Gino Fornaciari Le tombe monumentali medievali e post ... Emilia 19... · un approccio archeologico...

55
Università di Pisa Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica Gino Fornaciari Le tombe monumentali medievali e post-medievali Giornata di Studio su: "Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall‘Epoca Classica al Medioevo“ CASTELFRANCO EMILIA 19 dicembre 2009

Transcript of Gino Fornaciari Le tombe monumentali medievali e post ... Emilia 19... · un approccio archeologico...

Università di PisaDipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle

Nuove Tecnologie in Medicina

Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica

Gino Fornaciari

Le tombe monumentali medievali e post-medievali

Giornata di Studio su:"Sepolture anomale. Indagini archeologiche e

antropologiche dall‘Epoca Classica al Medioevo“

CASTELFRANCO EMILIA 19 dicembre 2009

Studi recenti attestano il rinnovato interesse per le tombe monumentali in Europa…

…e in Italia

Il discreto numero di riesumazioni di corpi di personaggi illustri avvenute negli ultimi anni, a scopo paleopatologico o di restauro, ha messo in evidenza l’importanza di un approccio archeologico moderno.

In particolare l’archeologia ha affinato da tempo alcune metodiche che si possono rivelare utili all’indagine dei sepolcri monumentali, affiancando le altre discipline che concorrono alla ricostruzione storico-biologica.

Un sarcofago chiuso costituisce un bacino stratigrafico a sé stante e può essere indagato archeologicamente distinguendo la successione delle azioni che hanno portato alla deposizione dei vari oggetti e dei materiali di corredo, oltre che del corpo del defunto; allo stesso modo le azioni di asportazione di materiali possono essere delineate come azioni negative di impoverimento del deposito.

I vari cambiamenti apportati artificialmente possono essere esaminati cronologicamente e può essere costruita una cronologia relativa delle azioni succedutesi nel tempo.

Osservando alcuni casi specifici potremo cogliere le problematiche connesse allo studio archeologico delle tombe monumentali e cercare di verificare alcuni modelli interpretativi comuni.

La tomba di Federico II (1194-1250) è stata oggetto di una campagna di ricognizione nel 1998-1999, con finalità soprattutto conservative.

I lavori si sono limitati all’apertura del grande sarcofago di porfido ed all’osservazione accurata del contenuto, a cui sono seguiti rilievi stereofogrammetrici, radiografie e prelievi.

E’ risultato che la tomba non ospitava soltanto i resti dell’imperatore ma anche il corpo di Pietro II d’Aragona (1305-1342) e di un terzo individuo di sesso femminile. Siamo quindi di fronte ad una tomba monumentale riutilizzzata, prassi non infrequente in epoca medievale.

Di Federico II si poteva intravedere solo il cranio, con il globo imperiale a sinistra.

Una immagine della ricognizione del 1781 mostra altri elementi del corredo personale: la veste, gli stivaletti, la corona e la spada.

Il corpo sovrapposto al lato destro dell’imperatore, identificato con Pietro II d’Aragona ed avvolto in un sudario, mantiene ancora le proprie connessioni anatomiche. L’esame radiografico rivela la presenza di una spada e di uno scalottamento posteriore, effettuato per l’imbalsamazione.

L’individuo posto lungo il lato sinistro, scheletrizzato, non mantiene le proprie connessioni anatomiche. Presenta evidenti sconvolgimenti, incompatibili con i normali fattori tafonomici e da evidente disturbo, forse risalente all’apertura del 1781.Gli elementi del corredo personale consistono nelle vesti e in alcuni oggetti metallici, visibili nelle radiografie.

Il sepolcro è stato quindi utilizzato più volte e sull’unità originaria costituita dal corpo mummificato di Federico, con i propri abiti e gli elementi del corredo, si sono sovrapposti i resti di altri due individui, ognuno con il proprio corredo personale. La grande quantità di tessuti contenuta nel sarcofago ricorda in qualche modo il contenuto della tomba di Cangrande della Scala.

