La Guardia di Finanza nella Resistenza e nella Liberazione...

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La Guardia di Finanza nella Resistenza e nella Liberazione di Milano Atti del convegno organizzato dal Museo Storico della Guardia di Finanza Sala Alessi – Palazzo Marino Milano 26 aprile 2005

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La Guardia di Finanza

nella Resistenza

e nella Liberazione di Milano

Atti del convegno organizzato dal

Museo Storico della Guardia di Finanza

Sala Alessi – Palazzo Marino Milano 26 aprile 2005

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Hanno partecipato al Convegno: Coordinatore: Amb. Sergio Romano, diplomatico, storico, giornalista, è uno dei più autorevoli opinionisti italiani. Scrive regolarmente sul “Corriere della Sera” e su “Panorama”. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie 1998), Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni (Longanesi 1998), Disegno della storia d’Europa dal 1789 al 1989 (edizione TEA 1999), L’Italia negli anni della guerra fredda (Ponte alle Grazie 2000), I luoghi della Storia (Rizzoli 2000), I volti della storia (Rizzoli 2001). Relatori: - Lutz Klinkhammer, professore a contratto presso

Università italiane, è ricercatore dell’Istituto Storico germanico di Roma con responsabilità per il settore della storia moderna e contemporanea. Membro del comitato scientifico dell’Istituto Nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia di Milano, ha pubblicato nel 1995 la fondamentale opera L’occupazione tedesca in Italia 1943-45.

- Massimo De Leonardis, professore Ordinario di Storia

delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali e di Storia dei Trattati e Politica Internazionale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro

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Cuore di Milano. Coordinatore delle discipline storiche al Master in International Affairs dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri. Membro della Consulta della Commissione Italiana di Storia Militare, istituita presso il Ministero della Difesa.

- Pierpaolo Meccariello, generale di Corpo d’Armata in

congedo, già Comandante in Seconda della Guardia di Finanza, è autore di varie opere riguardanti la storia della Guardia di Finanza, quali: La Guardia di Finanza nella seconda guerra mondiale (1992), Finanza di mare (1994), Storia della Guardia di Finanza (2003), In nome dello Stato (2005). E’ vicepresidente della Società Italiana di storia militare e membro della consulta scientifica della Commissione Italiana di storia militare.

- Luciano Luciani, generale di Corpo d’Armata in

congedo, Presidente del consiglio di amministrazione del Museo Storico della Guardia di Finanza. Ha pubblicato: Economia e finanza di un Paese in guerra: l’esperienza italiana nel 2° conflitto mondiale (2000) e con Gerardo Severino, Gli aiuti ai profughi ebrei ed ai perseguitati (2005). E’ presidente del Comitato di studi storici della Guardia di finanza.

- Giorgio Rumi, ordinario di Storia Contemporanea della

facoltà di lettere e filosofia dell’università statale di Milano. Membro dell’IRER (Istituto regionale delle Ricerche della Lombardia), dell’ISAP (Istituto per la scienza della Pubblica Amministrazione), consigliere di

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amministrazione della RAI. Collabora con il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Avvenire, L’Osservatore Romano, condirettore di Liberal ed ha pubblicato decine di opere sulla storia dell’Italia contemporanea, sulla storia della Lombardia e sulla posizione della Chiesa nelle relazioni internazionali.

- Giovanni Perona, professore straordinario di prima

fascia presso la facoltà di Lingue e letteratura straniera dell’Università di Torino. Ha svolto attività didattica presso atenei francesi. Collabora alla produzione del catalogo generale informatico degli archivi della Resistenza, è fondatore del LANDIS (laboratorio nazionale di didattica della storia) ed ha prodotto numerosi studi sulla Resistenza italiana e sulle relazioni internazionali della Resistenza. Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia.

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Finanzieri e Partigiani nei giorni della Liberazione

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INDICE

Intervento del Sindaco di Milano, dr. Gabriele Albertini

pag.1

Intervento del Comandante Generale della Guardia di Finanza, Gen. C.A. Roberto Speciale

pag.5

Introduzione al Convegno del Coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.9

Prof. Lutz Klinkhammer L’occupazione tedesca, il controllo dell’economia e la Polizia economica: l’Italia della Repubblica Sociale 1943/45

pag.11

Intervento del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.31

Prof. Massimo De Leonardis Gli alleati e la liberazione dell’Italia Settentrionale

pag.32

Intervento del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.43

Gen. Pierpaolo Meccariello La Guardia di Finanza nell’insurrezione generale

pag.45

Intervento del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.56

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Gen. Luciano Luciani I finanzieri protagonisti della liberazione di Milano

1. Premessa 2. Il col. Alfredo Malgeri 3. Il ten. Augusto De Laurentiis 4. Il finanziere Urbano Lazzaro, il partigiano

Bill 5. Il finanziere Attilio Martinetto, un eroe

sconosciuto 6. Il col. Persirio Marini 7. Il col. Ugo Finizio 8. Conclusione

pag.57 pag.57 pag.58 pag.78 pag.86 pag.105 pag.117 pag.132 pag.140

Intervento del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.141

Prof. Giorgio Rumi I finanzieri nella liberazione di Milano: 18-22 marzo 1848 – 25 aprile 1945

pag.142

Intervento del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.149

Prof. Gianni Perona Resistenza e insurrezione: l’esperienza della Guardia di Finanza a Milano

pag.150

Intervento conclusivo del coordinatore, amb. Sergio Romano

pag.169

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INTERVENTO DEL SINDACO Dr. GABRIELE ALBERTINI

Questo convegno, e la riedizione del libro di Alfredo Malgeri sul ruolo della Guardia di Finanza nella Resistenza, consentono di far conoscere, soprattutto ai giovani, eventi essenziali per comprendere l’evolversi dei fatti che condussero alla Liberazione di Milano.

L’autore, all'epoca Comandante della III Legione della Guardia di Finanza “del Carroccio”, fu un punto di riferimento non solo per i suoi uomini, ma anche per i protagonisti del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, che gli riconoscevano competenza, coraggio, onestà.

A Milano, sotto la sua guida, i finanzieri offrirono un contributo fondamentale alla Liberazione.

L’8 settembre, come si sa, determinò un vuoto drammatico, una tragica confusione. Ma la Guardia di Finanza non fu sciolta e disarmata. Si decise che dovesse continuare a prestare servizio quale forza di polizia per la tutela dei tributi e dell'ordine pubblico.

Tuttavia diveniva sempre più difficile mantenere l’attività del Corpo nell’ambito dei compiti di istituto. Eppure la sua azione, nonostante le pressioni degli occupanti tedeschi, non sarà mai al servizio dei loro interessi.

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L’atteggiamento del colonnello Malgeri fu determinante:

egli si oppose con fermezza alla volontà tedesca di fare della Guardia di Finanza una forza fedele. E non perse occasione, anche rischiando la propria libertà e la propria vita, per ribadire con energia davanti delle truppe germaniche che i compiti del Corpo erano esclusivamente di polizia nel campo economico-fiscale.

Riuscì nel suo intento, e fu un traguardo importante: la Guardia di Finanza, lungi dal partecipare alla repressione del movimento partigiano, lo sostenne segretamente in ogni modo fino al momento della rivolta finale, in cui fu in prima linea accanto agli insorti.

Del resto, nei giorni immediatamente seguenti all'armistizio, mentre il comandante della Difesa spiegava alla radio che occorreva prepararsi alla resa, senza opporre resistenza, per evitare inutili distruzioni e spargimenti di sangue, il colonnello Malgeri esprimeva questo pensiero:

“La situazione induce a previsioni pessimistiche sul risultato di una resistenza attiva.... Ma anche i valori morali in gioco devono avere il loro peso: accettare la soggezione allo straniero non soltanto offende il nostro sentimento e la nostra dignità nazionale, ma mortifica anche la nostra stessa personalità umana.

Una sola cosa si impone: opporsi con le armi, come meglio si può, all’occupazione nazista. Qualunque risultato abbia la nostra resistenza,

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creeremo difficoltà al nemico e, soprattutto, potremo guardarlo negli occhi senza abbassare la fronte.”

Ecco chi era Alfredo Malgeri e quale era lo spirito con cui la Guardia di Finanza si preparava a offrire il proprio contributo al Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia:

lo spirito del Risorgimento, di cui si sentiva erede: quell’incontro tra passione civile, cultura e senso dell’onore che fu la caratteristica delle Cinque Giornate. Ed è alla base del senso civile di Milano.

L’ordine di insurrezione del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, scritto di pugno da Leo Valiani, fu affidato per la sua esecuzione proprio alla Guardia di Finanza, la cui azione decisa e inaspettata colse di sorpresa gli occupanti e contribuì alla loro sconfitta.

I milanesi, gli italiani, devono grande riconoscenza all’impegno dei finanzieri, un impegno descritto nelle pagine di Alfredo Malgeri con assoluta fedeltà ai fatti, con una misura e una dignità che esaltano il coraggio dei suoi uomini e quello dei patrioti della Resistenza che conobbe e che stimò.

Malgeri scrive di se stesso che in quegli eventi fu “modesto attore, semplice comparsa”. E aggiunge: “L’animo dei miei finanzieri sentii tanto vicino al mio. Questi modesti e silenziosi soldati si comportarono da buoni italiani.”

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Parole semplici, che ci fanno comprendere la sua umanità, la responsabilità del capo nei confronti dei suoi uomini. Soldati che contribuirono non solo al successo dell’insurrezione armata, ma poi anche alla ripresa della vita democratica nel nostro Paese.

A lui e ai finanzieri le più importanti personalità del movimento della Resistenza espressero pubblicamente la loro stima e il loro riconoscimento.

Una gratitudine che oggi Milano rinnova alla Guardia di Finanza, all’insegnamento morale che seppe offrire, testimoniando il proprio attaccamento agli ideali di giustizia e libertà, ma anche l’impegno concreto per essere al servizio del nostro Paese e della collettività.

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INTERVENTO DEL COMANDANTE GENERALE DELLA GUARDIA DI FINANZA GEN.C.A. ROBERTO SPECIALE

Signor Sindaco Gabriele Albertini, Autorità, gentili signore e signori,

A nome della Guardia di Finanza e mio personale desidero porgere i più cordiali saluti ed esprimere, in modo particolare al comune di Milano, il ringraziamento per la splendida organizzazione di questo convegno dedicato alla Guardia di finanza nella resistenza e nella liberazione di Milano.

Ricordiamo oggi, a sessant’anni dalla fine della 2^ guerra mondiale, gli eventi che videro il popolo italiano unirsi in uno slancio, che oserei definire “di chiaro sapore risorgimentale”, che portò alla liberazione della patria.

La “vocazione” della città di Milano e dei milanesi “alla libertà”, dimostrata nelle “cinque giornate” del marzo 1848, che videro tra gli altri 260 finanzieri accorrere alle barricate, si manifestò nuovamente nella primavera del ’45.

Anche i Finanzieri di Milano fecero la loro scelta tra il bene e il male schierandosi, proprio come i loro predecessori, a favore della democrazia e contro l’oppressione.

Ma non solo a Milano.

Nei balcani, i Finanzieri del VI e del XV battaglione entrarono a far parte della gloriosa divisione “Garibaldi”,

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dove si distinsero in memorabili azioni di guerriglia e per l’alto tributo di sangue.

In Grecia, a Corfù, a Cefalonia ed a Zante, le “Fiamme Gialle”, ricevuta notizia dell’armistizio, si unirono ai reparti dell'esercito nella resistenza contro i tedeschi, condividendone anche la sorte. Ai combattenti del I battaglione, noi “Finanzieri di oggi” dobbiamo quella medaglia d'oro al valor militare di cui oggi si fregia la nostra Bandiera.

Accanto alle azioni di eroismo di interi reparti organici, voglio ricordare anche, tra le tante testimonianze individuali di coraggio e abnegazione, il Sottotenente Attilio Corrubia, che operò nel Peloponneso, nobile figura di partigiano combattente, morto con onore per mano del nemico ed in seguito decorato della massima ricompensa al valor militare.

Della medaglia d'oro al valor militare furono insigniti anche il Maresciallo Maggiore Vincenzo Giudice, immolatosi a Bergiola Foscalina (Massa Carrara) nel tentativo di salvare le vittime di un rastrellamento tedesco, nonché il brigadiere Mariano Buratti, capo di una banda partigiana operante nel Lazio, fucilato a Roma, a Forte Bravetta, dopo indicibili sevizie.

Nel territorio nazionale, i Finanzieri aiutarono con ogni mezzo la popolazione civile.

Anche moltissimi profughi ebrei e perseguitati riuscirono a salvarsi fuggendo dall’Italia per l’eroismo dei Finanzieri dei reparti dei “Circoli” di Como, di Menaggio, di Sondrio.

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Nei comitati di liberazione nazionale di varie regioni d’Italia, nei battaglioni del Corpo volontari della libertà, nelle squadre e nei gruppi di azione patriottica, le “Fiamme Gialle” compirono innumerevoli azioni di sabotaggio e di contrasto alle forze armate nemiche.

Un battaglione del Corpo, inquadrato formalmente nella V Armata americana, è bene ricordarlo, prese parte allo sbarco di Anzio ed alla liberazione di Roma.

A Milano e nel resto del Nord Italia, l’azione della Guardia di Finanza in favore della resistenza si tradusse in una molteplicità di forme d’aiuto alle bande partigiane, così come concordato con i vertici del comitato di liberazione nazionale.

Nel febbraio 1945, il Colonnello Alfredo Malgeri, Comandante della Legione di Milano, predispose, d’accordo con il C.L.N., il piano insurrezionale che programmava l’impiego della Guardia di Finanza, “unica forza regolare, militarmente organizzata”. Fu, quindi, preparato un piano per l’occupazione della frontiera italo-svizzera e furono impartite tutte le disposizioni affinché l’ordine fosse eseguito, contemporaneamente ed ovunque.

Dopo colpi di mano che portarono all’acquisizione di mezzi blindati e di armi e munizioni, dopo l’insediamento nella caserma di via Melchiorre Gioia (sede del Comando di Legione) del prefetto designato per Milano dal C.L.N., la sera del 25 aprile 1945 i Finanzieri occuparono i locali del “Popolo d’Italia” e durante la notte, inquadrati in un reggimento di formazione con in testa il Colonnello

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Malgeri, occuparono i settori loro assegnati dal piano, e cioè: la prefettura, il municipio, il palazzo della provincia, la stazione dell’E.I.A.R. ed altri edifici strategici.

Ma non posso e non voglio anticipare quanto verrà esposto a breve, in maniera ben più analitica ed organica, dai chiarissimi relatori seduti al tavolo.

Nel ringraziare tutti per la cortese attenzione, lascio la parola al coordinatore, ambasciatore Sergio Romano.

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INTRODUZIONE AL CONVEGNO DEL COORDINATORE,

AMB. SERGIO ROMANO

I saluti del Sindaco e del Comandante della G. di F. hanno già introdotto il tema di questo convegno ed è nel quadro delle celebrazioni del 25 aprile, un tema molto particolare, che viene portata una luce speciale, diversa su avvenimenti che molti credevano di conoscere del tutto. Invece con il passare del tempo forse ci siamo dimenticati che esisteva in Italia il problema della continuità istituzionale dello Stato. Questo non esistette nel sud per la presenza del Re, la presenza del governo Badoglio, la presenza di nuclei residui di forze armate che assicurarono comunque la continuità e la bandiera. Al nord questo problema si pose invece,e molti in quegli anni temettero che questa differenza fra il nord e il sud avrebbe provocato conseguenze anche nell’immediato dopoguerra. Ebbene la particolare vicenda della G. di F. è importante, tra le altre ragioni, anche perché introdusse un elemento importante di continuità fra l’Italia monarchica, il regno e l’Italia repubblicana, quella continuità senza la quale gli scossoni e i rischi della transizione sarebbero stati molto più grandi. Per parlare di questo tema noi abbiamo una serie di oratori, i quali hanno studiato aspetti particolari della vicenda di quel periodo: io non ho altro compito fuorché quello di presentarli uno ad uno.

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Il Prof. Klinkhammer è probabilmente il maggiore esperto dell’occupazione tedesca in Italia nel 1943/1945. Ancora due giorni fa nelle pagine del “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato un articolo sulla percezione che la Wehrmacht aveva della Resistenza, percezione molto dura, date le informazioni che forse qualcuno conosceva, ma io non conoscevo, e cioè che proprio nel corso di quel periodo il comando tedesco a Berlino aveva emanato disposizioni per dare ai resistenti ai tedeschi statuto di combattenti. Questo avrebbe comportato, nel caso della loro cattura, probabilmente lo statuto di prigionieri di guerra. Ebbene il maresciallo Kesserling dette invece disposizioni di segno opposto, perpetuò per così dire lo scontro che raggiunse dei momenti di grande ferocia, spietatezza, crudeltà. Klinkhammer ci parlerà stamane soprattutto della politica economica della Germania come potenza occupante una politica economica che naturalmente, inevitabilmente mise gli occupanti in rapporto con quel corpo di polizia, la G. di F., che aveva assunto su di sé responsabilità in questo settore.

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Prof. Lutz Klinkhammer

L'OCCUPAZIONE TEDESCA, IL CONTROLLO DELL'ECONOMIA E LA POLIZIA ECONOMICA: L'ITALIA DELLA "REPUBBLICA SOCIALE" 1943/45

L'importanza del tema assegnatomi non ha bisogno di spiegazioni. La seconda guerra mondiale ha cambiato profondamente e irrimediabilmente l'Europa e il mondo intero. L'immenso bilancio del terrore, la morte di più di 50 milioni di esseri umani e le traumatizzazioni di intere generazioni in tutte le parti del mondo hanno lasciato delle tracce profonde nella memoria individuale e collettiva di tutte le società nazionali coinvolte in questa catastrofe. Tentativi di “elaborare" la colpa (da parte degli aggressori) e le ferite (da parte delle vittime), tentativi di spiegazioni scientifiche, ma anche interpretazioni culturali, artistici e dei massmedia nonché intensi dibattiti politici sull'interpretazione del doloroso passato hanno caratterizzato l'intero secondo dopoguerra.

L'anno 1943 portò con sé uno dei più grandi rivolgimenti della storia italiana. Le sconfitte militari su tutti i fronti di guerra, i bombardamenti alleati sulle città, la scarsità dei generi alimentari, tutto contribuì a screditare fortemente il regime fascista. I grandi scioperi del marzo furono un ulteriore segnale della perdita di consenso presso la popolazione, generalmente stanca della guerra. Quando,

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con lo sbarco alleato in Sicilia, la guerra raggiunse infine il territorio nazionale e Mussolini continuò a non sganciare l'Italia dall'alleanza bellica con la Germania, l'establishment nazionalconservatore attuò con il colpo di stato del 25 luglio 1943 la sua separazione dal fascismo. Dopo il colpo di stato monarchico, Mussolini fu arrestato e i tedeschi stessi non sapevano dove fosse nascosto. Freneticamente si cercò il dittatore scomparso, e infine, il 12 settembre egli fu liberato dai paracadutisti tedeschi del maggiore Mors (un mito della propaganda nazista ascrive la liberazione a Skorzeny). Ma fu liberato troppo tardi per poter influire sulle decisioni naziste relative al destino dell'Italia. La seconda mossa di questa operazione monarchico-conservatrice di mantenimento del potere, cioè l'uscita dell'Italia dalla guerra, procedette in modo molto meno liscio: all'8 settembre 1943, quando fu resa nota la capitolazione italiana, seguì la rapida occupazione tedesca. Hitler considerava infatti da tempo la solidità dell'alleanza come inscindibilmente legata alla persona di Mussolini e non prestava assolutamente fede all'assicurazione menzognero-tattica del governo Badoglio di voler continuare la guerra a fianco della Germania. Così si sfruttò da parte tedesca il vantaggio offerto dalla continuità dell’alleanza bellica per far filtrare in Italia delle truppe, avviare tutti i preparativi per l'occupazione del paese e preparare l'assunzione di poteri politico-amministrativi che doveva essere garantita tramite un’amministrazione militare tedesca, che si sarebbe servita delle prefetture italiane.

La dirigenza nazista era quindi ben preparata alla capitolazione italiana. La tesi del presunto “tradimento” dell'Italia fu un utile mezzo di propaganda per Goebbels e i

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gerarchi nazisti -anche se non pochi soldati della Wehrmacht e funzionari del Terzo Reich in Italia furono profondamente colpiti dalla capitolazione, percepita soggettivamente come un "tradimento" dell'Alleato e del Patto d'Acciaio.

Alle unità della Wehrmacht non riuscì difficile occupare il paese e disarmare gli eserciti italiani nella madrepatria, in Francia, nei Balcani e nel territorio greco. Con la fuga del vertice politico e militare non solo i comandi d'armata, ma anche i prefetti rimasero senza regole di comportamento, il che portò, in conseguenza delle forti pressioni riscattatorie da parte tedesca, al rapido dissolvimento delle unità dell'esercito ed alla consegna dei centri amministrativi dell'Italia alla potenza occupante. L'8 settembre 1943 la Germania occupò un paese che le era stato alleato per quattro anni e questa posizione anomala di “occupante alleato” pose la Germania nei confronti dell'Italia in una condizione diversa rispetto ad altri paesi conquistati.

Un'incognita fu lo sviluppo delle operazioni militari dopo lo sbarco degli Alleati in Calabria e in Campania. In un primo momento il feldmaresciallo Rommel, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, pensò ad una rapida ritirata sino all'Appennino oppure alle Alpi, dopo aver fatto terra bruciata. Ma nel mese di ottobre Albert Kesselring, Comandante in capo delle truppe tedesche nell'Italia meridionale, riuscì ad imporre la sua strategia, impostata sulla tenace difesa del territorio: la costruzione di forti posizioni difensive doveva permettere una battaglia palmo per palmo e ritirate solo graduali. L'ostinata di difesa della

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“Linea Gustav”, all'altezza di Cassino, dall'ottobre 1943 al maggio successivo, e poi sulla “Linea Gotica” permise lo sfruttamento intensivo delle risorse economiche dell'Italia centrale e settentrionale ai fini bellici tedeschi. Dopo la stabilizzazione del fronte, il potere decisionale delle truppe combattenti fu limitato all'immediato territorio di combattimento, mentre il resto del territorio occupato vide il diffondersi d'una serie di delegati delle varie amministrazioni speciali nazionalsocialiste. Le complicate strutture di potere del Reich si trasferirono in breve tempo nel territorio occupato.

Soprattutto dal punto di vista dell'economia di guerra nazionalsocialista, l'occupazione dell'Italia poteva essere considerata un “buon affare”.Il plenipotenziario per l'impiego della manodopera, il Gauleiter della Turingia Fritz Sauckel, vide l'Italia occupata proprio come una gigantesca riserva di forza lavoro.

Effettivamente la Germania aveva drammaticamente bisogno di forza-lavoro da impiegare nell'industria di guerra. Tra il 1938 e il 1943, più di mezzo milione di lavoratori italiani aveva lavorato in Germania con contratti collettivi formulati ed eseguiti dai due governi dittatoriali. Il richiamo costante di un cospicuo contingente di forza-lavoro in Germania era divenuto più essenziale ancora dopo che la battaglia di Stalingrado e la perdita dell'Africa del Nord avevano mobilitato sempre più numerose divisioni combattenti germaniche, sguarnendo così la produzione interna di manodopera che doveva essere sostituita in misura crescente con lavoratori coatti soprattutto dai paesi dell'Est. In questa ottica avverranno le deportazioni dei

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soldati italiani, disarmati e arrestati con l'inganno di un rimpatrio in Italia, al quale seguì inesorabilmente il loro invio in Germania in campi di internamento, dove furono costretti nella stragrande maggioranza ai lavori forzati per i fini bellici tedeschi. Il 10 settembre 1943, ancor prima della liberazione di Mussolini, Hitler emanò l'ordinanza fondamentale che strutturava i rapporti di forza in Italia. La decisione doveva restare segreta in quanto non lasciava dubbi sulla funzione satellite del nuovo governo fascista. Il fatto della quasi-annessione del Sudtirolo, del Trentino e della Venezia Giulia veniva celato con il termine di “zone di operazione" e giustificata con un'argomentazione militare (di voler proteggere più efficacemente i passi alpini). Nel restante territorio veniva concessa al ministero degli esteri, con la nomina dell'ambasciatore Rahn a “plenipotenziario del Reich", una competenza globale. Per il ministero degli esteri era importante che Hitler avesse sottolineato che nell'Italia occupata non doveva nascere l'impressione che la sovranità del governo italiano fosse messa in discussione. Con questo l'Italia era stata definita come uno Stato straniero alleato. Bisognava salvare le apparenze. Dall'ex dittatore rassegnato, che fu trasportato il 14 settembre 1943 nel quartier generale di Hitler, nell'atmosfera ipnotica della “tana del lupo”, ci si aspettava l'assunzione del nuovo governo e l'istituzione di un regime di terrore. A Mussolini non venne chiesto se fosse disposto a giocare questo ruolo - ciò fu semplicemente dato per scontato da Hitler. Al risorto “Duce” non restò nessun'altra scelta. Altri gerarchi fascisti come eventuali alternative personali al “Duce” erano già state presentate nel Quartier Generale di Hitler.

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Nonostante l'esistenza di un'amministrazione militare capillare, i rapporti politici con il paese occupato non furono organizzati tra autorità militare tedesca e autorità periferiche italiane (prefetture, questure ecc). Hitler aveva invece deciso di organizzarli verticalmente, a livello di diplomazie di Stato, tramite un "delegato-plenipotenziario" che doveva controllare il nuovo governo collaborazionista, forzatamente “repubblicano”.

La scelta cadde sull'ambasciatore tedesco in Italia, Rudolf Rahn, un diplomatico di carriera formatosi in Francia con Otto Abetz, e esperto nel costringere governi collaborazionistici ad un'ampia accettazione delle condizioni tedesche. Un uomo con abilità particolari, capace di mantenere un'apparenza diplomatica, ed egualmente in grado di controllare, in modo tanto puntuale quanto discreto, i gangli del potere. Mussolini si dimostrò completamente impotente e fortemente condizionato dalle strategie e dalle richieste tedesche impartite e gestite da Rahn. Nei confronti degli altri organi di controllo tedeschi, Rahn sottolineò una presunta autonomia di Mussolini, per rafforzare la propria posizione di potere. Così Rahn impose il 1° ottobre 1943 di fronte ai suoi concorrenti interni che, fermo restando il nostro diritto di comando..., la responsabilità per tutte le questioni della vita civile deve essere lasciata al Duce ed al governo fascista. E' chiaro che il governo italiano doveva fare ciò che voleva l'ambasciata, che divenne una sorta di governo ombra. Tuttavia le apparenze della diplomazia permisero a Mussolini di salvare più o meno la faccia. Il governo fascista non aveva una sua autonomia specifica se non nel senso di una radicalizzazione nei confronti della propria popolazione.

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Esso gestiva il paese, controllandone capillarmente vertici amministrativi ed economici, nel senso voluto dagli occupanti. La linea politica di Rahn non rimase comunque incontrastata. Due concezioni dell'occupazione si fronteggiavano: una linea dura orientata a pretese massime ed una più modesta, intenzionata, entro i limiti, ad avere riguardo all'efficienza di un governo italiano. Favorevoli a quest'ultima soluzione, che vorrei definire collaborazionista, erano l'ambasciatore Rahn e - in forma limitata - anche il delegato di Heinrich Himmler in Italia, il generale delle SS Karl Wolff. I sostenitori della linea dura si erano lasciati invece inserire in forma istituzionalmente alquanto blanda nell'amministrazione militare, ma agivano in ampia misura indipendentemente: così il rappresentante di Sauckel in Italia, Kretzschmann, si impegnò con tutti i mezzi per reperire un numero più grande possibile di lavoratori per l'economia tedesca di guerra. Il rappresentante di Speer in Italia, il generale Leyers, aveva il contradditorio compito sia di rifornire il Reich di materie prime o di semilavorati sia di produrre in Italia secondo il fabbisogno del Reich. Questo conflitto fu risolto nel febbraio del 1944 sempre più a favore dell'aumento della produzione in Italia. Leyers era di conseguenza interessato a tenere calme le maestranze soprattutto del triangolo industriale. Egli entrò in contrasto con Kretzschmann, che non temeva di prelevare forzatamente gli operai dalle fabbriche e che mise con ciò in pericolo la produzione, in quanto gli operai per paura di deportazioni spesso non si presentarono più al posto di lavoro.

Rahn cercò a questo punto di far coincidere i fini delle diverse istituzioni del Reich per sfruttare l'Italia solo

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nell'ambito del possibile. Egli non voleva infatti a nessun costo consentire una eventuale dimissione del governo Mussolini, sulla cui esistenza fondava la sua posizione di potere. Rahn fece in modo che il governo italiano finanziasse gli interi costi della potenza occupante attraverso un cosiddetto “contributo agli oneri della guerra” di 10 miliardi di lire mensili, di cui egli stesso controllava la distribuzione. Questa regolamentazione consentì di porre fine alle requisizioni selvagge da parte delle truppe che avevano spazzato via ogni parvenza di status di alleato dell'Italia. Il contributo italiano fu chiesto con l'argomentazione fasulla, secondo cui l'Italia avrebbe dovuto pagare per l’“aiuto” militare tedesco, dato che non esisteva più un esercito italiano (che era stato appena disarmato e fatto prigioniero dalla Wehrmacht!). Siccome però non venne più permessa neanche la ricostruzione di una grande forza militare, non vi fu in seguito più bisogno di alcun’altra giustificazione, anzi l'occupazione stessa potè essere motivata con questo argomento. Era l'accesso diretto e quasi esclusivo di Rahn a Mussolini ed al suo governo che gli permetteva di far pervenire i suoi ordini all'amministrazione militare e di degradare questa, con ciò, ad organo esecutivo. Ad eccezione del capo supremo delle SS e della polizia Wolff e del comandante supremo militare Kesselring, nessun altro rappresentante tedesco in Italia aveva un accesso diretto a Mussolini, senza che venisse fatto intervenire Rahn. L'obiettivo più urgente di Rahn, sul quale sia Wolff sia Leyers concordavano, era di tenere sotto controllo la popolazione italiana - a servizio di un funzionamento indisturbato della produzione industriale, la quale andava totalmente a vantaggio della potenza

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occupante. In primo luogo era l'ufficio di Sauckel in Italia a porre priorità diverse. 120.000 operai emigrati negli anni precedenti che Mussolini non era più riuscito a fare rientrare, lavorarono già nel Terzo Reich. Anche i prigionieri di guerra italiani ai quali venne negato lo status di prigioniero di guerra, rappresentarono un forte potenziale di manodopera, di circa 450.000 uomini. Ma gli obiettivi di Sauckel prevedevano la deportazione nel Reich dell'enorme numero di 3,3 milioni di operai. Il delegato di Sauckel in Italia, Kretzschmann, cercò di raccogliere il numero desiderato di lavoratori - tramite le più disparate forme di costrizione. Tuttavia per carenza dell'esecutivo tedesco e per l'inaffidabilità o addirittura per il sabotaggio degli organi esecutivi italiani i grandi progetti fallirono, come pure per il totale rifiuto da parte della popolazione. Dopo aver provato tutte le forme di coercizione Sauckel nel luglio 1944 dovette fare marcia indietro: il reclutamento forzato di lavoratori era fallito: invece dei 3,3 milioni sino allora erano stati deportati in Germania solo 45.000 lavoratori. Sporadicamente si continuò tuttavia a ricorrere a rastrellamenti; ma anche queste operazioni spesso non portarono al successo desiderato: infatti l'organizzazione Todt, che reclutava in Italia manodopera per i lavori di fortificazione, metteva continuamente il bastone tra le ruote. Il certificato di lavoro dell'organizzazione Todt, che proteggeva dai rastrellamenti, fu spesso venduto al mercato nero o falsificato abilmente. Ancora più determinante per il fallimento dei piani di Sauckel fu però il fatto che i massimi rappresentanti della potenza occupante in Italia, cioè Rahn, Wolff, Leyers e Harster, si opposero al reclutamento forzato. Nel novembre del 1944 Rahn rimproverò infine a

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Sauckel il fatto che i reclutamenti forzati facevano solamente sì che i lavoratori venissero spinti a raggiungere i partigiani. E Wolff, il capo supremo delle SS e della polizia in Italia, “si oppose ad ulteriori tentativi di caccia all'uomo, dal momento che in qualità di responsabile per l'ordine nel territorio italiano avrebbe dovuto scontare le conseguenze di ordini di questo genere".

