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1 Giobbe 2 Esegesi esistenziale del Libro di GIOBBE II° INCONTRO PARROCCHIA REGINA PACIS FORLI’ © Dott. Enrico Righini Locatelli

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Giobbe

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Esegesi esistenziale del Libro di GIOBBE

II° INCONTRO

– PARROCCHIA REGINA PACIS – FORLI’

© Dott. Enrico Righini Locatelli

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I VARI LINGUAGGI ALL’INTERNO DEL LIBRO DI GIOBBE:

DAL LINGUAGGIO DELLA FEDE POPOLARE

AL LINGUAGGIO DELLA MISTICA

BREVE RIEPILOGO (della puntata precedente)

In via preliminare facciamo un breve riepilogo di quanto trattato nel I incontro, a

beneficio di coloro che non hanno potuto parteciparvi, ma anche di quanti erano

presenti, in modo da richiamare alla memoria i punti salienti.

- Oggetto della nostra indagine: esegesi esistenziale.

- Approccio ermeneutico corretto: importanza del tipo di domanda da porre

al testo biblico (domande di senso) e caratteri fondamentali del testo biblico

(sacro e ispirato).

- Obbiettivo della nostra esegesi (esistenziale): attualizzazione (comprendere

cosa il testo dice oggi, hic et nunc, per noi).

- Informazioni di base sul Libro di Gb: collocazione all’interno della Bibbia

(AT, Sapienziali), lingua (ebraico, poi tradotto in greco koinè del 250 a.c. al

100 a.c.) e periodo di redazione (dal X-IX sec. a.c. al IV-III sec. a.c., dal 900

a.c. al 200 a.c. = 7 secoli), autore.

- Trama e struttura del Libro di Gb: 42 capitoli così articolati:

Cap. 1-2 (Prologo) Descrizione della condizione iniziale di Gb:

ricchezza, amore ed armonia familiare, ottima reputazione e salute: una

vita piena di grazia secondo i canoni della letteratura sapienziale.

Decadenza di Gb dallo status quo iniziale ad opera del Satàn

(letteralmente, in ebraico, l’accusatore), in conseguenza della sfida

lanciata da quest’ultimo a Dio: secondo il Satàn la fede di Gb non è

autentica e questi, una volta decaduto dalla grazia, maledirà Dio

apertamente.

Prima e seconda prova di Gb, articolate parallelamente in una

strutturazione triadica: azioni di Gb, parole di Gb, giudizio del narratore.

Arrivo dei tre amici di Gb.

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Dal cap. 3 in poi, tutto il Libro di Gb si sviluppa in una serrata

concatenazione di dialoghi e monologhi. L’azione è ridotta al minimo, tutta la

trama del libro ha come asse portante il parlare.

Cap. 3 Prima lamentazione di Gb.

Capp. 4-27 Fitta concatenazione di dialoghi tra Gb ed i suoi tre amici.

Cap. 28 Interludio sapienziale sulla ricerca della sapienza (hochmah)

Capp. 29,30,31 Lamenti ed apologia di Gb. Nel versetto finale (31,40b)

Gb tace: “Sono finite le parole di Gb”.

Capp. 32-37 Intervento e discorsi del quarto interlocutore di Gb: il

profeta Eliu.

Capp. 38-42 La teofania ed i due dialoghi tra Dio e Gb, la sentenza

conclusiva di Dio e la conseguente restitutio in integrum di Gb, con il

ripristino dello status quo ex ante.

- Metodologia utilizzata: Il criterio ermeneutico di cui ci siamo avvalsi nella

nostra esegesi si è basato sull’applicazione al Libro di Gb del “modello a

cinque fasi sulla psicologia del morente” della dott.ssa Kübler-Ross

(negazione, rabbia, mercanteggiamento, depressione, accettazione) . Questo

particolare approccio ci ha permesso di calarci nel vissuto emotivo di Gb per

comprendere meglio l’evoluzione del suo percorso di elaborazione del lutto

ed il suo itinerario interiore di approfondimento della fede.

Una rigorosa esegesi ci ha consentito di verificare la puntuale ricorrenza, nel

testo, di ognuna delle cinque fasi del modello di Kübler-Ross, offrendoci un

preziosa conferma della sua utilità anche ai fini ermeneutici.

Abbiamo quindi concentrato la nostra attenzione sui versetti riguardanti,

rispettivamente, le reazioni di Gb alla prima ed alla seconda prova (1,20-22;

2,8-10), confrontandoli tra di loro e sottoponendoli ad una accurata esegesi.

