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www.deportati.it euro 2,50 Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex deportati politici e della Fondazione Memoria della Deportazione Nuova serie - anno XXIV N. 3-4 Ottobre 2006 Sped. in abb. post. art. 2 com. 20/c legge 662/96 - Filiale di Milano IT Un folto gruppo di ebrei salvati negli anni più duri della seconda guerra mondiale si è ritrovato a Gandino, nelle montagne bergamasche. Lastoria della “MalGa alta” (A pagina 6) Un tribunale tedesco ha prosciolto un ufficiale dell’eser- cito nazista che partecipò all’eccidio dei soldati italiani a Cefalonia. Per il magistrato i militari italiani erano dei “tra- ditori (A pagina 14) ELLEKAPPA TRIANGOLO ROSSO Durante l’occupazione nazista Sentenza della pocura di Monaco Gli ebrei salvati dalla gente di Gandino Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück Le nostre storie Per un giudice tedesco “Traditori” gli eroi di Cefalonia Una di loro nascose per tutto il periodo della detenzione un elenco con i nomi e gli indirizzi di una cinquantina di com- pagne di prigionia. Un ragazzo di Como individua tra i no- mi quello di una deportata che aveva raccontato la sua espe- rienza agli studenti della scuola media di Faloppio. (A pagina 18)

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www.deportati.iteuro 2,50

Giornale a cura dell’Associazione nazionaleex deportati politici e della Fondazione Memoria della Deportazione

Nuova serie - anno XXIVN. 3-4 Ottobre 2006Sped. in abb. post. art. 2 com. 20/clegge 662/96 - Filiale di Milano

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Un folto gruppo di ebrei salvati negli anni più duri dellaseconda guerra mondiale si è ritrovato a Gandino, nellemontagne bergamasche. Lastoria della “MalGa alta”

(A pagina 6)

Un tribunale tedesco ha prosciolto un ufficiale dell’eser-cito nazista che partecipò all’eccidio dei soldati italiani aCefalonia. Per il magistrato i militari italiani erano dei “tra-ditori (A pagina 14)

ELLEKAPPA

TRIANGOLOROSSO

Durante l’occupazione nazistaSentenza della pocura di Monaco

Gli ebrei salvati dalla gente di Gandino

Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück

Le nostrestorie

Per un giudice tedesco“Traditori” gli eroi di Cefalonia

Una di loro nascose per tutto il periodo della detenzione unelenco con i nomi e gli indirizzi di una cinquantina di com-pagne di prigionia. Un ragazzo di Como individua tra i no-mi quello di una deportata che aveva raccontato la sua espe-rienza agli studenti della scuola media di Faloppio.

(A pagina 18)

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IT Questo numero

Pag 3 Medio Oriente tra pericoli e segnali di pace Pag 5 Sessantadue anni fa la liberazione di RomaPag 6 Gandino: tutto il paese salvò gli ebrei dai lager nazisti negli

anni cupi dell’occupazione tedescaPag 13 Premiata a Imola la partigiana “Gina”

Pag 14 Cefalonia: una sentenza che giustifica l’eccidio nazista

Le nostre storie

Pag 18 Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück Pag 21 Come Teresa Noce descrive RavensbrückPag 23 Un seminario ad Auschwitz per i docenti d’EuropaPag 24 Agostino Barbieri: sopravvissuto a Mauthausen sublima

il martirio con l’artePag 26 Demetrio Ghiringhelli, mio padre pittore nelle carceri fascistePag 29 Incontro di ex deportati nel castello di Hartheim

La “i” caduta al monumento per gli italiani nel lager di Mauthausen

Pag 30 “Maledetti figli di Giuda vi prenderemo!”, grida il milite confinario fascista

Pag 33 Rifatti i pannelli neri per le sfilate dell’AnedPag 34 “Le polacche accolsero noi deportati come Gesù bambino”

I nostri ragazzi

Pag 36 Dal liceo “Cairoli”: anche noi testimoni della memoriaPag 39 Dal museo di Carpi al campo di FossoliPag 40 Fiori rossi per i deportati di Foligno

Un viaggio premio per una poesiaLa parola a figli e nipoti dei deportati

Pag 41 Premiato a Cecina Mauro BettiRicordo al MonumentaleI nostri lutti

Pag 43 Settant’anni fa la guerra civile di Spagna

Biblioteca

Pag 44 La drammatica realtà dei Cpt:il nostro ruolo per i nuovi ghetti

Pag 45 Vita, Resistenza e deportazione a Soave, nel Veronese

Pag 46 Kalendarium: gli avvenimenti nel campo di Auschwitz 1939-1945

Pag 47 Lo sciopero dei marittimi del 1959Pag 49 Suggerimenti di lettura

Triangolo Rosso Periodico dell’Associazione nazionaleex deportati politici nei campi nazisti e dellaFondazione Memoria della DeportazioneE-mail: [email protected]

Una copia euro 2,50, abbonamento euro 10,00Inviare un vaglia a: AnedVia Bagutta 12 – 20121 Milano.Tel. 02 76 00 64 49–fax 02 76 02 06 37E-mail: [email protected]

Direttore Gianfranco Maris

Comitato di presidenza dell’AnedGianfranco Maris presidenteBruno Vasari vice presidenteDario Segre vice presidenteRenato Butturini tesoriereMiuccia Gigante segretario generale

Triangolo RossoComitato di redazioneGiorgio Banali, Bruno Enriotti, Angelo Ferranti,Franco Giannantoni, Ibio Paolucci (coordinatore)Pietro RamellaRedazione di Roma Aldo PaviaSegreteria di redazione Elena Gnagnetti

Gli organismi dellaFondazione Memoria della DeportazioneBiblioteca Archivio Pina e Aldo RavelliVia Dogana 3, 20123 MilanoTelefono 02 87 38 32 40

Gianfranco Maris presidente Enzo Collotti pres. comitato scientificoBruno Enriotti direttore

Giovanna Massariello e Alessandra Chiappano (INSMLI) attività didatticaElena Gnagnetti segreteria

Il Comitato dei garanti è composto da:Bruno Vasari presidente Giuseppe Mariconti, Osvaldo Corazza, Enrioco Magenes e Mario Tardivo

Il Consiglio di amministrazione della Fondazione è composto da:Gianfranco Maris, Miuccia Gigante, Dario Segre, Ines Ravelli, Giovanna Massariello, Ionne Edera Biffi,Renato Butturini, Guido Lorenzetti, Aldo Pavia

Collaborazione editorialeFranco Malaguti, Isabella Cavasino Chiuso in redazione il 20 Settembre 2006

Stampato da: Via Picasso, Corbetta - Milano

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Nel luglio scorso, non potendoaffidare il pensiero dell’Aned aTriangolo Rosso, che non

sarebbe uscito prima di fine settembre,inviai a tutti i lettori del nostrogiornale una nota, che ora debbonecessariamente premettere a questoarticolo, per renderlo comprensibiledopo la conclusione dell’aggressionemossa da Hezbollah ad Israele ementre stanno prendendo posizione,sul confine del Libano le truppe Onucolà dislocate per accordointernazionale, ad impedire il ripetersidi altre aggressioni, nel quadro di unaintesa diplomatica che dovrebbeconsentire l’instaurarsi tra israeliani elibanesi e palestinesi, di rapportigiusti, necessari per una pace duraturae per l’esistenza di due Stati inPalestina, uno israeliano e unopalestinese.

Èin corso – scrivevo nel luglio ainostri lettori – una gravissimaaggressione nei confronti di

Israele, una manovra che è partita daGaza, da Hamas, che ha sequestratoun soldato dell’esercito israeliano e

ITSi tratta di una sfida esistenziale,

scrivevo, condotta di Hezbollahcon l’appoggio della Siria e

dell’Iran, da milizie libanesi estraneealle forze armate di quel paese, chedelle strutture civili del Libano e delsuo popolo si servono, indifferentialle loro sorti e al loroannientamento, come usbergo per lapropria azione.Affermavo che le continuesollecitazioni di moderazione, chel’Europa faceva giungere a Israele,qualificandone eccessiva la reazione,erano prive di logicità, perchél’azione di Israele era indubbiamentecongrua e legittima, secondo il dirittointernazionale, per cui, nel quadro diun terrorismo criminale senza soste,non si poteva chiedere moderazionese non fornendo concreto aiuto.

Chiedevo e indicavo la necessitàdi un’azione internazionaledell’Unione Europea e degli

Stati Uniti e degli altri Paesi arabi edella Russia, per imporre e ottenere,innanzitutto, la sospensionedell’aggressione in atto da parte di

Medio Orientetra pericoli e

segnali di pace

che si è saldata con un’analoga azionedi Hezbollah, che, partendo da un altroStato, dal Libano, ne ha superato i confini, si è introdotto oltre quelli di Israele, uccidendo e sequestrandosoldati israeliani e proseguendo con il lancio di missili che hanno colpito,tra altri luoghi di Israele, anche Haifa,porto strategico, città industriale,laboratorio economico e scientifico di Israele.

di Gianfranco Maris

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Hezbollah ed Hamas e per imporre eottenere, correlativamente, lasospensione di ogni rappresaglia daparte di Israele, con la liberazione deiministri e dei parlamentari palestinesiarrestati e con il ritiro di Israele daiterritori occupati nella guerra dei Seigiorni, destinati a costituire il territoriodello Stato palestinese.L’accordo internazionale ha ottenuto il cessate il fuoco ed è in corso lastrutturazione della presenza edell’impegno delle truppe dell’Onu.

Ciò è bene. Non è bene, invece,che i dolorosissimi costi umanidel conflitto, che è stato pagato

anche da Israele, dal suo esercito,dalla sua popolazione, dalle suestrutture civili, siano stati, nel bilancioche l’informazione ne ha dato,largamente sottovalutati o,quantomeno, blandamente ricordati, afronte di una rappresentazionesuperiore dei danni, altrettantodolorosissimi, che lo scontro avevacausato alle strutture civili e allapopolazione libanese, facendo apparireil Libano, in siffatta informazione,come un paese aggredito e Israelecome aggressore cieco e crudele, afronte di milizie private Hezbollah cheavevano, nella realtà, aggredito Israelee che, a conclusione del conflitto, sivolevano far apparire come forze diuna resistenza eroica che aveva lottatostrenuamente contro degli invasori.

Israele è stato aggredito,proditoriamente, da Hezbollaharmato, sostenuto dalla Siria e dal

Libano e ha inflitto, con le armi chegli venivano somministrate incontinuazione da altri paesi, graviperdite al popolo israeliano; non hacondotto alcuna forma di resistenza,ma ha agito sostanzialmente comeforza armata di aggressione,appoggiata da altri Paesi, diversi esenza accordi con lo stesso Libano.Le categorie storiche non possonoessere violentate e gli aggressori nonpossono mai diventare aggrediti.È troppo disinvolta la valutazione dastadio di Hezbollah che ha vinto,quando è riconosciuta dalle

dello Stato palestinese e laconvivenza dei due popoli su quelterritorio e con l’isolamento delleforze di eversione rappresentateproprio dalle milizie dei gruppireligiosi che oggi si presentano sulteatro del Medio Oriente con lapretesa di instaurarvi nuove e ferociegemonie.

Una cosa sola vorremmo nonsentire mai più pronunciare danessuna autorità israeliana e

cioè che il ritiro dalla Cisgiordanianon è più tra le priorità di Israele,che, anzi, dà via libera all’espansionedi nuovi insediamenti su queiterritori.È risaputo che le difficoltà cheaccompagnano tutte le guerre, prima,durante e dopo, anzi soprattutto dopo,quando vengono al pettine i nodidelle responsabilità, suggerisconotalvolta alla politica parole ritenuteutili per la sopravvivenza di questa oquella compagine governativa; macerte parole non debbono mai entrarenel novero dei compromessidell’esecutivo e queste parole, inPalestina, sono proprio quelle checoncernono i territori destinati alloStato di Palestina.

Il mondo oggi guarda con il cuorepieno di speranza a quello cheforse sta per nascere in Medio

Oriente, un nuovo governopalestinese unito tra Abu Mazen eHamas, che avvii subito con Israeleun negoziato leale, che porti i duePaesi a quell’approdo di pace e diconvivenza che tutti stiamo sognandoda una vita.La pace in Medio Oriente è unobiettivo che pesa enormemente nelle responsabilità della comunitàInternazionale, ma è anche, amaggior ragione, una responsabilitàstorica epocale che grava soprattuttosugli Stati Uniti d’America e suipopoli e sui rappresentanti dei popolidi Israele e di Palestina, i quali nonpossono ignorare che la pace inMedio Oriente significa la pace nelmondo.

Ginfranco Maris

associazioni di pace internazionali cheHezbollah ha commesso delitti control’umanità e che alla sua aggressionedebbono essere ricondotti e addebitatitutti i costi umani e di distruzionecivile che le azioni di guerra hannodeterminato nel Libano, anche se postein essere a iniziativa di Israele.

Ma come si può parlare divittoria Hezbollah in questecondizioni?

Non è proprio il caso di parlare divittoria, perché l’umanità tutta haperso, e lo sforzo che oggi si staspiegando su quella terra da partedella comunità internazionale è unosforzo per curare piaghe canceroseaperte proprio da Hezbollah, perpervenire a una pace nella giustizia,con accordi che consentano la nascita

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Inaugurato un monumento nella capitale

Sessantadue anni fala liberazione di Roma

A cinque mesi dallo sbar-co di Anzio, il 4 giugno 1944,Roma venne liberata dal-l’oppressione nazifascista.A sessantadue anni da quelgiorno, a piazza Venezia, alato dell’Altare della Patria,lo scorso 4 giugno è statoinaugurato il monumentoa ricordo della liberazionedella capitale, la prima inEuropa a tornare alla li-bertà, e ancor più in me-moria delle migliaia di sol-dati, inglesi, statunitensi,polacchi e di tante altre na-zionalità morti tra Anzio ele mura di Roma.

Massimo Brutti, FurioColombo. Ma soprattuttoda Harry Shindler, uno deipochi soldati ancora in vi-ta tra quelli che sbarcaro-no ad Anzio. Shindler, chevive per molti mesi all’an-no a Roma ha preso la pa-rola durante la cerimonia diinaugurazione ricordandoai numerosi cittadini pre-senti non solo il sacrificiodegli alleati ma anche e so-prattutto le sofferenze delpopolo romano e la fonda-mentale importanza delcontributo di lotta offertodalla Resistenza italiana.Alla presenza di delega-zioni delle nazioni alleate,di rappresentanze delle

Forze armate che allora en-trarono in Roma, delle isti-tuzioni comunali, provin-ciali e regionali, è statoGiuliano Vassalli a tracciareil più sensibile ricordo diquei giorni di lotta e di spe-ranza. Giorni lontani neltempo ma che devono es-sere ben presenti nella me-moria di noi tutti, oggi piùche mai patrimonio neces-sario perché i valori cheportarono tanti giovani asacrificare la loro vita pertutti non vengano traditi pergli interessi solo di alcuni,per i privilegi dei pochi. Maanche perché chi, appel-landosi alla Resistenza,comprenda che se dissen-

tire è legittimo, non altret-tanto sono gli insulti, i fi-schi o i lanci di ortaggi va-ri. E non lo è ancor più bru-ciare le bandiere. Quali chesiano. Esprimere dissenso èesercizio della democrazia.Ma quando oggi qualcunobrucia la bandiera di Israeleè bene sappia che sottoquella bandiera, quella del-la Brigata ebraica, ci fu chipercorse le strade della no-stra penisola per aiutarci ariconquistare la nostra li-bertà, la nostra dignità. Eche quella bandiera sven-tolava a Roma, in via delCorso, quel 4 giugno. Nondimentichiamolo.

Aldo Pavia

Una lastra di marmo in cuiè stata scolpita una scenadell’arrivo degli alleati edil loro incontro con le don-ne e i bambini romani. Unmonumento fortemente vo-luto da Massimo Rendina,presidente dell’Anpi delLazio, da Mario Gullace fi-glio di Teresa Gullace, im-mortalata da Rossellini nelfilm Roma città aperta, dalpresidente del Consiglio co-munale di Roma, GiuseppeMannino, da GiulianoVassalli, uno tra i massimiprotagonisti della Resi-stenza romana, e da tanti,tanti cittadini ed intellet-tuali tra i quali PietroIngrao, Carlo Lizzani,

Un giovane militareamericano portato in trionfodalla folla festante. Nellealtre due immagini: giovani eanziani si intrattengono con isoldati alleati.

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Un gioiellino, con lasua deliziosa piaz-zetta, sulla quale si

affaccia lo storico edificiodel municipio, e la sua su-perba Basilica di sfolgorantestile barocco, con all'inter-no numerosi dipinti del gran-de Giacomo Ceruti, meglionoto col nome di Pitoc-chetto. Anche per noi, saliti su que-sta valle per parlare con isuperstiti di quella fantasti-ca vicenda, ricostruita conrigorosa e meticolosa pre-cisione dallo studioso Iko

Colombi, che ci è stato, inquesti incontri, preziosa gui-da, la visione di Gandino èstata di piacevole impatto.Riguardo alla storia, per for-nire un’idea diquanto sia sta-ta coinvolgen-te, basterà ri-cordare cheben 25 furonole famiglie digandinesi che, in vario mo-do, contribuirono alla sal-vezza degli ebrei. Ma di più: tutto il paese, sipuò dire, concorse in que-

sta generosa gara di solida-rietà, giacché ai componentidi quelle 25 famiglie che, sescoperti, avrebbero fatto unabrutta fine, è giusto ag-

giungere tut-ti gli altriabitanti, che,pur consape-voli, man-tennero il se-greto sulla

presenza degli ebrei.Tacquero tutti, compresol’ex segretario del fascio lo-cale e tutti, direttamente omeno, diedero una mano.

Certo, alcuni di loro, cui èstato assegnato dall’Istituto“Yad Vashem” di Geru-salemme il titolo di“Giusto”, rischiarono piùdegli altri.

Ma tutti, ben cono-scendo i luoghi do-ve gli ebrei erano

nascosti, mantennero il si-lenzio, anche nei giorni incui i tedeschi setacciaronocasa per casa per scovaregiovani renitenti alla leva ocomunque in età per lavo-rare nell’organizzazione

VENTICINQUE FAMIGLIE LI NASCOSERO COL CONCORSO DI TUTTI

Ci sono storie che sono vere ma che non sembrano verosimili, tanto appaiono, anche a distanza di oltre sessant’anni dai fatti, talmentestraordinarie da sembrare più frutto di fantasia che di vera autenticità. Una di queste storie, verissima ed eroicissima,

è quella di un folto gruppo di ebrei salvati neglianni più duri della seconda guerra mondiale dalla collettività di Gandino, un comune dellaBergamasca che offre, anche oggi a chi lo visitaper la prima volta una lieta sorpresa per la sua gradevole fisionomia.

Servizi a cura diBruno Enriotti, Angelo Ferranti e Ibio Paolucci

Tutto il paese s negli anni cupiGandino

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GLI ABITANTI. LA RICOSTRUZIONE DELLO STORICO IKO COLOMBI

Todt o addirittura per esse-re deportati in Germania, ela paura era tanta. Nascostinelle abitazioni o nelle par-rocchie o in un istituto te-nuto dalle suore o, quando ilpericolo era maggiore, nel-le baite di montagna, gliebrei ricevettero la solida-rietà concreta e operante,fatta anche di documenti diidentità con nomi falsi, ri-lasciati dagli addetti agli uf-fici anagrafici del comune. In queste stesse paginepubblichiamo le intervi-ste raccolte a Gandino.

Gandino, vorrei ornare le tue porte e le tue mura con ghirlande di fiori e piantare alberi di vita lungo le tue strade...

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Vivono ancora perso-ne che allora eranopiccole e sono an-

cora in vita ebrei in Italiao all’estero che trascorse-ro qui, nascosti, gli annidella loro infanzia. È stata proprio una di lo-ro, che risiede oggi a NewYork, la signora MarinaLowi, a perorare la causaper il riconoscimento deltitolo di “Giusto” ai gan-dinesi. In quei terribili anni si tro-vava nascosta assieme al-la madre e al fratello in una

casa della famiglia Ongaro.I riconoscimenti sono sta-ti assegnati il 27 novem-bre scorso nel Salone del-la Valle a Gandino, pre-senti il dottor Shai Cohen,consigliere dell’ambasciatadi Israele a Roma, il sin-daco Gustavo Maccari, ilpresidente della ProvinciaValerio Bettoni, il presi-dente della Comunità mon-tana Valle SerianaBernardo Mignani, il co-mandante della locale sta-zione dei carabinieri Gio-vanni Mattarello.

Nel corso della mani-festazione è stato let-to un messaggio in-

viato dagli Stati Uniti daMarina Lowi, da sempre incostante contatto epistola-re o telefonico con il figlio,suo coetaneo, dei propri sal-vatori.Drammaticamente toccan-te, nella sua sobria sempli-cità, la motivazione del di-ploma di “Giusto”: «Perl’aiuto reso a persone ebreedurante il periodo del-l’Olocausto mettendo a ri-schio la propria vita».

alvò gli ebrei dai lager nazistii dell’occupazione tedesca

La MalgaLunga, Museo dellaResistenza oggi e, nellafoto a sinistra,un gruppo di partigianidavanti allastessa Malga.

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Chi ha vissuto quel periodosa che cosa significava quelrischio: o la morte o la de-portazione in un campo disterminio o, nel miglioredei casi, la prigione o l’in-ternamento in un lager dilavoro coatto. Per controchi denunciava un ebreo ri-ceveva un compenso di5000 lire, che allora costi-tuiva una bella somma, ocinque chili di sale, un be-ne che nelle campagne eraprezioso come l’oro.

Il primo ad arrivare aGandino fu il rabbinoSamuel Zeitlin, con la

moglie Katarina, il figlio,la nuora e la piccola Frida,accolti dalla famiglia diMichele Nodari e successi-vamente da quella diLuigino Ongaro. Gli Zeitlinerano jugoslavi e venivanoda Sarajevo, dove era in cor-so da parte dei nazisti unaferoce caccia agli ebrei.Conoscere il numero preci-so delle persone salvate daigandinesi è difficile, ma se-condo Iko Colombi, furo-no almeno una cinquanti-na.

Con molti di loro, do-po la Liberazione, so-no continuati rappor-

ti epistolari. L’architettoFrancesco Ongaro, peresempio, conserva ancorauna lettera di Samuel Zeitlinspedita da Brooklyn nel1951, con espressioni di cal-da riconoscenza al padre.Isacco Zevi, nato a Gandinonel 1941 e ora rabbino inIsraele scrive così al sinda-co: «Voi ci riceveste a bracciaaperte senza badare ai sa-crifici, pronti ad aiutare ildebole. Gandino, vorrei or-nare le tue porte e le tue mu-ra con ghirlande di fiori epiantare alberi di vita lun-go le Tue strade .... Abbiatela mia benedizione». Un al-tro ebreo, Giuseppe Zeitlin,tornò a Gandino per spo-sarsi con Paola Siegelman difronte al sindaco RaimondoZilioli.

Molti gli episodi chepotremmo ancoracitare, alcuni dei

quali sono ricordati nelleinterviste che pubblichia-mo qui di seguito. Il quadroche emerge da questa sto-ria è di una appassionata ecommovente solidarietà.Nell’album tragico del-l’Olocausto il nome diGandino risplende, per l’e-ternità, di una fulgida luce.

Tutta Gandino salvògli ebreidai lager nazisti

La Malga Lunga è in una zona impervia, alta sulle montagneche circondano Gandino. Oggi ci si arriva agevolmente conun fuoristrada, ma sessant’anni fa, quando in queste zoneinfuriava la lotta partigiana, si poteva raggiungere soltanto apiedi dopo ore di cammino lungo ripide salite. È alla MalgaLunga che trovò rifugio una delle famiglie ebree che eranostate nascoste dagli abitanti di Gandino. A portare in questoluogo sicuro Alfred Hacher, sua moglie e le loro duebambine Luzy e Trudy, quando le squadracce fasciste siscatenavano a Gandino alla ricerca degli ebrei, era stata InesAstori che li teneva nascosti nella sua abitazione a rischiodella sua stessa vita. La “maestra Ines”, come tutti la chiamavano in paese, avevaeducato generazioni di bambini di Gandino. Una maestrapreparata e severa, che cercava di trasmettere ai suoi alunnioltre alla grammatica e all’aritmetica anche l’ideologia delfascismo, nella quale peraltro credeva. Quando a Gandino comparvero intere famiglie di ebrei alladisperata ricerca di un aiuto per sottrarsi alla caccia ditedeschi e fascisti, la “maestra Ines” fu tra le prime a venirein soccorso di quegli innocenti perseguitati con generosità ecoraggio. Accolse nella sua casa la famiglia Hacher, lepiccole Luzy e Trudy divennero amiche di sua figlia e conlei frequentarono anche l’asilo tenuto dalle suore. La Malga Lunga rappresentò per la famiglia Hacher lasalvezza nei momenti di massimo pericolo, quando nel paesesi scatenavano i rastrellamenti alla ricerca di partigiani e diebrei. Era la “maestra Ines” che li guidava, assieme alcontadino Mattia, su quelle montagne e andava a riprenderliquando riteneva che il pericolo fosse passato. La Malgasorgeva in una località ritenuta inaccessibile e in quella zonagli ebrei potevano essere protetti dai partigiani e sfuggire alladeportazione nei campi di sterminio. Anche per questo, dopo la Liberazione, la Malga Lunga èstata trasformata in “Rifugio Museo della Resistenza” aricordo della lotta della 53a Brigata Garibaldi.La lotta partigiana nel Bergamasco è stata dura ed è costatanumerose vittime. Due sono gli episodi più significativiavvenuti attorno alla Malga Lunga. Nell’ottobre del 1944, di fronte alla continua crescita delle

La Malga Lunga

Nella foto a colori unafamiglia ebreanascosta a Gandino

Rifugio per famiglie braccate...

