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Redazionale: “CHE FARE?” Testimonianze: GILLO DORFLES GILBERTO ZORIO Convegni: ART & REALITY A SAN PIETROBURGO Docenti: CARLO MARIA ACCAME ROSARIO GENOVESE ALBANO MORANDI Ex Studenti: ALEX PINNA ALLA FONDAZIONE MIMMO ROTELLA Confronti: AURELIO SARTORIO E GRAZIA VARISCO Una Mostra: VALENTINO VAGO Fondazione Maimeri: PARTECIPANTI AL PRIMO PREMIO MAIMERI Recensioni TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2011 - N° 11 - EURO 6,00

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Redazionale:“CHE FARE?”

Testimonianze:GILLO DORFLESGILBERTO ZORIO

Convegni:ART & REALITY A SAN PIETROBURGO

Docenti:CARLO MARIA ACCAMEROSARIO GENOVESEALBANO MORANDI

Ex Studenti:ALEX PINNA ALLA FONDAZIONE MIMMO ROTELLA

Confronti:AURELIO SARTORIO E GRAZIA VARISCO

Una Mostra:VALENTINO VAGO

Fondazione Maimeri: PARTECIPANTI AL PRIMO PREMIO MAIMERI

Recensioni

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Sommario ragionato

A DEMY OF FINE ARTS A

L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.

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04 Redazionale di Gaetano Grillo

06 Nel salotto di Gillo Dorfles

08 Gilberto Zorio e l’Arte Povera

12 Art & Reality a San Pietroburgo

14 Alex Pinna

18 Aurelio Sartorio e Grazia Varisco

24 Giovanni Maria Accame

28 Albano Morandi

32 Rosario Genovese

36 Valentino Vago

38 54sima Biennale di Venezia: Padiglione Accademie

40 Partecipanti Premio Maimeri

41 Conferenza Nazionale Docenti-Studenti delle Accademia Statali

42 Diploma Honoris Causa a Mario Dondero

43 Recensioni

HANNO COLLABORATO*

Claudio CerritelliOrnella FazzinaRachele FerrarioNina GetashviliRocco GiudiceKevin McManusOrnella MignoneFrancesca PensaRaffaella PulejoFanny UseliniAlberto ZanchellaWilliam Xerra

di Elisabetta Longari

In copertina:Gillo Dorfles

ACADEMY OF FINE ARTSIscritta al Tribunale di Tranin.3/09Rivista fondata da Gaetano Grillo

NUMERO 11 / Inverno 2011

SEDEViale Stelvio, 6620159 Milanotel. 02 87388250fax 02 [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILEGaetano Grillo

DIRETTORE EDITORIALEGaetano Grillo

VICE- DIRETTORE EDITORIALEElisabetta Longari

REDAZIONEGaetano GrilloElisabetta LongariCristina ValonaMelissa Provezza (segreteria di red.)

GRAFICAMassimiliano Patriarca

EDITRICEL’IMMAGINE SRLZona Industriale Lotto B/1270056 Molfetta (Ba) Italy

FOTOLITO E STAMPAL’IMMAGINE AZIENDA GRAFICA SRLVia Antichi Pastifici Lotto B/12 - Z.I.70056 Molfetta (Ba) Italy

tel. +39.0803381123fax +39.0803381251

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Questo numero della rivista è particolarmente ricco di interviste, forma che ci pare possa restituire al meglio un affaccio sul mondo di chi ne è protagonista: abbiamo parlato con Gillo Dorfles, uomo colto e poliedrico, teorico e artista, che ha attraversato un secolo intero con la sua lucida intuitività; abbiamo incontrato Gilberto Zorio, il più giovane protagonista dell’Arte povera al momento globalmente celebrata; e Mario Dondero, “occhio indiscreto” ed efficacissimo, mentre gli veniva conferito il diploma honoris causa dall’Accademia di Brera; ci siamo confrontati con Grazia Varisco, che svolge da decenni una delle più interessanti ricerche percettive, cogliendo l’occasione di una mostra che la vede esporre accanto a un suo ex allievo di Brera, Aurelio Sartorio, oggi tra i pittori “aniconici” più originali, nel cui studio ci siamo recati; abbiamo parlato anche con Alex Pinna, ironico protagonista della recente arte italiana. Proseguendo nella lettura troverete inoltre una “zoommata” sull’opera di Valentino Vago, prolifico pittore specializzatosi soprattutto nella decorazione di chilometri e chilometri di pareti interne ai luoghi di culto; ce ne ha fornito l’occasione l’uscita del primo volume del suo catalogo generale. Uno sguardo è rivolto anche alla realtà internazionale attraverso il contributo di Nina Getashvili, professore all’Accademia di Mosca, che fa un resoconto di un convegno tenutosi nella splendida città russa di S. Pietroburgo. Due mostre personali sono di spunto per

affrontare un approfondimento del lavoro di due artisti: Rachele Ferrario “legge” Albano Morandi e Rocco di Giudice scrive di Rosario Genovese; mentre Raffaella Pulejo ci racconta il Padiglione delle Accademie alla scorsa edizione della Biennale di Venezia. Non mancano segnalazioni e recensioni di mostre e libri, come usualmente. Un evento particolarmente triste, la morte di Giovanni Maria Accame, ne ha reso necessario e impellente un ricordo a firma di Claudio Cerritelli.Il redazionale, dal titolo Che fare? riflette la necessità di essere sempre più vigili e presenti al nostro destino di professori a ruolo a esaurimento all’interno di un quadro generale in cui, non solo la formazione artistica, ma la pubblica istruzione tutta, sta naufragando nel disinteresse politico. Al di là dello sforzo di questa rivista per coagulare le forze attive nelle accademie, qualcosa in più davvero dobbiamo provare a fare. Capiremo insieme cosa e come: questo è il mio desiderio e il mio augurio per l’anno nuovo.

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ACADEMY OF FINE ARTScompie 3 anni!

grazie a tutti coloro che hanno collaborato con noi:Rosella Alberti Francesca Alfano Miglietti Adriano Altamira Alessandra Angelini Anna Maria Amonaci Maria Angelastri Pippo Altomare Barbara Ardau Antonio Battaglia Pasquale Bellini Luca Beatrice Davide Benati Antonio Bisaccia Luca Bonanno Anna Claudia Bianchi Ursula Bonetti Botto & Bruno Ana Bracic Sandro Baroni Matteo Bergamini Achille Bonito Oliva Gustavo Bonora Rolando Bellini Enrica Borghi Salvo Bitonti Maurizio Bottarelli Marco Brandizzi Tullio Brunone Ruxandra Balaci Tiziana Campi Gianni Caravaggio Fabio Cavallucci Giovanna Cassese Luigi Carboni Luciana Cataldo Mino Ceretti Giulio Ciavoliello Maurizio Coccia Ciriaco Campus Bruno Ceccobelli Giorgio Bruno Civello Francesco Correggia Guido Curto Giovanna Crescentini Giustina Coda Pietro Coletta Martina Corgnati Claudio Cerritelli Claudio Cugusi Riccardo Dalisi Michele Degan Valerio Dehò Radu Dragomirescu Fernando De Filippi Giacinto Di Pietrantonio Lia De Venere Silvia De Rosa Fabrizio D’Amico Fabio D’Aprile Edoardo Di Mauro Andrea B. Del Guercio Giulio De Mitri Claudio Delli Santi Pino Di Gennaro Carlo Di Raco Massimo Di Stefano Piero Di Terlizzi Silvia Donini Barbara Drudi Danilo Eccher Giordano Emiliazzi Silvia Evangelisti Ida Egger Federica Facchini Stefano Farcis Gian Alberto Farinella Vincenzo Ferrari Rachele Ferrario Luigi Fiorletta Anna Fucili Giovanni Ferrero Ado Franchini Eleonora Frattarolo Giuseppe Furlanis Serena Francone Ignazio Gadaleta Elisabetta Galasso Omar Galliani Renato Galbusera Alberto Garutti Fabrizio Gazzarri Patrizio Gagliardi Guglielmo Gigliotti Michele Giangrande Alessandro Gioiello Rocco Giudice Giuliano Giuman