- I risultati del nostro saggio di esegesi: siamo pervenuti ad alcune

interessanti acquisizioni.

In primis abbiamo svelato l’apparente ingenuità del Libro di Gb, mettendone

a nudo il carattere polisemico. Abbiamo così potuto constatare che l’aspetto

anodino dei testi sapienziali cela, al loro interno, una stratificazione di livelli

di interpretazione: dal più immediato e superficiale, al più profondo ed

autentico.

Inoltre, l’esegesi dei versetti che descrivono le reazioni di Gb alla prima ed

alla seconda prova ed il loro reciproco confronto ci ha permesso di

ridimensionare una diffusa, ma inesatta interpretazione del Libro di Gb: quella

relativa alla proverbiale pazienza del protagonista. In realtà questa dote non è

né una qualità precipua di Gb in quanto uomo, né una virtù sulla quale il testo

biblico intenda soffermarsi, ancorché marginalmente. La percezione,

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largamente diffusa nell’immaginario collettivo, di Gb quale paradigma

dell’uomo paziente è piuttosto il frutto di una comprensione superficiale del

testo, capace di indurre il lettore poco accorto a male interpretare gli

atteggiamenti del protagonista, fraintendendo lo sbigottimento ed il rifiuto,

conseguenti alla mancata elaborazione del lutto, con una fede salda e matura.

Temi certamente più rilevanti nel Libro di Gb sono quelli relativi alla

sofferenza, alla malattia ed alla morte, aspetti misteriosi ed inquietanti

dell’esistenza, dinnanzi ai quali l’umana comprensione rivela tutti i suoi

limiti. Quando poi tali eventi irrompono nella vita di un innocente il mistero

diventa scandalo (σκάνδαλον = inciampo) ed esige, oltre ad una risposta,

anche una giustificazione (teologicamente parlando, una teodicea). Tuttavia,

anche sotto questo profilo, il Libro di Gb ci lascia apparentemente

insoddisfatti: il testo non svela il mistero della sofferenza e della morte e non

trova una valida giustificazione per lo scandalo. Anche al termine del libro,

Gb non conoscerà il motivo della sua sofferenza, né quello della restitutio in

integrum finale. L’origine ed il motivo della sua sofferenza resteranno avvolti

dal mistero. Il lettore, dall’esterno, qualcosa sa perché conosce la trama, ma,

in realtà, sa poco di più rispetto a Gb: conosce l’espediente letterario utilizzato

dall’autore del libro, ma solo questo.

- I contenuti esistenziali del Libro di Gb: la ricchezza del Libro di Gb è

sorprendente, noi abbiamo evidenziato un paio di tematiche particolarmente

significative sotto il profilo esistenziale:

Il linguaggio, o meglio: i diversi tipi di linguaggio all’interno del Libro

di Gb.

La radicale confutazione ed il definitivo screditamento della teologia

della giustizia retributiva di Dio (alla quale abbiamo fatto qualche

rapido accenno nel precedente incontro, ma che ci riserviamo di

approfondire ampiamente nel prossimo).

Nell’incontro conclusivo (il IV), come già anticipato, faremo una sintesi

dei temi trattati nei primi tre incontri e proietteremo ciò che abbiamo

scoperto con la nostra esegesi in una prospettiva cristologica: cioè alla

luce di quanto Gesù ci ha rivelato nel Vangelo.

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Veniamo dunque al tema di questo nostro secondo incontro:

I VARI LINGUAGGI ALL’INTERNO DEL LIBRO DI GIOBBE.

Abbiamo poc’anzi accennato al fatto che, dal terzo capitolo in poi, tutto il Libro di

Gb procede in una fitta concatenazione di dialoghi e monologhi. Il linguaggio

costituisce l’asse portante lungo il quale si sviluppa il racconto, ma non solo: il

fulcro stesso del Libro di Gb è il linguaggio. Tutta la trama del libro ruota attorno

ad una sfida, tra il diavolo e Dio, che ha per oggetto il linguaggio, il parlare.

Oggetto della scommessa tra il Satàn e Dio è infatti un tipo di linguaggio: Gb

maledirà Dio? “Scommetto che ti maledirà apertamente! (in faccia!)” dice il Satàn

(1,11; 2,5).

Inoltre, una attenta esegesi ci consente di scoprire, all’interno del libro di Gb,

diversi livelli, diversi tipi di linguaggio, ognuno con un proprio, specifico

significato.