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formazioni partigiane sulle montagne, i fascistiorganizzarono un rastrellamento nel tentativo di circondarela 53a Brigata Garibaldi attestata sui monti. Oltre duemilamiliti di Salò equipaggiati con armi pesanti salirono daGandino, Sovere e Clusone. Si accamparono nelle stalledella Val Piana e della Val d’Ager razziando le case deicontadini e facendo pressione su di loro per sapere dove sitrovavano i partigiani. Ottennero soltanto delle rispostevolutamente evasive e contraddittorie che fecero nascere neifascisti la convinzione che i partigiani fossero qualchemigliaio e ben armati. In realtà erano un numero assaiinferiore, anche se qualche giorno prima erano stati raggiuntida una cinquantina di russi, provenienti da una formazionedi Fiamme Verdi della Val Camonica scioltasi dopo unrastrellamento. Preoccupato, il comandante delle squadre fasciste mutò lalinea di condotta. Attraverso un megafono venne diffuso unordine preciso: «Ritirarsi sul sentiero della Malga Lungacon tutto l’equipaggiamento. Proseguiremo in seguito peraltra direzione». Avuta notizia di questa nuova disposizione i partigianipassarono al contrattacco. Giorgio Paglia che in quel periodocomandava la 53a Brigata preparò un agguato alle squadrefasciste in movimento. Un gruppo di partigiani con le dueuniche mitragliatrici di cui disponevano si appostò in unpunto che dominava il sentiero per la Malga Lunga e quandoapparve la colonna dei fascisti aprì il fuoco. Dopo uncombattimento di alcune ore i partigiani riuscirono asganciarsi, mentre i fascisti ebbero alcuni morti e diversiferiti, fra cui il loro comandante.Un mese dopo, il 17 novembre, la Malga Lunga fu teatro diun altro tragico scontro tra partigiani e brigatisti neri. Inquesto edificio abbandonato aveva trovato temporaneorifugio una squadra di partigiani, composta da nove persone,tra cui cinque russi La comandava Giorgio Paglia, unragazzo di 22 anni, allievo ufficiale, studente del Politecnicodi Bologna che dopo l’8 settembre era salito in montagna.Per lui non era stata una scelta facile: suo padre, GuidoPaglia, era morto nel 1936 in Etiopia mentre combattevanell’esercito fascista e per questo era stato decorato con la

medaglia d’oro. La squadra di Giorgio Paglia avevacompiuto una lunga perlustrazione sulle montagne e si eraaccampata alla Malga Lunga, mentre il resto della 53a

Brigata Garibaldi si trovava a qualche ora di distanza.Probabilmente informati da una spiata, i reparti fascisti della“Tagliamento” colsero l’occasione per vendicare la sconfittadel mese precedente. Circondarono la zona e irruppero disorpresa nella Malga, favoriti dal mancato allarme dellasentinella. Dopo un breve combattimento nel quale rimaseroferiti il partigiano “Tormenta” (Mario Zeduri) e il russoStarich, subito finiti dai fascisti a colpi di pugnale, GiorgioPaglia e i suoi compagni dovettero arrendersi. Portati a CostaVolpino furono condannati a morte: tutti meno ilcomandante, al quale venne concessa la grazia in quantofiglio di una medaglia d’oro della guerra d’Etiopia. GiorgioPaglia rifiuta questa concessione, chiede inutilmente lalibertà per suoi compagni, insulta i fascisti e tutti e sette ipartigiani vengono fucilati al muro del cimitero. A GiorgioPaglia verrà assegnata dopo la Liberazione la medagliad’oro.Nel corso dello stesso rastrellamento, erano stati catturati esubito fucilati i fratelli Florindo e Renato Pellegrini. Avevanoentrambi meno di vent’anni, erano venuti dalla Francia percombattere con i partigiani italiani e si erano dati ilsignificativo nome di battaglia “Falce” e “Martello” Unalapide ricorda il loro sacrificio nel luogo dove venneroassassinati: «Il loro nome di guerra - si legge - fu ilsimbolo sacro degli oppressi di tutto il mondo». Gandino oggi non è più il paese dove nei secoli passati siproducevano i “pannilana” esportati in tutto il mondo. È untranquillo borgo ai piedi delle montagne dove si sonocombattute aspre battaglie partigiane. Sui muri del paese sipuò ancora leggere una sbiadita scritta mussoliniana cheesalta la guerra, mentre sulla piazza centrale la sede dellaLega Nord ostenta orgogliosamente i dati del recentereferendum costituzionale (a Gandino i “sì” hanno superatoil 70%). La vita ha ripreso il suo corso normale, ma gliepisodi di solidarietà che sessant’anni fa hanno coinvoltotutto il paese sono un patrimonio di civiltà che non puòessere dimenticato.

... e teatro di lotte partigiane

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Tutta Gandino salvò gli ebrei dai lager nazisti negli anni c

Parlano i protagonisti

Gandino, un piccolo paese dell’alta ValleSeriana, ha un passato importante nella pro-duzione del tessuto povero, il pannolana, quel-

lo da lavoro. I gandinesi tra il Trecento e ilQuattrocento hanno portato i loro prodotti in molteparti dell’Europa del nord, in Germania, Francia,Belgio. Hanno creato ricchezza esibita nelle case pa-trizie e nelle chiese: lo testimonia la Basilica con leopere del Ceruti. Quella storia ha segnato e confor-mato tra alterne vicende la comunità. Nel corso del-la seconda guerra mondiale,come tutto il resto delPaese, Gandino patisce sofferenze e lutti. Si vive confatica lavorando la campagna, culture povere, del-la montagna di mezzo, come sono quelle delle nostrePrealpi, frumento, poco, e granoturco, curando laterra, la stalla e il fienile.I protagonisti della nostra storia sono un’intera co-munità, la loro è la storia di una solidarietà verso iperseguitati che ha coinvolto tutto il paese. Molti deiprotagonisti sono ormai scomparsi. Nella sede delComune abbiamo incontrato chi allora era giova-nissimo.

Nell’incontro che abbiamo avuto con BepiOngaro, Felicita Salvatori Colombi, IkoColombi e il vice sindaco Roberto Colombi, che

al tempo erano poco più che bambini, colpisce la vo-glia di raccontare, di far conoscere come anche inquesto piccolo comune ci si oppose, si resistette an-che rischiando rappresaglie e violenze da parte deinazifascisti. Nelle loro parole emerge chiara questaconsapevolezza: «Eravamo anche noi dalla partegiusta, lo erano i nostri genitori, il vicino che stavanella stessa cascina o nella stessa corte, innanzitut-to per il fatto che erano uomini, donne e bambini co-me noi, che soffrivano per la guerra e che avevano per-so tutto». Loro giovanissimi, inconsapevoli dei ri-schi che correvano i loro genitori partecipavano at-traverso il gioco e poi l’amicizia - che dura ancoraoggi a distanza di tanti anni - a quel rischio e a queipericoli. Nascondere, proteggere, un gioco più gran-de di loro che qualche volta divenne molto pericolo-so, ma di cui capivano, seppure confusamente, l’im-portanza e il significato.

L’avvocato Cousil Lowi assieme a Mary Servalli.

Giuseppe Mosconi, figlio di Giulio che preparava i documenti falsi.

Bepi Ongaro, la famiglia ospitòMarina e Sighi Lowi, duebambini con la madre Maria.

Felicita Astori, figlia dellamaestra Ines.

Iko Colombo, lo storico cheha ricostruito le vicende.

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cupi dell’occupazione tedesca

Bepi Ongaro, mentre ciaccompagna per le strade diGandino, ci indica dalla suacasa, in via Castello, i luo-ghi dove avevano trovatorifugio le varie famiglieebree. La sua ospitò Marinae Sighi Lowi, due bambinicon la madre Maria.Ricorda: «La signora cichiedeva una stanza. I mieisi trovarono a decidere seaccogliere o meno questopiccolo nucleo; mia madrelavorava alla tessitura e miopadre si occupava della pocaterra che avevamo e dellebestie. Lei arrivò come alsolito alle 12 e 40… Io erolì con loro, senza sapere diche si trattasse. Poi miopadre, dopo aver scambiatopoche parole con mia ma-dre, disse che avremmotrovato per loro una sistema-zione, nella parte alta dellacasa; per il mangiare, cheera poco, ci si sarebbe adat-tati. Avvenne così il mioincontro con Marina e Sighi,ricordo i giochi, la curiositàche avevo per queste pre-senze così diverse; la nostraparlata, come eravamo ve-stiti… capivo che loro ve-nivano dalla città. Lapresenza di un presidiotedesco era una fonte dipericolo costante. Moltevolte dovemmo portarlifuori dal paese precipito-samente o nasconderli in unpiccolo locale che avevamodietro la cucina. Nessunononostante i rischi e ilpericolo continuo fece paro-la di quella presenza: tuttisapevano, ma la maggior

Bepi Ongaro ci ha particolarmente aiutati nella visita dei luoghi e nella raccolta dei materiali e con lui Iko Colombiche, con le sue ricerche, ha fatto conoscere questa bella pagina di solidarietà umana.Solo chi coltiva la memoria può guardare con fiducia al domani. Se non sappiamo da dove veniamo, ancora menosapremo dove andare.

Bepi OngaroUna stanzatutta per loro

Felicita AstoriIl coraggio della maestradi fronte ai tedeschi

parte di noi era conscia chesolo continuando a condurrela nostra vita normalmenteavremmo evitato rappresa-glie. Con Marina continuia-mo a sentirci: lei vive inAmerica. Mio padre Bortoloe mia madre Battistina On-garo hanno avuto il ricono-scimento di “Giusti fra leNazioni”, l’unica onorifi-cenza che lo Stato di Israeleconcede a quanti hannoofferto aiuto agli ebreiperseguitati e destinato aquanti si opposero all’Olo-causto. È stato un grande onore perme e per la mia famiglia esono fiero per quanto hannofatto mio padre e miamadre».

La signora Ines Astori, la“maestra Ines”, tenevanascosta una famiglia ebreain una casetta a Plaz, sopraun roccolo, due piccolestanze e un bagnetto. GliHacher venivano da Viennaed erano giunti a Gandinoforse per un passaparola.«Mia madre – ci raccontaoggi la figlia Felicita - liaveva ospitati e tenutinascosti, fuori paese, in unapiccola casa verso il bosco,quindi più sicura e menosoggetta alla curiosità e alledomande imbarazzanti. Unamattina mia madre era ascuola come sempre, entrò ilbidello Castelli tutto agitatoche l’avvertì che i tedeschierano entrati nella scuola eche chiedevano di lei. Miamadre uscì di corsa dall’aulae andò incontro al tedesco di

maggior grado chiedendoglicon durezza per qualemotivo era entrato nellascuola e cosa volesse.L’effetto di questo atteg-giamento così battaglierocertamente disorientò l’uf-ficiale il quale le chiese sesapeva dove si trovava unafamiglia ebrea. La rispostadi mia madre fu pronta:“Sono partiti, non so dovesiano andati, esca dallascuola e non disturbi iragazzi”. Di fronte allafermezza di mia madre, notain tutto il paese per il suocoraggio, i tedeschi volta-rono i tacchi e se ne anda-rono. Soltanto tempo dopo,quando commentammo in-sieme quella drammaticagiornata mi disse: “Per me èstato un momento terri-bile”».Una panoramica di Gandino

negli anni ’20.

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Cousil Lowi era un bam-bino quando la sua famigliasi rifugiò a Gandino.Eravamo nel ’42 e venivanoda Milano. Furono ospitatida diverse famiglie invicolo Orfanatrofio vecchio,vicino all’oratorio e allapalestra dove fu installataanche la sede del distac-camento tedesco. I rischi di essere scopertierano grandi e proprio perquesto gli ebrei dovevanocambiare spesso alloggiotrovando ospitalità in di-verse famiglie. Cousil Lowifa l’avvocato e vive a Mi-lano. «Vengo spesso a Gan-dino – afferma oggi – eogni volta che vengo qui misento come a casa. Vado atrovare Mary Servalli o suasorella, con le quali ab-biamo giocato insieme,avevamo la stessa età. Sono

Cousil LowiTorno qui per sentirmiancora a casa

un sopravvissuto, anchegrazie al loro aiuto. I mieiricordi sono in parte belli inparte brutti, perché abbiamosofferto quella condizionedi non essere più uomini,donne, bambini come glialtri. Ricordo mio padre chefu catturato dai tedeschidurante un rastrellamento.Per fortuna incontrò unufficiale tedesco di originepolacca che lo aiutò. Anche mio padre era po-lacco ed è proprio grazie aquesto incontro, che, dopomolte traversie, riuscì asalvarsi. Per quello che hanno fattoper noi non solo le famiglieche ci hanno ospitato, maanche tutti gli abitanti diGandino, noi ebrei abbiamoper loro una gratitudineinfinita e per questo quandotorno qui mi sento a casa».

L’anagrafe della salvezzaPer nasconderlirilasciavanodocumenti falsi

Giulio Mosconi, dipendente comunale, era ilresponsabile dell’anagrafe comunale di Gandino. Unruolo speciale che svolse per tutti gli anni compresi trail ’43 e il ’45. Il figlio Giuseppe, medico, ci raccontaquanto avveniva la sera tra le mura della sua casa.«Mio padre si faceva aiutare da mia madre, moltopreoccupata, nella preparazione di documenti diidentità per molti degli ebrei che erano presenti aGandino. Il tutto avveniva approfittando dell’esodo dimigliaia di cittadini che avevano lasciato i centri piùgrandi per via della guerra: la confusione e laimpossibilità di registrare i movimenti di tante personepermetteva di ricostruire delle identità nuove. I pericolierano comunque grandi. Ricordo mia madre chementre compilava a mano i nuovi documenti sidomandava icome si poteva far passare delle nuoveidentità che erano state riprese da persone defunte!Questo lavoro non coinvolgeva soltanto la miafamiglia, ma l’intera anagrafe del Comune e voglioricordare con mio padre che nel dopoguerra divennesindaco di Gandino, gli impiegati comunali che con luirischiarano moltissimo: Giovanni Servalli, FrancescoCastelli. Le capacità manifestate in quegli anni da miopadre gli valsero una proposta da parte di una famigliaebrea che avevamo aiutato. La ricevettenell’immediato dopoguerra: trasferirsi in Canada peramministrare una grossa impresa di pellicceria diqualità. Mio padre si interrogò per molto tempo seaccettare o no questo invito. Io e mia sorella eravamogià grandi, studenti all’università e le nostre condizionieconomiche non erano delle migliori. Ma alla finerestammo qui».

Il certificatod’onore cheassegna il titolo di “Giusto”a Bortolo e BattistinaOngaro,rilasciato il30 dicembre2004 dall’ IstitutoYad Vashem

Tutta Gandino salvò gli ebrei dai lager nazisti negli anni

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L’albergo MakallèRifugiodi una famiglia polacca

“L’albergo Makallè si trova un po’ fuori paese, luogodi sosta per chi transitava per quei luoghi, all’apparenzaun posto per camionisti, luogo di ristoro per quanti siinerpicavano per quella valle per trasferire altrovecome dicono ancora oggi a Gandino “il ricco del pan-nolana”. Il nome, Makallè, era stato scelto, dai primiproprietari, in ricordo del sacrificio di quanti eranocaduti in quella sanguinosa battaglia della guerrad’Africa, in Abissinia, nel gennaio 1896, che aveva vi-sto la sconfitta di Adua.Da qualche anno il Makallè ha chiuso i battenti. Oggiè rimasta solo un’insegna un po’ sbiadita, consuma-ta dal tempo, ma ancora ben presente sull’esterno del-la facciata che dà sulla strada principale.La signora Angela Forzenigo viveva nell’albergo coni suoi genitori Francesco Forzenigo e MargheritaAndreoletti, che lo gestivano e ha un ricordo vividodella famiglia Grunland. Erano polacchi, erano giun-ti a Gandino alla fine del ’43, venivano da Milano ecome altri rifugiati nel nostro comune erano dei com-mercianti che avevano dovuto abbandonare le loroattività per effetto delle persecuzioni razziali. Eranomarito, moglie e una figlia: Alina.Come altri erano stati aiutati a cambiare nome. InComune si era costituito un vero e proprio centro difalsificazione di documenti d’identità. In quegli an-ni i bombardamenti nelle grandi città avevano co-stretto all’esodo e all’abbandono delle proprie case edelle proprie attività. Sfollati, questa condizione per-metteva, con molti rischi per chi produceva nuovi do-cumenti, di mettere in salvo molte persone. I Grunlandavevano acquisito il nome italiano di signori Bianchi.Oltre alla nuova identità, le persone che in Comune,all’anagrafe producevano i nuovi documenti, a loro co-me a molti altri fornivano la tessera annonaria, l’uni-ca possibilità di ricevere gli scarsi alimenti previstidal razionamento.Ci racconta ancora la signora Angela che i Grunlanderano particolarmente angosciati per la loro situa-zione e per i rischi continui che correvano: la loro pre-senza in un luogo pubblico molto frequentato li espo-neva al rischio continuo di essere riconosciuti e a do-mande sulla loro provenienza e per quali ragioni sitrovavano lì. «Durante i rastrellamenti – dice – si al-lontanavano senza mai dire dove andassero. Poi ri-tornavano. La signora Grunland restò a Gandino an-che nel dopoguerra ed è sepolta nel nostro cimitero».

Nella foto qui accanto l’insegna un po’ sbiadita delristorante Makallè, rifugio di una famiglia ebrea polacca.

cupi dell’occupazione tedescaPremiata a Imola

la partigiana “Gina”

Nel corso di una manifestazione tenutasi a Imola è statainsignita con una targa ricordo Virginia Manaresi, lapartigiana “Gina”, per il suo impegno nella lottaantifascista. “A Virginia Manaresi - si legge nella targa -la città di Imola riconoscente per l’esempio di vita e dicoraggio, ieri come oggi”.Arrestata nel novembre del 1944, “Gina” vennedeportata nel lager di Bolzano. Sopravvissuta alle torturee riuscita a fuggire si unì ai partigiani in Val di Non. Commentando questo riconoscimento “Gina” ha detto:«Mi sento di dividere tale onore con le compagnepartigiane del campo di concentramento di Bolzano, coni partigiani che hanno contribuito alla mia evasione dallagalleria del Virgolo il 21 aprile 1945, e con chi hasofferto tanto dolore per la nostra lontananza anche senon sono più fisicamente con noi ma sempre nei nostripensieri».

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Come è noto, nel settembre del 1943, le unità italiane dislocate nel-le isole di Cefalonia e Corfù, quasi tutte appartenenti alla divi-sione Acqui, rifiutarono di arrendersi ai tedeschi, li affrontarono

in combattimento e furono sconfitti. Con una ferocia senza pari i tede-schi massacrarono a Cefalonia alcune migliaia di militari italiani che sierano arresi e 6-700 a Corfù. Su questa pagina eroica si è versato moltoinchiostro non sempre con intenti di seria ricostruzione storica. Unaastiosa polemica alimentata senza scrupoli da storici improvvisati haavuto ampia diffusione nei media, tendente a far credere che delle vicendebelliche di Cefalonia non si sia parlato per dare spazio unicamente allaResistenza. Giorgio Rochat, nel suo intervento, fa piazza pulita di que-sta grottesca polemica. Cefalonia - afferma - «non è stata dimenticata,anzi ha fruito di un ricordo privilegiato rispetto al-le altre vicende nei Balcani.

Il 3 ottobre i tedeschi fucilarono un centinaio diufficiali italiani nell’isola di Coos, nel Dodecaneso;di loro si è perso il ricordo, neppure una lapide

testimonia questo massacro. Invece l’ufficio stori-co dell’esercito curò già nel 1945 una prima rico-struzione dei fatti di Cefalonia, l’anno dopo uscì ilvolume di memorie del cappellano Formato, di buo-na diffusione. Nel 1948 ci fu la prima missione sul-l’isola per il recupero delle salme, il cui rimpatrioiniziò nel 1953.

Vennero concesse 18 medaglie d’oro ai cadu-ti, 4 alle bandiere dei reggimenti. VicinoArgostoli fu eretto un monumento efficace,

cui resero omaggio il presidente Pertini, poi il mi-nistro Spadolini, recentemente il Presidente Ciampi».Inoltre Roberto Battaglia nella sua Storia dellaResistenza Italiana pubblicata da Einaudi nel 1953,fornisce un ampio circostanziato quadro dell’epicalotta contro i nazisti. Molti gli aspetti passati in rassegna nel corso deilavori di questo importante “incontro” tenuto a Genova.

Cefalonia: una sentenza c

PER UN GIUDICE TEDESCO I SOLDATI MASSACRATIDAI NAZISTI ERANO “ALLEATI TRADITORI”

Sconcertante sentenza di un giudice tedesco sul massa-cro di Cefalonia. Il pubblico ministero Stern della procura di Monaco diBaviera ha disposto il proscioglimento dell’ex sottote-nente Otmar Muhlhauser, l’ultimo sopravvissuto tra gliufficiali che ordinarono la strage. Secondo il giudice tedesco i militari della divisioneAcqui di stanza nell’isola greca dello Ionio, erano daconsiderarsi equiparati alle truppe tedesche e quindi imilitari che non si erano arresi ai nazisti l’8 settembredovevano essere considerati disertori che si eranoschierati dalla parte del nemico. Quindi, secondo questa sconcertante sentenza, l’eserci-to italiano era parte integrante dell’esercito nazista e

l’obbedienza dei nostri militari alle disposizioni delgoverno di Roma, costituiva un vero e proprio tradi-mento. Questa grave sentenza ha provocato una forte indigna-zione tra coloro che si sono occupati a vario titolo dellatragedia di Cefalonia. Lo storico Gian Enrico Rusconi, autore di un saggio suquesta tragedia, ha rilevato che il tribunale diNorimberga condannò a 12 anni di carcere il coman-dante delle forze tedesche a Cefalonia, generale HubertLanz, per avere fucilato illegalmente soldati e ufficialiitaliani. Si chiarì allora che i militari della divisioneAcqui non potevano essere considerati dei traditori, inquanto avevano obbedito all’ordine di resistere impar-

Nell’ultimo numero della rivista Storiae Memoria dell’Istituto ligure per lastoria della Resistenza e dell’età con-temporanea sono pubblicati gli atti diun “incontro” dal titolo “Cefalonia1943. Valore e sacrificio della divisioneAcqui” tenutosi presso il Comando mi-litare della regione Liguria. Di grande interesse sia le diverse rela-zioni che il dibattito che ne è seguitoconcluso con un intervento del sena-tore Raimondo Ricci, presidentedell’Istituto.

Una fila di uomini e muli percorre la costadello Ionio a Cefalonia per prendere posizionein vista dell’attacco delle forze tedesche.

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La nostra artiglieria prepara le batterie per difenderel’isola.

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Spetta a me, quale presidentedell’Istituto ligure per la sto-ria della Resistenza e del-l’età contemporanea che, in-sieme al Comando militareligure ha organizzato que-sto incontro, concluderlo do-po la bella ricostruzione fat-ta dal generale EnricoMocellin.

Credo che questo con-vegno, lungi dal rie-vocare esclusivamen-

te eventi lontani nel tempo inuna dimensione di memoriaretrospettiva, serva all’og-gi, perché la memoria diCefalonia e più in generaledella terribile, eroica, dram-matica vicenda che ha vis-suto l’Italia tra il 1943 e il25 aprile del 1945, costitui-scono un fattore fondamen-tale per comprendere e in-terpretare il presente.Si può affermare senza re-torica che quella fase stori-ca ha rappresentato la diffi-cile scelta della rottura a se-guito della quale il nostroPaese ha battuto strade ra-dicalmente diverse da quel-le che aveva percorso dopol’avvento del fascismo e del

nazismo. In questo contestola vicenda di Cefalonia è par-ticolarmente significativa.Penso che per quattro deiquasi sei anni di durata, dalsettembre 1939 al maggio1945, di quella immane tra-gedia che fu la seconda guer-ra mondiale, l’Italia è rima-sta al fianco della Germanianazista, condividendone, siapure da alleato subalterno,il progetto di potere e di do-minio totalitario sull’interaEuropa e, nella prospettivadel Reich millenario, sulmondo.

Fu a partire dall’8 set-tembre 1943 chel’Italia operò quel sof-

ferto “ritorno alla ragione”che le ha consentito, con im-mensi sacrifici, di divenireun Paese democratico.Quell’8 settembre non rap-presentò la “morte dellaPatria”, come hanno affer-mato alcuni, ma l’inizio di undoloroso processo di riscat-to nazionale attraverso ilquale venne sorgendo unanuova patria democratica ecivile, sulle ceneri dellaPatria fascista autoritaria e

di Raimondo Ricci *

he giustifica l’eccidio nazista

tito loro dal governo italiano. Lo storico Giorgio Rochat, autore di un recente saggiosu Cefalonia, ha dichiarato che: “Purtroppo la tendenzaa sminuire, giustificare o addirittura negare i propricrimini di guerra, riguarda un po’ tutti i paesi. È un fe-nomeno molto brutto, ma abbastanza “normale”. Nessun militare italiano è mai stato processato per glieccidi compiuti dalle nostre truppe in Etiopia e neiBalcani. Persino gli Stati Uniti oggi rifiutano di sotto-porre i loro soldati alla giurisdizione della Corte penaleinternazionale sui crimini di guerra. La Resistenza della Acqui era perfettamente legittima ela fucilazione delle truppe italiane, attuata su un ordinediretto di Hitler, non può trovare alcuna giustificazione.