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Gabriele Giromella Sebastiano Guerrera Alessandro Guerriero Rocco Guglielmo Dario Fo Pietro Fortuna Carlo Franza Barbara Giorgis Caterina Iaquinta Enzo Indaco Giovanni Iovane Cosmo Laera Paolo Laudisa Gerardo Lo Russo Andrea Leuzzo Dora Liguori Laura Lombardi Elisabetta Longari Salvatore Lovaglio Paolo Lunanova Nella Lovero Mauro Mazzali Fiore Madeo Gianfranco Maraniello Giuseppe Maraniello Gianni Maimeri Dario Maina Luciano Massari Gualtiero Marchesi Lea Mattarella Kevin McManus Marco Meneguzzo Sabina Mezzaqui Miriam Mirolla Albano Morandi Nicola Maria Martino Gian Luigi Megassini Gianluca Marziani Michele Mirabella Monica Saccomandi Dario Micci Gastone Mariani Carmelo Nicosia Gianfranco Notargiacomo Riccardo Notte Hidettoshi Nagasawa Sergio Nannicola Laura Panno Rocco Pangaro Loredana Parmesani Silvia Passerini Massimiliano Patriarca Francesca Petrucci Antonella Pierno Maura Pozzati Antonello Pelliccia Lorenza Pignatti Rossella Piergallini Michelangelo Pistoletto Luca Piffero Greta Petese Stefano Pizzi Paola Poggi Arnaldo Pomodoro Elena Pontiggia Melissa Provezza Giovanni Pucciarmati Raffaella Pulejo Moira Ricci Sandro Ricaldone Maria Teresa Roberto Cesare Romiti Paolo Rosa Rosanna Ruscio Alessandro Russo Beppe Sabatino Nicola Salvatore Sandro Scarrocchia Marco Scotini Catterina Seia Vittorio SgarbiGiandomenico Semeraro Alessandro Spadari Giuseppe Spagnulo Fausta Squatriti Beppe Sylos Labini Aldo Spoldi Ida Terracciano Rita Tondo Rosanna Ruscio Valeria Tassinari Tiziana Tacconi Marco Tirelli Laura Tonanni Barbara Tosi Dario Trento Arturo Tuzzi Simona Uberto Gloria Vallese Marta Valsania Francesca Valli Cristina Valota Anna Verducci Andrea Villani Miklos N. Varga Andrea Zanella Francesca Zocchi e ...

a tutti coloro che erroneamente abbiamo dimenticato.

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Tre anni fa nasceva questa rivista scommettendo sulla necessità di creare una rete fra le varie Accademie italiane al fine di informare, approfondire, far conoscere e mettere in contatto fra loro le varie componenti di questo nostro circuito, per tanto tempo lasciato all’implosione individualista e attardata del caravanserraglio degli “scettici tout court”!Pensavamo che ci fosse bisogno di incontrarci in uno spazio in cui far confluire sinergie e potenzialità inespresse. Come potete immaginare non è stato facile trovare la copertura finanziaria ma ancor meno facile è stato smuovere la diffidenza nei confronti di questo progetto in cui quasi nessuno voleva scommettere. Grazie alla casa editrice “L’Immagine” e al rapporto di stima e amicizia che mi lega a loro, siamo riusciti a sfondare il muro dell’indifferenza e a consolidarci piano piano, in silenzio, sino a poter festeggiare con questa uscita il dodicesimo numero di Academy.Abbiamo riempito 650 pagine d’idee, progetti, testimonianze, immagini, abbiamo stimolato dibattiti, recensito mostre e pubblicazioni, abbiamo valorizzato figure, opere e iniziative quasi sconosciute ai più. Abbiamo cercato di monitorare il patrimonio storico ma anche di segnalare i giovani studenti più bravi così come abbiamo ricordato gli ex studenti che si sono affermati nei vari campi professionali.Abbiamo lavorato molto e praticamente a titolo gratuito, talvolta ricoprendo le spese, tal altre no. La nostra ostinazione è stata spesa per vincere la scommessa ed oggi possiamo essere orgogliosi del risultato ottenuto. Abbiamo cercato di dare spazio a tutte le posizioni senza censurare le idee che non condividiamo ma facendo sempre attenzione a tenere pulito il livello della qualità.Con Academy, quel piccolo mondo di accademie sparse sul territorio nazionale e di docenti orientati quasi sempre

all’autoreferenzialità è diventato un piccolo mondo che inizia finalmente a fare sistema. In questi tre anni però la nostra riforma è rimasta incompiuta così come le rivendicazioni di riconoscimento giuridico del titolo di studio e della docenza sono rimbalzate contro un muro di gomma. Fra i corridoi delle università italiane si osteggia il nostro pieno titolo d’istituti per la formazione terziaria di produzione e di ricerca per le arti visive. Nelle aule di Camera e Senato si continua a pasticciare con disegni di legge che rendono sempre meno chiara la nostra identità; negli uffici del Ministero si continua a rinforzare l’AFAM come unica anomalia nel sistema universitario italiano, a tenerlo sotto una campana di vetro che lo isola dal sistema internazionale così come nel Processo di Bologna era stato tracciato e programmato di realizzare entro il 2010. Tutto questo perché la lentezza e la miopia della politica in questi tredici anni non sono state capaci di affrontare con semplice volontà l’istituzione dei licei musicali differenziando la formazione dei nostri cugini Conservatori di Musica, fra formazione secondaria e terziaria, di conseguenza, anche la configurazione giuridica dei docenti. Così, il grande pastone dell’AFAM impedisce alle accademie di attestarsi come Università, anche se esse hanno realizzato già da molto tempo il riordino didattico, compresa l’applicazione dell’ormai maturatissimo ordinamento dei Bienni Specialistici, ancora sperimentale, e nonostante si siano avviate anche alcune esperienze di Dottorati di Ricerca (tra cui quella faticosamente messa in piedi a Brera da Francesco Correggia).Si procede a piccoli passi con insabbiamenti periodici che sembrano finalizzati sempre a prendere tempo, ma anche nelle aule dei Tribunali, dove pure sono arrivati i nostri ricorsi, le cose non vanno meglio; gli avvocati quando analizzano la nostra paradossale situazione si esprimono sempre con estrema fiducia nel riconoscimento dei nostri diritti ma puntualmente

di Gaetano Grillo

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redazionaleredazionale

tutto si arena con sentenze che sembrano perfino smentire i principi costituzionali. Nelle Commissioni Cultura di Camera e Senato si comprendono le nostre ragioni ma ci sono due impedimenti: la nostra imprescindibilità dall’AFAM che ci schiaccia sull’insoluta questione dei Conservatori e la mancanza di risorse economiche per adeguare le nostre retribuzioni come docenti universitari. Poi ci sono i Sindacati che talvolta pensano a soluzioni peggiorative come la docenza unica ritenendo di accontentare “clientelarmente” la seconda fascia arretrandoci tutti, di fatto, nell’area della docenza secondaria. Sindacati che in questi anni non sono riusciti a costringere il Ministero a indire normali concorsi provocando un pasticcio di graduatorie (alcune ancora irrisolte come la 143) che con criteri non certo simili a quelli universitari, non hanno giovato alla selezione del corpo docente.Personalmente ripongo tutta la mia fiducia nella battaglia che dobbiamo intraprendere a livello della comunità europea, in cui, per altro, l’Italia è rimasta l’unica nazione a non aver ancora riconosciuto alle accademie il ruolo universitario. Considerando che la forza delle ragioni comunitarie inizia a farsi sempre più sentire su quella dei singoli Stati (basti pensare che la Merkel e Sarkozy hanno influenzato il cambiamento del governo in Italia), possiamo capire che dobbiamo spostarci su quel terreno di lotta per trovare risposte adeguate alle nostre domande.Oggi, la situazione finanziaria dell’Italia è precipitata e sempre più si allontana la speranza di vedere riconosciuti i nostri diritti in tempi brevi. Nel frattempo tutta questa generazione si è sfibrata e stancata, un velo di rassegnazione ha coperto il vigore delle lotte e dei sacrifici compiuti gli scorsi anni e molti scappano, altri che pensavano di scappare restano intrappolati dai nuovi provvedimenti in ambito di trattamento di quiescenza e allora… allora…?Che fare?Proviamo a rovesciare il guanto e a ricordare che insegniamo in accademia perché siamo artisti, storici e critici dell’arte, scenografi, grafici, teorici, restauratori, creativi e comunque operatori del settore e non siamo tali perché legittimati dall’insegnamento in accademia. Il nostro primo riferimento è l’arte e tutto il suo mondo per il quale cerchiamo di formare al meglio le nuove generazioni.Noi portiamo nell’insegnamento l’esperienza delle nostre professioni e la qualità del nostro lavoro di docenti è direttamente proporzionale alla vitalità della nostra attività professionale; impedirne o limitarne lo svolgimento risulterebbe impoverente in termini di qualità e di aggiornamento; più siamo operativi fuori delle accademie più siamo utili all’interno di esse!Che fare?Bisogna ripartire dall’ARTE e dalla CULTURA perché solo al loro interno possiamo ancora trovare la forza e la motivazione per reagire all’opacità del momento che stiamo attraversando. Recentemente sono stato invitato alcuni giorni a S. Pietroburgo (come direttore di questa rivista) per un Forum internazionale su Arte, Critica e Formazione artistica. In quel contesto molto qualificato e davvero ampio tutti hanno convenuto sulla constatazione che le esperienze più vivaci non vengono più dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia e comunque dai Paesi dell’occidente ma soprattutto dai piccoli Paesi che, nella povertà dei loro mezzi, esprimono una fertile motivazione. Oggi in Africa, Sud America e in oriente in generale, ci sono le sinergie per far ripartire anche il nostro stanco mondo, viziato, egocentrico, svuotato di valori e consegnatosi ormai ad un “neo-manierismo” che lo sta svilendo.Ci siamo tanto abituati all’opulenza degli ultimi decenni che

