipedia.org/wiki/Regno_del_Congo#Nascita_del_Regno

75

ruolo svolto da due ricche e influenti figure femminili dell’epoca.

Si tratta di Opo Olu e Tinubu, entrambe madri adottive di uno dei re coinvolti nei conflitti

per l’accesso al trono. Tra le due, solo la prima era stata insignita del titolo di iya oba (

o eruelu) che letteralmente significa: madre del re.

Barnes non entra nello specifico dei ruoli svolti dalle regine madri, né sappiamo se ci

siano state affinità di fondo con la carica di iyoba del regno del Benin che, nel XV

secolo, aveva conquistato le popolazioni awori ( sottogruppo yoruba) del Lagos.27

Qualche notizia sul ruolo dell’iyoba dell’impero del Benin ci viene fornita da Flora

Kaplan (Kaplan, 1997), il cui approccio combina lavoro sul campo e studio delle fonti

orali all’analisi dell’arte di corte.

In questo caso l’iyoba, la regina madre, è colei che tra le tante mogli dell’oba è

predestinata a partorire il futuro sovrano.

La prima regina madre a cui fu assegnato il titolo fu Idia, all’inizio del XIV secolo.

II suo intervento a favore del figlio Esigie, nella lotta di successione che seguì la morte

del precedente oba, salvò il regno dal concreto rischio di invasione nel quale si trovava

a causa della forte instabilità politica.

Le madri dei sovrani erano ritenute possedere speciali poteri magici e in ragione di

questa forza incontrollabile, erano decapitate al momento dell’installazione. Questo

costume cadde in disuso per intervento di Oba Esigie il quale ottenne che la vita di sua

madre fosse risparmiata, in virtù del fatto che questa aveva salvato il regno dalla

conquista straniera.

Da allora le madri biologiche del nuovo re assumono il titolo di iyoba, ma vivono in una

propria separata residenza a Uselu, un villaggio fuori dalla capitale.

Re e regina madre non potranno avere più contatti diretti, ma l’iyoba ha il compito di

continuare a proteggere suo figlio e lottare per la stabilità del regno.

Un punto di interesse è determinato dal fatto che in questo caso la carica di regina

madre nasce in seguito all’azione salvifica di una madre nei confronti del regno stesso.

Inoltre, sempre secondo quanto riferito da Kaplan (Kaplan, 1997), la madre del re

27 Il primo oba insediato in Lagos fu Ashipa. Questi nonostante il suo compito fosse quello di tutelare gli interessi del Benin godette di una discreta autonomia. Da quel momento gli yoruba iniziarono a riferirsi a quel territorio con il nome di Eko. Questo termine significa campo di guerra, ma può essere interpretato anche come un termine derivato da Oko, che in linguaggio yoruba significa fattoria di manioca. Lagos fu un nome dato alla città dai coloni europei. Ancora oggi le popolazioni yoruba utilizzano questo termine per riferirsi a quel territorio.

76

accede al titolo solamente nel momento in cui questa ha raggiunto la menopausa,

ossia quando la sua sessualità non ha più vita.

Anche nella contemporaneità,a regina madre è l’unica, tra le mogli dell’oba, ad essere

immortalata nell’arte di corte. Questo la pone al pari degli altri sovrani, ma Kaplan nota

che la regina madre può accedere alla carica solo nel momento in cui la sua capacità

riproduttiva, massima espressione di femminilità tra gli edo, viene meno( Kaplan,1997).

Così, pur avendo l’ iyoba, ottenuto il diritto a una carica importante grazie alla sua

capacità di concepire, questa carica le viene attribuita formalmente solo nel momento

in cui la sua sessualità è inattiva. Avendo perso il potere di procreare, è come se fosse

possibile non considerarla più una donna;è la perdita di un’identità sessuale definita,

quindi, che la mette nella condizione di essere celebrata e ricordata, come è

consuetudine per gli uomini della casa reale.

La sua principale preoccupazione deve essere quella di assicurare la stabilità del regno

e la continuità della stirpe attraverso la protezione del re, suo figlio. Questa protezione

avviene a distanza in quanto la madre del re è ritenuta essere depositaria di poteri

magici che potrebbero nuocere all’oba.

In quanto iyoba essa ha anche il compito di intervenire in eventuali dispute portate alla

sua attenzione esattamente come ogni altro capo nella propria area di influenza.

Non sappiamo se e quali di queste caratteristiche possano essere assimilabili a quelle

della iya-oba del regno del Lagos in quanto le notizie intorno al suo ruolo sono piuttosto

scarse.

La prima regina madre del regno è detto essere stata Erelu Kuti, sorella di

Akinsemoyin, terzo oba del Lagos.

Fonti orali raccontano che questo, legato da un profondo amore nei confronti della

sorella e non potendo contare su figli maschi adulti, le conferì il titolo di Erelu e

profetizzò che suo figlio sarebbe stato il futuro sovrano. Probabilmente questa

onorificenza fu una conseguenza del matrimonio tra Kuti e un potente sacerdote di Ife

che, oltre ad aver previsto la successione al trono di Akinsemoyin, gli era stato accanto

come consigliere e lo aveva assistito con successo nel consolidamento del suo potere.

Non sono chiare le funzioni svolte dalle regine madri in Lagos, cosi come non

sembrano esserci delle regole stabilite per determinare chi potesse detenere il titolo di

77

diritto.

Opo Olu, una delle donne coinvolte negli eventi di cui parla Barnes (Barnes, 1997), era

sorella e madre adottiva di un re e pare che fu proprio durante il breve regno di

quest’ultimo che le venne assegnato il titolo di erelu.

In seguito ad una serie di eventi, questa fu accusata di aver causato la morte dei figli

dell’eletu odibo, una sorta di primo ministro della città il cui compito più importante

consisteva nella scelta del nuovo oba tra i possibili candidati.

Queste accuse potrebbero suggerire che le regine madri del Lagos, al pari di quelle del

Benin fossero considerate in possesso di speciali poteri magici.

Tinubu, l’altra potente donna che esercitò una notevole influenza negli eventi di quegli

anni, pur essendo anch’essa madre adottiva di un re, non ricevette il titolo di Iya oba.

Essa era una commerciante venuta da Abomey (regno del Dhaomey) e giunse nella

capitale in quanto moglie di un ex oba esiliato prima e richiamato al potere poi.

Perché Tinubu non ha ricevuto il titolo come Opo-Olu? Entrambe erano donne ricche,

influenti e soprattutto madri adottive di re. Forse le ragioni sono da ricercarsi

nell’appartenenza al lignaggio reale.

Sia Erelu Kuti che Opo-Olu erano infatti non solo madri, ma anche figlie e sorelle di

precedenti re, mentre Tinubu era fondamentalmente un’estranea.

Questa supposizione andrebbe supportata da una lettura più approfondita delle

genealogie dei lignaggi reali e da un più approfondito corpus di dati etnografici.

Il ruolo giocato da queste due madri reali può contribuire a sostanziare un punto di

vista sulle donne legate al potere regale, che le vede come soggetti politicamente attivi

e capaci di esercitare una propria specifica influenza nel contesto in cui si trovano ad

agire.

Oba Ologunkutere il figlio di Erelu Kuti, ebbe a sua volta tre figli: Eshinlokun, Adele e

Akitoye. Tra questi tre, il successore designato fu Adele il quale, nel 1821, fu

detronizzato dal fratellastro Eshinlokun e trovò rifugio nel villaggio natale della propria

madre. Negli anni dell’esilio conobbe e sposò Tinubu, che aveva esteso i suoi

commerci da Abomey allo stato del Lagos.

Il complotto fu appoggiato da Opo-Olu, sorella di Eshinlokun che, in qualità di madre

adottiva di suo figlio Idewu, assunse il titolo di Erelu.

78

Quest’ultimo morì in giovane età e il trono si trovò ad essere conteso tra Adele, che nel

frattempo era stato richiamato in città, e Kosoko, fratello dell'oba deceduto (Barnes,

1997).

Tinubu e Opo-Olu erano entrambe coinvolte nel commercio di avorio e nella tratta degli

schiavi; si trovarono quindi a rivaleggiare sia su quel fronte che nel supporto offerto ai

candidati al trono.

Fu in questa occasione che l’eletu Odibo rivolse le sue accuse di stregoneria nei

confronti di Olu-Opo la quale venne tuttavia assolta.

E’ probabile che tale inimicizia da parte del primo ministro derivasse dal fatto che

l’Erelu stesse perorando la successione di Kosoko, il quale aveva preso in moglie una

giovane ragazza destinata all’Eletu, senza averne chiesto il permesso. (Barnes,

1997:7).

La scelta finale ricadde su Adele e conseguentemente Tinubu ebbe la possibilità di

ampliare i propri commerci nella capitale del Lagos.

E’ possibile che ragioni squisitamente personali abbiano mosso il primo ministro a

ignorare la volontà della Iya oba? Non sappiamo se Tinubu abbia avuto o meno

un’influenza determinante sulla decisione dell’eletu, ma da questi fatti si potrebbe

evincere che l’erelu in sè non avesse alcuna voce nella scelta dell’erede al trono.

Nel 1836 Opo-Olu ordì una ribellione che ebbe esito negativo, in favore del suo

protetto. Tale guerra è ricordata con il suo nome, cosa che lascia pensare che gran

parte delle milizie inviate contro l’oba le appartenessero.

In seguito a questo evento l’erelu venne esiliata e Tinubu diventò la donna più influente

e importante del regno.

Alla morte di Adele (1837), essa sostenne l’ascesa al trono del suo figliastro Oluwole e

poco dopo sposò un capo guerriero a cui l’oba era stretto da forti legami di

riconoscenza in quanto aveva guidato una spedizione volta a recuperare merci di

proprietà dell’oba che erano state razziate da Kosoko.

In segno di gratitudine, il re fece dono alla coppia di gran parte dei beni recuperati e

Tinubu poté estendere ulteriormente i suoi traffici. La donna a quel tempo era diventata

proprietaria di circa 360 schiavi, si era dotata di una propria milizia e si era immessa

nel commercio delle armi acquisendo un ruolo molto rilevante all’interno degli affari di

79

stato (Barnes, 1997: 8)

Nel 1841, alla morte dell’oba, riuscì ancora una volta ad avere la meglio su Kosoko,

sostenendo l’ascesa al trono di suo cognato Akitoke che regnò fino al 1845, quando

Kosoko, con un nuovo colpo di stato, riuscì ad accedere al potere28.

Anche in questo caso Tinubu sostenne il suo protetto trasferendosi con gran parte dei

suoi beni nella città natale della madre di suo cognato, dove questi si era rifugiato in

esilio.

Nonostante i numerosi attacchi sferrati contro il nuovo oba per mezzo delle milizie di

Tinubu, fu solo grazie all’intervento delle truppe britanniche29 che, nel 1851, Akitoye

ottenne di nuovo il potere che gli era stato tolto.

Opo-Olu e Tinubu hanno svolto in questi anni un ruolo politico di primo piano, so-

stenendo e proteggendo i loro favoriti attraverso l’attività diplomatica e la fornitura di

supporto militare.

L’erelu, nel sostenere Kosoko, è stata prima accusata di stregoneria e poi esiliata in

seguito all’organizzazione di una guerra che porta il suo nome. Tinubu ha saputo

tessere una trama di alleanze che hanno incrementato la sua ricchezza come il suo

potere al punto che essa è stata definita “il potere che è dietro al trono” ( Barnes, 1997:

11).

La sua influenza era così grande che gli inglesi, nel 1856, decisero di esiliarla nel

villaggio in cui era stato precedentemente esiliato suo cognato, dove ricevette il titolo di

Iyalode (lett. Madre dall’esterno).

Se è vero che alla base dello spazio di azione delle madri reali c’era un’instabilità

politica di fondo determinata dall’incertezza delle regole di successione, va loro

riconosciuto il merito di aver saputo utilizzare la loro ricchezza per tessere alleanze che

le hanno rese competitive sul piano dell’azione politica e che hanno allargato il loro

potere e la loro sfera di influenza.

1.2) Kpojito

28 Questa guerra è passata alla storia con in nome di “guerra dell’acqua salata”. I lagosiani furono circondati e, non avendo accesso alle riserve d’acqua dolce, furono costretti ad attingere a quella della palude. In 21 giorni di assedio furono uccise tra le 1000 e le 2000 persone incluso l’eletu Obi e tutti i membri della famiglia dell’oba deposto. (Barnes, 1997: 9)

29 L’intervento inglese avvenne in conseguenza all’impegno, da parte di Akitoye, di porre fine al commercio degli schiavi. La lotta alla tratta fu probabilmente uno dei motivi che portarono all’esilio di Tinubu.

80

E. Bay (Bay, 1995; 1997), nell’indagare la carica delle regine madri del Dahomey

precoloniale30, rende conto della rete di relazioni intessute, attraverso le alleanze

matrimoniali, tra il potere centrale e i vari strati della popolazione.

Il palazzo reale di Abomey, capitale del regno, era il centro della burocrazia dove

risiedevano le mogli e i famigliari del re.

Il palazzo funzionava come un’enorme famiglia poliginica dove le mogli del re erano

impegnate nello svolgimento di compiti di ogni genere (Bay, 1995: 8).

Esse erano attive nei campi più disparati(militare, economico, politico, artigianale,

rituale) e, provenendo da non importa quale,livello sociale, costituivano una sorta di

ponte tra il potere centrale e i vari strati della popolazione. La macchina amministrativa

era basata su principi di gerarchia e di merito in modo che chiunque fosse dotato di

particolari capacità, poteva essere mess nelle condizioni di acquisire ricchezza e

prestigio.

Tra tutte le cariche di palazzo, la più prestigiosa e importante era quella di kpojito, la

regina madre.

Alcune di loro furono sacerdotesse di divinità di una certa rilevanza e questa loro

posizione ne determinò il loro chiave nella legittimazione della dinastia Alladahonu al

potere regale nel rafforzamento dello stesso. (Bay, 1997)

Durante i secoli XVII e XIX, non solo la storia politica del regno, ma la stessa con-

cezione del potere furono profondamente influenzate dalla sfera del sacro; inoltre i

regnanti manipolarono coscientemente il pantheon dahomeyano, promuovendo alcune

divinità (vodun) piuttosto che altre e introducendone di nuove.

Nella visione del mondo fon, lo stretto legame che unisce delle dimensioni del visibile e

dell’invisibile si rifletteva necessariamente sull’accettazione dei regnanti da parte delle

divinità più seguite dalla popolazione; era quindi indispensabile che i sovrani fossero

collegati a sacerdoti e sacerdotesse dei culti più sentiti.

Nella concezione cosmologica del Dhaomey troviamo due tipologie di vodun: la prima

era collegata alla casa regnante, mentre la seconda costituiva un eterogeneo insieme 30 Il regno del Dahomey è stato creato nel XVI secolo intorno al centro di Abomey (a sud dell'attuale repubblica del Benin)

ed è diventato colonia francese nel 1899. Non ci sono dati certi riguardo la data della fondazione ufficiale del regno, nè sul luogo di origine degli Alladahonu, la dinastia Fon che detenne il potere durante tutto il periodo di durata del regno. L’unico dato storicamente accertato è che questi, in un periodo non meglio precisato, si sono insediati a Wassa, nei pressi di Abomey, e che da lì hanno perseguito la loro politica di espansione aprendo la strada al commercio con l'Europa. (Bay, 1995)

81

di divinità popolari associate alle forze della natura (Bay, 1995: 3).

Il regno degli spiriti (kutome) era ritenuto essere uno specchio di quello dei vivi e gli

abitanti dei due mondi erano legati da rapporti di dipendenza reciproca.

Così, se da un lato gli esseri viventi avevano bisogno del sostegno degli spiriti,

quest'ultimi traevano forza dai sacrifici offertigli nel mondo visibile.

Le implicazioni politiche di questa concezione non sono irrilevanti, poiché non solo il

raggiungimento del successo era la prova del favore delle divinità, ma l’introduzione di

nuovi vodun legati alla casa regnante ha consentito il controllo di molti culti e

incrementato la devozione da parte della popolazione nei confronti della dinastia in

carica.

La creazione del titolo di kpojito, il cui termine indica letteralmente la persona che ha

generato il leopardo, sembra essere legata direttamente alla nascita della dinastia

regnante e alla sua legittimazione nel nascente regno del Dahomey.

Secondo il mito di fondazione degli Alladahonu, una principessa reale di nome

Aligbonon si era accoppiata con un leopardo dando alla luce Agasu, una creatura ibrida

con caratteristiche sia umane che animali.

Entrambi sono diventati importanti vodun il cui culto era affidato a specifici officianti.

Quando gli Alladahonu giunsero a Wassa, una città tra Cana e Abomey, la

sacerdotessa di Aligobon era una donna del posto di nome Adonon.

Costei pare essere stata il tramite tra Wegbala, padre putativo del casato di Alladahoun

come dinastia regnante, e Dokodonu, sovrano che lo precedette e sulle cui origini le

fonti hanno pareri discordanti. Quello che pare probabile è che Adonon fosse la sua

sposa promessa e che egli avesse adottato Wegbala. In seguito ad un unione tra

Adonon e Wegbala quest’ultimo fu diseredato dal padre adottivo, ma riuscì ad ottenere

il suo perdono sconfiggendo un suo nemico (Bay, 1997).

Più tardi, Wegbala riuscì ad accedere al trono di Wassa e compensò il lignaggio di

Dokodonu assegnandogli permanentemente l’incarico di Agasunon (sacerdote del culto

di Agasu).

Il matrimonio di Wegbala con Adonon e l’assunzione del mito del leopardo come

fondativo della dinastia, pose le basi per individuare in Adonon la madre putativa della

dinastia Alladahonu. Il conferimento del primo titolo di kpojito ad Adonon, così come

82

l’associazione del mito di Wassa con la nascita del nuovo casato, hanno avuto luogo

tra il 1716 e il 1740, durante il regno di Agaja.

Da allora ogni re venne considerato la metaforica incarnazione di Agasu e ogni kpojito

scelta tra le mogli del precedente sovrano, collegata a Aligobon. In questo caso, la

regina madre non è solo madre metaforica del re, ma di una dinastia intera: il suo titolo

è stato creato appositamente per legittimare il nuovo casato al potere attraverso il

collegamento con due tra i più importanti vodun locali.

Non si hanno molte notizie attorno alle prerogative delle regine madri del Dahomey, ma

è certo che fino al XIX secolo esse hanno governato con i re come coppia reale.

Il parallelismo di genere nei ruoli di comando era già presente nell’organizzazione

sociale fon; infatti a capo di ogni lignaggio c’erano una figura femminile (taninon) e una

maschile (hennugan). Nel XIX secolo tuttavia, i ruoli di potere di queste due figure

furono indeboliti da una mutata politica delle alleanze che avrà come conseguenza

anche la perdita di influenza politica delle regine madri.

Essendo le kpojito mogli reali, e quindi persone esterne al lignaggio reale, non avevano

ufficialmente alcuna voce in capitolo nella nomina del nuovo re.

Questi era designato il più delle volte dal precedente sovrano, ma quasi sempre

accadeva che alla sua morte si aprissero lotte di successione.

Anche qui e influenti donne di palazzo complottavano in favore di uno dei pretendenti al

trono; è quindi plausibile che il titolo di kpojito, conferito dal nuovo re, si sia configurato

come premio per l’appoggio ricevuto già a comiciare da Hwanjile, seconda regina

madre del regno, che aveva aiutato Tegbesu ad ottenere il trono alla morte di Agaja

(1840).

Anche Hawanjie, come Adonon, aveva familiarità con il mondo degli spiriti e la sua

figura fu centrale nel rafforzare la legittimità della casa regnante.

Tegbesu era salito al trono con la forza e qualche sacerdote iniziò a far circolare la

voce che alcuni dei vodun popolari erano adirati per l’esito della battaglia.

Ciò causò una disaffezione da parte del popolo. La soluzione trovata da Hawanjie fu

quella di importare nuovi vodun che rafforzassero l’immagine del casato reale.

L’introduzione della coppia di divinità creatrici Mawu e Lisa, del cui culto era

responsabile la stessa Hwanjle, ribadiva il concetto che al centro del potere c’era una

83

coppia e che questa coppia si giovasse dell’equilibrio tra la regalità della coppia

regnante nelle cui mani era accentrato il potere e le popolazioni che vivevano nelle

aree periferiche del regno, da dove provenivano le regine.

Da Hwanjile in poi, infatti, tutte le kpojito furono reclutate tra donne venute da aree

lontane dalla capitale.

La concezione del potere reale, durante il XVIII secolo, si appoggiava quindi su una

coppia che rappresentava l’equilibrio e il legame tra strati alti e strati umili, essi

governavano come pari e la kpojito aveva ruoli di rilevanza non indifferente.