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violenta. Questo processo siè dipanato nelle regioni delsud, già liberate dagli eser-citi alleati, attraverso un pro-gressivo procedere verso go-verni via via più rappresen-tativi di una società che or-mai definitivamente con-dannava il fascismo, dal pri-mo governo Badoglio, inte-ramente di nomina regia, aisuccessivi governi regi neiquali entrarono i rappresen-tanti dei partiti antifascisticoalizzati nel Comitato diliberazione nazionale e in-fine, dopo la liberazione diRoma del 5 giugno 1944, daigoverni Bonomi a cui spet-ta il merito di aver proget-tato le tappe di quel passag-gio a una vera democraziache venne chiamato la“Costituzione provvisoria”di una nuova Italia.

Nel centro nord, vale adire nella maggiorparte del Paese, mi-

litarmente e ferocemente oc-cupato dalle armate naziste,quel processo ha assunto icaratteri della Resistenza ar-mata,che fu una delleResistenze più attive tra quel-le che si svilupparononell’Europa invasa e sog-giogata dal nazifascismo. Credo possa affermarsi chealcuni dei caratteri peculia-ri della Resistenza italianasono derivati proprio dal fat-to che essa non si propone-va soltanto di liberare ilPaese dall’occupante stra-niero, ma intendeva libera-

re l’Italia dalla dittatura fa-scista, quella che per ventianni aveva profondamentepermeato la nostra comunitànazionale e quella che pervolontà tedesca si era rico-stituita incarnandosi nel se-condo fascismo collabora-zionista di Salò.

Una Resistenza in so-stanza più “politica”che ha coinvolto am-

piamente tutte le componentisociali, a cominciare dai la-voratori delle fabbriche edalle popolazioni delle cam-pagne, rispetto a molteResistenze europee.È per queste ragioni che laResistenza assume un si-gnificato particolare nellastoria d’Italia e Cefalonianella sua drammaticità nerappresenta uno degli epi-sodi più emblematici.Si è trattato infatti di un epi-sodio che si colloca all’ini-zio della lotta di Liberazionea opera delle nostre Forzearmate proiettate dal fasci-smo oltre i confini d’Italiaper inseguire un sogno di po-tenza e di dominio.Scavo nei miei ricordi perrievocare motivi e vicendedelle scelte di quel settembre1943. Ero un giovane uffi-ciale di Marina, in servizionel Ponente ligure quandola Marina fece la scelta di li-bertà che ben conosciamo.Anche nel mio piccolo de-cisi, avendo maturato la scel-ta antifascista, di andare inmontagna con alcuni miei

marinai e compagni di ideeper cercare, e non sapeva-mo ancora se ciò sarebbe sta-to possibile, di organizzarela resistenza. I primi risul-tati dimostrarono che, purtra mille difficoltà, la lottasarebbe stata possibile, i ri-sultati seguirono alle spe-ranze.

Ma veniamo a Ce-falonia: come ave-te appreso dalle re-

lazioni di Rochat, diSchreiber e da tutti gli altriinterventi e testimonianze,tra gli ufficiali e i soldati del-la divisione Acqui e degli al-tri contingenti militari pre-senti sull’isola era matura-to un forte sentimento anti-fascista e antitedesco, si eraaffermata la consapevolez-za della mancanza di moti-vazioni e quindi della so-stanziale inutilità della guer-ra; per quanto quei soldati equegli ufficiali avesserocompiuto il loro dovere mi-litare, era in loro maturatala sofferenza per il fatto chequella guerra colpiva gra-vemente la popolazione ci-vile, le donne, i bambini e laconsapevolezza che essa co-stituiva un’avventura in cuiil fascismo aveva trascina-to l’Italia contro i suoi stes-si interessi e la volontà delPaese.

Fu questo sentimento,unitamente al sensodell’onor militare ita-

liano, fortemente sentito co-

me fondamentale punto diriferimento nelle condizio-ni della lontananza dalla ma-drepatria che mosse i nostrisoldati e ufficiali a opporsi aitedeschi, condividendo lascelta del legittimo gover-no italiano, che nella ge-stione del passaggio crucia-le dell’armistizio aveva pe-raltro avuto pesanti colpe eresponsabilità, di ritirarsidall’alleanza con il Reich.Decisione che apriva la spe-ranza, che si sarebbe rivela-ta infondata, della fine, perl’Italia, della guerra.Il travaglio del generaleGandin, ricordato da Rochate dal generale Mocellin, èben comprensibile in quan-to egli più dei suoi uominisi rendeva conto degli esitipossibili e drammatici ver-so cui si stava andando e tut-tavia non venne meno al suoimpegno di seguire la via in-dicata dalle leggi dell’ono-re e dai sentimenti dei suoiuomini.Credo che a Cefalonia siastato compiuto uno dei piùgrandi crimini di guerra: nonè vero, come alcuni hannosostenuto, che non esistes-sero al tempo leggi e normeche identificassero con pre-cisione essenza e natura deicrimini di guerra. Essi era-no puniti dalle Convenzioniinternazionali di Ginevra edell’Aja e dalla legge italia-na.Nonostante ciò i militari te-deschi, sotto la guida del to-talitarismo nazista, di tali

Le fotoriprendonouno“Stukas” chescaricabombe sullepostazioniitaliane

Cefalonia

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Nelle trincee i nostri soldati, consci della superiorità tedesca,si sono trincerati nelle varie postazioni sulle alture lungo lecoste, cannoneggiando i mezzi da sbarco degli ex alleati. Ilrombo preannucia l’arrivo dei cacciabombardieri.

Da quelle tragedierinasce la patria

crimini si resero colpevoliin molteplici occasioni suivari fronti, dalla Poloniaall’Unione Sovietica, dallaFrancia all’Italia.I fatti di Cefalonia di cui ave-te ascoltato la terribile, inau-dita sequenza, costituisco-no uno dei più efferati di que-sti crimini.Consentitemi di chiuderequesta mia riflessione conalcune brevi considerazio-ni di carattere generale: sipuò pensare a Cefalonia sen-za richiamare altri immensicrimini commessi dal nazi-smo come lo sterminio dimilioni di persone, inclusidonne, vecchi, e bambini,nel corso della seconda guer-ra mondiale?

Enon vanno inclusi nel-la terribile e aberrantelogica dello sterminio

anche i militarmente inutilibombardamenti compiuti da-gli Alleati, come quello diDresda, e l’uso delle bom-be atomiche su Hiroshima eNagasaki che causarono cen-tinaia di migliaia di vittime?La seconda guerra mondia-le, con i suoi 60 milioni dimorti in Europa e in Orienteha costituito la prima gran-de sperimentazione dellapossibilità di un annienta-mento umano senza limiti.Oggi gli ulteriori progressidella scienza e della tecni-ca hanno dotato l’umanitàdi mezzi di distruzione ca-paci di annientare ogni par-venza di vita sull’intero pia-neta.Questa è divenuta una con-creta possibile realtà, realtàindiscutibile che pone difronte alle nazioni, ai go-verni, ai popoli, a tutti noi, intermini qualitativamentenuovi, il grande problemadella guerra o della pace, delconflitto o del dialogo, deldominio o dell’accordo con-diviso, preludio di un go-verno mondiale.Già la seconda guerra mon-diale ha suggerito alla co-munità internazionale attisolenni di tutela dei dirittiumani fondamentali e di af-

fermazione della parità ditutti gli esseri umani sullafaccia della Terra come è av-venuto nella Dichiarazioneuniversale di Los Angelesdel 1946 e nei principi af-fermati nello Statuto del-l’Onu.

Riprendere oggi la viaindicata come inelu-dibile dopo quella tra-

gedia è necessario. E questanecessità deve essere benpresente alla politica inter-nazionale e alle Forze armatedi ogni Paese. Se l’Italia inquesta direzione vuole svol-gere un ruolo positivo ha bi-sogno delle sue Forze arma-te, ma esse devono ispirarsiai principi inseriti nella no-stra Costituzione che è statachiara ed esplicita nell’indi-care le nuove prospettive cheabbiamo richiamato.

Queste prospettive so-no condensate nel-l’art.11 che non solo

vieta, ma ripudia la guerracome strumento contro la li-bertà degli altri popoli e co-me mezzo per la risoluzionedelle controversie interna-zionali e a ciò non si limita,ma stabilisce esplicitamentela disponibilità della nostraRepubblica alla rinuncia aquote di sovranità purchéquesto serva, a condizionedi reciprocità, all’afferma-zione della giustizia e dellapace tra le Nazioni e impegnala Repubblica a favorire tut-te le iniziative che si pro-pongano questa finalità.In questo convegno sugli av-venimenti di Cefalonia delsettembre 1943, un conve-gno che si svolge nella sedesignificativa del Comandomilitare della regioneLiguria, credo di poter scor-gere un segno di sensibilitàdelle nostre Forze armate al-le esigenze che ho inteso ri-chiamare.

*presidente dell’Istituto ligure per la storia della

Resistenza e dell’età contemporanea

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Trieste, 1° ottobre 2005.Nella Risiera di San Sabbaaccade qualcosa di spe-ciale: dopo sessant’anni sisono rincontrate Ines eAlbina, due sopravvissuteai campi di Auschwitz eRavensbrük. L’atmosfera è più lieve delsolito, gli edifici spettralie la consapevolezza dellecose accadute durante laguerra incombono meno diquanto accada normal-mente. Si respira un’ariache una delle due, la Ines,definirà di “gioia pacata”lasciando la sua testimo-nianza scritta nel libro deivisitatori. Nel Museo le so-pravvissute si sono scam-biate baci, abbracci e maz-zi di fiori, e hanno rievo-cato tratti di quel terribilepassato che le ha tenute le-gate per tutta la vita con unfilo invisibile, che circo-stanze casuali e persone dibuona volontà hanno per-messo di dipanare. Poi èsgorgato l’applauso a lun-

go trattenuto e si sono vi-ste molte persone - soprat-tutto tra i ragazzi della scuo-la di Faloppio, Como - congli occhi umidi.Le sopravvissute si chia-mano Rosalia Poropat (mail nome di battesimo con-sta solo agli atti ufficialidato che per chi la cono-sce è stata sempre Albina),istriana dell’altopiano deiCicci, di nazionalità croa-ta, da una vita trapiantata aTrieste, e Ines Figini, lom-barda di Como. Anche senon è elegante, tocca an-notare che la prima ha no-vantuno anni, la secondacirca dieci di meno. Si so-no conosciute sessant’an-ni fa, nel lager di Raven-sbrück, il famigerato “in-ferno delle donne”.Entrambe sono state tra lepoche a sopravvivere equindi hanno avuto la for-tuna di poter tornare allavita civile, ciascuna a casapropria per riprendere inmano il corso della propria

Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück

Una di loro nascose per tutto il perio-do della detenzione un elenco con i no-mi e gli indirizzi di una cinquantina dicompagne di prigionia. Un ragazzo diComo individua tra i nomi quello diuna deportata che aveva raccontato lasua esperienza agli studenti della scuo-la media di Faloppio.

Le nostrestorie

Grazie a un documento conservato nel Museo della Risiera

di Francesco Fait *

Altro particolaredella strisciacompilata da AlbinaPoropat aRavensbrück nel1944. Si tratta della parte finaledella striscia,“sottoscritta” daAlbina con il suonumero di matricola aRavensbrück, il 73705.

Particolare dellastriscia di cartacompilata da Albina Poropata Ravensbrück nel 1944 in cuicompare nome e indirizzo di Ines Figini.

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esistenza, ciascuna di-menticando a poco a pocovoce e fattezze dell’altra.Ma l’intreccio di questedue vite non era destinatoa cadere nell’oblio perchéuna delle due, l’Albina, aitempi della deportazioneaveva deciso che non po-teva permettere che quelloche stava capitando a lei ealle sue compagne venis-se un domani scordato, onegato, o mistificato. Perquesto aveva sottratto unastriscia di carta all’offici-na presso cui era costrettaa lavorare, si era procura-ta una matita all’anilina,aveva vergato nomi e in-dirizzi di alcune delle suecompagne e aveva custo-dito la striscia tenendolaarrotolata sotto l’ascella inogni momento della gior-nata fino alla liberazionee poi ancora, dopo libera-ta, durante il lungo viag-

gio di ritorno. E in anni anoi vicini, nel 2001, dopoaverla tenuta per sé in ca-sa per più di cinquant’an-ni, aveva deciso che quel-la striscia non doveva re-stare più un affare privatoe che era giunto il momentoche assolvesse al dovere ditestimone che le aveva de-stinato. La striscia era stata dona-ta al Museo della Risieradi San Sabba ed era rima-sta esposta, finché, nelmarzo del 2005 era stataadocchiata da FrancescoBaj, un ragazzo sveglio diFaloppio, in provincia diComo, venuto in gita d’i-struzione con una classepreparata da insegnantiamorevoli e condotta in vi-sita guidata con profes-sionalità garbata da un’o-peratrice del ServizioDidattico dei Civici Museidi Storia ed Arte di Trieste.

di San Sabba

Museo della Risiera di SanSabba, e Adriano Dugulin,direttore dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste(fotografia di CristinaKlarer).

Rosalia Poropat“Albina”

InesFigini

Francesco si era preso labriga di leggere tutti i cin-quanta nomi di quella listacompilata tanti anni pri-ma, sbigottendosi nelloscoprire che una delle cin-quanta, Ines Figini, era pro-prio quella signora venu-ta poco tempo prima inclasse a fare lezione su la-ger e deportazione.Infine, l’entusiasmo e lospirito organizzativo deglioperatori della scuola diFrancesco e del Museo del-la Risiera di San Sabbaavevano fatto intesserecontatti febbrili culminatiin quell’incontro emozio-nante. Ma la storia di Albina eInes e di questo loro lega-me sotterraneo riemersodopo sessant’anni è tal-mente appassionante chevale la pena di ripercor-rerla con qualche partico-lare in più.

Il Comitato sindacale inter-regionale di Piemonte,Liguria e Lombardia ha in-detto uno sciopero per boi-cottare l’economia delle zo-ne ancora occupate dai na-zifascisti allo scopo di ac-celerare lo schianto dellepotenze dell’Asse. La mat-tina del 6 marzo alcuni at-tivisti affiggono i manifestidi stampa clandestina chepubblicizzano lo scioperonei locali della più grandefabbrica tessile lariana, laTessitura Comense. Ad os-servarli c’è, tra gli altri, InesFigini, una ragazza che ha

Risiera di San Sabba, Trieste,1° ottobre 2005: le duesopravvissute insieme aFrancesco Baj, lo studente diFaloppio (Como) scopritoredel nome di Ines Figini nellastriscia custodita al Civico

Como, marzo 1944

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Si affiggonoi manifesti di stampa

clandestina che pubblicizzano

lo sciopero.

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poco più di vent’anni, cheama leggere e fare attivitàsportiva, che non si inte-ressa e non si è mai inte-ressata alla politica ma cheaderirà lo stesso allo scio-pero, come tutti gli altri ope-rai dello stabilimento.Scatta la rappresaglia e ven-gono arrestati gli organiz-zatori della mobilitazione,cinque uomini e tre donne.Ines è giovane ed ha unospiccato senso di giustiziae proprio non ce la fa a ta-cere: fa notare - “per un im-pulso di difesa e di solida-rietà” dirà decenni dopo -che se allo sciopero aveva-no aderito tutti non era giu-sto che a pagare fossero so-lo in otto. Non è altro cheuna riflessione pacata, im-prontata ad un elementaresenso di giustizia, ma chenell’Italia di allora può ri-chiedere a chi osa farla - einfatti richiede - un prezzoaltissimo. Ines viene arre-stata, condotta a Bergamo eda qui deportata adAuschwitz, che raggiungeil 20 marzo. Ad Auschwitz cessa di es-sere Ines Figini per diven-tare un numero, il 76150.Ad Auschwitz lavora allabonifica dei terreni vicinial lager; ce la fa a soprav-vivere, è una delle poche,ma quando arrivano i so-vietici a liberare il campoil 27 gennaio 1945, lei nonè là ad accoglierli, non può,è stata appena trasferita aRavensbrück.

Albina Poropat vive aTrieste da una decina di an-ni. Dal settembre del 1943,Trieste fa parte dell’Adria-tisches Kuenstenland as-sieme alle province di Pola,Fiume, Gorizia, Udine e al-la zona di Lubiana occupa-ta dall’esercito italiano aseguito dell’invasione na-zifascista alla Jugoslaviadell’aprile del 1941. Si trat-ta di territori sottratti allagiurisdizione della Repub-blica sociale italiana ed am-ministrati direttamente daitedeschi, probabilmente perentrare in futuro a fare par-te a tutti gli effetti del Reich.L’occupante istituisce unapparato repressivo tra i piùefficienti e spietati, che hail suo perno nel lager trie-stino della Risiera di SanSabba, campo di transitoper ebrei e di eliminazionedi partigiani ed oppositoripolitici italiani, sloveni ecroati. La posizione geo-grafia del litorale adriaticoè essenziale per le sorti delconflitto in quanto fungeda cerniera tra la Germaniae i teatri di battaglia del-l’Europa meridionale edorientale. Da questo puntodi vista è di primaria im-portanza la strada che col-lega Fiume a Trieste e chefa da confine in senso lon-gitudinale alla Cicceria, unaregione abitata a nord dasloveni e a sud da croati che

è una vera e propria spinanel fianco nell’apparato mi-litare del Reich, essendo“infestata da bande”. È laterra in cui è nata Albina,ed è la terra in cui, aVodizze, viene arrestata il10 agosto del 1944. Il bi-lancio di quella data è tra ipiù funesti del litorale adria-tico, una delle zone mag-giormente insanguinated’Italia. In quel giorno, inquei paraggi, decine di vil-laggi vengono rasi al suoloe incendiati e centinaia dipersone vengono deportate,un numero imprecisato so-no gli assassinati. Albina sitrova a Vodizze per caso, èandata a trovare la mammarimasta al paese. Ma co-munque fa parte dellaResistenza, è staffetta par-tigiana, porta messaggi na-scondendoli nei risvolti del-la gonna. Viene portata aTrieste, alle carceri delCoroneo, poi in camion fi-no a Monfalcone. Da qui intreno ad Auschwitz che rag-giunge il 21 agosto 1944.Ad Auschwitz rimane po-chi giorni e in settembre èa Ravensbrück, il famige-rato “inferno delle donne”che si trova a un’ottantinadi chilometri da Berlino.

Albina diventa la numero73705. Ogni mattina si sve-glia alle tre assieme alle suecompagne e dopo l’inter-minabile rituale dell’ap-pello si mette in marcia. Perraggiungere la fabbrica incui lavora tocca cammina-re per ore ed è dura ancheperché l’unico vitto è rap-presentato da patate. Il la-voro si svolge in uno sta-bilimento in cui si costrui-scono rotoli di micce peresplosivi ed è qui che si im-possessa della striscia dicarta - larga dieci centime-tri e lunga più di due metri- e della matita all’anilina esi mette a scrivere i nomi egli indirizzi di cinquantasue compagne di sventura,prevalentemente di Trieste,dell’Istria e del Goriziano,ma anche di altre provinceitaliane e persino ceche,croate, francesi. Tra essec’è anche Ines Figini, viaTommaso Grossi 25, Como. Il 30 aprile 1945 l’ArmataRossa libera il lager diRavensbrück. Albina ces-sa di essere la numero73705 e può riassaporarela libertà. Ines no, non an-cora, a lei toccherà solo il 5maggio. Ines deve passareancora un’ultima prova,forse la più tremenda, unadelle famigerate “marcedella morte”.Poi, piano piano, per en-trambe, il ritorno alla vita

Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück

Vodizze, Istria, agosto 1944

Ravensbrück, estate 1944

Detenute al lavoro in un’immagine diffusa dalle autorità germaniche.

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L’occupante istituisce

un appartato repressivo

tra i più efficienti e spietati.

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civile, con una voglia dinormalità talmente spicca-ta da indurre Albina con al-tre reduci della deporta-zione a destinare, sulla viadel ritorno al Brennero, gliunici marchi da loro fortu-nosamente raccattati in untaglio decente con messain piega ai capelli ricre-sciuti nel frattempo.Ciascuna torna a casa, Inesa continuare ad appassio-narsi allo sport e alla let-tura, Albina a mettere sufamiglia. Entrambe man-tengono per decenni il ri-serbo sulle vicissitudinidella deportazione.Entrambe accetteranno diparlare della propria espe-rienza solo in anni a noimolto vicini: Ines parteci-

pando a un ciclo di confe-renze nelle scuole della suaprovincia, Albina (che co-munque è da sempre iscrit-ta all’Associazione nazio-nale ex deportati dove èogni anno la prima a recarsiin sede ad onorare la quo-ta annuale d’iscrizione) of-frendo la sua testimonian-za agli storici nell’ambitodi “Ultimo Appello”, un’i-niziativa di salvaguardiadella Memoria curata pro-prio dall’Aned.

La Risiera di San Sabba,che ogni anno riceve deci-ne di migliaia di visitatori(l’anno dei record è il 2004in cui si ha un’affluenza dioltre 130.000 persone), èun caleidoscopio di gio-ventù. È il periodo del-l’anno in cui si effettuano legite scolastiche e ci sonoscolaresche che provengo-no da tutta Italia (ma anchedall’estero, soprattutto dal-le vicine Austria, Sloveniae Croazia ma non solo),molte delle quali condottein visita dalle guide delServizio Didattico deiCivici Musei di Storia edArte di Trieste. Sono, que-

ste, guide che brillano perpreparazione essendo tuttilaureati in materie storichee scelti a seguito di sele-zione pubblica. E bisognaammettere che la reputa-zione del livello di eccel-lenza raggiunto dal ServizioDidattico attira sempre piùutenti anno dopo anno.L’approccio dei giovani conun luogo difficile come laRisiera di San Sabba è mol-to vario, ed è essenziale daquesto punto di vista il la-voro preparatorio svolto da-gli insegnanti a scuola oltrealla professionalità delleguide.Gli insegnanti della scuo-la media di Faloppio, Co-mo, hanno seminato moltobene, e i frutti si vedono.

Trieste, 12 marzo 2005

Come Teresa Nocedescrive Ravensbrück

Fra le deportate nel campo di sterminio di Ravensbrückc’era anche Teresa Noce, valorosa combattente nel-la guerra di Spagna, giornalista con il nome di“Estella”, membro della direzione del Pci. Dal suo li-bro Ma domani farà giorno stralciamo una sua de-scrizione del lager nazista:

Chi può descrivere Ravensbrück?Non che le baracche siano brutte, luride, sporche. Neicampi, i tedeschi conoscono l'arte di far morire i de-portati tra gli insetti e la sporcizia e di mantenere un’ap-parenza di ordine e di pulizia nelle baracche e nei cam-pi. Così vuole la “kultur” tedesca e nazista.Attorno alle baracche, una striscia verde, qualche vol-ta perfino dei fiori. Ma il campo è lastricato, tra una ba-racca e l’altra, di polvere di carbone; e camminando,la polvere si solleva, sporca, penetra ovunque. Le de-portate hanno tutte l’apparenza di carbonaie. Questo faparte, come saprà più tardi Giovanna, del sistema ditortura lenta e scientifica.Squadre di deportate circolano, comandate e circon-date da SS uomini e donne. Sono le squadre di lavoro.E all’entrata e all’uscita dal campo sono obbligate amarciare al passo e a cantare inni tedeschi. Guai a chisbaglia un passo! Guai a chi non canta! Bastonate, di-giuno, cella di rigore. E qualche volta peggio.Quelle che tornano dal lavoro hanno quasi tutte la zap-pa in ispalla. Tornano dal lavoro di sterro o dalla palu-de. Dodici ore di lavoro al giorno: dalle sei della mat-tina alle sei di sera. E la domenica come i giorni feria-

li. Poi vi sono quelle che lavorano nella grande offici-na Siemens che sorge lì accanto, tra il campo femminilee quello maschile. È alimentata solo dal lavoro dei de-portati, uomini e donne. Le nuove arrivate guardano, guar-dano.E aspettano. Come già a Saarbrücken, anche qui aspet-tano per ore ed ore di essere registrate, perquisite, spo-gliate di tutto. Sempre in piedi, immobili, senza unagoccia d’acqua, senza un pezzo di pane. Quando una del-le disgraziate fa un movimento o cerca di sedersi, un col-po di bastone la rimette in piedi. Così, dalle 5 del po-meriggio alle 11 di sera.

La copertinadel libro dimemorie diTeresa Nocedisegnato daAmpelioTettamanti.

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Entrambe mantengono per decenni

il riserbo sulle vicissitudini

della deportazione.