non siamo più capaci di entusiasmarci e generare nuove idee e tutto sembra passare attraverso il denaro e il mercato ma quest’ultimo semplicemente avanza là dove arretra il valore fondante dell’arte.Ho più volte fatto appello, con i miei redazionali, a TORNARE ALLE ACCADEMIE. Dopo averle tanto bistrattate le nostre accademie vanno invece protette e rilanciate ma in attesa che cambi la generazione politica italiana, dobbiamo farlo aprendoci al contesto internazionale. Dobbiamo costruire ponti con tutto il mondo e dialogare, collaborare, cooperare in una visione ampia e di grande respiro lasciando perdere le grettezze del nostro sistema formativo nazionale.Ognuno di noi deve mettere in gioco le proprie risorse e i propri contatti e dobbiamo ripartire dalle accademie considerandole come degli aeroporti, dei luoghi aperti ad una visione globale dell’arte e delle motivazioni che sottendono alla formazione artistica.Io penso che se ognuno di noi quantificasse il tempo e le attenzioni che dedica alla propria funzione docente, ci accorgeremmo di superare abbondantemente il monte ore sancito per contratto, ciò nonostante avanza la logica imbecille dell’impiego da ufficio, una logica che offende profondamente la nostra intelligenza. L’arte nasce, dialoga, e si sviluppa sui terreni fertili della cultura, non certo sugli aridi deserti della burocrazia e della stupiditàPochi di noi hanno intrapreso questa strada per diventare “professori”, ma la maggior parte di noi sono diventati “professori” perché hanno qualcosa da insegnare.Allora… il nostro primo riferimento è l’arte e da essa dobbiamo ripartire per trovare la giusta motivazione a vitalizzare una nuova stagione che sembrerebbe dischiudersi all’insegna della depressione.Il nostro esercizio critico sulla realtà si completa con la volontà propria dell’arte, di plasmarla, modellarla, prospettando soluzioni, sogni, forme ideali. L’arte non può prescindere dalla sua esplicazione in una forma tangibile, l’arte è costruzione!La battaglia per il nostro pur legittimo diritto a rivendicare la parità di trattamento con i colleghi che insegnano nelle università non può e non deve essere l’unica motivazione; è nella continua ricerca, invece, che dobbiamo tornare a credere.Dobbiamo stare attenti a che la rete delle norme, della burocrazia e delle logiche estranee alla nostra cultura, non ci condizionino sporcando la bellezza della specificità artistica, questa bella parola che riempie spesso la bocca dei nostri governanti che viene usata però contro di noi, per isolarci sempre più nel recinto degli animali in estinzione, dei ruoli ad esaurimento.D’altro canto il rispetto delle regole è anche garanzia di correttezza contro l’abuso del potere di discrezione, contro il relativismo dilagante, contro un’idea di liberismo che ha inquinato il corretto rapporto fra diritti e doveri dell’individuo nei confronti del sociale.Dobbiamo essere noi per primi i garanti della qualità didattica anche attraverso la qualità delle forme attraverso cui essa si esplica. Ci vuole maggiore rigore ma senza grigiore!Dobbiamo ritrovare la gioia del nostro operare con la fiducia che un buon lavoro fa la differenza rispetto ad un lavoro demotivato e sciatto.Noi, con questa bella avventura di Academy of Fine Arts, in questi due anni, abbiamo dato prova di credere nell’impegno e abbiamo “fatto politica”. Iniziamo questo nuovo anno con impulso guardando alla centralità dell’arte, della cultura, della civiltà, del costume e della partecipazione!

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NEL SALOTTO DI GILLO DORFLESbreve dialogo su etica, estetica, tempo, simulacro e natura con un grande testimone del nostro tempo.

Grillo: Gillo, vorrei iniziare parlando di “bellezza” e di “etica”, c’è una relazione fra le due cose?Dorfles: Premetto dicendo che in genere i rapporti fra etica ed estetica, non esistono, nel senso che l’estetica, in quanto studio filolosofico dell’arte non ha nulla a che fare con il settore della moralità. Questa mi sembra una premessa indispensabile; detto questo potrei citare un mio recente libro “Dal significato alle scelte” nel quale parlo delle scelte ambigue che fa l’uomo d’oggi, scelte non motivate ne da ragioni di gusto, ne dalla propensione verso qualcosa specifica ne da una ragione etica che gli faccia preferire una cosa piuttosto che un’altra. In un certo senso quindi, abbiamo una deficenza, tanto nel senso della moralità, tanto nel senso del gusto.

Tu hai parlato anche del “fatto” e del “fattoide” riferendoti all’autenticità delle cose, vero?Viviamo in una società in cui molti elementi sono fittizi, aleatori, l’uomo si trova in un ambiente in cui le cose raramente sono autentiche, molto più spesso sono invece contraffatte. Allora questo è un pericolo notevolissimo, l’uomo prende per buono ciò che non lo è, prende per bello ciò che è tutto il contrario.

Stiamo parlando di vuoto di senso? Di simulacri? Di cose

A cura di Gaetano Grillo

che non hanno sostanza e di altre a cui viene attribuito immeritatamente un valore?Dorfles: Si stiamo parlando di una modalità dell’uomo, nel nostro tempo, a non approfondire le cose, a viverle nel loro aspetto più esteriore ed epidermico. Una volta le cose e anche i sentimenti erano più autentici di quanto non lo siano oggi. Attraverso la tecnologia dei nuove media l’uomo si è abituato alla contraffazione, basterebbe citare un caso per tutti: l’orrenda trasmissione televisiva del Grande Fratello. Direi che l’uomo si è abituato a vivere di contraffazione e quindi lui stesso a crearne.

Stiamo quindi parlando di una bellezza spesso contraffatta, costruita artificialmente, della diffusa tendenza a spacciare per bello ciò che non lo è. Oggi la bellezza non è quasi mai disgiunta da una dimensione edonistica e patinata, direi che sia più estetica che etica.Si, naturalmente le due cose raramente sono disgiunte perché implicano il piacere come per esempio il piacere dell’arte e il piacere della cioccolata; io devo dire di avere uno straordinario affetto per la cioccolata che mangio molto volentieri e che mi da delle sensazioni che non solo molto diverse da quelle che provo quando guardo un bel dipinto.

Benchè i modelli di bellezza siano mutevoli come lo sono quelli dell’arte può esistere una bellezza fuori dai modelli? Riusciamo ancora a riconoscere una bellezza classica capace di essere avvincente comunque e al di là dei modelli estetici legati al gusto del momento?E’ molto pericoloso cercare di fare il punto sull’arte perché no c’è niente di più mutevole dell’arte, bisogna rendersi conto che tutto ciò che ha a che fare con l’arte cambia con il cambiare del tempo, il pericolo è di non accorgersi dei cambiamenti e di restare agganciati a quella che era l’arte del passato.