Durante il regno successivo furono introdotti culti legati alla casa reale come quello dei

thohossu, bambini della famiglia reale morti subito dopo la loro nascita, o i nesuhwe

che includevano tutti i morti divinizzati del casato.

L’aumento di questi vodun legati al lignaggio al trono, indica una concezione del potere

che tende a porre una certa distanza tra la popolazione e i regnanti, anche se il

comando continuava ad essere espresso dalla coppia reale.

Sul finire del XVIII secolo re Angolo, interessato ad espandere i propri commerci,

introdusse il dio cristiano come vodun e prese contatto con i portoghesi affinché questi

inviassero degli emissari evangelizzatori.

Tuttavia i sacerdoti dei culti più importanti si opposero a questo tentativo ed ordirono un

complotto che portò all’avvelenamento del re.

Agontime, la donna che eseguì materialmente il regicidio, tentò allora di supportare

Dogan come successore, ma il tentativo fallì, essa fu venduta come schiava e inviata

nel Nuovo Mondo e Adandozan divenne il nuovo sovrano (Bay, 1997).

Nel 1918, questi fu detronizzato da Gezo il quale, pur avendo ricevuto l’appoggio di

numerose donne di palazzo, non ripose fiducia in nessuna di loro e scelse come suo

consigliere un mercante di schiavi afro-brasiliano.

In seguito mandò a cercare Agontime che fu eletta regina madre intorno al 1840.

Probabilmente la donna fu infine scelta per la sua familiarità con il mondo degli spiriti in

riconoscimento del suo impegno nella lotta alla cristianizzazione del regno.

Tuttavia il consigliere effettivo del re rimase il mercante di schiavi e la coppia reale era

ormai tale solo nominalmente, poiché non sembra che Angotime prendesse parte alle

decisioni del re.

84

A partire dalla seconda metà del XIX secolo e precisamente dal regno di Glele, la

visione del potere come prerogativa maschile si rende ancora più evidente.

Egli scelse come kpojito sua madre Zoindi, ma concentrò i poteri e le responsabilità

riservate alle regine madri nelle mani di suo cognato Gedegbe. Che fù nominato

responsabile di tutti i culti attivi incluso quello di Manwu e Lisa, cosa che comportò

l’annullamento dell’influenza delle donne anche all’interno della sfera del sacro.

A partire da questo momento, le future kpojito riceveranno il titolo in quanto coloro che

hanno partorito il re e non saranno più parte attiva nella vita politica e religiosa del

regno. Anche se ci saranno ancora influenti donne di palazzo che complotteranno in

favore di questo o di quell’atro candidato al trono, i riconoscimenti loro assegnati

saranno di altro genere.

Bay (Bay, 1997) spiega questa mutata concezione della dimensione della coppia reale

con le influenze esercitate da una parte dal contatto con gli europei e dall’altra

dall’introduzione di alcuni culti yoruba.

Nel XVIII secolo la prassi, per la casa regnante, di prendere metaforicamente in moglie,

gli uomini appartenti a lignaggi non reali aveva sminuito il ruolo di raccordo delle donne

di palazzo tra il potere centrale e le altre fasce della popolazione.

Attraverso questo stratagemma infatti, interi lignaggi, legati agli uomini presi come

“mogli”entravano a far parte di un ramo della famiglia reale.

Le influenze occidentali hanno contribuito a modificare la concezione del potere.

I contatti sempre più frequenti con gli europei avvenivano infatti sempre attraverso

governatori o rappresentanti di sesso maschile ed il sacerdozio del dio occidentale

escludeva categoricamente la presenza femminile.

L’introduzione del culto yoruba della divinazione Ifa contribuì in modo decisivo ad

affermare la concezione della supremazia maschile in termini di controllo politico e

religioso. Non solo si trattava di un sacerdozio di prerogativa maschile, ma le stesse

divinazioni si concentravano su problematiche che interessavano gli uomini e alle

donne venivano concesse solo predizioni di carattere molto generico, in quanto il loro

destino era visto come legato a quello di un uomo.

Nel XVIII secolo, le donne in generale e le kpojito in particolare ebbero un ruolo

fondamentale nel legittimare il potere regale attraverso appoggi di tipo politico e grazie

85

alla loro competenza in materie religiose.

Progressivamente e attraverso una serie di influenze esterne, l’asse del potere si è

spostato da una visione di equilibrio tra centro/periferia, a una visione accentratrice

maschio-centrata.

Tutte le donne di palazzo erano diventate sul finire del XX secolo semplici ausiliarie del

re e la cosa è stata vista da qualche informatore di Bay (Bay, 1997: 38) come una delle

cause dell’indebolimento del potere regale che precedette la dissoluzione dell’impero,

conquistato dai francesi nel 1890

2) Regine madri in Ghana tra Ashanti e KroboNel Dahomey precoloniale, come abbiamo visto, le regine madri erano scelte

direttamente dal re tra le mogli del suo predecessore.

A Lagos invece, ruoli di primo piano tra le mogli reali sono assegnati dal re in carica o,

come nel caso di Erelu Kuti, dal loro predecessore.

In Entrambi i casi il potere loro assegnato è, subordinato alla figura del sovrano. Per

quanto le donne agissero attivamente sul piano politico, esercitando un potere

concreto, la ragione prima delle loro cariche risiede nella salvaguardia del sovrano e,

cosa più importante, esse non sono state riconosciute come tradizionali figure di

comando.

Tornando agli ashanti,31di cui si era parlato a proposito dele regine dei mercati,

troviamo una situazione differente per la quale il ruolo delle regine madri è ampiamente

riconosciuto sia a livello tradizionale che di governo nazionale. La chieftaincy è quindi

ancora attiva e ben radicata nella regione.

Nel XVII secolo, Osei Tutu creò la confederazione degli stati ashanti diventando il

primo asantehene.

La suddivisione amministrativa tradizionale è basata su una scala gerarchica al vertice

della quale si hanno una figura di potere maschile, l’ashantehene, e un’altra femminile

detta ashantehema. Al gradino immediatamente successivo si hanno delle divisioni, più

o meno ampie, che includono un certo numero di città e villaggi. Ognuna di queste

unità politiche è retta da una coppia di sovrani, maschio e femmina, i cui ruoli 31 Gli ashanti appartengono al gruppo Akan (stanziati nelle aree centrali e meridionali del Ghana e nelle zone a sud-est della

Costa D’Avorio). La loro lingua è il Twi, sottogruppo della famiglia linguistica Volta-Comoe. L’attuale regione Ashanti occupa la fascia centrale del Ghana e la sua capitale amministrativa è Kumasi.

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differiscono completandosi a vicenda.

Il lignaggio, unità politica fondamentale, rispecchia in piccolo questa formula di potere

duale basato sul genere ed ha alla sua testa una coppia di membri probabilmente scelti

tra i più anziani del segmento di discendenza.

Rattray (Rattray, 1923) traduce con il termine queen mother32 ogni livello di carica

femminile accennata sopra, ma tra gli ashanti esistono specifiche definizioni twi per

ognuna di queste cariche (B.J. Stoeltje, 1997).

A livello di lignaggio i termini con i quali ci si riferisce all’autorità sono abusuapaniyin

per gli uomini e obapanin per le donne.

Queste avranno cura di rappresentare tutte le figlie del proprio abusua (termine a

grandi linee, riferibile al clan o al lignaggio) nelle occasioni pubbliche, mentre il primo

diventerà un sottocapo dell’odikro, capo maschile a livello di villaggio o città, e farà

parte dei consigli tradizionali locali.

Odikro per l’uomo e obapanin per la donna sono i termini utilizzati in riferimento ai

villaggi e alle città, mentre per quanto riguarda la reggenza sulle divisioni più ampie, i

titoli sono quelli di ahemaa (per le donne) e omhanene (per gli uomini). Infine, come già

ricordato, a livello più alto troveremo l’ashantehene, l’ashantehema. Costoro sono

considerati i sovrani di tutti gli ashante a livello assoluto.

Il sistema di governo tradizionale sopra descritto, è definito nella stessa costituzione

del Ghana come chieftaincy. Entrambi i governi, coloniale e nazionale, ne hanno

riconosciuto la legittimità lasciando ai capi tradizionali un discreto margine di azione

(Stoeltje, 1997).

Grazie a queste politiche, la chieftaincy ha mantenuto la propria vitalità.

Non è facile invece stabilire fino a che punto l’impatto con le società occidentali abbia

influenzato la concezione del potere femminile in un’area dove questo si è comunque

mantenuto forte, ma l’esclusione delle queen mother dalle case nazionali e regionali

dei capi33 potrebbe essere un segnale del ridimensionamento del loro impatto politico a

32 La definizione queen mother è entrata a far parte del linguaggio comune a ogni livello della popolazione Akan. Pertanto quando non farò riferimento a cariche specifiche con la propria definizione twi utilizzerò indifferentemente il termine inglese sopra riferito o la sua traduzione italiana, regina madre.

33 Le case dei capi vengono istituite dalla costituzione del 1969 come strumento di raccordo tra i poteri tradizionali e il governo centrale. La costituzione del 1992 ne definisce ulteriormente limiti e competenze. Per un approfondimento si veda il titolo 22 della costituzione del Ghana reperibile all’indirizzo: http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/constitution

87

livello più ampio.

La base dell’organizzazione politica appena descritta è costituita dalla parentela e dal

sistema di discendenza matrilineare.

Prerequisito fondamentale per accedere a una qualsiasi delle cariche tratteggiate sopra

è l’appartenenza, in linea materna, al lignaggio che detiene legittimamente il potere

sulla base del diritto allodiale.

Le queen mother sono quindi regine in un sistema gerarchico che si basa sul lignaggio

ed è caratterizzato da parallelismo di genere (Stoeltje, 1997: 44).

Tale parallelismo si riflette nella patrifiliazione ashanti e nella loro concezione della

procreazione.

I figli sono ritenuti ricevere il sangue e l’appartenenza lignatica dalla madre, ma è dal

padre che ricevono lo ntoro (l’anima/nome dell’anima).

Inoltre, cosi come ci sono otto grandi gruppi di discendenza provenienti da

un’ancestrale antenata comune, esistono otto gruppi di ntoro e coloro i quali

posseggono lo stesso nome dell’anima sono ritenuti avere lo stesso spirito.

Secondo tale concezione quindi padre e madre concorrono in egual misura alla

procreazione e alla perpetuazione del lignaggio.

Inquadrando il ruolo delle queen mother di questa specifica area in un’ottica di

parallelismo di genere, Stoeltje (Stoeltje, 1997) fornisce un quadro delle loro attività.

Si è detto che re e regina ricoprono due cariche parallele e complementari inscindibili

l’una dall’altra. Entrambi hanno la propria residenza ed il proprio seggio (simbolo del

potere reale, qualcosa di simile a quello che è il trono per i monarchi europei); i due

operano a stretto contatto consultandosi frequentemente. Una delle responsabilità

principali di ogni queen mother deriva dal suo ruolo di “madre” nei confronti del re, con

tutto ciò che questo comporta.

Nel sistema di discendenza matrilineare, il sangue e l‘appartenenza al lignaggio si

trasmettono per linea femminile, in un lignaggio che detiene il seggio quindi questa

trasmissione riguarderà anche il potere reale.

E’ in questo senso che può essere intesa la maternità della regina nei confronti del re,

infatti uno dei suoi compiti riguarda la scelta, che dovrà essere approvata dagli anziani

del lignaggio, del futuro monarca nel momento in cui il posto diventa vacante.

88

Non si hanno fonti certe riguardo al coinvolgimento del re nella scelta della sua queen

mother, ma le fonti di Stoeltje riferiscono che nessuno dei due potrà essere coinvolto

nella deposizione dell’altro in caso di cattiva condotta.

Tale incarico spetta agli anziani che osserveranno attentamente il loro comportamento.

I due appartengono entrambi al lignaggio reale, ma difficilmente la relazione di

parentela che intercorre tra loro sarà del tipo madre-figlio.

Più frequentemente questi saranno fratello e sorella oppure zio/zia e nipote etc.

Il ruolo di madre nei confronti del re assume connotati politici in quanto la regina dovrà

avere cura di consigliarlo sulle questioni attinenti gli affari politici nelle aree di loro

competenza e su tutti gli affari che riguardano la sfera del sacro affinché non vengano

violati importanti tabù.

La queen mother è colei che detiene la memoria genealogica del lignaggio e che

conosce a fondo le norme della tradizione. Questa sua conoscenza, unita alla

saggezza che ci si aspetta provenire da qualunque madre, devono essere messe a

disposizione del re per consigliarlo, sostenerlo e proteggerlo. Un proverbio ashante

recita che “ il re succhia il seno alla regina” (Stoeltje, 1997: 58), ossia: il nutrimento del

re, sotto forma di saggezza proviene dalla sua queen mother.

Uno degli ambiti di azione più rilevanti per entrambi risiede nella gestione delle

controversie che possono sorgere all’interno della loro giurisdizione.

I casi di natura pubblica o le dispute che riguardano il possesso delle terre sono

prerogativa dei re in quanto tradizionalmente è stato uno dei suoi predecessori ad

assegnarle in forma più o meno permanente alla popolazione.

Le altre questioni possono essere portate all’attenzione di entrambi, ma generalmente

le liti che occorrono tra donne a livello domestico e non, o quelle che insorgono tra

moglie e marito, vengono presentate alle corti delle queen mother, nelle loro rispettive

residenze.

Le ͻhema e la Asantehemaa dispongono di un gruppo di portavoce denominati

Akyeame che fanno da tramite tra queste e chi viene ricevuto a colloquio.

Generalmente le regine madri sono assistite dagli anziani che le consigliano in merito

alle risoluzioni da adottare.

Il più delle volte colui che verrà ritenuto colpevole dovrà pagare una multa o eseguire

89

un rituale conciliatorio.

Ogni queen mother inoltre farà regolarmente visita alla famiglia del re e farà in modo di

mantenere la pace al suo interno.

Da una prima ricognizione intorno al significato simbolico del suo ruolo di madre e della

sua posizione come giudice, sembra uscire fuori l’immagine di una figura che, oltre ad

avere su di sè la responsabilità del re e del lignaggio, sia anche responsabile della

condotta delle donne e, più in generale, dell’equilibrio all’interno della sua area di

competenza.

Il loro ruolo in quanto capi e le loro corti sono riconosciuti a livello istituzionale e

tradizionale. La risoluzione delle controversie non avviene in modo informale, ma

all’interno di una corte vera e propria, poco importa se a livello di villaggio questa

coinciderà con il compound di residenza.

Le queen mother ashante, sono ritenute essere in diritto e dovere di esercitare la

propria competenza in materia di norme tradizionali, per mantenere l’equilibrio sociale

e il loro ruolo di giudici è istituzionalizzato nella corte.

Tra le sfere di azione in ambito rituale se ne possono citare due, come esempi di

intervento a livello di lignaggio e nei confronti delle donne della sua giurisdizione. Ogni

sei mesi re e regina devono svolgere un rituale di purificazione dei rispettivi seggi, ma

mentre la presenza del re non è richiesta durante la cerimonia dello seggio della sua

queen mother, quest’ultima dovrebbe partecipare alla purificazione di quello del re.

Il seggio, simboleggiando il potere regale, incorpora anche quello dei sui precedenti

detentori. Essendo la regina madre colei che possiede la memoria genealogica di tutto

il lignaggio, nonché madre dello stesso, ella si pone come tramite ideale tra il presente

e il passato assicurando la continuità del regno.

Per quanto riguarda le attività svolte nei confronti delle altre donne, ella è responsabile

dell’inserimento, in un apposito registro, di tutte le ragazze che raggiungono l’età della

pubertà.

Poiché sarebbe disdicevole per una ragazza, rimanere incinta prima che essa sia

dichiarata ufficialmente fertile, la queen mother deve assicurarsi che la giovane non sia

in stato interessante prima di effettuare la registrazione.

Al di là delle pratiche comuni, è interessante notare l’utilizzo della posizione di capo, da

90

parte di qualcuna, nello sviluppo economico e sociale delle donne in generale. Stoeltje

riporta l’esempio di Nana Ama Serwah Nyarko, Offinsahemaaa della divisione di

Offinso.

Questa al momento della sua installazione aveva trent’anni e ha chiesto consiglio a

membri del clero e insegnanti su come essa avrebbe potuto agire per promuovere il

benessere tra le donne.

Per acquistare la fiducia di queste ha reintrodotto il Dabone, un costume che era stato

abolito in seguito a pressioni della chiesa cattolica e che prevedeva l’assenza dai

campi per un giorno a settimana in segno di rispetto della madre terra Asase Yaa.

L’Offinsahemaaa ha istituito un incontro mensile con tutte le queen mother sotto la sua

giurisdizione e come membro attivo del movimento “31 Dicembre”34 le ha esortate ad

associarsi al gruppo. Visto che le regine madri sono tenute fuori dalle case regionali e

nazionali dei capi, la militanza in associazioni femminili ad ampio raggio potrebbero

costituire un momento formativo e di organizzazione mirati allo sviluppo e al

raggiungimento di un miglior tenore di vita.

Mijke Steegstra (Steegstra, 2009), nel suo lavoro sulle regine madri tra i patrilineari

krobo35, mostra come queste utilizzino l’associazionismo per rafforzare la loro influenza

in termini di azioni concrete e mirate.

Fino al XVIII secolo non c’è traccia, nell’area, di un’istituzione simile alla chieftaincy e le

responsabilità politiche, giudiziarie e religiose erano concentrate nelle mani dei

sacerdoti (djemeli).

Secondo Steegstra, l’adattamento al modello akan avvenne in concomitanza con

l’instabilità del XVIII secolo, che portò i capi della guerra ad assumere sempre più

rilievo. Steegstra non riferisce tuttavia di capi guerrieri che avessero assunto le prime

cariche di potere come regnanti. Egli propone che tra i cambiamenti che hanno portato

alla creazione di nuove strutture di governo tradizionale, ci siano l’espansione del 34 Il movimento delle donne 31 Dicembre è stato creato nel 1982 per volontà di Nana Konadu Agyeman Rawlings, moglie

dell’allora presidente del Ghana. La nascita del movimento si inserisce in un più ampio contesto di riforme volte a favorire il coinvolgimento della popolazione nei processi decisionali ed è mirato a favorire la creazione di progetti di sviluppo da parte delle donne. Le iniziative si rivolgono in particolar modo alle aree rurali e negli ultimi anni ha visto la partecipazione sempre più attiva di regine madri provenienti da tutto il Ghana. Cfr http://www.modernghana.com/news/329173/1/31st-december-womens-movement-marks-29th-anniversa.html

35 I krobo appartengono al gruppo linguistico Ga-Dagme e occupano le zone a sud-est del Ghana, vicino al lago Volta. Il governo coloniale ha diviso il loro territorio in due aree denominate rispettivamente Krobo Ilo e Krobo Manya. Situati tra gli ewe e gli akan, hanno preso questi ultimi come modello di riferimento per l’istituzione di un governo tradizionale, sotto forma di chieftaincy, a partire dal XVIII secolo.

91

mercato di olio da palma e i contatti sempre più frequenti con le popolazioni akan e con

quelle occidentali.

L’attuale organizzazione politica, a livello tradizionale, ricalca in tutto e per tutto quella

ashante. Per ognuna delle due aree tradizionali stabilite dal governo coloniale, Krobo

Ilo e Krobo Manya, c’è un capo denominato konor.

Ognuna di queste aree è composta da sei divisioni rette da un proprio capo e a loro

volta formate da unità minori composte da grandi gruppi di discendenza, ognuno dei

quali ha a capo il suo asafoatse, un ex capo militare.

L’introduzione della carica di regina madre (manye in dagme) non avvenne in

contemporanea con la creazione dei titoli maschili, si è trattò di un processo graduale

incominciato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

Ancora prima dell’istituzione del titolo di manye (lett. Madre), le fonti d’archivio

consultate da Steegstra36riportano notizie dalle quali si può dedurre che le sorelle dei re

godessero di un discreto grado di prestigio e influenza (Steegstra, 1999).

Tanto per fare un esempio: nel diario di un missionario che si trovava nell’area nel

1848 è scritto che la sorella di Odonkor Azu, primo konor riconosciuto dei manya krobo,

era stata inviata presso di lui in qualità di messaggero per informarsi sul perché costui

non si fosse recato in visita a casa del re.

Questa notizia, oltre a rendere conto della partecipazione delle sorelle reali alla vita del

regno, riferisce di un costume ampiamente diffuso tra gli akan e cioè la necessità che

qualunque straniero in visita presso le loro terre si rechi dal capo locale per presentarsi

e dichiarare il motivo della propria presenza.