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Francesco Baj, alunno del-la classe terza, si imbattenel rotolo di carta compi-lato da Albina tanti anni pri-ma e donato al CivicoMuseo della Risiera di SanSabba nel 2001 e vi scopreil nome di Ines Figini. Daquesto momento scattanofebbrili i contatti tra la scuo-la e il Museo ed è grazie al-la caparbia volontà della di-rezione del Museo che ledifficoltà contingenti pos-sono essere superate, ren-dendo così possibile ilcommovente incontro pub-blico del 1° ottobre 2005.Resta da aggiungere chel’incontro pubblico ha unprologo privato, richiestodalle due sopravvissute, chesi è svolto il giorno prima,il 30 settembre 2005, a ca-sa della Albina, un appar-tamentino sito a Colon-covez, un rione della peri-feria triestina, in cui la si-gnora vive da sola circon-data da affetto e fotografiedi figli, nipoti e pronipoti.Cosa si siano dette le duedonne in quel momento nonsi sa, è rimasto un fatto pri-vato, e a noi pare giusto chesia stato così. Questa sto-ria offre molti spunti di ri-flessione, vorremmo diredi insegnamenti. Ci inse-gna che anche in un luogoinfernale quale era un la-ger della Germania nazio-nalsocialista erano possi-bili gesti di resistenza uma-na come quello osato daAlbina Bosich Poropat aRavensbrück. Gesti eroici(Albina sapeva che qualo-ra la sua lista fosse stata

Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück

Creare maggiori collegamenti fra

La proposta era statamessa a punto a feb-braio, durante un se-

minario in cui le agenzieformative che si occupanodi Shoah nei differenti pae-si europei avevano sotto-lineato la necessità di crea-re maggiori contatti fra gliinsegnanti dei vari paesi,anche in vista di uno scam-bio di esperienze sull’in-segnamento della Shoah edella deportazione. Ovviamente si trattava dilanciare un progetto forte-mente innovativo e non pri-vo di rischi: era davveroipotizzabile uno scambioserio, utilizzando come lin-gua franca l’inglese? E an-cora, le notevoli differen-ze fra le varie nazioni nonavrebbero reso improdut-tivo il seminario?In realtà fin dalle primebattute è stato chiaro cheil seminario si sarebbe ri-velato un grande succes-so, oltre le aspettative de-gli organizzatori.Innanzi tutto, nonostantele barriere linguistiche, siè immediatamente creatauna forte empatia che hapermesso agli insegnantiprovenienti da Inghilterra,Danimarca, Liechtenstein,Austria, Germania, Italia,Croazia, Ungheria, Litua-nia, Russia, Francia,Finlandia, Polonia, Ro-mania, Svezia, Norvegiadi diventare un gruppo coe-so, pronto a riflettere sul-le tematiche via via pro-poste dagli organizzatori.

Le lezioni sono state tenu-te sia da storici del Museodi Auschwitz-Birkenau, siada esperti della scuola in-ternazionale per lo studiodella Shoah di Yad Vashem.Gli argomenti sono statiefficacemente suddivisi:alcune lezioni hanno toc-cato problematiche emi-nentemente storiche, in cuisono state affrontate te-matiche più specificata-mente didattiche ed edu-cative. Naturalmente dalmomento che ci si trovavaad Auschwitz è stato af-frontato più volte e da an-golature differenti il temadelle visite ai luoghi.Questa tematica oggi sta,per così dire, quasi al cen-tro della didattica dellaShoah, in Italia come ne-gli altri paesi d’Europa. Maquali sono le strategie pertrasformare le visite ai luo-ghi in un’occasione nonsolo commemorativa, masoprattutto educativa e for-mativa?

Da tutti i partecipan-ti, così come dai re-latori (in particola-

re Chava Baruch) è statarilevato che le visite ai luo-ghi si caricano di una rea-le significatività solo quan-do si trovano al centro diun progetto educativo chenon si esaurisce con la vi-sita, ma che ha nella visi-ta un momento fondante.La didattica per progetti,dunque, pare essere la so-la capace di incidere, di ri-svegliare interessi, di mo-

Dal 6 al 10 settembre 2006, grazie alla collaborazio-ne fra il Museo di Auschwitz-Birkenau e l’istitutoYad Vashem di Gerusalemme, si è svolto, nel com-prensorio del Museo di Auschwitz, un seminario perdocenti, a cui hanno partecipato due insegnanti perogni nazione, scelti fra coloro che avevano già presoparte ai seminari che si svolgono a Yad Vashem,presso la Scuola internazionale per l’insegnamentodella Shoah.

‘‘

E infine ci insegna quantoresti ancora fertile

e insostituibile il ruolo

della scuola .

scoperta la pena sarebbestata la morte), eppure com-piuti da persone normali.Quasi una banalità del be-ne, nel senso di un beneconsapevole eppure natu-rale, da contrapporre allabanalità del male di chi sta-va dall’altra parte di cui ciha parlato Hannah Arendtnell’omonimo libro.E infine ci insegna quantoresti ancora fertile e inso-stituibile il ruolo della scuo-la e della didattica musea-le che, grazie anche al con-tributo dei dirigenti dell’As-sociazione nazionale ex de-portati di Trieste, hanno per-messo di riannodare un fi-lo invisibile che da ses-sant’anni continuava a te-nere legate due persone. Hadetto Adriano Dugulin, di-rettore del Civico Museodella Risiera di San Sabba:«Si tratta di un evento distraordinaria importanza,non solo da un punto di vi-sta umano, ma anche di altosignificato morale e civileper la trasmissione della me-moria ai giovani, perché na-to in un percorso educati-vo.»

*Civico Museo della Risiera

di San Sabba,Civici Musei di Storia

ed Arte

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insegnanti dei vari paesi, anche in vista di uno scambio di esperienze

Un seminario ad Auschwitz per i docenti d’Europa

tivare gli studenti. In que-sta dimensione la storiadella Shoah, del nazismo,della deportazione può di-venire uno dei nodi strate-gici per affrontare i disagie le difficoltà di un pre-sente difficile, che spessosi colora di antisemitismo,di razzismo, di intolleran-za.

Va da sé che una di-dattica per progettiimplica il ricorso al-

la multidisciplinarità: ac-canto alla storia, che devefornire la necessaria cor-nice, deve esserci il posto

per la letteratura, l’arte, lamusica, il cinema, la filo-sofia. Questo significa chei docenti devono progetta-re insieme: solo in questomodo la giornata della me-moria non risulterà unacommemorazione sterile,solo così i viaggi nei luo-ghi della memoria diven-teranno una formidabileoccasione di apprendi-mento. In tutte le scuoleitaliane si legge PrimoLevi, ma quanti lo fannoaccostando in tutt’uno l’a-spetto letterario e quellostorico?

Quanti sanno che il cam-po di Primo Levi,Monowitz o Auschwitz IIInon è oggi visitabile?

La dimensione stori-ca, è stato ribaditopiù volte, è essen-

ziale: solo attraverso unaconoscenza approfonditadel nazismo, delle caratte-ristiche peculiari dellaguerra combattuta sul fron-te orientale, delle strategieposte in essere per giun-gere alla “soluzione finale”si può cercare di capireAuschwitz, un complessoconcentrazionario dallastraordinaria complessità,progettato per stroncarel’opposizione polacca, persfruttare il lavoro schiavo,ma anche il luogo deputa-to per lo sterminio degliebrei d’Europa. Un com-plesso che si estendeva suun territorio di circa 40 kmquadrati, che comprende-va almeno una quarantinadi sottocampi.

Per comprendere, persondare questa realtàper molti aspetti in-

conoscibile, occorre capi-re chi erano gli attori che simuovevano in questo luo-go tragico: chi erano le SSdi stanza ad Auschwitz?Chi erano le vittime? Comesi dipanava la vita quoti-diana, ad Auschwitz doveora c’è l’erba e i fiori, mache nei ricordi dei soprav-vissuti appare sempre gri-gia e invernale?Si tratta ora di far “parla-re il luogo”, di trasforma-

re le pietre sconnesse deicrematori in testimoni par-lanti. Non si tratta di unprocesso agevole: le so-vrastrutture legate alla let-teratura, alla memoria, ren-dono non sempre agevoletale cammino. È soltanto attraverso unapedagogia che abbia al cen-tro un progetto che si rie-sce a collocare il luogo nel-la sua giusta dimensionestorica, tenendo insieme imolteplici fili di una sto-ria di estrema complessità.

Sono problemi di nonpoco momento, di cuianche l’Europa do-

vrebbe farsi carico.I docenti che si sono in-contrati per la prima voltaad Auschwitz potrebberocostituire un gruppo pilo-ta, impegnato nella co-struzione di progetti e dipiste educative da propor-re anche ad altri colleghi. Chi scrive auspica che nonsi sia trattato di un incon-tro rapido e concluso in sé,ma che ci sia la possibilitàdi avere altri momenti incomune, (e rivolge quindiun appello agli organizza-tori e all’Itf perché si fac-ciamo promotori di altreiniziative) che portino al-l’elaborazione di un pro-getto educativo, che dallastoria ci porti ai luoghi, al-le storie di vita e da que-ste all’oggi, in un fecondodialogo tra il passato e ilpresente, nella dimensio-ne della costruzione di unacittadinanza europea.

Con Zapatero a Mauthausen

La studentessa Hikima Fiki, del gruppo organizzatodall’Aned Umbria e dal comune di Foligno, fotografatacon il primo ministro spagnolo Rodriguez Zapatero neilocali dove era situata la camera a gas del lager diMauthausen. Il gruppo umbro stava visitando il lager, amargine delle manifestazioni del sessantesimo an-niversario della liberazione del campo, quando è arrivatoin visita al campo anche il primo ministro spagnolo.Clic! Un attimo per una foto importante.

di Alessandra Chiappano

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Barbieri: sopravvissuto a Mauthausen sublima il martirio con l’arte

Agostino Barbieri è mortola mattina del 13 agosto diquest’anno. Aveva lasciatoscritto, in una nota, di vole-re essere cremato per “pas-sare per il camino” come isuoi compagni di prigioniadel campo di stermino.L’esperienza del lager ave-va segnato profondamentela sua vita. Orfano di guerra, era cre-sciuto senza padre. Pur es-sendo di umili origini, erariuscito a studiare all’Ac-cademia Cignaroli e a con-seguire, come privatista, ildiploma al liceo artistico.La chiamata alle armi lo ave-va portato sul fronte jugo-slavo e, in un secondo mo-mento, a partecipare allacampagna di Russia. Dopol’8 settembre si era schiera-to prontamente nel campoantifascista, collaborandoattivamente nella lotta par-tigiana. Arrestato dalle brigate nerenel novembre del ‘44 era sta-to trasferito al campo di smi-stamento di Bolzano, prima,e a Mauthausen, poi. Nelle pagine della sua au-tobiografia, pubblicata nel1989, Un cielo carico di ce-

È deceduto il pittore Agostino Barbieri, combattenteper la libertà e deportato a Mauthausen. Barbieri,come scrive il presidente dell’Aned Gianfranco Marisin un telegramma alla famiglia, è stato un indimentica-bile compagno e un grande artista, che ha saputo con-sacrare in opere pittoriche insigni il dramma e lamemoria della deportazione.

di Eliana Barbieri

Le nostrestorie

La morte del pittore Agostino Barbieri. Le sue opere conserv

nere, troviamo il raccontodettagliato di questo perio-do. La deportazione, la vitanel campo, l’amicizia conPiero Caleffi, l’efferata vio-lenza delle SS, il degrado fi-sico e morale dei prigionie-ri, sono descritti con labo-rioso distacco. Con umiltà,non priva dell’ironia che locontraddistingueva,Agostino in queste paginetenta di offrire la sua espe-rienza nella verità dei queigiorni, con pudore, ma conla ferma volontà di svelare,come altri superstiti di quel-la barbarie, il terribile se-greto che le mura dei campidi sterminio custodivano.Non manca un momento didisperata poesia. Dopo aver-

ci descritto le morti, le fati-che del lavoro, le torture,scrive:«Una notte ebbi bisogno dialzarmi per andare al gabi-netto e perciò dovetti uscireall’aperto. Il disco lunarebrillava nella sua perfettarotondità in un cielo stella-to che copriva il vasto pae-saggio innevato. Davanti ame, quasi incollate al pen-dio, come in un disegno dibambino, si vedevan le pic-cole case e il campanile delpaese. Tutto era avvolto inuna luce siderale, spettra-le, metafisica. La realtà siera fatta sogno, poesia. Perun attimo mi sentii liberodalla morsa che da mesi, or-mai, mi stringeva e stava per

stritolarmi. Avrei voluto vo-lare per staccarmi da tuttoquello che succedeva sullaterra.Come si sa i sogni so-no brevi e il mio fu un lam-po. La presenza della SS chestava di guardia mi riportòalla realtà. Quella notte ri-tornando nella mia cuccet-ta, piansi come mai primami era accaduto.»Sopravvissuto, provato nelcorpo e nello spirito, avevatrovato nell’arte la sua li-bertà. I vivi colori delle suetele, le linee morbide e cur-ve, le donne, i paesaggi gar-desani che vi raffigurava,sono la testimonianza di unriscatto dalla immensa tra-gedia. Riscatto ispirato allaconsapevolezza della fragi-

“Avrei voluto volare per staccarmi dalla Terra”

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ate nell’archivio del Castello Sforzesco di Milano. Il giudizio di Primo Levi

lità delle cose e degli uomi-ni. I suoi dipinti sono la rap-presentazione di una felicitàin bilico, pronta ad esserespazzata via dai capricci del-la crudeltà umana.Conscio della responsabi-lità, insita nella sua condi-zione, aveva accettato il gra-voso compito di essere te-stimone di questa tragedia.Il ciclo dei Disegni dellaDeportazione, oggi conser-vato nella Civica Raccoltad’Arte del Castello Sfor-zesco di Milano, compostoda disegni a china, quasischizzi nella loro elementa-rità e furia del gesto, che,con segni netti e precisi, rac-contano gli orrori del lager,è solo una parte del suo im-menso lavoro per non di-menticare. Fin negli ultimianni della sua vita, incon-trava i giovani delle scuoleper trasmettere alle nuove

generazioni l’ingrato ricor-do attraverso i suoi disegnie le immagini d’archivio diquel periodo, immagini chelui confidava più forti diqualsiasi parola, come nel-le paroli di Primo Levi cheriportiamo qui accanto..L’estrosa personalità, il pia-cere del dialogo, semprepronto alla battuta e al risohanno sempre affascinatochi ha avuto l’occasione diconoscerlo. Se la sua voce si è spenta, ri-mane nelle sue opere la te-stimonianza di un uomo cheha vissuto profondamentegli avvenimenti del suo se-colo e il monito semplice,triste e allegro a vivere lavita e a non tollerare maiche genocidi simili a quel-li perpetrati dal nazifasci-smo, o qualsiasi altro tipodi dissennate crudeltà, si ri-petano.

Le immagini del ricordo più forti di ogni parolaA questo proposito Primo Levi ha scritto:

«È stata notata da molti la necessità, per chi hasubito esperienze estreme, di esprimersi, di tra-smettere agli altri la sua storia di vita: spinto aciò sia da un imperioso bisogno interno, di libe-rarsi raccontando, sia dal dovere civile di por-tare testimonianza. Ma spesso, ognuno di noi exdeportati se n’è accorto, le parole non bastano,si rivelano deboli, inferiori al compito. Per Agostino Barbieri, dove la parola fallisce,subentra l’immagine: le sue danze macabre dicorpi scheletriti sembrano scaturite, ad anni edecenni di distanza, dalla memoria indelebile ecollettiva che l’offesa di allora ha lasciato innoi. Eternano un ricordo, lanciano un ammonimento,e contengono un messaggio di validità univer-sale e perpetua».

Due lavori di AgostinoBarbieri cheillustranodue realtà. A sinistra un olio: “il tempodell’amore”del 1998.A destra:“Interno del campo”,un disegno achina che faparte di unalunga serie.

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Demetrio Ghiringhelli:mio padre pittorenelle carceri fasciste

Eravamo in cinque in famiglia. I genitori etre fratelli, onorati di essere sempre statiantifascisti. Per esempio io e i miei due fratelli, più an-ziani di me (1921 e 1923) abbiamo fatto tut-te le scuole sotto il regime senza mai indos-sare una divisa di “figlio della lupa”, di ba-lilla o di avanguardista. Mio fratello Fiorenzo (del ’23) fece anchequalche giorno di galera per essersi rifiuta-to di indossare la divisa di avanguardistache allora era già corpo militarizzato.

Le nostrestorie

di Flavio Ghiringhelli

E a proposito di divise, ri-cordo perfettamente un epi-sodio di come mio padresapeva districarsi con ar-guzia genovese. Una sera,mentre si cenava, sentiamosuonare alla porta. Andiamoad aprire e ci troviamo difronte il capocaseggiato,naturalmente fascista, chevuole parlare con mio pa-dre.Gli dice subito, riguardo al-la mia posizione scolastica(alle elementari) che tro-vava disdicevole che io nonpartecipassi alle adunatedel sabato.Mio padre gli osserva che,non avendo i soldi per com-prarmi la divisa di balilla(era una grossa bugia!) nonera il caso di farmi trovarein imbarazzo di fronte agli

altri compagni di scuola.Lo zelante capocaseggiatolo rincuorò dicendogli chenon c’era nessun problema:la divisa potevano regalar-mela “loro”. Allora mio pa-dre, dopo un secondo di ri-flessione, rispose: Ma guar-di che io ho altri due figlie non posso fare un torto aloro lasciandoli a boccaasciutta! Il capocaseggiatofu colto in contropiede,esitò un attimo e poi: Be’,se è così, non posso deci-dere per tre… ci penserò…ne parleremo in sede, le sa-prò dire…Salutò, ridiscese le scale enon lo rivedemmo più.È un piccolo episodio maio sono riconoscente di es-sere passato indenne daquesta sottomissione.

Demetrio Ghiringhellinacque a Ispra, sulla spon-da lombarda del lago Mag-giore, nel 1892.Suo padre Andrea, bravis-simo giardiniere, lavora-va a Pallanza, sulla spon-da piemontese del lago,nella grandiosa VillaTaranto il cui proprietario

Mc Eacharn, nobile scoz-zese, stimandolo, lo con-vinse per un trasferimen-to a Genova presso la VillaStuarda in Albaro, sede delconsole inglese di quellacittà. Era il 1897.Così con moglie e sette fi-gli avviene l’approdo nel-la città ligure dove mio pa-

Ottimi incarichi a Genovama i fascisti “non gradiscono”

Fu arrestato a Savona nel 1942 e confinato a Pisticci, paesino

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dre può iniziare le scuoleelementari e poi l’avvia-mento professionale a po-chi passi dalla sontuosavilla del console, nell’at-tuale via Monte Zovetto,cominciando ad appro-priarsi della vita genove-se imparandone il dialet-to perfettamente ed ac-quisendone anche il verocarattere, impossessandosipoi, fortunosamente, del-le sue capacità artistiche.Forse guardando qualchedisegno fatto a scuola, unadelle figlie del console in-glese si accorse dell’in-clinazione spiccata del ra-gazzo.Inizia così un’amorevolegara di insegnamento chepresto induce mio padreallo studio specifico del-l’arte decorativa, moltoapplicata ed apprezzata inLiguria.Contemporaneamente ap-prende la tecnica dell’af-fresco e del restauro mu-rale.Intanto ci sono anche i pri-mi approcci con la politi-ca partecipando, con il pa-dre Andrea, ai primi co-mizi socialisti.Ma arriva la Grande guer-ra: mio padre ne prendeparte “di leva” con il fra-tello Ambrogio che mo-rirà eroicamente a pochichilometri da lui, sullostesso fronte.Mio padre, oltre allo zai-no, porta comunque la cas-setta dei colori e i pennelli.Ho un piccolo paesaggiosuo del 1915 di Boves, cit-

Attribuiti ad altri due pannellid’esperienza avanguardista

tadina diventata purtroppofamosa per un eccidio nel-l’ultima guerra nazifasci-sta.Ho una lettera del Fascionazionale femminile diSalò (!), datata 12 set-tembre 1918, di ringra-ziamento per un bellissimolavoro pittorico donato “daun bravo soldato italiano”!Scrive anche lettere e rac-conti per testimoniare lamisera vita di abbrutti-mento, sul fronte, dei po-veri fanti operai e conta-dini.Al rientro a Genova ri-prende l’attività pittorica,lavorando soprattutto percommissione dell’arci-vescovado, affrescando erestaurando parecchiechiese della città e pro-vincia, per l’intendenzadelle Belle Arti dal cui di-rettore, commendator Or-lando Grosso, per l’ap-prezzamento delle suequalità artistiche, ha mol-ti incarichi nei più grandipalazzi storici genovesi(che gli procurano ancheseri problemi con le auto-rità politiche che non gra-discono vengano assegnatia un pittore “non iscritto alpartito fascista”).Capita anche, ironia dellasorte, che nel ‘36, nell’u-nica occasione di una vi-sita a Genova del duce,mio padre abbia l’incari-co di decorare le stanzeche ospiteranno Mussolinie l’allestimento del palcodove terrà il discorso, inpiazza della Vittoria!

Anche l’inaugurazione del-la Colonia Fara di Chiavari,nelle stesse giornate, ve-dono implicata un’opera dimio padre con i due grandimurali all’ingresso dellaTorre. «Pannelli d’espe-rienza avanguardistica, dueopere ove si possono rin-tracciare alcuni tra i prin-cipali motivi iconoclastici

della decorazione muralefuturistica e delle espe-rienze pittoriche della ae-ropittura» (da Muri aiPittori, di Franco Ragazzied. Marzotta).Siccome mio padre non eraabituato a firmare le sue de-corazioni floreali murali,non firmò neppure questidue pannelli d’arte moder-

in provincia di Matera. Protagonista della Resistenza in Liguria

Un autoritratto di Demetrio Ghiringhelli e, nella paginaaccanto, una “veduta” del suo confino a Pisticci. Il dipinto èdel 1942. Nella foto qui sotto un tipico momento dellacittadina lucana nella posa di una contadina in costumetradizionale. La fotografia è del primo dopoguerra.

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na e sino a qualche anno fa- quando io consegnai tut-ti i suoi bozzetti alla Fon-dazione Colombo - eranostati attribuiti ai più sva-riati e noti pittori dell’epo-ca! E veniamo al ‘41: in ter-za media io ne combino unagrossa! Tutta la classe è in-vitata a partecipare agli “or-ti di guerra”. Coltivare neigiardini della città il granoper sostenere i militari. Conistintiva semplicità io mirifiuto pensando che sia in-giusto che un ragazzino “la-vori per la guerra”.Sospeso per una settimanae ritorno accompagnato dalpadre. Naturalmente, al col-loquio con il preside, miopadre sostiene le mie ideecon parole molto eloquen-ti che irritano lo spirito pa-triottico del medesimo.Quasi una zuffa; poi la sen-tenza. Suo figlio è espulsoda tutte le scuole del regno.Finii gli studi privatamen-te e di lì a poco arrivò permio padre il colpo fatale.In una trattoria di PieveLigure mentre si festeg-giava il buon esito di un la-voro con altri colleghi, siparla e si discute anche dipolitica. Da un tavolo vici-no, un vigile urbano del po-sto sente e redarguisce miopadre, denunciandolo co-me antipatriota e pericolo-so sovversivo.Carcere preventivo nel pe-nitenziario savonese di S.Agostino, poi processo/far-sa e condanna a due anni diconfino. DestinazionePisticci, provincia di Materain data 27 marzo 1942.

I detenuti avevano l’obbli-go di lavorare nella bonifi-ca delle terre paludose e co-struire abitazioni per i fu-turi coloni, altrimenti il con-fino si traduceva in carce-re.Senz’altro mio padre seavesse dovuto fare questilavori pesanti ne sarebbemorto! Fortunatamente par-lando con i suoi più vicinicompagni di sventura, di-cendo di essere pittore, fupresentato al prete della eri-genda chiesa che lo accol-se a braccia aperte, invi-tandolo a cancellare il pre-cedente lavoro di un suocollega che aveva abusatodell’incarico con figure instile moderno poco conso-ne alla sacralità del luogo!Ripartì da capo con nuovedecorazioni a cui lui era abi-tuato per i tanti lavori ese-guiti nelle chiese di Genova,ricevendo in seguito addi-rittura elogi scritti da unaCommissione vaticana!Documento che gli servì - inoccasione di un nuovo ar-resto a Genova - per ad-dolcire la posizione del ter-ribile Spiotta. Con questo lavoro riuscìsoprattutto a eliminare unadelle più gravi cause di de-bilitazione fisica, comesuccedeva ai suoi compa-gni di prigionia (incontròanche amici di Genova incondizioni pietose) sfinitidalla fatica del lavoro deicampi, riservandosi solole altre due sciagure delconfino: il cibo di infimoordine e i pidocchi nellebrandine che lo umiliava-no.