Dal punto di vista esistenziale, che costituisce il filo conduttore nostri incontri, il

Libro di Gb ci dice due cose importantissime:

- Come parlare di Dio

- Come parlare di Dio ai fratelli che soffrono

Ma procediamo con ordine: iniziando ad individuare i vari livelli di linguaggio

nascosti all’interno del testo, per poi analizzarli singolarmente.

1) IL LINGUAGGIO DELLA FEDE POPOLARE

Nel primo incontro abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle reazioni di

Gb alla prima ed alla seconda prova (1,20-22; 2,8-10), sottoponendole ad una

approfondita esegesi. Dal confronto dei due brani sono emersi alcuni indizi

particolarmente interessanti che ci hanno consentito di andare oltre

l’interpretazione superficiale del testo e di coglierne il significato più

autentico. Abbiamo scoperto che, al di la delle apparenze, le reazioni di Gb

non riflettono una fede salda e matura, ma sono piuttosto la conseguenza di un

meccanismo di autodifesa, innescato da una serie di eventi tragici verificatisi

in rapida successione (1,16.17.18), tanto da risultare inaccettabili. Siamo

nella prima fase del modello di Kübler-Ross, quello del rifiuto. Gb è in

preda al disorientamento e non sa cosa pensare, il suo inconscio rifiuta di

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accettare quanto è accaduto ed egli riesce ad esprimersi solamente con il

linguaggio della fede popolare: “nudo uscii dal grembo di mia madre, e

nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il

nome del Signore!” (1,21). Abbiamo osservato che la seconda reazione di Gb

(2,8-10) rivela i primi sintomi di un’evoluzione psicologica che sta lentamente

maturando all’interno del protagonista. Siamo ancora all’interno della fase

del rifiuto, ma Gb abbandona il linguaggio della fede popolare e si mette

in disparte concentrandosi su se stesso: “prese un coccio per grattarsi e stava

seduto in mezzo alla cenere” (2,8). Dopo la seconda prova Gb non recita

massime sapienziali e benedizioni (1,21), ma pronuncia una sola breve frase,

espressa in forma interrogativa e connotata da una forte ambiguità: “…se da

Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (2,10). Gb

comincia a comprendere la reale portata di quanto gli è accaduto e a chiamare

le cose con il loro nome: ciò che gli è successo è un “male” e Gb ne prende

atto, compie un giudizio di valore ed inizia a prendere le distanze da Dio.

Infatti, mentre al termine della prima prova Gb menziona per ben tre volte

Dio, chiamandolo “YHWH” (1,21), al termine della seconda prova nomina

Dio una sola volta, utilizzando il nome “Elohìm” (2,10). Questa circostanza

non è casuale, ma riflette l’intenzione dell’autore di Gb di rappresentare

l’evoluzione psicologica che sta maturando nell’inconscio del protagonista. Il

tetragramma sacro “YHWH” indica il nome che Dio ha rivelato a Mosè

durante la teofania del Sinai (Es. 3,13-15) ed è il nome che riflette la

vicinanza di Dio, il quale si fa alleato e protegge il suo popolo, instaurando

con esso una partnership. “YHWH” deriva etimologicamente dall’espressione

ebraica “’ehjeh asher ‘ehjeh” (tradotta in greco da LXX con “ἐγώ εἰμί ὁ ὦν”)

e letterariamente significa: “Io sono colui che è e sarà con te per liberarti,

perché pienamente e stabilmente Io sono colui che è” (Nb. Il verbo “hajah”

ha una connotazione dinamica che non si riesce a rendere con immediatezza

né in greco, né in latino, né in italiano). Elohìm, invece, è il nome utilizzato

per indicare Dio nella Genesi (Gn. 1,1) e riflette la potenza creatrice di Dio,

ma anche la sua trascendenza e la sua alterità rispetto alla creaturalità

dell’uomo: e quindi anche la sua distanza. Al di là delle apparenze, la fede di

Gb è tutt’altro che salda!

2) IL LINGUAGGIO DEL SILENZIO

Dopo aver risposto alla moglie Gb tace.

Entrano in scena tre personaggi, Elifaz, Bildad e Sofar: tre amici di Gb che

hanno saputo della sua sventura e sono accorsi per “condividere il suo dolore

e consolarlo” (2,11).