Cangrande della Scala (1291-1229)

L’apertura del sarcofago di Cangrande della Scala, signore di Verona, effettuata il 12 febbraio 2004, rivelò la presenza di un corpo mummificato posto in decubito dorsale, parzialmente coperto da una grande quantità di tessili.

La mummia si presentava con il tronco, l’addome e la parte superiore delle cosce fasciati strettamente da bende di cotone annodate anteriormente, mentre le braccia erano conserte sul torace.

A livello delle spalle si notava una evidente costrizione causata dalle dimensioni di un precedente sarcofago in cui era avvenuto il processo di mummificazione naturale e che doveva essere piuttosto stretto.

Una volta rimosso il corpo mummificato sono apparsi altri lacerti di tessuti e uno strato di vegetali dello spessore di 7-10 cm, all’interno del quale sono stati ritrovati numerosi frammenti della lama di acciaio della spada di Cangrande che, insieme alle vesti, costituiva il corredo personale del signore di Verona.

Non possiamo non sottolineare lo stato di sconvolgimento all’interno del sarcofago. Al di là infatti dei tessuti coesi con la salma, in particolare le bende di cotone, gli altri materiali, tessuti, metalli e vegetali, sembravano essere stati sottoposti a molteplici rimaneggiamenti.

La ricostruzione del manto di Cangrande.

Il sepolcro di Pandolfo III Malatesta (1370-1427), fatto realizzare in stile rinascimentale dal figlio Sigismondo Pandolfo a 33 anni dalla morte del padre, in origine si trovava all’interno della chiesa di S. Francesco, a lato dell’altare maggiore e fu spostato in facciata nel 1659.

Per costruire la sepoltura del condottiero fu utilizzato un grande sarcofago a vasca di granito nero d’epoca romano-imperiale, poggiato sopra un basamento incorniciato da paraste, che ricordano da vicino lo stile di Leon Battista Alberti.

Soldino d’argento con il ritratto di Pandolfo Malatesta(zecca di Bergamo)

Durante i restauri dei primi anni 90, rimosso uno degli angioletti in marmo applicati nel XVII secolo al sarcofago di granito, si evidenziò una spaccatura semicircolare di 30 per 40 cm che permetteva di scorgere all’interno il corpo ben conservato del signore di Fano.

Quando, nella primavera del 1995, il pesantissimo coperchio monolitico venne rimosso, fu chiaro che la breccia era servita ai ladri per saccheggiare la tomba.

Il corpo mummificato, disteso supino al centro del sarcofago, appariva nudo dalla cintola ai piedi, cosìcome nudo era il braccio destro.

Intorno al corpo e tra gli arti inferiori erano presenti frammenti degli abiti, gettati senza alcuna cura.

Il corpo era stato avvolto in un sudario posto al disopra delle vesti e costituito da un sottile tessuto a trama non troppo fitta che lo avvolgeva con cura, compresa la testa.

La sagomatura del volto era stata ottenuta con minute cuciture effettuate al momento della vestizione del cadavere.

Sul torace il telo del sudario era rotto e faceva emergere il farsetto di velluto cremisi.

Le spalle e le maniche del farsetto erano gonfie, suggerendo un’impressione di notevole imponenza. A livello del petto il farsetto era aperto e mostrava una fila di bottoni rivestiti di tessuto corrispondenti ad una serie di occhielli con orlo rinforzato a filo. Anche sui polsini c’erano bottoni ed occhielli simili a quelli presenti sul petto.

Sotto il farsetto si intravedeva un tessuto molto fine aderente alla cute del torace: una sorta di tunica/camicia di tessuto finissimo con cuciture molto accurate, dotata di lunghe maniche. Le mani erano rivestite di guanti in pelle.

Siamo in presenza di una soluzione celebrativa voluta da un discendente del defunto, il figlio Sigismondo Pandolfo, che decise di eternare il ricordo dell’illustre genitore attraverso un monumento degno della stirpe malatestiana e già pienamente rinascimentale.

