Giobbe · Web viewPapa Benedetto XVI nella sua enciclica “Deus caritas est” pubblicata nel 2006...

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Libri sapienziali Il libro di Giobbe Nozioni generali Il libro di Giobbe è costituito da 42 capitoli. Il tema, l’argomento è quello del giusto che soffre; è il problema del dolore innocente. Il tema è chiaro, preciso, univoco e abbraccia il libro dall’inizio alla fine, però a questa unità tematica non corrisponde una altrettanto precisa unità dal punto di vista letterario. Il libro di Giobbe non è un libro scritto di getto, ma è un libro, nella forma attuale come noi l’abbiamo, che risulta dall’opera di redazione di uno scrittore che ha unito insieme vari documenti scritti che aveva a disposizione. Infatti in questo libro noi troviamo parti che sono tra loro profondamente diverse. C’è una prima parte che è formata dai primi due capitoli (Gb 1-2) e dagli ultimi versetti del libro (Gb 42, 7-17). Questi testi costituiscono la cornice dell’intero libro. Sono scritti in prosa, mentre tutto il resto del libro è scritto in poesia. Lo stile di questa prima parte è molto diverso dallo stile del resto del libro: qui lo stile è quello del racconto popolare, mentre quello del resto del libro è uno stile poetico, molto ricco di sentimento e di tensione drammatica. Inoltre troviamo che Gb 42,7-17 è la logica continuazione e conclusione dei primi due capitoli, tanto che se tutto il resto del libro (Gb 3,1 – 42,6) mancasse, il racconto avrebbe una sua coesione e una sua completezza. Il Giobbe di questa prima parte è un Giobbe molto diverso da quello del resto del libro; infatti il Giobbe della prima parte è un uomo paziente che sopporta senza lamentarsi le vicissitudini che gli succedono, è un Giobbe che arriva a dire: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21). Questo Giobbe non lancia una parola contro Dio. Da questa prima parte del libro è stata ricavata l’immagine di un uomo che accetta tutto con pazienza e con fede, senza ribellarsi. Il Giobbe invece del resto del libro è molto diverso, è un uomo che si erge contro 1

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Giobbe

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Libri sapienziali

Il libro di Giobbe

Nozioni generali

Il libro di Giobbe è costituito da 42 capitoli. Il tema, l’argomento è quello del giusto che soffre; è il problema del dolore innocente. Il tema è chiaro, preciso, univoco e abbraccia il libro dall’inizio alla fine, però a questa unità tematica non corrisponde una altrettanto precisa unità dal punto di vista letterario. Il libro di Giobbe non è un libro scritto di getto, ma è un libro, nella forma attuale come noi l’abbiamo, che risulta dall’opera di redazione di uno scrittore che ha unito insieme vari documenti scritti che aveva a disposizione. Infatti in questo libro noi troviamo parti che sono tra loro profondamente diverse.

C’è una prima parte che è formata dai primi due capitoli (Gb 1-2) e dagli ultimi versetti del libro (Gb 42, 7-17). Questi testi costituiscono la cornice dell’intero libro. Sono scritti in prosa, mentre tutto il resto del libro è scritto in poesia. Lo stile di questa prima parte è molto diverso dallo stile del resto del libro: qui lo stile è quello del racconto popolare, mentre quello del resto del libro è uno stile poetico, molto ricco di sentimento e di tensione drammatica. Inoltre troviamo che Gb 42,7-17 è la logica continuazione e conclusione dei primi due capitoli, tanto che se tutto il resto del libro (Gb 3,1 – 42,6) mancasse, il racconto avrebbe una sua coesione e una sua completezza.

Il Giobbe di questa prima parte è un Giobbe molto diverso da quello del resto del libro; infatti il Giobbe della prima parte è un uomo paziente che sopporta senza lamentarsi le vicissitudini che gli succedono, è un Giobbe che arriva a dire: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21). Questo Giobbe non lancia una parola contro Dio. Da questa prima parte del libro è stata ricavata l’immagine di un uomo che accetta tutto con pazienza e con fede, senza ribellarsi. Il Giobbe invece del resto del libro è molto diverso, è un uomo che si erge contro Dio sino a raggiungere atteggiamenti di dura contestazione, di ribellione e di accusa; sino a pretendere che Dio dia giustificazione di come lo sta trattando; arriva sino a voler chiamare Dio in giudizio. Il problema dell’innocente che soffre diventa il problema di Dio, cioè di “che tipo di Dio” sia quello che permette che l’innocente soffra.

Prima parte del libro di giobbe (Gb cap. 1 - 2 + Gb 42,7-17)

La prima parte del libro di Giobbe è una novella, un racconto popolare a scopo di edificazione. Possiamo pensare che l’autore conoscesse o avesse sentito raccontare di un uomo buono e pio colpito da innumerevoli disgrazie, che con somma pazienza e fiducia in Dio aveva sopportato tutto, senza lamentarsi e senza ribellarsi al Signore, e che da qui egli sia partito per comporre Gb cap. 1 - 2 + Gb 42,7-16.

Questa prima parte del libro di Giobbe infatti non può essere considerata l’opera di chi vuole fare “storia”, cioè raccontare i fatti come veramente sarebbero accaduti. Il Giobbe di questa prima parte resta nebuloso e vago; non si danno di lui le coordinate né storiche né geografiche. Nel racconto troviamo degli elementi che sono inverosimili, ad esempio le quattro successive onde di disgrazie che investono Giobbe (Gb 1); il dialogo tra Dio e Satana ( Satana che propone a Dio di mettere alla prova Giobbe per vedere se egli avrebbe continuato a lodarlo anche nella disgrazia); i tre amici di Giobbe che si fermano a distanza da lui per sette giorni prima di parlargli; la conclusione a lieto fine che viene a risolvere, con lo stile del “deus ex màchina”, la situazione… Tutto ha l’aria di un bel racconto, composto al fine di invitare ed esortare a sopportare i mali della vita con la certezza che il Signore, se gli si resta fedele e se si accetta tutto dalle sue mani, interverrà a dare salvezza.