Tornò libero (con venti chi-li meno) con qualche mesedi anticipo, per una amni-stia, litigando con il pretedi Pisticci che voleva trat-tenerlo per terminare le bel-le decorazioni!In piena guerra, sotto i bom-bardamenti, fummo co-stretti a sfollare in un pic-colo paese, Costagiutta, ver-so i Giovi, e mio padre sisobbarcava il compito delpendolare, non rinuncian-do mai alla possibilità di la-vorare anche in quelle dif-ficili condizioni tragiche e,ogni tanto, aveva bisognodel mio aiuto. Da buon al-lievo lo seguivo.Dopo l’8 settembre entròin contatto con i compagnigenovesi della Resistenzae, a Costagiutta, venuto aconoscenza di un piccolocampo di concentramentodi prigionieri di guerra sor-vegliato da alpini, organizzòcon alcuni membri delleGap e la collaborazione digiovani contadini, un blitzper liberare i prigionieri(che erano stati distaccatidal grande campo diCavalieri) e sequestrare learmi degli alpini (in granparte consenzienti) perrifornire le giovani forma-zioni partigiane.I prigionieri liberati ven-nero nascosti in cascine neiboschi, mantenuti sponta-neamente dalla totalità deicontadini e, su loro richie-sta, accompagnati poi o nel-

le zone partigiane o inSvizzera. Di questo grup-po faceva parte anche ungappista di Paveto, AngeloGazzo che, purtroppo, sudelazione, fu arrestato, tra-sferito a Genova alla Casadello studente e nella sededel fascio a Tommaseo, sot-to le grinfie del tristemen-te noto Spiotta che, trami-te alcuni nomi scritti su untaccuino, risalì anche a miopadre che venne arrestatoper un confronto.Mio padre riuscì però aconvincerlo che l’amiciziacon il Gazzo era solo peraffinità artistiche e sicco-me fra i suoi documentimessi sul tavolo dalloSpiotta saltò fuori anchela lettera di elogio delVaticano (che mio padreportava sempre con sé) e,forse, anche per l’aspettopoco facinoroso che ave-va, il capo della polizia fa-scista decise di rilasciarlopur mettendolo sotto sor-veglianza!Il Gazzo fu poi fucilato sul-le alture del Righi con al-tri cinque patrioti.Dopo la guerra, mio padrefu segretario della sezioneCentro di Genova del-l’Anppia.Morì nel 1960. Aveva ap-pena vinto un concorso perl’affrescatura esterna delpalazzo del comune diSestri Ponente. Lavoro chefu poi eseguito da mio fra-tello Osvaldo.

Un “blitz” dei partigiani perliberare prigionieri dei fascisti

Chiesa del Gesù - S. Matteo - Annunziata - S. Francesco D’Albaro - Abbazia S. Gerolamo aQuartoi - S. Stefano e convento frati - OspedalePammatone, Cappella S. Caterina D’Alessandria

Palazzo Ducale - Palazzo Doria - PalazzoImperiale a Campetto - Palazzo Rosso - Bianco -Tursi - Palazzo Campanella - Palazzo Spinola -Prefettura - Villa Mombrini - Villa CambiasoGiustiniani - Villa Groppallo a Nervi - Quartieredei Pescatori alla Foce - Colonia Fara a Chiavari

DemetrioGhiringhelli.

Quarant’anni d’arte, dal ’21 al ’60

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Incontro di ex deportati nel castello di HartheimContinuano gli incontri degli ex deportati italiani e delle loro famiglie nei luoghi dove maggiormente si è espressala tragedia del nazismo. La foto che pubblichiamo è stata scattata dal socio Aned di San Giovanni in Persiceto (Bo)Fabio Goretti all’interno del castello di Hartheim, dove le SS crearono un centro di eutanasia in cui vennero assas-sinate migliaia di persone portatrici di handicap o di malattie mentali.

La “i” caduta al monumento italiano a Mauthausen

Cara Aned,abbiamo visitato il lager di Mauthausen e il museo diGusen e di St Georgen il giorno 25 agosto 2006accompagnati e guidati dal nostro carissimo amico dott.Ennio Odino di Bruxelles, presidente dell’Anpi Belgio evice presidente della Amicale Mathausen del Belgio.Eravamo un gruppo di venti persone dall’Italia e dalBelgio. Per noi visitatori è stata un’esperienzasconcertante e indimenticabile. Ci ha particolarmentecolpito oltre al lager di Mauthausen, che è benorganizzato come museo, il museo di Gusen, di cui si èsalvato dalla “speculazione edilizia” solo il crematoriumgrazie alle Associazioni dei deportati italiane e francesi eil più piccolo museo del vicino paese di St Georgen, incui è stato costruito da un’Associazione austriaca, che ha

lo scopo di conservare la memoria, un plastico dell’interazona di Gusen e St Georgen comprendente anche lafabbrica di pezzi aeronautici all’interno della collina disabbia chiamata Kristal-Berg ove perirono molti internatidurante gli scavi. Nel lager di Mauthausen ci siamofermati commossi davanti al monumento in onore deicaduti italiani ed abbiamo posto simbolicamente unabandiera della pace.Vorrei segnalarvi che si è staccata la lettera “i” dallaparola “perirono” che si presenta quindi “per rono” comerisulta dalla foto. Se non foste voi i responsabili di talemonumento vi chiedo di voler cortesemente inoltrarequesta segnalazione agli effettivi responsabili. Vi ringrazioper la cortese attenzione.Cordiali saluti Sergio Gibellini (Genova)

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“Maledetti figli di Giuda vi prenderemo!”, grida il milite confinario fascista

La caccia nazifascista agli ebrei sul confine del Varesotto fra il 1943 e il 1945

«Dai, fate un altropiccolo sforzo, cidavano la mano

oppure il braccio rincuoran-doci: fra qualche ora sarete alsicuro, ogni vostro proble-ma sarà risolto. E infatti, adun certo punto, prima di ar-rivare al confine, ci hannofatto vedere: guardate, bastasollevare quella rete e voisiete a posto. Noi di là nonpossiamo andare, dateci lamezza figurina e buona for-tuna. Si giravano ed emette-vano un fischio. In quellostesso istante si accendevauna luce nella casermetta al-la nostra destra, venivanofuori dei militari della finanzae gridavano: altolà, siete in ar-resto! Eravamo storditi, in-creduli». È il 1° maggio 1944. La vo-ce è quella di Agata Her-skovitz, all’epoca dei fattiuna ventenne di origini ce-coslovacche, sfollata a Fiume

e arrestata con il padre Luigi,la madre Rebecca e il fratel-lo diciottenne Tiberio men-tre tentavano di varcare ilconfine elvetico nei pressidi Cremenaga, una localitàa metà strada tra Luino ePonte Tresa, in provincia diVarese, che negli anni dellaRepubblica sociale italiana,vide transitare centinaia ecentinaia di uomini e donne,spinti dall’infame legisla-zione persecutoria, a cerca-re rifugio nella vicina Sviz-zera. Basti un dato: l’80%dei circa 6 mila ebrei che ten-tarono l’impresa, lo fecerodalle montagne, dai laghi,dai fiumi del Varesotto. Ciòper una condizione geogra-fica più favorevole rispettoalle altre zone, dal Novarese,al Comasco, alla Valtellina. Il 16 maggio, a due settima-ne dall’arresto, dopo esserepassati per le carceri diVarese, Como, Milano, ed

essere stati risucchiati dalcampo di raccolta di Fossolidi Carpi, Agata Herskovitzcon il fratello e i genitori, fu-rono stipati con centinaia dialtri disperati su carri-be-stiame, e spediti per l’ulti-ma destinazione, Auschwitz.Da quell’inferno fece ritor-no solo Agata. La collaborazione italianaalla Shoah fu completa: nonsi manifestò solo dalla pas-sività con cui Prefetture,Questure, Comuni attraver-so i podestà, eseguirono gliordini dei nazisti, ma so-prattutto dalla sconvolgen-te indifferenza, da quel si-lenzio pericoloso e ambiguo,dai taciti consensi, dalla de-nuncia dei privati ammini-stratori, dalla vergognosa esquallida chiusura nel pri-vato, da quel semplice gestoche è voltare le spalle allasolitudine, alla sofferenza eal dolore.

Parlare di ebrei negli annidella Rsi non è impresa fa-cile. In questo senso il libroMaledetti figli di Giuda, viprenderemo!, con una pre-fazione di Franco Gian-nantoni (il provocatorio ti-tolo è tratto da un fanaticoappello del colonnello Mar-cello Mereu, comandantedella 2a legione Gnr con-finaria ai suoi uomini) chenasce dalla mia tesi di lau-rea all’Università Statale diMilano nel 2003, rielabora-ta con l’apporto di una vastae inedita documentazioneproveniente dagli Archividella Confederazione, riapreuna voragine di ricordi, dipaure e connivenze, som-merse con il tempo da un pe-ricoloso oblio, sotto il qualesi celano drammi e atrocità dimigliaia di disperati. Il 12 settembre 1943, venti-quattro ore dopo il radio mes-saggio del generale Vittorio

Agata Herskovitz, notacome Goti Bauer, fuarrestata in provincia di Varese, sul confinesvizzero, a causa deltradimento dei“passatori”, il 1° maggio 1944.Deportata ad Auschwitzinsieme ai genitori e alfratello il 16 maggio 1944,fu liberata aTheresienstadt l’8 maggio1945, unica sopravvissutadella sua famiglia.

Le nostrestorie

Fu la parola d’ordine del colonnello Marcello Mereu, comandante della 2a legione“Monte Bianco” della Milizia confinaria della Rsi, che con le truppe tedesche della 5a sezione della “Grenzwache” di Innsbruck, controllò la frontiera italo-svizzeraper arrestare chi tentava la fuga.L’80% dei seimila ebrei che tentarono la fuga lo fece dalla “provincia dei laghi”. Non sempre l’impresa riuscì anche per le incertezze della Confederazione elveticache in qualche caso applicò l’odiosa formula del “respingimento”.

di Francesco Scomazzon

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Ruggero che consegnavaMilano e la Lombardia ai te-deschi, le prime truppe delReich entravano a Varese,accolte, come venne poi re-gistrato dal prevosto monsi-gnore Alessandro Proserpio,da signore e signorine chesenza ritegno erano andateloro incontro con fiori e si-garette. I reparti di giovani SS al co-mando dello starfuhrerManfred Gauglitz venneroricevuti dal prefetto bado-gliano Giovanni BattistaLaura, ex governatore diRoma e dal proconsole AlbertLange, responsabile del lo-cale partito nazista, residen-te in città già da alcuni anni,che da quel momento si mi-se al servizio degli occupanti,rendendo loro il compito piùagevole. Dei circa 40 milioni di abi-tanti in Italia, nell’autunnodi quell’anno la comunitàebraica nazionale era di 47mila individui (33 mila quel-li nei territori della Rsi) eVarese ne contava appena163, al quinto posto inLombardia dopo Milano,Como, Mantova e Brescia.Un’estrema minoranza, tra-volta da un altissimo nu-mero di provvedimenti, lacui attuazione fu resa pos-sibile dai riscontri docu-mentari risalenti al censi-mento del 1938, rimastipresso le Prefetture e leQuesture purtroppo anchedurante la parentesi dei 45giorni del governo di

Badoglio. Le tappe di quel-la barbara involuzione so-no note. La prima è legata alla Cartadi Verona, l’atto costitutivodi Salò che all’articolo 7 as-similava gli ex cittadini ebreia nemici della Rsi. La seconda è del 30 no-vembre 1943 con l’ordinedi polizia n. 5 del ministrodegli Interni Guido Buf-farini Guidi con cui venivadecretato il loro concen-tramento in campi provin-ciali (per i misti una seve-ra vigilanza) e il sequestrodei loro beni mobili e im-mobili. L’arresto e la deportazionesi configurarono in questomodo come l’ultimo anel-lo di un percorso in cui raz-zie, sequestri e confische,segnarono irrimediabil-mente quel solco di disva-lori generato dalla repub-blica collaborazionista diMussolini. La comunità ebraica, loca-le e nazionale, fu spogliatadi tutti i suoi averi, e ciòavvenne con azioni di au-tentico saccheggio o con at-ti amministrativi contro-firmati dai capi delle pro-vince. Il capo della provin-cia di Varese Mario Bassied il suo successore EnzoSavorgnan di Montasprocontrofirmarono decine edecine di confische apparseregolarmente sulla GazzettaUfficiale d’Italia. Lunghielenchi di povere cose tro-vate addosso agli ebrei in

Varese, calamita per la fuga oltre confine, in Svizzera

fuga catturati lungo la mon-tagna e oggetti di valore se-questrati nelle operazionid’arresto nelle abitazioni.Gli ebrei inoltre vennero pri-vati del diritto di essere pro-prietari e gestori di azien-de, né di avere delle stessela direzione o altri incari-chi. Gli oggetti razziati, in mol-ti casi finirono nelle taschedi qualche scaltro funzio-nario, o furono ammassatiin un deposito in pieno cen-tro a Varese, affidato al fun-zionario prefettizio OtelloDe Gennaro, futuro prefet-to della Repubblica italia-na, fatto oggetto di assaltidi bande di fascisti e nazistia caccia di tesori.

Il tratto della regione dei la-ghi, 80 chilometri tra Luinoe i confini della provinciadi Como, passando per ilCeresio, è una zona di col-line e modeste montagne,facilmente accessibili no-nostante le lunghe ore dicammino nei boschi, e so-prattutto ben collegate conil capoluogo lombardo, unacondizione che, come detto,trasformò la provincia diVarese in una potente cala-mita per migliaia di ebreiprovenienti non solo dal ter-ritorio nazionale, ma fi-nanche dai paesi balcanici e

Sorpresi nelle zone di confine, i profughi eranoaccompagnati al posto di dogana più vicino per l’interrogatorio. Fuggiti con pochi beniraccolti alla rinfusa in pacchie valigie, venivano scortatidai militari svizzeri al campodi raccolta, primo passo perla loro identificazione.

dall’est Europa. Gli occu-panti tedeschi, che già neavevano rilevato l’enormeforza industriale, avverti-rono immediatamente an-che la straordinaria posi-zione strategica, e così il 16settembre 1943, con una ra-pida azione condotta da ri-servisti della 5a sezione del-la Grenzwache della Scuoladi Innsbruck, diedero ini-zio alla progressiva occu-pazione dei posti di confine.Il compito di questa poliziaspeciale alle dirette dipen-denze di Karl Wolff, co-mandante generale delle SS,

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era di impedire la forma-zione di bande partigianeche potessero creare pro-blemi di ordine pubblico,arrestare i soldati italiani di-sertori, gli ex prigionieri an-glo-americani internati neicampi fascisti e gli ebrei cheavessero tentato di sconfi-nare clandestinamente. Con il contributo operativodei confinari della 2a legio-ne Monte Bianco (quella diMereu), il 19 settembre fu-rono occupate Ponte Tresa ePorto Ceresio, due giornidopo Zenna e Luino poi, unadopo l’altra, caddero le sta-zioni di Pino Lago Mag-giore, Dumenza, Saltrio,Clivio, Viggiù e Gaggiolo,località immediatamente aridosso del confine, dove loschieramento nazifascistanon solo era più capillare,ma anche dove i fuggiaschipotevano trovare più facil-mente rifugio e raccoglierele idee prima dell’ultima tap-pa verso la libertà. Un’impresa difficile, spes-so disperata, non sempre or-ganizzata con le dovute cau-tele, affidata ora a contrab-bandieri, ora a spalloni chein qualche caso, incamera-ta la tassa, dalle 5 alle 10mila lire, si trasformavano invoraci predatori, spogliandola vittima dei suoi averi perpoi consegnarla ai fascistio ai tedeschi, da cui inta-scavano le eventuali taglie. Si trattava in molti casi diassociazioni informali cheraggruppavano profittatori,persone avide di denaro, af-faristi in genere che, pur nondedicandosi al tradimentosistematico, fingevano oc-casionalmente l’incidente evendevano i fuggiaschi ai

fascisti o ai nazisti. Viaggidella speranza che si tra-sformavano così in viaggidel tradimento, pur non es-sendoci alternative, se nonil rischio della cattura in ter-ritorio italiano dove, per ipiù, era difficile sopravvi-vere. C’erano tragitti classici, fa-cili e difficili, e questo ser-viva a determinare le tarif-fe che potevano lievitare fi-no a 40 mila lire, se la viaera lunga, impervia, densadi pericoli, come quelle cheda Luino conducevano alMonte Lema, ad Astano, maanche da Caldè, Gera,Cremenaga fino alla loca-lità Ponte di Ferro, o daMesenzana attraverso Brez-zo di Bedero, Roggiano eVoldomino. Percorsi segnati nell’oscu-rità e nel silenzio della not-te, dalla paura, dalla neces-sità irrinunciabile di fuggi-re e mettersi al riparo da unarealtà sconvolgente, che or-mai non lasciava spazio nep-pure alla più tenue speran-za.

Il 15 agosto 1944 entrò invigore un’ordinanza del ca-po della provincia MarioBassi, che diede attuazioneal decreto della zona chiu-sa, approvato da Mussoliniil 24 maggio precedente.Si trattava di un’enorme sac-ca in cui nessuno poteva ri-siedere, della profondità dicirca tre chilometri, che co-priva il confine da Iselle, inprovincia di Novara, e ter-minava a Lanzo d’Intelvi,nell’alto Comasco. Il tenta-tivo miseramente fallito, eradi bloccare l’emorragia diebrei e fuggiaschi in gene-re, colpendo le popolazionilocali, costrette a pesanti mi-grazioni interne con il lorobestiame. L’aiuto, frutto diuna nuova consapevolezzaesercitata da individui che,avendo capito la bassezza acui si era approdati, decise-ro con modi, possibilità etempi diversi, di prestaresoccorso a quegli sventura-ti, finiva dove presumibil-mente iniziava la salvezza, inSvizzera. In realtà, varcareclandestinamente il confi-ne, non sempre significavalasciarsi alle spalle mesi diperegrinazioni e paure. Gli ebrei, fra tutti i fuggia-schi, erano i più deboli del-la catena, infatti nei loro con-fronti la Confederazione nonprevedeva leggi speciali perun’accoglienza che avevatutte le caratteristiche d’ur-genza. Gli ebrei, a differen-za di altri, non erano una ca-tegoria. Potevano essere ac-colti militari disertori, pri-

gionieri di guerra evasi, mi-litari in ritirata, i civili oltrei 65 anni di età, le donne in-cinte, ragazzi e ragazze mi-nori di 16 anni, ma anche co-loro che avessero parenti nel-la Confederazione, i perse-guitati politici, i malati gra-vi, ma non gli ebrei. Le lo-giche di equilibrio, la pauradi essere invasi da dispera-ti senza mezzi di sussisten-za, spesso malvisti non solodalla popolazione, ma daglistessi funzionari, tra i qualiserpeggiavano i comuni sen-timenti di diffidenza e di raz-zismo, consigliarono per di-verso tempo l’odioso re-spingimento in territorio ita-liano (refoulement), comeaccadde a Liliana Segre, tre-dicenne milanese che giun-ta in Svizzera con il padreAlberto, fu ributtata in Italiadove i militi fascisti l’arre-starono inviandola adAuschwitz dove sopravvis-se (il padre morì). Nonostante la politica equi-voca, spesso altalenante del-la Svizzera, che provocò al-tri ostacoli agli ebrei in fuga,contribuendo sensibilmen-te a far sì che il governo na-zista conseguisse i suoi obiet-tivi, migliaia di fuggiaschi(45 mila fra militari e civilicompresi 6 mila ebrei), fu-rono accolte da uno Stato,che ancora negli ultimi annidi guerra, veniva rappre-sentato come meta idealiz-zata, quasi irraggiungibile eimpensabile, racchiuso inun’Europa inginocchiata daun’immane guerra.

Francesco Scomazzon

Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!,

edito da Arterigere-Essezeta di Varese, con una prefazione

di Franco Giannantoni,pagine 366, euro 15,00

La “zona chiusa”, ultima trappola di Mussolini

“Maledetti figli di Giuda, vi piglieremo!” Grida il milite confinario fascistaLe nostre

storie

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Rifatti i pannelli neriper le sfilate dell’Aned

Nelle manifestazioni milanesi del 25 Aprile e del 27 Gennaio, quandosfilano le rappresentanze della Resistenza, la parte del corteo più applaudita è quella dell’Aned. I pannelli neri con i nomi dei più noti campi di sterminio nazista e dei luoghi dovemaggiormente si è accanita la violenza nazista creati dal grafico Albe Steinerproducono sempre una grande emozione tra chi assiste alle sfilate. Col passare del tempo i pannelli si sono logorati e grazie al lavoro dell’exdeportato Giuseppe De Zorzi,prezioso collaboratoredell’Aned, è stato possibilerestaurarli.

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“Le polacche accolsero

Un ricordo dell’ultimo

Natale di guerra

di Ibio Paolucci

Per me, ragazzo diciottenne, l’ultimo Natale diguerra, lunedì 25 dicembre 1944, resta nel ricor-do un’immensa distesa bianca e un casolare sper-

duto in quel deserto di neve con due donne che si sbrac-ciano per attirare l’attenzione mia e di un compagno dilager. Il nostro era un campo di concentramento di la-voratori coatti nella provincia di Torun, la città polac-ca dove studiò Copernico. Il Natale fu anche per noiun giorno di festa, santo Stefano, invece, un giorno co-me un altro. Usciti dal campo, che non aveva reticola-ti, iniziammo una passeggiata in quel paesaggio scon-solato, parecchi gradi sotto zero, non immaginando lastrabiliante avventura che ci sarebbe capitata. Quelle don-ne, infatti, con il loro agitarsi, intendevano rivolgersiproprio a noi. Sorpresi e incuriositi ci dirigemmo ver-so di loro e quando fummo vicini, quelle donne ci fe-cero segno di entrare nella loro casa. Una volta dentro,ci venne offerta una fetta di torta e ci fu detto di seder-ci, mentre loro preparavano qualcosa di caldo.

Sembrava di essere entrati in un mondo irreale e cichiedemmo come mai e perché proprio a noi. Civenne spiegato che quella festosa accoglienza fa-

ceva parte di una simpatica tradizione, rispettata an-che in quell’orrendo periodo di occupazione nazista.In breve, noi, per loro, eravamo i “pellegrini”, che, il gior-no di Natale, visti per primi, dovevano essere accolti inquel modo ospitale perché una leggenda voleva chefossero inviati direttamente dal bambino Gesù. Bevutoil tè, ebbe inizio una lunga conversazione con moltedomande da parte loro: innanzitutto se eravamo catto-lici, che questo per loro era la cosa più importante, e poiqual era la nostra città, qual era il nostro mestiere inItalia, come eravamo trattati nel lager, eccetera. Dopofu la nostra volta. Le due donne erano madre e figlia.Il padre non si sa dove fosse finito. Era a Varsavia quan-do i tedeschi aggredirono la Polonia. C’era andato pertrovare uno zio, molto malato. Non se ne era più saputo nulla. Ci mostrarono la suafotografia incorniciata e ci precisarono che lui era pro-prio così perché quella foto se l’era fatta qualche set-timana prima. Nella foto appariva un uomo sui ses-sant’anni, baffuto, sorridente. “Mia madre - disse lapiù giovane - si illude ancora, ma sono trascorsi cin-que anni da allora». Per me, invece, i mesi di cattivitàerano soltanto sei, dal 16 giugno a Genova ad allora. DaGenova ero stato portato a Danzica, con centinaia dialtri e una volta lì, visto che non avevo né arte né par-te, mi avevano sbattuto da un piccolo proprietario prus-siano che si chiamava Hugo Wraase, e chissà quale saràstato il suo destino, di sicuro poco allegro, lui che por-tava con tanta fierezza il distintivo nazista, orgogliosodel figlio che era nelle SS e che io avevo anche visto inoccasione di una sua breve licenza nella lugubre divi-sa nera.

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noi deportati come Gesù bambino”All’approssimarsi dell’Armata Rossa, era stato

mobilitato assieme ad altri anziani dei dintorniin un raggruppamento paramilitare che avrebbe

dovuto vigilare, nientemeno, sulla sicurezza del terri-torio, chiamato pomposamente Volkssturm. Anche lui,comunque, con la moglie, la nuora e un bambino appenanato, dovette sloggiare da quella proprietà rubata ai po-lacchi, caricando tutto il possibile su un carro trainatoda un cavallo. Ricordo, quando ero ancora nel lager, lafila interminabile di questi carri contadini, con la gen-te che quando gli si chiedeva dove andasse rispondevainvariabilmente “nach Berlin”, illudendosi, evidente-mente, di trovare nella capitale la salvezza. Migliaiadi carri che percorrevano quelle strade di campagnasenza che nessun aereo sovietico si alzasse per mitra-gliarli. Per me il lavoro massacrante dai contadini, dal-l’alba al tramonto, era terminato verso metà settembrequando venni spedito nel lager.

Dai contadini il lavoro era durissimo, però si man-giava abbastanza bene. Quella proprietà, primadell’invasione, apparteneva a una famiglia po-

lacca, i Narbroski, padre, madre e figlia, che, arrivati itedeschi, da padroni erano diventati servi, e grazie al cie-lo che non erano stati uccisi, come era capitato a mol-ti loro connazionali. Al campo di concentramento, illavoro, tutto sommato, era meno gravoso, però il ciboche ci distribuivano era pessimo e maledettamente in-sufficiente. Una brodaglia a mezzogiorno e alla seraun miserabile pezzo di pane marrone scuro, umidiccio,che sembrava fango, con l’aggiunta di un pezzetto di unasottospecie di margarina schifosa o di una fettina dipseudo salame o di qualcos’altro che non rammento.Avevamo sempre una fame indefinibile e si può im-maginare con quale entusiasmo avevamo accolto quel-la torta, soprattutto quando ci venne detto che ne pote-vamo prendere un’altra fetta. Il lavoro, nel lager, con-sisteva nello scavare i “panzergraben”, fosse anticarro,che avrebbero dovuto fermare, figuriamoci, i carri ar-mati sovietici. Ma questa è un’altra storia. Con le duedonne, che continuammo a ringraziare, stemmo anco-ra un po’ di tempo. Quando le salutammo, la più vec-chia volle abbracciarci e farci, sulla fronte, il segnodella croce. Vedemmo che s’era messa a piangere allorchéci disse che erano loro che dovevano esserci grate, per-ché quella mattina era come se fossero state visitatedallo stesso bambino Gesù, sicuro preannuncio di unabella notizia, che avrebbe potuto anche essere quellache il loro padre e marito era ancora in vita.