Stai parlando di ciò che avevi detto molti anni orsono, quando scrivesti quel meraviglioso libro che si chiamava Le oscillazioni del gusto, un libro che è stato per tutti noi una pietra miliare nel percorso di comprensione dei fenomeni dell’arte e dell’estetica in generale.Si, quello è stato un libro che ha avuto il maggior numero di traduzioni, in tante lingue. Il fenomeno dell’oscillazione del gusto è spiegabile anche partendo dal fatto che spesso c’è un’incomprensione fra le persone e le cose ma anche fra una cultura e l’altra, fra paesi diversi, questo avviene da sempre. Quando si è passati dal Rinascimento a Barocco, dal Gotico al Rinascimento, durante questi periodi in cui sono cambiati anche radicalmente i modelli ci sono state delle incomprensioni incredibili. Molto spesso l’uomo non accetta quello che è nuovo. Già Vasari parlava del Gotico come qualcosa di non artistico perché evidentemente non aveva capito le trasformazioni che quello stile aveva compiuto.

Nella nostra epoca globale, con la navigazione in internet l’uomo accede ad un immenso bagaglio di informazioni, viaggia attraverso Google Eart e conosce il mondo sempre di più, sino al punto che si sta affievolendo la sua dimensione di sorpresa; tutto è più prevedibile e spesso la nostra esistenza mostra delle dimensioni di ovvietà. Il mondo diventa sempre più piccolo, si riduce la dimensione spazio-temporale e lo stesso viaggio perde il fascino che aveva una volta e si riduce a cannibalismo consumista. L’uomo viaggia molto di più, fotografa, archivia e tende a possedere le esperienze piuttosto che a viverle.Indubbiamente le opportunità che oggi ha l’uomo di accedere ad ogni meandro del sapere ha fatto sì che il piacere della scoperta sia andata perduta; oggi noi attraverso questi mezzi ci impadroniamo di molti settori che un tempo dovevano essere faticosamente scoperti e questo significa perdere la verginità dell’immagine.

La capillarità dell’informazione e l’accelerazione dei percorsi di accesso ad essa ci impedisce spesso di metabolizzare i fenomeni, siamo costretti a vivere tutto più superficialmente privilegiando la quantità alla qualità.

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testimonianze

Siamo passati dalla cultura della contemplazione alla cultura dell’azione, dell’iperattività e della interattività. Mi viene in mente un altro libro stupendo che tu hai scritto molti anni fa: L’intervallo perduto. Oggi quei temi ci sembrano straordinariamente attuali e geniale è stato intuirli con così tanto anticipo.Si, io sono molto affezionato a questo mio libro perché dico che oggi è venuta a mancare quella pausa, sia di tempo che di spazio, che permetteva un tempo una contemplazione e una fruizione più completa. Oggi non abbiamo più il tempo sufficiente per afferrare quello che ci viene presentato, questa mancanza di tempo ci impedisce anche la meditazione; questo vale sia per la cultura visiva sia per quella sonora. Se non avessimo un interculmnio, cioè uno spazio fra le varie colonne di un tempio greco non avremmo neanche la meraviglia di queste costruzioni, la loro bellezza ci è data anche dai rapporti spaziali e come dico, appunto, dal dosaggio fra i pieni ed i vuoti. Oggi la città manca di quella spazialità che permette di contemplarla. Questa mancanza di pause e quest’eccesso di pieni e di informazione è una delle peggiori forme di paradossalità che ci presenta la società odierna.

L’eccesso di densità mi porta a pensare ad un altro tema di riflessione su cui tu hai scritto molto, ovvero quello del neobarocco contemporaneo, dell’affastellamento eccessivo di informazioni, dati, immagini, cose. Tutto si contamina, si sovrappone e si stratifica sino a smarrire il senso di ciascuna cosa. E’ come se avessimo perso la percezione originaria e autentica delle cose e le vivessimo come elementi utili a una nuova dimensione strumentale della vita. E’ come se tutto possa essere usato come oggetto, come “reperto” finalizzato a una nuova sintassi babelica.Certo! Già il fatto che molti decretino la fine della lettura del

cartaceo è un dato indicativo. Leggere attraverso il computer è più facile, comodo, veloce, interattivo ma ci espropria della lentezza. Non è più possibile centellinare le pagine di un libro come si faceva una volta e questo è naturalmente molto grave come, allo stesso modo, la musica venga propinata molto spesso in forma di sottofondo che non viene neanche ascoltato, diventa tappezzeria, decorativismo; invece di ascoltare una musica la si vive come una sensazione vaga di un elemento sonoro. Come la decorazione ha sostituito la creazione del capolavoro così la stessa musica si è svuotata di senso per diventare pura sensazione.

Tu hai parlato prima di contemplazione ed oggi la contemplazione è stata quasi soppiantata dall’azione; nella nostra società tutto è movimento, manifestazione, espressione; tutto è velocità di azione mentre la contemplazione implica tempi più lenti per processi di metabolizzazione che sicuramente sarebbero più opportuni ma l’uomo occidentale non ha tempo quindi deve fare a meno della contemplazione? naturalmente senza voler sconfinare in teorie buddiste o in civiltà lontane dalla nostra, che però dovrebbero essere considerate, penso per esempio al fenomeno dello zen orientale ma, anche senza voler sconfinare, ripeto, in queste civiltà lontane, di cui il nostro occidente avrebbe sicuramente bisogno, credo che effettivamente, la mancanza di meditazione e la mancanza di pause, anche fra due fenomeni inesistenti, quindi anche semplice pause contemplative, sia molto pericoloso. Penso che anche le nuove generazioni, i giovani, sentano il bisogno di avere delle pause, persino nella loro attività motoria e nello sport. Anche nei fenomeni non artistici si ha necessità di tempi di preparazione e di meditazione, la stessa coda che fa un artista nel suo studio prima e durante la preparazione della sua opera. Vorrei dire, quindi, che abbiamo bisogno di meditazione sociale, di recuperare la dimensione contemplativa sia nella vita di tutti i giorni sia e, particolarmente nella fruizione dell’arte, di un dipinto. Dobbiamo avere il tempo per renderci conto di quello che è moralmente accettabile o meno.

Tu credi che sia ancora possibile ribaltare il costume esistenziale del nostro tempo? Che sia ancora possibile tornare indietro e trovare quello spazio, quelle pause, quel tempo rallentato di cui parli?Io credo che lentamente si cominci a capire la necessità che questa cosa, in apparenza superflua sia assolutamente necessaria. Lo stesso fatto che la lettura continui ad essere meditata o il fatto che il libro continui a essere comprato, benché meno che in passato, siano un segno della persistenza di certi valori e del bisogno, anche fra i giovani, di rivolgersi alla profondità e a valori non effimeri.

Cosa immagini che possa accadere nella nostra civiltà occidentale nei prossimi vent’anni?Io penso che l’occidente abbia bisogno, lo accennavo prima, anche senza sperare che nelle nostre scuole medie si insegni il cinese, il che però non credo che tarderà a venire, credo che oggi almeno una minima infarinatura di quello che sono le grandi correnti del pensiero orientale sarebbero molto positive. Invece di continuare una tenzone fra est e ovest, fra cristianesimo e maomettanesimo credo che sarebbe utile che le diverse civiltà facciano esercizio di convivenza e studiassero le relative radici culturali.

In tutto questo il grande protagonista del nostro tempo è diventato il mercato….Bhè! Naturalmente oggi la religione è stata deformata, quello che era l’aspetto sacro si è profanizzato e in compenso molti religiosi hanno fatto della religione non un fatto culturale ma un fatto di fondimentalismo paradossale.

Il fondamentalismo islamico ha portato alla distruzione delle twin towers e ha segnato fortemente la nascita del nostro attuale millennio. C’è in questo momento uno scontro fra civiltà, c’è l’evidente incomunicabilità fra mondi e statuti valoriali diversi e certamente coincide con la nostra crisi di civiltà.Non c’è dubbio! credo che l’Occidente sia in una grave crisi, è arrivato ad un punto in cui la tecnologia e la virtualità anno preso il sopravvento sulla realtà; l’artificio ha sostituito la natura ed io a proposito ho scritto un libro che si intitola proprio Artificio e Natura, proprio per dire che oggi il bisogno del naturale è stato soffocato dalla smania dell’artificiale e questa è una delle tare della nostra odierna civiltà. C’è bisogno di tornare a recuperare la natura ma anche il senso della realtà perché viviamo in una dimensione eccessivamente virtuale ed effimera, dovremmo guardare con nuovo interesse anche all’agricoltura e alla produzione di beni di valore, di qualità.