Si racconta di Giobbe che possiede grandi ricchezze e un grande numero di figli, e che in breve tempo viene privato di tutto, dei beni e dei figli; e che nonostante ciò accetta ogni disgrazia dalle mani di Dio. Anzi, per di più, viene colpito egli stesso da una dolorosa malattia che lo tormenta, viene irriso dalla moglie che gli dice: a che è servita la tua fedeltà a Dio, se egli ti ha ridotto così?; viene accusato dagli amici di meritare quella somma di mali come conseguenza dei suoi peccati. Giobbe resta fedele a Dio, non si lamenta, e alla fine riceve in premio da Dio un insieme di beni superiore a quello che possedeva inizialmente.

Seconda parte del libro di Giobbe (Gb 3, 1 - 42, 6)

La seconda parte del libro di Giobbe (Gb 3,1 – 42,6) non è unitaria, ma è il risultato dell’intreccio di tre sottoparti. Infatti c’è una sottoparte che costituisce la sostanza del libro (i capitoli da 3 a 27 più i capitoli da 29 a 31 e i capitoli da 38 a 42,6); c’è una seconda sottoparte che è costituita dal capitolo 28, che è un inno alla sapienza di Dio; e c’è una terza sottoparte che è costituita dai capitoli da 32 a 37. La seconda e la terza sottoparte arrivano in una certa misura d’improvviso, senza che siano necessariamente richieste dal seguito dell’azione, tanto che se mancassero il discorso filerebbe ugualmente; tuttavia il redattore è riuscito ad integrarle in modo soddisfacente.

La seconda parte del libro ne costituisce la sostanza, anche quantitativamente, ed affronta il grande problema del dolore innocente. Un problema terribile, di fronte al quale la ragione umana inciampa pesantemente e non sa dare alcuna risposta che la soddisfi, anzi sprofonda in un atteggiamento di ribellione e di disperazione. Tale è l’atteggiamento di Giobbe al capitolo 3, il capitolo con cui si apre questa parte del libro. Il capitolo 3 è una pagina altamente drammatica: “Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita”.

Per comprendere il messaggio di questa parte del libro di Giobbe ed inquadrarlo nel modo giusto, occorre dare alcuni cenni circa il problema della retribuzione.

Nei tempi più antichi del popolo d’Israele la retribuzione era sentita come collettiva: il bene e il male compiuto da una persona andava a toccare tutte le altre persone; ciò che compiva un membro del clan coinvolgeva e si ripercuoteva su tutto il clan. Ciò appare nei libri più antichi della Bibbia (Es 34,7; Es 20,5-6; Gios 7,1-5).

In un secondo momento si fece strada l’idea della responsabilità e della retribuzione individuale: a portare le conseguenze del comportamento buono o cattivo era la persona che lo aveva messo in essere. Il premio o il castigo non raggiungono i membri dell’intero clan. Così al tempo del profeta Ezechiele, nel secolo VI a.C. (cfr Ez 18, in particolare i vv 1-2. 20).

L’idea della responsabilità e della retribuzione collettiva però era molto radicata in Israele, tanto che era ancora viva al tempo di Gesù. Davanti al cieco nato, infatti, gli apostoli domandano a Gesù: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Gesù risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9,1-3).

Va notato e tenuto presente che sia nel primo che nel secondo momento (cioè sia nello stadio in cui la responsabilità e la retribuzione erano pensate in forma collettiva che in quello in cui erano pensate in forma individuale) l’orizzonte entro cui erano considerate era un orizzonte puramente terreno, rinchiuso in questa vita: chi era giusto doveva avere salute, lunga vita e ricchezza economica su questa terra, e chi era empio doveva avere sofferenze, dolori, mali su questa terra, perchè non c’era ancora l’idea di una retribuzione futura nell’aldilà. Si pensava che l’aldilà esistesse, sì, ma lo si concepiva come un luogo simile all’Ade greco e latino, in cui tutti gli uomini venivano a trovarsi nella stessa condizione, senza un premio per i buoni e un castigo per i cattivi. Quindi Dio, che era giusto, doveva premiare i buoni su questa terra e punire i cattivi su questa terra.

L’idea di una retribuzione spirituale ed eterna nell’aldilà si è fatta strada solo nel secondo secolo a.C. Ce ne danno testimonianza il libro di Daniele (Dan 12), il Secondo libro dei Maccabei (2Mac 7) e il Libro della Sapienza (Sap 1 – 5), libri scritti tra il 150 e il 50 a.C.

Il libro di Giobbe è del 400 a.C., e trova la sua collocazione cronologica, e quindi anche teologica, all’interno di questo cammino e sviluppo di idee. E’ stato composto nel tempo in cui si credeva in una responsabilità e retribuzione individuale, ma ancora terrena; quando però si cominciava a percepire l’insufficienza di tale concezione, perché abbondantemente contraddetta dai fatti e dall’esperienza comune: spesso accadeva di vedere malvagi trionfare e buoni soffrire.

Il libro di Giobbe esprime un momento di crisi, è un libro che contesta la concezione tradizionale circa il dolore e cerca una spiegazione diversa,

Finchè si pensava ad una retribuzione collettiva e non si vedeva il male punito nella persona di colui che l’aveva commesso, si pensava che la punizione sarebbe ricaduta sui suoi figli e nipoti fino alla terza e alla quarta generazione; e se non si vedeva il bene premiato nella persona che l’aveva compiuto, si pensava che il premio avrebbe raggiunto i suoi discendenti fino alla millesima generazione (cfr Es 34,6-7). Ma quando dalla concezione della retribuzione collettiva si passò a quella individuale, tale “aggiustamento” nel tempo non apparve più possibile, ed allora sorse il problema: come mai il giusto soffre?

Il libro di Giobbe mette a tema, in modo altamente drammatico, questa questione. Sulla scena l’autore fa comparire, oltre a Giobbe, tre suoi amici (Elifaz, Bildad e Zofar). A questi tre, che fanno corpo tra loro, l’autore del libro affida la tesi tradizionale: essi sostengono nei loro discorsi che se Giobbe soffre significa che ha peccato ed è colpevole, perché Dio non può essere ingiusto e punire un innocente. I tre amici di Giobbe sono i rappresentanti del pensiero comune di allora, della teologia tradizionale. In un serie di tre cicli di interventi (ciascuno dei tre amici prende la parola per tre volte uno dopo l’altro) essi affermano questa tesi: se tu soffri, Giobbe, è per colpa tua.