In altri settori, il controllo da parte degli occupanti fallì: non si era riusciti né per via amministrativa né per mezzo della repressione poliziesca ad avere il controllo del mercato nero, che si era ben presto sviluppato ed aveva assunto dimensioni enormi. Si dovette ricorrere per ciò in primo luogo a funzionari esecutivi italiani, i quali non si imposero nel modo desiderato. Gli obiettivi e le misure di politica economica della potenza occupante furono aggirati con sorprendente velocità da tutta la popolazione. Un controllo dirigista dei prezzi e dei salari si rivelò inattuabile. In questo conflitto la potenza occupante fallì alla fine per via dell'atteggiamento di rifiuto della popolazione: appelli “patriottici” e parole d'ordine esortanti a resistere, più screditati che promossi dai funzionari fascisti, non poterono comunque trovare favore presso la popolazione, nel momento in cui si trattava di assicurare lo standard di vita necessario. Persino gli osservatori nazisti dovettero ammettere rassegnati che “il mercato nero [era diventato] un elemento essenziale dell'approvvigionamento". Ma l'industria bellica funzionava e questa era la cosa più importante per i tedeschi. Se i livelli produttivi prestabiliti con gli industriali italiani non venivano rispettati balenava inequivocabilmente lo spettro della deportazione in Germania, sempre paventato dalle

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maestranze italiane. Gli industriali si trovarono attanagliati dalla minaccia delle deportazioni e gravati dall'obbligo di un costante livello produttivo, anche se i guadagni erano apprezzabili se rapportati al tempo di guerra. Questo sistema fu messo in forse dallo sciopero generale della prima settimana di marzo 1944, organizzato dal partito comunista clandestino. Lo sciopero riuscì pienamente in termini di mobilitazione operaia e di appoggio all'iniziativa: si calcola che entrarono in sciopero quasi 350.000 persone e si può definirlo a buon diritto il più grande sciopero nell'Europa occupata e dominata dai nazismo. Perciò costituì una sfida enorme per la forza occupante, una vera e propria dimostrazione politica, un cuneo frapposto nel controllo politico ed economico del territorio. Hitler infatti ordinò di deportare una quota del 20 percento degli scioperanti come punizione. Le forze militari avevano preparato i vagoni per il trasporto, ma all’ultimo momento Rahn, paventando un'accelerazione del processo insurrezionale, e un crollo della sua strategia collaborazionista, riuscì a far revocare l'ordine di Hitler, un caso estremamente raro nella storia del nazismo. La deportazione "a tappeto" fu evitata ma fu sostituita da una sorta di “deportazione mirata” di 1500 operai (noti antifascisti e comunisti) che funse da deterrente: non si determineranno più scioperi politici, salvo uno a Genova con esiti drammatici, fino all'insurrezione dell'aprile 1945. Ma dopo la repressione dello sciopero politico generale nel marzo del 1944, che avrebbe dovuto servire alla polarizzazione dei lavoratori e risolversi in un'insurrezione generale, anche il PCI si rese sempre più conto che solo la lotta armata dei gruppi partigiani poteva avere successo

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contro gli occupanti. Di fronte alla minaccia di deportazioni, alle masse dei lavoratori dell'Italia del nord non restava in fondo nient'altro da fare che continuare la produzione di guerra in una sorta di “cooperazione forzata” che non impedì di mantenere contatti con i partigiani e con i comitati di liberazione nazionale sia regionali che locali.

Sulla più importante voce attiva della Repubblica Sociale Italiana, le risorse umane, si continuò a mercanteggiare accanitamente non solo per via della concorrenza istituzionale tra gli uffici tedeschi e fascisti, ma anche perché le capacità di mobilitazione della RSI erano limitate. La maggior parte della popolazione non era disposta ad una cooperazione attiva, in particolare non era disposta a prestare il servizio militare per la Repubblica Sociale Italiana o accettare un periodo di lavoro obbligatorio in Germania. Ma furono soprattutto i meccanismi nazionalsocialisti di “lotta all'avversario” che spinsero la popolazione, allorquando non fosse stata ancora disposta a ciò, a negarsi in modo massiccio alla potenza occupante. Fra questi meccanismi vi sono in primo luogo, la deportazione nei campi di sterminio degli ebrei italiani, la deportazione nei campi di concentramento di avversari politici, il disumano trattamento degli internati militari in Germania, i massacri della popolazione civile durante i rastrellamenti in territori “infestati” dai partigiani, le azioni terroristiche per reperire lavoratori, la deportazione di civili.

Soprattutto nel caso della lotta ai partigiani si giunse ad un intensificarsi sempre più veemente della violenza. Della repressione sempre più brutale contro partigiani e civili che

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vivevano nei territori partigiani erano responsabili determinate unità della Wehrmacht e delle SS, che attraverso ordini del Comando concepiti in senso troppo lato avevano ottenuto in certo qual modo carta bianca per qualunque oltraggio nei confronti della popolazione civile che si presumeva servisse alla lotta alle “bande". Tuttavia anche in questo settore non era stabilito sin da principio un determinato modo di procedere. La “lotta ai partigiani” degenerò sempre più in azioni omicide nei confronti della popolazione civile, grazie all'istigazione al massacro operata volutamente da Kesselring e alcuni dei suoi generali comandanti.

Lo sfruttamento delle derrate agricole del paese occupato aveva per l'occupante un priorità assoluta non soltanto per il rifornimento delle truppe tedesche presenti e combattenti sul suolo italiano (man mano passarono 700.000 soldati tedeschi per la penisola), ma anche per i rifornimenti della Germania. Ben consapevole delle ristrettezze della prima Guerra Mondiale e credendo che il (presunto) crollo del Fronte Interno (la famosa “pugnalata alle spalle dell'esercito non battuto2) fosse stato determinato dalla crisi alimentare il dittatore tedesco era dell'avviso che la popolazione tedesca non doveva subire la fame per non indebolire lo spirito battagliero. Così furono sfruttati i paesi occupati fino al 1945 e la fame arrivò per la popolazione tedesca soprattutto con la fine del conflitto quando cessarono anche gli invii dall'estero.

Il ministro dell'agricoltura, Herbert Backe, si rivelò un sostenitore della linea dura e si ripromise di sfruttare a fondo l'Italia nel settore dei prodotti alimentari. Per lui,

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l'Italia doveva sostituire i tenitori perduti in Europa orientale e diventare esclusivamente un territorio da cui trarre rifornimenti per il Reich. Rahn invece volle limitare l'influenza della direzione Alimentazione e agricoltura che era stata integrata nell'Amministrazione militare. Preferiva che venissero inclusi al massimo due-tre consiglieri per il settore alimentare nel suo ufficio presso l'Ambasciata. Tutto il resto avrebbe dovuto essere sbrigato dagli uffici italiani. I rappresentanti di Backe in Italia invece sostennero, che “vi deve sempre essere una certa possibilità di controllo da parte tedesca, perché diversamente sarebbe quasi impossibile soddisfare le grandi richieste di rifornimenti del Reich in materia di bestiame, riso, frutta e vino.”

In questo quadro generale si inserisce la difficile ripresa delle attività della Guardia di Finanza dopo l'8 settembre. Secondo P. Meccariello “la paralisi dell'apparato fiscale nel territorio della R.S.I. rendeva sostanzialmente impraticabile la funzione di polizia tributaria”, mentre era di assoluta importanza il compito di polizia economica. L'8 dicembre 1943 era stata riorganizzata una parte delle funzioni di polizia con la costituzione della “Guardia Nazionale Repubblicana” (GNR), nella quale confluirono la Milizia fascista, i Carabinieri Reali e la Polizia dell'Africa Italiana. Lo scopo era di domare i Carabinieri ritenuti inaffidabili per il tradizionale legame alla monarchia più che al “Duce”. La fascistizzazione della GNR aveva così dei limiti, a causa della mancata coesione della nuova istituzione. Il questore di Arezzo, Facchini, p.es. scrisse nel maggio 1944 in un rapporto complessivo sullo sviluppo della situazione

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politica interna dall'8 settembre 1943: “ci sono ancora troppi Carabinieri che ragionano con la vecchia mentalità e dei quali non si può né si deve fidarsi”. Però il questore aggiunse un giudizio duro sui fascisti entrati nella GNR: “si sono intromessi elementi di dubbia moralità e fede che hanno approfittato del momento attuale per sfogare rancori personali e commettere soprusi a danni di cittadini inermi ed onesti”. Queste parole non sono legate ad una provincia, ma generalizzabili a tutto il territorio controllato dalla Repubblica Sociale. Perciò la GNR godette di poche simpatie presso la popolazione la quale conservava non poche ostilità nei confronti di questo corpo: Questa situazione tra l'altro non era limitata alla GNR: come ha dimostrato Amedeo Osti Guerrazzi in un recente studio, a Roma venne arrestata praticamente tutta la dirigenza della Federazione del Partito Fascista Repubblicana, da parte del Ministero dell'Interno di Salò, a causa dei loro soprusi nei confronti della popolazione.

La Guardia di Finanza rimase in una situazione particolare, perché era riuscita ad evitare l'incorporazione forzata nella GNR. Nel decreto sulle nuove forze armate di Salò, istituite il 27 ottobre 1943, fu stabilito che “restano in servizio per il mantenimento dell'ordine i Carabinieri e la Guardia di Finanza”. Fusi i Carabinieri con la Milizia, rimase l'autonomia della Guardia di Finanza. Così i finanzieri continuarono il controllo doganale sul confine svizzero, affiancati dal “Zollgrenzschutz” tedesco, la guarda doganale tedesca controllata dalla polizia-SS nazionalsocialista. Particolare era la situazione a Roma dove operò “Comando delle Forze di Polizia” guidato dal generale Presti della PAI. Nell'ambito di quest'organo fu

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costituito un comando della Guardia di Finanza (guidato dal generale Crimi) che ebbe alle dipendenze tutti i reparti del Corpo presenti a Roma. Sottratti dall'occupante tedesco i carabinieri romani con la loro deportazione verso il Nord nell'ottobre 1943, ai finanzieri del generale Crimi fu affidato il servizio di polizia economica che comprese la vigilanza sulla distribuzione dei generi alimentari, la repressione del mercato nero e la scorta alle autocolonne. Particolarmente importante furono i posti di controllo sulle vie consolari. Il quadro delle attività dei finanzieri emerge anche dal nuovo studio di Steffen Prauser su Roma sotto l'occupazione tedesca. In particolare si evince che la guardia di finanza aveva una visione molto chiara del funzionamento del mercato nero: Un maggiore dei finanzieri in un rapporto dell'aprile 1944 indicò dei casi generalizzabili per la quotidianità del mercato nero a Roma. Dopo aver elencato un serie di casi simili scrive: “un altro negozio presso cui ero prenotato per zucchero, olio e pasta per ben tre volte ha denunciato di essere stato derubato non appena ricevuti i generi, così, per altrettante volte abbiamo dovuto rinunciare al prelievo di tali generi. Il terzo mese, infastidito, ho mandato una pattuglia militare ed ho rilevato che tale negoziante aveva tutti i generi per i quali aveva denunciato il furto.” (citato da Prauser) E il generale Presti stesso spiegò agli occupanti tedeschi la situazione in termini drastici. Il rapporto tedesco lo riassume in questi termini (ritraduco dal tedesco le parole di Presti nella registrazione dell'ufficiale tedesco): “Roma avrebbe subito la fame se il mercato nero fosse veramente eliminato. Egli [Presti] sapeva benissimo che tutte le alte personalità che in rappresentanza della prefettura e del governatorato avevano

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discusso con le autorità tedesche le misure per la soppressione del mercato nero, partecipavano loro stessi al mercato nero e non soltanto per l'acquisizione dei prodotti ma come commercianti che guadagnano. Questo sarebbe uno dei motivi più importanti per il quale in Italia non si contrasta seriamente il mercato nero, e per il quale anche oggi si continuava a tentare di sabotare le misure prese dalle autorità tedesche”. E ancora più drastiche furono le descrizioni ad uso interno, come quello del vice capo della Polizia Repubblicana, che riassume nel maggio 1944: “E' notorio, peraltro, il cattivo funzionamento degli organi... per l'approvigionamento della Città, cioè la SEPRAL, dei Servizi Annonari del Governatorato, dei Mercati Generali. Le manomissioni, le corruzioni, le malversazioni dei dirigenti e del personale sono noti: organismi pletorici a cadenza burocratica, ben lungi dal perseguire i fini dell'immediato soddisfacimento dei bisogni della popolazione di Roma...” (citato da Prauser).

Era evidente che non si trattava soltanto di un problema che riguardava la efficienza degli organi di sorveglianza. Ma non fu neanche un problema trascurabile; l'efficiente controllo della vita economica del paese rimase però un problema irrisolto durante l'esistenza della Repubblica Sociale. Un rimedio doveva portare l'istituzione della Polizia Economica: il decreto legislativo del 11 aprile 1944 prevedeva i compiti di accertare, reprimere e denunziare tutti i reati attinenti alle discipline economiche della produzione, del reperimento, degli ammassi, della lavorazione e della distribuzione dei prodotti, del tesseramento e del razionamento, dei consumi e dei prezzi. La Polizia economica dipendeva sul piano organizzativo dal

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Ministro degli Interni, mentre tecnicamente il diritto di emanare disposizioni spettava al Commissario Nazionale dei Prezzi, al Ministro dell'Agricoltura e a quello dell'Economia corporativa. L'ufficio centrale della polizia economica dipendeva dal Ministro degli Interni e aveva il diritto di emanare disposizioni alle altre polizie nel proprio campo economico; ma le disposizioni tecniche gli venivano inviate dai ministeri interessati. Fu previsto un organico di 5000 uomini (4500 Guardia di Finanza e 500 della Polizia Repubblicana), ma probabilmente non superò mai i 1.300 uomini. In ogni provincia dovevano essere istituiti cinque reparti di polizia economica, quattro per sorvegliare la disciplina sui prodotti agricoli, mentre una quinta doveva vigilare sui salari. Il controllo tedesco fu garantito: ad ogni comando provinciale fu affiancato un consigliere della Amministrazione militare tedesca. I controllori tedeschi pretesero di poter agire direttamente sulla polizia scavalcando le autorità della Repubblica sociale. Questa situazione poteva però essere utilizzata dalla Guardia di Finanza - a seconda del giudizio di P. Meccariello – “per rendere meno consistente il rapporto di subordinazione con gli organi della R.S.I.,... ed.. evitare il coinvolgimento nella guerra civile.”

Questa osservazione ci dovrebbe indurre di rafforzare l'attività di ricerca finora troppo limitata sull'operato dei vari corpi di polizia esistenti durante la Repubblica Sociale. Mi pare opportuno chiudere con una osservazione sulle differenze di atteggiamento dimostrato anche dai funzionari di polizia. All'interno della polizia repubblicana, a mio avviso, sono esistiti almeno due indirizzi (e due gruppi di funzionari) ben diversi: il primo seguiva un indirizzo

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professionale che non fu completamente dominato dal filone ideologico, mentre il secondo svolse un'attività di repressione fortemente arbitraria che serviva alla polarizzazione, ispirata probabilmente da un'intransigenza di tipo neosquadrista. Le attività di “polizia” di tipo neosquadrista furono molto spesso connesse con arresti arbitrari, con le più brutale torture che seguivano anche allo scopo di generare false confessioni da parte dei torturati - "confessioni" che a loro volta servivano a "giustificare" le attività di queste “polizie” spesso autonominate. Lo studio di M. Griner sulla Banda Koch o le annotazioni riguardante i militi della GNR nel diario di Giancarla Arpinati mi sembrano significativi perché sottolineano questa situazione. L'operato dei finanzieri sembra essere collocabile - a giudicare dai rapporti finora conosciuti - nel primo gruppo, che fotografa la situazione del settore economico e ne denuncia il cattivo funzionamento. Sono fonti preziose perché danno un colorito diverso rispetto al contenuto di fonti normative ma anche rispetto a quelle della stampa. Nel nostro campo significa che viene fuori un contrasto tra norma e realtà come quello che si evince dal seguente rapporto: “Ogni giorno si legge sui giornali che, con bollini tali, nei giorni da A a B, saranno distribuiti determinati generi. All'atto pratico, però, si constata che i giornali hanno pubblicato un comunicato sbagliato, oppure che l'esercente Tizio è sprovvisto di quel genere, che il grossista Caio non ha avuto in tempo i mezzi di trasporto, che i bollini sono nel frattempo, scaduti, che il droghiere ha subito un furto, che il salumiere ha chiuso il negozio perché ammalato, che il fornaio non è stato rifornito di pasta, ovvero qualche altro inconveniente di prammatica, per cui,

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in realtà molti degli interessati restano senza niente e debbono subire una estenuante via crucis...” (citato da Prauser).

Per una migliore comprensione della situazione subita dalla popolazione italiana durante l'occupazione tedesca e l'esistenza della Repubblica Sociale, rimane perciò fortemente auspicabile che si continuino gli sforzi sulla strada della ricostruzione dettagliata delle attività della Guardia di Finanza nel biennio 1943/45.

Riferimenti bibliografici:

Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri,1996.

Pierpaolo Meccariello, Storia della Guardia di Finanza, Firenze, Le Monnier, 2003.

Amedeo Osti Guerrazzi, “La Repubblica Necessaria”. Il fascismo repubblicano a Roma 1943-1944, Milano, Franco Angeli, 2004.

Steffen Prauser, Rom in deutscher Hand. Die deutsche Besatzungszeit in der Ewigen Stadt,Tesi di Dottorato, Firenze, Istituto Universitario Europeo, 2005.

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INTERVENTO DEL COORDINATORE AMB. SERGIO ROMANO

Bisogna allora allargare il quadro per capire il contesto internazionale dove si colloca la vicenda della G. di F. e dove si colloca la vicenda del 25 aprile a Milano. Questo compito spetta al Prof. De Leonardis che ci ricorderà che le vicende italiane non potevano essere viste isolatamente. Gli inglesi sapevano perfettamente che rischiavano di avere in Italia una situazione simile a quella che dovettero affrontare in Grecia, quando Churchill nel Natale ’44 corse ad Atene per porre rimedio ad una insurrezione di tipo comunista. Poi esistevano rapporti fra gli alleati, americani ed inglesi certamente d’accordo su quasi tutto, ma con le loro linee politiche e le loro competenze diverse. La Gran Bretagna aveva un rapporto privilegiato con i partigiani, ma furono gli americani a gestire, non lo dimentichiamo, le operazioni e le trattative per la resa delle truppe tedesche nell’Italia settentrionale e poi occorre ricordare in quale contesto terminò la vicenda italiana. Erano aperti altri fronti e non c’è dubbio che nel gestire la situazione italiana gli alleati pensavano come mettere se stessi nella migliori delle posizioni possibili per proseguire una guerra che terminò si, alla fine della prima decade di maggio, ma che il 25 aprile nessuno poteva dire con esattezza quanto ancora sarebbe durata.

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Prof. Massimo De Leonardis

GLI ALLEATI E LA LIBERAZIONE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE.

Nel teatro strategico italiano, all’inizio delle operazioni era stato riconosciuto agli inglesi il ruolo di Senior Partner rispetto agli americani. Ciò traspariva ancora da un messaggio di Churchill a Stalin il 26 aprile 1945: «Noi abbiamo versato molto sangue in Italia, e la resa delle armate tedesche a sud delle Alpi è un premio caro al cuore della nazione britannica, con la quale, su questo fronte, gli Stati Uniti hanno condiviso sacrifici e pericoli».1 La Gran Bretagna aveva però visto progressivamente ridursi la sua preminenza politica e strategica.

Nel giugno 1944, la sostituzione del Maresciallo Badoglio da parte di Bonomi come Presidente del Consiglio, vanamente osteggiata da Churchill, aveva avviato il declino della preminenza britannica in Italia. Nel dicembre dello stesso anno Londra pose con successo il veto alla nomina di Carlo Sforza a ministro degli esteri, ma provocò un ampio coro di proteste ed una vivace polemica con il Dipartimento di Stato. Il 18 gennaio 1945, in un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill pronunciò una frase che lasciava trasparire irritazione verso l’Italia, ma rivelava anche l’assenza di una politica coerente verso di

1 W. S. Churchill, La seconda guerra mondiale, VI, Trionfo e tragedia, Milano,

1967, p. 3219.

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essa: «Lasciatemi dire una volta per tutte che non abbiamo, in Europa o altrove, progetti politici in rapporto ai quali abbiamo bisogno dell’Italia».2 A Yalta, riguardo ai problemi del dopoguerra in Italia, gli inglesi, consci delle loro risorse limitate, affermarono il desiderio di corresponsabilizzare gli americani nella loro soluzione.3

Dal punto di vista militare, la campagna d’Italia era stata oggetto di una lunga disputa, con la definitiva prevalenza, nell’estate 1944, della posizione americana su quella britannica. La campagna d’Italia era relegata nel ruolo secondario di drenare truppe tedesche dal fronte principale, quello occidentale, ed era subordinata perfino allo sbarco in Provenza, in agosto, per il quale forze rilevanti furono sottratte al XV Gruppo d’Armate, ciò che costrinse ad aumentare il contributo delle forze combattenti del Regio Esercito italiano, a lungo osteggiato dal Foreign Office, che temeva di dover poi ricompensare tale apporto in sede di trattato di pace.4

2 Dai verbali della Camera dei Comuni, cit. in M. de Leonardis, La Gran

Bretagna e la monarchia italiana (1943-1946), in Storia Contemporanea, a. XII, n. 1 (febbraio 1981), p. 106.

3 Cfr. Foreign Office a Eden [ministro degli esteri] e Eden al Foreign Office, 4 e 15-2-45, Public Record Office-Londra, Prime Minister’s Papers, 3, 241/7 e Foreign Office General Correspondence, FO 371/49751, ZM 1005. In generale D. W. Ellwood, L’alleato nemico, Milano, 1977, pp. 134-42 e, sulla posizione americana, U. S. Policy towards Italy. Briefing for Yalta, Foreign Relations of the United States, The Conferences at Malta and Yalta, 1945, Washington, 1955, pp. 276-83.

4 Cfr. M. de Leonardis, Gli anglo-americani e la cobelligeranza italiana 1943-1945: necessità militari e valutazioni politiche, in La Riscossa dell’Esercito: il 1° Raggruppamento motorizzato italiano - Monte Lungo, Atti del convegno di studi, Roma, 1996, pp. 27-56.

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Nei rapporti con la resistenza partigiana, i britannici mantennero comunque fino a tutto il 1944 una posizione di leadership rispetto agli americani, attraverso lo Special Operations Executive (SOE), organizzazione creata nel 1940 specificamente per sostenere i movimenti antinazisti, concorrente e rivale dello statunitense Office of Strategic Services (OSS), che era invece un servizio segreto tuttofare, essendo gli americani neofiti rispetto ai britannici nelle cover operations.5

Quanto alle preoccupazioni per la situazione in Italia settentrionale al momento del crollo tedesco, l’incubo peggiore era il manifestarsi anche in Italia di quella che sarebbe stata definita, dal dicembre 1944, una “situazione greca”, con riferimento all’insurrezione scatenata dai partigiani comunisti ellenici al momento della liberazione e repressa dalle truppe britanniche, dopo che Churchill era stato costretto ad accorrere ad Atene il giorno di Natale. Senza arrivare a questo, preoccupavano i rischi di un dualismo tra governo legittimo di Roma e CLNAI, l’anarchia, le violenze e la “terra bruciata” che i tedeschi avrebbero potuto fare al loro ritiro, distruggendo infrastrutture ed impianti industriali.

A rassicurare contro una situazione rivoluzionaria non era certo sufficiente la presenza al vertice del Corpo Volontari della Libertà di un Generale del Regio Esercito, Raffaele Cadorna, che il 12 agosto 1944 era stato paracadutato in Val Cavallina, accompagnato dal maggiore

5 Sul tema cfr. M. de Leonardis, La Gran Bretagna e la resistenza partigiana in

Italia (1943-1945), Napoli, 1988, e H. L. Coles-A. K. Weinberg, Civil Affairs: Soldiers Become Governors, Washington, 1964, cap. VI.

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britannico Oliver Churchill, non parente del Premier, dal Tenente della Regia Guardia di Finanza Augusto De Laurentis e dal radiotelegrafista Delle Monache. In realtà l’assunzione del Comando da parte di Cadorna era stata molto travagliata, poiché i partiti di sinistra erano disposti ad accettare un “consulente” militare, non un vero Comandante. Il 4 dicembre si era arrivati ad una soluzione che prevedeva una struttura con Cadorna comandante, il comunista Longo e l’azionista Parri vice-comandanti, un socialista Capo di Stato Maggiore, un liberale ed un democristiano vice capi di Stato Maggiore; inoltre il Comando era responsabile verso il CLNAI e doveva operare «collegialmente con parità di diritti di tutti i suoi componenti». Cadorna accettò malvolentieri tale struttura “lottizzata”, ed il 22 febbraio 1945 si dimise, protestando di non «poter svolgere il compito di Comandante neppure in materia strettamente tecnico-militare». Il 10 marzo fu trovata una formula di compromesso per ottenere il ritiro delle dimissioni, alla vigilia dei colloqui di Cadorna con gli alleati a Berna. Lione e Caserta in vista della fine della guerra. Va rilevato che gli anglo-americani non cercarono di imporre la nomina di Cadorna, ma attesero che essa ottenesse il consenso il più possibile sincero di tutti i partiti e avvenisse nel quadro di un accordo che sancisse sia la non-contrapposizione del CLNAI al legittimo governo italiano sia la subordinazione del movimento partigiano alle direttive del Comandante supremo alleato.6

6 Cfr. de Leonardis, La Gran Bretagna e la resistenza partigiana..., cit., pp. 224-

42 e 348-53; R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945, II, La guerra civile 1943-1945, Torino, 1997, pp. 235-244.

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Un accordo in tal senso era stato firmato a Roma il 7 dicembre 1944 dal Comandante Supremo Alleato nel Mediterraneo, Sir Henry Maitland Wilson, e dalla delegazione del CLNAI, composta da Pizzoni, Pajetta, Parri e Sogno. In cambio di un implicito riconoscimento del CLNAI come organo dirigente della resistenza e di un regolare finanziamento mensile 160 milioni di lire, si stabiliva che il CVL avrebbe eseguito tutte le istruzioni del Comando in capo alleato. Al momento del ritiro tedesco, il CLNAI si sarebbe prodigato «per mantenere la legge e l’ordine» ed all’atto dell’insediamento del Governo Militare Alleato avrebbe ad esso rimesso tutte le cariche ed i poteri assunti in precedenza, mentre i membri del CVL s’impegnavano ad ubbidire ad eventuali ordini alleati di smobilitazione e consegna delle armi. Con un successivo accordo del 26 dicembre il CLNAI s’impegnò anche a riconoscere il governo di Roma come unica autorità politica legittima in Italia. La delegazione del CLNAI ricevette dagli alleati assicurazioni verbali che per le amministrazioni locali sarebbe stata «data la preferenza e [sarebbero state] senz’altro accettate le persone regolarmente e unanimemente designate dai CLN». La Commissione Alleata raccomandò di scegliere uomini che non facessero «della politica, ma solo dell’amministrazione, onesta, competente e imparziale; in particolare gli alleati si espressero con molta minore apertura verso le designazioni dei CLN alle cariche di questore ed in genere riguardanti la polizia. Di fatto, in quasi tutti i casi, il Governo Militare Alleato confermò le nomine amministrative fatte dai CLN prima del suo insediamento.

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Il Foreign Office aveva espresso vive riserve sul riconoscimento ufficiale del CLNAI,7 ma era prevalso il parere dello SOE e dei militari, che volevano utilizzare al massimo il contributo bellico dei partigiani e ritenevano che il modo migliore per controllarli fosse di aiutarli. «Who pays the pipe, calls the tune [chi paga la cornamusa sceglie la musica]», era stata l’efficace espressione di Harold Macmillan, consigliere politico del SACMED. Tutti i firmatari erano consapevoli che il rispetto degli accordi sarebbe dipeso non dal loro dubbio valore giuridico, ma dalle circostanze politiche e militari alla fine della guerra.

I primi mesi del 1945 videro quindi le parti impegnate non solo a vincere il conflitto, ma anche a rinsaldare le proprie posizioni in vista della fase successiva al crollo tedesco. Il 4 febbraio il Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo emanò una direttiva per limitare le forniture di armi ai partigiani e frenare la loro espansione, che fu però criticata da molti, a cominciare dal Comando del XV Gruppo d’Armate, e risultò poi largamente disattesa, poiché nei mesi di febbraio e di marzo le formazioni partigiane ricevettero un ammontare di rifornimenti di gran lunga superiore alla media dei mesi precedenti. Alla fine le tonnellate nette di materiali forniti durante tutta la guerra dall’americano OSS ai partigiani avrebbero superato di poco quelle fornite dal britannico SOE: 2.103 contro 1.982. Il numero di missioni di collegamento inviate dallo SOE

7 Sugli accordi del dicembre 1945 cfr. de Leonardis, La Gran Bretagna e la

resistenza partigiana..., cit. e E. Aga Rossi, Alleati e resistenza in Italia, ora ripubblicato in Id., L’Italia nella sconfitta, Napoli, 1985.

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presso le bande arrivò a contare 125 britannici e 92 italiani.8 Gli americani erano un po’ meno degli inglesi.

Se gli inglesi conservarono l’iniziativa nella politica verso la resistenza partigiana, furono invece gli americani, a cominciare dal capo dell’OSS a Berna Allen Dulles, ad avere una parte preponderante nell’operazione Sunrise,9 risultato dell’ultima e più concreta di una serie d’avances tedesche per ottenere uno sganciamento delle truppe impegnate nella penisola, intensificatesi dall’autunno 1944. Da quest’epoca, a tali iniziative tedesche si erano affiancate quelle di autorità ecclesiastiche, in primis il Cardinale Schuster, e di industriali, volte a preservare l’Italia settentrionale dalle distruzioni dell’ultima fase del conflitto e dal pericolo comunista. In marzo fu Mussolini ad avanzare, sempre tramite l’Arcivescovo di Milano, una proposta di trattativa. A parte che gli alleati, checché dicano i cacciatori del fantomatico carteggio Churchill-Mussolini, non erano interessati a proposte di resa provenienti solo dalle autorità della Repubblica Sociale Italiana, la loro linea costante fu di non ammettere deroghe al principio della resa incondizionata. Sondaggi da parte dell’ex Prefetto di Trieste Tamburini e del Principe Borghese per il passaggio ai partigiani con le loro armi degli uomini della divisione “San Marco” e della X Mas, in cambio di garanzie sulla loro sorte ed a patto di non informare il CLNAI, furono decisamente respinti dal Comando Supremo Alleato. Fu risposto che chi

8 Su queste vicende cfr. de Leonardis, La Gran Bretagna e la resistenza

partigiana..., cit., pp. 361-77. 9 Cfr. E. Aga Rossi-B. F. Smith, La resa tedesca in Italia, Milano, 1980 [2a

edizione, 2004], E. Di Nolfo, L’operazione «Sunrise»: spunti e documenti, in Storia e Politica, 1975, nn. 3 e 4, pp. 345-76 e 501-22.

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voleva poteva disertare individualmente, mentre gli alleati potevano accettare al massimo eventuali passaggi in blocco ai partigiani, derivanti da accordi diretti di questi ultimi, ma non avrebbero partecipato a trattative al riguardo. Per quanto riguardò quindi tregue e intese parziali, gli alleati furono altrettanto e forse più intransigenti di certi gruppi e personalità della resistenza. Fu, infatti, l’indipendente Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI, che lasciò Milano il 6 aprile per colloqui con gli alleati in Italia Meridionale, a ventilare la possibilità di addivenire con i tedeschi ad accordi locali per la salvaguardia degli impianti industriali più importanti. Proposta ripetuta dal Generale Cadorna e da Parri, anch’essi in missione al sud, che chiesero anche «l’aiuto alleato per l’eventuale provvista di valuta pregiata», al fine di corrompere comandanti tedeschi locali; richiesta ripetuta poi da Pizzoni e quantificata in 25mila franchi svizzeri, ma non accolta, anche se gli alleati «ammisero la possibilità, circondandosi però di ogni cautela e con ogni riserva, di accordi locali». Pizzoni e Cadorna assicurarono Macmillan ed Alexander che né il CLNAI, né alcuno dei partiti che lo componevano, avevano alcuna «intenzione di creare un governo separato per il nord d’Italia» né di «provocare alcunché di quello che era avvenuto in Grecia».10 10 Cfr. A. Pizzoni, Seconda missione al sud, Archivio Pizzoni [negli anni ’80 tale

archivio fu messo a disposizione di chi scrive dalla famiglia, con cortesia e liberalità, e largamente utilizzato per il volume La Gran Bretagna e la resistenza partigiana..., cit. Sul presidente del CLNAI cfr. ora A. Pizzoni, Alla guida del CLNAI, Bologna, 1995 e T. Piffer, Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di liberazione, Milano, 2005]; H. Macmillan, War Diaries. The Mediterranean 1943-1945, Londra, 1984 [tr. it., Diari di guerra: il Mediterraneo dal 1943 al 1945, Bologna, 1987], p. 737; R. Cadorna, La riscossa, 2a ed., Milano, 1978, p. 274.