Il corpo, con il suo corredo personale, era stato cucito in un sudario già al momento della prima deposizione.

La collocazione sulla facciata di un edificio religioso ricorda la soluzione sepolcrale adottata per Cangrande della Scala.

Dal confronto con altri sepolcri monumentali abbiamo notato una costante: la realizzazione del monumento funebre èavvenuta dopo la morte dell’illustre destinatario. La successiva conservazione dei resti mummificati è stata poi favorita dalla struttura “aerea” dei sarcofagi, che ha garantito la secchezza e la ventilazione necessaria.

Gian Gastone, ultimo Granduca dei Medici (1671-1737).

Richter (1737), Firenze, Galleria Palatina

Così appariva la lastra di marmo con la relativa epigrafe.

A destra si vedono gli operai mentre stanno rimuovendo, senza risultati, la lastra di marmo.

Infine fu rinvenuto un ambiente ipogeo con il sarcofago dell’ultimo granduca mediceo e di otto individui infantili.

Ciò rappresentò probabilmente la scoperta più imprevista della prima fase del progetto di esplorazione delle tombe medicee.

Infatti, si era persa la memoria dell’esistenza del vano sotterraneo, una vera e propria camera sepolcrale, la cui costruzione, forse risalente alle prime fasi di edificazione della Cappella dei Principi, è sicuramente anteriore alla deposizione dell’ultimo granduca.

Il piccolo sotterraneo era costituito da un ambiente rettangolare di circa 6 x 4 m, con soffitto a volta ribassata, a cui si accedeva tramite una botola circolare situata dietro l’altare della grande cripta granducale. Lo stretto passaggio immetteva su una scala in muratura di otto gradini che permetteva di scendere nell’ipogeo.

Al momento dell’apertura, la superficie della cripta, così come i resti delle casse funebri ed i gradini della scala di accesso, erano coperti da un sottile strato di fango secco, residuo dell’alluvione del 1966.

L’acqua penetrata nella cripta era arrivata a riempirla completamente ed aveva provocato lo spostamento e la dislocazione di molte casse di legno, originariamente posizionate sulla seduta che corre lungo il perimetro interno del vano.L’unica cassa a non aver subito spostamenti era quella di Gian Gastone, trattenuta dal pesante sarcofago di piombo.

La scoperta della “cripta nella cripta” dette origine a non poche difficoltà operative, obbligandoci ad adeguare la strategia dell’intervento alla nuova realtà sotterranea: un ambiente di ridotte dimensioni reso ancora più malagevole dalle tracce della grande alluvione fiorentina del 1966.

I singoli insiemi sono stati accuratamente rilevati per poter disegnare una pianta precisa che permettesse da un lato di comprendere l’originaria disposizione dell’insieme funerario, dall’altro di fornire una documentazione grafica dello status quo al momento dell’apertura.

Una volta terminato il recupero dei materiali e degli individui infantili, siamo passati ad intervenire sulla deposizione di Gian Gastone. Il sarcofago di piombo è stato liberato lentamente dal legno della cassa lorenese, sulla quale era stata fissata una piccola lastra di ottone con l’iscrizione:

corrispondente a quella descritta nel verbale del 1857. Molti frammenti della cassa erano caduti all’interno, sopra il pesante coperchio di piombo che, a causa della pressione dell’acqua, aveva ceduto schiacciando il contenuto del sarcofago.

Ossa Iohannis Gastonis I Magni Etruriae Ducis

Il sarcofago di Gian Gastone era stato posizionato dai Lorena al centro della cripta, di fronte alla scala.

Si trattava di un contenitore di piombo di forma trapezoidale, alto 45 cm e lungo circa 180 cm.

Il coperchio, fornito di quattro maniglie disposte asimmetricamente, mostrava la faccia superiore decorata da una croce latina sopra tre monti, realizzata a sbalzo.