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Il comportamento dei tre uomini è alquanto significativo: stracciano i loro

mantelli e lanciano una manciata di polvere verso il cielo, facendola ricadere

sul proprio capo (2,12), poi si siedono in terra accanto a Gb e tacciono. Per

sette giorni e sette notti regna il silenzio. Elifaz, Bildad e Sofar hanno

compiuto alcune azioni rituali, socialmente codificate e molto simili a quelle

compiute in precedenza da Gb (1,20), ma poi tacciono. E’ lecito ritenere che,

così come conoscono i comportamenti ritenuti socialmente opportuni in simili

circostanze, allo stesso modo conoscano anche le parole più corrette da

pronunciare. Ciononostante scelgono di tacere: il dolore di Gb è troppo

grande e non c’è nulla di adeguato da dire. L’unica cosa da fare è “esserci”,

stare insieme, facendo sentire la propria vicinanza all’amico sofferente,

rispettandone il silenzio ed il dolore. E’ il linguaggio del silenzio.

La dott.ssa Kübler-Ross, sviluppando il suo “modello a cinque fasi”, insiste

molto sull’importanza della presenza silenziosa accanto al paziente, sul

rispetto della sua intimità. In certe situazioni parlare è superfluo, se non

addirittura controproducente: ciò che conta è la presenza. Certamente non è

semplice: siamo figli del nostro tempo, quotidianamente immersi in una

società caotica e chiassosa ed il silenzio ci fa problema (Nb. La psicologia

del linguaggio e il silenzio come strategia di negoziazione). Eppure, in

determinate circostanze, il silenzio è indispensabile per favorire

l’introspezione e consentire al malato di ricomporre i conflitti interiori

all’interno del proprio animo.

I testi sapienziali (Giobbe, Proverbi, Qohelet, Siracide, Sapienza, Cantico dei

cantici) hanno come filo conduttore la sapienza (hochmah) e dedicano

molta attenzione al parlare: sia sotto al profilo del “come” parlare, sia del

“quando” parlare.

C’è un’arte del parlare: “Con pazienza il giudice si lascia persuadere, una

lingua dolce spezza le ossa” (Pr. 25,15). Tale accortezza non è circoscritta

esclusivamente al “come” parlare, ma coinvolge soprattutto il “quando” ed il

“se” parlare. Noi la chiamiamo discernimento e la collochiamo al primo

posto tra le virtù cardinali: è la prudenza, l’auriga virtutum, cioè la virtù che

ci consente di orientare il corretto esercizio di tutte le altre (giustizia, fortezza,

temperanza). La prudenza in quanto virtù cardinale non è da intendere nel

senso di cautela, ma piuttosto in quello di “sapienza”, un po’ come si

intendeva anticamente il termine giuris-prudenza: juris-prudentia = sapienza

giuridica, dottrina (anche se oggi prevale l’accezione tecnica del termine:

insieme delle sentenze e delle pronunce del giudice). Nei testi sapienziali il

saggio, l’hakàm, è colui che sa parlare a tempo debito: “C’è un tempo per

tacere ed un tempo per parlare” (Qo 3,7b); “Chi risponde prima di avere

ascoltato, mostra stoltezza e ne avrà vergogna” (Pr. 18,13) etc…

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I tre amici di Gb hanno dato prova di profonda sensibilità, hanno usato cautela

e discernimento ed hanno dimostrato di essere degli hakamìm (sapienti).

3) IL LINGUAGGIO DEL DUBBIO

Abbiamo appurato che le parole pronunciate da Gb in 1,21 e in 2,10,

nonostante le apparenze, non riflettevano una fede solida e matura, ma si

collocavano all’interno della fase della negazione e rappresentavano il

linguaggio della fede popolare. Il capitolo 3 ci offre un’ulteriore conferma in

tal senso. Superato il disorientamento iniziale Gb ha preso coscienza della

drammaticità della propria situazione e, a questo punto, la fede popolare

crolla, rivelando tutti i suoi limiti. Gb è rimasto in silenzio con il suo dolore

per sette lunghi giorni (2,13) e quando riprende a parlare la sua collera

esplode. Siamo giunti alla fase della rabbia: Gb si ribella alla sua sorte e

ritratta, punto per punto, ciò che ha detto sin’ora, mettendo in discussione

tutto quanto. Gb sta utilizzando il linguaggio del dubbio.

Un piccolo schema per confrontare le puntuali smentite, da parte di Gb, di

quanto affermato in precedenza:

Linguaggio della fede popolare Linguaggio del dubbio

(1,21a) “Nudo uscii dal ventre

di mia madre e nudo vi

ritornerò”: Gb accetta la

propria nascita e la precarietà

della propria condizione

creaturale, con le conseguenze

che comporta.