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Nelle loro istruzioni gli alleati fissarono per la resistenza «i seguenti obiettivi in ordine di importanza: a) salvare dalla distruzione gli impianti pubblici e le industrie; b) mantenere l’ordine pubblico; c) cooperare alla cacciata dei tedeschi e all’annientamento dei fascisti».11 Gli Alleati, pur senza opporsi esplicitamente ad un’insurrezione nelle città, sembrò addirittura a Valiani che le dessero «via libera», certo non gradivano tale prospettiva, considerando che la sua efficacia militare ai fini della vittoria non meritava che si corressero i rischi politici che tale tattica rivoluzionaria comportava.

Si può affermare che grazie anche agli sviluppi della fine del 1944 e dei primi mesi del 1945 qui brevemente descritti, gli anglo-americani avessero la ragionevole certezza di un ordinato passaggio dei poteri al momento del crollo tedesco. La citata operazione Sunrise era quindi, a tal fine, superflua. L’operazione stessa, soprattutto nella sua fase terminale, troppo tardiva, non sembra fosse inoltre considerata troppo importante per ottenere la vittoria in Italia. L’importanza di Sunrise va dunque valutata in rapporto ad obiettivi e problemi più ampi della fine delle operazioni militari in Italia, ossia la possibilità, attraverso una più rapida vittoria nella penisola, di proseguire le operazioni nei Balcani ed in Austria e/o di liberare truppe per il fronte occidentale, che permettessero una più rapida avanzata nel cuore della Germania. Entrambe le prospettive aprivano il contenzioso dei rapporti con Tito e con l’Unione Sovietica. Resta il fatto poi che l’intera operazione non

11 Nota del generale R. Cadorna sugli argomenti trattati alla Conferenza di Lione,

in P. Secchia-F. Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Milano, 1962, p. 329.

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valeva il prezzo di una crisi con Mosca, sia perché Wolff poté «consegnare la merce», per usare l’espressione churchilliana dell’estate 1943, troppo tardi e in maniera limitata al fronte italiano, sia perché nessuno né a Washington né a Londra aveva intenzione di fare quello che Stalin temeva ed i tedeschi speravano, ossia utilizzare in funzione antisovietica la fine anticipata delle ostilità in Italia.

In conclusione va innanzi tutto rilevato che l’obiettivo alleato della massima collaborazione militare possibile da parte della resistenza partigiana con il minimo di complicazioni politiche fu pienamente conseguito. Gli inglesi mantennero fino alla fine, sia pure in forma progressivamente attenuata, una chiara leadership nell’elaborazione ed attuazione della politica alleata verso la resistenza. Non è percepibile una linea americana diversa o alternativa rispetto a quella britannica. A parte le limitate eccezioni di qualche settore o di singoli agenti dell’OSS, non è soprattutto per nulla sostenibile l’esistenza di una diversificazione tra inglesi, ostili e preoccupati della resistenza, ed americani, più progressisti e ben disposti. Un simile schematismo ideologico sarebbe del tutto fuorviante nel comprendere la realtà.

Il Foreign Office britannico lanciò talvolta moniti allarmistici sul comportamento dei partigiani alla fine del conflitto, ma lasciò i militari decidere autonomamente le misure per affrontare il problema, che non sopravvalutava. Si era ben consapevoli che la resistenza italiana non era militarmente e politicamente unitaria e che lo stesso Partito Comunista non puntava alla conquista del potere con mezzi

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rivoluzionari. Come scrisse Giorgio Amendola, gli ostacoli al moto insurrezionale venivano non solo «dalle missioni alleate», ma anche «dalle forze di destra del CLN» e i comunisti non avrebbero «avuto in ogni modo la forza» di porsi su un terreno rivoluzionario.12 In altri termini, i comunisti erano consapevoli di essere in minoranza nella società italiana ed una comparazione attenta di dati, compresi quelli forniti da loro dirigenti o storici come Pietro Secchia e Paolo Spriano, dimostra che essi non costituivano nemmeno la maggioranza dei partigiani combattenti.13 Il fatto che l’Italia fosse liberata dagli anglo-americani e costituì la premessa per la libera scelta che il popolo italiano compì nel 1948. Solo un’occupazione da parte dell’Armata Rossa avrebbe potuto consentire alla minoranza comunista di prevalere, come in Europa Orientale.

12 G. Amendola, Lettere a Milano. Ricordi documenti 1939-1945, Roma, 1973, p.

530. 13 Pietro Secchia, Commissario generale delle Brigate Garibaldi e leader dell’ala

dura del Partito comunista italiano scrive che «il numero dei garibaldini combattenti in Italia e all’estero, riconosciuti come tali dalle relative commissioni, sono stati più del 50% di tutti i patrioti riconosciuti» (Aldo dice: 26 x 1: cronistoria del 25 aprile 1945, Milano, 1963, p. 153). Paolo Spriano, storico ufficiale del PCI scrive a sua volta: «Si sa che i partigiani italiani furono per circa metà dei loro effettivi di combattenti inquadrati nelle brigate d’assalto Garibaldi» (Storia del Partito comunista italiano, V, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Torino, 1975, p. 58). È però ampiamente noto ed ammesso dagli stessi esponenti del PCI che i garibaldini non erano affatto tutti comunisti. Max Salvadori, l’antifascista azionista d’origine italiana che fu ufficiale di collegamento britannico con la resistenza italiana, valuta un 35-40% di garibaldini, un 25% di Giustizia e Libertà, un 15-20% di autonomi ed il resto diviso tra democristiani, repubblicani e socialisti (Storia della Resistenza italiana, Venezia, 1955, p. 162). Una valutazione britannica dell’inizio di aprile 1945 calcolava il 35,25% di comunisti, il 27,75% di apolitici, il 14% di affiliazione non identificata, l’11% di azionisti, il 10,5% di democristiani, l’1,5% di socialisti (cfr. de Leonardis, La Gran Bretagna e la resistenza partigiana..., cit., p. 376, n. 42).

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INTERVENTO DEL COORDINATORE AMB. SERGIO ROMANO

Ora torniamo al problema della G. di F. nel quadro politico istituzionale italiano. Il maggior esperto credo sia il Generale Meccariello, che non ho bisogno di presentare a questo pubblico per la bella carriera all’interno del Corpo, nota a tutti voi. Ho di fronte agli occhi il libro che il Generale Meccariello ha dedicato ai corpi di Polizia italiani tra il 1943 ed il 1945. Si intitola in “Nome dello Stato” ed è una miniera di informazioni, molto spesso sfuggite alla storiografia della resistenza. Mi ha aiutato a capire, tra l’altro, perché la G. di F. abbia potuto assumere il ruolo di cui stiamo parlando nel corso di questo convegno. Prima ancora dell’occupazione dell’Italia meridionale al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la G. di F. aveva emanato direttive interne anticipando, per certi aspetti, il ruolo che avrebbe dovuto assumere nei territori occupati, tutto questo sulla base di convenzioni internazionali che permettevano ai corpi di polizia di continuare di esercitare la funzione dell’ordine pubblico anche in territori occupati da truppe straniere. Nel caso dell’Italia settentrionale, tuttavia, il problema presentava per la G. di F. una doppia difficoltà. Prima di tutto non è un corpo di polizia, se non in modo assai anomalo, diverso da quello di altri corpi di polizia con competenze analoghe nel mondo, è un corpo con le stellette, è un corpo combattente, poteva essere ritenuto corpo di polizia a tutti gli effetti? E poi naturalmente, formalmente almeno l’Italia settentrionale non era un territorio occupato, perché formalmente era un territorio auto-governato dotato

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di una sua sovranità del tutto formale ed apparente, ma pur sempre sul piano giuridico tale da creare qualche problema alla G. di F..

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Generale Pierpaolo Meccariello

LA GUARDIA DI FINANZA NELL’INSURREZIONE GENERALE

Ricordiamo oggi una vicenda conclusa esattamente sessant’anni fa.

Nella notte sul 26 aprile 1945, per ordine del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, il comandarne della legione della Guardia di finanza di Milano, colonnello Alfredo Malgeri, occupò con un “reggimento provvisorio” (407 uomini, di cui 23 ufficiali), il palazzo dei governo ed una serie di altri edifici pubblici della città, tra i quali questo stesso palazzo Marino, il comando militare repubblicano e la sede dell’E.I.A.R. in corso Sempione.

Fu un’azione senza contrasto, poiché si sapeva che il vertice della Repubblica Sociale, dopo l’incontro infruttuoso in Arcivescovado con i rappresentanti del C.L.N.A.I., aveva lasciato Milano, ma nessuno poteva escludere tentativi di opposizione da parte di forze tedesche e di quanto rimaneva dell’apparato politico-militare repubblicano.

In realtà, come per altri episodi della Resistenza, non è la dimensione militare che conta.

Si trattò dell’epilogo di una vicenda complessa, ignorata dalla storiografia più accreditata, e ricordata con poco rilievo anche da alcuni dei principali protagonisti della Liberazione - Cadorna, Pizzoni - i quali accennano alla

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partecipazione dei finanzieri alla cospirazione e poi all’insurrezione come a cosa scontata, e non all’attività di uomini in uniforme, soggetti alla legge penale militare di guerra, esposti al rischio fisico in maniera forse ancora più immediata di quanto non fosse per gli appartenenti alle formazioni partigiane.

I riconoscimenti non mancarono ma - per una coincidenza che meriterebbe qualche riflessione - vennero quasi soltanto da esponenti del partito d’azione (Parri, Valiani, Lombardi, Bauer). Per le vicende che tale formazione politica ebbe dopo la guerra, la partecipazione dei finanzieri alla Resistenza subì così la sorte comune a chi si impegnò senza disporre di referenti nei partiti che nella Resistenza stessa conquistarono la legittimazione alla guida del Paese.

Il valore di riferimento, per gli uomini della Guardia di finanza, era del resto la continuità dello Stato, valore che non poteva esser condivasa da chi vedeva nella Resistenza l’occasione storica per un rinnovamento, più o meno radicale, della società e della vita politica italiane.

Per la particolare collocazione del Corpo nell’ordinamento militare, poi, la partecipazione di cui ci occupiamo non ebbe rilievo neppure nelle rievocazioni patrocinate dal ministero della Difesa.

È stata così sottovalutata un’esperienza che avrebbe potuto offrire qualche spunto di riflessione utile per l’analisi della crisi grave della nostra storia unitaria, come la “effettività” del potere fascista repubblicano - costretto a subire da un organo di polizia formalmente dipendente

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atteggiamenti prima di resistenza passiva, poi di ostilità aperta o la efficienza dell’apparato di occupazione germanico, la cui forma “policratica” finì per accordare spazi che consentirono lo sviluppo della “strategia di sopravvivenza” attuata dai responsabili della Guardia di finanza.

La peculiarità della partecipazione del Corpo alla resistenza è infatti nel suo carattere istituzionale. Non si trattò, cioè, di comportamenti individuali, quali vi furono certamente numerosi anche in altri organismi militari e di polizia, talvolta oltre il limite dell’eroismo. Fu invece l’istituzione-Guardia di Finanza, la sua struttura territoriale, la sua linea di comando, i suoi oltre ventimila uomini, che nell’arco di venti mesi, salvo deviazioni assolutamente marginali, riuscì prima a superare senza sbandarsi il trauma dell'armistizio, poi a sfuggire all’alternativa tra la collaborazione alla repressione antipartigiana e lo scioglimento seguito inevitabilmente dalla deportazione, ed infine a schierarsi con la Resistenza ed a partecipare all’insurrezione generale.

Una vicenda che può consentire anche la formulazione di constatazioni di portata più generale, ad esempio circa la sopravvivenza in territorio occupato di strutture dello Stato legittimo, e la capacità - da parte di corpi amministrativi dotati di forte percezione della propria identità collettiva, di elevata coesione e di rigoroso autocontrollo - di attuare strategie autoreferenziali in situazioni di crisi dell’apparato istituzionale.

La vicenda ha un antefatto, nei giorni immediatamente precedenti l’armistizio dell’8 settembre 1943.

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Il 28 agosto il comando generale della Regia Guardia di Finanza, certamente senza disporre di informazioni particolari circa le trattative in corso con gli Alleati, ma in base ad una responsabile valutazione della situazione militare, diramò le direttive alle quali i comandi territoriali avrebbero dovuto attenersi qualora l’evoluzione della situazione stessa li avesse posti nell’impossibilità di ricevere ed impartire ordini.

In particolare i reparti che si fossero trovati ad immediato contatto con il nemico avrebbero dovuto rimanere ai propri posti, continuando a svolgere i loro compiti istituzionali, compreso il concorso al mantenimento dell’ordine pubblico, come consentivano le norme delle convenzioni internazionali, recepite dalla nostra legge di guerra, del resto già attuate nelle colonie d'Africa sotto occupazione britannica.

Le direttive ebbero l’effetto di evitare che il collasso dell'apparato militare provocato dall’armistizio trascinasse anche la struttura della Guardia di Finanza, e, confermate il 15 settembre da un comando generale ancora pienamente operante, consentirono il superamento della crisi con un numero di defezioni molto ridotto.

Il modello del servizio in territorio occupato dal nemico” fu però rapidamente superato dalla comparsa alla fine di settembre, accanto alla potenza occupante, di un nuovo soggetto politico, lo stato fascista repubblicano, che non avrebbe potuto fare a meno di pretendere l’obbedienza di tutti gli organi statali; presenti nel territorio sul quale affermava di esercitare la propria sovranità.

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Si aprì allora una seconda fase, caratterizzata, dall’enfasi sulla connotazione tecnica, in senso economico-fiscale, del Corpo, del resto affermata con notevole pragmatismo dallo stesso ministro delle Finanze repubblicano, Domenico Pellegrini-Giampietro, fin dall’ordine del giorno diramato il 25 settembre, subito dono aver assunto la carica.

In questo quadro si inserisce anche la costituzione di una specialità destinata alla lotta contro il mercato nero, la Polizia Economica, sollecitata dall’amministrazione militare tedesca e dal rappresentante in Italia del Ministro degli Armamenti del Reich, Speer.

Fu così possibile rifiutare l’impiego dei reparti nella controguerriglia, negare collaborazione ad attività di polizia politica e soprattutto evitare l’integrazione della Guardia di Finanza nel sistema di sicurezza della R.S.I. ed in quella che avrebbe dovuto essere la sua struttura portante, la Guardia Nazionale Repubblicana, nella quale confluirono l’Arma dei Carabinieri, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e la Polizia dell’Africa Italiana.

Anche la scelta della “neutralità tecnica”, tuttavia, non tardò a dimostrarsi inadeguata, di fronte alla crisi del sistema ed al collasso della G.N.R. diventati evidenti nella tarda primavera del 1944, quando una serie di avvenimenti in rapida successione - lo sfondamento della linea Gustav, la liberazione di Roma, lo sbarco alleato in Normandia - fecero ritenere prossima la conclusione del conflitto.

Il vertice repubblicano reagì con la militarizzazione del partito fascista - la costituzione delle “Brigale Nere” - che

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segnò il passaggio alla guerra civile con la rinuncia anche alle apparenze formali della legalità.

In tutta l’Italia Settentrionale i comandi della Guardia di Finanza presero allora contatto con la Resistenza, agevolati anche dal processo di istituzionalizzazione grazie al quale i Comitati di Liberazione Nazionale, diffusi sul territorio, assunsero la veste di rappresentanti del potere legittimo nei territorio occupato, e la stessa componente militare prese forma unitaria con la costituzione, il 19 giugno, del Corpo Volontari della Libertà, del quale il generale Cadorna, lanciato in agosto in Val Cavallina, riuscirà in novembre ad assumere il comando.

Noi sappiamo oggi che l’organizzazione del C.V.L., con i suoi comandi regionali, settoriali e di piazza, era poco più che un apparato formale, poiché le formazioni partigiane continuarono in realtà a riconoscersi soprattutto nei loro referenti politici, ma la sua esistenza bastò ad appagare la mentalità legalitaria degli ufficiali e dei sottufficiali responsabili dei reparti della Guardia di finanza.

Il generale Cadorna era accompagnato da un ufficiale dei Corpo, il tenente Augusto de Laurentiis, che riuscì rapidamente a stabilire il contatto con il comando della legione di Milano, destinato da quel momento ad assumere una posizione centrale anche in virtù della coesistenza nel capoluogo lombardo delle sedi clandestine del C.L.N.A.I. e del comando generale del C.V.L..

I reparti della Guardia di Finanza operarono in seguito in collaborazione con i C.L.N., mettendo a disposizione le possibilità di collegamento e di supporto offerte

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dall’organizzazione di comando, dalla relativa libertà di movimento e dalla pur limitata disponibilità di mezzi di trasporto, di sedi di copertura e di materiali di vestiario e di equipaggiamento. Si giunse persino a realizzare, nella sede del comando di legione, un laboratorio per la produzione di documenti falsi, collegato all’organizzazione clandestina “Franchi”, di cui si giovarono alcuni esponenti di rilievo della Resistenza, come Sogno, Lombardi e Valliani.

Le reazioni da parte repubblicana naturalmente non si fecero attendere, ma non andarono oltre le invettive e le minacce giornalistiche e gli appelli al “duce”, anche se non mancarono arresti di interi distaccamenti e la continua “spada di Damocle” dello scioglimento del Corpo e della deportazione in Germania, per prevenire la quale fu progettato il trasferimento di tutti i componenti della legione di Milano nell’Ossola, dove avrebbero dovuto costituire una formazione partigiana autonoma al comando del colonnello Malgeri.

L’unico provvedimento concreto fu l’allontanamento dei reparti dal confine svizzero, attuato a fine agosto ’44 per ordine del comando delle SS, dopo che per mesi i capi delle province ed i comandi della GNR lo avevano sollecitato senza esito.

Circa il perché le cose andarono in questo modo sembra possibile individuare due ordini di motivi.

Occorre ricordare, innanzitutto, lo stato di marasma nel quale versava il sistema di sicurezza della R.S.I. almeno dalla metà del 1944, quando lo sfaldamento dell’organizzazione territoriale della GNR e la costituzione

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della milizia armata di partito delle “Brigate Nere” consentirono la proliferazione di formazioni di polizia praticamente fuori controllo, talune con caratteristiche decisamente criminali, dando luogo a quello che e stato definito un “policentrismo anarchico di polizia”. Non meraviglia che in una situazione del genere il governo repubblicano non abbia voluto privarsi di un organismo come la Guardia di finanza, malgrado la sua evidente inaffidabilità politica.

Un secondo ordine di ragioni può essere individuato nella forma dell’apparato di occupazione tedesco, proiezione nel nostro Paese del sistema “policratico” nazista, fondato, come è noto, sulla coesistenza di centri di potere più o meno equipollenti, in reciproca competizione e tutti riferentisi direttamente al dittatore, unica istanza di risoluzione delle controversie.

In Italia, sotto il problematico coordinamento del plenipotenziario del “Grande Reich”, ambasciatore Rahn, operavano quindi l’amministrazione militare, con i suoi comandi territoriali e la sua gendarmeria, il comando delle SS con le sue varie articolazioni, ed i rappresentanti di vari ministeri - degli Armamenti, dell’Economia, dell’Agricoltura, del Lavoro - ciascuno deciso a difendere la propria sfera di competenza dalle interferenze dei concorrenti.

Una posizione preminente fu presto assunta dal generale Leyers, emissario del ministro degli Armamenti e della Produzione Bellica Albert Speer, il quale riuscì a realizzare l’integrazione dell’industria italiana nel programma di produzione del Reich puntando sul consenso

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degli imprenditori, appagati da consistenti commesse e dalla protezione contro lo smantellamento degli impianti e la deportazione delle maestranze. Fu Leyers, questa volta in accordo con gli altri esponenti del sistema, a sollecitare un controllo efficace del mercato dei beni di consumo e ad individuare nella Guardia di finanza l’organismo in grado di attuarlo. Una valutazione che non deve sorprendere, vista la situazione dell’apparato di polizia repubblicano di cui si è detto.

Il Corpo giunse così in condizioni di sostanziale integrità alla prova finale, l’insurrezione generale proclamata la sera del 25 aprile 1945 dal C.L.N.A.I..

In tutta l’Italia Settentrionale i reparti della Guardia di Finanza parteciparono ai combattimenti di strada, dove vi furono, ed assolsero comunque la loro funzione di forza “regolare” a disposizione dei C.L.N. soprattutto nella fase estremamente delicata tra la ritirata delle truppe tedesche e l’ingresso nelle città delle formazioni partigiane di montagna, quando la forza della Resistenza era costituita soprattutto dai gruppi patriottici cittadini, collegati ai partiti di riferimento più che agli organi ufficiali.

Scontri di una certa entità si ebbero nel porto di Genova, a Torino, a Pavia (dove caddero un ufficiale e due finanzieri), in Friuli, dove si verificarono altre perdite. Un esito particolarmente doloroso si ebbe a Trieste, quando l’insurrezione, alla quale partecipò agli ordini del C.L.N. un battaglione di seicento finanzieri, fu seguita dalla soppressione nelle foibe o dalla deportazione di quasi tutti i. militari del Corpo. A Milano, dopo l’occupazione incruenta degli edifici pubblici si verificarono scontri con elementi

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isolati repubblicani nella giornata dei 26, poi l’interesse si spostò nella zona del Lago di Como, teatro dell'epilogo tragico della Repubblica Sociale, nel quale i comandanti dei piccoli reparti del Corpo ebbero modo di svolgere ruoli anche rilevanti.

Sempre dal 26 era stato intanto riassunto il controllo del confine svizzero, e dopo aver accettato la resa del presidio tedesco di Ponte Chiasso, i finanzieri si adoperarono per il passaggio in Svizzera di unità della Wehrmacht, assicurandone il disarmo.

Furono anche arrestati esponenti fascisti che tentavano l’espatrio, come i ministri Buffarini Guidi e Tarchi.

La 34^ divisione dell’esercito degli Stati Uniti giunse a Milano il 30 aprile, e pochi giorni dopo il generale Crittenberger, comandante del IV corpo d’armata statunitense, passò in rivista i finanzieri, i quali iniziavano ad operare alle dipendenze dell’amministrazione militare alleata, come nel resto d’Italia.

A metà giugno fu sciolto anche il “comando generale provvisorio della R. Guardia di Finanza per l'Alta Italia”, costituito il 29 aprile dal C.L.N.A.I. come articolazione del Corpo Volontari della Libertà ed affidato al colonnello Malgeri.

Si concludeva così la vicenda della Guardia di Finanza nell’Italia occupata, per la quale sembra appropriato il giudizio espresso parecchi anni dopo da uno dei protagonisti, Riccardo Lombardi:

“Ritengo che la Guardia di finanza fu in tutta Italia

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l’unico Corpo che collettivamente partecipò fin dal primo giorno alla Resistenza. Certamente la Resistenza fu costellata di adesioni numerosissime da parte di militari dell’esercito, dei carabinieri, della finanza ed anche della pubblica sicurezza, ma la partecipazione collettiva di un corpo militare compatto, partecipazione non occasionata dalle vicende della ritirata, come avvenne per le truppe affluite dalla Francia, ma da una volontaria determinazione, fu un episodio probabilmente unico e, ad accrescerne il significato, fu il fatto straordinario che le decisioni di intervento assunsero via via sempre più il carattere di una consultazione democratica, fatta quasi alla luce del sole, malgrado le esigenze della cospirazione.”

Una citazione alla quale pare lecito accostarne un’altra, dedicata da uno storico ottocentesco, il Cellai, ai finanzieri lombardi protagonisti delle “Cinque Giornate” del 1848: “Scelsero piuttosto di essere cittadini flagellati che flagellatori dei propri fratelli”.

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INTERVENTO DEL COORDINATORE AMB. SERGIO ROMANO

Grazie Signor Generale. Lei ha dato le risposte alle domande de me poste.

Il generale Luciani ci parlerà del ruolo della G. di F. nell’insurrezione di Milano, in altre parole metterà a fuoco quel particolare periodo, quella particolare circostanza.

Qualche giorno fa facendo visita al Generale Ferraro, nella sua sede in corso Sempione, ho appreso una cosa che non sapevo, cioè che quella era la sede dell’E.I.A.R. e che quel giorno fu tra i palazzi milanesi conquistati dalla G. di F. e consegnati al C.L.N.. La radio, il palazzo di governo, la provincia, l’intendenza di finanza, questi sono i luoghi che bisogna conquistare per prendere il potere. Ce lo aveva spiegato Curzio Malaparte nella “Tecnica del Colpo di Stato”. Che la tecnica del colpo di stato sia stata realizzata da un corpo secolare, monarchico, con le stellette ebbene debbo dire che questa è una pagina di storia Italiana che non mi sarei aspettato.

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Generale Luciano Luciani

I FINANZIERI PROTAGONISTI DELLA LIBERAZIONE IN ALTA ITALIA.

1.Premessa. 2.Il colonnello Alfredo Malgeri. 3. Il tenente Augusto de Laurentiis. 4. Il finanziere Urbano Lazzaro, il partigiano Bill. 5. Il finanziere Attilio Martinetto, un eroe sconosciuto. 6. Il colonnello Persirio Marini. 7. Il colonnello Ugo Finizio. 8. Conclusione.

1. Premessa

La resistenza in Alta Italia si esplicò principalmente con un’estesa attività di guerriglia contro l’occupante nazifascista.

La guerriglia, per sua natura, è forma di lotta che predilige le azioni individuali o di piccoli gruppi per forza di cose condotte in grande autonomia sulla base di direttive molto generiche di un ristretto gruppo di capi.

Era un tipo di lotta congeniale alla Guardia di Finanza i cui uomini erano da sempre addestrati ad agire da soli od in pattuglie.

La descrizione dell’attività del Corpo nella Resistenza non può prescindere, quindi, dall’esame dei comportamenti dei singoli finanzieri operanti in Italia Settentrionale tra il 1943 ed il 1945.

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Tra le migliaia di Fiamme Gialle che si sono rese protagoniste della lotta per la libertà in quel periodo tragico della storia nazionale, ho enucleato alcune personalità del Corpo, che quali comandanti o gregari hanno fornito esempio di idealità ed anelito alla libertà talvolta spinti fino all’estremo sacrificio.

2. Il colonnello Alfredo Malgeri.

Alfredo Malgeri nacque a Reggio Calabria il 14 agosto 1892 da una famiglia della media borghesia. Conseguì il diploma di geometra nell’Istituto Tecnico del capoluogo calabro e successivamente entrò nelle file della Guardia di Finanza essendo stato ammesso alla Scuola Allievi Ufficiali di Caserta il 5 novembre 1912.

Terminato il corso triennale conseguì la nomina a sottotenente il 9 maggio 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra, alla quale partecipò comandando un plotone del XIV battaglione mobilitato.

Il reparto era stato costituito ad Agrigento per la difesa costiera nel maggio del 1915, con le compagnie 42^, 43^ e 44^ e subito dopo fu destinato a Portogruaro.

Il comandante della 3^ Armata, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, volle che il XIV rimanesse a sua disposizione per essere impiegato nei servizi di guardia nelle località ove il Comando andava stabilendosi . Di conseguenza il reparto, dopo un rapido riordinamento, seguì il Quartier Generale della 3^ Armata nei suoi spostamenti, il 26 maggio a Rivignano, il 28 a Martigliano, il 1° giugno a Palmanova ed

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il 12 giugno a Cervignano, ove rimase fino al 21 dicembre, assolvendo inappuntabilmente il delicato incarico di scorta al Comando, di polizia militare e di difesa antiaerea.14

Con il sopraggiungere della stagione invernale le operazioni di guerra sul nostro fronte furono sospese ed il battaglione, fu inviato nelle retrovie per prepararsi a più impegnativi compiti di combattimento.

Il 1^ giugno 1916 entrava in azione, prestando servizio di polizia militare e presidiando, sul Carso, gli avamposti a quota 379 e sopra Verhovac.

Un anno dopo fu trasferito tra Porto Ceresio e Como per guarnire il confine contro una ipotizzata avanzata tedesca attraverso la Svizzera, ma poco dopo, assegnato alla 2^ Armata, raggiunse Cormons ove gli furono assegnati importanti servizi di polizia militare.

Durante la ritirata di Caporetto rimase compatto e subito dopo fu trasferito in Albania.

Il tenente Malgeri fin dai primi giorni di guerra fu assegnato ad un plotone della 43^ compagnia e si distinse subito per l’azione di comando puntuale, severa, ma attenta alle esigenze dei suoi dipendenti.

In considerazione dell’acquisita vasta esperienza di guerra nel 1917 e nel 1918 fu destinato ad una compagnia allievi stanziata a Peschiera e dipendente dal Battaglione Allievi Finanzieri di Verona.

14 D. Olivo, “L’azione della Regia Guardia di Finanza nella guerra 1915-18”, G.

Priula ed., Palermo, 1922, pag. 198.

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Si unì al XIV battaglione nel luglio 1918 a Santi Quaranta, in Albania e subito dopo fu impiegato sul corso dell’Osum ove partecipò ai sanguinosi combattimenti difensivi e controffensivi che a fine ottobre 1918 spostarono le linee italiane fin oltre Berat.

Per tutta la durata del conflitto, il tenente Malgeri meritò sempre lusinghiere note caratteristiche ed incondizionato riconoscimento di esemplari virtù militari, quali il coraggio, la calma, l’energia nel comando e l’alto spirito di Corpo.

Promosso capitano il 1° ottobre 1919 e assegnato al Battaglione Allievi Finanzieri di Verona, frequentò un anno dopo un corso annuale presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze, che gli valse l’assegnazione alla Scuola Allievi di Caserta quale ufficiale di inquadramento ed insegnante di matematica e topografia.

Nel 1924 fu destinato al comando della Compagnia di Tarvisio, che resse per tre anni in ambiente molto difficile, perché i confini con Austria e Yugoslavia, tracciati dopo la guerra non erano ancora consolidati e le popolazioni locali, di sentimenti in parte filotedeschi, non si erano ancora ben assimilate con quelle italiane, dando luogo a frequenti frizioni ed episodi di intolleranza.

Conseguita la promozione a maggiore a scelta per esami il 9 giugno 1927 venne assegnato al comando del Battaglione Allievi della Scuola Nautica di Pola, ove fu molto apprezzato dai superiori per le sue capacità di educatore, puntualmente documentate nei suoi atti caratteristici.

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I trasferimenti successivi (il 9 giugno 1933 fu promosso tenente colonnello) lo videro comandante del Nucleo di Polizia Tributaria investigativa di Trieste, comandante della Scuola Sottufficiali di Caserta e comandante del Nucleo P.T. di Napoli.

I giudizi caratteristici dell’ufficiale furono sempre molto lusinghieri, particolarmente nel periodo trascorso a Napoli, ove alla massima qualifica nei rapporti informativi si accompagnarono gli elogi “per i cospicui risultati in ambiente di evidente difficoltà” (1934), “per il fervido attaccamento al dovere e per i cospicui risultati del diuturno e difficile lavoro” (1935) ed infine “per l’instancabile operosità e per il cospicuo rendimento” (1936).

Il comando del Nucleo di Napoli dal 1932 al 1937 fu un periodo fortunato e di grandi soddisfazioni per il tenente colonnello Malgeri che in una circoscrizione di grande importanza ai fini tributari, per complessità di interessi e minuto frazionamento di attività industriali e commerciali, largamente sviluppate nella forma dell’artigianato, operò con “una visione comprensiva di tutte le necessità della difesa erariale e con un’azione sempre sveglia, precisa, energica e pronta, rivolta ad istruire ed indirizzare ufficiali, sottufficiali e truppa ed a guidarli in tutte le contingenze più difficili; né gli è mai mancato il senso più squisito della responsabilità, ch’egli stesso sa assumere completa, direttamente intervenendo nella direzione personale delle operazioni di maggior rilievo e pericolo”.15

15 A.S.M.G.F. Proposta d’avanzamento a scelta per meriti eccezionali del ten. Col.

Malgeri. Fascicolo del gen. Malgari.

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I risultati di servizio nel quinquennio furono elevatissimi in tutti i settori, dalle operazioni contro i fabbricanti clandestini di spiriti in città ed in provincia, al contrasto al lotto clandestino, agli accertamenti nei confronti di innumerevoli aziende industriali e commerciali soprattutto per reprimere le evasioni alle tasse sugli affari, alla repressione delle frodi sulla valuta e sul commercio dell’oro ed, infine, alla metodica lotta al contrabbando di tabacchi.

Il 1° maggio 1937 egli venne trasferito al comando del circolo di Savona, ma vi rimase solo un mese, perché per le sue riconosciute spiccate e sicure capacità di organizzatore ed animatore, fu scelto per l’incarico di vice comandante superiore della Regia Guardia di finanza in Africa Orientale Italiana.

Qui si trovava il battaglione E, che al termine della guerra italo-etiopica era stato trasformato in “Guardia di finanza dell’ A.O.I.” al comando inizialmente del tenente colonnello Enrico Palandri e poi del colonnello Giuseppe Bagordo.