Nel 1892 Emmanuel Mate Kole fu insediato come konor. L’istituzione della carica di

regina madre è dovuta alla sua volontà e pare essere legata a una più larga diffusione

delle cariche maschili a ogni livello dell’organizzazione politica krobo.

La prima regina madre risulta essere stata Giuliana Makutu Sakite, figlia del re

precedente e cugina di Mate Kole.

A quanto pare questa fu anche una delle prime bambine della famiglia reale ad aver

ricevuto una formazione scolastica presso la missione di Basilea.

36 Si tratta di rapporti e diari redatti dai missionari della confessione protestante di Basel che vanno dal 1857, data di fondazione della prima missione permanente nell’area, al 1917, anno in cui i missionari hanno abbandonato la Costa d’Oro.

92

Gli informatori di Steegstra riferiscono che alla morte di suo padre, Giuliana fu

chiamata dal governatore britannico per avere consigli sulla nomina del successore

(Steegstra, 2009: 110).

Questo aneddoto può essere letto come il risultato della familiarità, da parte delle

amministrazioni britanniche, con il modello akan, dove le queen mother sono

direttamente coinvolte nella selezione del futuro regnante, ma in quel periodo la carica

di manye non era ancora stata introdotta, né la scelta del nuovo capo è mai

determinata dall’intervento delle regine madri.

Potrebbe darsi che Giuliana godesse di una certa influenza e che, in essendo stata

istruita in una missione protestante, fosse vista come il ponte ideale tra il governo

coloniale e le locali strutture di potere.

La scelta ricadde su Emmanuel Mate Kole che era stato istruito assieme a lei.

Non è da escludere che la nascita del ruolo di regina madre sia stata condizionata

anche dai rapporti che legavano i due cugini e dalle capacità diplomatiche di

quest’ultima. Inoltre le autorità coloniali, avendo in qualche modo seguito l’usanza akan

per la selezione del nuovo re, potrebbero avere avuto una certa influenza nella

creazione del titolo di manye.

Nel 1939 fu scelto come erede al trono Fred Mate Kole e nel 1947, tre anni dopo la

morte di Giuliana Makutu Sakite, fu installata come regina madre Manye Maku Aplam,

una cugina di primo grado di Emmanuel Mate-Kole (Steegstra, 2009).

Il nuovo konor proseguì la campagne di riforme amministrative avviate dal suo

predecessore: cercò di collegare il ruolo delle regine madri alla promozione dello

sviluppo e, nel fare ciò, istituì la carica di Yewie uno manye (“regina madre delle

giovani donne”).

Pur non essendo legittimata da un proprio seggio e non avendo posto nel consiglio di

stato, la Yewie uno manye ricopre un ruolo di primaria importanza in quanto

responsabile della promozione di attività mirate alla crescita delle attività economiche

delle giovani.

Durante il regno di Fred Mate Kole il numero di regine madri aumentò considere-

volmente e oggi ogni capo fa in modo di avere la propria manye al suo fianco.

Si è detto che il governo tradizionale krobo ha preso le mosse dalla chieftaincy akan, in

93

particolar modo ricalcando il modello ashante. Tuttavia vi sono differenze fondamentali

tra le queen mother di questi ultimi e la carica di manye.

A livello simbolico troviamo che il seggio di queste ultime ha un valore puramente

onorifico, ma non è consacrato al legame con gli antenati come è invece per tutte le

queen mother akan e per i re krobo.

E’ solo attraverso la cerimonia di installazione che il loro ruolo viene legittimato, ma il

loro potere non si lega a quello degli antenati nonostante la loro appartenenza al

lignaggio reale.

Questo fatto potrebbe essere associato al sistema della discendenza patrilineare,

all’interno del quale il potere femminile non può essere trasmesso direttamente Tuttavia

tra i matrilineari ashanti abbiamo visto che entrambi i seggi sono connessi al potere

degli antenati.

La spiegazione, a parere di chi scrive, va cercata nella modernità stessa della carica di

manye, collegata fin dalla sua nascita con la nozione di sviluppo femminile. Non c’era

alcun bisogno che le regine madri trovassero legittimità attraverso la connessione con

le precedenti regine. Inoltre collegare la manye al potere ancestrale avrebbe posto le

regine madri allo stesso livello dei capi, minandone potenzialmente l’autorità.

Si noti che, sebbene attualmente la quasi totalità delle regine madri più giovani ha

ricevuto un’adeguata istruzione, esistono ancora diversi capi anziani che preferiscono

sostenere una donna analfabeta e manipolabile rispetto a una donna di “moderna”

generazione che, preparata e consapevole, potrebbe oscurarne l’immagine (Steegstra,

2009).

Una seconda importante divergenza è data dal fatto che, come accennato, la manya

non ha voce in capitolo nella selezione del futuro capo, cosa che rientra tra le principali

prerogative delle regine madri akan.

Sono gli anziani, con il sostegno del re, a determinare la successione e la manya non

ha il diritto di trasmettere il potere. Anche in questo caso non è semplice stabilire un

confine tra le influenze del sistema di discendenza nella reinvenzione del modello e le

esigenze alle quali questo modello corrisponde.

Stando a quanto riferito da Stoeltje per gli ashante, tra questi ultimi non si può

affermare con certezza l’esclusione dei re dalla selezione della futura regina (Stoeltje,

94

1997).

Tra i matrilineari nzema (popolazione akan molto vicina a quella ashante), il capo,

almeno a livello formale, non ha alcuna influenza nel determinare la nuova regina e lo

stesso discorso è valido per gli akan di Akuropon, a sud est del Ghana (Gilbert, 1993).

Il fatto che il sistema di discendenza sia matrilineare è solo uno dei motivi che

determina la posizione della regina madre nella selezione del nuovo re.

Essa è la persona che conserva la memoria della genealogia del lignaggio ed è in virtù

di questa sua conoscenza che il nuovo re potrà legittimamente essere insediato.

La modernità dei sistemi di governo tradizionale krobo non rendeva necessaria la

conoscenza di genealogie tanto recenti formatesi in un periodo in cui la scrittura e

l’archiviazione dei dati erano diffuse da tempo. Senza contare inoltre che mettere nelle

mani delle donne un potere di questo tipo avrebbe potuto ancora una volta minare

l’influenza dei capi. L’altro scarto notevole è dato dalla risoluzione delle controversie.

Mentre tra gli ashanti uno dei compiti principali risiede appunto nella risoluzione dei

conflitti, tra i krobo questo compito pare essere marginale, poiché generalmente le

donne sono dette risolvere i loro problemi in modo autonomo, magari ricorrendo

all’aiuto degli anziani del proprio lignaggio.

Al di là di queste variazioni quello che appare essere degno di nota è che l’introduzione

di un governo tradizionale mutuato da una popolazione vicina è stata dettata dalle

spinte verso la modernizzazione.

Le nascenti cariche di regine madri sono state collegate alle idee di sviluppo e

partecipazione portate avanti da soggetti politici che avevano avuto larga parte nella

lotta all’emancipazione del paese dal retaggio coloniale.

I movimenti per la mobilitazione femminile, come abbiamo visto nel caso

dell’Offinsahemaa, fungono anche da strumento di raccordo per le politiche di sviluppo

da parte delle regine madri, ma si tratta di situazioni che non sono attecchite in

profondità, non fosse altro che per le difficoltà a sostenere economicamente le spese

degli spostamenti.

Tra le regine madri krobo, il cui ruolo si è sviluppato in un contesto di spinte

modernizzatrici, la tendenza a lavorare insieme in una prospettiva di sviluppo femminile

si è sviluppata in parallelo all’aumento delle donne che detnevano il titolo

95

Intorno agli anni 60, il CPP37 aveva creato i comitati di sviluppo cittadini nei quali erano

coinvolte molte di loro, già durante il periodo in cui la regina madre dei manya krobo

era Manye Maku Aplam.

Il dato di maggiore interesse in questo senso è la creazione ad opera di Manye Mamle

Okleyo, dell’associazione delle “queen mother krobo” (MKQMA), inaugurata

ufficialmente nel 1998.

Manye Mamle Okleyo era stata insediata nel 1983 e durante i sette anni di interregno,

trascorsi tra Konor Azu Mate-Kole e Sakite II, aveva governato il territorio manya krobo

come se fosse stata un konor.

Durante gli anni della sua attività, sono state insediate molte regine madri, ma il segno

più grande del suo lavoro consiste appunto nella promozione di azioni collettive mirate

allo sviluppo.

L’ MKQMA, oggi registrata come ong, tiene incontri mensili a Koforidua, capitale della

regione occidentale krobo. Tra i suoi membri (370 al momento della ricerca di

Steegstra) ci sono anche le regine madri del mercato.

Questa cosa ha attirato alcune critiche, soprattutto da parte dei membri più anziani

della società, manya e non, che sostengono che le donne del mercato non hanno il

proprio seggio e non possono quindi essere coinvolte nelle attività delle regine madri.

In questo caso il seggio acquisisce importanza e viene posto come discriminante

nonostante il suo valore sia fondamentalmente rappresentativo.

I rapporti tra chi detiene il titolo e le donne dei mercati, nonché il ruolo di queste

all’interno dell’associazione meriterebbero sicuramente un’analisi più approfondita.

E’ comunque interessante notare che, mentre tra gli ashante era stata un’ͻhemma (una

delle cariche di livello più elevato) a contestare i titoli delle market queen, in quanto non

riconoscibili dalla tradizione, tra i krobo queste sono entrate a far parte del più ampio

gruppo di regine madri associate per volontà della sua fondatrice nonché regina di

un’intera regione tradizionale.

All’interno dell’associazione, queste donne uniscono le loro forze e organizzano forme 37 Il CPP (Partito della Convenzione dei Popoli) nasce nel 1949 durante la lotta per l'indipendenza del (1956). Il suo

fondatore fu il primo presidente Osagye Dr. Kwame Nkrumah. E 'stato il primo partito a governare il Ghana dopo l'indipendenza. Il CPP si è posto come un veicolo di emancipazione della nazione e di tutta l'Africa. L’immagine che lancia è quella di un partito di massa che abbraccia contadini, pescatori e agricoltori e si rivolge tutti gli strati sociali della popolazione.

Per saperne di più cfr: http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/republic/cpp.php

96

di microimpresa e solidarietà.

Una delle attività perseguite con maggior abnegazione riguarda l’assistenza dei

bambini che hanno perso i genitori a causa dell’AIDS/HIV.

Attraverso l’autofinanziamento (raccolta fondi, ma anche produzione e vendita di monili

e saponi artigianali) hanno creato un fondo destinato a sovvenzionare le famiglie che

accetteranno di prendere gli orfani in affidamento.

In questo modo i bambini non subiscono ulteriori stigmatizzazioni che deriverebbero

dal loro isolamento in un orfanotrofio e le famiglie che decidono di partecipare al

progetto sono supportate economicamente.

Un altro ambito di intervento riguarda la promozione dell’educazione femminile. Uno

dei membri più attivi nel gruppo ha riferito a Steegstra che il loro motto consiste nel

detto: “se educare un uomo vuol dire educare un individuo, educare una donna vuol

dire educare una nazione” (Steegstra, 2009: 115).

Gran parte dei membri dell’associazione hanno un discreto grado di istruzione e sono

piuttosto benestanti.

Molte tra loro esercitano pressioni per favorire l’ingresso delle donne nelle case

regionali e nazionali dei capi e poter partecipare attivamente ai processi decisionali, ma

per il momento non paiono esserci aperture in questo senso.

Le regine madri, che per ragioni economiche non sono in grado di affrontare gli

spostamenti previsti per le riunioni mensili, si organizzano a livello locale attraverso reti

di solidarietà e raccolte fondi che avvengono per lo più durante i funerali, una delle rare

occasioni di ritrovo con le loro “colleghe” più o meno vicine.

I krobo si sono impossessati del modello tradizionale akan, piegandolo alle loro

esigenze; questo è avvenuto in seguito alle esigenze poste da contingenze

contemporanee ed è stato sempre sulla scia di rapidi cambiamenti che il ruolo della

manye si è potuto configurare come direttamente collegato alle esigenze reali della

popolazione.

Questo è stato possibile solo grazie alla presenza di politiche nazionali che si

muovevano in una certa direzione ma, mentre tra gli akan la commistione tra tradizione

e modernità pare essere ancora un’eccezione, tra i krobo sta diventando la norma.

Non stupisce quindi che la presenza delle regine del mercato sia stata accolta di buon

97

grado da molte regine madri; il loro ruolo è stato legato quasi fin dalla nascita alla

nozione di sviluppo, di conseguenza persone avvezze alle attività economiche non

possono che essere le benvenute in un’associazione che si propone di favorire il

raggiungimento del benessere femminile attraverso microattività generatrici di reddito.

Per concludere si può dire che l’adozione della chieftaincy da parte dei krobo è stata

una scelta operata da uomini che hanno rimodellato la base akan a seconda delle

proprie esigenze.

Nello stesso tempo le loro regine madri stanno creativamente cercando di ritagliarsi

spazi di azione attraverso canali più aperti ad ascoltare le loro proposte in quanto

rappresentanti dei bisogni femminili.

Se le cariche maschili sembrano essere rivolte più allo spazio chiuso della propria

personale area di influenza, le regine madri krobo, e in una certa misura anche quelle

ashanti, paiono avere una visione più ampia che miri allo sviluppo e al miglioramento

della condizione della donna a livello nazionale.

Capitolo IVIl ruolo dei musei africani nei processi di sviluppo locale:l’esempio del

Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History:

Finora è stato effettuato un excursus etnografico sul modo in cui, in diverse aree e in

diversi periodi storici, le donne hanno esercitato ed esercitano forme di potere e

autodeterminazione.

In molti casi esse sono depositarie di saperi fondamentali al mantenimento

dell’equilibrio sociale e che, in quanto tali, andrebbero tutelati e valorizzati. Si è potuto

osservare che anche in assenza di ruoli tradizionalmente accreditati, le donne hanno

saputo cogliere le opportunità contingenti al fine di migliorare la propria condizione.

Quello che mi propongo di fare in questo capitolo, attraverso la descrizione di un

museo sorto recentemente in area nzema, è proporre l’applicabilità del concetto di

patrimonio come fattore di sviluppo al contesto africano.

Le proposte di sviluppo locale, in Africa, dovrebbero tenere in grande considerazione la

posizione della donna, la quale è spesso il centro di gran parte delle attività

98

economiche nelle aree rurali, ma nonostante questo viene spesso lasciata al margine

delle concrete politiche decisionali.

Il loro potenziale andrebbe quindi promosso sia attraverso la tutela e valorizzazione dei

saperi di cui sono depositarie, sia favorendo la loro partecipazione, anche a livello

associato ad attività mirate al rafforzamento della loro condizione.

Attraverso la mia esperienza di campo, mi propongo di sollevare questioni in merito

all’effettiva parte che le regine madri nzema potrebbero svolgere nel loro territorio in

questo senso.

Inoltre tenterò di avanzare alcune proposte di percorsi volti al rafforzamento femminile

nell’area. Infine abbozzerò un’ipotesi d’installazione sulle regine madri nzema che parta

dalla mia indagine e che sia in linea con l’impostazione generale del Fort Apollonia

Museum of Nzema Culture and History.

1 Musei e sviluppo1.1 Quadro generaleIl termine sviluppo entra a far parte dello statuto dell’ICOM (International Council of

Museums) nel 1971, nel corso di un dibattito tutt’ora in atto che metteva in discussione

l’istituzione museale in un tentativo di ridefinizione della sua funzione e legittimazione

sociali.

Nel corso di quegli anni si incominciò a parlare di eco-musei tratteggiandoli, in linea di

massima, come una tipologia di musei volti a promuovere la conoscenza dell’ambiente

da parte del pubblico, sensibilizzandolo nei suoi confronti e spronandolo alla sua

difesa.

Si tratta di una realtà che ha assunto forme estremamente diverse, non solo da paese

a paese, ma da realtà a realtà e che è stata recentemente inquadrata come pratica

partecipata di valorizzazione del patrimonio culturale

L’eco-museo assume quindi un valore diverso da quello assegnato al museo inteso

come istituto di cultura e sostituisce il concetto di collezione permanente con quello di

patrimonio comunitario e collettivo, dove il patrimonio è inteso come l’attività congiunta

e creativa dell’uomo e della natura (De Varine, 2005) e come eredità di conoscenze e

valori che, agito nel presente e a partire dallo stesso, può assumere senso e

99

configurarsi come fondamentale fattore di sviluppo (Jalla in De Varine, 2005).

Non esiste una regola fissa per questo tipo di esperienza; piuttosto il concetto di eco-

museo si è allargato fino a raccogliere più idee tra loro complementari.

Tra queste troviamo la centralità dell’intero patrimonio di una comunità o di un territorio

rispetto a qualsivoglia collezione; il fatto che l’ambito di azione si estenda all’intero

territorio; l’autonomia decisionale della comunità in merito ai propri ambiti di

partecipazione; la vocazione educativa della pratica eco-museale e l’idea che la

conservazione e la valorizzazione siano mezzi di promozione piuttosto che fini o

funzioni (De Varines, 2005).

Questa pratica è andata ad integrare quegli approcci alla gestione dei patrimoni locali

che trovano la loro espressione nei musei di sito (o centri di interpretazione), in quelli

comunitari e in quelli del territorio.

Ognuna di queste tre espressioni fa riferimento a pratiche e tipologie specifiche.

I centri di interpretazione possono avere o meno una collezione; la loro finalità consiste

nel valorizzare un tema o un contesto specifici. Il patrimonio si trova all’esterno della

struttura che è finalizzata, attraverso il suo commento, a preparare il visitatore. Esso è

quindi un punto di partenza o di ritorno rispetto a un incontro che ha luogo sul territorio

che lo ospita.

Il museo del territorio può essere considerato come un’applicazione più ampia del

centro di interpretazione, con la differenza che mentre quest’ultimo è di carattere

prevalentemente tematico, il primo ha come obiettivo la valorizzazione del territorio

nella sua globalità. Anche in questo caso il museo si pone come tramite, e strumento di

interpretazione di quanto è all’esterno. Le popolazioni presenti sul territorio non

partecipano alla sua realizzazione, ma il museo dovrebbe farvi costantemente

riferimento integrandole in tutte le sue fasi di crescita e in una prospettiva di sviluppo.

(De Varines, 2005)

Si noti che non necessariamente esiste identità tra un territorio e le sue comunità e che

un museo del territorio non è in sé per sé un museo di comunità.

Il museo comunitario infatti non parte dal territorio, ma nasce per volontà di una

comunità che opera delle scelte soggettive ed esprime se stessa.

Museo comunitario e patrimonio tendono a coincidere e sono espressione

100

dell’orizzonte di senso, selezionato da una specifica comunità che si guarda dentro in

un momento specifico. Poiché nasce nel presente ed esprime valori contingenti,

soggetti a mutamenti, il museo comunitario è soggetto a trasformazioni o finanche alla

propria dissoluzione.

Le realtà brevemente passate in rassegna possono essere accomunate tra loro da due

caratteristiche. Innanzitutto l’idea di patrimonio cui fanno riferimento prende le distanze

dalla concezione istituzionalizzata che ha come fulcro l’eccezionalità dei beni (culturali

e ambientali) la cui fruizione e tutela sono regolamentate e finalizzate al turismo di

massa.

Per contro, il patrimonio concepito come bene comune che vive nel presente, deve

essere promosso ai fini dello sviluppo ( De Varines, 2005).

In quest’ottica i responsabili primi della gestione e salvaguardia del patrimonio sono

coloro che lo mantengono in vita e per i quali esso costituisce il retaggio culturale di

riferimento.

A queste due opposte tendenze ne corrispondono altre due, ossia quella di direzionare

le attività di promozione e tutela per beneficiare dei flussi turistici e quella che invece,

concentrandosi sulla comunità, la pone al centro delle politiche da intraprendersi.38

Un’altra distinzione, di tipo interno, si rende necessaria per quelle realtà che operano a

livello locale. Esistono due tipi di tendenze: una riguarda le istituzioni che si rivolgono al

passato e che ruotano intorno a collezioni di oggetti morti; mentre l’altra riguarda quelle

che si focalizzano sulla partecipazione della comunità come agente di un patrimonio

vivo e attivo.

L’attuale panorama museale è caratterizzato dall’invecchiamento di molte strutture e

dalla costante diminuzione di finanziamenti. Mentre per quanto riguarda i siti di una

certa rilevanza, i flussi turistici giustificano l’intervento di fondi pubblici e privati, per

quanto riguarda i musei locali la situazione è differente.