Ma Giobbe si ribella a questa lettura della sua situazione e del suo dolore, e afferma con forza la propria innocenza. Non pretende di essere senza colpa in modo assoluto (è vero che neanche gli angeli sono del tutto puri davanti agli occhi di Dio, tanto meno gli uomini, che abitano “in case di fango”, il corpo); però egli afferma con forza che non c’è proporzione tra il dolore che egli patisce e le colpe che può aver commesso. Per cui il problema dell’innocente che soffre sta pienamente in piedi. Ed allora Giobbe si rivolge e si rivolta contro Dio chiedendogli “perché?”, ed esigendo da lui nel modo più deciso una risposta. Dio deve rispondergli, deve dargli spiegazione del perché lo tratti in quel modo. Non può affliggerlo a tal punto e non rispondergli, starsene nascosto e in silenzio.

Il capitolo 28 e i capitoli 32-37 introducono nel dramma alcune altre considerazioni. Il capitolo 28 è un testo che parla della Sapienza di Dio, e dice che essa è un tesoro preziosissimo, più prezioso dell’oro, dell’argento e delle gemme, ma che è un tesoro inaccessibile all’uomo: l’uomo non sa dove abiti la Sapienza (al di là del mare? nelle viscere della terra? chissà dove…). Solo Dio possiede la Sapienza, e può avere la Sapienza di Dio colui che la riceve da Dio; e la riceve l’uomo che teme Dio, che si apre a lui, che lo ascolta, che lo accetta, che gli obbedisce.

Questo capitolo, nel contesto del libro di Giobbe e del discorso in atto, significa che il problema dell’innocente che soffre può ricevere luce ed essere illuminato solo dalla Sapienza di Dio (la ragione umana ci batte dentro in maniera inesorabile), e può ricevere questa luce l’uomo che se la lascia dare, accettando e accogliendo ciò che Dio in proposito gli dice.

I capitoli da 32 a 37 riportano l’intervento di un personaggio che si intromette come di soppiatto nell’azione, un certo Eliu, che con il suo discorso tende a preparare l’intervento finale di Dio, ed è posto lì in posizione strategica dal redattore. Eliu si rivolge ai tre amici di Giobbe e a Giobbe stesso, rimproverando sia gli uni che l’altro; vuole correggere, criticandole, la posizione dei tre amici e la posizione di Giobbe. Ai tre amici egli dice: “Sì, Giobbe è innocente, e non soffre ciò che soffre come castigo dei suoi peccati. La posizione tradizionale del “peccato – castigo” che voi sostenete non è vera”. E a Giobbe dice: “Non puoi presumere di giudicare Dio in ciò che fa e dispone; Dio è più grande di te” (Gb 32,6-13; Gb 33,8-13; Gb 36,22-28).

Finalmente nei capitoli da 38 a 41 si arriva alla soluzione finale del problema, una soluzione che però non è completa e non risolve fino in fondo la questione: è una risposta parziale. Siamo ancora nel 400 a.C.

Dio, tante volte chiamato in causa da Giobbe, finalmente risponde. E lo fa invitando Giobbe a fare una straordinaria passeggiata attraverso l’universo, il creato. Il creato è stupendo, è meraviglioso, è immensamente grande e pieno di mistero, è retto da un ordine perfetto e dotato di una bellezza incantevole. Dio lo ha fatto e lo ha creato con una potenza e una sapienza che Giobbe non saprebbe in nessun modo uguagliare. Dio afferma, in questo modo, la sua infinita superiorità rispetto a Giobbe, e Giobbe avverte la sua piccolezza e il suo nulla davanti a Dio. Dio è davvero più grande di lui, Dio ha uno sguardo e una mente che Giobbe non sa comprendere. Come potrebbe allora contestarlo in ciò che fa? Anche il suo problema e il suo dolore possono avere in Dio un senso che Giobbe, con la sua piccola mente, non capisce.

La soluzione che il libro di Giobbe propone al problema dell’innocente che soffre è questa: anche se tu, Giobbe, non capisci il senso del dolore che ti affligge, e anche se senti che il dolore è sproporzionato a ciò che tu puoi avere commesso, credi che il tuo dolore ha un senso in Dio che ha uno sguardo più ampio del tuo, che possiede una Sapienza più alta della tua e che è più grande di te. No, non ti viene svelato del tutto il senso del tuo dolore, ma ti viene aperto uno spiraglio, ti viene offerto un barlume di luce: in Dio il tuo dolore ha un senso.

La risposta che il Nuovo Testamento darà al problema dell’innocente che soffre sarà quella di Gesù in croce; proprio quel dolore, pienamente innocente, ha avuto un senso immensamente straordinario e positivo: ha redento tutta l’umanità.

Gli studiosi propongono vari tipi di genere letterario in cui il libro di Giobbe sarebbe scritto: c’è chi parla di “linguaggio sapienziale, in quanto questo libro, dicono, è una riflessione sul problema del dolore umano fatta da un sapiente che cerca di capirne il senso; c’è chi parla di “linguaggio di lamentazione”, in quanto Giobbe si lamenta con Dio della somma di mali che lo colpiscono; c’è chi parla di “linguaggio di litigio”, in quanto Giobbe litiga e contesta Dio per tutte le sofferenze, a suo parere ingiuste, che deve sopportare; c’è chi parla di “tavola rotonda teologica”, in quanto questo libro mette a confronto varie posizioni sul tema del dolore: la posizione di Giobbe e quella, opposta, dei suoi tre amici; c’è infine chi parla di “linguaggio drammatico”, in quanto questo libro sarebbe un dramma in cui i personaggi recitano ognuno la propria parte, in scene diverse, con interludio corale (il cap. 28), e con l’intervento finale e risolutivo di Dio.

Il dolore e la disperazione di Giobbe (Gb 3)

Giobbe si sente sopraffatto dal dolore e maledice il giorno in cui è nato. Preferirebbe non essere mai esistito, tanto è pesante la sua sofferenza e la sua pena. Il capitolo 3 del libro di Giobbe arriva ai vertici estremi del dolore umano, vertici a cui giungono le persone molto sofferenti e cadute nella disperazione. E’ tra le pagine più drammatiche di tutta la Bibbia, se non la più drammatica.