Il nuovo comando era alle dirette dipendenze del Governo Generale dell’Africa Orientale Italiana ove era responsabile nella nuova colonia di tutti i servizi d’istituto e della gestione disciplinare ed amministrativa dei finanzieri presenti sul territorio. In seguito si vide attribuire compiti di pianificazione dell’organizzazione definitiva della difesa

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tributaria del vicereame e di consulenza del Governo Generale per le materie attinenti all’economia e finanza.16

Il tenente colonnello Malgeri raggiunse Addis Abeba il 30 luglio 1937 e vi rimase fino al marzo 1938, quando fu rimpatriato per i postumi della frattura del femore, che aveva subito in servizio.

La sua opera, svolta in stretta collaborazione con il colonnello Bagordo, che era succeduto al tenente colonnello Palandri rientrato in patria subito dopo la conclusione del conflitto, fu molto apprezzata dai vertici del Corpo che lo proposero, il 24 gennaio 1938, anche per i suoi successi negli anni precedenti, per l’avanzamento a scelta per meriti eccezionali al grado di colonnello.

Promosso con decorrenza 7 febbraio 1938, gli fu affidata l’importante legione di Bari, che comandò fino al 1° luglio 1942, quando fu assegnato, sempre come comandante, alla Legione di Milano.

Negli anni di guerra, la Guardia di finanza vide scemare l’importanza dei servizi di lotta all’evasione, in parte per l’anemizzarsi dei traffici commerciali in dipendenza dello stato di guerra ma soprattutto perché le autorità di Governo coinvolsero sempre più i finanzieri nei servizi relativi al controllo dell’economia di guerra, specie in quelli di controllo dei prezzi, degli ammassi e della produzione bellica.

16 P.Paolo Meccariello, “Storia della Guardia di Finanza”, Le Monnier, Firenze

2004, pag. 170.

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Poiché negli anni quaranta, molto più che oggi, la maggior parte dell’industria nazionale gravitava in Lombardia e nelle aree adiacenti, la Legione di Milano si trovava impegnata nei nuovi servizi più che altrove.

A ciò si deve aggiungere che le azioni di bombardamento aereo degli alleati, sporadica fino al 1942, nel 1943 si intensificò con epicentro su Milano, che fu pesantemente colpita l’8 ed il 13 agosto, alla vigilia dell’armistizio, provocando seri danni anche alla caserma “5 giornate”.

Il colonnello Malgeri anche in queste circostanze, nonostante serie preoccupazioni di carattere privato originate da una numerosa famiglia (sette figli tra i tre ed i sedici anni), mantenne il sangue freddo ed indirizzò con calma ed efficacia l’attività dei suoi finanzieri nel soccorso alla popolazione.

Dopo l’8 settembre il colonnello Malgeri rimase al suo posto perché appartenente ad un organo di polizia, che secondo l’art. 56 della legge di guerra17 doveva continuare ad assolvere i compiti d’istituto, nell’interesse della popolazione civile, le cui esigenze di tutela erano da ritenersi prevalenti rispetto all’indiretta collaborazione che così veniva offerta al nemico.

Il Comandante Generale del Corpo aveva anche emanato, prima dell’8 settembre 1943, una circolare applicativa (nr. 297 R.O. del 28 agosto 1943), che era stata approvata dal Capo del Governo, generale Badoglio, per

17 R.D. 8 luglio 1938, nr. 1415.

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effetto della quale i finanzieri avrebbero dovuto a qualsiasi costo mantenersi nelle sedi di servizio e continuare a disimpegnare i loro compiti, soprattutto il concorso al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, anche se per gli eventi bellici si fossero trovati in zone controllate dal nemico.

La circolare ebbe un’importanza fondamentale nelle scelte che i finanzieri dovettero compiere all’indomani della proclamazione dell’armistizio e le disposizioni in essa contenute consentirono la sopravvivenza della Guardia di Finanza, che rimase integra, mentre le strutture civili e militari dello Stato si dissolvevano.

E’ da rilevare che anche prima dell’ 8 settembre il colonnello Malgeri si era posto a disposizione del Comando militare di Milano, per concorrere alla difesa contro possibili attacchi tedeschi, ma com’è noto nel capoluogo lombardo non fu poi organizzata nessuna resistenza armata, per effetto degli accordi tra i comandi germanici ed il generale Ruggero, comandante della difesa territoriale, che prevedevano il disarmo delle truppe italiane della Lombardia18.

Malgeri, fin dal primo momento, nei suoi contatti con i collaboratori ed i dipendenti, svolse accorta opera di propaganda per orientare la loro azione a favore dell’espatrio dei perseguitati politici, ebrei, militari ricercati per essere internati in Germania, ed a dare ogni possibile aiuto ai patrioti, e si impegnò a fondo per salvare i militari

18 A. Malgeri, “L’occupazione di Milano e la Liberazione”, Comune di Milano

1983, pag. 27.

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del Corpo arrestati o comunque compromessi per il loro generoso slancio a favore ella Resistenza.

Appoggio morale e protezione continua egli riservò ad elementi di punta della sua Legione che rendevano servizi preziosi al movimento di Liberazione.

Egli stesso, benché facilmente individuabile dalla polizia nazifascista, cospirò attivamente, accogliendo nelle caserme della Guardia di Finanza i patrioti per convegni clandestini e talvolta per sottrarli alle ricerche della polizia.

Nel luglio 1944 un emissario del comando delle formazioni partigiane della Valdossola, tale Groppi (nome di battaglia Brambilla) prese contatti con lui per invitarlo a defezionare con i suoi uomini per unirsi ai partigiani della montagna.

In successive riunioni venne concordato un piano di operazioni in questa direzione, che poi non fu reso esecutivo perché nel frattempo il Groppi dovette eclissarsi da Milano, perché ricercato dalla polizia fascista.

Nello stesso periodo (agosto-settembre 1944) Malgeri fu contattato dal tenente Augusto de Laurentiis, paracadutato al nord dagli alleati assieme al generale Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, che lo invitò ad un convegno con lo stesso generale Cadorna e l’ingegner Solari (nome di battaglia Somma) , nel corso del quale fu convenuto che gli elementi della legione aderenti al movimento passassero con le proprie armi alle formazioni partigiane della montagna.

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Fu anche convenuto che si sarebbero dovuti inquadrare nei reparti partigiani anche i finanzieri dislocati nelle altre province della Lombardia, in modo da poter costituire una forte brigata che avrebbe dovuto operare ai suoi ordini.

Il lavoro preparatorio venne immediatamente avviato ed in tale quadro, a mezzo di collaboratori fidati, il colonnello Malgeri prese contatti con il maggiore Superti in Domodossola tramite il capitano del Corpo Argera, con la banda operante nel Varesotto, attraverso il tenente Cerolo, con il Comando delle Divisioni Fiamme Verdi della Valtellina, con il tenente Macaluso e direttamente con il tenente colonnello De Angelis a Como, per stabilire quale zona fosse adatta per il concentramento delle Fiamme Gialle ed i mezzi per farvi affluire i militari dei reparti esterni.

La defezione, già pianificata nel dettaglio, non ebbe più luogo per effetto di nuove direttive da Roma, pervenute per il tramite del tenente De Laurentiis, essendosi ritenuto più redditizio che la Guardia di Finanza rimanesse sul territorio.

Il colonnello Malgeri, comunque, proseguì attivamente l’opera organizzativa costituendo, nel mese di settembre una vera e propria formazione partigiana nelle fila della Legione di Milano, che si sarebbe dovuta rivelare non appena il CLNAI avesse ritenuto giunto il momento opportuno.

Intanto servizi molto utili venivano resi al movimento clandestino, tra i quali il trasporto di radiotrasmittenti paracadutate in montagna, assieme al generale Cadorna ed al tenente De Laurentiis.

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Il trasporto venne effettuato da un ufficiale del Corpo e da due sottufficiali con un automezzo della Legione fornito dal colonnello Malgeri.

Sono anche da ricordare le tessere di riconoscimento false rilasciate a numerosi patrioti (tra cui Riccardo Lombardi ed Edgardo Sogno) da un apposito ufficio clandestino organizzato dal brigadiere Dall’Acqua, per consentire loro di operare sotto la qualifica di comodo di appartenenti alla Guardia di Finanza.

In accordo con il CVL molti sottufficiali vennero addestrati all’uso dei radiotelefoni che dovevano essere utilizzati nei giorni della prevista insurrezione generale, per cui numerosi apparati radiotrasmittenti furono custoditi nella caserma di piazza Sicilia e nella caserma “Cinque giornate” di via Melchiorre Gioia.

Nell’autunno 1944 il comando della Legione i Milano, in accordo con l’avvocato Pezzotta, emissario del CLN delegato alla pianificazione operativa, fece predisporre i piani per l’occupazione di Milano in esecuzione dell’ordine di insurrezione generale e per la rioccupazione del confine italo-svizzero, al termine della guerra, che oramai si riteneva prossima.

Nell’ambito di questa pianificazione furono presi contatti con ufficiali rifugiati in Svizzera affinché predisponessero, nei campi di internamento elvetici, aliquote di finanzieri da trarre da coloro che erano colà trattenuti, per poter rapidamente disporre di personale che a guerra appena finita, fosse in condizione di riprendere il loro posto di vigilanza alla frontiera.

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Prima del 25 aprile il colonnello Malgeri dovette esporsi con le autorità della R.S.I. per evitare che la Guardia di Finanza del circolo di Sondrio venisse inglobata tra le truppe incaricate della costituzione del fantomatico Ridotto Alpino della Valtellina, dove il fascismo morente intendeva concentrarsi ed ivi condurre l’ultima resistenza.

Per scongiurare questa evenienza egli si recò a fine marzo 1945 a Sondrio e poi a Tirano per un colloquio con il generale Onori, comandante designato del Ridotto e riuscì a convincerlo che i reparti del Corpo non potevano partecipare alle progettate operazioni militari perché dovevano continuare ad attendere ai loro normali servizi istituzionali.

Anche una richiesta residuale del generale Onori fu elusa: egli aveva chiesto che i reparti della Guardia di Finanza cedessero alle brigate nere le loro munizioni, ma Malgeri rese la cosa impossibile inviando immediatamente un autocarro in Valtellina che raccolse tutte le cartucce depositate nella caserma e le trasportò a Milano.

Nelle cruciali giornate dell’insurrezione generale il comandante della Legione di Milano fu l’anima dell’instancabile attività svolta dalle Fiamme Gialle per la conclusione a Milano delle guerre patriottiche.

Gli avvenimenti in Alta Italia e del 25 e 26 aprile 1945 l’opera del colonnello Malgeri sono oggetto di apposite relazioni.

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In questa sede sarà ricordato il ruolo dell’ufficiale in una vicenda successiva all’occupazione di Milano da parte della Guardia di finanza.

Mussolini si era allontanato da Milano, accompagnato dai gerarchi più fedeli, la sera del 25 aprile con l’intenzione dichiarata di raggiungere la Valtellina.

Dopo una sosta a Como, si era inoltrato lungo la sponda occidentale del lago di Como, aggregandosi ad una colonna della contraerea tedesca, ma poco prima di Dongo, essendosi i germanici dovuti arrestare ad un posto di blocco su una strettoia della strada presidiata da partigiani della 52^ brigata Garibaldi ed avendo i primi contrattato il libero passaggio solo per loro e non per gli italiani, il Duce fu catturato nella piazza di Dongo mentre travestito da militare della FLAK a bordo di un autocarro tedesco cercava di eludere i controlli dei patrioti.

La 52^ brigata partigiana era costituita in gran parte da finanzieri passati alla Resistenza, ed uno di loro, il brigadiere Antonio Scappin si premurò di informare degli avvenimenti il comando di legione.

Il colonnello Malgeri venne a conoscenza della notizia la sera del 25 aprile, mentre si trovava in riunione con il nuovo prefetto di Milano liberata, Riccardo Lombardi ed altri membri del CLN.

La sorte di Mussolini fu decisa seduta stante dalla fazione comunista del CLN, che faceva capo a Luigi Longo e Sandro Pertini, che fecero prevalere la tesi della

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fucilazione immediata. Solo ad esecuzione avvenuta il CLNAI legittimerà con un proprio documento l’accaduto.

Il primo ad essere contattato per eseguire la sentenza fu il colonnello Malgeri al quale fu suggerito di recarsi a Dongo, farsi consegnare il Duce dalla 52^ brigata asserendo di doverlo trasferire a Milano e durante il viaggio inscenare un falso tentativo di fuga che legittimasse la sua uccisione.

Il Malgeri però rifiutò eccependo che non aveva nessuna autorità sui partigiani di Dongo e così l’incarico fu affidato a Walter Audisio (colonnello Valerio) che partì subito dopo per la missione che si concluse con la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti e con la macabra esposizione dei cadaveri a piazzale Loreto a Milano.

Subito dopo la resa dei tedeschi agli alleati il 2 maggio 1945 e la fine della guerra in Italia, gli alleati non consentirono che il governo di Roma estendesse subito all’Italia settentrionale la sua sovranità.

Infatti, per impedire che il “vento del nord”, cioè la ventata rivoluzionaria ispirata dal partito comunista che aveva egemonizzato la Resistenza armata e vagheggiava di promuovere, a cominciare dalle regioni settentrionali, la rivoluzione proletaria prodromica alla sovietizzazione del Paese, gli anglo-americani che sopravvalutavano le potenzialità ed il seguito dei partiti di estrema sinistra, mantennero in vita per qualche tempo la linea gotica quale “cordone sanitario” ed elemento di separazione tra le due Italie, ossia tra due società, due economie e due ambienti

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che avevano vissuto per molti mesi esperienze diverse, in qualche modo opposte.19

Per effetto di questa situazione, il CLNAI, che di fatto sostituiva il Governo centrale in molte sue funzioni, nominò il colonnello Malgeri “Comandante Generale provvisorio per l’Alta Italia”. L’ufficiale assunse quindi il comando di tutti i reparti fino ad allora dipendenti dal Comando Generale di Brescia, costituito nell’ambito della R.S.I.

Il Comando Generale provvisorio funzionò a Milano fino al 15 luglio 1945, quando, ripristinate le comunicazioni tra nord e sud, il Comando Generale di Roma poté riassumere la pienezza dei suoi poteri.

Il colonnello Malgeri, nel frattempo raggiunto dal turno di promozione e nominato generale di brigata, fu confermato a Milano con l’incarico di comandante di Zona, con giurisdizione nelle Legioni di Genova, Torino, Como e Milano, e rientrò con molta modestia nei ranghi senza nulla pretendere per il suo straordinario apporto alla felice conclusione della lotta di liberazione.

Egli non ebbe nessuna ricompensa al valor militare e neppure un encomio scritto dei superiori gerarchici.

Il fatto è stupefacente ove si consideri la miriade di decorazioni al valor partigiano elargiti dopo la guerra con molta liberalità a personaggi dai meriti infinitamente inferiori ai suoi.

19 Pier Paolo Meccariello, “La storia della Guardia di Finanza”, cit. pag. 349.

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Unico riconoscimento, che il generale Malgeri ebbe dal Comando Generale fu quanto espresso nei suoi confronti dal generale G. Battista Oxilia, Comandante Generale del Corpo nel 1945-1946 nei seguenti termini:

“Durante il periodo della dominazione nazifascista, il colonnello Malgeri, Comandante della Legione di Milano, cospirò ed operò validamente contro gli oppressori, svolgendo intelligenti azioni di resistenza passiva e di sabotaggio, alcune delle quali di grande importanza.

D’intesa con il comando clandestino della Piazza di Milano del C.V.L., con ardimento e sagacia organizzò la sua legione in formazione partigiana, preparando spiritualmente i suoi uomini e predisponendo i mezzi per l’imminente azione insurrezionale.

Al segnale della riscossa, alla testa di un reggimento di formazione dei suoi finanzieri inquadrati nelle forze della libertà e galvanizzati dal suo esempio, scriveva a Milano una bella pagina di storia di cui il Corpo va fiero.

Dopo aver occupato con i suoi uomini, con rapida e decisa azione e scontri a fuoco, i più importanti centri vitali della vita politica e cittadina (prefettura, municipio, radio, ecc…) il 26 aprile, alle 8, il colonnello Malgeri aveva l’alto privilegio di annunciare con il suono delle sirene, l’avvenuta liberazione di Milano, in cui finanzieri avevano avuto parte eminente e risolutiva, bene meritando del Corpo e della Patria.

Assunto il Comando Generale provvisorio della Guardia di Finanza Alta Italia, il colonnello Malgeri sapeva

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fronteggiare, con il prestigio del suo nome intemerato e con la sua opera altamente proficua, situazioni difficili e delicate, meritando plauso e fiducia incondizionati.

Passato successivamente al comando della I Zona, lo teneva con salda energia e con sicuro criterio, riorganizzando prontamente i servizi e restaurando graduatamente la disciplina dei reparti.”

Concludeva il generale Oxilia con la seguente comunicazione al colonnello Malgeri:

“Lo elogio: ufficiale superiore di eccezionali eminenti doti di intelletto, di cuore, di carattere, ha dato sicura prova di alte virtù militari e civili.”20

Come si è detto, il colonnello Malgeri non ebbe alcun riconoscimento di carattere speciale per la sua attività a favore della Resistenza.

Dall’esame del carteggio personale dell’ufficiale21 risulta che il Comando Piazza di Milano del C.V.L. aveva predisposto il 2 giugno 1945 una proposta per l’avanzamento per meriti straordinari, che però fu archiviata dal generale Raffaele Cadorna, comandante generale del C.V.L..

Quest’ultimo, in una lettera dell’ 8 marzo 1946 inviata al Comando Generale quando rivestiva già la carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito minimizza l’attività cospirativa del colonnello e, pur riconoscendo il suo ruolo nell’insurrezione generale, stigmatizza, in sostanza, che la 20 A.S.M.S.G.F., fascicolo personale del generale Malgeri. 21 Ibidem.

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Guardia di Finanza della Lombardia non abbia lasciato i suoi posti di servizio per trasferirsi in massa presso le formazioni partigiane in montagna.

Questo ingeneroso atteggiamento del generale Cadorna, che provocò l’affossamento della proposta di avanzamento per meriti straordinari, è originata da due ordini di motivi.

Il generale Cadorna, infatti, paracadutato in Lombardia nel 1944 faticò molto ad imporsi presso la dirigenza politica del C.L.N.A.I., dominata dalla corrente comunista e socialista di Longo e Pertini che sopportavano la presenza del generale, malvisto perché ritenuto un emissario del Re e del governo di Roma, solo perché garantiva loro l’appoggio in mezzi, materiali e denaro degli alleati.

Egli non riuscì mai ad avere funzioni di comando effettive, saldamente mantenute dai “politici” del C.L.N.A.I. e particolarmente da Longo e Pertini, non solo prima del 25 aprile 1945, ma anche dopo, quando nei primi mesi della liberazione le formazioni partigiane soprattutto di ispirazione comunista, spadroneggiavano nel nord Italia in un clima pre-insurrezionale.

In queste circostanze, il generale Cadorna, che aveva perso ogni influenza sulle formazioni della Resistenza, cercò di avvalersi come contrappeso della Guardia di Finanza, unica forza armata regolare in Alta Italia per cercare di frenare alcuni eccessi contro il Re e contro il Governo, ma non trovò corrispondenza nel colonnello Malgeri, che prima del 25 aprile era stato in stretto contatto con i politici del C.L.N.A.I., gli unici che avessero un

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effettivo potere sui partigiani e sulla condotta, anche militare della Resistenza.

Il colonnello quindi si guardò bene nell’intervenire in questioni politiche, anche perché un’eventuale attività in quella direzione non avrebbe avuto la minima possibilità di successo dal momento che un’azione anticomunista avrebbe portato ad etichettare tutti i finanzieri come avversari dei partigiani e perciò stesso “fascisti”, con nefaste conseguenze per molti.

Un secondo aspetto della questione era interno alla Guardia di Finanza.

Al Comando Generale di Roma, a fronte di un solo generale di divisione in organico, ve ne erano tre in effettivo e di essi, due erano inquisiti dalla Commissione per l’epurazione.

Soltanto nel 1948 la situazione di stallo si risolse con il completo proscioglimento del generale Poli (il generale Crimi era stato prosciolto nel 1945), ma ciò impose un’alternanza dei generali di divisione nella carica di Comandante in Seconda.

Era naturale quindi che una proposta di promozione per meriti speciali a generale di divisione di Alfredo Malgeri incontrasse l’ostilità dei vertici del Corpo perché avrebbe portato un aggravamento delle frizioni e degli imbarazzi per l’ingresso di un nuovo candidato alla carica di Comandante in Seconda.

Promosso generale nel 1946, Malgeri resse il comando della I Zona, di gran lunga la più importante della Guardia

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di Finanza, con grande prestigio efficacia ed unanime stima di superiori ed autorità, fino al 14 agosto 1954, quando per raggiunti limiti di età, fu collocato a riposo.

Elesse la sua residenza a Milano, ove condusse vita ritirata fino alla sua morte, sopraggiunta il 10 giugno 1977, onorato però della municipalità del capoluogo lombardo che nel dicembre 1971 gli aveva conferito la “medaglia di benemerenza civica” con la seguente motivazione: “Comandante della 3^ legione della Guardia di Finanza con sede a Milano, ha partecipato con le sue Fiamme Gialle alle gloriose giornate della insurrezione del 25 aprile 1945, recando un eroico apporto alla lotta partigiana e dimostrando un alto impegno civile nella difesa dei valori di libertà e democrazia.”

Nel Famedio del cimitero monumentale di Milano il suo nome è ricordato sulla lapide dedicata ai cittadini benemeriti.

Nel 1983 il comune di Milano curò la ristampa di una nuova edizione del libro “L’ occupazione di Milano e la Liberazione.” che il generale Malgeri aveva pubblicato nel 1947 con un autorevole prefazione del senatore Ferruccio Parri, all’indomani della Liberazione ,perché non andasse disperso il ricordo dell’impegno e del sacrificio profusi dai finanzieri della legione di Milano che dopo il 25 aprile 1945 erano ritornati nei ranghi “senza nulla discutere.”

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3. Il tenente Augusto de Laurentiis.

Augusto de Laurentiis nacque a Palermo il 25 novembre 1919. Terminati gli studi liceali in Sicilia entrò nell’Accademia della Guardia di finanza ove conseguì la nomina a sottotenente nel 1940.

Fu subito assegnato al I battaglione mobilitato che tra novembre e dicembre venne trasferito in Albania, inizialmente per compiti di copertura alla frontiera con la Yugoslavia, ma poi, per l’incalzare delle esigenze di tamponare l’offensiva greca di fine anno nel sud del paese, fu impiegato per costituire uno sbarramento in Val Tomorizza in collaborazione con il II battaglione mobilitato e reparti del 5° reggimento alpini.

A metà gennaio 1941 il settore si trovò coinvolto nella battaglia scatenata dagli ellenici che aveva l’epicentro nel limitrofo settore del fiume Osum.

Il I e II battaglione mobilitato furono incaricati di condurre un attacco di sorpresa sul costone di Dobrej che fu conquistato a seguito di brillanti combattimenti, nei quali si distinse il tenente de Laurentiis che, al comando di un plotone di rincalzo, intervenne nel momento decisivo dell’attacco costringendo a ripiegare gli ultimi difensori della posizione.

Per quest’azione l’ufficiale si meritò una croce di guerra al valor militare perché: “…ricevuto l’ordine di impegnare una munita posizione nemica, che minacciava il fianco del battaglione, la neutralizzava col fuoco e riusciva

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a conquistarla alla testa del reparto, che guidava all’assalto, con impeto travolgente”.22

La località fu difesa dai battaglioni della Guardia di finanza fino a marzo, quando furono trasferiti al confine jugoslavo in vista dell’inizio delle operazioni sul nuovo fronte.

Comunque durante tutto il periodo trascorso in Val Tomorizza il tenente de Laurentiis ebbe modo più volte di mettere in mostra le sue doti di comandante accorto e valoroso.

In aprile il I e II battaglione erano schierati sulla frontiera ad ovest del lago di Ocrida (settore Librazhd), ma il rapido evolversi della guerra con la Jugoslavia fece si che tali reparti, pur schierati in prima linea, non avessero modo di partecipare ad azioni di qualche rilievo. Essi furono poi impiegati con la divisione Firenze nell’occupazione di Dibra e nelle conseguenti operazioni di rastrellamento dei resti dell’esercito jugoslavo.23

Il I battaglione, dopo l’occupazione di Dibra, fu inizialmente destinato alla ricostituzione dell’ organizzazione di frontiera del korciano, ma venne poi destinato all’occupazione delle isole di Corfù e Cefalonia, dove rimase fin dopo l’8 settembre 1943, quando fu annientato durante l’epica difesa contro la Wehrmacht che dopo l’armistizio intendeva sterminare gli italiani dell’area,

22 F.O. nr. 25 del 03.05. 1942 del Comando Generale G. di F.. 23 P. Meccariello, “La Guardia di finanza nella seconda guerra mondiale”, Museo

Storico della G. di F., Roma 1992, pag. 245.

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rei di non aver voluto deporre le armi e arrendersi alle truppe germaniche.

Il 1° giugno 1941, però, il tenente de Laurentiis fu sottratto alle rutinarie incombenze connesse all’occupazione di un tranquillo settore delle isole greche e fu chiamato alla legione allievi di Roma per trasmettere ai giovani finanzieri le sue esperienze sul campo di battaglia. L’anno successivo fu assegnato al Nucleo centrale di polizia tributaria investigativa di Roma ove fu impiegato in compiti di polizia finanziaria ed economica.

Fu qui che venne sorpreso, come tutti, dall’armistizio dell’8 settembre e dalla successiva occupazione tedesca.

Il Nucleo di polizia tributaria, come gli altri reparti della Guardia di finanza, entrò entrò a far parte del comando delle forze di polizia della città aperta di Roma.

Nell’autunno del 1943 de Laurentiis entrò nella Resistenza romana introdottovi dal futuro segretario del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa e da Riccardo Bauer e funse da ufficiale di collegamento tra il Comitato militare del C.N.L. di Roma e la Guardia di finanza.

Dopo la liberazione di Roma fu incaricato da Riccardo Bauer di recarsi nell’Italia settentrionale, in territorio occupato dai tedeschi, per svolgervi attività di informazione, sabotaggio ed organizzazione di formazioni clandestine, nell’ambito del Number One Special Force, un settore delle Forze Armate britanniche.

Dopo due mesi di addestramento in una base alleata in Puglia unitamente a personale inglese ed italiano destinato

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ad operare a tergo delle linee di combattimento tedesche, il tenente de Laurentiis fu paracadutato assieme al generale Raffaele Cadorna in Val Cavallina, in prossimità del lago di Endine, in provincia di Bergamo.

Egli era incaricato di tenere i collegamenti tra Cadorna, nominato Comandante Generale del Corpo Volontari della Libertà e Ferruccio Parri, esponente di rilievo del Comitato di Liberazione Alta Italia, che già si trovava in clandestinità a Milano.

Agevolato dai partigiani delle formazioni “Fiamme Verdi” che operavano in montagna e dalla Guardia di finanza della Lombardia, il tenente raggiunse Milano il 14 agosto 1944 e subito iniziò a tessere una rete di contatti con gli elementi della Resistenza già sul posto, ed in particolare con i più eminenti personaggi del C.L.N.A.I., Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, Leo Valiani e Sandro Pertini.

Poiché i rapporti tra i politici del Nord e Cadorna rimasero freddi per parecchio tempo, dal momento che i primi consideravano il generale un emissario del Re al quale essi erano fieramente contrari perché gli addebitavano una forte corresponsabilità con il fascismo ed il secondo voleva mantenersi affrancato da una tutela politica del C.L.N.A.I. che temeva di dover subire, il tenente de Laurentiis, in sospetto di essere la longa manus di Parri, fu esonerato dai compiti di collegamento e potè invece dedicarsi ai rapporti tra la Guardia di finanza della Lombardia, rappresentata dal colonnello Alfredo Malgeri e le forze della Resistenza.

La sua attività clandestina fu svolta nell’ambito dell’Organizzazione Franchi, la leggendaria formazione

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partigiana capeggiata da Edgardo Sogno, con la quale cooperava strettamente la Guardia di finanza, specializzata nei collegamenti informativi tra Milano e la Svizzera, agevolata dai finanzieri dei reparti di confine e da un apposito ufficio documenti falsi organizzato dal brigadiere Vincenzo Dell’Acqua nei locali del Comando della legione in via Melchiorre Gioia.

Il tenente de Laurentiis così descrive il clima e l’ambiente in cui si svolgeva l’attività clandestina24: “I mesi che trascorsero in queste attività furono, come intuibile, intensamente vissuti in un’atmosfera che definirei surreale sulla quale incombeva la presenza cupa dell’occupazione nazista, la quale permeava di sé ogni aspetto della nostra esistenza.

Trascorrevamo gran parte del tempo sulle strade della città in vista di reciproci contatti, penalizzati dalla necessità di assicurare a noi stessi ed agli altri un apprezzabile livello di sicurezza, cercando di rendere plausibile e naturale il nostro contegno esteriore, avvicinando con la possibile circospezione i luoghi ed i locali di convegno nel timore di cadere in una trappola e con l’insopportabile sensazione che il passo di una persona dietro di te fosse quello di un nemico, ovvero con il sospetto che il compagno con cui dovevi incontrarti non avesse a sua volta scrupolosamente osservato le norme di sicurezza e ti trascinasse, inconsapevole vittima di un pedinamento, ad un catastrofico incontro”.

24 “La G. di F. nella Resistenza e nella guerra di Liberazione”. Testimonianza di

Augusto de Laurentiis nel supplemento al nr. 3 maggio-giugno 1995 della Rivista della Guardia di finanza.

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E infatti all’inizio del 1945 egli fu catturato dalla Wehrmacht per l’imprudenza di alcuni cospiratori che giunsero ad un convegno pedinati da agenti tedeschi. Dopo essere stato malmenato, fu rinchiuso nel penitenziario di San Vittore.

I tedeschi avevano deciso di deportarlo nel campo di sterminio di Dachau, ma in attesa che fosse disponibile il trasporto per il lager, la Resistenza riuscì a farlo assegnare quale scrivano all’infermeria da dove egli poteva mantenere i contatti con i detenuti e dare e fornire notizie sugli interrogatori in carcere per consentire loro di regolarsi sulle risposte da fornire agli inquirenti.

Verso metà aprile il tenente fu liberato attraverso uno scambio con tedeschi prigionieri dei partigiani e così egli poté essere protagonista della liberazione di Milano.

Fu lui che la notte tra il 25 ed il 26 aprile 1945 ricevette da Leo Valiani, vergato di sua mano, l’ordine di insurrezione e lo recapitò al colonnello Malgeri, consentendo così alla Guardia di finanza di compiere l’atto ufficiale conclusivo della lotta clandestina ed allo stesso tempo quello iniziale dell’insurrezione.

Per l’attività nella Resistenza, de Laurentiis fu promosso capitano per merito di guerra perché “…si recava volontario in una missione paracadutata in territorio occupato dal nemico. Superando notevoli difficoltà di ambiente, svolgeva opera altamente proficua organizzando e perfezionando delicati servizi di grande importanza per il proseguimento della lotta clandestina. Catturato dal tedesco invasore, durante l’esplicazione delle sue attività partigiane,

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sopportava con fermezza di animo il duro periodo di prigionia. Partecipava con entusiasmo e valore alle azioni delle giornate insurrezionali, confermando le sue doti di ardimento e di valore”.25

Dopo il 25 aprile 1945 lavorò alle dipendenze delle autorità di occupazione alleate e successivamente presso il centro di controspionaggio dei servizi di informazione italiani nel Veneto.

A fine 1946 l’ufficiale, come tutti gli appartenenti al Corpo, rientrò nei ranghi.

Dopo la promozione a capitano prestò servizio presso il reparto di polizia tributaria istituito presso il Ministero dell’Industria e Commercio estero.

Dal 1950 al 1955 fu inviato in Somalia per organizzare la Guardia di finanza del nascente stato della Somalia ed al rientro, frequentò i corsi della Scuola di Guerra di Civitavecchia.

Promosso maggiore e quattro anni dopo tenente colonnello, comandò il battaglione allievi sottufficiali della Scuola del Lido di Ostia e successivamente gli importanti gruppi di Menaggio e di Livorno.

Per le sue doti di organizzatore fu scelto per l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Generale. Nel 1965, promosso colonnello, comandò le legioni di Como, Trento e Torino.

25 D.P.R. del 29.05.1950.

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Conseguita la promozione a generale di brigata fu assegnato al comando delle zone di Torino e Genova, ove lo raggiunse la promozione a generale di divisione, allora grado vertice del Corpo. Resse dal 1976 per tre anni l’Ispettorato per l’Italia Settentrionale, rientrando così a Milano ove si era distinto trent’anni prima.