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A cura di Cristina Valota

Gilberto Zorio, come ricorda, da protagonista, la nascita dell’Arte povera, ora che il vostro gruppo è al centro di una serie di mostre in tutta Italia, dal Castello di Rivoli al Teatro Margherita di Bari, dalla Triennale di Milano al MAMbo, solo per citare alcune sedi?E’ un ricordo lontanissimo ma allo stesso tempo vicinissimo, e certamente molto bello. C’è soprattutto un particolare che caratterizzava quell’epoca: la velocità. Allora era tutto più veloce: si decideva, si poteva fare, disfare e strafare con estrema velocità perché, rispetto ad ora, non c’erano la burocrazia, la demagogia, la finta democrazia.

Germano Celant è considerato il teorizzatore dell’Arte Povera. Ma quale ruolo svolse effettivamente nella nascita del gruppo?Celant non ha teorizzato l’Arte povera perché tutto esisteva già: c’erano le opere e c’erano gli artisti. Lui ha avuto la capacità formidabile di non spiegare che cosa noi artisti dovessimo fare (e questo sarebbe stato un errore gravissimo). Inoltre Celant, e come lui il critico Tommaso Trini e il gallerista Gian Enzo Sperone, osavano di più, cercavano e trovavano gli artisti perché a quell’epoca non esisteva ancora l’artista pubblicitario di se stesso.

La sua prima personale risale al 1963, nella Piccola Galleria d’Arte Moderna di Torino, mentre nel 1967 lei espose, nella stessa città, da Gian Enzo Sperone.Quando esposi la prima volta da Gian Enzo, in una collettiva, avevo 22 anni e presentai la “Torcia”, che è stata inclusa nella mostra alla Triennale di Milano da lei citata. Ma non c’era nulla di strategico: ad esempio, in occasione della mostra alla Piccola Galleria d’Arte Moderna ebbi la fortuna di conoscere Piero Gilardi (che allora aveva vent’anni e io appena diciotto), che aveva scritto delle mie opere lì esposte.

Lei è stato allievo dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. A quale corso era iscritto?Ho frequentato il corso di Scultura, tenuto da un professore straordinario, Sandro Cherchi. Il suo insegnamento era esemplare perché lui non imponeva, ma mi chiedeva sempre che cosa avrei voluto fare, che cosa pensassi, ed ero io, continuamente sollecitato da lui, a spiegargli il mio lavoro. Cherchi non voleva la “Scuola” e tanto meno dei discepoli. I miei primi lavori con la reazione chimica li esposi proprio in Accademia nel 1965, nella mostra che si teneva ad ogni fine corso.

Quali compagni d’accademia ricorda?Ricordo Giuseppe Penone, con il quale andavo a vedere le mostre nelle gallerie di Torino. Fin da subito tutti, in Accademia, capimmo che era bravissimo (ad esempio, aveva un talento straordinario nel modellare) e infatti anche lui fu lasciato libero di fare ciò che voleva.

Che tipo di gallerie c’erano allora a Torino?Soprattutto di qualità, come la Bussola, il Punto diretta da Sperone, la Galatea, dove vidi per la prima volta una personale di Pistoletto, che per me fu uno shock perché tutti quei quadri specchianti coinvolgevano fisicamente: il pubblico non era più soltanto uno spettatore acritico e passivo, ma diventava attivo, anche in virtù della sua vanità. Ricordo signore che si aggiustavano le ciglia e le acconciature! A Torino, inoltre, potevi fare incontri importanti.

Ad esempio?Nel 1966 conobbi Ileana e Michael Sonnabend.

E incominciò a esporre anche con loro?Sì, nel gennaio del 1969, tenni una personale nella loro galleria di

GILBERTO ZORIO e l’Arte Povera…Bisogna affrontare l’esperienza dell’accademia con la serietà del professionista e la felicità del dilettante.

Gilberto Zorio durante l’allestimento della collettiva “Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959” al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1981. Foto© Nanda Lanfranco

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testimonianze

Parigi, ma l’anno precedente esposi alcuni miei lavori nello stand che Ileana curò (perché allora il gallerista era anche il curatore del lavoro dell’artista!) alla mostra-mercato “Prospect ‘68” che si tenne a fine settembre nella Kunsthalle di Düsseldorf. Ci andai con Anselmo, con il quale, oltre a Merz, Nauman e Robert Morris, dividevo lo stand, e in quell’occasione conobbi Daniel Buren e Joseph Beuys, un grandissimo lavoratore. Pochi giorni dopo Anselmo e io partimmo per Amalfi dove, agli Arsenali dell’Antica Repubblica, si tenne la mostra “Arte Povera + azioni povere”, sempre curata da Germano Celant. Ricordo la stanchezza di quei giorni… Poi, nel 1969, sono seguite altre grandi mostre allo Stedelijk di Amsterdam, a Berna e così via.

Oggi si penserebbe, a fronte di una carriera così rapida e prestigiosa, a chissà quali strategie…Non ho mai avuto tempo di farne. Del resto, non me ne sono mai interessato, perché gli stessi galleristi non parlavano di strategie, ma usavano altri termini: parlavano di arte.

Lei ha anche insegnato?Sì, inizialmente ho lavorato presso una scuola privata di Alessandria, il Beato Angelico; poi, per un anno, ho insegnato al Liceo artistico di Cuneo, prima di partire per il servizio militare a Bologna.

Che, per l’Arte povera, è stata una città importante…Ma io la conoscevo già, perché mio fratello nacque a Sasso Marconi il 25 dicembre del 1940, come Gesù bambino. Quindi, spesso, da piccoli, tornavamo là in “pellegrinaggio” con i nostri genitori. Nel marzo del 1968, alla Galleria De Foscherari, si tenne la grande mostra “Arte Povera”: insomma, una serie di coincidenze incredibili!

Che tipo di professore era?Mi piaceva moltissimo insegnare e l’ho fatto anche al Liceo artistico “Cottini” di Torino. E’ stata un’esperienza positiva, perché ho avuto l’immediata percezione di essere lì per comunicare le mie esperienze tecniche. Soprattutto, mi rendevo conto che, pur insegnando, io stesso imparavo. Ma la scuola di allora era molto diversa da quella di oggi: era molto più viva, anche perché c’era molta meno burocrazia a intralciare il nostro lavoro!

Ha insegnato anche in Accademia?Io ho fatto delle esperienze di laboratorio: nel 1995 ho insegnato alla Facultad de Bellas Artes di Valencia che all’epoca funzionava meravigliosamente ed era affratellata all’Ivam, allora diretto da Vicente Todoli. I programmi prevedevano un perfetto equilibrio di didattica e di sperimentazione. A Valencia insegnavano ai ragazzi a fotografare le loro opere, che è una cosa difficilissima. Tra l’altro, penso che sia un ottimo sistema, quello di insegnare ai ragazzi a vedere il proprio lavoro fotografandolo o riprendendolo con la videocamera. Nel 2000, inoltre, ho avuto un’esperienza di due mesi all’Accademia di Brera, quando ancora ci insegnava Fabro. L’esperienza mi piacque così tanto, che prolungai gratuitamente l’insegnamento per 15 giorni.

Lei ritrova qualcosa del Suo lavoro nelle opere dei giovani artisti contemporanei?Qualche volta, ma non vedo una parentela stretta. Del resto, ci sono sempre dei ritorni: pensi alla pittura, ad esempio. Sì, ci sono degli incroci, può capitare che veda lavori di giovani artisti nei quali una struttura, una reazione chimica mi ricordano qualcosa, ma non penso a influenze dirette, anche perché tutto è cambiato. E penso che sarebbe disonesto voler necessariamente riconoscere dei debiti nei miei confronti. Sa, io sono laureato con voti altissimi in scienze confuse!