Confronto tra gli amici di Giobbe e giobbe : primo ciclo (Gb 4 - 14)

Gli amici di Giobbe intervengono nel dramma di Giobbe e ne danno la loro interpretazione, aggiungendo dei consigli.

Il primo a prendere la parola è Elifaz (Gb 4-5). Egli dice: là dove c’è un dolore, a monte c’è una colpa che l’ha causato e meritato. Non si è mai visto un innocente perire, mentre invece sono gli empi ad essere colpiti e castigati (Gb 4,7-9; Gb 5,3-5). Elifaz si appella ad una sua rivelazione celeste avuta in uno stato di torpore notturno (Gb 4,12-17) e afferma che nessun uomo può dirsi senza colpa davanti a Dio (Gb 4,17-19); che il dolore non nasce dal nulla, ma dall’uomo che se l’è meritato (Gb 5,6-7); e consiglia Giobbe a riconoscere il proprio peccato e a chiedere perdono a Dio. Dio, che è giusto ma anche misericordioso, ascolterà la sua preghiera e gli darà salvezza e un nuovo futuro (Gb 5,8-27).

Giobbe risponde ad Elifaz ribadendo il terribile peso della sua sofferenza (Gb 6,1-7) che gli fa desiderare di morire. (Gb 5,8-12); e si lamenta di non essere capito dagli amici da cui si sarebbe aspettato comprensione e solidarietà (Gb 6,13-21). A loro egli non ha chiesto nulla, ed essi si sono arbitrariamente intromessi nella sua situazione con atteggiamento da sciacalli che approfittano della debolezza di chi è in difficoltà (Gb 6,22-27). Ad essi Giobbe chiede di essere ascoltato e creduto: egli non merita quanto sta soffrendo (Gb 6,28-30). Al capitolo 7 Giobbe, in uno sfogo con Dio, torna a parlare del suo grande dolore, che gli fa desiderare la morte.

Prende la parola il secondo amico di Giobbe, Bildàd (Gb 8), il quale, sulla scia dell’intervento di Elifaz, critica l’affermazione di Giobbe di essere ingiustamente colpito (Gb 8,2). Non è possibile che Dio, che è giusto, si comporti ingiustamente con lui colpendolo (Gb 8,3-7). Anche la storia passata parla di Dio che premia i buoni e castiga i cattivi (Gb 8,8-10); questa è una legge che è rigorosa al pari di una legge di natura (Gb 8,11-12). Per cui l’empio non può prosperare (Gb 8,13-20); ma se Giobbe si riconoscerà peccatore e ricorrerà a Dio, Dio tornerà a beneficarlo (Gb 8,21-22).

Giobbe risponde a Bildàd con uno sfogo irruente e amaro. Dice: Dio è più grande di me, è più forte di me; egli ha creato l’universo intero e comanda a tutto ciò che esiste (Gb 9,1-11). Chi può stargli di fronte? chi può stargli alla pari e reggere il suo confronto? Dio è il padrone assoluto e fa ciò che vuole: può fare a meno di rispondermi se io gli parlo e lo chiamo; può colpirmi come vuole fino a farmi soffrire indicibilmente; può ritenermi colpevole anche se sono innocente (Gb 9,12-35). Chi gli può dire qualcosa? Ma perché mai egli è contro di me? perché vuole a tutti i costi dichiarami peccatore anche se non lo sono? e sì che fu lui a crearmi, a rivestirmi di carne e a volermi in vita… Ma fossi morto appena nato! non fossi mai esistito! Non desidero altro che avere un po’ di sollievo e morire… (Gb 10,1-22).

Prende la parola il terzo amico di Giobbe, Zofàr (Gb 11), che riprende e ribadisce la posizione di Elifaz e di Bildàd. Cessi Giobbe dal fare discorsi insensati (Gb 11,1-3) e gli rimprovera di ritenersi innocente per il fatto che non riesce a vedere tutte le sue colpe. Ma Dio, che ha una sapienza ben superiore a quella di Giobbe e che è perfezione infinita, conosce Giobbe in profondità, e perfino gli condona parte delle colpe (!), altrimenti meriterebbe di essere trattato ancora con più rigore (Gb 11, 4-9). Per cui chi può criticare Dio se castiga e colpisce? (Gb 11,10-11). A Giobbe non resta che riconoscersi peccatore, pregare il Signore e allontanare da sé il male, e allora la sua sorte sarà meravigliosamente trasformata (Gb 11,12-20).

Giobbe risponde anche a Zofàr, e dice: voi vi credete la sapienza del popolo, ma io non sono meno sapiente di voi (Gb 12,2-3). Quale triste sorte mi tocca da pare vostra: essere da voi osteggiato e contraddetto, mentre sono in difficoltà e avrei bisogno di sostegno! (Gb 12,4-6). Dio è il signore di tutto, lo sanno anche gli animali, e lo so anch’io, alla pari di voi; egli compie ciò che vuole nella natura e nella vita degli uomini: nulla e nessuno gli si può opporre (Gb 12,7 – 13,2). Ma io voglio parlargli ed affrontarlo (Gb 13,3). Egli non ha bisogno di difensori e di avvocati come voi, Elifaz, Bildàd e Zofàr, vi impalcate a fare, oltretutto dicendo il falso. Dio non ha bisogno di essere difeso dagli uomini, e i vostri tentativi di difendere Dio e di proclamarlo giusto nel suo agire nei miei confronti non sono che “sentenze di cenere” e “difese di argilla”, che non hanno alcun valore e consistenza (Gb 13,4-12).