Concluse la sua prestigiosa carriera conseguendo la carica di Comandante in Seconda del Corpo, che ricoprì dal 1° gennaio 1980 al 31 dicembre 1982. All’approssimarsi della conclusione del servizio militare, quando per qualche mese resse il comando interinale della Guardia di finanza, in attesa della nomina di un nuovo Comandante Generale in sostituzione del generale Orazio Giannini, dimessosi dall’incarico, ebbe l’onore ed il privilegio, il 21 giugno 1982, di ricevere il suo vecchio compagno d’armi Sandro Pertini, che era assurto alla carica di Presidente della Repubblica, in occasione delle cerimonie militari per il 208° anniversario della fondazione del Corpo, svoltasi alla Caserma Italia del Lido di Ostia. Dopo lo scambio di un affettuoso abbraccio, il generale de Laurentiis accompagnò il Presidente nella rassegna ai reparti schierati, ideali eredi dei finanzieri che nella notte sul 26 aprile 1945 avevano liberato dall’oppressore la città di Milano.

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4. Il Finanziere Urbano Lazzaro, il partigiano Bill.

Urbano Lazzaro nacque il 27 ottobre 1924 a Quinto Vicentino, ma si trasferì ben presto con la famiglia in Piemonte, a Casale Monferrato, dove compì i suoi studi.

Si arruolò nella Guardia di finanza nella primavera del 1943 e dopo il corso d’istruzione alla scuola allievi di Pola fu assegnato al IX battaglione mobilitato del Corpo che operava in Slovenia.

Sfuggito ai tedeschi che rastrellavano i militari italiani per internarli nei lager in Germania, riuscì a rientrare in Italia e fu assegnato per il servizio d’istituto alla Compagnia di Chiavenna, sul confine italo-elvetico.

Nell’aprile 1944, giunto l’ordine per tutti i militari della Guardia di finanza di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana, Lazzaro ritenne di dare ascolto alla sua coscienza di fervente antifascista, si rifiutò di giurare e per non subire l’arresto e la prigionia in Germania si rifugiò in Svizzera.

Le autorità elvetiche lo internarono nel campo di Art am See, ove, a settembre, maturò la decisione di rientrare in Patria. Fu accompagnato da gendarmi svizzeri in prossimità del confine in corrispondenza della Valchiavenna, e dovette subito sfuggire ad un agguato della Milizia confinaria repubblicana che era stata preavvisata dalle autorità di confine elvetiche.

Riuscì fortunosamente ad evitare di essere colpito dai fascisti che sparavano contro di lui ed a raggiungere i partigiani che operavano sul monte Berlinghera, sul versante occidentale del lago di Como. Accolto con diffidenza,

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dovette dimostrare sul campo, in un’ardita azione contro i fascisti a Sorico, il suo valore per entrare a pieno titolo nella Resistenza.

Divenne l’elemento di punta della brigata partigiana, conquistandosi l’importante incarico di vice commissario politico, e partecipò, sempre con ruoli di prestigio a diversi combattimenti con i nazifascisti.

Le azioni di maggior rilievo che lo videro protagonista ebbero luogo a partire dalla seconda metà di ottobre quando la 52^ brigata dovette combattere per sottrarsi ad un massiccio rastrellamento delle brigate nere; tra il 28 gennaio ed il 2 febbraio 1945, con un’ardita puntata su Madesimo per sottrarre al presidio fascista viveri e rifornimenti per i partigiani della montagna; il 17 febbraio a Dubino in bassa Valtellina ove si scontrò con un battaglione della G.N.R. che lasciò sul terreno morti e feriti; il 6 marzo 1945 con l’attacco e la distruzione della sottostazione elettrica di Colico che forniva l’energia alla linea ferroviaria di Lecco-Sondrio, che rimase interrotta; il 2 aprile a Sorico quando assieme ad un compagno, poi rimasto ucciso, riuscì a disimpegnarsi da un agguato teso da un plotone della G.N.R..

Nelle giornate dell’insurrezione generale fu al comando del battaglione partigiano che catturò i presidi fascisti e tedeschi di Domaso, Gravedona e Dongo.

Il 27 aprile 1945 il partigiano Bill ebbe un ruolo importante nelle ultime ore terrene di Benito Mussolini.

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Nella prima mattina di quel giorno Mussolini e gli ultimi gerarchi a lui rimasti fedeli che si erano riuniti a Menaggio con l’intenzione di espatriare in Svizzera, vistasi preclusa la via della fuga dalla scorta tedesca, decisero di aggregarsi ad un’ autocolonna della F.L.A.K., la contraerea germanica, diretta in Alto Adige lungo la statale “Regina” della costa occidentale del lago di Como, al comando del tenente colonnello Fallmeyer.

Pochi chilometri più avanti, a Musso, la colonna venne bloccata dai partigiani della 52^ brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle detto “Pedro”, che aveva come Capo di SM Luigi Canali detto “Neri” e come commissario politico Michele Moretti, detto “Pietro Gatti”.

I partigiani ed i tedeschi trattarono per un accordo sul transito dei soli germanici, previo controllo nel corso dei quali il finanziere Urbano Lazzaro,detto Bill, scoprì Mussolini che aveva cercato di mimetizzarsi indossando un pastrano della Wehrmacht26.

Il Duce fu catturato alle 15 del 27 aprile; subito dopo venne portato al municipio di Dongo e verso le 17 fu trasferito nella caserma della Guardia di Finanza nella vicina località di Germasino e affidato al brigadiere Giorgio 26 Al termine della guerra il finanziere Lazzaro verrà decorato con medaglia di

bronzo al V.M. per le sue gesta durante la lotta partigiana ed anche per la cattura del Duce e promosso al grado superiore per meriti di guerra. E’ anche autore di importanti pubblicazioni sugli avvenimenti di cui è stato protagonista. Si citano: - Il compagno Bill, SEI, Torino, 1989; - Dongo, mezzo secolo di menzogne, A. Mondatori ed., Milano, 1993; - L’oro di Dongo, A. Mondatori ed., Milano, 1995.

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Buffelli, anch’egli organico alla Resistenza. I partigiani non si sentivano ancora padroni della situazione e temevano che gruppi isolati di armati fascisti potessero tentare colpi di mano per liberare il loro Duce. Occorreva un altro trasferimento con modalità più riservate. Nella notte, quindi, “Pedro”, con la partigiana “Gianna”, con Michele Moretti e con “Neri” prelevò il Duce, al quale venne ricongiunta Claretta Petacci, su sua esplicita richiesta.

Con la testa fasciata per essere reso irriconoscibile, Mussolini venne trasportato con un’automobile, seguita da un’altra con altri partigiani e la Petacci verso un nuovo luogo di detenzione: una baita di San Maurizio di Brunate, sopra Como. Una decina di chilometri prima, a Moltrasio, “Neri” apprese che a Como erano arrivati gli alleati e decise di ritornare sui suoi passi, per non correre il rischio di dover consegnare il prigioniero agli angloamericani.

“Neri” portò quindi i prigionieri a Bonzanigo a casa di una famiglia di contadini che egli conosceva, i De Maria. Era ormai l’alba del 28 e Mussolini e la Petacci vennero lasciati a dormire con due giovani partigiani (“Lino” e “Sandrino”) di guardia.

Intanto la notizia della cattura era giunta a Milano la sera del 27, tramite la Guardia di finanza che nella Lombardia era da tempo parte integrante del CLNAI. La sorte del Duce fu decisa quella sera stessa dalla componente comunista del Corpo Volontari della Libertà e del CLNAI. Solo ad esecuzione avvenuta quest’ultimo legittimerà con un proprio documento l’accaduto.

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Lo stesso Leo Valiani, membro di rilievo del Comitato, era all’oscuro di quanto stava maturando. Al momento della cattura del Duce emersero subito due tendenze: quella sostenuta dalla fazione comunista del CLNAI, che faceva capo a Luigi Longo e Sandro Pertini, che era per la fucilazione immediata, e quella che faceva riferimento agli altri partiti ed al generale Cadorna, che sostenevano l’esigenza di rispettare i patti e affidare Mussolini agli angloamericani, in applicazione dell'articolo 29 dell'armistizio di Cassibile che prescriveva al Governo italiano di consegnare Mussolini ed i gerarchi fascisti agli alleati.

Longo e Pertini, scavalcando quindi gli altri membri del CLNAI, decisero che fosse il colonnello Valerio (Walter Audisio) a partire per la missione, dopo che l’incarico era stato rifiutato dal comandante della legione della Guardia di Finanza, Alfredo Malgeri e da tre capi partigiani dell’Oltrepò pavese, Italo Pietra, Luchino Dal Verme e Alfredo Cavallotti27. A Valerio, ritenuto non del tutto affidabile, fu affiancato su richiesta di Pietro Secchia, Aldo Lampredi, che aveva un passato di emissario del Komintern e di combattente della guerra civile in Spagna.

All’alba del 28, con Lampredi e con 13 uomini delle brigate dell’Oltrepò pavese, Audisio si portò a Como per incontrare, in prefettura il CLN locale. Qui Valerio trovò forti resistenze per farsi consegnare Mussolini, dal momento che i comaschi erano per il rispetto integrale dell’art. 29 dell’armistizio, per cui fu costretto a telefonare a Longo a

27 Fabrizio Bernini, Così uccidemmo il Duce, CDL Edizioni, 1998, pag.62.

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Milano, che gli pose l’aut aut: “o fate fuori lui o sarete fatti fuori voi”.

Valerio allora agì d’iniziativa, e senza curarsi del CLN e di Lampredi, requisì un autocarro con il quale con la sua scorta giunse a Dongo verso le 14. Nella località lariana incontrò Lampredi, che vi era giunto per altre vie, e Bellini delle Stelle, comandante della 52ª brigata.

Valerio aveva fretta e tagliò corto alle obiezioni legalitarie dei partigiani di Dongo: si fece consegnare la lista dei fascisti arrestati ed appose a fianco di 15 di essi una crocetta, che significava pena di morte.

Secondo la versione ufficiale, elaborata a posteriori dal Partito Comunista e fatta propria acriticamente dal CLNAI, il Colonnello Audisio partì poi con Lampredi e Moretti per Bonzanigo per prelevare, a casa De Maria, Mussolini e la Petacci, e fucilarli davanti ad un cancello di una villa di Giulino di Mezzegra, che aveva scelto come luogo ideale per l’esecuzione, mentre si recava all’incontro con il Duce.

Vi sono altre due versioni della morte di Mussolini. La prima, sostenuta da Giorgio Pisanò afferma che Mussolini fu ucciso la mattina del 28 nella camera da letto di casa De Maria per essersi opposto ad un tentativo di stupro a danno di Claretta Petacci effettuato da due partigiani.

Gli indizi addotti da Pisanò sono però poco convincenti.

Credito maggiore, soprattutto rispetto alla relazione ufficiale, può essere concessa alla versione di Fabrizio

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Bernini28 secondo la quale Audisio prelevò il Duce nella casa di Bonzanigo facendogli credere di essere venuto a liberarlo e lo uccise in un viottolo limitrofo all’abitazione, assieme alla Petacci che aveva cercato di frapporsi tra le armi che sparavano e Mussolini. I cadaveri furono poi trasferiti davanti al cancello di villa Belmonte ove sui corpi ormai esamini furono esplosi altri colpi di mitra.

La scarica fatale che troncò la vita di Mussolini e della Petacci partì alle 16,10 del 28 aprile.

Non si saprà mai il nome di colui che sparò la raffica mortale: lo stesso Valerio ha fornito più versioni, in molti punti tra loro contrastanti. La relazione ufficiale del partito comunista indica Valerio come colui che ha fatto fuoco, dopo aver letto la sentenza, usando il mitra di Moretti, dato che il suo si era inceppato e che anche la pistola di Lampredi non funzionava.

Fosse stato o no l’uccisore di Mussolini, Valerio, lasciati sul posto i cadaveri custoditi da “Lino” e “Sandrino”, tornò a Dongo per eseguire le sentenze di morte contro 15 gerarchi fascisti custoditi nel municipio29.

Nonostante l’opposizione di Pier Bellini delle Stelle e del sindaco di Dongo Giuseppe Rubini, appartenente al

28 F. Bernini, Così uccidemmo il Duce, cit, pag.70. 29 Nel gruppo dei 15 vi erano almeno 5 personaggi che ben poco avevano a che

fare con la politica fascista. Si trattava di Goffredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna e Presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista, di Nicola Bombacci, comunista, amico d’infanzia del Duce, che era stato anche amico di Lenin, di Ernesto Daquanno, direttore dell’agenzia Stefani, di Pietro Calistri, un capitano dell’Aeronautica non si sa come finito nella colonna della Flack e di Marcello Petacci, fratello di Claretta.

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CLN, che si dimise per protesta, l’esecuzione ebbe luogo sulla piazza della cittadina, davanti alla folla.

Valerio, che di sua iniziativa aveva ordinato l’esecuzione di Dongo, ebbe anche l’idea di esporre i cadaveri di Mussolini e dei suoi collaboratori a Milano, in Piazzale Loreto, ove un anno prima erano stati fucilati dai fascisti quindici partigiani per rappresaglia ad azione partigiana che aveva coinvolto civili.

Caricò quindi i cadaveri di Pavolini e degli altri su di un autocarro, prelevò strada facendo anche quelli di Mussolini e della Petacci e li scaricò la notte sul 29 aprile sotto i tralicci di un distributore di carburante in quella piazza di Milano.

La mattina del 29 aprile i cadaveri furono esposti, con una macabra scenografia che poi fu considerata disgustosa dalla gran parte dell’opinione pubblica, nazionale e mondiale, aggiungendo ad essi le spoglie di altri quattro fascisti fucilati a Milano e quelle di Achille Starace, dimenticato segretario del PNF dell’anteguerra, passato per le armi a Piazzale Loreto, in mezzo ad una folla isterica che si accaniva contro le spoglie del Duce e dei gerarchi.

Il 27 mattina, appena giunta la notizia che a poche centinaia di metri a sud di Dongo era stata bloccata una colonna di automezzi tedeschi, mentre il comandante della brigata “Pedro” conduceva le trattative con il comandante germanico che si concluderanno dieci ore dopo con il via libera per i soli militari della Flak, il finanziere Urbano Lazzaro organizzò a difesa l’abitato di Dongo e fece minare il ponte immediatamente prima del paese, per rendere

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impossibile un’azione di forza intesa a sfondare il posto di sbarramento dei partigiani.

Nel frattempo i tedeschi avevano ottenuto il libero transito, a condizione di non trasportare con sé nessun italiano.

Al finanziere Lazzaro fu affidato il compito di controllare gli automezzi della colonna che, ad uno ad uno, furono costretti a sfilare tra i partigiani e ad arrestarsi sulla piazza di Dongo per l’ispezione.

Mussolini era nascosto in uno degli ultimi autocarri della colonna travestito da tedesco. Fu riconosciuto da uno dei partigiani incaricati dell’ispezione, Giuseppe Negri da Dongo, che lo riferì a Bill che sulla piazza del paese sovrintendeva alle operazioni.

Lazzaro salì sull’autocarro e scorto Mussolini lo invitò a scendere.

Mussolini lo seguì e si portò verso la parte posteriore del camion per scendere. I soldati tedeschi rimasero fermi al loro posto, mentre Mussolini li guardava e quasi con lo sguardo li invitava a reagire. Poi si è saputo che Mussolini era convinto che alla sua scoperta i militari tedeschi avrebbero dovuto fare uso delle armi. Mussolini fu accompagnato presso il comando della 52^ Brigata Garibaldi che si trovava in un locale del Municipio di Dongo.

Dopo Mussolini furono catturati tutti gli altri ministri al suo seguito e accompagnati pure al Comando della 52^ Brigata”.

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In seguito Bill, mentre stava accingendosi a riprendere le ispezioni agli autocarri tedeschi, dopo aver accompagnato il Duce in municipio, su indicazione di un partigiano, individuava Marcello Petacci, che con la compagna Rita Ricossa, i due figlioletti e la sorella Claretta, cercava di oltrepassare in autovettura il posto di blocco, spacciandosi per il console spagnolo di Milano.

Il finanziere, però, scorrendo i documenti presentati, si accorse che erano falsi e pertanto fece rinchiudere tutti nel municipio, ove vennero anche collocati i numerosi bagagli al seguito.

La circostanza avrà in seguito notevole importanza perché Claretta Petacci portava con sé valori e documenti di Mussolini, che confluiranno nella misteriosa vicenda del cosiddetto “oro di Dongo”, nella quale sia il finanziere Lazzaro sia il brigadiere Antonio Scappin, avranno parte non secondaria.

Ritornato un’altra volta in Municipio, “Bill” esaminò i documenti ed i valori contenuti in due borse, l’una sequestrata al Duce, e l’altra rinvenuta sull’autoblinda dei fascisti bloccata prima di Dongo, dopo che era sfilata l’intera autocolonna tedesca.

Subito dopo Bill si premurò di portare il bagaglio con i documenti ed i valori a Domaso, li depositò presso la filiale della Cariplo, e proseguì il viaggio fino a “Ponte del passo” sul fiume Mera, allo sbocco nel lago di Como.

Qui trovò la colonna della Flak nuovamente bloccata dai partigiani della zona, agli ordini del brig. Antonio

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Scappin, comandante della brigata della Guardia di Finanza di Gera Lario, i cui uomini da tempo avevano aderito alla Resistenza.

Il Lazzaro colà rivide anche il Ten.Col. Fallmeyer irritato per il contrattempo, ma il finanziere, lungi dal farsi intimidire, rilanciò, pretendendo il completo disarmo dei tedeschi, perché con il tentativo di portare con sé Mussolini ed altri gerarchi, era venuto meno ai patti stipulati con Pedro. Dopo trattative che coinvolsero anche il comando della divisione partigiana di Morbegno, i tedeschi si arresero, consegnarono le armi ed in contropartita ebbero il via libera per raggiungere il confine svizzero a Villa di Chiavenna.

Tornata la tranquillità dopo le tragiche giornate del 27 e 28 aprile 1945, la cittadina lariana fu al centro di un affaire politico, finanziario e criminale, passato alla storia con la denominazione di “oro di Dongo”.

Si trattava di denaro e di un’ingente quantitativo di oro a disposizione del governo della RSI che veniva portato al seguito della colonna di fascisti fuggiaschi fermata a Musso - con destinazione Valtellina - ma anche di valori personali, oro e gioielli in possesso delle varie personalità, ed anche di ufficiali tedeschi aggregatisi alla colonna della Flak.

Una parte del denaro e dei preziosi fu sequestrata a Mussolini ed ai gerarchi all’atto della cattura, ma molti valori furono saccheggiati dai partigiani e dalla popolazione di Musso mentre le autovetture sostavano sulla strada per Dongo.

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Altre valige cariche di oro, valuta e gioielli furono nascoste sugli autocarri dei tedeschi che avevano avuto il via libera, ma furono in parte razziate, in parte gettate nelle acque del lago quando l’autocolonna fu nuovamente fermata per un controllo al ponte del Passo sul fiume Mera, alla testata del lago di Como, ed in parte scoperte dalla polizia di frontiera svizzera di Villa di Chiavenna e restituite ai partigiani allorquando i tedeschi riuscirono a riparare nella Confederazione elvetica.

Non si saprà mai il valore complessivo dei beni caduti nelle mani dei partigiani e dispersi in molti rivoli in quelle ore fatali. Per iniziativa di “Pedro”, ”Bill”, “Moretti” e “Neri” fu steso un inventario delle cose sequestrate a Dongo30 e fu operata una ricerca ed un recupero, con metodi piuttosto spicci, che consentì il rientro di una parte delle cose razziate.

Tutti i valori sequestrati furono poi portati alla sede del partito comunista di Como e da allora non se ne seppe più nulla.

Secondo recenti rivelazioni di Massimo Caprara, segretario personale di Togliatti, segretario del P.C.I. all’epoca31, Dante Gorreri, segretario della federazione di Como, consegnò il tesoro all’avvocato Renato Cigarini di Milano che provvide a depositarlo nelle banche elvetiche e

30 L’inventario in seguito fu fatto sparire e di esso non si trovò più traccia. 31 Stefano Lorenzetto, Il Giornale, 25 aprile 2004, pag.15. Secondo Caprara, il

tesoro ammontava a un miliardo di lire dell’epoca, 150 mila franchi svizzeri, 16 milioni di franchi francesi, 66 mila dollari, 2 mila sterline, 10 mila pesetas, 100 chili di oro, 40 chili di argenteria, 4 mila monete d’oro, anelli con brillanti e l’orologio Rolex d’oro di Marcello Petacci.

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poi ad utilizzarlo mensilmente per le esigenze organizzative del partito.

L’intera questione si tinse ulteriormente di giallo in quanto “Neri” (Canali Luigi) e la sua amante “Gianna” (Tuissi Giuseppina) ed altre sei persone furono eliminate in tempi diversi perché avevano minacciato di rivelare la destinazione finale del tesoro. Purtroppo, con l’oro scomparvero preziosi documenti tra cui quelli portati personalmente da Mussolini, che ancora oggi si cercano.

Sulla vicenda dell’oro fu imbastito un procedimento penale che tra rinvii, annullamenti e trasferimenti per legittima suspicione approdò alla Corte di assise di Padova solo nel 1957 e dodici anni di distanza dai fatti, che fu sospeso dopo alcuni mesi per la morte di un giurato, rinviato a nuovo ruolo, ma mai ripreso perché provvidenziali amnistie consentirono di chiudere il caso senza una sentenza definitiva.

L’istruttoria dibattimentale aveva consentito di appurare che il tesoro di Dongo ammontava a nove miliardi di lire del 1957, pari a circa 200 miliardi del 2001 e quindi a 100 milioni di euro e che la parte maggiore dei valori era affluita probabilmente al partito comunista (che ha sempre negato di essersene appropriato) mentre una percentuale inferiore risultava razziata e mai più recuperata32.

Anche in questa vicenda ebbero un ruolo il finanziere Lazzaro ed il brigadiere Scappin. 32 Veggasi al riguardo, U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., che riporta un resoconto

completo del dibattimento svoltosi presso la Corte d’Assise di Padova, dal 29 aprile al 23 luglio 1957.

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Seduto accanto a Mussolini nella sala al pianterreno del municipio di Dongo, Bill aveva esaminato il contenuto della borsa che il Duce portava con sé: si trattava di documenti che concernevano la questione di Trieste, altri si riferivano alle possibili vie di fuga del governo della R.S.I. in Svizzera ed all’attività partigiana nelle zone di confine.

Altri documenti e lettere riguardavano la corrispondenza Mussolini – Hitler, il processo di Verona contro i protagonisti della seduta del Gran Consiglio del fascismo del 20 luglio, nonché le domande di grazia, inevase, dei condannati a morte. Nella borsa infine si trovava un fascicolo che raccoglieva una serie di maldicenze sul conto di Umberto di Savoia ed infine 160 sterline d’oro e 10 assegni bancari per un totale di un milione e settecentomila lire33.

La borsa fu depositata dal Lazzaro presso la filiale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde di Domaso insieme ad altro bagaglio contenente assegni, denaro e valori sequestrato ad un partigiano che li aveva sottratti dall’autoblinda al posto di blocco e nel quale erano stati immessi documenti, denaro e oggetti di valore presi ai gerarchi arrestati a Dongo.

Il Lazzaro ebbe tra le mani un’altra borsa contenete importanti documenti: quando Marcello Petacci stava per essere fucilato dai partigiani agli ordini di Bill, perché il col. Valerio lo credeva Vittorio Mussolini, figlio del Duce, il condannato disse al finanziere che nella camera dell’albergo di Dongo, ove si trovava la sua convivente con i due 33 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., pag. 36 - 37.

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figlioletti, avrebbe trovato i documenti che comprovavano la sua vera identità. Il Lazzaro salì dalla convivente, Zita Ritossa, ed ebbe da lei una borsa con dei documenti.

Ritornato dal Petacci, questi asserì che la borsa non era sua. Egli disse allora a Bill che nel garage dove era ricoverata la sua automobile, avrebbe trovato un’altra borsa con documenti relativi ad un suo brevetto e lettere a lui indirizzate.

L’esame del contenuto della seconda borsa valse a chiarire l’equivoco sull’identità del Petacci, che scampò alla fucilazione in quel momento, ma che fu giustiziato egualmente più tardi su ordine del col. Valerio34.

Entrambe le borse furono portate dal finanziere nel municipio di Dongo, ma di esse se ne persero le tracce.

Successivamente Bill ipotizzò, in ciò confortato dalla testimonianza di un partigiano (Lorenzo Bianchi) che aveva sbirciato i documenti, che nella prima borsa, trovata nella camera della Ritossa, fosse contenuto il carteggio Churchill – Mussolini.

La supposizione si basa sul fatto che Claretta Petacci aveva con sé, consegnatole da Mussolini per metterlo in salvo, l’importante complesso di documenti e che poi la Petacci, per seguire il Duce nel suo tragico destino, l’aveva consegnato al fratello e che quindi la prima borsa che Marcello disconobbe come sua, contenesse il carteggio.

34 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit. , pag. 98.

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Questa circostanza spiega anche perché Churchill, durante il suo chiacchierato soggiorno sul lago di Como nell’estate del ’45, asseritamene per riposarsi e dedicarsi alla pittura, si recò anche presso la caserma sede del comando del circolo (corrispondente all’attuale Comando di Gruppo – n.d.a.) della Guardia di Finanza di Menaggio per incontrarvi il comandante, Ten.Col. Luigi Villani, da cui dipendevano tutti i reparti del Corpo della sponda occidentale del lago di Como, compresa la tenenza di Dongo.

Anche il brigadiere Antonio Scappin ebbe a che fare con documenti, denaro e valori recuperati dai gerarchi e dalla colonna della Flack in fuga verso il confine svizzero.

Già il mattino del 28 aprile due pescatori di Sorico avevano rinvenuto, nel punto in cui il fiume Mera si immette nel lago, una valigia semigalleggiante, che conteneva mezzo chilogrammo di rottami d’oro, mentre sul fondo del fiume, sparsi in circa dieci metri quadrati, si trovavano altri pezzi d’oro.

Raccolti gli oggetti evidentemente scaricati dalla colonna dei tedeschi in fuga i pescatori li consegnarono al brig. Scappin, che a sua volta, su ordine di Bill, li depositò presso la filiale della Cariplo di Domaso.

Il ritiro dei documenti e dei valori dalla filiale della Banca ebbe luogo il 2 maggio su pressione della 52^ brigata Garibaldi, che intendeva ricongiungerli alla parte maggioritaria dell’ “oro di Dongo” già consegnata fina dal 29 aprile alla federazione del partito comunista di Como.

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Lazzaro intendeva, invece, consegnare almeno i documenti al C.L.N.A.I. di Milano e dopo il ritiro dalla banca divise i valori dai documenti e nascose i primi nella cantina di un partigiano del luogo, certo Venini di Domaso ed i secondi, con la collaborazione del brig. Scappin sotto l’altare della chiesa di Gera Lario35.

L’oro e il denaro furono poi prelevati da Bellini delle Stelle e portati anch’essi alla federazione comunista di Como. Il comandante della 52^ brigata voleva che anche i documenti fossero ricongiunti a Como al resto dell’ “oro di Dongo”, ma Lazzaro e Scappin, unici a conoscere il nascondiglio della chiesa di Gera Lario resistettero e tramite il col. Malgeri contattarono il gen. Cadorna, comandante generale del CLNAI, per consegnargli le due valige.

Il trasporto a Milano fu curato dal brig. Scappin36 che però dovette darne preventiva notizia al comando della 52^ brigata Garibaldi.

Fu così che Scappin il 16 maggio venne affiancato nel viaggio dal commissario politico della 52^ Michele Moretti che con il pretesto che la consegna al C.L.N.A.I. doveva avvenire per via gerarchica obbligò il brigadiere a consegnare i documenti di Mussolini al comando della piazza militare di Como, ove essi scomparvero.

Il gen. Cadorna dichiarò in seguito che qualche tempo dopo trovò sul suo tavolo, senza riuscire a conoscerne la provenienza, una cartella aperta ed evidentemente

35 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., pag. 83. 36 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 272.

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manomessa, contenente documenti relativi al processo di Verona.

Tutte le circostanze esposte nelle relazioni dal fin. Lazzaro e dal brig. Scappin risulteranno poi confermate dalla sentenza della Sezione istruttoria della Corte d’appello di Milano, unico atto giudiziario che lumeggia con sufficiente chiarezza la tormentata vicenda dell’ “oro di Dongo”37.

Il tragico epilogo della Resistenza a Dongo lasciò una forte amarezza nel cuore del finanziere Lazzaro. La sera del 27 aprile, ritornato da una breve missione nell’alto lago sulla piazza di Dongo scorse i cadaveri dei gerarchi fascisti fucilati da poco. Egli così trascrive i suoi pensieri di quel momento:

“Mi invade un’improvvisa stanchezza. Silenzioso e solo mi avvio verso il municipio. Una voce martella forte dentro di me e forse non cesserà mai di chiedermi: così volevi Bill? E’ questo il lago, azzurro, dolcissimo?”.38

Subito dopo la fine della guerra, il finanziere Lazzaro fu assegnato all’ ufficio partigiano incaricato di condurre le istruttorie per il rilascio degli attestati ai partigiani combattenti. Esplicò la sua attività con zelo e scrupolosità e si attirò l’odio di molti di coloro che si erano imboscati durante la guerra di liberazione e soltanto dopo la sconfitta dei nazifascisti si erano rivelati patrioti e armati di tutto punto si erano pavoneggiati per le vie della città.

37 La sentenza è riportata in allegato alla citata opera “L’oro di Dongo” di U.

Lazzaro, pag.225 e seg. 38 U. Lazzaro, “Il compagno Bill”, S.E.I., Torino 1989, pag. 173.

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La loro pretesa attività partigiana, però, non aveva retto agli accertamenti successivi ed il mancato riconoscimento era stato imputato a Bill, che riuscì a scampare miracolosamente ad una raffica di mitra proditoriamente esplosa contro di lui da uno di essi.

Anche il finanziere Lazzaro, come tantissimi altri appartenenti alla Guardia di finanza non si vide riconoscere compiutamente il contributo prestato alla lotta di liberazione. Messo in disparte, allo scioglimento dell’ufficio, preferì congedarsi dal Corpo.

Ulteriore amarezza fu procurata al finanziere Lazzaro dal suo coinvolgimento nell’inchiesta penale per i fatti dell’ “oro di Dongo”.

La fase di dibattimento del processo, svoltasi a Padova nella primavera del 1957, dimostrò l’assoluta estraneità ai reati ascrittigli, ma ciò non poté essere consacrato in una sentenza perché il procedimento, come si è detto, non si concluse per la morte di un giurato e poi si estinse per amnistia.

Dopo questa disavventura, Urbano Lazzaro lasciò l’Italia e lavorò all’estero, in Argentina, Sri Lanka, Germania e Brasile. Rientrò in Patria solo in tarda età ed ora vive a Vercelli, circondato dall’affetto dei suoi cari e dei concittadini che conoscono il suo importante apporto alla Resistenza.

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5. Il finanziere Attilio Martinetto, un eroe sconosciuto.

Attilio Martinetto nacque il 1° febbraio 1922 a Castell’Alfero di Asti in una famiglia di ferventi cattolici, che lo indirizzarono agli studi presso il collegio salesiano di Penango, ove crebbe circondato dalla stima e dalla considerazione dei suoi insegnanti e dei compagni.

Si arruolò nella Guardia di finanza il 14 dicembre 1940 e dopo aver frequentato il corso di istruzione fu assegnato al X battaglione mobilitato di stanza in Slovenia.

Il finanziere Attilio Martinetto era giunto a Lubiana il 10 maggio 1941 con un treno partito dal centro di mobilitazione della legione di Milano e fu adibito, con i commilitoni, al controllo doganale del confine della provincia (la Slovenia era stata annessa dopo l’invasione della Jugoslavia dell’aprile 1941 da parte delle forze dell’Asse ed era entrata a far parte del Regno d’Italia con il nome di provincia di Lubiana). Prestò poi servizio a Longatico e Lubiana.

Il X battaglione aveva alimentato la costituzione di dieci tra sezioni e posti doganali e del nucleo di polizia tributaria del capoluogo.

Durante la lunga permanenza del battaglione in Slovenia era sorto, sempre più agguerrito, un movimento di resistenza nazionale, che via via si era sempre meglio organizzato e si era manifestato sotto forma di estesa guerriglia contro gli occupanti.

I partigiani attaccavano presidi isolati e colonne di rifornimento, effettuavano attentati e sabotaggi, ai quali gli

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italiani e i tedeschi rispondevano con rastrellamenti, rappresaglie contro le popolazioni civili ed incendi di casolari e villaggi.

Con l’andar del tempo la spirale dell’odio aveva portato ad una guerra senza quartiere, durante la quale anche i prigionieri, da una parte e dall’altra, venivano passati per le armi.

Il finanziere Martinetto si era trovato coinvolto in questa situazione, ma il suo animo di italiano sensibile e di credente lo portava ad amare riflessioni sulla crudeltà della guerra e sulla superiorità morale di chi combatteva per una causa giusta.