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Dal liceo “Cairoli”:anche noi testimoni della memoria

I nostriragazzi

Le riflessioni degli studenti varesini su Mauthausen e Terezin

È importante notare comegrazie anche alla pubblica-zione e al rilievo dati dalTriangolo rosso alla primaparte di queste riflessionisui “luoghi della memoria”,l’onda emotiva dei due iterformativi si sia estesa benoltre la data conclusiva deiviaggi, continuando a su-scitare emozioni e a pro-durre effetti positivi. Tuttociò dimostra anche, nel ca-so ve ne fosse bisogno, co-me sia vera l’affermazionedello storico E. Traverso,quando ci ricorda che «Unavisita a un lager nazista puòavere un impatto emotivofortissimo, se preparata puòrivelarsi uno strumento pe-dagogico insostituibile…»Infatti l’eco di questi viag-gi è risuonata nelle “Gior-nate della Memoria”, orga-nizzate dall’Istituto com-prensivo di Comerio, in pro-vincia di Varese, per gli stu-denti delle terze medie. Ilpreside prof. Antonio Anto-nellis, ha potuto invitare,grazie alla gentile disponi-bilità del preside del“Classico” Maurizio Tal-lone, cinque studenti (Chi-

lese, Santoro, Tamburini,Permunian e Ruga) che loscorso anno hanno visitato,insieme alle loro classi, al-cuni lager.I ragazzi del “Cairoli”, ac-compagnati e coordinati dalsottoscritto, hanno dato vi-ta a due commoventi in-contri che, come ha scrittoFiorenza Lucchini su LaPrealpina hanno lasciato unsegno nell’animo dei piùgiovani,offrendo un’espe-rienza di alto livello uma-no. Non è stato da meno ildirigente dell’Istituto com-prensivo Antonellis che nel-la sua bella lettera di rin-graziamento al dirigente delliceo professor MaurizioTallone, ha voluto ribadireche la testimonianza porta-ta dagli studenti del Classico«… è stato un contributooriginale e nuovo per la no-stra scuola,che merita di es-sere valorizzato ed inco-raggiato, anche in vista difuture collaborazioni.Un’esperienza che si è di-mostrata un importante stru-mento di conoscenza, di al-to valore educativo ed uma-no, utile per costruire queivalori di reciproca com-prensione, di tolleranza, didialogo di cui abbiamo tut-

ti, oggi, un grande bisogno».Queste due “Giornate dellaMemoria” di Comerio e diCasciago hanno un po’ ra-dicato in tutti la consape-volezza che il ricordo dellatragedia dell’Olocausto nonpuò essere affidata solo al-la data del 27 gennaio, per-ché come scrive FurioColombo su l’Unità del 27gennaio, citando DavidBidussa, «La memoria nonè un fatto, ma un atto, l’at-to del ricordare», che devespingere ad un’attiva, con-tinua vigilanza. Una vigi-lanza che deve alimentarsigiorno per giorno dell’ob-bligo della memoria, per-ché la “rottura d’umanità”,che ha rappresentato lo ster-minio in Europa di milionidi vite umane, per il fattostesso che è avvenuto puòripetersi ancora, come ci hapiù volte ammonito PrimoLevi, ed anche perché le ra-dici dell’antisemitismo edel fanatismo non sono sta-te ancora recise. Non biso-gna dimenticare però che ipericoli oggi non vengonosolo dall’antisemitismo edal fanatismo risorgenti; maancora di più, come ammo-nisce E. Wiesel, sono peri-colosi il silenzio e l’indif-

ferenza, che com’è noto so-no sempre stati i complicie gli strumenti dei tiranni.Ed è per questo che i su-perstiti dei lager, (come l’ar-ch. Bertè, ex deportato Imie Sergio De Tommasi “ilnonno”, come lo chiamanoormai affettuosamente i ra-gazzi, ex internato a Gusen,Liliana Segre, sopravvis-suta di Auschwitz, ex par-tigiani come Angelo Chiesa,presidente provinciale Anpidi Varese e tanti altri, pur-troppo sempre meno), gi-rano le varie scuole senzarisparmiarsi, per informa-re e testimoniare, sì, dellaverità e della tragedia deilager, ma anche per conse-gnare ai giovani il testimo-ne; quello di mantenere vi-vo il ricordo di chi non c’èpiù e di chi non ci sarà più:perché quello che è acca-duto non possa ripetersi! Imiei ex studenti, portando latestimonianza della loroesperienza, sono diventati“candele della memoria” edhanno con ciò impugnatodefinitivamente e salda-mente il testimone.

* (già docente di storia e filosofia del liceo classico

“E. Cairoli” di Varese)

di Romolo Vitelli*

Come preannunciato in un numero precedente, con-cludiamo la pubblicazione della seconda parte deibrani, tratti dalle “riflessioni”, che gli studenti di 2ª

e 3ª del liceo classico “E. Cairoli” di Varese hanno redattoal ritorno dal loro viaggio di istruzione a Mauthausen, Praga

e Terezin, e il contributo di Matteo Chilese sul viaggio diistruzione a Ravenna con visita al Museo del deportato po-litico e razziale di Carpi, al campo di concentramento diFossoli e sulla sua esperienza di testimone con gli studen-ti delle medie.

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Con gli occhipiù aperti

Le due classi sono arrivate nei luoghi della memoriaconsapevoli di sé e di quello che stavano facendo e ve-dendo. I momenti che sicuramente mi hanno coinvoltodi più emotivamente sono state le visite ai due campi diconcentramento: essere in quei luoghi e vedere dal vivocosa la barbarie e la follia umana sono stati in grado diconcepire e di realizzare si è rivelata un’esperienza uni-ca che, oltre ad aver portato una certa tristezza e rabbia,ha stimolato il pensiero e la volontà di non dimenticare.Anche l’incontro con la classe austriaca è stato un mo-mento importante di socializzazione e confronto… Citola frase che, secondo me, racchiude al meglio il signifi-cato di tutto il viaggio: «Uscire da sé per rientrare in sépiù consapevoli di se stessi e del mondo». Noi infattisiamo tornati a casa un po’cambiati e, spero, con gli oc-chi “un po’ più aperti”.

Andrea Crupi 3aA

Nella mia mentele loro voci

Un anno di preparazione. C’è voluto un intenso e lungoanno prima che potessimo prender parte a quella che èstata e probabilmente resterà indiscutibilmente la nostragita scolastica più profondamente vissuta sotto ogni pun-to di vista: storico, culturale, etico e naturalmente uma-no. AMauthausen le voci dei morti erano vive nella miamente come se nulla di ciò che era accaduto nei campidi concentramento si fosse realmente dissolto. … L’unicomodo attraverso il quale possiamo ricordare è quello direndere viva la storia e non ridurla a un’immagine lon-tana rappresentata da una fotografia in bianco e nero. Ildolore degli internati deve parlare attraverso la nostravoce; come se per le generazioni future noi stessi fossi-mo degli internati.

Guglielmo Iurini 2aA

Non c’erano uominima soltanto numeri

L’esperienza vissuta nei due campi di concentramento èstata molto forte e per questo sono sicuro che rimarrà inme per tutta la vita: guardando i forni crematori, le ca-mera a gas, le piazze d’appello, le baracche. Ho potutofare miei i dolori, le fatiche, le speranze di un’umanitàannichilita a tal punto da non esser più trattata come“umanità”, ma come un insieme di oggetti parlanti… dinumeri. L’uomo è arrivato a fare anche questo e la gra-vità di quanto è successo deve invitarci a riflettere: cre-do che grazie a queste due esperienze siamo tutti più si-curi delle risposte che daremo quando ci verrà chiesto se“combattere” per distruggere la vita e la dignità dell’uo-mo o per creare un mondo che al contrario, garantisca adogni singolo bambino che nascerà una vita dignitosa erispetto dei suoi diritti fondamentali in quanto essereumano. Marco Piaia 3aA

“Viaggiare” prima di partire

La grande novità è stata viaggiare prima ancora di par-tire: abituata da sempre a leggiucchiare guide turistichein pullman, più per una sorta di “dovere” del viaggiato-re che per reale curiosità di conoscere culture diverse, misono trovata piacevolmente coinvolta nelle attività sco-lastiche intese alla preparazione del viaggio. Non ero, lo ammetto, molto ben disposta nei confrontidi un viaggio d’istruzione che mi proponeva la visita didue campi di concentramento: temevo, infatti, quell’o-dioso misto di superficialità ed austerità artefatte di per-sone comuni di fronte alle grandi tragedie della Storia.È uno sforzo contro il mio orgoglio riconoscere di averpotuto dialogare con persone straordinarie, che senzaretorica e con sincera partecipazione ci hanno fatto da gui-da a Mauthausen e a Terezin.

Valentina Ponzone 3aA

I ragazzi delle terze diVilla Valerio di Casciagodurante la celebrazionedella Giornata dellaMemoria.

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I nostriragazzi “Quei poveri moribondi mi supplicavano:

tu sei giovane,forse hai qualche possibilità di sopravvivere.Devi raccontare queste cose!Questo abominio non deve esseredimenticato!”

Wladyslaw Bartoszewski

Sono statimomenti di crescita

Interessante ed ancora una vol-ta estremamente istruttivo edutile per la nostra crescita per-sonale è stato l’incontro, se-guito da un dibattito, con unaclasse austriaca di ragazzi no-stri coetanei. È stata questaun’altra occasione di confron-to schietto e leale con ragazzi diun’altra nazione, con abitudi-ni e forse modi di pensare di-versi dai nostri. La visita diPraga, del ghetto ebraico, del museo e delle sinagogheè stata interessantissima e proficua, poiché ci siamo av-vicinati a un mondo e una cultura nuovi, diversi, scono-sciuti ed estremamente affascinanti. Si percepiva chia-ramente che tutto era stato puntigliosamente organizza-to e questa sensazione è durata per tutto il viaggio, dalmomento che nulla è “andato storto” ogni sera ognunodi noi era soddisfatto e cresciuto nella sua personalità. Èproprio vero che «bisogna camminare due settimane neimocassini di un altro, per conoscere sé stessi».

Federica Santoro 2aA

Quei disegni ci parlavano

Arriviamo con il pullman a Mauthausen e iniziamo ilpercorso che faceva ogni prigioniero condannato…Osservavo tutto in silenzio, non si aveva voglia di par-lare, tutto sembrava così diverso da come lo avevo vistonei filmati a scuola. Tutto così brutalmente umano, maestremamente utile come strumento di vita. Un altro momento altrettanto importante è stata la visi-ta di Terezin. Abbiamo avuto l’opportunità di vedere i di-segni dei bambini rinchiusi e quei disegni trasmetteva-no sentimenti, volevano comunicare con noi ed eranopiù utili di cento parole.Una volta tornata a casa mi sono sentita diversa, senti-vo di avere un bagaglio in più. Le emozioni che ho pro-vato sono state veramente tante e forti.

Federica Magnani 3aA

Non dovràmai più accadere

Sveglia, colazione e partenza per Mauthausen, incontrocon i ragazzi austriaci, visita guidata al campo. Sono sta-ti momenti carichi di pathos, la cui risonanza, ora chescrivo, si fa ancora sentire dentro di me. … Sin dalla vi-sta della “scala della morte”, dall’entrata nelle docce,dalla visione di foto e reperti provenienti dal campo (co-me ad esempio gli zoccoli, le divise, i cucchiai…) il miocuore ha cominciato a sussultare, a versare silenziosamentelacrime. L’emozione più forte e che più mi ha segnata èstata la visita del museo di Terezin. Sentire la voce deibambini nelle canzoni, vedere disegni e schizzi che rap-presentavano le atrocità, le condizioni disumane in cuiuomini, donne, fanciulli erano costretti a vivere, ha su-scitato in me due diversi sentimenti: il primo di disprezzoper coloro i quali avevano messo in atto questo effi-cientissimo apparato per annichilire l’essere umano; ilsecondo, positivo, di voglia di cambiare le “carte in ta-vola”, cioè, ricordando ciò che io, con i miei occhi, ave-vo visto, per non permettere che si riproponga nuova-mente questa triste pagina della storia.

Leonia Cazzaro 3aA

Gli studenti delle terze medie di Comerio mentre ascoltano la testimonianza di EleonoraTamborini del liceo classico “Cairoli”.

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“Se qualcosa potrà salvare l’umanità, sarà il ricordo: il ricordo del maleservirà da difesa contro il male;il ricordo della morteservirà da difesa contro la morte.”

E. Wiesel

Ricordavo la poesia di Levi

La mia mente ora va a Mauthausen, che è stato senzadubbio l’emozione più intensa della mia esperienza. Acasa avevo letto Se questo è un uomo di Primo Levi e, ri-percorrendo il tratto di strada irto e dissestato che va dal-la “scalinata della morte” al campo, avevo in mente le pa-role della sua poesia: «Voi che vivete sicuri nelle vostretiepide case, voi che tornando a sera trovate visi amici ecibo caldo, considerate se questo è un uomo». Non sodire se la giornata al lager fosse fredda, ma so di certo chenel mio ricordo è fredda e triste poiché, guardando le fo-to sul Memoriale italiano, vedevo sguardi di giovani spe-ranzosi e fiduciosi le cui aspettative si sono infrante con-tro un male e una crudeltà incomprensibili. Durante quel-la visita, risuonavano in me le parole dedicate a queimorti: «Agli italiani che per la dignità umana qui sof-fersero e perirono». Quei morti avevano forse un sen-so? Credo che ciò che successe 60 anni fa abbia ridatoal mondo il senso della dignità umana, che doveva uscir-ne, invece, distrutta, secondo i propositi dei carnefici.

Andrea Civati 3°A

Il ruolo della testimonianza

AMauthausen tutto era così come l’avevamo studiato: il“burrone dei paracadutisti”, la “scalinata della morte”,le docce, la camera a gas e le baracche, ma la terribilesensazione di dolore e angoscia che si prova a calpesta-re quel terreno bisogna viverla per fissarla dentro di sé...Anche la fortezza di Terezin è stata molto toccante per-ché alla sofferenza non ci si abitua mai, tuttavia ho nota-to fra i due campi una differenza: mentre Mauthausen,per quanto duro e crudo, veniva proposto ai visitatori co-me luogo di memoria, a Terezin tutto è rimasto uguale, ognicosa si è conservata, dal mobilio originale ai fori dellepallottole delle fucilazioni. Il tempo sembrava essersifermato al 1945, anno della liberazione del campo, e inogni piccola cosa erano tangibili la sofferenza e la crudeltà… una crudeltà così spietata mi ha spiazzata, ma mi haanche resa più forte perché ora anch’io mi sento investi-ta dell’importante ruolo di testimone, ora ho il dovere ditrasmettere agli altri l’importanza e il valore di ciò che hovisto. Caterina Tricarico 2aA

La testimonianza di un altro giovanissimo protagonista

Dal museo di Carpial campo di Fossoli

Si potrebbe riassumere ilprecedente viaggio d’i-struzione a Ravenna, S.Marino Urbino, Carpi(Museo della deportazio-ne) in tre diversi momentiche, composti organica-mente e ben strutturati, han-no garantito la buona riu-scita del viaggio: il “pri-ma”, il “durante”, il “do-po”. Come una casa ha bisognodi solide fondamenta, co-sì il nostro viaggio è co-minciato fin dalla sua pre-parazione, stimolando unserio coinvolgimento daparte di tutti i partecipanti.Alla partenza è giunto ilmomento del “durante” chesegna l’inizio di questodoppio cammino. L’esperienza al Museo mo-numento del deportato diCarpi e al campo di transi-to di Fossoli è stata poi par-ticolarmente significativaper la nostra educazione al-la Memoria attraverso il ri-cordo: è stato un itinerarioche - grazie ad ambienti ea luoghi particolari - “pren-deva” la nostra persona ela interrogava, la provavaalla luce di quei tragici fat-ti, chiedendone successi-vamente un sempre mag-giore ricordo e, soprattut-to, una forte testimonian-za. […]Al ritorno seguiva natural-mente il terzo momento: il“dopo”. Quest’ultima faseè stata quindi “strutturata”per non dimenticare ciò chesi era vissuto in quei gior-ni e per non rendere que-

sta esperienza semplice-mente “bella” e fine a sestessa: ora è importante in-fatti “coltivare” i “semi”che abbiamo riscoperto du-rante questo cammino.Spero quindi che il “frut-to” raccolto possa esserecondiviso a lungo da tutti.Il momento del “dopo” nonera però ancora terminato:a distanza di mesi l’emo-zione è continuata. Nel cor-so di due giorni (il 25 gen-naio e il 1° febbraio) hoavuto la possibilità di ren-dere testimonianza dellamia esperienza alle classidi terza media delle scuo-le di Comerio e di Ca-sciago. Questi due incontri sonostati veramente importan-ti: tramite essi, infatti, ve-nivano per me i momentidi “trasmissione” e di con-divisione con dei ragazziche volevano costruire unloro ricordo. È stato mol-to bello riviverli in primapersona, “testimoni” delGiorno della Memoria, conil compito di tramandare ilsenso della tragedia e del-lo sterminio ad altri, affin-ché ciò che è successo nonpossa ripetersi.È stata davvero un’espe-rienza arricchente, dal mo-mento che anch’io dalle do-mande dei ragazzi e dal lo-ro interesse sono riuscito atrarne una lezione educa-tiva e formativa; ma ciò chemi ha reso ancor più con-tento è il fatto che ora an-che loro potranno testimo-niare. Matteo Chilese

Da “Per non dimenticare Auschwitz”

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I nostriragazzi Un concorso dell’Aned

e della provincia per i ragazzi di Pisa

Un viaggio premioper una poesiaPubblichiamo la poesia premiata con un viaggio-pelle-grinaggio a un lager nazista al concorso provinciale promosso dalla sezione Aned e dalla Provincia di Pisa

LE TUE MANI

Non sono gli anni che separano le tue piccole mani dalle mie,

c'è un filo spinato che si chiude intorno a te,non riesco a toccarti,ma cerco di sentirti vicino,perché la tua esperienza viva dentro di me.E vedo ancora quelle piccole mani,aggrappate ad una rete,stringono forte coi pugni quel pezzo di ferro,chiedono aiuto, ora vedo tutta la mia impotenza.La magrezza del tuo volto mi colpisce come un pugno,i tuoi occhi mi ricordano il mare d'inverno,non è rabbia quella che provo,è stupore.Guardo ancora le tue mani,come una foto nella mia mente,le vorrei stringere al cuore per scaldarle,tenerle sempre vicine,perché non capiti mai che la mia memoria

si perda nei giorni

Martina Calugi (Varese)

L’Aned di Milano organizza per la giornata di dome-nica 12 novembre 2006 presso la sua sede di via Bagutta12 un incontro dedicato in particolare ai familiari dei de-portati. All’incontro sono invitati (oltre naturalmenteai superstiti dei campi) figlie, figli e nipoti di ex de-portati. La giornata costituirà anche l’occasione di unoscambio di esperienze tra coloro, e sono tanti, che han-no provato (o hanno intenzione di provare) a racconta-re la vicenda del padre, dello zio, del nonno deportato

nei Lager nazisti. In moltissimi casi, in assenza di unamemoria scritta in prima persona dai protagonisti, so-no stati infatti i familiari a raccogliere documenti e te-stimonianze e a pubblicare libri di “memoria familiare”.La giornata del 12 novembre presso l’Aned di Milanofornirà anche l’occasione per presentare molti di que-sti studi, e per consentire agli autori di queste pubbli-cazioni uno scambio di esperienze (e di libri) con altrifamiliari di deportati impegnati in ricerche analoghe.

La parola a figli e nipoti dei deportati

È ormai più di un anno che davanti alla stele dedicataai deportati di Foligno è comparso un vaso di fiori rossi.Sono sempre freschi e continuamente rinnovati. È il nipote di Armando Bileggi, Maurizio Lai, che onora il nonno, deceduto a Mauthausen, e tutti gli altri deportati folignati morti con lui, con un gesto semplice e commovente. Grazie Maurizio.

Fiori rossiper i deportati di Foligno

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Ricordo al Monumentale

I NOSTRI LUTTI

Premiato aCecinaMauro Betti

PRIMO GRILLIdella sezione di Parma, de-portato nel campo di con-centramento di Bolzano, ma-tricola n. 10015.

IGNAZIO RIGIROLIiscritto alla sezione di Milano,deportato prima a Flos-senbürg con matricola n.21718 e poi a Dachau, ma-tricola n. 116375.

BRUNO DEBERNARDIN

della sezione di Schio, fu de-portato a Bolzano con ma-tricola n. 5414.

Tragicamente ci ha lasciati

DAVIDE DI VEROLI

sfuggito alla razzia del Ghettodi Roma del 16 ottobre 1943,venne arrestato a Firenze adicembre. Da Fossoli vennedeportato ad Auschwitz il 16maggio 1944. La sua matri-cola: A 5366. Lavorò alKanada Kommando ove in-contrò Ida Marcherai. Venneliberato a Dachau. A Roma,nel dopoguerra, per un felicecaso ritrovò Ida con la qualesi legò con un’amicizia du-

rata fino ad oggi. Non parlòmai della sua tragica vicen-da. Scelse un doloroso, pe-sante silenzio. Un silenziodurato oltre sessant’anni, unsilenzio che tuttavia non gliha impedito di essere conl’Aned di Roma e con i suoiiscritti in ogni momento.Sempre presente quando im-portante e necessario. Il suoricordo sarà sempre vivo intutti noi.

ORESTE DE BIASIOappartenente alla sezione diSchio, fu deportato a Bolzanocon matricola n. 72.

GIUSEPPE BEEdella sezione di Schio, fu de-portato a Dora con matrico-la n. 119126.

VALENTINO CESCOCIMAVILLA

della sezione di Schio, fu de-portato a Flossenbürg conmatricola n.43560.

ORESTE MORETTIiscritto alla sezione di Milano,deportato prima a Dachaucon matricola n.93221 e poia Flossenbürg con matrico-la n.45291

CAMILLO DALLAVALLE

della sezione di Schio, fu de-portato nel campo di con-centramento di Bernau.

ALBERTO DELFAVERO

iscritto alla sezione di Schio,fu deportato a Bolzano conmatricola n. 8086.

GIOVANNI GOBBOdella sezione di Schio, fu de-portato a Dachau.

RENATOGRIGOLETTO

iscritto alla sezione di Schio,fu deportato a Dachau conmatricola n. 135015.

ERMES LEITAiscritto alla sezione di Schio,fu deportato a Dachau conmatricola n. 142218.

GIOVANNIMONTANARO

appartenente alla sezione diSchio, fu deportato a Dachaucon matricola n. 61456.

ALBERTO PILLERHOFFER

iscritto alla sezione di Schio,fu deportato a Dachau.

IGINO TACHappartenente alla sezione diSchio, fu deportato a Bolzano.

GIUSEPPE ZANATTAiscritto alla sezione di Schio,fu deportato a Dora con ma-tricola n. 0906.

GIOVANNI BIGNAMIiscritto alla sezione di Pavia,fu deportato a Bolzano conmatricola n. 9469.

PIETRO CIVITANOiscritto alla sezione di Milano,fu deportato nel campo diconcentramento di Mau-thausen con matricola n.76298.

JOLANDAMICOLAUCICH

iscritta alla sezione di Milano,fu deportata a Flossenbürgcon matricola n. 56568.

GIUSEPPE MORBIiscritto alla sezione di Milano,fu deportato a Dora con ma-tricola n. 0242.

EMILIO MASSERAiscritto alla sezione di Parma,fu deportato nel campo diconcentramento di Bolzanocon matricola n. 11013..

Lo scorso 6 settembre il sindaco diCecina, in una solenne cerimonia,ha conferito al Cav. Uff. Mauro Bettiil simbolo in argento del comune diCecina accompagnato da una si-gnificativa lettera in riconoscimen-to del sacrificio subito nei campi disterminio in Germania e per l’ope-ra continua e costante svolta nel-l’incontro con gli studenti delle va-rie scuole di Cecina e dei paesi vi-cini.