Giobbe dice di essere deciso ad affrontare Dio e di volerlo chiamare in giudizio, a processo, costi quel che costi, gli costasse anche la vita, perché egli è certo di essere innocente (Gb 13,13-19). Chiede due condizioni per il processo: che Dio non lo spaventi con la sua superiorità ma che si metta su un piano di parità, così che Giobbe nel dibattito possa sentirsi libero e a suo agio; e poi che il dibattito abbia una procedura ordinata (Gb 13,20-22). Ma Dio non si lascia tirare in giudizio. Giobbe chiede a Dio che gli dimostri i suoi peccati, ma Dio “gli nasconde la faccia”, non risponde alla sua richiesta e alla sua provocazione, non si fa trovare; e Giobbe rimane nella sua situazione di angoscia (Gb 13,23-28).

Il capitolo 14 è uno sfogo amaro di Giobbe davanti a Dio, uno sfogo senza speranza. Dio ha creato l’uomo e ha fissato la sua esistenza entro un breve numero di anni: lasciasse vivere l’uomo tranquillo senza tenere lo sguardo severo su di lui e senza chiamarlo in giudizio! (Gb 14,1-6). Per l’albero c’è speranza di rifiorire anche dopo che è i suoi rami sono stati tagliati, ma per l’uomo, una volta morto e sceso nello Sheol, non c’è più speranza, non c’è più alcun futuro (Gb 14,7-12). Giobbe sarebbe felice se Dio gli concedesse, dopo la morte e dopo essere stato rinchiuso nella tomba, di poter rivivere e di poter di nuovo confrontarsi con Dio una volta che l’ira di Dio si fosse calmata, ma questa è una speranza vana! L’uomo una volta morto non rivivrà più (Gb 14,13-22).

Confronto tra gli amici di Giobbe e Giobbe : secondo e terzo ciclo

( Gb 15 - 21 ; Gb 22 - 27 )

In altri due cicli di interventi degli amici di Giobbe, a cui Giobbe risponde, vengono riesposte e riproposte, con varianti, le stesse idee e le stesse posizioni degli amici di Giobbe e di Giobbe stesso affermate nel primo ciclo. Giobbe chiede con forza e insistenza a Dio un confronto diretto con lui, senza però che gli venga concesso.

Il capitolo 28 del libro di Giobbe

Il capitolo 28 del libro di Giobbe è un inno alla Sapienza di Dio, che viene definita un tesoro preziosissimo, più prezioso dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose, e che è inaccessibile all’uomo. L’uomo non sa dove abiti la Sapienza (al di là del mare? nelle viscere della terra? chissà dove…). Solo Dio possiede la Sapienza, e colui che la riceve da Dio; e la riceve da Dio l’uomo che teme Dio.

Questo capitolo, nel contesto del libro di Giobbe e nel punto attuale dello sviluppo dell’azione, afferma che c’è una Sapienza più alta di quella che l’uomo possiede, e sta a dire che il problema dell’innocente che soffre può ricevere luce ed essere illuminato solo da una Sapienza superiore a quella dell’uomo; la ragione umana infatti vi batte contro in maniera inesorabile.

Lamenti e apologia di Giobbe (Gb 29 – 31)

Nei capitoli da 29 a 31 Giobbe ancora una volta si lamenta con Dio del suo stato e si dichiara innocente. Rimpiange i tempi felici, quando era sano, ricco, godeva la stima della gente e veniva ascoltato con deferenza (Gb 29); ora invece si trova malato, sprofondato nell’angoscia e deriso da tutti (Gb 30). A Dio egli si rivolge e chiede giustificazione di tutto ciò: egli si è sempre comportato bene, perché gli sono capitati tutti quei mali? (Gb 31).

L’ intervento di eliu (Gb 32 – 37)

I capitoli da 32 a 37 riportano l’intervento di un personaggio che si intromette d’improvviso nella scena, Eliu, il quale con il suo discorso tende a preparare l’intervento finale di Dio. Egli si rivolge ai tre amici di Giobbe e a Giobbe, e rimprovera sia gli uni che l’altro, contestandone le posizioni. Ai tre amici egli dice: voi non avete saputo dare risposta a Giobbe, che si proclama innocente (Gb 32,6-13); egli infatti non soffre ciò che soffre come castigo dei suoi peccati. La posizione tradizionale del peccato-castigo che voi sostenete non è giusta, non è vera. E a Giobbe egli dice: tu non puoi presumere di giudicare Dio in ciò che fa e dispone (Gb 33,8-13; Gb 34,31-33); Dio è più grande di te (Gb 36,22 – 37,18).

L’ intervento finale di Dio (Gb 38 – 41)

Nei capitoli da 38 a 41 si arriva alla risposta finale al problema. Dio, tante volte chiamato in causa da Giobbe, alla fine risponde. E lo fa invitando Giobbe a compiere una straordinaria passeggiata attraverso il creato. Il creato è stupendo, è meraviglioso, è straordinariamente grande e pieno di mistero, è retto da un ordine inimmaginato, è dotato di una bellezza incantevole (Gb 38 - 39); è il frutto della sapienza di Dio. Dio chiede a Giobbe come potrebbe mai egli competere con lui? E Giobbe risponde: “Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (Gb 40,4-5).

Dio continua il suo dire chiedendo a Giobbe se egli abbia la forza di affrontare gli animali pieni di vigore quali l’ippopotamo e il Leviatàn (mostro del caos primitivo che si pensava tuttora vivente nei mari), mostri che Dio riesce a dominare (Gb 40,6 – 41,26). E Giobbe risponde riconoscendo la sua piccolezza davanti a Dio e il non senso del suo contestare i disegni divini. Dice: “Comprendo che tu puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile a te. Chi è colui che, senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere” (Gb 42,2-6).

Giobbe, che aveva di Dio solo una conoscenza per sentito dire, ne ha colto il mistero e si china dinanzi al Sapiente e all’Onnipotente. Le sue domande sulla giustizia restano senza risposta, ma egli ha capito che Dio non ha da rendere conto a nessuno e che la sua sapienza può dare un significato impensabile a realtà come la sofferenza e la morte.

Una risposta ulteriore e più grande al problema dell’innocente che soffre verrà data dalla croce di Cristo. Cristo, vero innocente che viene ucciso, mostrerà come il dolore innocente possa avere un senso e un significato grande: può essere gloria per chi lo vive e redenzione per altri.