Le sue esperienze in Slovenia gli serviranno per una coraggiosa scelta di campo quando, dopo l’armistizio, si troverà nella Patria invasa e apparentemente senza futuro.

L’8 settembre 1943 fu una tragedia per tutti gli italiani, ma in particolar modo per gli appartenenti alle Forze Armate nei vari territori occupati, quasi tutti catturati dai tedeschi talvolta nel corso di sanguinosi combattimenti ed internati in Germania.

Il X battaglione mobilitato della Guardia di finanza fu uno dei pochi reparti a salvarsi. Con una lunga marcia attraverso territori e popolazioni ostili, i finanzieri giunsero a Trieste ove il comandante della legione, colonnello Marini, riuscì a far entrare clandestinamente i finanzieri nelle caserme della città, avviandoli successivamente al loro

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centro di mobilitazione di Milano, da dove furono poi inviati in licenza in attesa di disposizioni.39

Dopo la scioglimento del X battaglione mobilitato il finanziere Martinetto raggiunse la sua abitazione di Castell’Alfero, portando con se un collega, che in seguito ospitò.

Il 20 settembre 1943, quando nel suo paese sorse il Comitato di liberazione nazionale egli fu tra i primi ad aderirvi, partecipando alla riunione di costituzione assieme ai suoi fratelli e vi assunse un ruolo di rilievo.40

Nell’ottobre passò in clandestinità ed entrò a far parte della 6^ Divisione partigiana Alpi, comandata dal colonnello G. Battista Toselli -nome di battaglia Otello- che operava nel Monferrato e nel novembre, assieme ad un compagno, si portò nelle valli del cuneese ove con un’ardita azione si impossessò di un automezzo tedesco carico di armi e munizioni.

Alcuni giorni dopo incappò in un posto di blocco delle Brigate Nere e dovette fingere, assieme al compagno, di aderire all’ideologia fascista richiedendo di entrare a far parte delle Forze Armate delle R.S.I..

Ebbe salva la vita e fu messo in libertà in attesa dell’incorporazione nella polizia fascista. Si premurò subito di prendere contatto con il colonnello Toselli che lo 39 P.Paolo Meccariello, “La Guardia di finanza nella 2^ guerra mondiale”, Museo

Storico della G. di F., Roma 1992, pag. 389. 40 “Il popolo Nuovo”, quotidiano di Cuneo, 30 giugno 1945, pag. 2.

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incoraggiò e lo consigliò di arruolarsi nelle Brigate Nere per avere un infiltrato nelle file nemiche.

Il Martinetto, per le sue doti di intelligenza e cultura e per aver dimostrato buona padronanza nello scrivere, riuscì a farsi scegliere quale segretario personale del federale di Cuneo, Dino Ronza e si trovò in una situazione privilegiata per conoscere in anticipo l’attività repressiva della Resistenza svolta dalle autorità fasciste della zona.

Nell’inverno e nella primavera tra il 1943 ed 1944 tenne costantemente informato di quanto avveniva a Cuneo il Comando partigiano e svolse propaganda per far affluire alle formazioni di montagna i giovani che eludevano la chiamata alle armi della Repubblica Sociale, nonché fornì preziose informazioni per sottrarre gli appartenenti alla Resistenza alle puntate in forze dei fascisti.

Nel marzo 1944 salì in Val Pesio, al comando della 3^ divisione partigiana Alpi,comandata dall’avvocato Dino Giocosa, dichiarando di essere stato inviato in missione spionistica dall’ufficio politico investigativo (U.P.I.) dalla questura di Cuneo, ma di essere occultamente al servizio della Resistenza.

I partigiani erano diffidenti, e sottoposero il finanziere ad un interrogatorio usando maniere molto brusche: egli riuscì, però, a convincere tutti della sua buona fede e subito fu arruolato nei servizi segreti della Resistenza (Servizio X)41 assumendo il nome di battaglia Timo.

41 ASMGF,fondo gen. Oliva, fascicolo 695/3.

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Innumerevoli furono i determinanti servizi che rese alle forze della Resistenza.

All’inizio della sua attività di infiltrato, segnalò al colonnello Toselli, che si trovava a Vinadio, che dalla federazione fascista di Cuneo erano stati distaccati due emissari dell’U.P.I. che avevano il compito di raggiungerlo e sopprimerlo.

Infatti, due giorni dopo giunsero al Comando della Divisione due studenti di Asti che chiedevano di essere arruolati nella formazione.

Interrogati e messi alle strette, finirono per confessare la loro vera identità ed i loro propositi.

A fine gennaio 1944, cade nelle mani dell’U.P.I. la figlia del colonnello Toselli, che fungeva da staffetta. Informato della cattura, il finanziere Martinetto si recò immediatamente all’albergo Superga, sede dell’U.P.I. e fingendosi comandato di servizio, diede il cambio ad un piantone, riuscendo ad avvicinare la ragazza. Fattale coraggio, la istruì rapidamente sulle risposte che avrebbe dovuto fornire durante l’interrogatorio, dal momento che i fascisti non sapevano dove si trovava il padre.

L’indomani essa venne interrogata a più riprese dal prefetto e dal questore di Cuneo che, ritenutala in buona fede, la lasciarono in libertà.

Nell’estate 1944 la 3^ divisione partigiana riuscì a pubblicare, in clandestinità, un periodico, “Rinascita d’Italia” nel quale da un lato s’indottrinavano i partigiani

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combattenti ed i simpatizzanti non in clandestinità, e dall’altro si schernivano i fascisti di Cuneo.

Il federale Ronza, infastidito dalle punzecchiature, ritenne di rispondere per le rime sul settimanale della federazione “Piemonte Repubblicano”, ma il Martinetto riuscì a copiare il testo delle repliche e farlo pervenire ai partigiani, che così potevano regolarsi nei toni da tenere nella polemica.42

L’operazione di maggior rilievo svolta dal finanziere nella sua veste di agente del Servizio X furono le informazioni che egli inviò alla 3^ divisione Alpi con il foglio nr. 99 extra del 22 ottobre 1944.

Egli comunicò che era partito da Cuneo e Torino un reparto composto da 500 militi della R.S.I. con tre carri armati, un’autoblinda, tre mortai ed undici armi automatiche pesanti, con l’intenzione di concentrarsi attorno a Bra alle 11 dello stesso giorno per attaccare alle ore 14 le difese esterne dei partigiani che avevano occupato all’inizio di ottobre 1944 Alba, creandovi una repubblica autonoma.

Il giorno successivo sarebbe stato sferrato l’attacco alla città con tre colonne di cui forniva la direzione di attacco e la consistenza.

Il Martinetto indicò anche la parola d’ordine del primo e del secondo giorno, i centri di alimentazione logistica e diede contezza dell’ordine del Comandante dell’operazione

42 G.Giaccardi “Le formazioni R nella lotta di liberazione”, l’Arciere, Cuneo,

1980, pag. 143.

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di passare per le armi immediatamente tutti coloro che fossero stati sorpresi armati.

Grazie a queste informazioni l’attacco alla città di Alba fallì, per cui i repubblicani dovettero ritirarsi in attesa di rinforzi per rinnovare l’operazione all’inizio del mese successivo.

L’attività informativa del finanziere infiltrato non si limitava alle notizie di interesse militare, ma anche a quelle sulla situazione politica.

In particolare, egli informava il comando partigiano sugli avvenimenti negli ambienti fascisti, sul modo di neutralizzare le infiltrazioni degli agenti avversari, sull’imminente pericolo che correvano persone ed organizzazioni operanti in clandestinità.43

Quando, nel novembre 1944, le Brigate Nere attaccarono in forze Alba, riprendendone il controllo, il Martinetto comunicò regolarmente i piani di attacco al comando della divisione in Val Pesio, che li trasmise al comando delle Langhe prima di ogni combattimento e trattò, inoltre, lo scambio dei prigionieri, accompagnandoli salvi tra le file dei partigiani.

Il 25 novembre 1944 un documento sequestrato presso il recapito del partigiano Ettore Garelli, rese edotti i fascisti dell’attività del finanziere. Furono entrambi imprigionati nelle carceri politiche di Cuneo. I due, nella sola notte che Garelli trascorse in cattività prima di essere giustiziato, si incontrarono per breve tempo. 43 Ibidem, pag. 120-121.

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A notte alta, quando dormivano anche i carcerieri, il Martinetto, che i fascisti ancora dubbiosi non avevano rinchiuso con il catenaccio, si abboccò con il compagno per formulare una linea difensiva comune.

Fu interrogato per primo il Garelli e la deposizione che fornì fu identica a quella del finanziere, ma il primo non tornò più in carcere. Lo stesso giorno fu fucilato sul piazzale della stazione di Cuneo.

Martinetto continuò la sua vita in carcere, sospettato ma non ancora condannato. Cercò la fuga e ci riuscì.

Salì sul treno per Briga che aveva preso assieme alla giovane moglie che lo aveva aiutato, per raggiungere le formazioni partigiane delle montagne, ma vista arrestare la consorte, si fece avanti dichiarandosi lui solo responsabile dei contatti con i partigiani, affinché Anna Maria Comandù di soli 17 anni -questo era il nome della sua sposa- potesse riconquistare la libertà.

Da quel giorno, era il 9 dicembre 1944, il finanziere non ebbe più scampo. Rivide la moglie, prigioniera anch’essa, soltanto il giorno di Natale. Era il loro primo Natale assieme e fu anche l’ultimo.

Sotto gli sguardi dei carcerieri parlavano cercando di confortarsi a vicenda, facendo riferimento alla loro intensissima fede in Dio. Martinetto rievocò l’aiuto che aveva dato al parroco di S. Chiaffredo di Busca, che aveva creduto di salvare dalle rappresaglie nazifasciste, sperando che la vittoria della Resistenza e l’aiuto dell’Altissimo riuscissero a trarli da quella tragica situazione.

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Ben presto però il finanziere si rese conto che non aveva speranza di salvarsi.

Fu fucilato a 23 anni sul retro del cimitero di Cuneo assieme ad altri partigiani alle 8 del 25 aprile 1945, quando la Resistenza e gli anglo-americani sommergevano ogni residua difesa nazifascista.

Fu l’ultimo crudele sussulto del fascismo morente.

Il finanziere Martinetto, prima che gli legassero le mani, incise sull’albero contro cui fu fucilato, una croce.

Sua moglie e sua madre si recarono in pellegrinaggio sul luogo del supplizio alcuni mesi dopo e sul pioppo videro spiccare nella corteccia bianca, una croce.

Anche il finanziere Attilio Martinetto, come gran parte dei suoi colleghi che avevano dato determinante apporto alla Resistenza, non ebbe riconoscimenti ufficiali per il suo eroismo.

Di lui restano alcune struggenti lettere alla moglie ed ai familiari inviate nei giorni precedenti all’esecuzione e pubblicate sul bollettino parrocchiale di Sant’Alfero nel numero di giugno 194544 e nel libro “Lettere di condannati a morte della Resistenza”.

Quale omaggio alla sua memoria riporto l’ultima lettera, scritta alla moglie alle 24 del 24 aprile 1945 e con un’ultima annotazione alle 7:30, mezz’ora prima della fucilazione:

44 A.S.M.G.F. fondo gen. Oliva, fascicolo 695/3.

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Amore mio diletto,

è mezzanotte e ancora stiamo chiacchierando allegramente. Siamo tutti cinque assieme e si scherza quasi allegramente. Come già ti ho detto è stato qui D. Monge a cui ho consegnato il portafogli e gli indumenti, D. Oggero, parroco di S. Ambrogio (Cappellano delle Carceri) e D. Panori. Ci siamo confessati e speriamo quest’ultimo ci porti ancora la Comunione domattina.

Anna Maria cara, forse tu piangerai a leggere questa mia. Se piangi per te, il tuo avvenire troncato, passi, lo comprendo, ma se piangi per me, no! Ti sbagli. Anna Maria, nella tua ultima mi esortavi ad avere fede in Dio; non credi quanto mi senta vicino a Lui in questi momenti! La morte? Eterno spauracchio di noi mortali! Spauracchio? Si, ma per la materia, che m’importa! La materia? E cosa può la materia?

Quante volte nei momenti felici ho pensato ad un momento simile! Ricordavo di aver letto proprio stasera L’ultimo giorno di un condannato di Victor Hugo, che forse si trova ancora a Faione tra i miei libri.

Tante volte basandomi su esso ho pensato un momento di morire. Quanto ero sciocco!! Solo ora comprendo. Sai Anna Maria cosa rimane all’ultimo di tutto? Solo quello che è santo e puro della vita. L’affetto dei genitori (in essi tua madre), l’affetto di quanti mi vollero bene e che ora avvalori sotto un’altra luce; la luce che ti proviene dall’affetto per Dio.

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Amore mio, ti ho sempre amata tanto, tu lo sai, ora ti amo più che mai perché ora maggiormente si accostano i due amori, per te e per Dio.

Anna Maria, forse mi dirai che potevo ben dirti altre parole di maggior conforto, lo so, ma quale conforto può essere maggiore per te se non il sapere con quanta serenità tuo marito si prepara a vedere Dio.

Sono solo contento che Dio ha avuto pietà di me e ancora all’ultimo momento mi ha mandato un sacerdote. Anna Maria sapessi mai cos’è la vita vista della soglia dell’eternità, quale miseria, te lo posso ben dire io con quale orrore si guarda al nostro passato! Se non fosse quella stessa fede che ci fa provare simile orrore, a sostenerci, che si farebbe mai? La fede ci fa provare orrore, ma nell’istante stesso, ci dice che Dio è infinitamente grande.

E allora si implora la sua misericordia.

Quando realmente hai provato la sensazione della sua misericordia e l’hai provata con maggiore fede delle altre volte, perché sai che è l’ultima volta che Dio ti dice: “Ego te absolvo”, ecco che ti guardi sicuro davanti a te e non temi più! Sono sicuro che tu e mamma alle 7 pregherete quasi certamente per me, per il mio ritorno, rassegnatevi al volere di Dio, io a quell’ora penserò a voi che pregherete per me e morirò sereno.

Amore mio, dal portafogli ho trattenuto la tua fotografia e quell’immagine in cartapecora che mi desti quando eri anche tu in carcere.

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Le ho nella tasca interna della giacca, sul cuore, saranno simbolo dell’ immenso affetto per te, che mi porto nella tomba. Al dito la fede, la porto con me come ricordo di quella fede promessati quasi un anno fa e che mai ho tradito.

Anche tu conservami nel cuore e soprattutto nell’anima.

Prega, prega, prega tanto per me, non dubitare che io pregherò tanto per te, perché Dio ti conceda quella felicità che purtroppo io non ti ho potuto dare. Vedi che io sono sereno, spero di esserlo anche tra poco davanti ai miei carnefici, sii forte anche tu nel tuo dolore e rendi forti anche i nostri genitori.

Domani forse conoscerò anche tuo papà.

Se Dio mi vorrà con Lui, con tuo papà veglierò su te. Non ti dico addio… perché come già ti ho detto fra noi non vi è addio, resta e sii la consolazione dei nostri genitori, specie di tua mamma che è sola e poi… arrivederci, il tuo

Attilio

Sono le 6 del mattino. Aspettiamo la Comunione. Sono calmo e ti bacio di tutto cuore.

Tuo

Attilio

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6. Il Colonnello Persirio Marini.

Il colonnello Persirio Marini nacque a Ferrara il 28 Maggio 1893 e si arruolò nella Guardia di Finanza con il grado di finanziere il 10 gennaio del 1912 .

Dopo il corso allievi prestò servizio alla Legione di Bologna ma nel 1914 fu ammesso alla Scuola Sottufficiali uscendovi come vicebrigadiere all’inizio del 1915, venendo assegnato alla Legione di Bari, rimanendovi però per breve tempo perché assegnato al 10° battaglione mobilitato che poi dal 22 Maggio 1915 aveva raggiunto la sua zona sul basso Isonzo.

Nel luglio del 1915 il sottobrigadiere Marini partecipò ai sanguinosi attacchi al monte Sei Busi, sul Carso, con risultati deludenti nonostante il valore di comandanti e gregari, guadagnandosi una medaglia di bronzo al valor militare perché “nell’attacco di forte posizione nemica guidava un plotone con singolare abilità e coraggio, riuscendo a raggiungere l’obiettivo nonostante il tiro di artiglieria e fucileria. Manteneva poi la posizione conquistata, sebbene fosse soggetta al tiro del nemico che causava forti perdite, dimostrando energia ed ardimento.”

Il 1° luglio 1916 fu dichiarato vincitore nel concorso per l’ammissione alla Scuola Ufficiali di Caserta, dalla quale uscì con il grado di sottotenente il 28 Febbraio 1918, venendo subito assegnato in Albania al XVI battaglione mobilitato, con il quale partecipò all’ultima fase della 1° guerra mondiale.

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Dall’ Ottobre 1917 il XVI battaglione, con il XVIII, il XIV, un battaglione di fanteria della brigata Tanaro, una compagnia mitraglieri ed una formazione albanese, aveva costituito un complesso tattico al comando del maggiore Porta, comandante del XVI.45

Tra il maggio e l’estate 1918 il raggruppamento prese parte ad un ciclo operativo in collaborazione con unità francesi dell’ Armèe d’Orient, contro truppe austriache attestate sul massiccio del Tomori, dal quale partivano puntate offensive austriache contro le nostre linee di comunicazione.

Il 6 luglio le compagnie del XVI battaglione conquistarono all’arma bianca la vetta del Mali Viluscia, con la partecipazione di ufficiali e truppa.

Il sottotenente Marini partecipò all’azione e si meritò una croce al valore militare perché “avanzava con il proprio plotone sotto violento fuoco nemico, incitando con la voce e con l’esempio i propri dipendenti, entusiasmandoli e trascinandoli sulle posizioni nemiche, che teneva poi saldamente.46

Il ciclo operativo del gruppo Porta proseguirono in agosto con l’occupazione di Berat e si conclusero in settembre sulle alture del Goiran, mentre la guerra volgeva al termine.

45 D. Olivo, L’azione della RGF nella guerra 1915-18, Gaetano Priula ed.

Palermo, 1921, pag.217. 46 ibidem, pag. 222.

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Anche qui il tenente Marini, si meritava un’altra croce al valor militare, questa volta alla testa di una compagnia, perché: “costretto a manovrare da una posizione incendiata dal nemico e fortemente battuta da mitragliatrici e dall’artiglieria dava per un’intera giornata esempio di fermezza e di ardimento, riuscendo così a tenere alla mano i propri dipendenti ed a respingere con gravi perdite vari attacchi nemici ed a mantenere la posizione stessa”.

Rimpatriò al termine della guerra unitamente al battaglione, che fu destinato a Gorizia per costituirvi il circolo che doveva controllare il confine orientale in corrispondenza della displuviale dell’Isonzo.

L’11 settembre 1919 fu assegnato alla 30° compagnia autonoma, fin dal dicembre 1918 a Fiume, su richiesta del comando del corpo interalleato per provvedere alla vigilanza costiera ed alla polizia portuale e doganale della città del Quarnaro. Vi rimase per circa un anno, anche durante l’occupazione della città da parte di Gabriele D’Annunzio e fu anche decorato con la medaglia di legionario fiumano.

Nel 1921 venne assegnato alla neo costituita Scuola nautica di Pola, ma vi rimase per poco tempo in quanto fu trasferito il 25 settembre alla tenenza di Rovigo ed il 1° dicembre alla tenenza di Tarvisio ove rimase fino al 1923, allorquando fu trasferito al nucleo di polizia tributaria investigativa di Fiume.

Nel 1926 promosso capitano a scelta, fu assegnato prima alla compagnia di Brunico e poi, il 1° settembre 1926, al nucleo di polizia tributaria investigativa di Trento.

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Il 1928 lo trovò aiutante maggiore in 1° del Comando del 3° Gruppo di Legione di Napoli .Il 1° gennaio 1931 fu assegnato a Genova quale comandante della compagnia esterna, ma quattro mesi dopo assunse l’incarico di aiutante maggiore in 1° del Gruppo legioni della sede, ove prestò servizio fino all’aprile 1933,quando promosso a scelta maggiore, venne inviato al comando dell’importante circolo di Fiume.

La sua carriera dopo i turbinosi trasferimenti degli anni precedenti, procedette con maggiore tranquillità. A Fiume permase per quattro anni, e dopo la promozione a tenente colonnello fu trasferito alla legione di Torino in qualità di relatore, tappa necessaria per poter conseguire la promozione a colonnello.

Nel 1940 fu assegnato al circolo di Brescia ed il 25 febbraio 1942 fu nominato comandante del XV battaglione mobilitato che operava in Albania e dall’ottobre 1942 in Kossovo.

Promosso colonnello a scelta ordinaria, venne destinato al comando della Legione di Trieste, ove rimase per tutta la durata della guerra.

Il colonnello Persirio Marini l’8 settembre 1943 si trovava nel comando di Legione, in via Vittorio Emanuele a Trieste.

Il giorno successivo, avuta la notizia che i tedeschi stavano invadendo la Venezia Giulia, si mise in contatto con il comando della Difesa Territoriale per avere direttive, ma

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si sentì comunicare che nessuna resistenza doveva essere opposta alla Wehrmacht.

Egli tuttavia rimase sul posto tentando di salvare il salvabile, riuscì a far partire per Venezia le poche unità navali efficienti, sperando che la città lagunare fosse nelle mani dell’autorità legittima, ma diede l’ordine ai comandanti di autoaffondarsi in caso contrario, cosa che essi fecero prima di entrare nella laguna di Venezia, ormai occupata.

Egli riuscì anche a soccorrere ed a trarre in salvo i militari delle brigate di frontiera della legione e del IX battaglione mobilitato durante la marcia di rientro in Patria dalla Slovenia perché in condizioni di non poter più proseguire e li rilevò con gli autocarri dell’amministrazione sull’altopiano carsico.

Erano stati tutti disarmati e spogliati dalle uniformi e derubati dei propri averi dai partigiani slavi.

Alcuni giorni dopo si ritroveranno a Trieste molti militari dei reparti dell’Istria, ove era calata un’ondata di partigiani sloveni e croati che avevano spogliato di tutto, perfino delle divise, i finanzieri e le loro famiglie.

Il colonnello Marini li soccorse li ricoverò assieme ai familiari nelle caserme del Corpo.

Nei primi giorni dell’occupazione tedesca, ignorando la situazione nel resto d’Italia e lo sviluppo delle operazioni militari degli alleati, ideò un piano di impiego per gli uomini alle sue dipendenze, oltre mille, che avrebbero

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dovuto partecipare all’insurrezione generale da scatenare al momento opportuno alle spalle dell’invasore.

Tuttavia, la notizia sull’estensione dell’occupazione tedesca in Italia e sull’andamento delle operazioni anglo-americane fecero passare d’attualità i piani predisposti.

Pertanto, per snellire gli esuberi che si erano creati nella legione, egli provvide d’iniziativa ad inviare in congedo i militari richiamati delle classi più anziane.

Nei primi giorni di ottobre 1943 il colonnello riunì tutti i militari in servizio a Trieste nella caserma Postiglioni per precisare la posizione della Guardia di finanza, che egli così sintetizzò: “Rimaniamo al nostro posto per proseguire, in obbedienza agli ordini superiori, il nostro servizio, ma anche per la tutela della popolazione e per concorrere ad affermare, con la nostra presenza, la italianità di questa Terra.” 47

Tutti i presenti approvarono unanimemente queste direttive che condividevano con lo spirito e con il cuore.

Di conseguenza Marini diramò, con circolari riservate, disposizioni affinché fossero tutelati gli interessi delle popolazioni, soprassedendo, nell’esecuzione del servizio d’istituto, dagli accertamenti di imposte di immediata riscossione, che sarebbero state a beneficio degli occupanti germanici; fossero intensificati gli accertamenti per i danni di guerra, in modo che potessero essere soccorsi con sollecitudine coloro che erano stati particolarmente colpiti;

47 ASMSFG fascicolo personale del col. Marini.

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fosse accuratamente controllato il movimento del sale, genere di cui vi era grave carenza.

La soppressione delle brigate di confine della legione, che prima dell’ 8 settembre erano pesantemente impegnate nella controguerriglia, e l’invio in congedo dei richiamati, rese disponibile una rilevante quantità di armi e munizioni che, secondo i bandi emanati, avrebbero dovuto essere consegnate ai tedeschi.

Il colonnello invece, provvide ad occultarle in vista dell’insurrezione generale.

Furono anche sottratti ai tedeschi valori, materiali del vestiario e dell’equipaggiamento, che furono dati in consegna ai militari ammogliati che poterono nasconderli nelle loro abitazioni.

Purtroppo questa misura non fu sufficiente a salvare i materiali, perché all’inizio del 1945 i nazisti, probabilmente su delazione di un traditore, scoprirono il gioco, perquisirono le abitazioni dei militari, sequestrarono tutti gli oggetti nascosti e minacciarono di internamento in Germania il colonnello Marini e il maggiore Calogero, gestore dei materiali.

Mentre a fine 1943 egli si trovava in licenza, a sua insaputa, il generale Fiocca, comandante della zona di Trieste, non riuscì ad opporsi ai tedeschi che pretesero la costituzione di una compagnia di sicurezza alle dipendenze delle S.S. incaricata di tener sgombra dalle forze partigiane la rotabile Trieste-Fiume.

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Il colonnello dovette, sotto minaccia di deportazione, provvedere alle turnazioni quindicinali della compagnia di sicurezza, che peraltro era gestita dai tedeschi che deportarono in Germania circa quaranta finanzieri,che con vari pretesti si erano sottratti al servizio.

Un’altra compagnia di sicurezza con compiti di polizia stradale fu costituita su ordini germanici nel maggio 1944 con finanzieri di Trieste e dislocata nella provincia di Udine.

Marini, che era in contatto con il CLN del Friuli, pose al comando della compagnia il s.ten. Giuseppe Osana, del quale aveva piena fiducia perché conosceva i suoi sentimenti patriottici, e gli conferì l’incarico di contattare il CNL di Genova, ove aveva sede il reparto, per favorire il movimento di Liberazione, fornendo i partigiani di armi, munizioni e materiale di equipaggiamento e dando loro notizie sui movimenti tedeschi nella zona.

Lo consigliò altresì di favorire il passaggio nelle formazioni dei patrioti dei finanzieri, segnalandoli poi come catturati dai partigiani stessi, dimodochè le loro famiglie potessero beneficiare del trattamento economico dei prigionieri.

Fu così che molte armi, munizioni e materiali di equipaggiamento - parte di ciò che era stato occultato ai tedeschi- furono forniti alla brigata partigiana Osoppo, che furono armati ed equipaggiati i primi nuclei di patrioti portatisi in montagna e che molti finanzieri passarono nel Corpo Volontari della Libertà.

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Purtroppo la polizia germanica scoprì l’attività del s.ten. Osana, ma l’ufficiale si sottrasse miracolosamente alla cattura saltando dal secondo piano della caserma di Gemona ed inquadrandosi nelle fila della brigata Osoppo.

In seguito a questi fatti, e per il continuo passaggio di militari della compagnia, ridotta ormai a pochi elementi, nella Resistenza, il reparto fu sciolto.

Marini nel timore che fosse scoperta anche la sua attività, giacché la fornitura delle armi non era rimasta del tutto segreta, pensò di passare in clandestinità, ma rinunciò per non abbandonare gli uomini della sua legione, che voleva tenere riuniti ed all’erta per avere una forza consistente per dare apporto decisivo all’insurrezione generale, ormai prossima.

Nell’inverno 1944/45, il freddo, le privazioni e le difficoltà di rifornimenti unitamente ai feroci rastrellamenti dei nazifascisti, portarono allo scioglimento di alcune formazioni partigiane nelle quali erano impegnati numerosi finanzieri.

Per sottrarli alla cattura, egli li riassunse nel Corpo (erano circa sessanta) facendoli apparire negli atti d’ ufficio come evasi dalla prigionia dei partigiani.

Contemporaneamente con il pretesto di disporre di ausiliari per i servizi interni alla Legione sottrasse diversi giovani dal servizio militare o dal servizio obbligatorio del lavoro.

Su questi fatti un Ufficiale del Corpo, che

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lo sostituì durante una licenza nel comando della legione, denunciò il colonnello per sabotaggio al Comando Generale di Brescia, ma il rapporto non ebbe esito perché Marini si rivolse al comandante in Seconda gen. Bagordo, che mise a tacere la vicenda.

Il 16 Marzo 1945 il gen. Fiocca venne collocato in congedo ed il colonnello Marini dovette assumere anche il comando della V Zona, ma per le difficoltà di comunicazione egli non poté esercitare alcuna azione di comando sulla dipendente legione di Udine e si limitò al controllo della sola legione di Trieste.

Riuscì comunque ad evitare la denuncia per diserzione di una trentina di militari di Udine, disposta dal Comando Generale di Brescia.

Intanto tutti avevano la sensazione di avvicinarsi alla fase conclusiva della Resistenza.

Nella convinzione che il concorso più importante della Guardia di Finanza alla Liberazione si sarebbe dovuto dare nella città di Trieste, Marini provvide a rinforzare di effettivi il capoluogo facendovi affluire ufficiali e finanzieri da Pola e dall’Istria.

Prevedendo, poi, che nei momenti decisivi le comunicazioni con i reparti fuori sede sarebbero stati impossibili, raccomandò agli ufficiali interessati di prendere accordi con i comitati locali di liberazione per agire in comunione di intenti e di sforzi.

Dal canto suo aveva già preso accordi con il CNL della Venezia Giulia ed in alcune riunioni segrete, alle quali

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intervenne anche il tenente colonnello Corradino Giummo comandante della Polizia Economica della regione, furono indicati i compiti da affidare al corpo.

Fu stabilito che la legione avrebbe dovuto cedere ai partigiani le armi in esubero, che erano poi quelle occultate ai tedeschi, e che avrebbe dovuto operare in due dei cinque settori in cui era stata divisa la città, occupando e presidiando gli impianti di maggiore importanza.

La pianificazione fu molto accurata.

Dapprima si provvide a preparare psicologicamente il personale a mezzo di apposite cellule preparate dal colonnello e costituite con sottufficiali di provata lealtà e coraggio.

Successivamente furono apprestati i mezzi, rimettendo in efficienza le armi, e fu costituito un battaglione di formazione, affidato al tenente colonnello Giummo da impiegarsi alle dirette dipendenze del colonnello Marini unitamente ad altri ufficiali e finanzieri non inquadrati per la difesa della caserma e per incarichi speciali.

La forza complessiva impiegabile per l’insurrezione ammontava a 22 ufficiali e 600 militari.

Furono eseguite accurate ricognizioni e furono redatti i piani d’impiego con particolare riguardo alla protezione degli impianti portuali che dovevano esser prioritariamente preservati dalla distruzione dei tedeschi.

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Contemporaneamente venivano rese efficienti e consegnate al CVL 500 tra mitragliatrici e moschetti, munizioni e bombe a mano.

In esecuzione dei piani operativi, il 29 aprile 1945, al segnale convenuto gli appartenenti alla legione della Guardia di Finanza, davano inizio ai combattimenti che portarono alla occupazione della stazione radio, la stazione ferroviaria, la centrale elettrica di Barcola ed altri impianti ed edifici di pubblica utilità.

Particolarmente accaniti risultarono i combattimenti per la conquista della centrale telefonica, ove furono catturati un ufficiale e 36 soldati tedeschi e del molo fratelli Bandiera ove venivano disarmati e fatti prigionieri 15 marinai germanici che tentavano di distruggere gli impianti portuali.

Presso lo stesso comando di legione, in via Vittorio Emanuele, che poi fu incendiato da bombe tedesche, fu sostenuto un combattimento durante il quale fu ferito gravemente il brigadiere Foti.

Il primo maggio entrarono in città le truppe di Tito, al fianco delle quali i finanzieri, su ordine del colonnello, continuarono a combattere contro i residui nuclei tedeschi che ancora opponevano resistenza.

La completa liberazione di Trieste aveva luogo alle ore 18 del 2 maggio 1945, con l’ingresso delle truppe neozelandesi alle quali si arrendevano gli ultimi nuclei nemici.

Il CNL della Venezia Giulia rendeva merito della liberazione della città al colonnello Marini ed ai suoi

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uomini, con una lettera di elogio inviata al Comando Generale del Corpo.

Purtroppo la vittoria della Resistenza invece di costituire per i finanzieri il coronamento dei loro sforzi costati sangue e sacrifici, fu l’inizio di un periodo di gravi umiliazioni ed amarezze, perché i partigiani slavi, contro ogni senso di giustizia per coloro che avevano combattuto al loro fianco ed in violazione di ogni diritto, nel pomeriggio del 2 maggio arrestarono tutti i militari trovati nelle caserme, ne fucilarono sull’orlo delle foibe di Basovizza oltre cento e deportarono gli altri nei campi di concentramento della Croazia e della Slovenia, dai quali ben pochi tornarono.