(3,3-4) “Perisca il giorno in

cui nacqui e la notte in cui si

disse: “E’ stato concepito un

maschio!” Quel giorno divenga

tenebra...”

(3,6) “Quella notte se la

prenda il buio…”

(3,7) “Ecco, quella notte sia

sterile…”

(3,10) “…poiché non mi chiuse

il varco del grembo

materno…”

(3,11-12) “Perché non sono

morto fin dal seno di mia

madre e non spirai appena

uscito dal grembo? Perché due

ginocchia mi hanno accolto e

due mammelle mi

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allattarono?”.

(1,21b) “Yhwh ha dato, Yhwh

ha tolto”:

(2,10) “Se da Elohìm

accettiamo il bene, perché non

dovremmo accettare il male?”:

Gb accetta il capovolgimento

del suo status quo iniziale.

(3,20.24) “Perché dare alla

luce un infelice…?” “Perché al

posto del pane viene la mia

sofferenza…?”.

(1,21c) “Sia benedetto il nome

di Yhwh!”

(3,1) “Allora Gb aprì la bocca

e maledisse il suo giorno”

(giorno di nascita).

(3,7-8) “Ecco, quella notte sia

sterile, e non entri il giubilo in

essa. La maledicano quelli che

imprecano il giorno…”

4) IL LINGUAGGIO DELLA TEOLOGIA

Il linguaggio del dubbio ci rivela che Gb non si accontenta più delle risposte

superficiali offerte dalla fede popolare, ma si pone delle domande e cerca di

comprendere il motivo delle sue disgrazie. Gb vuole capire ed è pronto a

passare ad un nuovo tipo di linguaggio: quello della teologia.

Tutti quanti conosciamo il significato etimologico del termine “teologia”

(θεός = Dio + λόγος = discorso), ma, in effetti, questa definizione ci dice ben

poco. Una definizione molto più utile ed appropriata di teologia è “fides

quaerens intellectum”: la fede che cerca di capire, che creca delle risposte alle

domande di senso, alle domande esistenziali. Questa definizione di teologia

risale a Sant’Agostino (354 – 430) ed è stata ripresa successivamente da

Sant’Anselmo d’Aosta (1033 – 1109) nel Proslogion. Oltre a definire il

significato più autentico della teologia, questi due grandi santi e teologi hanno

delineato magistralmente il rapporto tra fede e ragione: S. Agostino

evidenziandone la naturale complementarietà “fides quaerens intellectum,

intellectus quaerens fidem”; S. Anselmo collocando l’indagine razionale

all’interno dell’orizzonte della fede: “Neque enim quaero intelligere ut

credam, sed credo ut intelligam”. Fede e ragione sono due realtà che possono

e devono procedere insieme: la fede, senza la ragione sarebbe fideismo,

superstizione; la ragione, senza la fede, sarebbe positivismo. Su questo tema,

l’enciclica “Fides et Ratio” di San G.P. II, del 1998, sottolinea che “Fede e

ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la

contemplazione della verità”.

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Gb ed i suoi tre amici sono rimasti a lungo in silenzio (2,13) ed hanno avuto

modo di riflettere e, adesso che Gb ha finalmente rotto il silenzio (3,1), anche

loro sono pronti a parlare. Le argomentazioni di Gb e dei tre amici vertono sul

medesimo oggetto: Dio ed il rapporto tra questi e l’uomo, ma, al di là di

questa circostanza, hanno ben poco in comune. Si tratta in entrambi i casi di

discorsi teologici, ma che incarnano due teologie radicalmente diverse

l’una dall’altra.

Vediamo nel dettaglio le rispettive argomentazioni.

Argomentazioni degli amici:

- Solo Dio è grande: dossologie (δόξα = gloria + λόγος = discorso: inni di

lode a Dio) (5,9-18; 11,7-11; 22,12; etc.)

- Nessuno è puro dinnanzi a Dio (4,17-21; 15,14-16; 25,4-6; etc.)

- Dio punisce sempre i malvagi (4,7-11; 5,2-7; 8,11-15; etc.) e ricompensa

sempre la fedeltà del giusto (5,17-21.25-26; 8,5-7.20-22; 11,13-19; etc.)

Nb. Questa è la teologia della giustizia retributiva di Dio che

esamineremo nel prossimo incontro.

Argomentazioni di Gb:

- Dio è grande: dossologie (9,4-13; 12,7-10.13-25; 26,7-14; etc.)