Esso poggiava in origine sopra un listello impostato subito sotto il margine del sarcofago, il cui orlo, ripiegato e ribattuto sul coperchio stesso, ne assicurava la chiusura senza bisogno di saldature.

Il particolare non è privo di interesse perché permetteva, in caso di necessità, di riaprire il sarcofago senza doverlo dissaldare ogni volta.

Il corpo scheletrizzato del granduca giaceva in decubito dorsale avvolto in una gran quantità di tessili.

Il cranio, scalottato e adagiato sul lato sinistro, con la mandibola aperta, indossava ancora i resti della corona granducale in rame dorato decorata a sbalzo.

Dietro la corona, accostata alla testata del sarcofago, si trovava una lastra di rame con incisa una lunga iscrizione celebrativa.

Ai lati della corona, in corrispondenza degli angoli del sarcofago, erano posizionate orizzontalmente due grandi medaglie d’oro di forma ovale, capolavori dell’incisore granducale Louis Siries (c.1686-1766), realizzate appositamente per la morte del granduca.

Una medaglia d’oro in filigrana con i profili di San Filippo Neri e della Madonna verrà rinvenuta sotto il cranio.

Sopra i tessuti, all’altezza del tratto cervicale della colonna ed in prossimità della mandibola, si trovava un crocifisso in bronzo fuso.

La grande quantità di tessili non permise di leggere adeguatamente la posizione degli elementi scheletrici, anche se apparentemente le connessioni sembrano globalmente mantenute, a parte l’ulna destra visibilmente discosta dall’omero.

Il corpo del granduca, nonostante fosse stato imbalsamato, come ci tramandano le fonti scritte e ci testimonia lo scalottamento cranico, appariva giàscheletrizzato nella ricognizione del 1857.

Lo spazio vuoto del sarcofago, insieme all’azione dell’acqua devono aver facilitato lo spostamento e la dislocazione di alcuni distretti scheletrici.

Nella gran massa di tessili sono identificabili i resti della cappamagna di Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano e del sudario di seta nero che avvolgeva il corpo al momento della ricognizione ottocentesca.

A livello del bacino si riconoscono delle porzioni di stoffa in velluto che dovevano contenere le mani del granduca.

Accanto al piede destro, lungo la parete del sarcofago, si trovava un contenitore cilindrico in piombo di 5-6 cm di diametro, bucato e parzialmente coperto dal tessuto.

Se cerchiamo di analizzare gli elementi del corredo funebre è possibile distinguere tre diversi ambiti semantici:

•celebrativo•devozionale•personale

La funzione celebrativa è svolta dall’epigrafe in rame che riporta una lunga dedica, già trascritta nella Relazione del 1737 e poi in altre opere a stampa, dettata da Anton Francesco Gori. La stessa dedica, scritta su pergamena, era stata inserita nel tubo di piombo ritrovato ai piedi del Granduca.

Funzione celebrativa hanno anche i due grandi medaglioni d’oro del Siries: le rispettive dediche a Giangastone, “Ampliatori Artium” e “Fundatori SecuritatisP.[ublicae]”, celebrano il Granduca riprendendo motivi già presenti nell’encomiastica di corte e sfruttati, per esempio, nell’apparato allestito in San Lorenzo nel 1724 per le esequie del padre Cosimo III e nell’orazione funebre scritta per la stessa occasione.

Funzione devozionale hanno il crocifisso di bronzo e la medaglietta d’oro già appartenente ad una corona del rosario.

Il crocifisso si distingue dagli altri oggetti del corredo per il suo scarso valore intrinseco: si tratta infatti di un manufatto in bronzo fuso a stampo, fabbricato per essere applicato su di una crocetta di legno, come dimostrano i ribattini sporgenti in corrispondenza delle mani e dei piedi del Cristo.

Manufatti simili si rinvengono con frequenza in contesti archeologici funerari dell’avanzata età moderna, posti solitamente sul petto o fra le mani del defunto.