Subito dopo le forze di occupazione di Tito emettevano un bando che ordinava a tutti i cittadini italiani, compresi i partigiani, di consegnare loro le armi.

Il colonnello Marini era sfuggito alla cattura per puro caso; si rivolsero a lui i finanzieri rimasti liberi ma sbandati perché le caserme erano state saccheggiate ed occupate, per chiedere consiglio, temendo il rischio di essere anch’essi catturati e deportati.

Il colonnello disse a tutti che sarebbe andato per primo a consegnare la sua arma e che essi si sarebbero dovuti regolare di conseguenza se egli non fosse più tornato.

Non fu trattenuto e pertanto si recò subito al comando di città per chiedere la liberazione dei suoi uomini.

Gli fu risposto che erano stati imprigionati per errore e avrebbero provveduto a rilasciarli, ma siccome la

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liberazione ritardava, si recò dal colonnello Vodopivez, vice-comandante delle forze di occupazione, per perorare ulteriormente la loro causa.

Illustrò per iscritto l’azione svolta dalla Guardia di Finanza, fece appello al diritto internazionale e concluse che i suoi uomini erano responsabili soltanto di aver eseguito i suoi ordini e che perciò se non venivano liberati, anch’egli avrebbe dovuto essere arrestato.

Ottenne una nuova promessa che non fu mantenuta.

Ciò nonostante, tutti i suoi sforzi furono tesi ad ottenere la liberazione dei suoi uomini.

Si rivolse reiteratamente alla autorità alleate, a tutti i comandi e comitati jugoslavi, al rappresentante del ministro delle finanze sloveno, al Vescovo di Trieste.

Sebbene fatto oggetto di vessazioni da parte di elementi irresponsabili sloveni, rimase al suo posto per continuare a perorare la causa dei suoi uomini ed assisterli nel limite delle sue possibilità.

All’inizio di giugno alcuni deportati furono rilasciati e successivamente sempre a seguito delle sue insistenti perorazioni seguirono altre liberazioni, ma purtroppo la maggior parte non tornò.

Il calvario del colonnello Marini terminò il 12 giugno con il trapasso dei poteri dalle autorità jugoslave a quelle alleate.

Anche il colonnello Marini, come gli altri finanzieri protagonisti della Resistenza non ebbe alcun riconoscimento

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per i suoi sacrifici e per il suo eroismo, né in termini di carriera né di riconoscimenti morali. Anzi alcuni malevoli dipendenti, che ritenevano a torto di essere stati da lui denunciati ai tedeschi, lo denunciarono per collaborazionismo alla Corte Straordinaria di Assise di Trieste, che al termine di un procedimento penale lo assolse con la formula più ampia e con espressioni elogiative della sua azione.

Finita la guerra Persirio Marini, come tutti, rientrò nell’ombra: nel giugno del 1945 fu assegnato al comando della legione di Udine che resse fino al 30 giugno del 1948 ricostituendo i reparti che dovevano presidiare il confine orientale e meritandosi per questa attività un encomio solenne dal Comandante Generale.

Assegnato alla legione di Bologna, vi rimase fino al 28 maggio 1953, allorquando, colpito dai limiti di età, fu collocato in congedo.

Si ritirò ad Udine, luogo di origine della consorte, ove si spense il 12 giugno del 1986, all’età di 93 anni.

Durante la carriera ha svolto un’apprezzata attività pubblicistica. Ha pubblicato alla fine degli anni quaranta il volume “Tecniche di polizia tributaria”, corredato due anni dopo dalla stampa di “Formulari per la compilazione di verbali” che ebbero notevole successo di critica e ampia diffusione nel Corpo. Nel 1986 il Centro Stampa della Scuola di polizia tributaria di Roma ha pubblicato una sua memoria intitolata “Una fiamma gialla ricorda”, nella quale narra con stile piano e piacevole le vicende salienti della sua vita.

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7. Il colonnello Ugo Finizio.

Ugo Finizio nacque a Napoli il 14 aprile 1893 ed a 18 anni si arruolò nel grado di finanziere, presso la Legione Allievi di Maddaloni. Al termine del corso d'istruzione fu assegnato alla Legione di Napoli, ma subito dopo superò il concorso per l'ammissione alla Scuola Sottufficiali di Caserta, ove, al termine degli studi fu nominato sottobrigadiere il 30 giugno 191348.

Prestò servizio presso la legione di Bologna e poi alla legione allievi di Roma, ma il 1 ° luglio 1916, avendo superato il concorso per la nomina ad ufficiale, iniziò i corsi della Scuola di Caserta, al termine dei quali fu nominato sottotenente il 1° marzo 1918.

Fece a tempo a partecipare alla 1° guerra mondiale al comando di un plotone dell' VII battaglione mobilitato che si distinse sul Basso Piave durante la battaglia del solstizio del giugno 1918, passando anche alla controffensiva e meritando la prima decorazione al Valor Militare alla Bandiera del Corpo.

Nei combattimenti si distinse anche il Sottotenente Finizio, che si guadagnò una medaglia di bronzo al V.M., con la motivazione dalla quale risulta che alla testa del suo plotone spezzava la resistenza della linea nemica, facendo prigionieri e catturando armi e munizioni. Dopo aver consolidato le posizioni, continuava l'attacco verso altri obiettivi in profondità.

48 ASMSGF. Fascicolo personale di Ugo Finizio.

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Dopo l'armistizio del 4 novembre 1918, seguì il battaglione destinato al presidio del valico del Brennero e, subito dopo, fu destinato al servizio d’istituto nella provincia di Bolzano, formando l’omonimo Circolo della Guardia di Finanza.

Nel 1919 rientrò a Roma quale istruttore nella Legione Allievi, ma nel 1921 fu destinato prima alla tenenza di Roma Termini e poi alla tenenza volante dazi di consumo della capitale.

Nel 1922 fu trasferito a Perugia ove comandò la tenenza e poi il neo costituito nucleo di polizia tributaria.

Nel 1924 fu assegnato al Comando Generale e l'anno successivo al nucleo di polizia tributaria di Napoli, ove rimase tre anni, anche nel grado di capitano conseguito nel frattempo.

Il 1 ° gennaio 1929 lo vide al comando del nucleo di polizia tributaria di Venezia, ma la promozione a maggiore lo costrinse ad un ulteriore trasferimento, questa volta all'Accademia del Corpo quale insegnante.

Dopo due anni, il 1 ° novembre 1936, fu trasferito al comando del circolo, prima interno e poi esterno, di Genova, ma nel 1939, appena conseguita la promozione a scelta a tenente colonnello, rientrò a Roma quale ufficiale addetto al Comando Generale e subito dopo comandante del nucleo centrale di polizia tributaria.

La sua lunga militanza nella polizia tributaria lo aveva reso particolarmente esperto in questo specifico ramo dell'attività del Corpo e grazie alla sua altissima

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preparazione professionale, unita ad una spiccata capacità investigativa, si era meritato nel corso della carriera un numero, eccezionale per quei tempi, di ricompense morali, in particolare: 6 encomi solenni, 26 encomi semplici e 44 premi in denaro, tutte con motivazioni che mettevano in luce la sua attitudine al servizio d'istituto49.

Alla vigilia dell'armistizio, conseguita la promozione a colonnello il 30 aprile 1943, il successivo 16 giugno fu assegnato al comando della Guardia di Finanza presso il Ministero della Produzione Bellica e quindi, con la dissoluzione del dicastero dopo l'8 settembre, si trovò senza un incarico a Roma e senza potersi sottrarre alla sorte del personale del Miniproguerra, che era passato alla dipendenza del Ministero della Difesa Nazionale, ebbe l'ordine di trasferirsi a Possagno, in provincia di Treviso, in attesa di disposizioni.

Finizio, per evitare di collaborare con i tedeschi in un settore delicato per la condotta della guerra, si rivolse al comandante generale interinale del Corpo, generale Poli, per essere riassegnato al Nucleo Centrale P.T.I., ma quest'ultimo nulla poté per l'opposizione del Ministero della Difesa Nazionale. Egli ebbe pertanto l’ordine di trasferirsi a Possagno, in provincia di Treviso, in attesa di disposizioni.

Dovette quindi partire per Possagno, ove si rese conto che l'organizzazione per il controllo della produzione bellica era nella confusione più assoluta e, poiché egli si trovava in completa inattività, chiese al Comando 49 A.S.M.S.G.F., fascicolo personale di Ugo Finizio.

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Generale, nel frattempo trasferito a Brescia, di essere reimpiegato nel Corpo. Il Comandante Generale, generale Cerrato, lo assegnò al proprio comando di Brescia con le funzioni di addetto all'ufficio servizio e di P.T.I. , che il colonnello assunse all'inizio di dicembre 1943.

L'incarico gli consentiva una certa libertà di azione, della quale il colonnello approfittò per prendere contatti con il C.L.N., sede di Lugano, per il tramite di suo fratello, tenente Antonio Finizio, che comandava la tenenza di Chiasso internazionale, e di un suo amico, il commissario Eliseo Ventura, capo dell'ufficio italiano di P.S. di Chiasso. I due lo misero anche in contatto con un altro patriota, il dott. Luigi Battisti, figlio del martire trentino e nel dopoguerra sindaco di Trento.

In diverse riunioni presso la caserma del Corpo di Chiasso, che per motivi di servizio era ubicata in Svizzera e quindi fuori dell' "occhiuto" controllo delle SS., fu elaborato un piano d'impiego dei militari della Guardia di Finanza per il controllo della frontiera al momento dell'insurrezione generale.

Tra gennaio e maggio 1944 il colonnello si ammalò e rimase lontano dal servizio, mentre il Comando Generale istituiva il Comando della Polizia Economica, con sede centrale a Crema e nuclei provinciali, costituiti con elementi tratti quasi esclusivamente dal Corpo e posti alle dipendenze dirette del Ministero dell'Interno, una diretta ingerenza dei tedeschi.

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Il Comando Generale non poteva emanare alcuna direttiva riguardante le operazioni e doveva limitarsi all'assegnazione ed al ripianamento del personale50.

Il colonnello dovette invece occuparsi del contrasto alle iniziative del Ministero dell'Interno per allontanare dal confine i reparti della Guardia di Finanza, che erano accusati, a ragione, di favorire gli espatri dei perseguitati dai nazifascisti.

Come si è visto, il Comando Generale nulla poté per scongiurare il pericolo, perché i tedeschi, d'iniziativa, disposero che i finanzieri fossero esonerati dal controllo confinario, ad eccezione di pochi valichi doganali, e sostituiti dalla Guardia Nazionale Repubblicana di frontiera, la cosiddetta confinaria.

Nella seconda metà del 1944, Finizio venne in contatto con il tenente de Laurentiis che, per incarico di Ferruccio Parri, intendeva attrarre nell'attività cospirativa la maggior parte del Comando Generale di Brescia.

In diverse riunioni, alle quali intervenne anche il generale Somma, capo di SM del C.V.L., fu discusso il contributo che il Corpo avrebbe potuto dare alla Resistenza e la possibilità che i finanzieri defezionassero in massa per formare in montagna autonome formazioni partigiane.

Poiché il progetto presentava notevoli difficoltà di realizzazione e dal momento che emerse subito che un più importante contributo alla lotta al nazifascismo poteva essere fornita dal Corpo rimanendo compatto in servizio 50 P. Meccariello, “Storia della Guardia di Finanza”, cit., pag. 231

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nelle proprie sedi, le proposte del C.V.L. furono lasciate cadere.

Il 16 Marzo, mentre gli alleati iniziavano la battaglia finale che avrebbe portato al crollo di ogni resistenza nazifascista in Italia, il Comando Generale si spostò da Brescia a Milano, nella caserma di via Melchiorre Gioia.

Il comando era costituito dal gen. Cerrato e da pochissimi collaboratori, essendosi eclissata la maggior parte del personale di Brescia.

Il collasso della R.S.I. coinvolse anche il Comando Generale: il 16 aprile il generale Cerrato abbandonò Milano e raggiunse la sua abitazione di Venezia, in attesa di eventi.

Il personale ancora rimasto fu raccolto dal colonnello Finizio che lo mise a disposizione del colonnello Malgeri, con il quale il primo da tempo stava collaborando per elaborare il piano d'impiego della Guardia di Finanza per l'insurrezione generale, da attuare quando il C.L.N.A.I. ed il C.V.L. lo avrebbero ordinato.

La redazione definitiva del piano ebbe luogo nel corso di una riunione nell'abitazione del colonnello Finizio, in via Giustiniani n.8, con l'intervento dell'avv. Pezzotta, delegato militare del C.L.N. di Lugano, in rappresentanza del generale Cadorna, dell'avv. Werner che aveva accompagnato il Pezzotta nel viaggio di entrata in Italia, aiutato dal tenente Finizio di Chiasso e muniti per il loro soggiorno a Milano di tessere di riconoscimento per sottufficiali del Corpo falsificate, del maggiore Egidio

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Liberti, capo di SM del Comando Piazza di Milano del C.V.L., dei tenenti Finizio, Ognibene e Maccaluso, nonché dei brigadieri Dell'Acqua e Rocco.

Avvertito a Brescia che il ten. de Laurentiis era stato arrestato dai tedeschi a Milano, si interessò subito per la sua liberazione. Tramite un parente, si adoperò per favorire trattative in corso a cura dell'Arcivescovado di Milano, contattando un elemento delle SS disposto ad essere corrotto, al quale fu corrisposto anche un anticipo in denaro.

Tuttavia questi contatti furono superati dalla liberazione del tenente nell’imminenza dell'insurrezione generale.

Comunque Ugo Finizio collaborò con il colonnello Malgeri alla predisposizione del piano di operazioni per la giornata del 25 e 26 aprile, all'attività di indottrinamento del personale ed alla formazione dei reparti che avrebbero dovuto partecipare alla liberazione di Milano.

Nel corso delle operazioni al colonnello Finizio fu affidato il comando delle forze di riserva che dovevano difendere la caserma della Guardia di Finanza da possibili assalti dei nazifascisti e intervenire a sostegno dei reparti esterni che avessero trovato difficoltà ad assolvere il loro compito.

Nei giorni successivi egli si recò a Ponte Chiasso per organizzare la vigilanza alla frontiera secondo il piano stabilito e quindi transitò in Svizzera, in accordo con il C.L.N. di Lugano, per ottenere il sollecito rimpatrio dei

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militari della Guardia di finanza internati nella Confederazione, allo scopo di ricostituire i reparti di confine ed i relativi servizi i controllo di polizia fiscale, in concorso con gli agenti di P.S. agli ordini del commissario Ventura e con il rinforzo di partigiani.

Unitamente al commissario ed al tenente Finizio si abboccò con il colonnello Bonzanico dell'esercito svizzero, al quale facevano capo i campi di internamento per i militari, ed ebbe assicurazione che i finanzieri, i carabinieri e gli agenti di P.S. sarebbero stati al più presto avviati in Italia attraverso il valico di Ponte Chiasso.

Egli, poi, organizzò a quella sede un comando di tappa e mise a disposizione dell'Ordine di Malta i locali per un posto di ristoro ed una cucina, radunando tutto il materiale abbandonato dai tedeschi.

Il 23 giugno 1945 fu assegnato al comando della legione di Milano dal colonnello Malgeri, nel frattempo nominato Comandante Generale della Guardia di Finanza dell'Alta Italia, mantenendo l’incarico fino al successivo 16 novembre, quando fu chiamato dal Ministro delle finanze al dicastero per l'organizzazione dei servizi di polizia tributaria investigativa per la finanza straordinaria.

Decedette improvvisamente il 24 febbraio 1946 mentre stava profondendo tutte le sue energie per l'organizzazione dei nuovi servizi.

La famiglia ebbe il conforto di vedere la compatta partecipazione ai funerali di gran parte degli ufficiali residenti a Roma, con alla testa il Comandante Generale e

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della resa degli onori da parte di un battaglione di formazione comandato dal suo antico collega nelle gesta dell' VIII battaglione mobilitato nelle gloriose giornate di giugno luglio 1918.

8.Conclusione

Ho illustrato le vicende di alcuni dei finanzieri partecipanti alla Liberazione per la loro azione, talvolta determinante per il buon esito di importanti e complesse operazioni e per l’esempio delle loro virtù civiche e morali.

Altri ve ne erano di eguale statura morale ed eroismo, e tutti hanno contribuito alla concessione della medaglia d’oro al V.M. alla Guardia di Finanza perché come recita la motivazione: “ testimoniano il tributo di sacrificio, di valore e di sangue offerto da una eletta schiera di Fiamme Gialle combattenti, alla nobile causa della libertà”.

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INTERVENTO DEL COORDINATORE AMB. SERGIO ROMANO

Grazie Signor Generale Luciani per averci dato questi profili, per aver contribuito a rendere la vicenda più umana; alla fine della sua relazione il Generale Meccariello aveva ricordato che la G. di F. partecipò ai moti delle 5 giornate milanesi e la persona che può meglio collegare gli avvenimenti del 1848 con quelli del 1945 è il Professor Rumi.

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Prof. Giorgio Rumi

I FINANZIERI NELLA LIBERAZIONE DI MILANO

18-22 marzo 1848-25 aprile 1945

I fatti, come diceva un celebre giornalista, sono noti. Il giorno della liberazione, qualche centinaio di finanzieri, armati ed inquadrati regolarmente dai loro ufficiali, occupano la Prefettura e quindi altri centri nevralgici: nel crollo di un regime, sostenuto nella sola città di Milano da almeno 12.000 uomini, un corpo del vecchio Stato italiano, il solo sopravvissuto perché anche i carabinieri erano stati da mesi disciolti e ampiamente perseguitati, e in grado di offrire all'autorità legittima il C.L.N.A.I., una transizione per quanto possibile ordinata e sicura. Gruppi estremisti e spirito di fazione sono rapidamente emarginati, e l'Italia che nasce dimostra agli alleati che con 2 milioni di soldati ( è bene ricordarlo) avevano distrutto nella Penisola il potere nazifascista, di essere in grado di autogovernarsi.

Ma chi sono i 400 finanzieri del colonnello Alfredo Malgeri? La Guardia di Finanza è una presenza troppo nota, quasi un elemento del paesaggio naturale nelle nostre province, da rischiare di passare inosservata. C'era da due secoli nel vecchio Piemonte col nome originario di "Legione Reale Leggera" ma c'erano corpi analoghi in tutti gli stati italiani preunitari, con forti similitudini derivanti dall'identità delle funzioni rispettive. Al crollo dello Stato italiano, l’8 settembre 1943, anche la terza legione “del

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Carroccio", si trova in una situazione difficilissima. Potrebbe sbandarsi, come le altre formazioni militare nostre e l'eventualità sarebbe agevolata dalla particolare strutturazione del Corpo: il confine svizzero, esteso dal Lago Maggiore allo Stelvio, comporta la distribuzione dei militari in una quantità di brigate e distaccamenti, anche di pochi uomini, comandati da giovani graduati, lungo la frontiera. Ci sono i consistenti nuclei cittadini, ma è la forza distribuita sul territorio che subisce l'impatto della catastrofe. I militari della Regia Guardia di Finanza assistono con trepidazione allo sbandamento dei commilitoni sotto le stesse stellette, e alla fuga di migliaia e decine di migliaia di uomini in Svizzera, protetti dalle leggi internazionali che obbligano all'accoglienza. La tentazione di fare come gli altri è forte, e qualcuno cede. L’insieme però tiene, e tocca al loro comandante prendere decisioni ultime. Il colonnello Malgeri spiega all'occupante, non precisamente ben disposto verso di noi, che a norma di leggi e regolamenti la guardia non può venir meno ai suoi compiti di custodia del confine e di polizia economica sulla profondità del territorio. Si pensi solo all'annona, alla necessità di disciplinare il vettovagliamento della popolazione..... "repubblichini " e germanici non vogliono certo caricarsi di simili, peraltro vitali incombenze, per cui non hanno inclinazione nè competenza. Malgeri difende il corpo, gli uomini affidatigli e un certo stile di presenza, creando una situazione unica, ancorché fragile: un pezzo del vecchio Stato vive e funziona (proprio come vuole la legge di guerra) nell'Italia occupata. Le milizie della cosiddetta Repubblica di Salò non amano i finanzieri, si verificano scontri e prevaricazioni. Malgeri crede nel corpo e lo

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difende con energia e con successo: superata la crisi dell’8 settembre, ci si può guardare intorno e pensare al futuro.

Vertice e base della Legione fanno una scelta, che è quella della resistenza. I legami s'intessono e si moltiplicano. Le opzioni si differenziano. C'è quella, pura e semplice, dello sbandamento del corpo: gli addetti alla zona di confine possono agevolmente rifugiarsi Svizzera, gli altri possono dissolversi nella popolazione civile, soprattutto gli ammogliati che hanno casa e salario in borghesi. Malgeri e i suoi quadri resistono, il corpo deve continuare a vivere e ad esistere come forza. Altri, nella resistenza, pensano a far confluire i reparti nelle aree liberate. Malgeri nega il ripiegamento del corpo, anche a prescindere dalle difficoltà tecniche dell'operazione. Lentamente si mette a fuoco un’altra possibilità: l'uso della legione, o in primo luogo delle aliquote concentrate Milano (400 uomini), come un insieme da usare per un colpo decisivo al momento del crollo nazifascista. Redige allora un "piano di insurrezione della Regia Guardia di Finanza di Milano" (si noti l'appellativo che richiama esplicitamente alla continuità dello Stato), antecedente la fine febbraio 1945. Scopo: "intervenire con le armi, in modo palese, tempestivamente, quando la rivolta sarà già in atto”. Malgeri conosce possibilità e limiti della forza di cui dispone: poche centinaia di moschetti modello '91 e pistole. Non dispone di armi pesanti. Per essere efficace, deve inserirsi in un quadro generale di sollevazione per colpire, unito, un obiettivo specifico e politicamente decisivo. Il C.L.N.A.I. approva in tutte le sue componenti: anche ai comunisti risulta utile poter disporre di una forza compatta e disciplinata che assicuri una transizione certa e priva di quelle incognite che

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gruppi estremi e furore popolare potrebbero introdurre. All’ora X, di fronte all’insurrezione aperta ed al probabile collasso del potere nazifascista, 407 Guardie di Finanza organizzate su quattro piccoli battaglioni, uscirebbero dalle caserme e occuperebbero, dopo la prefettura, la radio, la Banca d'Italia ed altri luoghi determinanti per la convivenza. E così è stato, con poche perdite e gran soddisfazione del gen. Cadorna del C.L.N.A.I. nel suo complesso. Gli alleati, presenti nella penisola, non dimentichiamolo, con 2 milioni di combattenti, apprezzano la conclusione di un biennio lotte, che prelude ad una rapida cessione dei poteri alle autorità italiane ed a una “relativa normalizzazione” del fronte meridionale di una guerra ancora in corso.

Ma il ruolo della finanza non si arresta nell’episodio milanese che pur dimostra lungimiranza patriottica e capacità militari non comuni. Mussolini ed un piccolo nucleo di collaboratori è fuggito a Como: pensa alla Svizzera, che peraltro non da alcun segno di disponibilità ospitale. A Chiasso e poi verso Oria (Gandria per i federali) il confine è inequivocabilmente chiuso. Non resta che inoltrarsi sulla statale 36 “Regina”, verso la Valtellina e – chissà - il Tirolo e la Germania. Ma al km 46 c'è Musso ed un costone roccioso che finisce nel lago con un salto di 800 metri a perpendicolo sullo specchio acqueo. Una posizione insuperabile, come sapevano celti e romani, goti e longobardi. Giangiacomo de’ Medici, fratello di papa Pio IV e zio di Carlo Borromeo, ne aveva fatto una fortezza che solo l'imperatore Carlo V riuscì ad eliminare, ma con la forza della diplomazia.

Mussolini ignora la lezione del passato, e la sua

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colonna – un modesto reparto della contraerea tedesca - si arresta di fronte ad una esile barricata tenuta da partigiani locali, che hanno altresì minato alle loro spalle un ponte, rendendo assolutamente insuperabile l'ostacolo. A capo degli insorti c'è un finanziere della Tenenza di Dongo, Urbano Lazzaro detto Bill. Il tenente colonnello germanico Fallmayer si rende conto della situazione, e cede gli italiani della sua colonna in cambio del libero transito verso i passi alpini. E’ il finanziere Lazzaro a scovare Mussolini sotto il pastrano grigio azzurro della Flack e a consegnarlo al “sindaco della liberazione”, dottor Giuseppe Rubini. Per ovvie ragioni di sicurezza, dopo un breve soggiorno in municipio, Mussolini è trasferito nelle casermetta del distaccamento G.di F. Germasino, un piccolo paese sopra Dongo, e ivi custodito dagli uomini delle brigate di Dongo e Gravedona, oltre che da artigiani locali. Il “signor Mussolini”, come lo chiama il sotto brigadiere di Germasino, ha una lunga conversazione con gli uomini della guardia, di cui esiste una lunga dettagliata relazione. E’ una scena, questa della conversazione tra il duce del fascismo e primo Maresciallo dell'impero, e il brigadiere Buffelli della brigata di Dongo, che tocca Roosevelt, Stalin ed Hitler, ed il futuro del mondo, che attende ancora l'abilità di un regista di fiction televisive per renderla in tutto il suo spessore umano e la valenza simbolica. Poi, farà irruzione la “grande politica”, con le sue ragioni esclusive, e anche Mussolini nè verrà travolto.

Il ruolo della Guardia di Finanza nei due episodi, quella metropolitano di Milano e quello di Dongo non deve stupire e, comunque, non è dovuto a ragioni di amplificazioni apologetiche. Esso risponde a motivi strutturali: il presidio

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al frastagliato confine italo - svizzero, il controllo di un territorio economicamente assai sviluppato con un pulviscolo di realtà imprenditoriali e seri problemi di vettovagliamento, la presenza di una forza militare ben conosciuta alle grandi masse popolari e non compromessa con le sanguinose vicende del biennio. L’intelaiatura del vecchio Stato sopravvive nella tempesta, e facilita (non ostacola, come ha ideologicamente sostenuto tanta storiografia) l'avvento del nuovo.L’episodio del 1945 non sorprende lo storico. Come una maggior conoscenza del territorio avrebbe denunciato subito l'impraticabilità della strada statale 36 “Regina” ad una forza ostile, così una miglior frequentazione della storia lombarda avrebbe insegnato qualcosa sul comportamento di una organizzazione militare popolare, radicata nel profondo della società nostra, in caso di crisi istituzionali incontrastabili. Scrive Carlo Cattaneo nel suo Archivio Triennale che il corpo da Guardia di Finanza passò con gli insorti fin dal primo giorno della rivoluzione milanese nel marzo 1948. Sono, nella porzione lombarda del regno lombarda-veneta, centinaia e centinaia di uomini, se solo nella provincia di Como erano, sempre a detta di Cattaneo, ben 900 elementi. Il passaggio all’insurrezione di una forza militare tanto diffusa sul territorio ebbe decisivi effetti. Trascina con sé, nelle campagne ove non c’erano grossi reparti austriaci, anche le brigate rurali del I.R. Gendarmeria e, armate con i fucili dei sedentari, non idonei al combattimento, importanti aliquote di volontari. C'è poi da valutare la presenza delle uniformi imperiali a sostegno delle municipalità insorte, col clero che attraversa ancora compattamente la stagione degli entusiasmi per il

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patriottismo di papa Mastai Ferretti....

Si mette in moto, dal Lago Maggiore al Garda, una sorta di alluvione patriottica che preoccupa assai il feldmaresciallo Radetzky: Milano è insorta e non dà segni di cedimento, dal Ticino occhieggiano i piemontesi, ma soprattutto l'insurrezione generalizzata a Nord della metropoli ambrosiana preme sulle comunicazioni tra Milano e Vienna. Le campagne, lungi dall'essere fedeli all'imperatore di Vienna, inutilizzabili quindi per un progetto di restaurazione dell'ordine per dir così dal basso, rischiano di rappresentare una trappola per il suo esercito, o meglio per quelle 70%-80% che è rimasto sotto le bandiere. Ma, dal punto di vista austriaco, la situazione è intollerabile: un reggimento italiano, il Ceccopieri di Cremona, ha fatto causa comune con la folla, uno boemo, il “Prohaska”, di stanza a Como, non ha combattuto, la stessa Gendarmeria, composta di lombardi, spesso e volentieri è passata con gli insorti, la Guardia di Finanza, tutta lombarda, l'ha preceduta in corpo..... si comprende che un vecchio e saggio militare come Radetzky abbandoni Milano per ritirarsi su Verona, allo scopo di salvare le comunicazioni col resto del vacillante Impero degli Asburgo.Nel 1848, come nel 1945, la Guardia di Finanza è rimasta fedele al popolo da cui è tratta e, con lungimiranza, ha aiutato nascenti, libere istruzioni a consolidarsi per il bene comune. Nessuno, tra l'una e l'altra data, sapeva come sarebbe andata a finire, però questi umili militari hanno seguito una vocazione profonda di libertà e di indipendenza. Elogio migliore, se abbiamo riguardo ai tempi ed alle circostanze, sarebbe difficile formulare.

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INTERVENTO DEL COORDINATORE AMB. SERGIO ROMANO

Il Professor Perona collocherà le vicende di cui stiamo parlando in un contesto più vasto, che è il contesto europeo in cui di insurrezioni non vi fu soltanto quella, ve ne furono altre. Credo che farà cenno anche a quelle.

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Prof. Gianni Perona

RESISTENZA E INSURREZIONE: L’ESPERIENZA DELLA GUARDIA DI FINANZA A MILANO

La tradizione liberale del diritto di resistere e d’insorgere

Se si vuole considerare, a distanza di sessant’anni, la vicenda della liberazione di Milano nel 1945, e al suo interno il ruolo della Guardia di Finanza, per coglierne non solo l’importanza storica, ma anche quella simbolica, conviene partire da un punto di vista apparentemente astratto e remoto.

Cioè porci la domanda di quali sono, nel sistema di riferimenti ideali e di valori secondo il quale si orientavano persone come il colonnello Malgeri e gli uomini che agivano ai suoi ordini, i principi che potevano consentire loro di agire all’interno di una situazione insurrezionale, assumendo una totale autonomia dalla morente Repubblica sociale e tuttavia mantenendo la coesione organizzativa e disciplinare di un corpo militare. Quale tradizione poteva autorizzare ai loro occhi un’azione di resistenza e la partecipazione ad un’insurrezione?

Non si tratta, evidentemente, di ricostruire qui una specifica formazione culturale individuale, né di richiamare, di necessità troppo sommariamente, una tradizione europea di cultura politica abbastanza scontata. Tuttavia, una

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possibilità in più di capire ci è forse data se riconduciamo alle sue radici la nozione stessa di resistenza, evocando i pochi testi fondamentali sufficienti a definirla nel modo in cui la intesero coloro che, nell’inverno 1940, in Francia, adottarono per primi questo termine per definire la lotta contro l’oppressione e la rivendicazione della libertà51. “Resistenza” fu allora una parola che apparve nuova e avrebbe poi avuto immensa fortuna, tanto da far dimenticare le lontane origini a cui vogliamo per un momento risalire. Certo ai patrioti francesi del Musée de l’homme sarebbe bastato evocare il 1789 per ricollegarsi alla storia autoctona. Ma di fatto essi richiamavano (e in buona parte ne erano consapevoli) una più antica e già consolidata tradizione, quella inglese, consacrata dal successo nel cambiamento dinastico operato nel 1688 52, e per altro verso confermata, un secolo più tardi, dalla secessione delle colonie americane.

Per una formulazione teorica del diritto di disobbedienza passiva (resistance) e di attiva insurrezione

51 Furono le ricercatrici e i ricercatori del Musée de l’Homme di Parigi quelli che

diedero per primi risonanza al termine di Résistance, intitolando ad esso la rivista clandestina che cominciarono a pubblicare nel dicembre 1940. Il gruppo fu smantellato dai Tedeschi, che fucilarono parte dei suoi membri nel febbraio 1942, e deportarono i superstiti.

52 Lo stesso John Locke, nella Prefazione a quello che chiamiamo The Second Treatise of Civil Government, stabilirà il rapporto diretto tra il suo testo e l’avvento di Guglielmo d’Orange. Egli dirà a proposito delle proprie argomentazioni: “I hope [they] are sufficient to establish the throne of our great restorer, our present King William; to make good his title, in the consent of the people, which being the only one of all lawful governments, he has more fully and clearly, than any prince in Christendom; and to justify to the world the people of England, whose love of their just and natural rights, with their resolution to preserve them, saved the nation when it was on the very brink of slavery and ruin.” Il grassetto è nostro.