Gb concorda con gli amici.

- L’uomo è certamente indegno davanti a Dio (7,17; 9,2-3)

Gb concorda con gli amici.

- Non sempre i malvagi sono puniti ed i giusti premiati, anzi spesso

avviene l’esatto opposto (9,22-24; 21,7-26.30-33; 24,2-24; etc.)

Gb confuta decisamente la teologia della giustizia retributiva di Dio.

La teologia “statica” degli amici:

L’approccio di Elifaz, Bildad e Sofar è dogmatico. Il punto di partenza è il

dogma, la verità di fede: in questo caso la dinamica causa-effetto che

costituisce il fondamento della teologia della giustizia retributiva di Dio. I tre

amici sono consapevoli che la realtà sembra contraddire il dogma: Gb, per

loro stessa ammissione (4,3-6), è sempre stato un uomo retto e timorato di

Dio. Tuttavia il dogma non può essere messo in discussione essendo, per sua

stessa natura, inconfutabile. Di conseguenza, l’unica opzione possibile è

quella di sacrificare la realtà in ossequio al dogma: l’amico Gb sembrava retto

e virtuoso, ma, evidentemente, non lo era veramente. La teologia degli amici

di Gb è una teologia dogmatica, “statica”, priva di possibilità di

evoluzione, disposta a sacrificare la verità piuttosto che mettere in

discussione se stessa.

La teologia “esistenziale” di Gb:

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L’approccio di Gb è inverso rispetto a quello dei suoi tre amici. Mentre la

teologia di questi è una “teologia dall’alto”, che parte dai principi e si

confronta con la realtà, quella di Gb è una “teologia dal basso”, che parte

dalla sua esperienza e la esamina alla luce del dogma. La teologia di Gb è una

teologia “esistenziale”, che accetta di mettersi in discussione e che non

teme di confrontarsi con il dogma. E’ una teologia “dinamica”, con ampi

margini di evoluzione e che non accetta compromessi con la verità.

A differenza della teologia “statica” dei tre amici, la teologia di Gb è anche

corretta sotto il profilo teorico-sistematico, dal momento che è più fedele al

concetto stesso di dogma. Questo, infatti, non è un punto di arrivo, ma una

solida base di partenza da cui poter sviluppare il pensiero teologico.

Due teologie così diverse sono inconciliabili. L’ossessione degli amici per

l’ortodossia preclude qualsiasi apertura alla verità e la loro teologia “statica”

rifiuta ogni confronto con la realtà, condannando ogni diversa interpretazione

come eretica. La conseguenza non può che essere lo scisma: in questo caso la

rottura dell’amicizia. Ben preso il dialogo diventa conflittuale e i toni caldi,

concilianti e pieni di delicatezza di 4,2-5 lasciano il posto alle offese (11,3) e

ad un’ironia tagliente (12,2).

5) IL LINGUAGGIO DELLA PREGHIERA

Il linguaggio della teologia non ha consentito a Gb di trovare una risposta alle

proprie domande, né sollievo alla sua angoscia. Gb allora passa dal linguaggio

della teologia a quello della preghiera: dal linguaggio in terza persona su

Dio a quello in seconda persona.

Gb si sente solo e vulnerabile: ha perso i figli, mentre la moglie e gli amici lo

hanno lasciato solo, non hanno creduto in lui. E’ disorientato: inizialmente ha

vissuto la fase del rifiuto e adesso sta passando dalla fase della rabbia a

quella del mercanteggiamento. Le preghiere di Gb non sono più ortodosse:

non pronuncia né inni di lode, né giaculatorie (1,21), il suo è il lamento di un

uomo ferito e disperato. Gb chiede, supplica e promette, prova persino a

ricattare Dio (7,7.9.21b) e a citarlo in giudizio perché risponda delle sue

azioni (10,2). Utilizza un linguaggio duro, a volte violento e pieno di

amarezza, ma non rinuncia nemmeno per un istante alla propria coerenza e

continua ostinatamente a gridare la sua innocenza (27,2-6; 31). Anche di

fronte alle accuse (15,5; 11,6; 22,2-11) di coloro che fino a poco tempo prima

erano suoi amici rimane onesto con se stesso e non smette mai di rivolgersi a

Dio.