Tornando al gruppo dell’Arte Povera, lei ha mai avvertito questo rapporto di maestro-allievo anche tra di voi? Ad esempio, tra Mario Merz e lei c’erano circa vent’anni di differenza…Chi è anagraficamente più grande è ovviamente più ricco di esperienza, ma non ci badavo. Non esistevano maestri.

Lei era sicuro del suo lavoro?Io ho sempre avuto il senso del dubbio e nel 1972, durante un’intervista con Jole De Sanna per la rivista “Data”, diretta da Tommaso Trini, affermai che, nel momento in cui un mio lavoro esce dallo studio ed è esposto in una mostra, ecco quel lavoro non è più mio; io rimango un osservatore privilegiato, perché lo conosco ma lui mi interroga sempre. Io mi ritengo sempre responsabile del dubbio che quel lavoro mi pone e se l’opera continua a ispirarmi questo interrogativo,

Da sinistra, Giuseppe Penone, Corrado Levi e Gilberto Zorio alla Galleria Toselli di Milano nel 1973Dal volume “Libri e documenti. Arte Povera 1966-1980”di Giorgio Maffei

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io ritengo che essa funzioni. Riguardo a questa mia affermazione, Trini mi disse che io ero il contrario di Duchamp, secondo il quale, invece, bastava l’idea.

Molti lo pensano tuttora.Ma questo non è vero, perché ritengo che il lavoro debba esistere fisicamente. Pensiamo a Pontormo che, a un certo punto, venne completamente dimenticato. Se ci si fosse preoccupati solo del suo linguaggio, della sua “grammatica” pittorica, lui sarebbe sparito, ma in realtà le sue opere, anche messe in un deposito, se ne sono fregate di noi e sono ancora vive. Per questo motivo l’opera d’arte vive e deve esistere fisicamente. Se un’opera d’arte non la si distrugge fisicamente, esisterà sempre.

L’Arte Povera può essere considerata l’ultima vera avanguardia italiana?Non considero sbagliato il concetto di avanguardia. Questo però non comportava in noi alcuna intenzione di sgomitare, anche se spesso il nostro “andare avanti” veniva interpretato come prepotenza.

Lei che cosa pensa, invece, di una parte dell’arte contemporanea, spesso identificata in artisti come Maurizio Cattelan, che lavora essenzialmente sulla parodia dell’avanguardia e della sua carica idealistica? Alcuni mesi fa, a New York, ho visitato con mia moglie, Grazia Toderi, due mostre: da Gagosian, una rassegna con pezzi incredibili di Picasso, al New Museum, una personale di George Condo. Confesso che mi ha disturbato vedere un artista molto capace, con una buona mano, che però giocava un po’ allo sfottò di un certo Picasso, con qualcosa che si avvicinava, ma solo un po’, al porno. Ne ho ricavato una gran noia! Questo tipo di provocazione non mi interessa. Non ho mai capito perché si debba necessariamente fare caricatura: lo considero un atteggiamento anche un po’ vigliacco. Un conto è la caricatura politica, ma se diventa un vizio, risulta solo noiosa, perché non rimane nulla e diventa puro pettegolezzo. L’artista deve avere una visione più ampia, e non appuntarsi solo al momento.

La sua famiglia ha sostenuto la sua vocazione artistica?

Fin da bambino ho sempre dipinto e anche mia madre dipingeva. Sa che io stesso ho curato la sua prima mostra, inaugurata il 14 maggio del 1995 in un bar di via Barbaroux? Scrissi anche un breve testo indirizzato a mia papà, che ringraziavo perché lui, perito edile, ma figlio di falegnami e lui stesso ottimo falegname, fabbricava bellissime cornici ma soltanto per mia madre e per me. Fece un’eccezione per Penone, che gli era molto simpatico, realizzando cornici per una serie di suoi multipli.

Che rapporto ha con i giovani? Lei ha assistenti?In certi momenti ho due assistenti di fiducia, che mi aiutano. Quando insegnavo, avevo uno studio con Luigi Mainolfi e Fabio Francardo. Molti dei ragazzi che allora ci aiutavano erano studenti del Liceo Cottini. Ma anche in quelle occasioni, io ho continuato a insegnare, anche se quelli non erano proprio miei allievi, ma di Gastini, di Mainolfi o di altri. Ricordo, ad esempio, Enrico Giuliano, che è stato anche mio allievo, e che pur essendo bravissimo, non ha ancora avuto la fortuna che merita, oppure Paolo Grassino, allievo di Luigi. Consigliavo sempre loro di farsi il book, ora si direbbe un cd, con tutti i lavori ben presentati, e di viaggiare, perché allora Torino era satura di artisti, ma con poche strutture e gallerie. Insistevo con loro sulla necessità di visitare le gallerie di altre città per far vedere i propri lavori.

Adesso consiglierebbe lo stesso a un aspirante artista?Sì, ma senza esagerare, perché non si può vendere la pelle dell’orso senza prima averlo catturato.

Ritiene che l’accademia sia ancora una scuola valida per un aspirante artista?Certo, l’importante è non avere delle prevenzioni, perché anche se inizialmente qualche materia può sembrare noiosa, alla fine si scopre che tutto può servire. Bisogna affrontare l’esperienza dell’accademia con la serietà del professionista e la felicità del dilettante.

l’allestimento dell’opera “Stella di Camogli” nella mostra “Ricostruire con l’ar-te” alla Fondazione Pier Luigi e Natalina Remotti di Camogli nel 2008-2009. Foto © Grazia Toderi

Senza titolo, 1966, tubi Dalmine, poliuretano espanso colorato, corda, tondino di gomma nera, tubo di alluminio 430 x 255 x 380 cm. Collezione dell’artista, Foto© Michele Sereni

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Di Nina Getashvili *

A San Pietroburgo si è svolto il primo Forum internazionale «Arte e realtà». Su iniziativa del Fondo Petr Končalovskij e con il patrocinio del Ministero della Cultura della Federazione Russa, il Forum si propone di discutere, nell’arco di cinque anni, le questioni più attuali dell’arte di oggi. L’inizio del nuovo decennio, e del nuovo millennio, offre una propria constatazione della situazione nel mondo artistico ed esige una risposta a domande quali: c’è stato un mutamento del sistema di coordinate, della mentalità e della portata nell’arte e nella riflessione su di essa? Quali conclusioni offre l’esperienza storico-culturale odierna?Ogni anno il Forum si concentrerà su un singolo problema «strategico», ma analizzato da un’estesa cerchia di partecipanti legati in un modo o nell’altro all’arte contemporanea. L’estensione del pubblico partecipante non è soltanto geografica (realmente internazionale, ma potenzialmente globale, tramite l’uso di Internet), ma anche professionale e generazionale. La partecipazione dei giovani al fianco di esperti professionisti con diverse qualifiche è fondamentale.L’incontro del 2011, dedicato alla critica d’arte, ha riunito i rappresentanti di quindici Paesi. Pertanto i programmi degli organizzatori e il regolamento delle sedute non sono stati sempre attesi: non si è riuscito infatti a parlare soltanto della critica. Il dibattito si è spostato nella direzione di un’analisi dell’arte contemporanea vera e propria, verso la quale molti partecipanti hanno espresso importanti domande. È tuttavia evidente che sia avvenuto un proficuo scambio critico.Ecco alcuni temi annunciati nel programma del Forum: «La correlazione ‘Arte e critica’. Aspetti filosofici, storici e attuali»; «La formazione della Weltanschauung e della professionalità del critico d’arte»; «Critica d’arte e mezzi di informazione contemporanei»; «Il ruolo della critica nei processi del mercato artistico di oggi»; «Il destinatario della critica d’arte» e la «formazione artistica nelle Accademie e Università».In qualità di una delle organizzatrici del Forum, mi piacerebbe vedere sin dal principio una maggiore concretezza nei futuri interventi. All’inizio è infatti sembrato che essa mancasse nei discorsi pronunciati e nelle repliche a seguire.Come è già stato sottolineato, nel Forum si è parlato di arte contemporanea, ma tolte pochissime eccezioni, non soltanto dal punto di vista valutativo, e in generale non sono stati menzionati i nomi degli artisti, le scuole, gli indirizzi. Tuttavia, anche senza tali