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(rebellion53) si poteva insomma ricorrere almeno a John Locke che, specialmente nel suo secondo Treatise of Civil Government, ai capitoli XVII-XIX, dedicati all’usurpazione, alla tirannide e alla dissoluzione dei governi, aveva esaminato ampiamente le possibilità di disobbedienza al sovrano, e considerato indiscutibile il diritto di resistere e ribellarsi sia al conquistatore ingiusto, sia al sovrano che avesse abdicato ai suoi poteri o li avesse trasferiti a una potenza straniera. Un secolo esatto separa le riflessioni del politico teorico (e militante) inglese dalle affermazioni del 1789, su cui si fonda in età contemporanea la tradizione politica francese ed europea che è, su questo tema, d’importanza basilare. Il punto di partenza è un concetto alto di resistenza, che trova espressione sintetica in due testi. Il primo è redatto il 26 agosto 1789, quando si proclama la prima dichiarazione enunziante “i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”54. L’articolo 2 recita: “Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione” [grassetto nostro]. La “resistenza” è dunque uno dei diritti dell’uomo e, così connessa con i principi fondamentali, con il diritto di opporsi all’oppressione, essa si collega poi in maniera diretta con il problema cruciale della costituzione. All’articolo 16 leggiamo: “Ogni società nella quale la 53 Resistance occorre nove volte nel testo di Locke, e rebellion undici, quasi tutte

negli ultimi capitoli. Per il computo delle occorrenze si è usato il testo elettronico del Liberty Library of Constitutional Classics, della Constitution Society, all’ULR http://www.constitution.org/jl/2ndtreat.htm.

54 Questa citazione, come le successive, è tradotta dall’autore di questo intervento, sulla base dei testi francesi pubblicati in Jean TULARD, Jean-François FAYARD, Alfred FIERRO, Histoire et Dictionnaire de la Révolution française, 1789 – 1799, Paris, Robert Laffont, 1998 (2ème édition).

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garanzia dei diritti non è assicurata, [dunque neanche il diritto di resistenza, n. d. a.], né la separazione dei poteri determinata, non ha alcuna costituzione”. Non c’è dunque costituzione democratica in un paese che non garantisce i diritti fondamentali, e poiché la resistenza è uno di questi diritti: si può stabilire, connettendo gli articoli 2 e 16 della dichiarazione, che se una resistenza è necessaria, ne deriva anche la necessità di una nuova costituzione. La rivoluzione francese produsse anche un altro testo d’importanza capitale, che viene ricordato meno spesso. Si tratta della seconda redazione dei diritti dell’uomo, quella del 6 messidoro dell’anno I, il 24 giugno 1793.

La si trova nel preambolo della Costituzione dell’anno I, la quale non fu mai applicata, ma che contiene delle indicazioni precorritrici straordinarie, che ora siamo abituati a considerare come normali55. Qui interessano tuttavia soprattutto gli articoli 33, 34 e 35: articolo 33: “La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo”; articolo 34: “C’è oppressione contro il corpo della società, quando uno solo dei suoi membri è oppresso; c’è oppressione contro ogni membro, quando il corpo della società è oppresso”; articolo 35: “Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del popolo, il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”. Pare necessario suggerire

55 È infatti la prima dichiarazione in cui sono affermati il diritto al lavoro (articolo

21: “[…] La società deve assicurare la sussistenza ai cittadini in difficoltà […] procurando loro il lavoro”) e il diritto all’istruzione (articolo 22: “L’istruzione è la necessità di tutti. La società deve favorire con ogni suo potere i progressi della ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini”), principi che non erano esplicitati nel 1789.

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preliminarmente questa chiave di lettura, perché questa è una interpretazione generale del linguaggio politico, non strettamente legata alla congiuntura della seconda guerra mondiale. Se infatti si vanno a leggere i documenti del 1944 –1945, specialmente gli appelli all’insurrezione, senza comprendere la dimensione di tutela dei diritti fondamentali, che è connessa intrinsecamente con le nozioni di resistenza e di insurrezione, essi si riducono quasi a istruzioni tecniche per operazioni militari partigiane, che avrebbero potuto compiersi o no a seconda delle opportunità. La riscoperta del diritto di resistenza, radicato in un’antica tradizione di rivendicazione dei diritti fondamentali, è invece la base su cui si poté fondare, in condizioni di emergenza e in tempi straordinariamente brevi, un diffuso – per usare una parola sansimoniana - “catechismo democratico”.

Da forme di “resistenza” non diverse erano nati i moti costituzionali nell’Europa dell’Ottocento e nell’Italia del Risorgimento, e contro questa tradizione intrinsecamente democratica si era consapevolmente mosso il fascismo, anche nelle sue versioni più concilianti e moderate, non senza giovarsi di apporti intellettuali diversi (basti pensare all’avversione di Benedetto Croce per i diritti del 1789). Insomma Malgeri (e molti altri come lui) si trovava, quasi senza guida, nella necessità di ricollocarsi sulla via maestra di tre secoli di riflessione e di militanza politica liberale, per recuperare il dominio di uno spazio all’interno del quale la coesistenza di spirito civico e di disobbedienza al potere fosse pensabile. Sorprendente è che ci riuscisse, e come lui i molti che non videro contraddizione tra la partecipazione

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alla rivolta e la disciplina militare56. Il che non vuol dire che questa consapevolezza fosse raggiunta subito e per intero, ma ne rimane prova il fatto che, nel ripensarla come memorialista, egli la iscrivesse interamente e senza residui visibili nella prospettiva della recuperata democrazia. Nel che sta poi il valore fondante della Resistenza. Due precisazioni debbono poi essere aggiunte. La prima, ovvia, è che la specifica tradizione rivendicata dalla Guardia di Finanza milanese, di una propria partecipazione alle giornate dell’insurrezione antiaustriaca di Milano nel 1848, contribuiva a rafforzare la convinzione che fosse lecito scegliere, in nome dei diritti civili fondamentali, tra l’esercizio di un’autorità iniqua e la solidarietà con la cittadinanza. La seconda precisazione inoltre tempera e limita la disponibilità alla resistenza, e trova anch’essa precedenti nella tradizione liberale. Si tratta dell’esortazione alla cautela, quale si trova formulata, ad esempio, nella dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie americane:”La prudenza invero indicherà che governi stabiliti da lungo tempo non dovrebbero essere cambiati per cause superficiali e passeggere; e conseguentemente ogni esperienza ha mostrato che gli uomini sono più disposti a 56 Questo breve excursus non si propone evidentemente come uno strumento per

individuare immediatamente le rotte seguite dai personaggi storici nel brevissimo periodo, ma si vuole qui rivendicare l’uso di categorie della politica, accanto e di preferenza rispetto a categorie morali e moralistiche più suggestive che utili, come la “zona grigia”, per definire il senso e l’approdo dei loro percorsi. Le articolazioni fattuali della vicenda delle forze di polizia, e le loro possibili interpretazioni nella storiografia della Resistenza e della Repubblica sociale, sono discusse accuratamente da Pierpaolo Meccariello, in Pierpaolo MECCARIELLO, In nome dello Stato. Le forze militari di polizia in Italia 1943-1945, Roma, Ente editoriale per il Corpo della Guardia di Finanza, Museo storico della Guardia di Finanza, Comitato di studi storici, 2005, Introduzione, pp. 5-11 e passim.

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sopportare, finché i mali sono sopportabili, che a farsi giustizia da sé abolendo le forme a cui sono avvezzi.57” Questo richiamo non è un semplice espediente retorico, ma l’espressione antica di quella profonda riluttanza a discostarsi dall’obbedienza al governo legale, che formerà una sorta di contrappunto ricorrente alla vicenda dei finanzieri milanesi e lombardi.

L’insurrezione di Milano e la legalità

Le memorie di Alfredo Malgeri, che sono il documento fondamentale per leggere l’intervento della Guardia di Finanza nella liberazione di Milano58, e i suoi precedenti nei venti mesi di Resistenza, richiedono questa premessa storica dalla lunga prospettiva, proprio perché offrono al lettore un testo insolitamente spoglio di motivazioni esplicitamente argomentate. Cauto, pieno di giusti e fondatissimi scrupoli per tutto quanto poteva interessare l’osservanza dei suoi compiti istituzionali e la tutela dei suoi reparti e dei singoli uomini esposti a gravi pericoli, egli non sembra neppure porre, né porsi il problema della legittimità del suo operato. Sicché mancano nel suo libro i rinvii a istituzioni che altri 57 “Prudence indeed will dictate that governments long established should not be

changed for light & transient causes; and accordingly all experience hath shown that mankind are more disposed to suffer while evils are sufferable, than to right themselves by abolishing the forms to which they are accustomed.”

58 Uso l’elegante riedizione curata dal Comune di Milano nel 60° anniversario della Liberazione: Alfredo MALGERI, L’occupazione di Milano e la Liberazione, Milano, Edizioni Comune di Milano – Raccolte Storiche, 2005. Essa comprende tutti i testi delle edizioni del 1947 e del 1983, integrati da un inserto fotografico e da un profilo biografico dell’autore scritto dal generale Luciano LUCIANI, presidente del Comitato di Studi Storici della Guardia di Finanza.

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ufficiali in servizio usarono, in particolare quelli al “regno del Sud” come Stato legittimo e al Re come capo delle Forze armate. Sono silenzi pesanti per un uomo del suo grado e della sua esperienza, che si spiegano solo con il riferimento implicito, dato quasi per scontato, a categorie politiche e morali di validità più estesa e meno legata alle contingenze. In effetti la nazione, più spesso la Patria, orgogliosamente difesa contro le usurpazioni tedesche, sono quelle che più spesso occorrono sotto la sua penna: termini piuttosto idonei a sostenere un sentimento di appartenenza e di autonomia che a definire in termini tecnici un rapporto operativo. Ma per l’essenziale Malgeri sembra aver cercato dentro se stesso, in un’appropriazione personale del sentimento nazionale e degli obblighi verso i cittadini, le ragioni della disubbidienza e della resistenza.

Dal punto di vista dello storico, silenzi e scelta delle parole invitano anche ad andare oltre il testo, per esaminare il contesto specifico nel quale agivano corpi di polizia come la Guardia di Finanza. Si tratta di un ambito non molto esplorato, perché gli studiosi hanno preferito rivolgere la loro attenzione alla documentazione, infinitamente più ricca, che riguarda la guerra combattuta, le piccole e grandi battaglie, gli scontri a fuoco, e i corpi che vi furono coinvolti: le formazioni partigiane e, da parte fascista, la Guardia nazionale repubblicana, le Brigate nere e altre formazioni politico-militari. Ma paradossalmente le motivazioni al combattimento, proprio perché si era nel corso di una guerra, erano più facili da esplicitare, e in effetti, per la parte militare antifascista, si trovano tutte esposte nelle fondamentali “Direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia (riservate alla persona dei

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Comandanti militari regionali e dei loro più immediati collaboratori)” promulgate il 10 dicembre 1943 dal Comando supremo clandestino con il protocollo 333/OP, e certamente dovute al colonnello Montezemolo. Lì, partendo dall’”impegno del Governo di condurre a fondo la guerra al tedesco”, si prendeva atto che “è nostro dovere di sviluppare con ogni energia tale forma di guerra in tutto il territorio occupato.” Lo scopo specifico degli ufficiali era di coordinare l’iniziativa partigiana d’ispirazione politica “con una organizzazione veramente militare delle bande”, per “dare impulso organico e unitario alla guerra al tedesco”, e “valorizzare […] quanto fatto nel campo della guerriglia in modo costituisca merito italiano nei riguardi dei Paesi cobelligeranti.59”

Ora, proprio questo punto, cioè la scelta di passare ad un impegno di guerra partigiana in montagna, come gli fu più volte proposto, Malgeri lo considerò sempre con riluttanza, e finì con il respingerlo. Una questione tanto più delicata quanto più affine ai suoi ideali era la cerchia che formulò l’invito a passare ai margini dell’area ossolana, nella divisione Flaim, nel quadro di un comando tenuto in parte da militari di carriera, e con compiti singolarmente adatti alla vocazione della Guardia di Finanza, poiché si trattava di un’area frontaliera vicina alla Svizzera, e di una formazione che si era specializzata nel mediare i passaggi oltre confine dei perseguitati razziali e degli ex prigionieri

59 La Circolare, già edita, è stata recentemente ripubblicata a cura di Gaetano

Grassi e Gabriella Solaro in Gianni PERONA (a cura di), Formazioni autonome nella Resistenza, Documenti, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 49-53, i passi citati a p. 49.

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alleati che giungevano sul Lago Maggiore dal Piemonte o dalla Lombardia (all’approdo di Cannobio)60.

La coesistenza di una disponibilità a collaborare con la Resistenza, e di un rifiuto dell’impegno nella guerra combattuta, almeno come scelta dell’intero corpo, e non di singoli, obbliga a esaminare più da vicino il problema del ruolo delle forze dell’ordine, cioè della coesione sociale che esse garantivano, una questione cruciale, affatto diversa dal diretto impegno armato contro l’occupante, che pose i diversi corpi interessati al centro di una “domanda” che la crisi del 1943 rese subito drammaticamente intensa. Non solo gli occupanti tedeschi e la nascente Repubblica sociale ebbero infatti bisogno di personale qualificato che garantisse i servizi fondamentali di sicurezza, e così liberasse forze da destinare alla guerra sui fronti, ma un’analoga necessità fu avvertita dalla popolazione, soprattutto da quella delle periferie rurali, visse con 60 Il piano per l’inclusione della Guardia di Finanza nelle formazioni autonome

dell’Alto Novarese era stato caldeggiato anche dal maggiore Mario Argenton, stretto collaboratore del generale Raffaele Cadorna al Comando generale del Corpo volontari della libertà (CVL), probabilmente anche per aumentare il peso dei componenti militari nell’organizzazione della divisione Mario Flaim, che si stava realizzando sotto un’influenza garibaldina forte ma non esclusiva. Ancora il 5 aprile 1945 il colonnello Giuseppe Curreno di Santa Maddalena, un ufficiale in SPE comandante della zona ossolana, scriveva ad Argenton:” Sta bene quanto mi scrivi per i Finanzieri: avverti il Colonnello [evidentemente Malgeri] che io sono ben lieto di accoglierli e mi mandi subito un suo delegato di fiducia con pieni poteri scritti per trattare la questione che – a mio parere – va risolta d’urgenza.” Cfr. Lettera di Giuseppe Curreno di Santa Maddalena a Mario Argenton, in Formazioni Autonome, cit., il passo sui Finanzieri a p. 161. I riferimenti di Malgeri al possibile passaggio in Ossola sembrano risalire all’ottobre 1944 (egli parla dell’Ossola occupata) ma non fanno intendere chiaramente che la prospettiva sia rimasta aperta fino alla vigilia dell’insurrezione. Cfr Alfredo MALGERI, L’occupazione di Milano, cit., pp. 74-76.

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angoscia il crollo delle istituzioni territoriali, a cominciare dai Carabinieri.

Anche una storia sociale dell’8 settembre e degli inizi della Resistenza può essere letta, entro certi limiti, come un problema di ordine pubblico. Le immense risorse agricole disponibili alla fine della stagione dei raccolti (da poco conclusa la trebbiatura del grano, incipienti la mietitura del riso e la vendemmia, ritornanti alle pianure le mandrie degli alpeggi, con le loro scorte di latticini pregiati e di bestie macellabili) si trovarono nelle mani di contadini totalmente indifesi, in un paese dove le città e i lavoratori industriali, da una parte, i soldati italiani sbandati e gli ex prigionieri alleati, dall’altra, morivano letteralmente di fame. Le campagne erano attraversate da migliaia di giovani, spesso ma non sempre disarmati, mentre si assisteva dovunque al saccheggio delle caserme, all’appropriazione di ogni bene abbandonato dall’esercito dissoltosi a causa dell’armistizio. Non di rado si videro i contadini svendere in pochi giorni il bestiame eccedente delle stalle per non esporsi a sequestri o aggressioni. Per loro, l’abbandono o il disarmo delle piccole caserme periferiche erano segnali premonitori di pericoli gravissimi. In conseguenza di questo stato d’animo, essi considerarono con favore la resistenza soprattutto passiva, che riunì per qualche mese, nell’autunno 1943, moltissimi giovani disertori, o renitenti alle chiamate alle armi degli occupanti e della RSI, in organizzazioni armate che poi sarebbero state chiamate “attendiste”. Era anche questa, in sostanza, una straordinaria operazione di polizia: gli sbandati venivano sottratti alla cattura e al trasporto in Germania, ma erano al tempo stesso inquadrati e in qualche misura controllati. L’ambiguità politica dei loro capi, spesso

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oscillanti tra l’autonomia e il compromesso con l’occupante, non era ancora percepita come l’invitante via verso l’inferno del collaborazionismo, ma come la risposta giusta in attesa dell’arrivo degli Alleati che si credeva imminente61. Ma è quasi banale constatare che sulle diffuse inquietudini per l’ordine pubblico faceva leva anche la nascente Repubblica sociale, per un’operazione di cattura del consenso che voleva essere al tempo stesso eversiva degli ordinamenti ereditati dal Regno. La formazione della Guardia nazionale repubblicana recuperava nel suo nome, che toglieva allo schieramento antifascista62, istituzioni risorgimentali che avevano avuto la loro ora di gloria tra il 1846 e il 1849, e una precaria, stentata sopravvivenza nell’Italia unita, ma soprattutto sottraeva all’esecrato Esercito monarchico l’Arma dei Carabinieri, con la sua estesissima rete di punti di controllo del territorio, e il prestigio acquisito in una lunga storia. La nascente e precaria Repubblica offriva dunque prospettive singolari di un ruolo eminente delle forze di polizia, e difficile era mantenere la distinzione tra la coesistenza e la collaborazione.

Nelle pagine di Malgeri, tre altre sollecitazioni, che spingevano la Guardia di Finanza a rimanere organizzata in forma legale e non clandestina, traspaiono abbastanza

61 Personaggi come il cosiddetto “capitano Davide” (che finì nelle SS italiane) o

come Nicola Prospero (che fu ucciso da partigiani, e postumamente condannato per collaborazionismo) poterono così raccogliere intorno a sé, tra il Piemonte e la Liguria, almeno fino all’inizio del 1944, migliaia di uomini, inquadrati e inattivi , tra i quali molti sarebbero diventati partigiani, ma solo mesi e mesi più tardi.

62 Nell’agosto 1943 e nei primi giorni del settembre circolò variamente, soprattutto da parte comunista, l’invito a fromare con volontari civili una Guardia nazionale.

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chiare, e debbono essere considerate con attenzione. La prima, molto vicina a uno dei settori di attività specifici del corpo, veniva dalla situazione che si creò subito alle frontiere del Nord Ovest: profughi politici, militari ed ex prigionieri di guerra, cittadini stranieri e italiani perseguitati per motivi razziali, si affollarono in uscita ai confini settentrionali per cercare rifugio in Svizzera, in entrata a quelli occidentali per sottrarsi all’occupazione tedesca della Francia sud-orientale, che provocò la deportazione e la morte di migliaia di ebrei. In entrambi i casi si richiedeva che le forze di sorveglianza agevolassero i passaggi e ostacolassero di fatto l’azione persecutoria delle forze naziste. Il che certamente poteva essere fatto meglio da tecnici esperti nella gestione delle frontiere, e avvezzi a gestire i complessi problemi che la persecuzione razziale aveva posto dal 1938 in poi63.

La seconda sollecitazione era la tutela dei beni nazionali. La preoccupazione patrimoniale traspare nelle pagine di Malgeri quasi altrettanto viva quanto quella per i suoi uomini. Delusa infatti la speranza di tentare un 63 Gli studi recenti hanno rivelato che, per eseguire i decreti di espulsione degli

Ebrei di origine non italiana, le forze di polizia, già nel 1938, finirono con l’aiutare di fatto i perseguitati a eludere l’opposizione delle guardie di frontiera dei paesi vicini, riluttanti ad accordare l’accoglienza. Un’analisi minuziosa dei meccanismi in Paolo VEZIANO, Ombre di confine: l’emigrazione clandestina degli Ebrei verso la Costa azzurra (1938-1940), Pinerolo, Alzani, 2001. Oltre ai diversi cenni nel libro di Malgeri, interessanti episodi sulla zona di Annemasse in Haute-Savoie e sul Colle della Finestra nelle Alpi Marittime, dove passarono gli Ebrei profughi di Saint-Martin-Vésubie, si leggono in Luciano LUCIANI-Gerardo SEVERINO, Gli aiuti ai profughi ebrei e ai perseguitati: Il ruolo della Guardia di Finanza (1943-1945), Roma, Museo Storico della Guardia di Finanza-Comitato di Studi Storici, 2005, pp. 92-93; sull’area di Cannobio Ibidem, pp. 103-104; ma tutto il libro è utilissimo per un esame analitico di casi molto vari.

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confronto militare con l’invasore, dal disperato valore simbolico, subentra in lui la preoccupazione di evitare alla magnifica struttura amministrativa e militare di cui si sente responsabile la tristissima fine delle caserme delle altre forze armate. E indubbiamente appare legittima la soddisfazione con cui egli constata via via che solo una parte dei presidi e delle stazioni periferiche, alla fine dei conti, avranno subito rilevanti perdite.

La terza preoccupazione era quella del mantenimento dell’identità e dell’unità del corpo. Qui il riferimento negativo era quello dei Carabinieri, diluiti nella Guardia nazionale repubblicana, con effetti disastrosi per la coesione dell’Arma. Alla perdita d’identità si aggiungeva poi la costante minaccia dell’inserimento nelle strutture tedesche, anche in Germania64. Malgeri, fedele al suo tono sommesso di memorialista, non usa toni drammatici a questo proposito, ma il quadro che egli ci dipinge per tocchi successivi evoca un processo di progressiva delegittimazione della Guardia di Finanza italiana: l’allontanamento dai confini, l’affiancamento, o addirittura la sostituzione con guardie confinarie tedesche, il ripetutamente tentato coinvolgimento in schieramenti misti con funzioni repressive della Resistenza. Tutti segni di un’attenzione accentuatissima degli occupanti alla gestione dei confini, che accomunava il

64 Così annotava Malgeri:”Un momento molto delicato attraversiamo nel luglio,

dopo l’internamento in Germania dei carabinieri. Si pensa che il Corpo avrà, a breve scadenza, uguale sorte. Voci catastrofiche vengono divulgate al riguardo dagli stessi fascisti, i quali tentano così di provocare, per ragioni intuitive, la disgregazione completa dei nostri reparti.” Cfr Alfredo MALGERI, L’occupazione di Milano, cit., p. 57.

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caso italiano a quelli analoghi in altri paesi europei occupati65.

Certo, nello sforzo di sottrarsi alle sopraffazioni tedesche, il Corpo poteva trovare l’appoggio di settori della RSI riluttanti a lasciarsi espropriare di uno dei non molti settori efficienti dell’amministrazione, e la documentazione fascista repubblicana sembra provare un contraddittorio destreggiarsi fra un collaborazionismo incondizionato e un doppio gioco più o meno opportunistico da parte di autorità politiche e militari66. Ma la questione più complessa è che l’unità della Guardia non era minacciata solo dagli occupanti: essa rischiava anche di dislocarsi tra la parte che rimaneva nella legalità e quella che invece aderiva al movimento partigiano. Un’adesione che attraversò nel tempo gran parte dei venti mesi della Resistenza, e che andò facendosi più intensa negli ultimi tempi. Per valutarne l’ampiezza, possiamo analizzare per analogia la composizione del campione piemontese, per il quale abbiamo schede analitiche nominative: sui più che duecento componenti della Guardia di Finanza che chiesero il riconoscimento del loro servizio nella Resistenza, circa ottanta ottennero la qualifica di partigiano, che implicava una permanenza nelle bande di almeno quattro mesi, una novantina furono quelli riconosciuti “patrioti” o

65 Anche in Francia, del resto, l’amministrazione tedesca aveva mal sopportato che

gli alleati italiani controllassero, nel primo semestre del 1943, i passaggi verso la Svizzera nell’area del Lemano.

66 Su di ciò basta vedere la sintetica trattazione di Luigi GANAPINI, La repubblica delle camicie nere; i combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Milano, Garzanti, 1999, pp. 271-274.

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“benemeriti”, per collaborazioni di più breve durata67, evidentemente addensate verso gli ultimi mesi della guerra. Un simile profilo aiuta a capire ancora meglio perché Malgeri esitasse tanto circa la possibilità di far passare il suo Corpo nella lotta clandestina: in sostanza quelli che avevano voluto e potuto farlo, lo avevano già fatto.

D’altra parte si può osservare non di rado, anche nelle memorie di quelli che accettarono questa soluzione, un riferimento identitario abbastanza spiccato alla provenienza dalla Guardia di Finanza, sicché varrebbe la pena di esplorare, attraverso un sondaggio prosopografico fondato su casi ben documentati, che non mancano negli archivi della Resistenza, quali vincoli si stabilissero tra i finanzieri divenuti partigiani e l’organizzazione clandestina rimasta formalmente nella legalità, alla cui costruzione si dedicò Malgeri68. “Già fin dal mese di settembre 1944 – riferisce il colonnello […] è stata costituita nelle file della Legione una vera e propria formazione partigiana, che dovrà rivelarsi non 67 Ricaviamo questi dati dalla banca dati del partigianato piemontese, costituita

dagli Istituti storici della Resistenza del Piemonte rielaborando e correggendo i dati ricavati dai fascicoli personali conservati negli archivi militari romani e provenienti dall’Ufficio per il riconoscimento delle qualifiche di partigiano. L’accesso on line è dal pulsante “Banche dati” del sito www.istoreto.it.

68 Il riferimento è ad esempio al fondo di documenti di Ottavio Maturino Bérard (Sarre 1896 – Aosta 1975), “militare di carriera (tenente colonnello), istruttore di sci e guida presso la Scuola della Guardia di finanza a Predazzo”, conservato presso l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta; oppure alle carte del Fondo Angiolo Gracci, presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana. Gracci fu all’Accademia e scuola di applicazione della regia Guardia di finanza e poi in Albania tra il 1939 e il 1943. Anche il fondo ANEI a Firenze, e il fondo “Rai-la mia guerra” presso l’Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia, contengono interessanti testimonianze sull’internamento in Germania o sull’attività antifascista di finanzieri. Presso quest’ultimo Istituto si può consultare anche il fondo, acquisito parzialmente in copia, di Augusto De Laurentiis, che fu stretto collaboratore del generale Cadorna ed ebbe fitti rapporti con Malgeri.

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appena il Comando del CVL riterrà giunto il momento opportuno69”, cioè l’organizzazione di una rete clandestina interna alle strutture legali facilitava la collaborazione con i Volontari della libertà, e teneva collegata ad essi l’intera struttura regionale della Guardia di Finanza. Che in effetti si vede emergere diffusamente nei giorni dell’insurrezione, e non soltanto in Lombardia70. In sostanza sembra legittimo formulare l’ipotesi che ci fosse un fondamento nell’opera di Malgeri e dei suoi collaboratori di ricostruire su queste basi l’unità sostanziale del corpo nel dopoguerra e nella ricostruzione. La documentazione posteriore alla liberazione dimostra che il drastico processo di avvicendamento, parallelo a quello di epurazione, disposto da Malgeri il 21 maggio e il 16 giugno 1945, può fondarsi su “militari di provata fedeltà” e su “quegli elementi che hanno ben meritato del movimento di liberazione nazionale, e che palesemente riscuotono le simpatie degli organi politici locali”, cioè su ex partigiani prontamente reinseriti71.

Fin qui abbiamo considerato il punto di vista interno alla Guardia di Finanza. Resta da esaminare perché anche il Comando generale del CVL attribuisse tanta importanza alla disponibilità di queste forze. Non è difficile chiarirlo, se si richiama l’aspetto meno vistoso, ma essenziale dell’insurrezione italiana nell’aprile 1945, cioè il mantenimento dell’ordine e della legalità nelle città. La 69 Alfredo MALGERI, L’occupazione di Milano, cit., p. 76. 70 Malgeri (op. cit., pp. 125-127) illustra i diversi interventi nell’insurrezione, che sono documentati in particolare per la zona di Seregno (v. Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia, Fondo Cln comunali della provincia di Milano, busta 7, fascicolo 95). 71 Documenti citati in Pierpaolo MECCARIELLO, In nome dello Stato, cit., pp. 173-174.

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possibilità delle forze politiche della Resistenza di avere autonomia e potere politico dopo la fine della guerra non stava infatti solo nella parte offensiva dell’insorgenza partigiana, che doveva imbrigliare e indurre alla resa le superstiti forze armate tedesche e fasciste repubblicane, un’operazione compiuta complessivamente con grande successo e senza alcun intervento sostanziale degli Alleati, ma che riguardava reparti operativi in massima parte lontani dalle grandi città e conurbazioni del Nord Ovest.

Gli Angloamericani avevano insistito da sempre, soprattutto a partire dall’autunno 1944, che il compito dei Comitati di liberazione nazionale e delle forze armate che ne dipendevano era, per usare quella che divenne una formula costante dei loro documenti, to enforce law and order. Gli accordi stipulati nel dicembre a Caserta tra il Comandante supremo alleato del Mediterraneo e il CLN dell’Alta Italia garantivano che quest’ultimo avrebbe “fatto ogni tentativo possibile per mantenere la legge e l’ordine e per salvaguardare le risorse economiche del paese fino a quando non si fosse installato il governo militare alleato.72” Era questo il punto di arrivo nel lento passaggio della Commissione angloamericana dal controllo diretto a quello indiretto nei confronti delle autorità italiane, e su questo avevano ovviamente insistito i partiti moderati nello schieramento resistenziale73. In un quadro politico generale così definito, si aggiungeva poi la specificità della

72 Traduzione di Memo of Agreement between SACMED and the CLNAI, in David W. ELLWOOD, L’alleato nemico: La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia, 1943/1946, Milano, Feltrinelli Editore, 1977, p. 294. 73 Sul difficile adattamento della Commissione di controllo ai suoi meno invadenti compiti di pace v. David W. ELLWOOD, L’alleato nemico, cit., pp. 232-238.

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situazione militare milanese. L’importanza ovvia della città contrastava singolarmente con l’entità del suo presidio tedesco, incomparabile con quello massiccio di Genova o con l’intero corpo d’armata che gravitava su Torino. Gli Alleati stessi finirono con l’anteporle Como, dove giunsero un giorno prima che nel capoluogo lombardo. D’altra parte Milano era molto lontana dalle basi di partenza dei partigiani, valsesiani e novaresi, pavesi, bergamaschi, che impiegarono diversi giorni ad aprirsi la strada da ovest, da sud e da est, sicché la forza dei centri di resistenza tedeschi, a cominciare dall’Hotel Regina, rappresentava per l’insediamento delle autorità politiche e amministrative dei Comitati di liberazione nazionale un rischio difficilmente calcolabile 74. Da entrambi i punti di vista, dunque, quello di favorire la presa del potere dei nuovi organi di governo e quello di dimostrare che essi erano in grado di garantire l’ordine pubblico senza bisogno di forze straniere, l’intervento della Guardia di Finanza assunse in quel momento un valore non solo simbolico ma operativo di indispensabilità, manifesto anche nella scelta degli obiettivi: il palazzo della Prefettura, il palazzo municipale, la sede della radio75. Ed è questo il fondamento della durevole assunzione di quell’impresa nella storia civica di Milano.

74 Uno dei principali responsabili dell’insurrezione milanese, Pietro Secchia, raccontava di essersi trovato, mentre si faceva trasportare da un autista per Milano ormai libera ma deserta di partigiani, solo e senza difesa di fronte all’inopinato movimento offensivo di un carro armato tedesco. Testimonianza resa a Roma da Pietro Secchia all’Autore, agosto 1967. 75 V. Alfredo MALGERI, L’occupazione, cit., p. 102. Questa ricostruzione può essere integrata con altri documenti e relazioni del Fondo Corpo volontari della libertà, busta 46, fasc. 107. Il successo nell’insurrezione fu seguito, come è documentato tra le carte del CLNAI, da una pronta ripresa dell’attività, in campi politicamente delicati come l’avocazione dei profitti di regime.

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INTERVENTO CONCLUSIVO DEL COORDINATORE,

AMB. SERGIO ROMANO

Grazie al Professor Perona per aver introdotto la tematica militare nel nostro convegno e ha illuminato il concetto di insurrezione che certamente nella storia europea è un concetto positivo anche se in qualche caso usato arbitrariamente.

È molto curioso che sia un concetto positivo nella pubblicistica europea evidentemente un po’ meno positivo nella storia pubblicistica americana perché vi segnalo che i guerriglieri iracheni sono definiti dalla stampa americana “insorti”.

In conclusione, ripeto ciò che ho detto all’inizio: credo che usciamo tutti da questo convegno avendo imparato molte cose sulla storia nazionale; sulla continuità istituzionale dello stato Italiano e sul contesto in cui gli avvenimenti del 25 aprile si collocarono. L’Europa di allora, i protagonisti, tutto questo è passato attraverso il convegno, attraverso le parole dei relatori, ed alla fine abbiamo celebrato un buon 25 aprile.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2006

presso la tipografia della

Accademia della Guardia di Finanza

Bergamo