Il piccolo manufatto è identificabile con quello raffigurato tra le mani del granduca nell’acquarello settecentesco di Palazzo Pitti che ritrae Gian Gastone durante l’esposizione funebre.

Dal punto di vista tipologico non ci sono controindicazioni per non accettare una datazione alla prima metà del XVIII, con la data del 1737 quale terminus ante quem per la sua realizzazione.

Da Langedijk, 1983

Si contrappone al Cristo in bronzo l’altro oggetto devozionale realizzato in oro: una medaglietta circolare di un centimetro di diametro inserita in una cornice filigranata con appicagnolo trasversale ed anellino. La medaglietta era collegata ad una corona del rosario in legno che non si è conservata. Da un lato presenta il profilo di San Filippo Neri e dall’altro quello della Madonna.

Data la coincidenza con il santo celebrato il giorno del battesimo di Gian Gastone, dovrebbe trattarsi proprio di una medaglietta “battesimale” la cui datazione andrebbe fatta risalire al 1671.

L’uso di simili medagliette è molto diffuso, anche in metalli meno nobili dell’oro come il bronzo o il bronzo dorato, e dall’Età Moderna arriva fino ai giorni nostri, assumendo spesso nella mentalità popolare valore apotropaico, se non di vero e proprio amuleto.

E’ comunque interessante sottolineare la presenza nella deposizione del granduca di oggetti devozionali di pregio artistico e di valore reale molto differenti tra loro.

Tale commistione non era così atipica all’interno dei contesti funerari della casa medicea, come dimostrerebbe il fatto che all’interno della tomba di Giovanna D’Austria (1546-1578), moglie di Francesco I, sia stato rinvenuto un rosario in legno di modesta fattura.

Oggetti artigianali “poveri” potevano servire a sottolineare la pietas cristianae l’humilitas dei granduchi durante l’esposizione funebre che precedeva la celebrazione delle esequie.

Rosario di Giovanna d’Austria

Gli elementi personali del corredo sono costituiti dagli abiti indossati dal granduca e dalla corona granducale.

Sono stati definiti “personali” non perchéfacessero parte dell’abituale corredo giornaliero del principe, ma perché hanno la funzione di identificare il ruolo incarnato dall’individuo giacente nel sepolcro.

Sono le sole cose che manifestano, con la loro aderenza al cadavere, il ruolo che era stato rivestito in vita da quel corpo: la sua condizione di granduca e Gran Maestro dell’Ordine di S. Stefano.

La connotazione del ruolo granducale era in questo caso affidata ad oggetti di apparato, come la corona in rame dorato, di pregio e valore non elevatissimo.

Sulla base dei dati surriferiti, si può proporre un percorso evolutivo che ha portato alla definizione di uno standard applicato definitivamente nelle tombe di Cosimo III e di Gian Gastone e che risponde allo schema seguente:

Quanto alla posizione del sarcofago, l’apparente marginalità della localizzazione topografica della tomba di Gian Gastone, la cui epigrafe terragnaè posizionata dietro l’altare della cripta medicea, è compensata dalla sua vicinanza con la parte più sacra dell’edificio sepolcrale, cioè la porzione presbiterale.

A questo scopo serve anche la sistemazione che è stata data al sarcofago, posto al centro del sottostante vano ipogeo, ai piedi della scala di accesso, su quella seduta di ascendenza etrusca che evoca nella sua stessa definizione architettonica il legame con uno dei motivi più insistiti della propaganda medicea.

Le dimensioni veramente imponenti del sarcofago di piombo danno maggior risalto alla sua preminenza sugli altri individui, bambini senza nome della famiglia Medici, che occupavano gli spazi circostanti della seduta.

Nel posizionare i corpi nella cripta i Lorena avevano seguito un ordine preciso, non scevro da alcune scelte di carattere simbolico.