Nel periodo successivo alla II guerra mondiale, i rapidi processi di urbanizzazione e

globalizzazione hanno provocato, soprattutto nelle nascenti classi medie europee, una

sensazione di spaesamento.

Come conseguenza, queste si sono rivolte al passato alla ricerca di un orizzonte di

38 De Varines, intervento tenutosi a Pontebernardo(CU)il 22 maggio 2011

101

senso che stava venendo a mancare.

In Italia, tanto per fare un esempio, negli anni '60 iniziò una diffusa campagna di

raccolta di oggetti legati al mondo contadino in via di dissoluzione sotto la crescente

urbanizzazione in atto.

Tale fenomeno è stato letto come l'effetto di un sentimento nostalgico, prodottosi

dall'allontanamento di condizioni preesistenti, in concomitanza con il mancato

raggiungimento di situazioni immaginate come nettamente migliori (Cirese, 2002).

A livello europeo, a cavallo tra gli anni 60 e 70, si è assistito a un proliferare di musei.

Questa tendenza si è amplificata nel ventennio successivo, sotto la speranza di una

rapida crescita economica legata allo sviluppo del turismo di massa.

La realizzazione di strutture che, a vario titolo, si caratterizzavano per la loro vocazione

locale, trovava la propria giustificazione nei discorsi sul patrimonio come collante

sociale e come strumento identitario di preservazione della memoria delle comunità.

Pur non sminuendo il valore del patrimonio come eredità di conoscenze e valori in cui

una comunità si rispecchia, occorre fare attenzione a non cadere in una retorica

identitaria astratta, a-storica e a-critica che appiattisca le diversità insite in ogni

collettività. Senza entrare nel merito del dibattito intorno alle questioni sulla costruzione

dell’identità e sulla sua potenziale strumentalizzazione politica, bisogna comunque

ricordare che qualsivoglia collettività è composta da elementi differenti i cui interessi e

le cui esigenze non sempre coincidono e che anzi spesso entrano in conflitto tra loro.

Di conseguenza, qualsivoglia iniziativa in ambito locale non può prescindere da queste

relazioni conflittuali e deve tenere conto di tutti gli attori, politici e sociali, che

potrebbero concorrere alla stessa.

Il panorama attuale è caratterizzato da un molteplicità di realtà museali, ormai slegate

dal contesto nel quale si erano prodotte e che non hanno gli strumenti (o la volontà) di

raccogliere gli imput che giungono dalla modernità.

Essi non sono cioè nelle condizioni di esprimere la conflittualità e il mutamento né

tantomeno di creare connessioni sociali. Rischiano di trasformarsi in realtà asettiche,

prive di una connessione con il tessuto vivo della società, perdendo il loro potenziale

attrattivo e non ultima la loro già debole sostenibilità economica.

La tendenza ad accordare finanziamenti a istituti e siti prestigiosi e rilevanti va a

102

scapito delle realtà che operano a livello locale e che vanno quindi necessariamente

ripensate.

Il punto fondamentale, emerso già negli anni 70 e richiamato da De Varines (De

Varines, 2005), riguarda la necessità di legare il concetto di patrimonio a quello di

sviluppo locale inteso come miglioramento sostenibile della vita della comunità.

Il patrimonio non costituisce solo il retaggio materiale e immateriale del passato, ma

anche e soprattutto la cultura viva; esso va quindi considerato come ponte con il futuro.

Così come, ogni processo che abbia come oggetto lo sviluppo locale deve tenere conto

del patrimonio, quest’ultimo acquisisce senso solo se preso come riferimento costante

di ogni processo di sviluppo locale ( De Varines, 2005).

Conseguentemente, è in una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita che la

valorizzazione del patrimonio acquisisce senso, ed è solo a partire da questo che i

cambiamenti connessi ad ogni piano di crescita possono essere ammortizzati dalle

comunità senza causare eccessivi traumi.

I musei locali, in quanto espressione diretta del patrimonio, sono responsabili del

territorio e del coinvolgimento di tutte le parti politiche e sociali che detengono il

patrimonio stesso mantenendolo in vita.

Compito di tali istituzioni è quindi quello di adeguarsi alle esigenze reali dell’uomo

moderno integrandosi alla comunità. Dovrebbero essere strumenti flessibili, centrati

sulla comunità ed avere come scopo principale quello di servire l’essere umano, sia

accompagnandolo durante le fasi di cambiamento, sia aiutandolo a ripensare e

ridefinire se stesso in armonia con il proprio contesto ambientale e con il proprio

universo culturale.

Queste tendenze, opportunamente rimodellate, potrebbero giocare un ruolo non

indifferente in un contesto sottoposto a rapidi e traumatici come quello africano.

La stessa idea di museo nasce in Africa ad opera degli occidentali.

Se questa istituzione è in fase agonizzante presso le popolazioni che l’hanno prodotta,

essa necessita di ripensamenti ancora più urgenti presso popolazioni ai quali è stato

imposta e che non ne hanno mai tratto alcun tipo di vantaggio.

1.2 L’istituzione museale Africa

103

Quando si parla di processi di patrimonializzazione e, nello specifico, di musei africani

non si può prescindere dal discorso coloniale.

Sia che si tratti di contesti occidentali, sia che si faccia riferimento al continente

africano, i musei e le collezioni africane sono nate come istituzioni coloniali pensate per

un pubblico europeo.

Le prime raccolte etnografiche allestite in ambito occidentale si costituivano come

laboratori di rappresentazione dell’alterità, frutto di viaggi di missionari, commercianti e

avventurieri. Gli oggetti esposti venivano presentati in una dimensione cristallizzata e

a-storica, frutto di un paradigma evoluzionista che, decontestualizzandoli dal loro

territorio di provenienza e sottraendogli la loro funzione, li relegava a espressioni d'arte

primitiva.

Questo tipo di impostazione trovava la sua ragione d'essere nella ricerca di consenso

alle missioni coloniali, che venivano quindi ritenute necessarie per la “missione

civilizzatrice” di popolazioni presentate come ferme a uno stadio evolutivo inferiore

rispetto ai più moderni popoli occidentali.

Tale approccio, presente anche laddove gli intenti non erano spiccatamente

propagandistici, contribuì alla costruzione di un immaginario permeato da una forte

tensione esotizzante che escludeva ogni problematizzazione di tipo,storico politico e

sociale.

Si diffuse una sorta di mania nei confronti degli oggetti di produzione africana concepiti,

è bene ricordarlo, come oggetti d'arte primitiva, senza che però a tale fascinazione

corrispondesse alcuna volontà conoscitiva nei confronti delle civiltà che li avevano

prodotti.

Nel mutato panorama odierno, con la presa di coscienza della necessità di instaurare

un dialogo con la massiccia presenza di popolazioni immigrate dalle ex colonie, e con

la presa di distanza dalla prospettiva evoluzionista, il ripensamento dell'esperienza

museografica, sopra delineata, si va traducendo in diverse tendenze.

Ai due estremi si collocano da un lato la scelta di ignorare le esigenze di rinnovamento

degli impianti allestitivi e dall'altro quella di restituire alle popolazioni di origine le

collezioni di cui ci si era indebitamente appropriati.

Altrove si lavora in direzione della creazione di allestimenti temporanei che,

104

risemantizzando di volta in volta gli oggetti in contesti differenti, consentono il

superamento di una visione straniata e a-storica, reincorporandoli in discorsi dotati di

senso ed inquadrabili entro specifiche coordinate.

Non mancano in questo panorama scelte che muovono verso una ridefinizione degli

interi apparati espositivi.

Un'altra interessante tendenza punta infine al coinvolgimento delle comunità presenti

sul proprio territorio nella riorganizzazione e riallestimento delle proprie collezioni

(Pennacini in Remotti, 2000).

Per quanto riguarda le colonie, i governi si dotarono immediatamente di tre strumenti

atti a esprimere il nuovo stato di cose: l'archivio, le carte geografiche ed il Museo.

Le implicazioni di questo procedimento sono molteplici; la creazione di archivi, in una

cultura dell'oralità, imponendo un nuovo modo per fissare il passato, crea squilibri non

indifferenti non solo perché spesso impone logiche estranee attraverso uno strumento

parimenti estraneo, ma anche perché con la delegittimazione degli strumenti di

trasmissione dei saperi, si delegittimavano anche i contenuti da essi veicolati.

Inoltre, sulle carte topografiche è del tutto assente la toponomastica locale.

Quello che si viene a creare è l'imposizione di un nuovo ordine che, anche attraverso il

concetto di etnia, istituisce categorizzazioni, crea gerarchie e rapporti sociali, costruisce

nuovi immaginari attraverso la sostituzione dei simboli.

“Questo è un po’ il contesto: l’estirpazione dello spazio e del tempo attraverso cui

l’autopercezione collettiva dei popoli veniva sostituita dalle rappresentazioni del

colonizzatore. E quindi il museo, così come ha vissuto e vive in Africa, è una

gigantesca operazione da riferire a quella corrente filosofica che possiamo definire

etnofilosofia” (Touadi, in Cristofano, Palazzetti, 2011: 172).

I Musei coloniali in Africa, pensati non per le popolazioni locali, ma per gli europei che

vivevano nelle città, diventano espressione di un nuovo ordine costruito, ancora una

volta, senza alcuna attenzione ai processi e alle dinamiche conflittuali che lo avevano

determinato.

Intorno gli anni 50, ha luogo una sorta di operazione di “archeologia del sapere” da

parte di missionari e studiosi. Questi incominciano ad interessarsi allo studio degli

oggetti prodotti in terra africana, con la pretesa di restituire alle popolazioni locali il

105

passato che precedentemente avevano estirpato.

Ma il criterio che informa queste forme di rappresentazioni continua ad essere un

criterio di stampo occidentale e dà luogo, ancora una volta, a istituzioni lontane dal

vissuto collettivo.

I musei continuavano a vivere in una torre d’avorio, privi di ogni rapporto con i luoghi di

produzione e riproduzione del senso legato agli oggetti esposti, i quali perdevano

logicamente ogni interesse agli occhi delle popolazioni locali.

L’oggetto diventava “altro” non solo per il processo di de-funzionalizzazione e

musealizzazione cui era sottoposto, ma soprattutto in virtù del fatto che “altri” erano

coloro i quali gli attribuivano un certo significato (Touadi, in Cristofano, Palazzetti,

2011).

Negli anni che seguirono le indipendenze nazionali, la tendenza è stata quella di una

problematica riappropriazione della memoria storica da parte delle nascenti istituzioni

governative.

Spesso l'impostazione ha teso a prescindere dalle contaminazioni dinamiche con il

quotidiano, concentrando il focus su una costruzione identitaria basata su

anacronistiche condizioni precoloniali. Altre volte si dà il caso che i musei non

subiscano sostanziali revisioni rispetto al periodo in cui vennero realizzati, mantenendo

fondamentalmente un’impostazione di stampo coloniale.

Quello che permane è un modo di leggere il passato (e di rappresentarlo) secondo

un’impostazione di stampo occidentale, a volte ancora intrisa di letture coloniali.

Si tratta di realtà in cui mancano sia la dialettica tra il recupero del passato e il presente

sia una visione complessa e articolata di una realtà in trasformazione.

Questo non meraviglia più di tanto, in quanto il museo africano, come ricordato, nasce

sotto una certa concezione e tale concezione viene trasmessa a coloro i quali si erano

trasferiti nelle città e avevano ricevuto un formazione di stampo occidentale.

Nel panorama attuale, la trasmissione orale della cultura sta perdendo smalto sotto le

spinte globalizzanti della modernizzazione e della scolarizzazione e non è più

sufficiente ad assicurare la riproduzione e la sopravvivenza di determinati saperi.

In siffatto contesto, costumi e credenze rischiano di venire travolti senza che ci sia il

tempo per elaborare altri orizzonti di senso.

106

Alla luce di queste considerazioni, il ripensamento del ruolo dei musei nei territori

africani è di vitale importanza.

L'impostazione museale di stampo coloniale investe di sé le politiche dei musei

nazionali, attraverso una rappresentazione che non tiene conto delle esigenze reali di

coloro i quali vivono e vivificano il proprio patrimonio.

E’ significativo che, sebbene l’occidentalizzazione del pensiero sia entrata a far parte

dei sistemi di rappresentazione del passato, queste culture continuino ad essere

radicate nell’oralità.

L’heritage, il custom, il patrimonio, sono da inquadrarsi come un qualcosa che, ricevuto

in dono dagli antenati, ha sempre a che vedere con le sue ricadute sul quotidiano.

La prima cosa da tenere presente è che il rapporto con la tradizione e il rispetto per la

stessa si legano direttamente al rapporto con e al rispetto per gli antenati (e con gli

spiriti).

Le storie locali, i miti di fondazione o le pratiche di medicina tradizionale, tanto per fare

qualche esempio, ben lungi dall’essere reminiscenze di un lontano passato, agiscono

nelle pratiche in modo diretto.

Quello che qui è considerato heritage, è qualcosa di attivo che incide sulla vita delle

comunità ed è qualcosa che va tutelato in quanto parte attiva delle culture africane.

La concezione occidentale-istituzionale di tutela non è applicabile a un terreno di

questo genere. L’idea di valorizzazione e promozione a livello locale dei saperi e delle

pratiche, dovrebbe favorire le condizioni che ne consentano la roproduzione e creare

un terreno a partire dal quale i processi di cambiamento siano guidati dalla popolazione

in modo consapevole.

Come si è già accennato sopra, le rapide trasformazioni in atto stanno seriamente

compromettendo tutto questo insieme di pratiche e conoscenze, e il rischio di una loro

rapida scomparsa, che lascerebbe il vuoto, va arginato attraverso delle strategie mirate

ed elaborate di volta in volta a seconda dei contesti.

I patrimoni africani mantengono la loro vitalità ed incidenza nel quotidiano e

qualsivoglia operazione di salvaguardia e tutela non va inquadrata in un'ottica di

"salvataggio" (raccogliere e censire prima che scompaiano del tutto), quanto piuttosto

in una dimensione progettuale che miri al loro rilancio soprattutto tra i giovani.

107

L'approccio storiografico andrebbe messo in dialogo con le storie locali tramandate

oralmente, e queste ultime dovrebbero essere registrate ed archiviate affinché non se

ne perda memoria nelle nuove generazioni scolarizzate e cresciute in una cultura della

scrittura.

In questo senso i musei del locale, in una versione ibrida e concepiti come centri di

cultura aperti sulle attività circostanti, potrebbero svolgere un ruolo di una certa

rilevanza.

Tali strutture dovrebbero puntare su una stretta collaborazione con le comunità locali

che intendono salvaguardare e promuovere, tenendo conto delle trasformazioni e delle

contaminazioni in atto, anche in funzione di uno sviluppo sostenibile, che miri alla

gestione comunitaria delle potenzialità insite nel territorio e nelle pratiche locali.

Si vuole a questo proposito rendere conto di un’esperienza che potrebbe essere

definita come un buon esempio di pratica museale, verificatasi presso gli nzema del

Ghana.

2 Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and HistoryNel 2010 ho trascorso tre mesi e mezzo in territorio nzema, con lo scopo di partecipare

alla realizzazione di un museo, il cui studio progettuale era stato avviato anni addietro.

Durante questo periodo mi sono potuta confrontare con le problematiche di tipo

sociale, politico, e materiale che stanno dietro a una proposta di così ampio respiro

come la realizzazione di un museo locale pensato come centro per lo sviluppo.

Tale complessità non può essere trasmessa solamente dalla narrazione del percorso

espografico e dalle poetiche che soggiacciono l’allestimento.

Si rende pertanto necessario raccontarne i propositi e dare un nome a tutte le istituzioni

che hanno cooperato assieme.

Vanno sottolineate le possibilità di sviluppo e le aperture sul territorio e per rendere

comprensibili le iniziative auspicate nel progetto occorre dare un’idea del contesto nel

quale questo è nato e si è sviluppato.

Nel corso di questo paragrafo, si procederà a fornire tutte le indicazioni necessarie alla

comunicazione dell’esperienza che ha portato alla nascita del Fort Apollonia Museum

of Nzema Culture and History.

108

Si fornirànno pertanto indicazioni intorno alla popolazione nzema e in merito alla storia

del forte che ha accolto il Museo.

Si procederà poi alla descrizione del progetto e alla descrizione del museo. Infine si

renderà conto della mia esperienza di campo che vuole aprire un’ulteriore prospettiva

di ricerca, sempre nell’ottica del rafforzamento femminile per il tramite dei processi di

patrimonializzazione.

2.1 Presentazione degli Nzema: quadro economico e sociopoliticoDurante il periodo della dominazione coloniale, la zona era nota col nome Apollonia o

Amanhea. L'area, da un punto di vista amministrativo, consta di tre unità: Jomoro

District con capoluogo Half Assini, l'Ellembelle District con capuologo Nkroful e infine lo

Nzema East Municipality, con capoluogo Axim, che include i territori evaloe ad ovest

del fiume Ankobra.

Lo Jomoro coincide con la Western Nzema Traditional Area, antico regno precoloniale

la cui capitale è Beyin, mentre L'Ellembelle District coincide con l’antico Eastern Nzema

la cui capitale tradizionale è Atuabo.

Queste due aree sono frutto di una divisione avvenuta nel 1851 dopo l’uccisione, ad

opera degli Inglesi di Kaku Aka, ultimo re unitario.

La regione Nzema propriamente detta è delimitata ad est dal basso corso del fiume

Ankroba mentre a ovest il confine geografico è segnato dal basso corso del fiume Tano

e dal sistema lagunare che separa il Ghana dalla Costa D' Avorio.

A sud confina direttamente con l'Oceano Atlantico, mentre a nord confina con le aree

Wassa e Aowin. La costa, con un'estensione di oltre 90 km, si caratterizza per la

presenza di dune e lagune retro-costiere, mentre all'interno l'Ankasa River Forest

reserve costituisce l'ultimo residuo di foresta pluviale dell'area.

Il clima è essenzialmente umido, la temperatura è mite con escursione termica

irrilevante.

Le popolazioni locali distinguono tre stagioni prinipali: wawa (stagione secca, da

dicembre a aprile-maggio), fɔsϵlϵ (stagione delle grandi piogge, da maggio a luglio) e

bokile (stagione delle piccole piogge da agosto a novembre).

Gli nzema appartengono al gruppo akan e sono stanziati prevalentemente nell'area del

109

Ghana sopra delineata.

Vi sono tuttavia consistenti enclaves di Nzema che risiedono stabilmente in Costa

D'Avorio, in una serie di villaggi collocati nella parte settentrionale della laguna di Ehy,

e che dipendono dal seggio di Kyapum.

La loro lingua, lo Nzema anye, è classificata tra le lingue Volta-Comoë ed è più

prossima a quelle del sottogruppo Proto-Bia (Anyi), che a quelle del sottogruppo Proto-

Tano (Grottanelli, 1977).

Le principali risorse economiche sono la pesca (praticata negli ambienti marini,

lagunari e fluviali) e l'agricoltura.

I prodotti maggiormente coltivati sono: manioca; banano da fecola; igname; cocolasia;

riso; mais; melanzane; pomodori; patate dolci; cipolle; fagioli; banane da frutto; arance;

limoni; ananas e arachidi.

L'intera area è inoltre ricoperta da piantagioni di palme da cocco i così detti Cash-

crops, destinate al commercio, ma di regola ciascun abitante della zona può usufruire

tranquillamente delle noci cadute a terra o procurarsele direttamente dalle palme.

Altra pianta regolarmente adibita allo sfruttamento commerciale è la palma da olio, che

è anche una componente basilare (il frutto e l'olio) dell'alimentazione quotidiana locale.

Sono presenti, seppur in modo meno consistente, piantagioni di caffè e di cacao

anch'esse destinate alla vendita. Per quanto riguarda l'allevamento, si registra una

consistente quantità di pecore, (che però non producono latte sufficiente per essere

munte) polli, anatre, faraone, cani e gatti. La carne, sopratutto quella di maiale, viene

solitamente utilizzata per rimpolpare le zuppe che possono altresì contenere pesce o

entrambi gli ingredienti.

Molto apprezzata è la carne di tartaruga, specie recentemente dichiarata protetta, e

quella di pitone. In generale nessun tipo di carne è disdegnata e non è raro che

vengano uccise scimmie a scopo alimentare.

La società nzema è organizzata in sette gruppi tradizionali di discendenza chiamati

Abusua e tradotti col termine famiglia:

Adahonle

Alɔnwɔba

Azanwule

110

Ezohile

Mafole

Ndweafoɔ

Nvavile

Come gran parte delle società akan, gli nzema hanno un sistema di discendenza

matrilineare, ragion per cui Ego appartiene all’abusua della madre ed eredita dal

proprio zio materno (awuvonyi).