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Il Cantico dei cantici

Nome, autore, data di composizione

Il nome dato a questo libro è “Cantico dei cantici”, traduzione letterale dell’ebraico “shir hashshirìm” ( שִׁיר הַשִּׁירִים ). Dovrebbe essere tradotto “il cantico più bello”, perché l’ebraico, che non ha una forma specifica per formare il superlativo assoluto, lo forma ripetendo due volte la stessa parola, ad esempio “re dei re” per dire il re sommo, “i cieli dei cieli” per dire i cieli più alti, “il dio degli dèi” per dire il dio superore ad ogni altro dio… Ripetere per due volte di seguito la stessa parola è uno dei modi che l’ebraico ha per fare il superlativo assoluto.

Il Cantico dei cantici viene attribuito al re Salomone (Ct 1,1), ma non fu composto da lui; lo dice chiaramente la lingua in cui il Cantico è scritto, che è un ebraico del post-esilio. Siccome il Cantico dei cantici fa parte della letteratura sapienziale, e Salomone era considerato il sapiente per eccellenza in Israele, questo libro, come altri, vengono attribuiti a lui.

Il Cantico dei cantici non è un’opera unitaria in se stessa, ma è una raccolta di canti amorosi riuniti insieme da un redattore intorno al 400 – 350 a.C. Tali canti possono avere avuto origine in occasione di feste di matrimonio, ed hanno dei paralleli nella letteratura amorosa di altri popoli, ad esempio nella letteratura egiziana.

Interpretazione del Cantico dei cantici

Vengono date fondamentalmente due interpretazioni.

L’interpretazione allegorica o simbolica.

Secondo questa interpretazione il Cantico dei cantici canterebbe l’amore tra Dio (sposo) e Israele (sposa). Questa interpretazione fu data dall’esegesi ebraica a partire dal II secolo d.C. e cristiana fin dall’antichità. Con l’immagine sponsale il Cantico dei cantici darebbe questo messaggio: Dio è lo sposo dell’umanità; noi siamo la sposa di Dio. Tra Dio e l’umanità corre un rapporto e un amore di sposi. I Padri della Chiesa, i mistici del Medio Evo e quasi tutti i commentatori fino a pochi decenni fa tennero questa interpretazione, fondandosi sul fatto che più volte nella Bibbia l’immagine sponsale è adoperata per esprimere il rapporto Dio-umanità, ad esempio in Os 1 – 3; Ger 2,1-3; Ger 3,1-5; Ez 16, ecc.

L’interpretazione letterale o naturale.

Ma l’interpretazione allegorico-simbolica non è quella vera. Il Cantico dei cantici canta l’amore umano, l’amore tra l’uomo e la donna. Chi legge il testo ricava l’impressione netta e immediata che esso canti l’amore umano. E’ questo il suo senso ovvio e letterale.

-In tutto il libro il nome di YHWH ricorre una volta sola, nell’espressione “le vampe dell’amore sono una fiamma di Jah” (Ct 8,6). Questa espressione “fiamma di Jah” sta a significare che l’amore tra l’uomo e la donna è un amore straordinariamente forte e ardente (applicare a una realtà il nome di JHWH è un altro dei modi che l’ebraico ha per esprimere il superlativo assoluto); oppure questa espressione potrebbe significare che l’amore uomo-donna viene da Dio, ha in lui la sua origine e la sua sorgente.

-In tutto il libro ricorrono espressioni, immagini e simboli arditi che evocano aspetti fisici e sessuali dell’uomo e della donna, i quali mal si adattano al rapporto Dio-Israele, Dio-umanità.

-E’ vero che in altri libri biblici, come detto sopra (Osea, Geremia, Ezechiele), l’immagine uomo-donna viene impiegata per esprimere il rapporto Dio-Israele, Dio-umnaità, ma in quei testi è sempre detto esplicitamente che tale simbologia si riferisce a Dio e a Israele. Ciò non è mai detto nè lasciato intendere nel Cantico dei cantici.

-Il tema dell’amore umano ha tutto il diritto di trovare posto in un libro biblico; esso è cantato anche in altri testi della Bibbia, ad esempio in Gen 1,27-28; Gen 2,18-24; Gen 29,20; Prov 5,15-20; il libro di Tobia. L’amore tra l’uomo e la donna, l’amore sponsale, è una realtà positiva per la Bibbia, è una realtà benedetta e voluta dal Creatore.

-L’interpretazione ebraica fino al I secolo d.C. era quella letterale.

Per cui è indebito pensare che l’amore cantato nel Cantico sia simbolo dell’amore di Dio per l’umanità e dell’umanità per Dio. Oggi l’interpretazione comune è quella letterale – naturale. E’ il senso ovvio del testo.

Composizione del libro.

Il libro del Cantico dei cantici è formato da vari poemetti che sono stati composti in momenti diversi e indipendentemente l’uno dall’altro. Parlano tutti d’amore, dell’esperienza amorosa dei fidanzati e degli sposi, per cui presentano ripetizioni, punti in comune, e, insieme, differenze e peculiarità. Per cui anziché commentarli uno ad uno, li guardiamo in modo trasversale, cogliendo in essi alcuni filoni di pensiero, alcuni temi che maggiormente si impongono.

Guardato così, il Cantico dei cantici presenta tre momenti, tre stadi nell’esperienza d’amore, momenti che sono comuni ad ogni percorso di persone che si amano: il momento della nascita dell’amore; il momento della crisi o esilio dell’amore; il momento del compimento dell’amore.

La nascita dell’amore.

L’amore è presentato come un amore reciproco, fatto di affetto, di trasporto, di apprezzamenti e di complimenti vicendevoli, fatto di tenerezza, di struggente desiderio dell’altro, di contemplazione delle doti dell’amato/a, di ricerca l’uno dell’altro, di bisogno di stare insieme in un abbraccio appassionato (Ct 1 – 2; in particolare Ct 1,2-4; Ct 1, 7; Ct 1, 9-17; Ct 2,6-14).

L’amore è presentato anche nella sua dimensione fisica e corporea, non come fine a se stessa ma come tramite dell’incontro interpersonale. I due innamorati contemplano ed esaltano ciascuno la bellezza del corpo dell’altro, esprimendosi mediante immagini, simboli, metafore prese da tutto il regno della natura (regno fisico, vegetale, animale), e ricorrendo a impressioni sensoriali molto vive e forti che interessano la vista, l’odorato, l’udito, il tatto, il gusto. Tutta la persona è come inebriata, anima e corpo, dall’esperienza amorosa del proprio partner (Ct 4,1-15; Ct 7,2-9; Ct 5,10-16).