6) IL LINGUAGGIO DELLA MISTICA

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Gb ha perorato a lungo ed ostinatamente la propria causa, sia presso gli amici

che presso Dio, ma i primi si sono rivelati ostili (15,5; 11,6; 22,2-11), mentre

il secondo è rimasto “contumace” (30,20). A questo punto Gb cessa di parlare

e si ritira in se stesso (31,40b). Il profeta Eliu, intervenuto nel cap. 32, gli

parla e lo invita ripetutamente a replicare, ma inutilmente: Gb rimane

arroccato nel suo silenzioso isolamento (33,5; 33,32-33). Conclusa

infruttuosamente la fase del mercanteggiamento, Gb è passato a quella

della depressione e dell’isolamento.

Gb non ha mai rinunciato a proclamare la propria integrità e non ha mai

smesso di rivolgersi a Dio. Ha parlato il linguaggio della preghiera: il

linguaggio in seconda persona con Dio ed ora, nel silenzio finale di tutti gli

interlocutori, riesce finalmente ad udire Dio che parla al suo cuore (40,2). Gb

ascolta e tace, ma il silenzio attuale è diverso dal precedente: non è il silenzio

della depressione e dell’isolamento disperato, ma quello fiducioso del figlio

che si abbandona alla voce del Padre. Dio parla a Gb e la parola implica la

relazione. Gb esce dall’isolamento, diviene sempre più cosciente di sé ed il

contatto che ha con Dio è dei più profondi: “Ti conoscevo per sentito dire, ma

ora i miei occhi ti hanno visto” (42,5). Gb è passato ad un nuovo linguaggio:

quello della mistica. E’ fondamentale tenere conto del fatto che, da un punto di vista materiale, la

situazione di Gb è ancora tragica, ciononostante egli non è più annichilito su

se stesso, chino in mezzo alla cenere. Il suo sguardo si eleva e si apre,

consentendogli di vedere tutta la complessità del reale attorno a sé. Ha

compreso che il mondo non ruota attorno a lui e questa consapevolezza gli

consente di relativizzare la propria sofferenza. Gb comprende che è piccolo

rispetto all’universo circostante. Ha sperimentato la trascendenza di Dio. Dio

non è una controparte contrattuale, ma il suo creatore onnipotente. Gb è

ancora sofferente, ma il suo dolore non viene neanche nominato. E’ passato in

secondo piano. Ciò che conta ora è la relazione. Quando tutto il superfluo è

stato eliminato, quando attorno a lui si è fatto il deserto, ecco, è in quel

momento che a Gb rimane l’essenziale: la relazione con Dio. Gb è giunto

alla fase dell’accettazione.

CONSIDERAZIONI FINALI

Come parlare di Dio?

Il linguaggio in terza persona su Dio (la teologia) ed il linguaggio in seconda

persona (la preghiera) non sono alternativi l’uno all’altro, ma complementari. La

teologia, senza la preghiera, rimane semplice speculazione filosofica; la preghiera,

nutrita dalla teologia, diviene il sostanzioso alimento di una fede adulta e matura.

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Sant’Anselmo, nel Proslogion, ha illustrato alla perfezione questo circolo virtuoso

tra teologia e preghiera, inserendo il linguaggio in terza persona su Dio all’interno

di quello in seconda persona e collocando l’indagine razionale all’interno

dell’orizzonte della fede.

Ecco alcuni, meravigliosi passi che troviamo nel Proslogion:

“Non tento, Signore, di penetrare fino alla tua altezza, poiché in nessun

modo metto con essa a confronto il mio intelletto; solo desidero

intendere in qualche modo la tua verità, dal mio cuore creduta ed

amata. Non cerco di intendere per poter credere, ma credo per poter

intendere. Credo, infatti, anche questo, che se non credo non posso

intendere”.

e ancora:

“A cercarti insegnami, e alla mia ricerca mostrati; se tu non mi insegni,

non posso cercarti; se tu non ti mostri, non posso trovarti.

Desiderandoti, ti cercherò; cercandoti, ti desidererò. Che io ti trovi

amandoti, e ti ami trovandoti”.

Sant’Anselmo esprime con la dolcezza di un innamorato il suo desiderio

profondo di Dio. Una tensione che lo spinge, con la forza del pensiero, sin

dove la ragione lo sorregge nell’orizzonte della fede.

Oltre 5 secoli dopo, Blaise Pascal ribadisce l’esigenza di privilegiare l’incontro

esistenziale con Dio alla speculazione teologica e filosofica. La tensione di Pascal è

verso il “Dio d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti”. A

questo Dio che è entrato nella storia e che si trova solo attraverso “le vie insegnate

nel Vangelo” Pascal apre il suo cuore, ritenendo che soltanto con l’esprit de finesse

l’uomo possa affinare lo sguardo per cogliere tutta la profondità della razionalità

umana: “le coeur a ses raisons, que la raison ne connait pas”. Pascal non fa

appello all’irrazionalità, ma riconosce i limiti dell’intelletto umano e questa

consapevolezza gli consente di relativizzare la razionalità spalancando il cuore

all’orizzonte della fede.