In questo specifico sistema di parentela, assimilabile pur con qualche divergenza ai

sistemi di tipo Crow (Palumbo, 1992), si suole riferirsi, indipendentemente dal proprio

sesso, alle sorelle della madre col medesimo termine col quale ci si riferisce a quest'

ultima (Nli,ɔmo).

Per quanto riguarda la linea uterina della famiglia del padre, va rilevato che i suoi figli si

riferiranno a tutti i suoi membri con l'appellattivo egya (padre) e saranno a loro volta

chiamati da questi ultimi mralɛ (figli).

La norma della virilocalità e della patrifiliazione fa si che l’abusua non sia identificabile

come unità residenziale e che i vari segmenti del gruppo di discendenza siano dispersi

nel territorio.

La patrifiliazione porta con sè conseguenze anche sul piano delle relazioni padre-figli.

Questi ultimi infatti nascono e vengono allevati nella casa del padre rimanendovi in

alcuni casi anche dopo il suo decesso.

Il legame che si instaura tra il genitore e la sua prole è fortissimo ed essi son tenuti a

darsi mutua assistenza. Nonostante viga un sistema a discendenza matrilineare,

l’importanza del padre nel processo di concepimento e formazione dei figli è molto

sentita: l’individuo è ritenuto ricevere la carne (nwonane) e le ossa (mbowulɛ) dalla

madre e il sangue (mogya) e il soffio vitale (sunsum) dal padre.

Il padre è inoltre colui che dà il nome (nzabelano) al figlio ed è da uno dei suoi figli che

si fa sostituire in caso di impedimento a partecipare a occasioni importanti.

Si rende a questo punto necessario operare una distinzione nei riguardi del termine

abusua. Esistono infatti due livelli dell’abusua : quello del suakunlu e quello dell'asalo,

termini che indicano rispettivamente la camera da letto e l’ingresso (salotto, vestibolo)

della casa.

111

Il termine sua(casa)kunlu(utero in senso sociale) si riferisce anche al palazzo reale

inteso come utero della città, in quanto sua indica sia la città che la casa (Pavanello

2007). Questi due ambienti sono presenti in ogni abitazione e tutti vi si riferiscono in

questi termini.

L'accesso alla camera da letto è riservato a pochi intimi, mentre l'asalo è il luogo dove

si ricevono i visitatori. suakunlu abusua ed asalo abusua vanno a designare l'insieme

delle matrilinee legittime e quello che comprende le linee illegittime derivanti da schiave

o da persone adottate. La differenza tra questi due livelli è data dal fatto che gli

appartenenti ai rami illeggittimi non "mangiano l'agya", ossia non possono usufruire

dell'eredità della famiglia (Pavanello 2007).

Ne "Il segreto degli antenati", Pavanello mette in discussione la sovrapposizione

operata dagli antropologi italiani, che da Grottanelli in poi hanno fatto coincidere i

concetti di suakunlu abusua e di asalo abusua con le tradizionali categorie

antropologiche di lignaggio e clan (Pavanello, 2007).

Per quanto una simile problematizzazione si renda necessaria, questa non può essere

affrontata nei limiti di una breve introduzione alla struttura sociale Nzema.

Nel corso di questa presentazione quindi, utilizzerò il termine abusua per riferirmi ai

tradizionali gruppi di discendenza all’interno dei quali i loro membri riconoscono avere

un' ancestrale antenata in comune, ma che non sono necessariamente legati da stretti

vincoli di parentela, e il più specifico suakunlu abusua in riferimento ai gruppi di

persone discendenti in linea uterina dalla stessa riconosciuta antenata e nei quali sia

possibile stabilire con precisione le relazioni genealogiche tra gli individui appartenenti

allo stesso.

All'interno di ciascun suakunlu abusua viene eletto un capo denominato abusua kpanily

(grande) che ha, tra gli altri, il compito di rappresentare i suoi membri davanti alla

comunità.

Per quanto riguarda le norme di alleanza matrimoniale, a livello di abusua non è

riscontrabile la norma esogamica che viene invece osservata a livello di suakunlu

abusua.

Per quest'ultimo va inoltre osservato che, stabilita un'alleanza matrimoniale tra due

suakunlu abusua, nessun altro vincolo di tale natura potrà essere contratto tra i loro

112

membri. Gli appartenenti a un medesimo suakunlu abusua sono detti genericamente

mmusuanli e si riferiranno l'uno all'altro a seconda dei legami di parentela esistenti tra

loro.

Viceversa gli appartenenti al medesimo abusua si riconosceranno, indipendendemente

dall’età, come fratelli (adiema pl. Mediema). I sette tradizionali gruppi di discendenza

quindi, pur non avendo alcuna funzione sul piano politico e sociale, conservano

comunque un certo valore simbolico.

La zona, come sopra accennato, è divisa in tre aree tradizionali di origine precoloniale,

ognuna delle quali è sottoposta all'autorità di un capo supremo (Twi:ɔmanhene).

Il potere tradizionale (chieftaincy) è stato istituzionalizzato dalla costituzione del 1992,

ma già in epoca coloniale godeva di riconoscimento da parte del governo

inglese(Pavanello, 2002).

L'autorità tradizionale poggia sulla base di memorie orali, secondo le quali i sette

abusua occuparono gradualmente il territorio nel corso di flussi migratori insediandovisi

per primi.

Ogni porzione di territorio fu dunque originariamente presa (o perchè non popolata o in

seguito a uno scontro con popolazioni che si trovavano in loco) da una parte dei sette

abusua che vi si stabilirono, acquisendone il possesso in modo permanente.

Questi primi abitatori disboscarono la terra, rendendola adatta alla coltivazione.

Successivamente, altri membri dello stesso o di differenti gruppi di discendenza vi si

insediarono ed ebbero in usufrutto porzioni di terra per il loro sostentamento.

In accordo con queste memorie, ciascun gruppo portò con se degli elementi che

sarebbero diventati i loro simboli distintivi. Ogni villaggio ha il suo mito di fondazione

e, a partire da questi racconti dell'origine, si sviluppano le linee di successione

legittimate a esercitarvi il potere il cui simbolo è l'ebia (seggio).

Materialmente questo consiste in un piccolo seggiolino ricavato, intagliandolo in un

pezzo unico, dall' albero emenle, mentre lo spirito incorporato in esso, ha il potere di

regolare le vicende tra gli uomini che sono sotto la sua influenza.

L'autorità si manifesta soprattutto in due aspetti: quello della giustizia locale e quello

riguardante il diritto sulle terre.

Si è sopra accennato al fatto che il capo supremo di ogni area tradizionale sia

113

l'ɔmanhene, ma questo non è l'unico livello in cui il potere tradizonale trova

espressione.

Ogni città è infatti subordinata al potere dell'ɔhene (pl. ahene), cui ci si rivolge

generalmente con l'appellativo nanà (nonno) fatto seguire dal nome della città stessa.

Costui è scelto tra i discendenti in linea uterina dell’originario gruppo che per primo

prese possesso del territorio. Questo significa che i suoi figli non potranno mai aspirare

a tale carica in quanto appartenenti per nascita al suakunlu abusua della loro madre.

Per ogni nanà c'è una corrispondente figura femminile denominata ahemaa (tradotto in

inglese col termine queen mother) che è la depositaria ufficiale delle memorie

genealogiche e dinastiche.

Generalmente sorella o nipote dell’ɔhene, essa può essere scelta dagli anziani della

famiglia o nominata direttamente da colei che la precede nell'incarico.

La sua opinione, assieme a quella dell' abusua kpanily, è determinante nella scelta del

nuovo nanà ed è sempre lei che può scegliere di destituirlo qualora non si mostrasse

all'altezza del suo compito o nel caso adottasse comportamenti inappropriati.

Queste figure compongono il Traditional Council con competenze giuridiche tradizionali

riconosciute dalla legge. In ogni villaggio è presente inoltre la figura del tufuhene, la

cui carica è generalmente elettiva.

Questo, oltre ad essere il capo dell' asafo (compagnia militare), ha il dovere di

amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà, col quale i rapporti possono

essere di collaborazione o di antagonismo.

2.2 Fort ApolloniaLa scelta di ubicare un museo nei locali di un forte coloniale britannico è

particolarmente significativa e se da un lato è legata alla volontà, da parte del Ghana

Museum and Monument Board (l'istituzione ghanese che ha l’incarico di custodire e

gestire i forti presenti sulle coste), di patrimonializzazione dello stesso, dall’altro si

allaccia ai rapporti che nel corso di oltre cinquant'anni di ricerche sono intercorsi tra la

MEIG39 e la popolazione locale. 39 La Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG) è stata la prima missione etnologica, a carattere interdisciplinare,

realizzata nel nostro paese. Prese avvio con le ricerche di Vinigi L. Grottanelli tra gli Nzema del Ghana (1954 - 1976), ed ha ripreso le sue attività dal 1989 con le ricerche di Mariano Pavanello ed altri studiosi. La MEIG, nella sua prima fase, ha avuto la sua sede nell'Università di Roma dove Vinigi L. Grottanelli ha ricoperto la prima cattedra di Etnologia

114

Dalla fine degli sessanta fino al 2001, il forte è stato la sede dei ricercatori italiani,

configurandosi in un certo senso come il simbolo dell’isolamento di una parte di questi,

piuttosto che come immagine dell'incontro tra due mondi.

Se la realizzazione di un museo sulla cultura nzema vuole essere anche figlio della

fondamentale pratica antropologica della restituzione, collocarlo negli ambienti della

fortezza significa favorirne la riappropriazione (forse sarebbe più corretto parlare di

appropriazione) da parte della popolazione locale.

Il Castle, come è chiamato dagli abitanti della zona, fu costruito dagli inglesi nella

seconda metà del 700 e, come tutti i forti di origine coloniale, aveva prevalentemente

funzioni di difesa e di controllo dei traffici commerciali (prevalentemente oro schiavi ed

armi, ma anche materie prime come legnami pregiati e avorio).

I primi europei a giungere in Africa Sud-occidentale furono i portoghesi (9 febbraio

1471).

Questi battezzarono Cabo de Santa Apollonia (dal nome della santa del giorno) il

piccolo promontorio al quale erano approdati.

Gli europei, interessati all’oro dell’impero ashanti, costruirono numerose fortezze

militari lungo tutta la Costa d'Oro.

Nella seconda metà del 500, l'Olanda si impadronì di tutte le piazzeforti portoghesi,

trasformando la zona nel più importante nodo della rete di tratta degli schiavi in Africa

occidentale.

Oltre agli schiavi, ad essere oggetto di commercio erano prevalentemente oro e

tabacco. Nel frattempo altri attori si erano inseriti nel complessivo scenario coloniale.

Tra questi i francesi, che si insediarono nell'attuale Costa d' Avorio, e gli inglesi.

Nel 1750 Amihya Kpanyinli, un capo locale entrato in conflitto con gli olandesi per il

controllo dei traffici costieri, cercò l'appoggio della Gran Bretagna e mise a disposizione

il Cape Apollonia per la costruzione di un bastione di difesa.

Questo fu eretto tra il 1765 e il 1771 e prese il nome di Fort Apollonia.

istituita in Italia. Nella seconda fase, sotto la direzione di Mariano Pavanello, la sede della MEIG è stata l' Università di Pisa dal 1989 al 2004. Dal 2005, la Missione è di nuovo incardinata nella Sapienza Università di Roma, dove M. Pavanello è stato chiamato a succedere al suo maestro. La MEIG ha recentemente esteso i propri interessi nella regione Ashanti, dove, con la collaborazione del Prof. Kwame Arhin, sono in corso ricerche etnologiche e storiche. Inoltre, dal 2008, sono state avviate ricerche anche in Mali.

115

Nel 1867, il conflitto anglo-olandese terminò a vantaggio della Gran Bretagna che

l’anno successivo abbandonò il forte.

Gli anni seguenti videro gli inglesi impegnati in un conflitto con la confederazione

ashanti che aveva inflitto delle offensive militari ad alcuni alleati britannici.

Poiché il forte si trovava nel territorio degli nzema, alleati degli ashanti, fu bombardato

dagli inglesi nel 1873. Il conflitto terminò l'anno successivo con l'occupazione di Kumasi

e la proclamazione della colonia della Costa d’Oro.

Il Ghana è stata la prima colonia europea a raggiungere l'indipendenza nel 1957.

Nel 1960 fu proclamata la repubblica presidenziale sotto lo nzema Kwame Nkrumah.

Agli inizi degli anni 60, il GMMB (Ghana Museum and Monument Board), approvò il

restauro della struttura che lo stesso Nkrumah voleva vedere trasformata in

monumento nazionale.

I lavori furono portati a termine nel 1968. Durante gli anni 70 nei suoi locali fu costruita

una guest house che ospitò gli studiosi della MEIG fino al 2001, anno in terminò la

convenzione stipulata tra la missione e il GMMB.

In quello stesso anno, il GMMB chiese sostegno all'università di Pisa e all'ONG

toscana "Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti" (COSPE), per la

realizzazione di un Museo sulla cultura nzema nei locali del Forte.

Nel 2010 fu necessario un nuovo restauro. Durante un'analisi preliminare infatti la

struttura fu trovata in condizioni di pesante degrado dovute all'azione degli agenti

atmosferici.

Nell'Ottobre del 2010 è stato ufficialmente inaugurato il Fort Apollonia Museum of

Nzema Culture and History.

2.3 Un progetto di valorizzazione integraleIl progetto basa la sua strategia di intervento sul riconoscimento che le popolazioni

nzema dispongono di un importante patrimonio naturale, sociale, culturale e storico,

che ne determina la coesione sociale.

Tale patrimonio è sempre più minacciato da un insieme complesso di fattori quali: lo

sfruttamento indiscriminato delle risorse; le nuove domande e nuovi bisogni legati al

processo di modernizzazione; la mancanza di partecipazione delle comunità nei

116

processi decisionali e gestionali legati al proprio territorio; la carenza di sbocchi

occupazionali e conseguenti fenomeni migratori vero i grandi centri urbani; la

mancanza di adeguati investimenti per lo sviluppo degli insediamenti rurali.

La tutela del patrimonio naturale e culturale delle comunità nzema rappresenta quindi il

primo passo verso la difesa della loro memoria storica e collettiva e delle loro risorse.

Al tempo stesso la valorizzazione di tale patrimonio può rappresentare un’opportunità

di sviluppo, favorendo l’accesso a più elevati livelli di consumo e di benessere, e

un’accresciuta consapevolezza delle risorse e delle potenzialità del proprio territorio.

Il primo “obiettivo generale consiste (quindi) nel migliorare le condizioni materiali delle

comunità locali attraverso la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale

come forma di reddito e nell'ottica di uno sviluppo eco-compatibile ed auto-

sostenibile”40.

Il paese non si trova ancora nelle condizioni per poter valorizzare in maniera adeguata

le proprie risorse e cogliere così le opportunità di sviluppo socio-economico che il

turismo può offrire.

Tra i vari problemi con i quali occorre fare i conti si annoverano, la precaria situazione

igenico-sanitaria, la mancanza di adeguate strutture di ricezione turistica (in particolare

al di fuori della capitale e nelle aree rurali), l’erogazione di acqua ed elettricità

insufficiente e discontinue.

Inoltre la distribuzione dei benefici economici derivanti dal settore del turismo è limitata

nelle mani di pochi. E le popolazioni locali sono spesso rimaste escluse dalla maggior

parte dei profitti derivanti dallo sviluppo del settore turistico ed eco-turistico.

Le aree rurali inoltre soffrono della mancanza o inadeguatezza di infrastrutture

produttive, soprattutto legate all’agricoltura, magazzini, mercati e strade.

La realizzazione di una struttura museale aperta al territorio circostante e la creazione

di percorsi eco-turistici, unita all’implementazione di attività culturali e a forme di

accesso a microfinanziamenti, rispondono alla duplice esigenza, da un lato di

promuovere, soprattutto tra le nuove generazioni, la conoscenza e il rafforzamento

della propria cultura, dall’altro di porre la stessa alla base di attività generatrici di

reddito.

40 Riferimento diretto al documento di progetto elaborato dal COSPE nel settembre 2005.

117

Il criterio informatore della pianificazione e attuazione operativa del progetto si basa

dunque sulla volontà di inquadrare il patrimonio, ambientale e culturale, in un’ottica di

gestione integrata e partecipata affinchè questo sia posto al servizio delle comunità

locali che ne sono depositarie e che lo mantengono in vita.

Di particolare importanza per la realizzazione del progetto è stata l’adesione allo stesso

da parte del GMMB (Ghana Museum and Monument Board) e della National

Commision on Culture.

In base al dettato costituzionale, la National Commission on Culture, istituita nel 1990,

rappresenta il massimo organismo deliberativo, di supervisione e controllo sulle altre

istituzioni culturali, tra i quali il Ghana Museums and Monuments Board.41

Il National Museum Decree del 1969, riconosce allo stesso l’autorità di dichiarare

monumento nazionale ogni monumento di proprietà statale e di disporne secondo le

modalità giudicate più opportune per la sua conservazione e valorizzazione.

Nel 1972 è stato pubblicato il decreto esecutivo in base al quale una serie di forti e

castelli, tra cui Fort Apollonia, sono stati proclamati monumenti nazionali.42

Durante lo studio di fattibilità del progetto, il GMMB ha mostrato la sua volontà di

raggiungere un accordo con le strutture di potere tradizionali (Western ed Eastern

Nzema Traditional Councils) per l’uso del Forte come centro di sviluppo locale a

gestione comunitaria.

A tale proposito è stato firmato un accordo di impegno e collaborazione tra le ONG

promotrici (Cospe e GWS), le autorità tradizionali, le amministrazioni locali e le

istituzioni governative (GMMB e Commission on Culture) che hanno costituito un

comitato di supervisione sulle attività del progetto.

Oltre queste fondamentali collaborazioni, un altro elemento a favore dell’accoglimento

della proposta è stato determinato dal fatto che questa si è collocata in un clima

propenso a cogliere le possibilità offerte dall’interazione tra sviluppo locale e patrimonio

culturale.

Per quanto riguarda l’attività di consultazione scientifica, tra le istituzioni coinvolte a

livello nazionale, possiamo citare la University of Science and Technology, Kumasi, e il

Center for Science and Industrial research, Accra, per la consulenza sulla raccolta e 41 ivi42 ivi

118

conservazione dei campioni di flora e fauna nell’allestimento del museo.

In Italia, relativamente alle attività di consulenza e attuazione del progetto sono state

invece coinvolte: l’Università degli Studi di Pisa e il Dipartimento di Ingegneria civile,

per la realizzazione della progettazione esecutiva e per consulenza sui lavori di

restauro di Fort Apollonia; la Missione Etnologica Italiana in Ghana, per le ricerche

etnologiche e storiche sul territorio e la cultura nzema e per l’allestimento del museo; i

vari attori della cooperazione decentrata toscana (Provincia di Pisa, Comune di

Peccioli, Associazione Ghanese di Prato, regione Toscana) coinvolti negli ultimi anni

nelle iniziative di scambio e collaborazione con il territorio nzema.

Nella progettazione e realizzazione del Museo, i vari punti di vista, (italiani e ghanesi,

ma anche istituzionali e tradizionali) si sono confrontati dando vita ad un’esperienza di

patrimonializzazione condivisa.

Con questo termine non ci si riferisce a costruzioni prive di conflitti e resistenze, bensì

all’azione di mediazione tra universi semantici differenti, portata avanti da singoli

“traghettatori culturali”, in un processo dialettico caratterizzato da una reciproca

appropriazione di concetti e immaginari che si caricano continuamente di significati

nuovi, imprevisti e almeno in parte inediti 43.

Altra fondamentale peculiarità della proposta portata avanti risiede, come già

accennato, nel porre il patrimonio al servizio dello sviluppo locale.

Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History nasce quindi come centro di

sviluppo comunitario, intorno e attraverso il quale promuovere iniziative volte a favorire

il rafforzamento delle capacità di promozione economica, sociale e culturale delle

popolazioni dell’area nzema.

Tale assunzione di fondo si è concretizzata nella scelta strategica di promuovere la

creazione di una struttura museale intesa come punto focale di un programma più

ampio di promozione dell’eco-turismo nell’area.

Questo è stato assunto dal progetto come trampolino per la crescita e la qualificazione

di altre attività generatrici di occupazione e di reddito per le comunità, in particolare

quelle legate all’accoglienza turistica e alla produzione artigianale.