Una cerimonia degli ex deportati al cimitero monumentale di Milano per ricordare l’anniversario della liberazione nei campi di sterminio nazisti. Oratore Dario Venegoni, presidente dell’Aned di Milano

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Ci troviamo a Valdesaz: un piccolo paese.Finalmente possiamo fare un bagno caldo. Appenasi sparge la notizia del nostro arrivo, la popola-

zione si riversa a gruppi dove siamo accantonati. Tuttici portano qualche cosa: latte caldo, pane, carne. Lapopolazione vuole così dimostrarci tutto l’affetto e lariconoscenza per la lotta vittoriosa sul fronte diGuadalajara.È commovente vedere donne, vecchi, ragazzi stringersiattorno a noi, dirci con parole semplici ma sgorgate dalcuore tutto l’affetto che nutrono per chi lotta in difesadella libertà della Spagna. Diversi garibaldini hanno ipiedi congelati e vengono amorosamente curati.Da Valdesaz ci trasferiamo a Valdeavero vicino a Madrid.Anche qui ci attendono calorose accoglienze che cicommuovono. In città vengono organizzate manife-stazioni sportive, trattenimenti danzanti con cori. Silancia una sottoscrizione tra i garibaldini per organiz-zare i pionieri: il ricavato ci permette di comperare a ognipioniere, ragazze e ragazzi, la divisa e la bandiera delreparto. E i pionieri sfilano attraverso il paese cantan-do le loro canzoni, mentre il popolo applaude.È la notte del 4 aprile ’37:giunge l’ordine di partenzaper il fronte di Morata diTajuna.Ora siamo in linea al di sopradi quel fronte. Il nemico haavuto tutto il tempo di trin-cerarsi, di costruire fortini,di piazzare i cavalli di frisia.Il nostro obiettivo è d’impe-gnare le riserve del nemico, diverificare se a Pinto e a LosAngeles vi sono, come si cre-de, dei battaglioni tedeschi.Il cielo si sta appena schia-rendo quando i nostri carri simuovo no all’attacco: avan-zano lentamente e d’improv-viso contro loro si scatena ilfuoco dell’artiglieria e dellemitragliatrici nemiche.Dietro un ulivo vedo Pacciardi e Barontini. È impossibilesfondare le linee e i carri si ritirano per tornare subitodopo all’attacco. Nuova ritirata e nuovo attacco: non viè nulla da fare. Ora tocca a noi: all’assalto senza pro-tezione di carri armati. Per primo si lancia il plotone diarditi, seguito dalla prima compagnia, poi è il turnodella seconda, la mia, che si muove con la terza.Le pallottole fischiano sopra le nostre teste: ci buttia-mo a terra, riprendiamo a correre, sempre avanti. Sideve andare sempre avanti. Vicino a me sono cadutiAngelo Merati, Gaetano Golfarelli e Alvaro Rusticali.Ogni pianta di olivo ci serve di riparo.Occupiamo le prime trincee, piazziamo subito le mi-tragliatrici. Alla nostra destra, continua, rabbiosa, labattaglia. La terza compagnia, comandata da Ferrari,espugna posizioni fortificate dal nemico.L’abissino, che noi chiamiamo Moro, col suo fucilemitragliatore, salta oltre la trincea, continua ad anda-re avanti sparando sul nemico: una raffica di mitraglia

lo investe in pieno. Moro cade, chiama aiuto. Un gari-baldino si lancia verso di lui per portargli soccorso maviene colpito a morte. I fascisti continuano a sparare.Sentiamo i gemiti del Moro che continua a chiedereaiuto. In un momento di quiete un altro garibaldinoesce dalla trincea corre verso il ferito: purtroppo una raf-fica abbatte anche lui. Ferrari, il comandante della com-pagnia, attraverso una feritoia osserva il Moro: non re-siste, vuol fare qualcosa per salvare il ferito.Ad un tratto Ferrari balza dalla trincea. Alcuni gari-baldini gridano: «Stai attento, comandante!». Ma Ferrarinon li ascolta, corre verso il Moro, lo ha quasi raggiuntoquando una raffica lo colpisce. Le pallottole si accani-scono sui cadaveri. Non si sentono più i gemiti delMoro. Cosa possiamo fare? Non certo arrischiare al-tre vite. Tutto è stato fatto per salvare il Moro, tre ga-ribaldini sono morti nel tentativo di portargli aiuto.Ahmed Din Joseph (il Moro) era riuscito a conquistarsila stima di tutti, ricco di iniziativa, di presenza di spi-rito com’era. Dimostrava un coraggio a tutta prova;sempre il primo all’attacco nelle azioni più rischiose.Tutti gli volevano bene.

Il fascismo aveva in-vaso e occupato il suopaese, aveva ucciso e

massacrato migliaia diabissini. Eppure il Moronon nutriva nessun odioverso il popolo italiano:sapeva che il vero re-sponsabile era il fasci-smo.Dopo l’azione dimostra-tiva di Morato di Taluna,ritorniamo a Valdeavero,dove la mia compagniasi accampa in una scuo-la. La mattina viene a tro-varci una ragazza, fidan-zata a un garibaldino ca-duto in battaglia. Appenami vede mi abbraccia esorride in modo che sem-

bra ingrandire ancor più i suoi occhi neri. Mi dice di es-sere contenta perché siamo tornati a Valdeavero, chetutti ci ricordano, soprattutto i pionieri. Mi chiede delsuo fidanzato.Io non rispondo subito.- È ferito? - chiede.La ragazza si è fatta pallida mentre le lacrime le scen-dono lungo le gote. Si aggrappa a me. - Cosa è successo, perché non parli?La giovane continua a piangere appoggiando il visosulla mia spalla. Usciamo dalla scuola; camminiamo,ora, attraverso il paese. Mi racconta del loro amore:era la prima volta che amava con tutto il cuore.- Prima di partire per il fronte mi diceva: non preoccu-parti, ti scriverò, ci rivedremo, finita la guerra vivremofelici. Mi sembrava un sogno. A Valdeavero, raggiungono il “Garibaldi” gruppi diitaliani, già miliziani in altre formazioni dell’esercitorepubblicano, tra cui l’avvocato Libero Battistelli. Per

70 anni fa la guerracivile di Spagna

Giovanni Pesce

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ordine del comando si costituisce la Brigata Garibaldi.Diversi spagnoli tra i quali molti di Valdeavero chiedonodi arruolarsi nella nuova brigata. Ciò che preoccupa ilcomando è la scarsa disponibilità di equipaggiamentoper le nuove reclute. La difficoltà viene però, in parte,superata.Oggi partenza: è giunto l’ordine di raggiungere il fron-te a Casa del Campo.Perla prima volta siamo in difensiva, le trincee nemi-che distano dalle nostre non più di 80 metri. È perico-loso sporgere la testa; occorre stare continuamente inallarme per evitare sorprese. Nonostante le raccoman-dazioni del comando di non esporsi, molti vengono col-piti. Le pallottole nemiche sfiorano l’orlo della trin-cea, sfondano i sacchi di terra.

Dal monte Carabitas l’artiglieria bombarda sem-pre Madrid: uomini e donne, giovani, bambiniogni giorno vengono uccisi, ma la capitale re-

siste e il popolo madrileno non ne vuol sapere di ab-bandonare la sua città.I giorni trascorrono lenti: alcune delegazioni ci ven-gono a far visita, e con loro sonoPietro Nenni e Teresa Noce. Il ne-mico, intanto, è sempre in agguato.Il garibaldino Sabiducci, del miodistaccamento, ha individuato ungruppo di fascisti. Per colpirli me-glio è balzato fuori dalla trincea;mentre sta per aprire il fuoco la pal-lottola di un tiratore scelto gli fra-cassa il cranio.Ora Sabiducci è là steso bocconi.Era uno dei garibaldini più devoti,disciplinato: era stato ferito duevolte durante le tante battaglie cuiaveva partecipato.Assieme a Sabiducci è morto il com-pagno Anacleto Sartori, operaio co-munista, attivissimo nella zonaOvest di Parigi, autodidatta, corri-spondente del Grido del popolo,segretario ed animatore del teatrooperaio.Sono pure caduti tre ottimi combattenti: il va-resotto Carlo Bordoni, commissario politico della pri-ma compagnia, Giulio Latertin di Arnaz - Val d’Aosta- e un anconetano, Esino Marinelli.Il nostro turno sul fronte alla Casa del Campo è termi-nato e ritorniamo a Valdeavero. Non leggiamo i gior-nali da tempo, e solo adesso possiamo sapere che ae-roplani tedeschi e fascisti, da alcune settimane, si ac-caniscono bombardando e distruggendo, radendo alsuolo città e villaggi baschi, fra cui Guernica, centro abi-tato, nella sua stragrande maggioranza, da lavoratoricattolici. Siamo sconvolti e pieni di collera mentre leg-giamo il comunicato del governo repubblicano. Tra i tan-ti crimini e le infamie di cui il fascismo si è macchia-to, questo è il più brutale ed esecrando.Jacques Maritain, il noto filosofo cattolico francese,ha scritto: «È un sacrilegio decorare i soldati musul-mani con l’immagine del Sacro Cuore perché uccido-no i figli dei cristiani... È un sacrilegio fucilare, come

a Badajoz, centinaia di uomini festeggianti il giornodell’Assunta o annientare sotto le bombe degli aero-plani, come a Durango - poiché la guerra santa odia piùardentemente dell’infedele i credenti che non la ser-vono - le chiese ed il popolo che le riempiva e i sacer-doti che celebravano le funzioni o, come a Guernica, unacittà intera con le sue chiese e i suoi tabernacoli, falciandocon la mitraglia la povera gente in fuga... Incomincianoa giungerci le notizie del terrore bianco e ciò che già sene sa ci fa pensare che esso raggiunga un grado di cru-deltà e di disprezzo dell’esistenza umana di rara acu-tezza. Ma come? In nome della guerra santa, sotto i se-gni degli stendardi della religione, si semina il terroree la croce di Gesù Cristo brilla come un simbolo diguerra sull’agonia dei fucilati… Un uomo che crede inDio sa che non c’è peggior sacrilegio: è come se le os-sa di Cristo, che neppure i carnefici del Calvario pote-rono toccare, fossero frantumate sulla Croce dagli stes-si cristiani». La nostra permanenza a Valdeavero ci per-mette di impiegare tutte le energie alla riorganizza-zione della brigata. Tre battaglioni, il reparto “arditi”e il reparto “zappatori” sono organizzati e in piena ef-

ficienza. Non cimanca che costi-tuire il 4°Battaglione.Primo Maggio:Festa internazio-nale dei lavoratori.In accordo con leautorità cittadineorganizziamo unagrande manifesta-zione con sfilata.Con noi vi sonoLongo, Nenni,Barontini,Pacciardi e altri uf-ficiali. Teresa Noceparla ai soldati e alpopolo. Pacciardiconsegna ai pio-nieri due bandiere

offerte dalla brigata. Valdeavero è tutta in festa.

Il popolo esprime la stima e la riconoscenza ai gari-baldini. La sera grande ballo: la gente ride e canta,brinda alle forze armate, agli eroici combattenti. Il

5 maggio 1937 riceviamo l’ordine di partire perCifuentes. La nostra brigata è alle dipendenze del Corpodi Esercito, comandato da uno dei migliori ufficialiusciti dal popolo il comandante Modesto. Siamo ac-campati in un grande bosco e ne approfittiamo per istrui-re le nuove reclute, per partecipare a conferenze sullatattica militare.In questi giorni circolano voci su una rivolta scoppia-ta a Barcellona. Si dice che elementi del Poum hannosparato contro un reparto dell’esercito repubblicano,incaricato dal governo di Madrid di prendere possessodella centrale telefonica.Per spiegare ciò che è successo a Barcellona è bene te-ner presente che l’esercito di Catalogna è separato daquello del governo repubblicano.

Il 17 luglio del 1936,iniziava, con la ribellio-ne del generale Francoal legittimo governo re-pubblicano di Madrid,la guerra civile diSpagna. Per ricordarela lotta degli antifascistiin difesa della demo-crazia spagnola pubbli-chiamo un capitolo dellibro Un garibaldino inSpagna scritto daGiovanni Pesce, volontario nelle Brigate in-ternazionali, dedicato al bombardamento diGuernica.

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La drammatica realtà dei Cpt:il nostro ruolo per i nuovi ghetti

Un libro di Marco Rovelli

Sono sempre più con-vinto che la memoriasia, oggi più di ieri , uno

degli aspetto fondamentalidella conoscenza, senza laquale noi tutti e le nostre so-cietà si troverebbero a vive-re, e rivivere drammi e tra-gedie che la nostra speranzavorrebbe definitivamente re-legate ai ricordi del passato.La memoria come eserciziodi continua verifica del pre-sente e come timone per lescelte del futuro. Come ga-ranzia costante di quel Maipiù, giuramento di ieri e im-pegno di sempre. Se così è - e credo che così siae debba essere - mi pongo al-lora una domanda, forse re-torica. Ma me la pongo. È suffi-ciente, può bastare a noi,all’Aned la meritoria ed in-defessa opera di testimo-nianza? Può bastare il ricor-do della deportazione, del-l’annientamento e dello ster-minio da oltre mezzo secoloportata ai giovani e ai nonpiù tali, senza che questa siacontestualizzata, senza chesia legata ad un impegno diazione identificabile in unobiettivo? Non voglio qui escorrettamente affermare checiò non sia mai stato fatto,che l’impegno dell’Aned siastato carente, che la nostraAssociazione ed i suoi com-ponenti abbiano latitato daimpegni culturali, politici esociali. Sarebbe affermare ilfalso. Tuttavia, personal-mente sento che oggi, e sa-rebbe umanamente com-prensibile, noi ci si sia un po-co adagiati sull’impegno del-la testimonianza, quasi que-

sta fosse fine a se stessa. Mipiacerebbe che, soprattuttoalle generazioni più giovaniche si trovano ad affrontaresocietà molto complesse,strade irte di difficoltà e osta-coli, percorsi confusi con al-ti rischi di imprevedibilità edi amare sorprese, noi indi-cassimo un tema di impegnosul quale esercitare la me-moria che con loro costruia-mo giorno per giorno. Untema che traduca le nostreparole in atti concreti, in vo-lontà manifesta.Ne voglio qui suggerire uno.Lo spunto mi viene dato dal-la pubblicazione di un librodi Marco Rovelli, dal titoloLager Italiani. Non si trattadi una nuova pubblicazioneche parla di Ferramonti o diSforzacosta o di Anghiari.Parla, con estrema lucidità esenza alcuna concessione al-la benché minima autoasso-luzione, dei Cpt, dei Centri dipermanenza temporanea.Letta così questa sigla e que-ste parole sembrano gentili,tranquillizzanti, pienamen-te accettabili. Ma, e anche per questo ser-ve la memoria, i nazisti nonchiamavano wohnungsbe-zirk (distretto abitativo, tran-quilla e tranquillizzante de-finizione amministrativa ) ighetti, della cui infamia nonsi perderà mai il ricordo e laconoscenza? Ma non era così allora e nonè così oggi per i Cpt. Nonluoghi tranquilli, non luoghisereni . Tutt’altro e ben al-tro! E che altro siano lo di-mostra il quasi comune e ge-nerale silenzio intorno alleloro realtà, alle inaccettabi-

li vicende quotidiane. Un si-lenzio che potremmo defi-nire bipartisan, rotto solo dapoche voci coraggiose, dapoche voci che ben altro emaggiore ascolto dovrebbe-ro riscuotere. Il nostro ascolto ed il nostrosostanziale appoggio, adesempio. Perché i Cpt sonoveri e propri lager. Diversi euguali a quelli che abbiamoconosciuto. Sarebbe in que-sta sede lungo tracciare le di-versità, che pur ci sono. Sonogli aspetti di identità - nonpochi - che colpiscono e cidevono seriamente preoc-cupare e indignare. MarcoRovelli ci porta la voce, latestimonianza diretta di qua-le sia la tragica realtà deiCpt. Ache situazioni ci abbiaportato la tanto conclamatalegge Bossi-Fini, vantata co-me esempio di avanzata de-mocrazia. Sono parole pe-santi, disperate, voci che de-nunciano un tradimento maanche una accorata volontà disperanza. Voci che ci portano tanti an-ni indietro e alle quali non sipuò rispondere con l’appel-larci alla solita e falsa defi-nizione di “italiani, bravagente”. Vorrei proporvi citazioni del-le testimonianze e delle sto-rie umane che il libro racco-glie e propone. Ritengo tut-tavia che non riuscirebberoa dare che una minima rap-presentazione dell’orrore deiCpt. Vi invito a leggere il libro,invito che estendo ai nostrirappresentanti nazionali conla speranza che, trovandosid’accordo con me, indichi-

no come impegno dell’Anedl’aiuto possibile a chi si staprodigando perché la realtàdei Cpt venga a modificarsisostanzialmente, cancellan-do una profonda vergognadel nostro Paese. Facendoneun impegno primario, ca-ratterizzante. E su questo im-pegno chiamare quanti ci so-no vicini, quanti hanno fat-to dei nostri ricordi la loromemoria.Per concludere quello che ècertamente il mio persona-le appello alla mobilitazione,voglio citare un brano dellapostfazione di Moni Ovadia: «La Bossi-Fini ha dato il laalla fascistizzazione deiCpt.[...]Dopo Auschwitz, dopo iGulag, nessuno può essereassolto per aver girato lafaccia al fine di non vederee di non sapere. Il clande-stino è l’ebreo di oggi. Egliè ridotto a “sotto uomo” pri-ma dalla sinistra cultura re-torica “sicuritaria”, poi dauna legge fascista che lo di-chiara criminale per il solofatto di essere ciò che è, unessere umano che ha fame ecerca futuro per sé e per isuoi cari e che per questoviene privato di qualsivogliastatus, sottoposto alla vio-lenza della reclusione, sot-tratto alle tutele minime chespettano a un essere umanoper diritto di nascita. Unavolta sepolto in uno spazio dieccezione, il clandestino èalla mercé di arbitrii, per-cosse, torture, privazioni,abusi sessuali.»

Credo che per noi, supersti-ti dei lager nazisti e per i fa-miliari degli assassinati, que-ste siano parole sufficientiper esprimere il nostro de-ciso, chiaro: NO.

Aldo Pavia

BIBLIOTECA

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Vita, Resistenza e deportazione a Soave, nel Veronese

Un volume sulla figura di Augusto Tebaldi

«Sono passati qua-rant’anni, ma perme, mutilato dai

troppi addii scambiati tra ireticolati, non c’è possibi-lità di dimenticare, io nonho scelta, io sono condan-nato a ricordare ed a rivive-re. Io ho il dovere di testi-moniare, ritengo comunqueche per tutti perdonare siaun merito, ma dimenticaresia una colpa».In queste parole di AugustoTebaldi, con cui RobertoBonente apre il suo libro suTebaldi, sulla sua vicendaumana e sulla storia di Soave– provincia d’Italia certa-mente, ma spaccato di unarealtà più ampia, nazionale– sta il significato piùprofondo di una operazionedi ricerca storica e umana.Il libro di Bonente, infatti,non è solamente il risultatodi una approfondita ricercadi fatti storici, di date, di no-mi, bensì è la ricostruzione– necessaria ed importante –di una dimensione in cui sto-ria e vissuto umano si in-trecciano continuamente,l’una rinforzando e trovan-do le sue ragioni nell’altra.Perché la storia è vicendadell’uomo e senza la sua pre-senza diventa elencazionedi date, fatti, accadimentifreddi e distanti, a volte in-comprensibili. In questo li-bro, ed io ne ho trovato pia-cere, la vita di AugustoTebaidi è il motivo di fon-do dello svolgersi della sto-ria di una cittadina negli an-ni del fascismo e dell’anti-fascismo, della Resistenza. Ricordare è una condanna?Certamente ma, come

Tebaldi ha più volte affer-mato è dovere. Il contrario ècolpa perché l’oblio generail ripetersi di identiche pa-gine drammatiche della no-stra vita. È dovere perché glialtri sappiano ed è dovereperché si deve impedire chel’ignoranza, spesso ferma-mente voluta, sia il cavallodi Troia del riproporsi diideologie, ieri sconfitte manon morte, pronte a ripro-porsi, con vesti più accetta-bili ma ugualmente morta-li. Di grande interesse le pa-gine in cui Bonente traccial’itinerario di una cittadinanel suo passare da una ac-cettazione, quasi monotonao indifferente, del fascismoalla opposizione allo stesso,nel rifiuto della Rsi. Il cam-mino di giovani che si affi-dano ai più anziani, a colo-ro che esperienza e saggez-za li indica poter essere gui-de e riferimenti in un perio-do tanto confuso quanto col-mo di ansie e di paure, di se-gnali di un domani in cui latragedia, personale e collet-tiva, sembra essere annun-ciata. Altrettanto interessanteil vedere come si siano for-mati i primi gruppi ribelli,forse un poco velleitari ini-zialmente, ma altrettanto de-terminati a non stare ad os-servare, tesi a fare almenociò che era possibile. È lastoria di Soave ed è la sto-ria di ogni paese, cittadina,città italiana. È la storia delformarsi di una nuova co-scienza, del riscatto dalla so-porifera frode fascista.Certamente è forte l’impat-to con alcune figure a noi ca-re e legate da vicende co-

me se non bastasse, ci sa-ranno altri sei colpi di pi-stola. Per finirla, tirati da ungraduato fascista. Perchéquesto erano i “bravi ragaz-zi di Salò”. Questo il loroonore. Ai fascisti ciò che in-teressava era lasciare dietrodi loro una scia di terrore,di sangue. E lo dimostre-ranno, a Soave, anche conla fucilazione dei due parti-giani Ceolon e Benetton,“Danton” e Perseo”:«Dalle 6 del mattino dell’8dicembre 1944 squadre difascisti in pieno assetto diguerra scorazzavano per ilpaese cantando. Verso le ore8 provenienti dal TeatroRomano di Verona, veniva-no fatti scendere dal camion,dove erano seduti sulle lo-ro bare, i due uomini che diuomini ormai c’era rimastoben poco; dai loro volti edalla loro andatura erano pa-lesi i segni della sofferenzae delle atroci torture per nonaver rivelato i nomi e i na-scondigli dei loro compa-gni. Fatti sedere su due sedievenivano fucilati alla schie-na perché appartenenti a ban-da armata. Banditi».I fascisti poi brinderanno ecanteranno, invitando a par-tecipare alla loro gioia i ca-merati tedeschi, mentre aiparenti non resta che il pian-to e il crudele compito di ri-comporre le salme.Rifiutando, con sdegno maanche con grande dignità,che i loro cari vengano com-posti nelle bare portate daiboia fascisti. Ultimo, ma nonultimo, il nostro compagnoAugusto Tebaldi. Molti com-pagni dell’Aned hanno avu-to il piacere di conoscerlopersonalmente. Non chi scri-ve, dopo aver letto il librodi Bonente. Pure la sua fi-gura mi è familiare, la suavoce mi sembra quella di tut-ti i compagni dell’Aned. La

BIBLIOTECA

muni: Don Aldrighetti,Giuseppe Garribba, entrambideportati a Dachau, GiovanBattista Perezzan deportatoa Buchenwald, Aldo De Vidoa Gusen, ove incontrò, primadi morire, il colonnelloAlberto Andreani, EgidioMeneghetti, Berto Perotti,Quintino Corradini, GinoSpiazzi, che sarà suo com-pagno di Tebaldi a Flos-senbürg.Sono nomi e vicende che, anoi note, è bene e necessariovengano conosciute. Cosìcome si deve ricordare la fu-cilazione di Onilda Spiazzi,una donna la cui colpa eraquella di voler proteggere ilfiglio. Ai fascisti questo ba-sterà per vedere in lei un ne-mico ed esercitare su di leiuna inaudita violenza. Dopoessere stata a lungo sotto-posta a interrogatorio e a lun-go percossa, Onilda vieneportata sulla piazza diCazzano, il suo paese, vienefatta sedere su una pietra e levengono bendati gli occhi.Il plotone, formato da vo-lontari ben felici di essereprotagonisti di una cosìesemplare punizione, scari-ca sulla donna i fucili e, co-

Roberto Bonente,“Condannato a

ricordare”.Augusto Tebaldi a Soave:

vita, Resistenza, deportazione,

Istituto veronese per lastoria della Resistenza edell’età contemporanea.

CIERRE edizioni

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sua avventura umana quel-la di tanti di noi, di tutti noi,oserei affermare. Bonentene traccia un profilo com-pleto, ricostruendo la sua vi-cenda e al tempo stesso i trat-ti della sua umanità. Al suoatto di grande coraggio, digiustizia, nel consegnarsiper fare liberare il fratellopreso in ostaggio alla suapermanenza nelle celle del-la caserma veronese, al suoarrivo al lager di Bolzano,al lavoro forzato a Merano –con lui donne, uomini, ebreie politici– tutto sembra pre-cipitare lungo una inferna-le china che lo porterà al KZFlossenbürg. Dopo quattrogiorni di estenuante viaggio,il 23 gennaio 1945, cono-scerà il luogo ove i nazifa-scismi lo hanno destinato. Ilsuo nome sarà 43736 e, co-me tutti sarà un “pezzo”.Proverà il tormento della fa-me, il lavoro fino a sfinire,l’angoscia del cercare di so-pravvivere. Vedrà finire infumo molti compagni.Cercherà, per quanto possi-bile, conforto nei ricordi,nella sua fede religiosa.Prima della liberazione an-che lui dovrà affrontare unaallucinante marcia della mor-te. A ricordare tutto ciò eracondannato Tebaldi. Ma lasua condanna è per noi, e perintere generazioni, salvifi-ca. I suoi dolorosi ricordi ela nostra memoria siano lefondamenta di un futuro incui quei giorni non abbianopiù diritto di cittadinanza.

A.P.