riferimenti diretti, la temperatura del confronto si è talvolta impennata. A inaugurare il Forum è intervenuto Andrej Končalovskij, Presidente del Fondo. Pronipote dell’illustre pittore russo Vasilij Surikov, nipote dello straordinario artista Petr Končalovskij, le cui opere nel decennio 1910-1920, sono state esposte con grande successo in Italia (anche in un’esposizione personale tenutasi all’interno della Biennale di Venezia nel 1924), le cui retrospettive oggi attirano numerosi spettatori, Andrej Končalovskij, regista di fama mondiale, ha parlato del mutamento delle priorità nell’arte contemporanea, della perdita di punti di riferimento in un mondo polimorfo. La totale political correctness affermata dalla coscienza occidentale contemporanea (la Russia, naturalmente, si presuppone inserita in tale contesto) non accetta definizioni e orientamenti univoci. Il fatto di per sé non deve suscitare alcuna protesta. Nelle sue forme estreme però i timori di infrangere le «convenzioni» accettate non permettono nemmeno di «distinguere il grano dall’olio». In particolare nelle recensioni critiche si incita alla riconciliazione con la palese falsificazione, il logoramento o la mancanza di criteri realmente artistici. Nelle discussioni seguenti i partecipanti al Forum hanno messo in relazione questo stato delle cose anche con la stretta aderenza dei critici a una pratica propriamente artistica in qualità di curatori, con la loro totale dipendenza, in questo ruolo, dai propri diktat concettuali, che sottomettono la creazione spontanea dell’artista al mercato dell’arte e talvolta alla situazione extra-estetica (il Forum del 2012 sarà dedicato proprio ai problemi legati all’attività dei curatori moderni). E se è vero che nel XX secolo è nato il concetto di “arte senza qualità” che presuppone uno slittamento del senso dell’opera d’arte dalla qualità plastica all’invenzione e alla creatività, suscitano qualche dubbio le intenzioni spesso davvero primitive di molte opere attuali e la loro apologia da parte dei critici. Sorge una domanda: tali opere possono essere definite una manifestazione di arte radicale che aspira alla supermodernità e all’attualità quando alle loro spalle hanno già cento anni di storia? In questo modo continua a essere presente anche un certo “tradizionalismo”, di cui vengono accusati coloro che propongono di considerare arte anche i concetti oggi dimenticati dell’estetica. Non si può certo accusare di essere un passatista il milanese Gaetano Grillo che è invece un artista di ricerca contemporanea, eppure questo rappresentante della cultura italiana (un pittore!) ha ricordato i concetti dell’arte rinascimentale italiana di “armonia” e “bellezza” che l’arte contemporanea sta del tutto perdendo. La reazione della

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A San Pietroburgo, nella biblioteca Eltsin un FORUM Internazionale su arte e realtà, sul mercato, sulla formazione e sulla weltanschaung della critica d’arte. Una efficace iniziativa della Fondazione Končalovskij con il patrocinio del Ministero della Cultura della Federazione Russa.COSA C’ERA?

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13sala alle sue affermazioni è stata energica, anche se fondata, purtroppo, su concezioni storico-filosofiche brillanti, ma a mio parere ormai sorpassate. È tuttavia il caso, oggi, di incoraggiare un pathos di protesta così poco compreso e di accettare la distruzione sociale come l’unica in grado di rispondere alla modernità? Non è forse invece la posizione di Grillo a rappresentare nel contesto odierno la protesta più radicale e coraggiosa? Dei compiti dell’AICA (Associazione Internazionale di Critici d’Arte), ha parlato Marek Bartelik, da poco nominato presidente di questa organizzazione: Bartelik ha sottolineato la necessità per l’AICA di abbracciare con uno “sguardo critico” l’arte delle regioni periferiche (per l’Occidente) e di includerla in un contesto mondiale. L’AICA venne creata nell’ambito dell’UNESCO dopo la Seconda Guerra Mondiale nel riconoscimento della responsabilità del pensiero critico per il destino dell’arte moderna. La creazione dell’AICA fu preceduta dalla tragica esperienza della diagnosi mortale di “arte degenerata” (“entartete Art”) mossa contro il modernismo e l’avanguardia. Durante il Forum sono stati ricordati anche “soggetti” meno tragici ma indicativi, tratti dalla storia della critica (Baudelaire e Zola sostenevano Manet, ma non capirono Cezanne, Ruskin mise al riparo dagli attacchi l’Accademia dei Preraffaelliti, ma non capì Whistler, e altri esempi). Questi modelli di “soggettivismo” storico nella discussione dei problemi della modernità sono stati svolti soltanto per non assolutizzare e non universalizzare una singola posizione (sono risultati del tutto categorici talvolta nella retorica della discussione). Inoltre questi esempi hanno forse sottolineato la concezione necessaria e romantica della responsabilità individuale persino nello spazio di gioco del postmodernismo. La critica d’arte ontologica che costituisce il vivere moderno è stata mostrata negli interventi di Jennifer Francis, direttrice dell’ufficio stampa e marketing della Royal Academy of Arts di Londra (che ha dato prova di una sorta di master-class); della sua collega Ann Dumas, curatrice presso la Royal Academy of Arts; del curatore presso la Tate-modern Nicholas Cullinan; dei francesi Judith Benhamou, esperta d’arte, critica e analista esperta del mercato dell’arte, e Denis Coutagne, direttore del Fondo Paul Cézanne; dei galleristi Dmitrij Chankin e Leonid Šiškin; del direttore della Biennale di arte moderna di Mosca Josif Bakštejn; del direttore della sezione delle correnti più nuove Aleksandr Borovskij; dei critici Valentina D’jakonova, Milena Orlava; della redattrice di “Art Ukrain” Alice Lozhkina. È stata

naturalmente sollevata la questione della situazione linguistica e terminologica legata alla cancellazione di contesti nazionali di senso nell’arte moderna. L’esperienza di lavoro con il pubblico, in questo modo, è stata riferita non soltanto nella seduta conclusiva. Il vicerettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Silvia Burini ha parlato della pratica di consulenza individuale dei visitatori delle mostre attraverso giovani mediatori, il titolare della cattedra di storia dell’arte Giuseppe Barbieri è invece intervenuto parlando delle ampie possibilità di formazione e diffusione di programmi multimediali. Olesja Turkina, collaboratrice scientifica della sezione delle correnti più recenti dell’Istituto Statale di Arte russa di San Pietroburgo ha presentato alcuni programmi speciali di storia e teoria dell’arte moderna per gli studenti. E infine sono stati un elemento di pregio per il Forum gli interventi di cinque giovani specialisti (Julia Kaganskiy, Hrag Vartanian, William Brand, Samantha Culp, Astrid Mania), che hanno fatto di Internet il principale strumento di riflessione sull’arte contemporanea. Figure virtuali in grado di esercitare un’influenza reale sui gusti e sulle preferenze di molte migliaia di utenti che s’interessano di arte contemporanea, apparivano in carne e ossa scrutandosi attentamente e con aria incuriosita.Il fatto che questi giovani ragazzi, competenti e già autorevoli, abbiano espresso la loro mission con ponderazione e delicatezza e il fatto che, più in generale, al Forum uno spettro così ampio di professionisti abbia portato avanti un discorso su problemi sufficientemente complessi dell’arte contemporanea permette di azzardare una rischiosa conclusione sulle prospettive di un inizio culturalmente edificante. Questo è stato il tema degli interventi del professor Andre Dombrowski della Pennsylvania University e di Aleksandr Konov, direttore del Fondo Končalovskij. Mi permetto inoltre di ricordare a me stessa e ai lettori i prossimi incontri delle future edizioni del Forum nelle quali sarà forse possibile escludere il “rischio” e la pericolosità di una conclusione così ottimistica.

* Nina Getashvili, PhD, ProfessoreDirettore dei programmi formativi e scientifici della Fondazione Petr Konchalovsky

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ALEX PINNA

Probabilmente oggi gli artisti sono rimasti tra i pochi a potersi permettere il lusso della lentezza e della rielaborazione delle idee, io almeno cerco di farlo.