L’obiettivo finale è quindi di attirare visitatori stranieri e ghanesi in una struttura pensata

43 http://www.formazione.univr.it/documenti/Seminario/documenti/documenti870633.pdf

119

e realizzata in costante collegamento col territorio e la cultura dell’area, i cui beneficiari

principali rimarranno comunque le comunità rurali dei villaggi circostanti, sia per quanto

riguarda gli introiti derivanti dall’eco-museo e dalle attività economiche indotte

(dall’artigianato alla ristorazione, dalle guide ai trasporti, dalle manifestazioni culturali

all’organizzazione di soggiorni turistici), sia per le attività di promozione culturale,

educazione ambientale e miglioramento della qualità della vita.

La stretta connessione tra gli aspetti di tutela e di valorizzazione risponde ad un

approccio di sviluppo locale sostenibile che collega la creazione di nuove opportunità di

sviluppo alla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale delle comunità.

Il Fort Apollonia Museum vuole infatti rappresentare uno strumento che possa

consentire alle comunità locali di partecipare in prima persona alla valorizzazione del

patrimonio culturale e ambientale di un territorio a forte vocazione turistica, traendone

adeguati benefici economici ed occupazionali e limitando il monopolio di sfruttamento

delle risorse turistiche dei grandi operatori turistici.

La sfida principale consiste nel salvaguardare quella linea di confine che separa una

istituzione culturale redditizia, gestita e fruita dalle comunità locali, da una mostra

mercato di carattere folkloristico ad uso prevalentemente o esclusivamente turistico.

Ecco perché accanto a strategie di redditività, rimangono centrali spazi culturali ed

educativi, con strumenti e strutture di informazione, ricerca e divulgazione.

2.4 Il MuseoIl Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History non può essere ricondotto alle

esperienze di musei etnografici occidentali o a quelle degli eco musei o musei del

territorio. Esso si pone piuttosto come un’esperienza ibrida, che tenta di coniugare

armonicamente i tre diversi aspetti della sua missione dichiarata44:

Rappresentare un riferimento culturale, simbolico e storico per la popolazione locale

nonché per la preservazione della sua lingua e cultura. Fornire in special modo alle

generazioni future gli strumenti per il rafforzamento della loro cultura; promuovere la

conoscenza e la tutela del territorio.

Sviluppare una migliore consapevolezza all'interno della collettività, della sua 44 Per la missione del museo faccio riferimento diretto al Project Proposal Final, redatto da Mariano Pavanello,

Mariaclaudia Cristofano e Stefano Maltese nel dicembre del 2009

120

importanza strategica attraverso la creazione di una rete di percorsi ecoturistici e

specifici programmi di educazione ambientale.

Essere il luogo della restituzione da parte degli studiosi della MEIG che, nel corso degli

anni 1954-2009, hanno condotto le loro ricerche storiche ed etnografiche: un luogo

dove condividere con le popolazioni locali i risultati delle loro ricerche.

Le varie anime del museo (culturale, storica, naturalistica) sono state pensate come in

dialogo costante tra loro e in questa direzione si è mosso l’impianto allestitivo.

Le installazioni e i pannelli esplicativi sono il frutto dell’incontro dei diversi punti di vista

della popolazione locale e dei ricercatori italiani.

Un altro tipo di sguardo viene coinvolto nel percorso museale e cioè quello del

visitatore. L’esposizione è infatti concepita in modo che egli sia stimolato a percepire i

diversi aspetti rappresentati, come un tutto nel quale trovare connessioni piuttosto che

come settori differenziati che pretendano di esaurire un discorso a sé stante.

All’esibizione permanente, che è comunque suscettibile di futuri arricchimenti o

modifiche, andranno accompagnati allestimenti temporanei per i quali è stato

predisposto un apposito spazio.

Il museo e le sue attività di connessione con il tessuto culturale e ambientale, sono

comunque da intendersi come il punto di partenza di un discorso in divenire, che non

dovrebbe mai considerarsi chiuso del tutto.

Appena si accede alla coorte esterna, dove sono collocati gli stand degli artigiani, un

cartello di akwaba (benvenuto in nzema) accoglie il visitatore.

Sempre nello stesso spazio, sono illustrate le formule di saluto nzema, aspetto molto

importante delle relazioni quotidiane. Nell’attraversare la soglia che introduce alla

coorte interna, il museo dichiara la sua amaneε (missione), la quale sarà a sua volta

chiesta al visitatore nel passaggio immediatamente successivo.

L’amaneε è una componente essenziale nell’universo relazionale nzema; essa è la

dichiarazione dei motivi di una visita, senza tale dichiarazione è come se non esistesse

l’interrelazione. Al visitatore viene quindi dichiarata la propria missione e gli viene

chiesto di scrivere su un apposito registro il motivo della propria visita.

In questo modo il dialogo può avere inizio.

Non si vuole qui dare una descrizione dettagliata dell’esposizione, ma rendere conto

121

dei criteri che soggiacciono alla sua realizzazione, facendo qualche riferimento

all’impianto allestitivo.

Per quanto riguarda l’aspetto storico del museo, occorre tenere presente che in esso

sono state considerati sia l’approccio storiografico di matrice occidentale, che la

concezione tradizionale di derivazione orale.

Le fonti di archivio degli studiosi occidentali sono state utilizzate per illustrare i rapporti

intercorsi tra le popolazioni nzema e gli occidentali a partire dall’epoca precoloniale e

per rendere conto della storia del forte nei suoi rapporti con le popolazioni akan e con

quelle europee.

Nel medesimo spazio è stata realizzata la mappa del villaggio di Beyin allo scopo di

rispondere a una triplice esigenza: contestualizzare ulteriormente il forte (e il visitatore

che si trova al suo interno) in rapporto allo spazio circostante; fornire un quadro

generale della presenza, in loco, dei vari abusua; essere un luogo dove gli abitanti del

posto possano riconoscersi individuando la propria e le altrui abitazioni anche

attraverso una serie di punti di riferimento.

Si opera, in questo modo, una connessione tra l’approccio storiografico e quello

tradizionale legato all’usufrutto delle terre, trasmesse tradizionalmente all’interno dei

suankulu abusua.

Per quanto riguarda invece il possesso delle terre si apre una questione più delicata

che si lega alla legittimità del seggio regnante.

Si è detto di come i diritti di proprietà di un seggio poggino su memorie tramandate

oralmente e questo comporta talvolta l'insorgere di controversie riguardo alla legittimità

del potere in carica.

E' significativo a questo proposito segnalare quanto esposto da Stefano Maltese nel

corso di un convegno su i patrimoni africani tenutosi all' Università La Sapienza di

Roma, nel mese di aprile 2010.

Nel corso dei suoi colloqui con i capi intorno alla realizzazione del museo, egli si è

sentito più volte dire quanto la musealizzazione di Fort Apollonia fosse di cruciale

importanza, soprattutto per la risoluzione delle controversie in merito alle proprietà dei

seggi.

La loro attenzione era ed è concentrata soprattutto sulla funzione dell’archivio come

122

luogo della verità: testimonianza incontrovertibile in grado di fissare una volta per tutte i

diritti sui propri seggi.

Ho potuto riscontrare io stessa questo tipo di atteggiamento durante la fase di

rilevazione topografica per la realizzazione della mappa. Nei miei discorsi con Noel, la

guida che mi accompagnato anche nel corso dell’indagine preliminare sulle regine

madri, è saltata fuori una questione interessante; infatti nella sua mente era da tempo

maturata la convinzione che la mappa sarebbe stata registrata in qualche ufficio della

capitale e avrebbe sancito una volta per tutte la proprietà delle concessioni, ponendo

fine alle liti e alle occupazioni abusive che nel corso degli anni continuavano a

riproporsi.

Così come i capi vedono nel museo-archivio una fonte di verità storica sulla proprietà

delle terre, Noel aveva creduto che una rappresentazione cartacea delle concessioni

avrebbe avuto valore testimoniale.

Tradizioni tramandate oralmente e approccio occidentale di registrazione della storia

coesistono, non solo idealmente nel museo, ma nella mente stessa di coloro i quali di

queste memorie sono i portatori. Essi mostrano tutta la flessibilità del loro universo

culturale aprendosi a uno strumento estraneo alla tradizione ai fini di legittimarla.

Occorre a questo punto aprire una parentesi in merito al discorso dell’archivio che al

momento è in fase progettuale. L’idea è quella di creare due archivi differenziati:

l’archivio del museo conterrà il corpus di testi e documenti prodotti dagli studiosi italiani

(tradotti in lingua inglese e auspicabilmente in futuro anche in Nzema), le foto e il

materiale audio e video raccolto sul campo mentre l’archivio richiesto dai capi conterrà

le storie dei seggi e queste dovranno periodicamente essere verificate ed approvate

dai traditional councils.

Nell’esibizione sui miti di fondazione dei villaggi vengono mostrati una serie di lavori

realizzati dai bambini delle scuole primarie delle zone interessate.

In uno dei programmi di collaborazione con le scuole, un artigiano locale ha raccontato

alle classi la storia della nascita dei loro luoghi. Dopo averla ascoltata i bambini erano

invitati a rappresentarla, disegnando o utilizzando materiale prevalentemente locale

come rafia, legno e erba.

Il discorso sulla chieftaincy intende mostrare sia l’organizzazione politica, attraverso

123

pannelli che hanno richiesto l’approvazione delle autorità tradizionali, sia i simboli legati

alla regalità, come i seggi e i simboli dei rispettivi gruppi di discendenza.

Nel medesimo spazio sono stati ubicati inoltre i pannelli recanti informazioni sul

sistema di discendenza matrilineare, secondo il modello elaborato dagli studiosi italiani

ed approvato dalle medesime autorità di cui sopra.

Alla medicina tradizionale è dedicata una sala a parte destinata ad illustrare tre

particolari categorie di professionisti nel trattamento della sofferenza: il ninsilima(una

sorta di erborista), l’ahomenle (figura legata al culto di divinità locali) e l’asofo

(sacerdoti della setta dei water carriers).

Tutte queste pratiche sono messe in relazione con la diffusione della medicina

occidentale. Tra gli nzema la sofferenza del corpo e della mente è sempre associata

all’infrazione di un norma e a una componente di disordine.

La cura è quindi un processo articolato la cui complessità è espressa dalla varietà delle

opzioni terapeutiche disponibili.

Per quanto riguarda l’illustrazione della biodiversità e delle attività economiche

connesse ai differenti ambienti, un’apposita sala è stata dedicata ai risultati degli studi

della Ghana Wildlife Society.

A questi aspetti sono stati inoltre connessi i processi di trasformazione del cibo illustrati

attraverso una serie di fotografie scattate da una studentessa italiana nei mesi

precedenti l’inaugurazione.

Uno dei punti della missione del museo sottolinea la volontà di illustrare le potenzialità

insite nella varietà del territorio nzema.

Alla descrizione dell’ecosistema e alle campagne di educazione ambientale da

condursi nelle scuole, sono stati affiancati dei percorsi eco turistici.

Questi non si limitano ad essere sentieri, ma si configurano come appendici del museo

attraverso le quali il visitatore può osservare con i propri occhi le informazione ricevute

nel museo.

Si può qui riportare a titolo di esempio la percorrenza già attiva che interessa la tratta

Beyin (Forte Apollonia) – Nzulezu – Mienda.

Il programma prevede la visita a Nzulezo, un villaggio interamente costruito su palafitte

che è situato all’interno della “Amansuri Community Nature Riserve” a circa 5 Km da

124

Beyin, con una popolazione di 500 abitanti.

Il villaggio consiste in un camminamento centrale in rafia e legno, lungo il quale sono

disposte circa 25 capanne ed è raggiungibile solo in canoa da Beyin.

In questo tragitto è possibile ammirare la laguna situata nella riserva e la sua flora,

visitare il villaggio ed entrare a contatto con la piccola comunità, le sue attività

economiche (pesca, distillazione del gin locale, coltivazione di rafia) e sociali (la scuola,

la casa dello “spirito del lago”).

Da Nzulezo è possibile visitare il Lago Sacro di Mienda, situato nella foresta retrostante

il villaggio. La zona del lago, densa di mitologia e spiritualità tradizionali, è anche

popolata da coccodrilli e scimpanzé.

Altri percorsi riguardano l’osservazione, a seconda delle stagioni, della fauna locale,

ma ne sono previsti altri di vocazione non spiccatamente naturalistica e che riguardano

gli altri aspetti trattati nel museo come ad esempio quelli collegati alla vita spirituale

della comunità.

Il Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History quindi, non è una struttura

chiusa in sé stessa, ma si apre verso l’esterno, attraverso un insieme di percorsi

turistici nell’area geografica e culturale del territorio, che vive di tutte quelle attività

culturali e tradizionali proprie delle comunità locali.

Il museo quindi costituisce solo il punto di partenza (o di ritorno) per l’esplorazione del

territorio, offrendo gli strumenti di conoscenza e le chiavi di lettura (oggetti, documenti

grafici, testi e fotografie) del patrimonio naturale, culturale e storico.

E questa funzione di rendere visibili i nessi storici, culturali e ambientali che

sottintendono il patrimonio e la vita di un territorio, è rivolta sia ai visitatori che alle

comunità locali.

2.5 Proposte a favore dello sviluppo locale: alcuni esempiQualche parola in più va spesa per i progetti legati allo sviluppo locale tramite le attività

connesse al museo. Oltre alle fonti di reddito derivanti dalle attività di ricezione turistica

e di ristorazione sono previste iniziative volte a rafforzare l’associazionismo culturale e

la piccola imprenditoria artigianale.

Per quanto riguarda il primo punto va segnalata la presenza di tre gruppi tre gruppi

125

culturali giovanili nell’area: a Beyin, Nzulezu e Megyina.

Questi gruppi costituiranno la base per un programma di formazione tra pari per la

diffusione dei saperi tradizionali attraverso la promozione di altri gruppi culturali

giovanili e di attività nelle scuole. Festival e manifestazioni artistiche tradizionali

saranno promossi nei locali del Forte e nelle aree limitrofe del potere tradizionale,

come l’Ahenfie (l’antico palazzo del re).

Gli eventi culturali saranno promossi attraverso la realizzazione di filmati e depliant, la

realizzazione di articoli sui principali quotidiani nazionali e servizi sulla rete pubblica

nazionale. Saranno ricercate collaborazioni con agenzie di turismo per promuovere

l’organizzazione di tour guidati o pullman speciali in occasione dei festival e delle più

importanti cerimonie tradizionali.

In questo modo la valorizzazione diffusione del patrimonio immateriale nzema sarà

coniugato alla promozione turistica.

Il rischio di una eccesiva strumentalizzazione economica dei saperi tradizionali può

essere contenuto attraverso i seminari previsti. Questi infatti oltre a migliorare le

tecniche esecutive contribuiranno ad approfondire i contenuti veicolati dal corpus di

conoscenze trasmesse. Un’attenzione particolare è stata rivolta all’artigianato locale.

Il progetto ha inteso (e intende) infatti sostenere la produzione ed esposizione di

manufatti artigianali locali per la trasmissione del sapere tecnico-artistico e la sua

promozione economica.

Nella corte esterna, come già riferito, sono presenti stand per la vendita delle

manifatture locali. Ancora più importante è l’intenzione di promuovere dei laboratori di

produzione artigianale aperti al pubblico. Tali laboratori saranno affidati ad artigiani

nzema, sulla base di progetti che dovranno essere presentati ad una apposita

commissione. Le proposte saranno valutate sulla base della loro sostenibilità

economica, originalità e sbocchi di mercato, ma anche ponendo attenzione al genere e

alle fasce più svantaggiate della popolazione (giovani disoccupati, donne, etc).

Sarà inoltre possibile per gli artigiani ottenere macchinari di base, usufruendo delle

agevolazioni di credito per i piccoli imprenditori messi a disposizione dal progetto.

Per migliorare e rendere più efficienti, tecnicamente ed economicamente, le capacità

produttive degli artigiani, saranno organizzati specifici moduli formativi relativi a tutte le

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fasi di produzione e vendita: dall’ideazione del prodotto, alle più appropriate tecniche di

realizzazione, alla presentazione del prodotto per la vendita (cataloghi).

Una prima sperimentazione di tali corsi si è avuta durante i lavori di allestimento del

Museo. Un gruppo di artigiani locali, hanno partecipato ad attività formative retribuite

contribuendo in modo decisivo alla realizzazione della struttura.

I futuri corsi di formazione saranno pianificati e realizzati in collaborazione con ATAG

(Aid to artisans in Ghana), un’organizzazione ghanese specializzata nel supporto

all’artigianato artistico tradizionale. Saranno anche organizzati periodi di stage con

imprese qualificate per l’apprendimento o il miglioramento delle tecniche di produzione.

I prodotti saranno rivolti ad un mercato locale, in cui gli acquirenti potranno essere i

turisti in visita al Forte e alla Riserva, i visitatori in occasione di festival e cerimonie

tradizionali, ma anche le popolazioni locali, come i capi tradizionali per stools (i seggi

dei capi) e bastoni del potere tradizionale, o le donne per cesti e ornamenti femminili.

Saranno comunque sfruttate le occasioni di festival e ricorrenze tradizionali per allestire

particolari esposizioni e fiere.

Inoltre, sempre in collaborazione con ATAG, saranno selezionati i prodotti di qualità

migliore per tentare il loro inserimento nel mercato nazionale, attraverso i punti vendita

gestiti dalla stessa associazione e in corrispondenza delle principali attrazioni

turistiche. I prodotti di successo e più innovativi saranno poi inviati da ATAG a fiere ed

esposizioni internazionali. Saranno infine esplorati in Italia i canali del mercato equo e

solidale per l’esportazione dei prodotti artigiani.

Uno dei problemi principali denunciati dai piccoli imprenditori dell’area è la mancanza di

capitali per avviare o espandere attività economiche.

E’ stato quindi istituito un fondo rotativo di microcredito al quale potranno avere

accesso sia piccoli imprenditori che vogliono espandere attività economiche esistenti

sia nuovi imprenditori che intendono avviare attività generatrici di reddito nell’area.

Le modalità di erogazione del credito e i criteri di eleggibilità sono stati identificati

attraverso uno studio effettuato nel corso del 2002 dalla Ghana Wildlife Society.

Secondo quanto stabilito, i gruppi che saranno selezionati dovranno presentare un

progetto imprenditoriale, sia tecnico che finanziario.

Saranno inoltre sovvenzionati soltanto proposte finalizzate alla creazione o allo

127

sviluppo di attività economiche legate alla valorizzazione delle risorse locali.

Infine, come per i laboratori, i progetti saranno valutati in base a criteri di compatibilità

ambientale, promozione di fasce svantaggiate della popolazione e sostenibilità

economica.

Da quanto esposto l’immagine di un museo, come centro promotore di uno sviluppo

locale integrato e sostenibile, si delinea in modo più definito.

Lo sviluppo integrato va inteso come sviluppo umano in tutta la sua complessità, dove

le componenti ambientali, culturali e sociali sono considerate come interconnesse ed

interdipendenti, e questo risulta in piena armonia con la missione stessa del Museo.

Per quanto riguarda la sostenibilità generale del progetto, questa è assicurata dal fatto

che si inserisce nel quadro della promozione di un settore, come quello turistico, in

forte crescita a livello internazionale e nazionale ed ormai fondamentale per lo sviluppo

economico del paese.

Inoltre lo sviluppo sostenibile coniuga la possibilità di crescita economica alla tutela e

salvaguardia del patrimonio delle comunità locali, favorendo la loro capacità di gestire

ed assorbire le novità introdotte.

In siffatto panorama, le possibilità di porre le donne come tra gli attori principali cui

sono rivolte le politiche di sviluppo è di prioritaria importanza.

Esse costituiscono infatti una fondamentale risorsa economica per la società nzema,

ma non godono di grande autonomia.

Esse sono dedite all’agricoltura, ai processi di trasformazione e vendita del cibo e alle

attività commerciali. Inoltre la loro abilità nella produzione di stoffe tessute e dipinte a

mano potrebbe essere considerato un punto di forza da valorizzare e inserire in un

programma volto al rafforzamento della posizione della donna.

Gli ambiti di applicazione artigianale femminile non si limitano alla produzione di

tessuti; esse sono infatti esperte nella realizzazione di cesti ed oggetti in paglia,

ceramica e terracotta tradizionali, gioielleria.

Si intendono qui suggerire solo due dei percorsi percorribili in un'ottica di miglioramento

della condizione femminile: uno legato alla produzione alimentare, l’altro ai tessuti e

agli abiti tradizionali.

Per quanto riguarda il primo punto, va sottolineato il fatto che i flussi turistici

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generalmente scelgono di usufruire dei punti di ristoro offerti dai resort.

In queste strutture di ricezione, gli alimenti che generalmente vengono proposti non

hanno nulla a che vedere con l’alimentazione locale; si tratta per lo più di prodotti

standard destinati a un consumo globalizzato.