L’amore è presentato come una realtà forte che dolcemente ferisce e segna i due amanti (Ct 2,5; Ct 4,9). Anche l’ambiente esterno, la natura è come trasfigurata dall’esperienza d’amore; tutto appare come una eterna primavera (Ct 2,11-13).

La crisi, o esilio, dell’amore.

Nell’esperienza amorosa i fidanzati, gli sposi, possono momentaneamente smarrirsi. Il fidanzamento e le stesse nozze, una volta celebrate, non proteggono automaticamente dalle prove, dalle incomprensioni, dalle cadute dell’amore. L’unione di lui e di lei è un itinerario di ricerca e di conquista mai arrivato alla fine. I due possono anche sperimentare momenti di estraneità dell’uno dall’altro, ora senza la responsabilità di nessuno dei due (Ct 3,1-4), ora per negligenza di uno dei due (Ct 5,2-8); per cui si rende necessario uno sforzo di ricerca dell’amato per rifare in pienezza la comunione.

Il compimento dell’amore.

Il Cantico dei cantici canta la comunione interpersonale piena di lui e di lei (Ct 2,16; Ct 6,3; Ct 7,11-14).

I messaggi del cantico dei cantici

1. L’unione uomo-donna è una unione monogamica. Tutto il libro si muove in questo orizzonte. Non è lasciato spazio all’idea di un uomo che abbia più mogli. Il testo di Ct 6,8-9 contrappone all’harem dei re di Israele l’unione monogamica dei due protagonisti del Cantico, e proclama questa unione come quella vera e autentica. Anche altri passi del Cantico orientano in questo senso (Ct 2,16; Ct 6,3; Ct 7,11; Ct 7,14; Ct 8,6-7).

2. L’unione uomo-donna è una unione indissolubile. Ct 8,6-7 descrive un amore che segna in modo indelebile i due amanti; parla di un amore che è più forte della morte, e che quindi va oltre la morte stessa dell’uno e dell’altra; proclama l’amore sponsale come una realtà che nessuna forza avversa può spegnere, sopprimere e vincere.

3. L’unione uomo-donna è comunione assoluta di cuore e di azione. Ct 8,6 esprime la richiesta dell’amata che l’amato l’abbia presente in ogni battito del cuore, in ogni espressione di sentimento e d’affetto, cioè che tutti i sentimenti e gli affetti dell’amato siano riservati a lei; e chiede anche che in ogni cosa che l’amato fa, egli la tenga presente, compia le azioni e svolga gli impegni in comunione ideale con lei.

4. L’amore tra l’uomo e la donna è un amore che ha una componente anche fisica, oltre che sentimentale e carica di emozioni (Ct 4,1-7); ma esso non è solo fisicità e sentimento. Il Cantico inserisce l’amore in un orizzonte fatto di condivisione, di volontà reciproca di comunione, di scelta responsabile dell’uno verso l’altro (Ct 8, 6-7). L’amore cantato dal Cantico dei cantici è un amore che unisce insieme eros, amicizia e dono di sé.

Papa Benedetto XVI nella sua enciclica “Deus caritas est” pubblicata nel 2006 descrive in modo magistrale, oltre che magisteriale, la realtà dell’amore. Egli scrive: “All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di “eros” ( έρως ). Diciamo già in anticipo che l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola “eros”, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore - “eros ( έρως ) , “philìa” ( φιλία ) e “agàpe” ( ὰγάπη ) - gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all’amore di amicizia ( “philìa” ), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola “eros”, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola “agàpe”, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’ “eros”, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?

Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’ “eros”? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I greci -senz’altro in analogia con altre culture- hanno visto nell’ “eros” innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: “Omnia vincit amor” afferma Virgilio nelle Bucoliche -l’amore vince tutto- e aggiunge: “et nos cedamus amori”- cediamo anche noi all’amore. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione “sacra” che fioriva in molti templi. L’ “eros” venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.

A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’ “eros” come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poichè la falsa divinizzazione dell’ “eros”, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come strumento per suscitare la “pazzia divina”: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l’ “eros” ebbro ed indisciplinato non è ascesa, “estasi” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’ “eros” ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.

Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell’ “eros” nella storia e nel presente. Innanzitutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’ “eros”, non è il suo “avvelenamento”, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza. Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e di anima. L’uomo diventa veramente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’ “eros” può dirsi veramente superata quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una realtà soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore -l’ “eros”- può maturare fino alla sua vera grandezza.

Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di essere stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L’ “eros” degradato a puro “sesso” diventa merce, una semplice “cosa” che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell’uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l’ “eros” vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.

Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l’amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei cantici, uno dei libri dell’Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d’amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l’amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l’amore. Dapprima vi è la parola “dodìm” (ם דּוׁדִי ), un plurale che esprime l’amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola “ahabàh” ( אַהֲבָה ), che nella traduzione greca dell’Antico Testamento è resa col termine di simile suono “agàpe” ( α̉γάπη ) che, come abbiamo visto, diventò l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore. In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.

Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività -“solo quest’unica persona”- e nel senso del “per sempre”. L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira all’eternità. Sì, amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio.” (Deus caritas est, par. 3-6).

5. L’amore tra l’uomo e la donna è un amore che ha la sua origine e la sua sorgente in Dio. L’espressione: l’amore è “una fiamma del Signore” (Ct 8,6) significa che è Dio ad avere immesso nel cuore dell’uomo e della donna l’amore, e che esso quindi è buono e corrisponde al piano e al disegno di Dio.

6. Tale visione dell’amore sponsale era profondamente contestatrice della mentalità e della prassi allora vigente in Israele, avvallata anche dalla Legge di Mosè che permetteva la poligamia (Gen 29,15-30; 1 Sam 1,1-2; 2Sam 3,2-5; 2Sam 5,13) e il ripudio della sposa da parte del marito (Deut 24,1).