1Pt. 3,15 “…adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a

rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi…”

Fede (speranza) e ragione procedono insieme, per rendere a Dio un nuovo culto

spirituale.

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1Pt. 3,16 “…con mitezza e rispetto, con una coscienza retta…”

In perfetta continuità con tutta la Bibbia, 1Pt. ci offre una preziosa lezione di stile.

La vita del Cristiano è vita di relazione, non solo con il Padre, ma anche con i

fratelli. Una relazione che si articola simultaneamente in due dimensioni: una

verticale (verso Dio) ed una orizzontale (verso i fratelli), entrambe rappresentate,

storicamente e figurativamente, nella croce di Cristo, figlio di Dio fattosi uomo per

i fratelli.

Alla luce di questo, come parlare di Dio ai fratelli che soffrono?

Cosa dire ad un fratello che soffre? Come parlare ad un fratello che, nella

sofferenza e nel dolore, maledice Dio? Bestemmia Dio? Se 1Pt. 3,15 ha sintetizzato

la naturale complementarietà di fede (speranza) e ragione (rendere ragione), il

versetto successivo (1Pt. 3,16) ci offre alcuni importanti istruzioni su come

orientare i nostri cuori per rendere a Dio quel nuovo culto spirituale che ci è stato

insegnato da Gesù.

- “…con una coscienza retta”: senza compromessi, poiché una sola è la

Verità. ( Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή - io sono la via, la

verità e la vita. Gv. 14,6 )

- ma anche “…con mitezza e rispetto”. Il rispetto dovuto alla sofferenza e

al dolore.

Tutta la Bibbia ci offre preziosissime lezioni di stile. Abbiamo visto che i testi

sapienziali dedicano molta attenzione al parlare: c’è un’arte del parlare,

un’accortezza, una sensibilità che non si riferisce esclusivamente al “come” parlare,

ma che coinvolge soprattutto il “quando” (Qo. 3,7b). Noi la chiamiamo

discernimento e la collochiamo al primo posto tra le virtù cardinali: è la prudenza,

l’auriga virtutum, cioè la virtù che ci consente di orientare il corretto esercizio di

tutte le altre (giustizia, fortezza, temperanza).

Dobbiamo ricordarci (e qui entra in gioco il discernimento) che il nostro Dio è un

Padre (Abbà) misericordioso, il cui identikit è quello dell’onnipotenza al servizio

dell’amore.

Il nostro Dio non ha bisogno di maldestri avvocati d’ufficio, ma di figli che rendano

una fedele testimonianza ( μαρτυρία ) del suo amore, innanzitutto con i fratelli. In

questo senso 1Gv. 4,20-21 è inequivocabile: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo

fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può

amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama

Dio ami anche suo fratello.” 1Gv. si colloca ai vertici della teologia biblica e ci

consegna la sintesi più potente e definitiva del comandamento dell’amore: amare i

fratelli. Dai 613 precetti della legge antica, passando attraverso la successiva

riduzione avvenuta con il decalogo della legge mosaica, giungiamo al NT ed al

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comandamento dell’amore esplicitato in Mt. 22,37-40 “Amerai il Signore tuo Dio

con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente…Amerai il tuo

prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge ed

i Profeti”. 1Gv. 4,21 realizza la sintesi definitiva effettuando la reductio ad unum

dei due comandamenti dei sinottici: amare i fratelli. Chi ama i fratelli, ama anche

Dio.

Concludendo: nel momento della sofferenza non è Dio, ma Gb, ad avere bisogno

dei suoi amici. Non si tratta di fare l’apologia della bestemmia o di relativizzare la

verità in nome di un melenso buonismo assolutorio, ma di ricordarci che il nostro

Dio è prima di tutto misericordia: “Dio è amore”, “Deus Caritas Est”, “ὁ θεòς

ἀγάπη ἐστίν” (1Gv 4,8.16).

A tempo debito non mancherà il momento della correzione, che dovrà avvenire

“…con mitezza e rispetto”, ma la testimonianza, per essere onesta e fruttuosa,

dovrà essere sempre ed immancabilmente preceduta dalla misericordia.