I punti vendita del cibo locale sono pensati per la gente del posto e constano perlopiù

di banchetti e a volte qualche panca. Nel migliore dei casi si ha un tavolo con una

panca coperto da un tetto in rafia.

In linea i massima l’aspetto generale non invita il turista a tentare un approccio verso il

cibo locale. Un programma mirato alla realizzazione di una struttura più attraente

potrebbe incoraggiare l’incontro con la cucina del posto.

Potrebbe trattarsi di un unico spazio, dove qualche accortezza (pentole rialzate rispetto

al terreno, piatti e ciotole in ceramica sistemati in scaffali, etc.), potrebbe aiutare a

superare la diffidenza della gente di passaggio.

Potrebbero anche essere realizzati dei percorsi sulla preparazione del cibo.

I visitatori avrebbero la possibilità di osservare in diretta quanto hanno appreso

all’interno del museo e come culmine del viaggio conoscitivo, scoprire il sapore della

cucina locale.

L’iniziativa andrebbe studiata attentamente, soprattutto nelle ricadute che potrebbe

avere a livello locale.

Infatti quello del pasto è tra gli nzema un momento di condivisione molto importante e

ad esso si lega anche il divieto di utilizzare la mano sinistra nel portare il cibo alla

bocca.

Andrebbero prese quindi le opportune misure affinché queste strutture non risultino

essere un luogo di separazione tra il turista e i locali quanto piuttosto un luogo di un

vero e proprio incontro “a tavola”. I turisti potrebbero camminare tra i vari banchi e

operare una o più scelte tra la molteplicità delle offerte.

Anche in questo caso andrebbe prevista una formazione di base in merito all’offerta di

migliori condizioni igieniche e una presentazione più accattivante del prodotto.

Tali strutture potrebbero essere tra l’altro realizzate facilmente, ricorrendo a materiali

locali come legno e rafia, in molti dei punti interessati dagli altri tipi di percorsi previsti.

Parimenti andrebbe incentivata la circolazione di stoffe prodotte localmente,

129

abbinandole alla possibilità di farsi fare un vestito su misura dal una delle tante sarte

che lavorano nei vari villaggi dell’area.

A questo proposito, andrebbero senz’altro attivati dei corsi di crescita professionale per

rispondere in modo più adeguato alle richieste provenienti da un’utenza piuttosto

esigente.

Tali attività andrebbero dislocate, piuttosto che concentrate, esclusivamente nell’area di

Beyin; in questo modo, il turista interessato a un’abito tradizionale su misura, sarebbe

stimolato ad andare a cercare la sarta locale in uno dei villaggi della zona.

Offrire la possibilità di avere, ad un prezzo tra l’altro irrisorio, il proprio vestito, scelto e

concordato direttamente, sarebbe arricchirebbe l’esperienza del visitatore e

stimolerebbe il commercio locale.

3 regine madri Nzema e proposta di installazione nel MuseoA questo punto si vuole rendere conto dell’indagine condotta nell’area, e valutare una

possibile installazione all’interno nel museo sulla base dei risultati raggiunti.

Durante la mia permanenza sul campo (luglio-novembre 2010), ho avuto modo di

intervistare otto regine madri nell’area dello Nzema occidentale col proposito di

individuarne funzioni e peculiarità.

Prima di entrare nel merito più specifico dell’indagine, sarà bene richiamare

brevemente l’organizzazione politica della società nzema nel suo insieme.

Come descritto sopra, ognuna delle tre aree tradizionali è retta da un ɔmanhene (capo

supremo).

Ogni città o villaggio di suddette aree è invece subordinata al potere dell'ɔhene (nanà).

Per ognuno di questi capi, incluso l’ɔmanhene, esiste una carica femminile, parallela e

complementare donominata ahemaa (pl. ahemaa).

In accordo col principio della matrilinearità, ognuna di queste cariche viene trasmessa

in linea uterina a coloro i quali appartengono suakunlu abusua che possiede il seggio in

un determinato villaggio o area.

L’abusua kpanily di ogni suakunlu al potere esercita, un ruolo determinante nella

gestione degli affari del trono.

Infine, in ogni villaggio è presente la figura del tufuhene, il quale ha il dovere di

130

amministrare la città e di rappresentarla davanti al nanà.

I miei incontri con le regine madri sono avvenuti sempre per il tramite di Noel, il mio

traduttore, non solo per regioni linguistiche, ma anche per il fatto che nessun incontro

formale può avvenire senza un tramite tra il visitatore e un’esponente del potere

tradizionale.

A questo proposito, occorre precisare che Noel ha costituito un filtro molto forte tra me

e le risposte che mi venivano fornite.

Egli si era convinto di capire cosa io stessi cercando e molte volte sceglieva

arbitrariamente di tralasciare la traduzione di alcune parti del discorso. Parte delle

interviste sono state trascritte in loco alla sua presenza e anche in quei momenti,

nonostante le ripetute raccomandazioni di fornirmi una traduzione che potesse essere il

più letterale possibile, egli riprendeva dopo poco ad operare la sua sintesi personale.

Noel si era in qualche modo appassionato alla questione e mi aveva domandato di

spedirgli un registratore dall’Italia affinché egli avesse potuto continuare le interviste da

solo per poi inviarmi i risultati.

Purtroppo le nostre strade si sono separate in modo frettoloso prima che io potessi

condurre un’intervista sull’idea che egli stesso si era fatto intorno al lavoro che stavamo

portano avanti, e in questo caso, a differenza che per il la mappatura del villaggio di

Beyin, non si era lasciato andare a commenti espliciti.

In diversi casi, le risposte da me ottenute risultano poco chiare o non del tutto incisive.

Risulta difficile stabilire dove finisca la reticenza delle regine madri e dove incominci la

noia o il riserbo di Noel nell’approfondire determinate questioni.

Tali vuoti si sono aperti in special modo nel momento in cui cercavo di approfondire

quali potessero i motivi di litigio tra due o più donne e mi sono più volte domandata se il

fatto che Noel fosse un uomo non abbia portato a un maggior riserbo in merito a

questioni femminili.

Le questioni che ho tentato di affrontare sul campo si possono suddividere in due

macro-ambiti e cioè: un piano sociopolitico e uno che abbraccia la sfera del personale

e della rappresentazione del sé.

Per quanto riguarda il primo livello, si è tentato di individuare quali sono i doveri delle

regine madri, nei confronti del villaggio e del seggio.

131

Questo ambito va ad abbracciare quello della loro selezione e formazione e da ultimo

della cerimonia, in quanto aspetti che si legano al ruolo che le stesse devono svolgere.

La sfera del personale riguarda invece il rapporto che le ɔhema intrattengono con la

propria carica e il modo in cui lo descrivono.

In questo caso, entrano in gioco l’autorappresentazione e le storie di vita di ognuna, il

senso di responsabilità e di fierezza, ma anche la dimensione umana di ogni singola

storia.

Queste categorie sono chiaramente interrelabili, ma si rendono necessarie ai fini di una

maggiore chiarezza espositiva.

Infine, qualche spunto di riflessione mi è stato offerto da conversazioni informali avute

con donne e ragazze dei villaggi di Beyin e Ngherekazo a proposito del loro rapporto

con le regine madri.

3.1 Ambito socio-politicoIl potere tradizionale nzema (e quello akan in generale) è basato su un sistema di

governo che prevede, a ogni livello, una carica maschile e una femminile.

I loro ruoli sono complementari e l’uno non può esistere senza l’altra.

Entrambi devono discendere, in linea materna, dall’abusua che detiene il potere.

Una delle responsabilità prinicipali delle regine madri riguarda la scelta del nuovo

ɔhene ed è anche in questo senso che lei viene considerata madre del re; infatti

raramente tra i due intercorre un legame di tipo biologico.

L’ahemaa è anche colei che conserva la memoria della genealogia del lignaggio reale

fino ad otto generazioni; il suo intervento nella selezione del futuro re garantisce la

purezza della sua linea d’origine.

Infatti, l’elezione di qualcuno che discende da una linea di schiavi incorporata

generazioni addietro nel lignaggio, non sarebbe accettabile.

La selezione del futuro regnante avviene di concerto con l’abusua kpanily(il capo del

suakunlu abusua), il quale deve approvare il candidato da lei proposto.

Questo può opporre due rifiuti, ma alla terza proposta dovrà accettare perché il posto di

un nanà non può rimanere vacante per troppo tempo. Quanto detto vale in linea di

principio, ma spesso capita che la regina madre si lasci consigliare dall’anziano del

132

lignaggio in questa come in altre questioni.

Per quanto riguarda la selezione dell’ ɔmanhene, il procedimento è differente.

Secondo quanto riferitomi da Nda Bozoma II (ahemaa dell’ɔmanhene dello Nzema

Ovest), il futuro sovrano deve essere scelto da tutti i capi, maschili e femminili, dell’area

tradizionale in questione. La scelta avviene tra tre candidati selezionati dall’abusua

kpanily e dagli altri anziani del lignaggio. L’ahemaa ha il diritto di porre il veto su tale

scelta e in questo caso il candidato vincitore non potrà essere insediato.

I doveri delle regine madri nei confronti del re non si esauriscono nella selezione; esse

infatti sono tenute a consigliarlo e a consultarsi con lui in merito a ogni questione.

I loro incontri possono avvenire con frequenza quotidiana o settimanale, a seconda che

risiedano nello stesso villaggio o meno, ma i due devono essere in contatto costante.

L’ahemaa ha infine il potere, previo appoggio dell’abusua kpanily, di destutire il nanà

qualora questo non si mostri all’altezza del suo incarico.

Viceversa, l’ɔhene non ha alcuna voce in capitolo sull’operato della sua regina madre.

Essa può essere detronizzata solamente dal capo del suakunlu abusua e dagli altri

anziani. In entrambi i casi questo avviene dopo reiterati errori o comportamenti ritenuti

poco consoni alle cariche che i due detengono.

Il fatto di essere depositarie della genealogia del lignaggio, rende centrale il ruolo delle

regine madri nei casi in cui qualche altro abusua rivendichi il seggio.

Si è già accennato al fatto che il diritto allodiale sui territori poggi su memorie

trasmesse oralmente e che spesso questo genera conflitti in merito alla legittimità del

potere di questo o quell’altro gruppo di discendenza.

In caso di contenzioso, l’intervento dell’ahemaa è fondamentale per il mantenimento o

la riacquisizione del trono.

Poiché il sistema di discendenza è matrilineare, è attraverso la donna che il potere

viene trasmesso; quindi è alle ɔhema che spetta il compito di difenderè il seggio.

I parametri in base ai quali si sceglie la futura regina madre paiono essere variabili: in

due casi mi è stato riferito che si segue un principio di rotazione tra le varie matrilinee

del lignaggio, mentre nei restanti sei si è fatto riferimento esclusivamente a doti

caratteriali. Una brava regina madre deve infatti avere un comportamento decoroso e

allo stesso tempo mostrare coraggio e buona proprietà di linguaggio.

133

La scelta della futura ahemaa non segue uno schema fisso; essa può infatti essere

eseguita da colei che la precede, oppure dagli anziani della famiglia.

Nel primo caso, sarà la stessa ahemaa a preoccuparsi della corretta formazione della

sua erede, mentre nel secondo ci sono diverse figure ritenute idonee all’assunzione di

questa responsabilità.

Un’ulteriore distinzione va fatta tra coloro le quali ricevono la carica nel momento in cui

avviene il decesso della regina madre, e tra quelle che sono chiamate a sostituirla

mentre questa è ancora in vita, ma troppo stanca per continuare nel suo lavoro.

In tal caso si instaura una sorta di continuità tra le due donne; infatti non verrà eseguita

alcuna cerimonia di insediamento e non si avrà la “cattura” che avviene invece nel

primo caso.

Poiché la nomina avviene per bocca di colei che sta per lasciare la carica, la neo eletta

è automaticamente legittimata ad assumere su di se il ruolo.

Essa prenderà inoltre il nome di colei che l’ha preceduta, sottolineando il fatto che non

c’è rottura. Se la vecchia ahemaa ha le forze per farlo, si occuperà di formare la sua

erede, consigliandola e assistendola durante i primi periodi di attività, in caso contrario

potrà essere l’abusua kpanily assieme a qualche anziana donna della famiglia, ad

assisterla durante i suoi primi passi oppure un’altra ahemaa che risiede nei paraggi.

La “cattura” cui si faceva riferimento prima avviene nel caso in cui la nomina segue un

decesso.

In questo caso la futura regina madre viene invitata a presentarsi a casa del capo

lignaggio o dal nanà e viene rinchiusa in una stanza per un periodo che può variare dai

tre ai sette giorni.

Dai dati in mio possesso risulta che questa camera può essere una stanza utilizzata

normalmente, cosi come uno spazio appositamente riservato al periodo di isolamento

che precede la cerimonia.

In questo lasso di tempo la donna rinchiusa non può vedere nessuno all’infuori del

l’abusua kpanily e di qualche anziana della sua famiglia, che si preoccuperanno di

darle consigli e di istruirla in merito alla genealogia del proprio lignaggio.

Essa può uscire solamente per lavarsi, ma in un orario in cui nessuno può vederla.

Ci sarà un’unica persona incaricata di prepararle il cibo visto che è sempre presente il

134

rischio di un avvelenamento da parte di qualche rivale.

Qualcuna utilizza delle speciali protezioni contro eventuali malefici, ma quelle che

abbracciano la fede cattolica si proteggono pregando.

Anche se, in entrambi i casi, la formazione vera e propria avviene solo a nomina

avvenuta, quelle che sono ritenute essere potenziali candidate vengono indirizzate fin

dalla prima infanzia verso un comportamento decoroso.

Inoltre, le anziane donne della famiglia incominciano a raccontare loro la storia del

lignaggio affinché inizino ad apprenderla.

Per quanto riguarda l’ahemaa dell’ɔmanhene, essa sarà informata in merito alla storia

di tutti i villaggi e città dell’area tradizionale che è sotto la sua giurisdizione.

Trascorso il tempo necessario, avviene il taglio dei capelli; la regina madre deve infatti

distinguersi da tutte le altre donne e questo è uno dei segnali più forti che marcano tale

distinzione. Nello stesso giorno avviene la cerimonia di insediamento.

La nuova ahemaa viene sul palanchino reale assieme a un bambino e trasportata

innanzi all’abitazione del nanà.

Durante il tragitto essa agita uno “scacciamosche” (un asticella di legno al quale è

applicata una coda ovina), per indicare che tutta la terra che le è intorno le appartiene.

Una volta giunta a destinazione hanno luogo due giuramenti: uno rivolto alla

popolazione e uno rivolto alla famiglia.

Nel rivolgersi alle persone, essa dichiara che sarà sempre disponibile a prestare loro

soccorso in qualunque momento sarà chiamata. La formula viene ripetuta tre volte e al

termine del giuramento la folla risponderà in coro con il suono”iiiiiii”.

Nel rivolgersi alla famiglia essa parla con umiltà, dichiara di avere accettato di essere

ahemaa, perché il seggio appartiene alla famiglia, chiede perdono anticipatamente per

gli errori che commetterà ed invoca il loro aiuto per il difficile compito che l’attende.

Nelle formule di giuramento troviamo alcuni elementi essenziali per la comprensione

del ruolo delle regine madri.

Innanzitutto lei è responsabile del villaggio e di tutti i suoi abitanti, inoltre essa assume

il ruolo di rappresentare la sua famiglia che sarà comunque presente nelle decisioni

che verranno prese. Si è già riferito dei doveri che legano la regina madre al suakunlu

abusua di cui rappresenta il potere.

135

Il suo ruolo di madre non si esaurisce nella gestione dei problemi di varia natura che

potrebbero riguardare la famiglia. Essa, in quanto madre ha doveri precisi anche nei

confronti del villaggio. Capita spesso tuttavia, che la residenza dell’ahemaa, come

quella del nanà, non coincidano con il luogo dove questi detengono il seggio.

In tal caso, se dovesse esserci qualche problema particolarmente grave, occorrerà che

lei si metta in viaggio per discutere la situazione e concordare una soluzione.

Questo è vero più nella teoria che nella pratica. Si era accennato al fatto che a livello di

villaggio esiste una figura di tipo elettivo, il tufuhene, che funge da tramite tra la

popolazione e la famiglia al potere.

Spesso la coppia reale è distante dalla propria zona e se ne disinteressa.

La gente tende quindi a rivolgersi al tufuhene che vive quotidianamente a contatto con

le esigenze e i problemi della gente.

La casa di Egya Belecci, il tufuhene di Kenghen dove sono stata ospite, era un

continuo viavai di persone, che si rivolgevano a lui per ogni tipo di questione.

Da un certo punto di vista, la vera ragione d’essere della regina madre sembra

risiedere nella difesa del potere del suo lignaggio e questa cosa mi è stata confermata

in più colloqui.

Quasi sempre manca il contatto con la gente, questa considerazione mi è stata

suggerita da due fatti.

Nel corso delle interviste, ogni volta che chiedevo in modo diretto alle regine madri

quali fossero le ragioni (a livello personale o di conflitti interpersonali) per i quali le

persone si rivolgevano loro, la risposta era più o meno la stessa, ossia: se qualcuno

chiede il loro aiuto, loro intervengono perché è loro dovere.

Ho pensato che probabilmente per un questione di riservatezza queste preferissero

non entrare nel merito.

Il secondo suggerimento mi è venuto dai colloqui informali avuti con le ragazze e le

donne dei villaggi di Beyin e Ngherekazo. Ho domandato loro a chi chiedono consiglio

in caso di problemi e quello che è saltato fuori mi ha lasciata inizialmente perplessa.

Tutte hanno infatti dichiarato che in caso di problemi o di litigi esse si sarebbero dirette

al tufuhene, il quale avrebbe poi valutato se gestire lui stesso la situazione o se

mandare a chiamare il nanà.

136

La mia perplessità derivava dalle mie letture sulle regine madri ashanti (appartenenti

come gli nzema al gruppo akan e tra i quali ci sono molte somiglianze), le quali hanno

una propria corte nella quale ascoltano e giudicano i casi che riguardano le questioni

femminili.

Solo dopo aver parlato con le donne dei villaggi ,mi è sorto il dubbio, confermatomi poi

da altre conversazioni, che le regine madri nzema non avessero alcuna incidenza nella

risoluzione delle controversie che riguardano le donne.

I problemi e i conflitti che riguardano la popolazione vengono quindi gestiti

esclusivamente dai capi.

Restava comunque da chiarire in che modo le regine madri concorrano al benessere

della propria gente e al miglioramento dei villaggi.

Eva Avilabob mi ha fornito qualche indicazione più specifica, facendo riferimento a

sostegni di tipo economico in caso di malattia o estremo bisogno.

Ama Gnamole Alloi mi ha riferito che nel caso in cui dovesse esserci un problema che

riguarda le giovani del villaggio, lei vi si recherebbe per discutere la questione con la

popolazione, ma non è entrata nel merito del tipo di problemi.

Un’altra differenza con le regine madri ashanti risiede nel fatto che in area nzema

l’ahemaa non ha nessun ruolo connesso alla maturazione sessuale delle ragazze,

mentre le prime, come già segnalato, appuntano in un apposito registro i nomi delle

ragazze che hanno avuto la loro prima mestruazione.

La sfera di intervento delle ɔhema a livello di villaggio si applica ad ambiti più che altro

gestionali-organizzativi o di costume e trova applicazione nel momento in cui la regina

madre risiede sul posto.

L’unica persona dalla quale ho avuto una descrizione più dettagliata dei lavori della

regina madre nel proprio villaggio è stata Ebala Etchi, ahemaa di un villaggio in cui il

seggio è conteso da decenni da due differenti lignaggi.

Ebala è una donna molto forte e determinata che ha particolarmente a cuore la sua

gente. Spesso si reca a casa di famiglie particolarmente indigenti e offre loro un

sostegno economico.

Tutti nel villaggio sembrano tenerla sinceramente in grande considerazione.

Ella mi ha spiegato che la cosa più difficile del suo lavoro consiste proprio nel ruolo di

137

comando sulle persone.

Quando c’è bisogno di indire una riunione, occorre informare tutta la gente affinché

l’intera popolazione sia presente.

A tal fine lei manda per le strade un portavoce che al suono del gongon (una campana

utilizzata anche nell’esecuzione delle musiche tradizionali) annuncia l’imminente

raduno. Questo però può non essere sufficiente.

L’ahemaa manda allora un messo di porta in porta affinché la notizia raggiunga più

gente possibile.

Una delle cose più difficili è quindi convincere le persone a partecipare alle riunioni.