Gesù (Mc 10,1-12 e paralleli) riporterà l’ideale dell’unione uomo-donna al progetto primitivo di Dio indicato in Gen 1, 27; Gen 2,24 e nel Cantico dei cantici.

7. Tale visione dell’amore sponsale è l’ideale anche per l’uomo e la donna d’oggi e di tutti i tempi; è l’ideale che più corrisponde al cuore umano. E’ un ideale alto e difficile, ma che con la forza di Dio può essere vissuto.

8. Il Cantico dei cantici, letto in chiave spirituale, può alimentare, in varie sue espressioni (ad esempio Ct 2,16), il rapporto uomo-Dio, il desiderio di unione con il Signore.

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La sapienza

Nei libri sapienziali

Nei libri sapienziali troviamo tre tipi di sapienza, una sapienza a tre livelli. C’è una sapienza che è il frutto della riflessione della ragione umana, la quale, con le sue forze e con la luce di cui è dotata, capisce cos’è il bene e cos’è il male, capisce qual è la cosa giusta e la cosa ingiusta. E’ il primo livello di sapienza.

C’è poi un secondo livello di sapienza, che è il modo con cui Dio vede le cose, giudica i fatti e gli avvenimenti. E’ una sapienza superiore a quella umana, una sapienza che l’uomo con le sue forze non è capace di raggiungere, e che può solo avere se Dio gliela concede.

C’è poi un terzo livello di sapienza, una Sapienza che comincia ad acquistare i lineamenti, i contorni di una persona, di un qualcosa che è in relazione con Dio ma che in qualche modo diventa anche una realtà distinta da Dio. il primo passo verso la rivelazione che Gesù ci darà in modo più vivo quando presenterà se stesso come la Sapienza del Padre, persona distinta dal Padre

La Sapienza umana

Il primo livello di sapienza, la sapienza umana, è presente particolarmente nel libro dei Proverbi e del Siracide. Essa viene dal buon senso, da quello che la retta ragione ci suggerisce, da quello che seguendo una buona coscienza noi comprendiamo. Questo tipo di sapienza è la riflessione di un saggio o di un circolo di saggi sulle situazioni più frequenti della vita e del vivere quotidiano come l’amicizia, la solitudine, il dolore, la prosperità, la vita di famiglia, la vecchiaia, la morte… tutte le situazioni che costituiscono la vita di ogni uomo. Su queste situazioni i saggi ci offrono le loro considerazioni che provengono dalla loro ragione e dalla loro esperienza.

Si vedano i seguenti testi:

Contro le cattive compagnie (Prov 1,8-16)

Invito a vincere la pigrizia (Prov 6,6-11)

Invito al rispetto ai genitori (Sir 3,1-16; Sir 7,27-28)

Invito all’umiltà (Sir 3,17-24; Sir 10,6-18)

Invito alla carità verso i poveri (Sir 4,1-11; Sir 7,32-35; Prov 19,17)

Contro la presunzione (Sir 5,1-8)

L’amicizia (Sir 6,5-17; Sir 22,19-26)

Comportamento da tenere con le donne (Sir 9,1-9)

L’uomo saggio cerca la Sapienza (Sir 14,20 - 15,10)

La responsabilità nell’agire (Sir 15,11-17)

Contro parole e comportamenti impuri (Sir 23,12-21)

Invito a deporre il rancore (Sir 27,30 – 28,7)

Sobrietà nel bere (Sir 31,25-31)

La Sapienza Divina

Il secondo livello di sapienza è la sapienza divina, una sapienza che non è soltanto il frutto della ragione umana che pensa, ma è una sapienza che viene da Dio. Ed è Dio che con la sua sapienza, con la sua luce illumina la realtà, le situazioni, specialmente quelle più difficili da comprendere Ad esempio il libro di Giobbe affronta il tema del dolore di un innocente che soffre. Di fronte a questo problema la ragione umana più di tanto non riesce a capire, ma ecco che in questo libro il dolore dell’innocente viene illuminato da una sapienza superiore. Il Signore dice una parola circa questa situazione che fa problema alla ragione umana. Nel libro del Cantico dei Cantici troviamo il pensiero di Dio sul matrimonio e sulla vita di coppia, pensiero che è più perfetto di quello dell’uomo, che, pensando il matrimonio, arriva ad ammettere anche il divorzio. Nel libro della Sapienza troviamo una luce in più per quanto riguarda la vita oltre questa vita. Con la ragione umana l’uomo pensa e qualcosa riesce a capire (vedi gli Egiziani che pensavano che non tutto finisse con questa vita terrena), ma nei primi sei capitoli del libro della Sapienza si dice qualcosa di più di quanto la ragione umana riuscirebbe da sola a dirci dell’aldilà, circa il senso della vita e della vita oltre la vita.

La Sapienza come persona divina

Il terzo livello di sapienza è la Sapienza che inizia ad assumere contorni di persona, di persona divina. Essa non è più soltanto una qualità e una caratteristica di Dio, ma comincia a distinguersi da lui. E’ in relazione con Dio, ma diventa una realtà “accanto” a Dio. Nei libri sapienziali non è ancora chiara e precisata questa distinzione, ma siamo sulla linea che porterà alla rivelazione della sapienza incarnata, Gesù di Nazareth. Ci troviamo infatti di fronte al primo passo verso la rivelazione che Gesù ci farà in modo più vivo quando presenterà se stesso come la Sapienza del Padre, persona distinta dal Padre.

La Sapienza ha collaborato con Dio alla creazione del mondo e ha fissato la sua dimora in Israele.

Prov 8,22-31; Sir 24,1-21.

La Sapienza è una nobildonna che chiama, che invita, che cerca l’uomo, che dà insegnamenti.

Prov 1,20 – 2,6; Prov 3,13-26; Prov 8,1-11; Prov 8,32-36; Prov 9,1-6; Sap 6,12-16.

La Sapienza è fonte di bene

Sap 8,9-16; Sir 6,18-31.

La sapienza si acquista

-con la preghiera: Sap 7,7-14; Sap 9,1-18.

-con la meditazione assidua: Sir 38,24 – 39,11

-con il desiderio di lei: Sap 8,1-16

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