In occasione del prossimoGiorno della Memoria, il27 gennaio 2007, la

Sezione milanese dell’Anedin collaborazione con la Casaeditrice Mimesis di Milano,con il Museo Statale diAuschwitz e con l’associa-zione “Alice”, presenteràl’edizione italiana del piùimportante lavoro di docu-mentazione mai realizzatosul Lager nazista diAuschwitz-Birkenau:Ka-lendarium – Gli avveni-menti nel campo di con-centramento di Auschwitz1939-1945, di DanutaCzech, ricercatrice delMuseo statale di Auschwitz,nella traduzione di GianlucaPiccinini.Il libro, riconosciuto inter-nazionalmente come il pun-to di riferimento essenzialedi ogni seria ricerca sulLager, è stato finora stam-pato in polacco, in tedesco ein inglese. Con la pubblica-zione dell’edizione italiana,che ha ottenuto la collabo-razione dello stesso Museodi Auschwitz, anche ricer-catori e studenti italianiavranno finalmente facileaccesso alle informazionicontenute in questo studio.Danuta Czech, ricercatricedel Museo statale diAuschwitz, è scomparsa nel2004 all’età di 82 anni. Daragazza aveva militato in-sieme al padre (poi interna-to nei Lager nazisti) nellaresistenza polacca. AlKalendarium ha lavorato in-tensamente per decenni, su

incarico del Museo.Fin dal 2002 l’Aned ha co-minciato la pubblicazione“virtuale” del volume sulsuo sito Internet (www.de-portati.it/librionline/Kalendarium.html). Ora il volume astampa arriverà finalmente intutte le librerie. La Sezione di Milano ha col-labora a questo ambiziosoprogetto nella convinzionedi assolvere anche così aipropri compiti istituzionali,che sono quelli di preserva-re e diffondere nel nostroPaese la memoria della po-litica nazista dello stermi-nio e delle innumerevoli vit-time dei Lager. Si tratta di un impegno edi-toriale notevole, trattando-si di un volume di grande

Kalendarium: gli avvenimenti nel campo di Auschwitz 1939-1945

La Sezione milanese in collaborazione con Mimesis

formato (circa 1.000 pagi-ne).Il Kalendarium di DanutaCzech ha avuto in questi an-ni i più alti riconoscimentiinternazionali. Contro que-sto lavoro - comprensibil-mente quanto inutilmente -si sono scagliate schiere disedicenti storici revisionistie negazionisti. A dispetto diquesti attacchi, il libro man-tiene intatto il suo immen-so valore di documentazio-ne. Per questo l’Aned diMilano auspica che la pub-blicazione incontri l’ap-poggio delle amministra-zioni locali e regionali chene agevolino la distribuzio-ne presso le biblioteche, lescuole e le Università.

Dario Venegoni

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La copertinadell’edizioneinglese delKalendariumora tradotta in italiano e di prossimapresentazione.

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Nel luglio del 1960,iniziarono a Genovaforti manifestazioni

popolari che portarono al-la caduta del governoTambroni, appoggiato deifascisti. Non si tratta sol-tanto di una protesta anti-fascista, ma era l’indice diun risveglio democraticodel Paese, dopo gli anni dif-ficili seguiti alla sconfittadel 1948 e il decennio do-minato dalla Dc. Ma come è giunto il Paesea questa nuova coscienzademocratica? GiordanoBruschi ci descrive in unlibro, come è maturata e co-me è esplosa la protesta inuno dei settori meno sin-dacalizzati e di più diffici-le organizzazione: quellodei lavoratori del mare.Siamo nel 1959, poco piùdi un anno prima delle pro-teste antifasciste di Genova.La Cgil si è resa conto datempo della debolezza delsindacato tra marinai cheoperano a bordo delle na-vi. La Film (Federazioneitaliana lavoratori del ma-re) venne rafforzata e si de-cise di organizzare uno scio-pero che coinvolgesse tut-ti coloro che lavoravanosulle navi. Non si trattava diun problema semplice. Nonsolo perché coloro che do-vevano scioperare stavanonavigando su tutti i mari delmondo, ma anche perché in

quegli anni era ancora invigore il Codice di naviga-zione fascista che attribui-va al comandante un pote-re incontrastato: poteva leg-gere i telegrammi che ve-nivano inviati ai singoli ma-rinai, censurarli e persinofar arrestare e rinchiuderenel carcere di bordo le per-sone ritenute pericolose. In una situazione tanto dif-ficile la Film decide di in-dire uno sciopero per rin-novare il contratto di lavo-ro ancora in vigore, risa-lente al 1931.Venne creata attraverso unlungo lavoro una rete dirappresentanti sindacali,naturalmente clandestini,sul maggior numero di na-vi ai quali poter far perve-nire la notizia del giornodell’inizio dello sciopero.Il comandante della naveperò non doveva saperlo,cosa non facile poiché ave-va il diritto di leggere ecensurare tutti i telegrammi.Si ricorse così a uno stra-tagemma che durante laResistenza era stato usatoda Radio Londra: inviare atelegrammi con un testo deltutto innocente che solo gliinteressati potevano capir-ne il vero significato. Fu grazie al prezioso lavo-ro della segretaria del sin-dacato Graziella Torrini chei rappresentanti sindacalidi tutte le navi mercantili

Quando i messaggi tipo “Radio Londra” bloccarono le navi italiane nello sciopero dei marittimi del 1959

Giordano Bruschi racconta in un libro l’epica lotta dei lavoratori del mare

poterono essere raggiuntisimultaneamente da tele-grammi di questo tipo:“Giovanni ha vinto il con-corso”, “Andrea è statochiamato per l’assunzio-ne”, “Mara ha superato l’e-same”, “La visita medicadi Giuseppe è stata soddi-sfacente”, “È nato tuo ni-pote Valerio”, “La casa perle vacanze è stata prenota-ta” e altri simili.Naturalmente i comandan-ti, letti i telegrammi li con-segnavano ai destinatari,spesso congratulandosi perle buone notizie ricevute.Era il segnale dello scio-pero.Tra la sorpresa degli arma-tori, numerose navi si fer-marono contemporanea-mente. Transatlantici comeil “Giulio Cesare” e il“Vulcania” della SocietàItalia furono bloccati a NewYork, dove ottennero l’ap-poggio della comunità ita-

liana e del potente sinda-cato portuale; navi passeg-gere come il “Conte Gran-de” e il “Conte Biancama-no” si fermarono in Africa,a Dakar, dove il console ita-liano e il comandante del-la nave minacciarono didenunciare gli scioperanti edi arrestarli per ammutina-mento, sollecitando, per for-tuna inutilmente, un inter-vento della forza pubblicasenegalese; le ammiragliedel Lloyd Triestino come il“Neptunia” e il “Toscana”scioperarono in Australia, aMelbourne, navi da caricocome il “Pacinotti”, l’“Usodimare” e il “MarcoPolo” si bloccarono nei por-ti dell’America Latina.Addirittura imprevista ful’adesione di due navi pas-seggere della flotta diAngelo Costa, il duro pre-sidente della Confindustria:la “Bianca C.”, scioperò aBarcellona, contrastata du-ramente dalla polizia fran-chista e la “Anna C.” sibloccò a Las Palmas, nelleisole Canarie. Su queste na-vi il sindacato non avevaiscritti, e il messaggio disciopero fu consegnato adalcuni marittimi non iscrit-ti al sindacato, poche oreprima della partenza daGenova.Lo sciopero si protrasse persettimane con significati-ve adesioni e numerose cor-

Giordano Bruschi,La sfida dei marittimi ai padroni dei vapore.

Lo sciopero di 40 giornidel 1959,

Fratelli Frilli Editori2006

euro 13,50

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tei di marinai a terra, spes-so caricati dalla polizia. Il29 giugno a Torre delGreco, mentre si festeg-giava la tradizionale Festadei 40 Altari, numerosi ma-rittimi con i loro familiarioccuparono per protesta lapiazza principale. L’on.Giorgio Napolitano, depu-tato comunista di Napoli,che si trovava a Torre delGreco per il suo trenta-quattresimo compleanno,interrompe i festeggiamentie si unisce ai marittimi inlotta. Oltre 10.000 furonole denunce per marittimi esindacalisti, e i processi aloro carico si protrasseroper tutti gli anni Sessanta.Nello scorso giugno, quan-do Napolitano ha visitatoGenova come Presidentedella Repubblica, i marit-timi e i portuali gli hannoconsegnato una targa di rin-graziamento per il sostegnoalla loro lotta di 50 anniprima.

L’eco di questo sciopero fuenorme e la stampa italianae straniera ne parlò diffu-samente, soprattutto per-ché esso rivelava che fer-menti nuovi stavano matu-rando anche in categorietradizionalmente difficilida mobilitare. Segno che ilpaese stava cambiando.Quando cessò, 40 giorni do-po, Angelo Costa decise dilicenziare 115 marinai cheavevano guidato lo sciope-ro sulle sue navi (allora ilrapporto di lavoro del ma-rinaio cessava a fine viag-gio, ma veniva di fatto rin-novato all’inizio del viag-gio successivo). Renzo Ciardini, segretarionazionale della Film-Cgil,andò dall’armatore e gli dis-se a muso duro “PeppinoDi Vittorio, col quale ho la-vorato, mi ha sempre dettoche lei è un padrone duro,ma corretto e rispettoso de-gli accordi firmati” (il lea-der storico della Cgil era

morto due anni prima). Fuquesto che indusse Costa arevocare tutti i licenzia-menti.L’accordo raggiunto al ter-mine dello sciopero non fudel tutto positivo, segnodella durezza dei tempi. Aimarittimi venne ricono-sciuto un aumento di pochemigliaia di lire.Questo fece scrivere adEugenio Scalfari, allora di-rettore dell’Espresso, un ar-ticolo dal titolo “Perché imarittimi sono stati scon-fitti”. In realtà si trattava diun ben magro risultato, do-po una battaglia tanto aspra.Ma questo sciopero signi-ficò l’avvio di una ripresadel movimento dei lavora-tori che allora Scalfari nonpoteva comprendere.Nel suo libro, GiordanoBruschi, polemizzando in-direttamente con l’alloradirettore dell’Espresso,elenca dettagliatamente checosa hanno ottenuto i la-

voratori del mare negli an-ni successivi: l’orario di la-voro è sceso da 48 a 40 ore,sono stati introdotti gli scat-ti di anzianità, è stata piùche raddoppiata la paga ba-se, sono stati introdotti nuo-vi istituti come l’indennitàdi coperta, quella per le na-vi da carico, la retribuzio-ne per il mancato imbarco,l’assistenza economica permalattia dopo 28 giorni dal-lo sbarco e la contrattazio-ne integrativa, oltre a rico-noscere la presenza del de-legato sindacale a bordo,figura che nel 1959 AngeloCosta considerava come unnemico da combattere contutti i mezzi.Ricordare oggi questa lot-ta – come ha fatto GiordanoBruschi col suo libro – si-gnifica ripercorrere un mo-mento significativo dellabattaglia democratica cheha avuto grandi ripercus-sioni su tutto il paese.

B.E.

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Suggerimenti di lettura a cura di Franco Giannantoni

La Patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina, Donzelli Editore, pp. 297, euro 24, 90

Federica Bertagna

Dove non intervenne coi suoi benefici, estesi dall’in-terpretazione della Suprema Corte, l’amnistia Togliattidel giugno 1946 a liberare i fascisti, una grossa mano ven-ne data dalla Chiesa cattolica che protesse e garantì lafuga verso il Sud America dei criminali. Vecchia storiasi direbbe, ma Federica Bertagna, autrice con altri, del-la monumentale Storia dell’emigrazione italiana, inquesto suo libro va più a fondo, penetrando e svelandoi percorsi illegali e talvolta legali che resero possibili gliespatri verso la patria di riserva, quell’Argentina ita-lianizzata decenni prima dai viaggi di chi lasciava l’Italiaa testa alta per lavorare. Con i più famosi, dall’ex se-gretario del Pnf Carlo Scorza, sfuggito per un niente algappista Giovanni Pesce il 25 aprile all’Aloisianum di

Gallarate dove faceva il bibliotecario con il nome diMaggi, a Dino Grandi, il traditore del 25 luglio, a TullioTamburini, capo della polizia repubblichina, al pode-stà di Milano Piero Parini, ci sono gerarchi minori co-me il famigerato Merico Zuccari, capo della divisione“Tagliamento” il capitano della Gnr di Modena BrunoPiva o il ministro dell’Agricoltura della Rsi EdoardoMoroni che troverà modo di rifarsi la faccia, ai verticidi una potente banca peronista. Un fenomeno crimina-le di cui non c’è stata mai traccia di indagine, un’atti-vità disturbante, da archiviare esattamente come quel-la di altri banditi fascisti, redenti dalla tolleranteRepubblica, per i massacri in Etiopia, in Grecia, neiBalcani.

Erminio Ferrari, In Valgranda. Memoria di una valle,pp. 156, euro 12,00; La Liberazione. Cannobio, ago-sto-settembre 1944, pp. 141, euro 14,00; Michael Jakob,La strage di Trarego, pp. 78, euro 8,00; tutti TararàEdizioni, Verbania, 2006

Erminio Ferrari, Michael Jakab

Adesso la Storia vera, quella della lotta antifascista, raccontatacon passione e grande rigore, si trova sempre più spessolontano dalle luci dei potenti circuiti editoriali e televisivi,in periferia. È come trovare un tesoro. Il caso di Tararà èesemplare: nella collana Storie già ricca di ricostruzioniinteressanti (basti citare di qualche anno fa, Gino Vermicelli,Babeuf, Togliatti e gli altri), per la penna raffinata diErminio Ferrari e di Micheal Jakob propone ora in tre libri,preziosi e assolutamente da leggere, le battaglie, le trage-die, l’orografia minuta, dettagliata della montagna dellapiù aspra Resistenza ossolana, quella Valgrande misterio-sa, magica, impenetrabile dove nell'estate del ’44 vennesferrata contro le bande partigiane uno fra i più massicci ra-strellamenti nazifascisti. L’eroismo dei combattenti (chi sisalvò costituì poi la “Valgrande Martire”) poté poco con-tro la furia nemica. Ci fu la disperata ritirata, il massacro dei 42 di Fondatocecon in testa alla fila la Cleonice Tommaselli che portava, ri-cordate?, il cartello sui banditi o liberatori d’Italia che

ha fatto il giro del mondo (uno si salvò e lo chiamarono il43), le fucilazioni sommarie, le torture, le deportazioni deivalligiani. Ferrari descrive tutto con intensa partecipazio-ne e nel contempo accompagna il lettore lungo i sentieridella montagna, la fa conoscere a fondo, segnando con pa-role accorate e testimonianze emozionanti, i siti, i casola-ri, le malghe, i tortuosi percorsi, i fiumiciattoli, ogni an-fratto. Storia, geografia, cultura in generale. Sempre Ferrari rievoca nell’altro suo libro la liberazione diCannobio durata pochi giorni, forse un gesto di presun-zione partigiana ma comunque eroico: seguì la caduta, laminaccia delle “forche” innalzate in piazza e poi inutiliz-zate per fortuna, la fuga in Svizzera di chi riuscì, la fine delsogno, prima che a ottobre nascesse poco lontano la LiberaRepubblica dell’Ossola. Il terzo libro descrive il calvariodella Volante Cucciolo, una coraggiosa unità della brigata“Cesare Battisti”, sette ragazzi, operai e studenti della“Cobianchi” che operavano nel Verbano, ai confini della val-lata principale: il 25 febbraio 1945 furono arrestati, passa-ti per le armi e violentati dalle armi bianche della MiliziaConfinaria dei boia Mario Nisi e Angelo Martinez a Traregoin località Pomè. Michael Jakob riannoda i fili di questapagina dopo oltre mezzo secolo e lo fa con le voci di chi gio-vanissimo vide e fissò per sempre nella mente la mattanza,visibile, con un moto di rabbia e di emozione, nelle foto inappendice dei corpi straziati.

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Suggerimenti di lettura a cura di Franco Giannantoni

Centri sociali di Destra. Occupazioni e culture nonconformi, Castelevecchi, Roma 2006, pp. 216, euro 16,00

Domenico Di Tullio

Sdoganata la destra da Silvio Berlusconi, ripulito il casca-me missino dalle acque di Fiuggi, cosa resta dei tifosi delDuce, dell’Impero, della socializzazione? Niente, verreb-be da dire, proprio niente, leggendo questo utile libro tuttorigorosamente nero perché nella seconda metà degli anni ‘70la Destra giovanile italiana decide di cambiare strada chenon è più quella delle zone impedite ai rossi, del manga-nello, delle fucilate. I nuovi militanti, una generazione al pas-so con i tempi, si distacca dai dogmi atlantisti e reazionaridel Msi, rifiuta la sindrome del ghetto. Quello che salta fuo-ri sono i fasci capelloni che vestono come i compagni del-la sinistra, che frequentano i concerti rock, che utilizzanole droghe leggere. Il giustizialismo fascista è messo in sof-fitta ed emergono le parole d’ordine dell’antiamericani-smo, dell’autodeterminazione dei popoli, della lotta ai va-lori borghesi, della Rivoluzione che seppur animata da va-lori tradizionali e spirituali, resta pur sempre il rovescia-mento dello status quo. Emerge in modo prepotente il bi-sogno di avvicinarsi a quel popolo che i militanti delle pas-sate generazioni avevano dimenticato. I temi sono quellidegli altri: il carovita, la casa, gli studi, la giustizia socia-le. Sul fondo, sempre, il faccione del Duce.

Morte di un traduttore, Guanda, pp.195, euro 14, 50

Ignacio Martinez De Pison

È il 70° anniversario della guerra di Spagna (1936-1939) e la produzione letteraria per l’occasione è mol-to ampia. Suggerisco per originalità, scrittura, tensio-ne, spessore, questa storia, vera, del catalano De Pison,che affronta uno delle migliaia di crimini commessi al-l’interno della guerra civile da una e dall’altra parte.Non è una scelta casuale e non è un delitto della poli-zia franchista. Chi si muove in questa tetra vicenda, frale ombre di prezzolati sicari, è la polizia segreta so-vietica giunta per “normalizzare” la situazione, per met-ter mano anche in quella “sinistra” meno addomesti-cabile, che vede e parla. La vittima è José Robles Pazos,un fervente repubblicano, intellettuale, scrittore. Tuttoaccade, alle prime battute della guerra, nel dicembredel ’36. “Pepe” il nomignolo di Robles viene rapitodai servizi di Mosca nella sua casa di Valencia e scom-pare per sempre. Robles era famoso. Aveva tradotto,fra gli altri, uno dei maggiori successi dello scrittoreamericano John Dos Passos Manhattan Transfer. I dueerano vecchi amici. E così quando Dos Passos viene asapere della scomparsa dell’amico, nell’aprile del ’37,comincia una caccia disperata per ritrovare il bandolodi una matassa sempre più intricata. Si muove in ognidirezione “fra i compagni”. Ma non trova sul suo cam-mino che imbarazzati silenzi e improbabili menzogneche finiranno per pesare sulle sue stesse convinzionipolitiche, sulle sue speranze, sul suo essere uomo li-bero.

Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Padova,pp. 252, euro 16, 50

Martha Nasibù

Angelo Del Boca, il nostro storico più rigoroso delleimprese coloniali fasciste, non ha dubbi nella sua in-tensa prefazione e afferma: «Un libro meraviglioso cheha il grande pregio di condurci in un mondo del tutto sco-nosciuto a noi occidentali, quello complesso dell’ari-stocrazia etiopica degli anni Venti e Trenta». MarthaNasibù è nata nel 1931 ad Addis Abeba. Infatti: l’incantevole donna etiope che ora vive e fa lapittrice e la scrittrice a Perpignano in Francia, raccon-ta la tragedia che ha colpito la sua famiglia, esiliata dalfascismo in Italia nel 1936 e tenuta al confino di poli-zia sino all’estate del 1944. Otto anni di villeggiaturaper dirla con Berlusconi, nel suntuoso palazzo nel cen-tro della capitale, per essere figlia (e con lei la madre ei familiari) del bellissimo degiac Zamanuel, un aristo-cratico che si era comportato nella guerra con estremacorrettezza di fronte alle prepotenze e ai massacri delviceré Graziani. Ne esce un ritratto di angherie e sofferenze ma anche ma-giche pennellate sulla classe dirigente di quel nobilePaese diviso fra struttura arcaiche e spinte verso la mo-dernità.

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Via Nazionale, Banca d’Italia e classe dirigente. Centoanni di storia, Donzelli Editore, pp. 404, euro 27,50

Alfredo Gigliobianco

La Banca d’Italia è finita sulla bocca di tutti; di re-cente, lo storico Istituto si è trovato nell’occhio del ci-clone per via del suo governatore Fazio, ma pochi san-no della sua funzione istituzionale, del suo potere di re-golazione del mercato monetario, della sua vocazionea “sentinella” delle varie banche legate a regole fissa-te. Lo storico ed economista Gigliobianco, responsa-bile dell’Ufficio ricerche della Banca d’Italia, offrecon questo studio un panorama del secolo di vitadell’Istituto di Emissione analizzando i percorsi di car-riera, le decisioni cruciali dei banchieri del passato daStringher a Menichella, da Einaudi a Carli, da Baffi aCiampi (come vedete due di loro a dimostrare la staturamorale e professionale dei personaggi divenneroPresidente della Repubblica!!!), le origini della su-premazia dell’istituzione nel sistema economico ita-liano, le funzioni di collegamento dei governatori colmondo politico, industriale, amministrativo, scienti-fico del Paese. Ma c’è di più: vengono ripercorsi temi di storia intel-lettuale, storia economica, storia delle istituzioni dal-la fine ‘800 al dibattito sulla moneta unica europea.

La marcia su Roma, Laterza, pp. 291, euro 18,00

Giulia Albanese

La marcia su Roma ci è stata tramandata in genere co-me una cavalcata vittoriosa coordinata da Mussoliniche nella capitale giunse in treno quando il re lo no-minò capo del governo. Ma è una leggenda. Le cose an-darono in modo assai diverso e a Giulia Albanese, ri-cercatrice dell’Istituto universitario europeo va il gran-de merito di aver frantumato un tabù, in un libro straor-dinario ancorché passato sotto silenzio, documenti al-la mano. I fascisti non conquistarono Roma. Vi entra-rono a cose fatte il 30 ottobre nel primo pomeriggio.Per giorni, con poche armi, affamati, laceri, macerati dal-la pioggia battente, attesero fuori dalla città l’ordine dimuoversi. Giunse un invito. L’alone leggendario del-l’attacco e della vittoria è una menzogna. InsediatoMussolini, il quadro cambiò e le squadracce, tolleratedall’esercito regio, ne combinarono di tutti i colori av-versati con coraggio dalla Roma antifascista che sepperispondere fin che fu possibile alle violenze. Ma que-sto è l’epilogo, la coda della storia. Giulia Albanese ri-costruisce il contorno che è più significativo, che è il suc-co. Si dedica a proporre quello che accadde per l’Italiaintera dove i fascisti si mossero facilitati dalle collusionidei prefetti del regno occupando le Amministrazionilocali avverse a Mussolini. La vera marcia su Roma fulungo il Paese: dimostrò la forza brutale dei fascisti masoprattutto la non volontà dello Stato liberale (che mo-riva) di reagire alle minacce e di far valere le libertàcostituzionali.

Se non ci ammazza i crucchi… ne avrem da raccon-tar. La battaglia di San Martino, Varese 13-15 no-vembre 1943, Cgil-Spi, 2006, pp. 351, euro 13,00

Francesca Boldrini

Il libro è ben scritto, c’è estremo rigore, la storia dello scon-tro faccia a faccia è scandagliata in ogni suo aspetto con levoci dei sopravvissuti, dei valligiani e con l’uso dei docu-menti sparsi in Italia e in Svizzera, in luoghi pubblici e pri-vati. La prima battaglia della Resistenza italiana, comeviene definita, viene proposta all’analisi storiografica do-po oltre mezzo secolo dagli eventi. Ma proprio qui cascal’asino: la ricerca evita, ed è un’occasione clamorosamenteperduta, di spiegare con coraggio e chiarezza (a 70 annidai fatti si può e si deve fare) come il San Martino fu esat-tamente il contrario di quello che la Resistenza avrebbe ri-chiesto, mobilità, mordi e fuggi, bande capaci di muover-si sul territorio. Il San Martino fu il trionfo del continuia-mo militare e semmai servì a far sapere sulle rovine fu-manti dell’assalto nazifascista che quanto accadde, e cioèil massacro, poteva essere evitato, che non avrebbe dovu-to mai più ripetersi, pena la sconfitta nel tempo. Gli erro-ri furono capitali e non c’è eroismo che tenga perché il co-mandante Croce venne allertato in tempo ampiamente uti-le. E cioè: stare in vetta a una montagna ad attendere il ne-mico, organizzare la zona come si fosse in guerra regola-re, strutturare gli uomini come si trattasse di un pezzo del-l’esercito regolare, alimentare quel modello dell’attendi-smo che condizionò il comportamento sul campo. FrancescaBoldrini, diligente e brava, sfiora il tema e quando avreb-be l’occasione per affrontarlo di petto, tirata forse per la giac-ca, fugge, travolta dal reducismo e da un’irrefrenabile ca-rica retorica che non serve a nessuno. O forse sì?

Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945,Einaudi, pp. 448, euro 24,00

Mario Avagliano (a cura di)

Si combatteva ma, se era possibile, dalla montagna del-la Resistenza, si scriveva anche: lettere alla famiglia, agliamici, alle fidanzate. Si tenevano in qualche caso anchebrevi diari, poche parole, i morti, i feriti, i rifornimen-ti, il clima, i rastrellamenti. Scrivono anche i deporta-ti, i carcerati, i confinati. Righe minute e intense, unflash sulla propria vita che sta per andare, un ricordo,un abbraccio. Ora questo materiale è una cosa vivente.Una memorialistica “coeva”, ecco il punto, frutto di ri-cerche di anni in ogni direzione che, ed è il grosso me-rito di Mario Avagliano, direttore del Centro studi del-la Resistenza dell’Anpi di Roma-Lazio, rende l’imma-gine di quella lontana stagione viva, fremente, attuale.Escono fuori dall’epistolario i sentimenti e le ragioni dichi scelse di stare o trovarsi dalla parte giusta e preseil fucile contro il tiranno. Ma il libro è anche altro, per-ché chi scrive per sé racconta nello stesso tempo il di-sastro del Paese, il fatto collettivo, l’8 settembre, il car-cere, gli eccidi, anche le problematiche ideologichedelle varie bande. Diventa così un bilancio preventivoper chi affidava alla lotta le speranze di un futuro mi-gliore.

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Il sacrificio della divisione “Aqui”