I motivi per i quali organizza incontri sono di vario tipo, ma mi pare opportuno riportare

tutti quelli che mi sono stati riferiti. La chiamata della popolazione avviene nel momento

in cui occorre fare dei lavori di pulizia del villaggio; bisogna diffondere notizie intorno a

un’epidemia contagiosa; è prevista la visita di qualche autorità politica; c’è un problema

che riguarda la frequenza scolastica; i giovani e le giovani assumono comportamenti

poco decorosi, come indossare vestiti troppo succinti o portare i capelli lunghi; è

necessario informare in merito a eventuali possibilità lavorative.

Si tratta fondamentalmente di azioni volte al miglioramento del villaggio e alla sua

salvaguardia, sia sotto il puto di vista sanitario che morale.

L’ahemaa dell’ɔmanhene mi ha riferito che a volte convoca le donne del villaggio e offre

dei suggerimenti per le migliorie che potrebbero essere apportate.

Pare non esserci una grande differenza tra quest’ultima e le altre ɔhemaa; l’unica cosa

che la rende riconoscibile sta nel fatto che essa è l’unica che può sedere al lato sinistro

dell’ ɔmanhene durante gli incontri pubblici.

In caso di grandi eventi essa può rivolgersi alle altre per avere il loro aiuto, ma, a

differenza del re, non ha voce in capitolo sugli affari dei seggi che non le competono.

Da questi dati si può affermare che i doveri delle regine madri nei confronti della loro

popolazione ricalchino quelli che hanno nei confronti del re ossia: consigliare;

preservane l’integrità e l’ordine; proteggerlo da eventuali minacce.

Tutti questi attributi sono da collegarsi alla maternità, che trova nel ruolo dell’ɔhemma

la sua massima espressione.

Bisognerebbe però verificare, sulla base di una casistica più ampia, se tale

138

abnegazione riguarda pochi casi isolati dovuti alla solerzia individuale, o se è prassi

laddove residenza e villaggio sul quale le regine madri detengono il potere coincidono.

3.2 Autorappresentazione e riconoscibilità: una proposta di installazioneIn che modo le regine madri nzema si rapportano con le loro responsabilità? Quali

sono secondo loro, le caratteristiche che le rendono riconoscibili rispetto altre donne?

Come descrivono la propria carica? Questi aspetti mi sono sembrati particolarmente

interessanti da esplorare, soprattutto nell’ottica di un’eventuale proposta di installazione

nei locali del Museo.

Ho cercato innanzi tutto di comprendere la relazione che c’è tra le responsabilità cui

sono investite e la loro sfera emotiva; a tal fine ho domandato ad ognuna di loro di

raccontarmi come hanno vissuto la notizia della propria nomina.

In secondo luogo, ho domandato loro come io avrei potuto riconoscere un’ɔhemma in

mezzo ad altre donne e quali sono le eventuali interdizioni cui le regine madri sono

sottoposte. Infine ho chiesto ad ognuna di loro di citarmi un proverbio sul loro ruolo.

L’atteggiamento generale nei confronti della carica è investito in cinque casi su otto, da

una volontà di rifiuto iniziale. Una tra queste, mi ha raccontato di essere fuggita prima

che potessero convocarla per catturarla e metterla nella stanza, perché aveva sentito

delle voci intorno alla sua nomina.

In seguito, al momento del decesso della regina madre scelta al suo posto, lei si è

sentita pronta ed ha accettato la carica che le era stata riproposta.

Un’altra mi ha invece riferito di una sua fuga temporanea, e di essere però stata in

seguito convinta dalla famiglia a tornare sui suoi passi e ad accettare.

Le altre quattro hanno ammesso che se avessero conosciuto in anticipo il motivo della

loro convocazione, non si sarebbero presentate e si sarebbero allontanate dal villaggio.

Una volta ricevuta la nomina in via ufficiale non è possibile opporre un rifiuto, l’unica

soluzione rimane quindi la fuga.

Solamente due su otto hanno dichiarato di non avere avuto alcuna esitazione, di

essere state felici perché veniva offerta loro la possibilità di battersi per la difesa della

loro famiglia e per il bene della propria gente.

139

Le motivazioni di questa tendenza al rifiuto stanno nei problemi che provengono dalla

carica. Questa è vista come continua fonte di rischi e problemi.

Eva Avilabob, che è stata insediata all'età di 35 anni, ritiene che, anche se per il

momento il suo lavoro è interessante e le condizioni generali sono tranquille, in futuro

giungeranno sicuramente dei problemi, perché questi provengono dal passato e non si

può mai prevedere il momento in cui torneranno a manifestarsi.

I problemi potrebbero giungere dalle stesse persone che l’hanno scelta come ahemaa,

perché inizialmente tutti si mostrano riverenti, ma sembra che il tempo porti

necessariamente con sè delle complicazioni. Eva Avilabob prima di rispondere a

questa domanda ha voluto conoscere l’uso che avrei fatto di queste informazioni e se

sarebbero circolate anche in area nzema.

Solo dopo essere stata rassicurata su questo punto ha iniziato a parlare liberamente,

questo non fa che confermare le sue parole in merito alla delicata situazione in cui le

regine madri si trovano ad operare.

I problemi possono essere interni alla famiglia così come riguardare la legittimità del

seggio, ma si possono anche collegare ai rapporti con l’ɔmanhene o con agenti esterni.

Ena II mi ha fornito un esempio di situazione conflittuale nel suo villaggio per il quale lei

continua a battersi strenuamente.

A Nhaule, il villaggio di Ena II, esistono pesanti tensioni tra la popolazione e la casa

regnante.

Vent’anni fa il precedente nanà aveva sottoscritto un contratto con un cementificio. Tale

contratto era stato stipulato senza previa consultazione con la regina madre e con

l’abusua kpanily, cosa che in sé va contro la tradizione.

A quanto pare, le attuali condizioni contrattuali tendono a svantaggiare la popolazione

la quale, tuttavia, vede nell’impresa interessata un’opportunità lavorativa.

Lo stesso ɔmanhene appoggia la ditta. Le parole dell’ahemaa lasciano intravedere due

livelli di conflitto: uno nei confronti della popolazione, che deve essere convinta ad

accettare decisioni prese per il suo bene, l’altro nei confronti dello stesso ɔmanhene il

quale riceve degli introiti dalla concessione delle terre all’impresa, ma che non

potrebbe ignorare la volontà dell’ahemaa e dell’abusua kpanily.

Questo preambolo è servito ad Ena II come esempio per spiegare quale sia la vera

140

natura della regina madre in area nzema.

Essa dichiara senza mezzi termini che, poiché è attraverso la linea materna che si

trasmette il lignaggio ed il potere ad esso connesso, sarà l’ahemaa, piuttosto che il

nanà, a lottare più forte per difendere il diritto sulla gestione delle terre di famiglia.

Ribadisce inoltre l’importanza della conoscenza della storia perché il potere è sempre

soggetto a rovesciamenti, è quindi essenziale essere in possesso delle giuste

conoscenze per difendere la posizione della propria famiglia.

Tra i proverbi citatimi uno può illustrare bene questo pensiero e cioè: "Abusua bedi ye

be nli akunlu nu" che significa che “il ventre della madre è la vera catena dell’abusua”.

Un’ahemaa deve sempre essere di esempio e mantenere un comportamento che sia

composto e rispettoso della tradizione.

Per questo motivo sono a lei precluse attività quali mangiare o danzare in mezzo alla

strada e discutere in pubblico.

L’immagine che le ɔhema trasmettono in merito a loro stesse è quella di una persona

dotata di una straordinaria forza di carattere ed educata ad avere decoro e rispetto.

Essa deve essere nello stesso tempo combattiva e protettiva.

Gli attributi della sua maternità non si limitano alla propria area di giurisdizione.

Infatti, quando un’ahema è in viaggio essa è immediatamente riconoscibile.

I suoi capelli devono essere corti, altrimenti non ci sarebbe differenza con tutte le altre

donne.

I sandali sono di una foggia particolare rispetto alle scarpe indossate comunemente, ed

essa indossa sempre abiti tradizionali e comunque non può mai portare i pantaloni.

Un altro segno distintivo è costituito dai bracciali e dalle collane di pietre dipinte, che

sono tipici attributi della regalità.

Anche se questi ornamenti hanno ormai un’ampia diffusione anche a livello turistico,

non è mai decoroso che un locale ne indossi troppi o di troppo elaborati perché

sarebbe indice di superbia.

Quando una regina madre è in viaggio è tenuta a prestare soccorso a chiunque ricorra

al suo aiuto, foss’anche uno straniero, perché “l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo”.

Il suo ruolo di protezione come madre è invece espresso dalle formule che stabiliscono

che “un buon pollo copre i suoi pulcini” e che “mai le zampe di un pollo pestano i suoi

141

pulcini”.

Ho incontrato due livelli di rappresentazione del potere tradizionale femminile presso gli

nzema: da un lato, quello delle dirette interessate che descrivono se stesse come

soggetti combattivi e che hanno in mano la sopravvivenza del suakunlu abusua e del

villaggio.

Dall’altro quello della gente che, pur esplicitando l’importanza del ruolo delle ɔhema, ha

dichiarato che in caso di problemi gravi ricorrerebbe non a quest’ultima, ma al giudizio

del nanà o al consiglio del tufuhene.

La mia impressione è che, nonostante la dichiarata responsabilità nei confronti della

popolazione, il loro ruolo effettivo consiste nel salvaguardare il potere e mantenerlo

nelle mani della propria famiglia.

Le regine madri sono spesso viste come ausiliarie dei capi visto che :"raalε sie boane a

renya a pε ye bolε a" (anche se la donna alleva la pecora, è l’uomo che conosce il

prezzo al quale venderla).

Sarebbe auspicabile una più approfondita analisi dei rapporti che intercorrono tra le

regine madri e i propri villaggi, in particolare dove seggio e residenza coicidono.

Tale indagine dovrebbe essere mirata a verificare se esistano o meno le premesse per

utilizzare queste donne come punto di raccordo per iniziative volte al miglioramento

della condizione femminile.

Idealmente, le regine madri potrebbero costituire un ponte tra i villaggi e le attività del

Museo.

Queste infatti, in linea teorica, dovrebbero essere a conoscenza dei problemi che

riguardano la loro zona; inoltre gran parte di loro ha dichiarato di svolgere un lavoro

(piccolo commercio, sartoria, etc.) per potersi permettere gli spostamenti legati ai loro

doveri, cosa che le rende più vicine al quotidiano delle donne comuni; infine godono di

una maggiore mobilità che le porta ad incontrarsi tra di loro in occasioni pubbliche o

durante i funerali.

Si tratta di verificare fino a che punto il loro coinvolgimento in eventuali programmi di

sviluppo rivolti alle donne, sia fattibile e potenzialmente fruttuoso.

Un’ipotetica installazione sul senso comune che gira intorno alle regine madri dovrebbe

tenere conto sia del punto di vista delle stesse, che di quello della popolazione.

142

Quello che mi pare opportuno mostrare, è l’esaltazione delle ɔhema in quanto madre

del seggio in primis e di tutto il mondo poi.

La mia proposta è di localizzarla nella sala “della tradizione” dove sono trattate le storie

di fondazioni dei villaggi; il festival del Kundum (capodanno Nzema); la memoria storica

di tradizione orale; le musiche e gli strumenti tradizionali.

L’esibizione potrebbe consistere in un dipinto su tela di medie dimensioni.

Questo potrebbe rappresentare una donna che sia immediatamente riconoscibile come

un ɔhemma e cioè: dai capelli rasati, abbigliata in modo tradizionale (vestiti e

ornamenti) e con in mano “lo scacciamosche”.

Per quanto riguarda l’esaltazione della maternità, si potrebbe pensare a un cordone

ombelicale che termina in un seggio (“il ventre della madre è la vera catena

dell’abusua”).

Parallelamente, si potrebbe disegnare un globo terrestre all’interno del ventre della

donna (l’ɔhemma è la madre di tutto il mondo). Sullo sfondo andrebbero scritti i

proverbi in lingua nzema. Accanto a questi potrebbe essere disegnate le perline con le

quali si realizzano i bracciali e le collane regali.

Queste servirebbero come richiamo per un breve commento in inglese di ognuno, da

trascriversi su un piccolo pannello da porsi accanto al dipinto.

Il richiamo potrebbe essere reso concreto incastrandovi materialmente il corrispettivo

tangibile delle perline disegnate.

Nella sala dedicata al potere tradizionale, posta al pian terreno, il visitatore ha già

ricevuto informazioni sul sistema di discendenza e sull’organizzazione politica

tradizionale.

Attraverso le fotografie dei capi e delle regine madri ha inoltre presente il modo in cui

questi si presentano ed è quindi in grado di stabilire un collegamento.

Questo tipo di installazione risulterebbe quindi leggibile anche da chi non è avvezzo

all’universo culturale nzema e fornirebbe una rappresentazione coerente sia con

quanto espresso dalle stesse regine madri, che con il generale senso comune

veicolato dai proverbi.

Il resto del materiale, raccolto con tanto di documentazione audio, dovrebbe essere

inserito nel futuro archivio, per consentire una panoramica più completa e fornire la

143

basi per eventuali future ricerche

Conclusioni I casi etnografici riportati, eterogenei sia sotto il punto di vista dei contenuti che sotto il

profilo della contestualizzazione storica, forniscono un ampio panorama di situazioni

che hanno a che vedere con i ruoli di potere femminile in alcune società dell’Africa

Occidentale.

Dalla comparazione di questi casi è emerso che l’azione delle donne, che svolgono

funzioni tutt’altro che marginali, è mirata e consapevole. Ciò è valido sia per quella

serie di situazioni in qualche modo riconducibili all’ambito tradizionale, sia per quanto

riguarda tendenze, individuali o associative, volte al miglioramento della propria

condizione. Le figure di potere passate in rassegna si configurano in molti casi come

fonti di cambiamento e di conflitto, soprattutto in situazioni d’instabilità politica.

In altri casi,il ruolo è formalizzato ed ha principalmente la funzione di mantenere

l’ordine e la stabilità,ma questo non esclude spazi d’intervento individuali.

Per quanto riguarda l’ambito rituale si è potuto osservare che questo incorpora

tendenze potenzialmente disgregatrici e contribuisce a preservare l’ordine.

Questa caratteristica non è pertinente solamente ai rituali di ribellione presenti tra gli

ondo yoruba, ma è ravvisabile anche nel culto di Nne Mmiri osservato tra gli igbo di

Onithsa.

Nel primo caso le donne esprimono il proprio disappunto nei confronti del re La

disapprovazione e la ribellione al controllo esercitato sulle donne si esprime attraverso i

versi satirici durante l’oramfe, e per il tramite del “ritardo” delle mogli reali durante

l’odun-obi.

Tra gli igbo invece, le tensioni latenti nei rapporti tra generi sono espresse dal fatto che

adepte e officianti del culto della divinità acquatica sono soprattutto donne che non

accettano di sottomettersi ai dettami della vita coniugale.

Sempre tra gli igbo, i gruppi delle “figlie del lignaggio”, delle “mogli del lignaggio” e

quelli costituiti dalle classi d’età, svolgono funzioni di educazione e sostegno, ma sono

144

anche uno strumento di pressione e controllo sociale dal quale possono muoversi

istanze conflittuali.

A livello di comando, donne di corte e mogli reali hanno agito singolarmente o in

gruppo, per favorire i propri interessi. In Benin, Lagos e Dhaomey, coloro le quali

sarebbero poi state scelte come regine madri, hanno parteggiato attivamente in favore

di un candidato alla successione al trono, fornendo in qualche caso anche supporto

militare ed organizzando ribellioni.

Nel Dahomey, le kpojito hanno governato alla pari con il re, favorendo in modo decisivo

il riconoscimento della dinastia attraverso l’introduzione di nuovi culti. Anche se,

attualmente, le donne del palazzo reale sono considerate semplici ausiliarie e vivono

nel più rigoroso isolamento, queste muovono le fila per favorire i propri famigliari

nell’accesso a cariche importanti.

L’instabilità politica e l’incertezza delle regole di successione hanno probabilmente

giocato in favore di queste donne, ma ciò non deve sminuire il fatto che le azioni

intraprese siano state il frutto di scelte individuali, mirate ad aumentare e consolidare il

proprio potere e la propria ricchezza.

Nel regno del Kongo, le donne legate all’elite reale hanno acquisito sempre più potere,

inizialmente attraverso gli eredi al trono, in seguito esercitando il controllo diretto di

molte aree periferiche. Queste giunsero a muovere eserciti e ad essere considerate

vere e proprie regine.

A livello di leadership politica tradizionale le regine mende hanno esercitato il loro

potere in aree molto ampie. Esse hanno agito come qualunque altro capo avrebbe

agito: stringendo alleanze e mobilitando truppe. Hanno inoltre colto la portata dei

cambiamenti in corso e costruito buoni rapporti con il governo coloniale. Ben lungi

dall’essere state soggetti deboli nelle mani degli amministratori britannici, esse hanno

elaborato, in un momento di crisi, la migliore strategia per mantenere il proprio potere e

per difendere la propria gente.

In area Akan, dove le regole della successione sono ben definite, il ruolo di regina

madre viene a assumere connotati più specifici. La carica ha mantenuto la sua

legittimità sia durante l’imposizione dei governi coloniali che con l’entrata in vigore delle

varie costituzioni nazionali.

145

Al di là delle responsabilità specifiche, che differiscono sotto alcuni aspetti a seconda

che ci si trovi in territorio nzema o in area ashanti, la loro peculiarità risiede nell’essere

considerate “madri” del re e del lignaggio reale. Esse sono responsabili prima che di

ogni altra cosa, di mantenere saldo il potere nelle mani della propria famiglia ed

incarnano tutti i valori connessi alla maternità.

Le regine madri Krobo, presso i quali il modello di governo tradizionale si è costituito

alla fine del XVII secolo sulla base di quello akan, lavorano in modo congiunto e

associato per favorire il miglioramento delle condizioni economiche femminili e si

battono per la propria inclusione nelle case regionali e nazionali dei capi.

Forti tendenze all’autodeterminazione sono esistite in passato tra le donne dello stato

di Edo, le quali hanno saputo approfittare della benevolenza mostrata nei loro confronti

da parte dell’amministrazione coloniale, per scappare da situazioni di vessazione e

abbandono.

In tempi più recenti le commercianti edo, riunite nei gruppi di mercato, hanno cercato

un collegamento con le associazioni che operano a livello nazionale, ai fini di

incrementare le loro possibilità di crescita economica.

L’associazionismo e il cooperativismo, soprattutto nelle aree rurali, sono da

considerarsi a pieno titolo strumenti attraverso i quali le donne dell’Africa Occidentale

contemporanea manifestano la propria azione politica e la propria spinta

all’autodeterminazione.

Generalmente, i programmi nazionali e locali per il miglioramento della condizione delle

donne prendono le mosse dalle attività di produzione e trasformazione del cibo e

dall’artigianato locale. Questo rientra in piena linea con le riflessioni condotte in

precedenza in merito all’esigenza di porre il patrimonio a servizio dello sviluppo locale.

Da un lato abbiamo i luoghi, i saperi, le tecniche, le memorie genealogiche e i ruoli di

potere che si legano alla tradizione e che sono indispensabili all’equilibrio sociale;

dall’altro c’è la tendenza al rafforzamento della propria condizione, che abbiamo visto

affiorare nel corso della storia laddove le circostanze l’hanno reso possibile e che

trovano oggi espressione in forme di sostegno reciproco che spaziano dalle raccolte di

fondi alla partecipazione a forme di associazionismo.

In qualche caso questi due aspetti dialogano tra loro, come nel caso delle regine madri

146

krobo o in quello delle associazioni di commercianti edo.

Questa volontà delle donne di porre in relazione saperi tradizionali, potenzialità insite

nel territorio, con il miglioramento generale delle condizioni materiali dell’esistenza

(propria e dei loro villaggi), potrebbe trovare un valido campo di applicazione nelle

tendenze museali cui si è fatto riferimento.

Nelle aree prese in considerazione, i processi di valorizzazione e tutela dei patrimoni

locali al servizio dello sviluppo, dovrebbero porre una particolare cura verso il

miglioramento della condizione femminile e puntare al coinvolgimento di coloro che

detengono ruoli di potere. Le donne, infatti, soprattutto nelle aree rurali, pur godendo di

una relativa autonomia economica, sono ancora subordinate all’autorità maschile.

Come proposto per il caso nzema occorrerebbe implementare programmi di sviluppo

collegandoli, dove possibile, alle reti associative locali e nazionali e le figure di potere

potrebbero svolgere in questo senso un’importante funzione di raccordo.

147

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