In particolare la volontà di rendere omaggio postumo all’ultimo rappresentante di casa Medici e di giustificare il proprio dominio su Firenze e la Toscana nel segno di un’apparente continuità.

In effetti la decisione di dare degna sistemazione alle salme dei Medici potrebbe essere stata dettata piuttosto che da semplice “carità” cristiana da motivi di opportunità politica.

Nel 1857 erano ancora recenti i ricordi del ’49, quando il Lorena era stato costretto ad una precipitosa fuga dalla Toscana in preda alla passione risorgimentale.

La scelta di dare una migliore collocazione, secondo un disegno sobriamente celebrativo, alle spoglie medicee, poteva far guadagnare qualche simpatia ad una dinastia straniera che aveva verificato, poco meno di dieci anni prima, l’instabilità della situazione toscana.

Cosimo IFrancesco I

Ferdinando I

Giovanni delle Bande Nere

Gia

n G

asto

ne

I corpi dei granduchi erano stati così collocati nella grande cripta in modo da rispettare una diretta corrispondenza con i sontuosi cenotafi della soprastante cappella.

Il corpo di Gian Gastone era stato posizionato dietro l’altare, nell’unico lato libero della cripta granducale che nella sala superiore corrispondeva alla porzione contigua al coro della Chiesa di San Lorenzo.

Proprio qui, dirimpetto all’altare della magnifica cappella, Leopoldo II aveva previsto di far realizzare per l’ultimo granduca mediceo un monumento sepolcrale degno dei suoi predecessori.

Il progetto non troverà mai compimento per il sopraggiungere degli eventi del 1859.

Infine, il rispetto della corrispondenza tra il cenotafio celebrativo e l’effettiva posizione dei resti mortali segnala il recupero di una nota tradizione rituale, di carattere laico e politico ma con forti implicazioni antropologiche, che prevede lo sdoppiamento del corpo regale per mezzo di un’effigie.

Abbazia di S. Denis: Tomba con effigie di Luigi XII (1462-1515)

Questa modalità di sepoltura, sdoppiata in effigie, trova compimento, oltre che nei funerali reali inglesi e francesi, nei monumenti sepolcrali rinascimentali dei re di Francia, i quali hanno nelle trecentesche arche scaligere di Santa Maria Antica a Verona e nei sepolcri angioini di Santa Chiara a Napoli degli illustri archetipi monumentali.

Il sarcofago inoltre non era fatto per essere chiuso ermeticamente ma era invece pensato per consentire la sua periodica riapertura, e a questo scopo servivano le quattro maniglie del pesante coperchio.

Perché prevedere la riapertura del sarcofago?Per verificare la conservazione della salma o il buon esito dell’imbalsamazione? Garantire ai familiari, in particolari occasioni, di avere un contatto diretto con il corpo del “caro estinto”? Oppure semplicemente offrire la possibilità di effettuare con comodo una ricognizione del corpo?

Resta il fatto che il corpo di un granduca non è il corpo di un qualsiasi mortale, ma possiede di per sé un forte potere simbolico, trascende la sua stessa materialitàcaricandosi di valori comunitari e politici, diventa veicolo di legittimazione per i successori, e mantiene questo potere a lungo dopo la morte.

All’alba dell’Illuminismo questi valori, che non possono assolutamente essere considerati esclusivi delle società d’ancien régime, erano ancora del tutto riconosciuti.

La volontà di conservare e mantenere il cadavere, anche nelle sue parti molli, ben oltre la durata della pur lunga esposizione funebre, emerge non solo dall’imbalsamazione, ma anche dalla cura con cui le mani e la testa del granduca erano stati cosparsi di balsami e poi racchiusi entro tre contenitori di stoffa: il primo di taffetà bianco, il secondo di tela incerata ed il terzo di velluto nero.

L’accessibilità al corpo del granduca era stata garantita e si era fatto tutto il necessario ed il possibile perché il suo corpo si preservasse nel tempo.