Alex, ci conosciamo da oltre venticinque anni, da quando eri studente all’Accademia di Brera, iscritto al corso di Pittura tenuto da Giuseppe Maraniello di cui sei stato anche assistente nel suo studio. Quanto ha inciso nel tuo percorso artistico l’Accademia e le stesse lezioni di Maraniello?Dopo aver studiato al liceo artistico di Savona, sono arrivato a Milano nell’85 per frequentare i corsi all’Accademia di Brera e fu per me come iniziare a respirare, allora c’erano insegnanti straordinari tra cui Leonetti, Fabro, Pestalozza, Sanesi, le loro lezioni erano degli eventi, degli happenings irrinunciabili; loro, per la prima volta mi hanno fatto sentire la possibilità di pensare in modo libero. Lavorare poi in studio

vicino a Giuseppe è stato il vero inizio per il mio lavoro, fu una vera fortuna per me quell’incontro perché mi fece riflettere concretamente sulle capacità che avevo e sulla possibilità di scommetterci sopra.

Quale era il clima di quegli anni? Chi erano i tuoi compagni di strada? L’ambiente era molto positivo, ricordo ancora le mostre di Palazzo Reale, come le uniche veramente di respiro internazionale che Milano abbia prodotto; per noi studenti una gran parte del lavoro consisteva nel vedere tutto quello che la città ci offriva e non era poco. Poi ci fu l’occupazione della Pantera e il collegamento che instaurammo con le altre accademie ci portò a vivere per dei periodi in altre situazioni culturali. Tra queste ricordo Roma o un popoloso accampamento all’accademia di Venezia nei giorni d’inaugurazione della Biennale, se non ricordo male era il 1990. Dei ragazzi di allora molti hanno cambiato percorso, tra quelli che ancora lavorano nel mondo dell’arte ricordo Vanessa Beecroft, Giuliano Guatta e sporadicamente Gianluca CodeghiniRicordo ancora i tuoi primi lavori fatti con gli occhietti di plastica, poi quelli con la corda, la scoperta del bronzo, ma tu utilizzi anche la pittura, il disegno e tanti altri linguaggi e materiali in una sorta di percorso solitario e avventuroso in cui sembra che ti diverta ogni volta a confrontarti con problemi e soluzioni nuove, è così? Perché ti muovi fra le pieghe dei linguaggi?La varietà dei materiali che uso si è creata col tempo, è dovuta soprattutto alla mia insofferenza nel rimanere troppo a lungo su uno di essi, finisce che perdo concentrazione e quindi qualità; poter saltare continuamente da uno all’altro mi rende più libero e creativo, poi per molti materiali sono costretto a collaborare con un artigiano e

A cura di Gaetano Grillo

“Big Pinocchio” 2009 ferro zincato e vernici epossidiche, cm 1600 x 400x 200 collez. perm. Museo di Arte Contemporanea Su logu de s’iscultura, Tortolì (Og)

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finisce per forza che imparo sempre qualcosa di nuovo…Sin dalle prime apparizioni i tuoi lavori hanno avuto un curioso tono fra nostalgia e autoironia, leggerezza e precarietà. Quasi come se non prendessi veramente sul serio la realtà ed essa divenisse gioco e commedia della vita sconfinando nel paradosso. Cosa raccontano i tuoi personaggi?Forse raccontano le mie difficoltà nel credere che la struttura politica, sociale e culturale che stiamo vivendo in questo periodo storico sia veramente seria, a volte penso che l’uomo nel sociale sia infinitamente più primitivo di quanto lo sia nel privato, forse per questo i miei personaggi tendono all’isolamento o al silenzio.Le tue figure allungate spesso vengono erroneamente viste come una sorta di ricorso alla nostalgia esistenzialista di Alberto Giacometti benché quest’ultimo spappolava la materia in una frammentazione della forma, animata dalle impronte nervose delle sue dita sull’argilla. Perché allunghi gli arti delle tue figure e cos’è per te la materia?Esattamente così, quando citano Giacometti circa il mio lavoro, mi chiedo se l’interlocutore, il suo lavoro lo abbia mai visto sul serio. Giacometti manipolava continuamente e dolorosamente la materia sia in pittura che in scultura, mentre io cerco figure in equilibrio tra leggerezza e forza di gravità.Trovo molto superficiale che in Italia il primo approccio al lavoro di un artista stia nel rintracciare elementi di vicinanza col lavoro di chi l’ha preceduto facendogliene una colpa, mentre in realtà penso sia una sua forza. Prendi ad esempio la cultura inglese, lì puoi rintracciare un filo continuo nel lavoro tra le generazioni: tra David Hockney e Gary Hume oppure tra Richard Long, Tony Cragg e Rachel Whiteread. Questo fa sì che gli artisti siano molto meno isolati, quindi più forti che

da noi, qui ormai è dagli anni ‘70 che ogni generazione per essere considerata “contemporanea” deve disconoscere e seppellire quella precedente.La prima figura con le gambe lunghe la feci perché volevo desse l’idea che corresse veloce, della materia m’interessa il limite, quando trovo il punto in cui un artigiano o io stesso diciamo “non si può fare” allora inizia una sfida, che se vinta sposta di un poco il confine linguistico.Tu credi che esista ancora l’avanguardia? Cosa pensi della pittura, della scultura e del disegno?Maraniello, giustamente, ci ripeteva spesso che un’opera è composta di due parti: ricerca linguistica continua e il contenuto che non è altro se non il pretesto per sviluppare il linguaggio. Io ho nelle mie corde la manualità, quindi lavoro in questa direzione; poi presuntuosamente penso che riuscire a far ricerca, quindi spostarne il limite linguistico con i materiali “classici” sia infinitamente più complesso di quanto lo sia con linguaggi più “moderni” che troppo spesso si rivelano trappole in cui gli artisti rimangono imprigionati.

Io penso che l’arte contemporanea abbia dato troppa importanza al linguaggio e troppo poca alla poetica (ciò che tu chiami “contenuto”) tant’è che molte opere accreditate e presenti nei musei hanno contenuti che spesso io trovo non solo banali ma anche miseri; poi penso che molti di questi linguaggi non hanno neanche cambiato il mondo ma casomai lo hanno recepito e allora cosa resta? Non pensi che dovremmo riconsiderare l’importanza del messaggio dell’artista?È possibile che dopo l’avvento dei linguaggi massmediali e performativi degli anni 70, durante i quali agli artisti era ancora

“Iosonote” 2007 bronzo patinato, cm 66 x 210 x 30, ed 6+1

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chiesto un ruolo di preveggenza, l’avvento dell’estetica postmoderna degli anni 80 ci abbia lasciato in eredità la possibilità di un ruolo più riflessivo. Ovviamente questo influisce molto sui nostri percorsi individuali e sulle poetiche. Probabilmente oggi gli artisti sono rimasti tra i pochi a potersi permettere il lusso della lentezza e della rielaborazione delle idee, io almeno cerco di farlo.

Cosa pensi di Duchamp e cosa di Cattelan?L’eccezionalità della ricerca di Duchamp è stata nel creare uno scarto linguistico assolutamente coincidente con quello sociale e scientifico del suo tempo, producendo una deflagrazione così potente, che ancora oggi la sentiamo. Di Cattelan all’inizio trovavo interessante l’atteggiamento provocatorio, il suo riuscire a farmi pensare che la soluzione l’avrei potuta trovare nel suo lavoro successivo, ma dopo una decina di anni mi sono stancato di aspettarlo; gli ultimi lavori edulcorati dalla patina glamour mi sembrano davvero poco coinvolgenti.

Quali sono gli artisti (i Maestri) che senti più vicini a te? E quali sono gli artisti (i giovani) a cui guardi con interesse?Penso che per forza di cose, ognuno di noi sia impregnato di tutte la cultura del passato che abbiamo in qualche modo assorbito, per cui potrei dirti che i maestri per me sono un po’ tutti; poi nelle varie fasi del lavoro e della vita ci sono artisti che sento più vicini, in questo periodo mi piace una certa idea di assenza che trovo nel lavoro di Gastone Novelli o Rudolf Schwarzkogler, ma anche l’aspetto più nostalgico rispetto ad un’idea di natura di Piero Manzoni, Luigi Mainolfi e Pino Pascali. Tra i ragazzi più giovani ammiro molto Andrea Mastrovito, mentre spero che si riprenda a guardare il lavoro di alcuni bravissimi scultori della generazione precedente la mia, rimasti un po’ in ombra negli ultimi anni.

Cosa pensi dei galleristi italiani e quali sono quelli che stimi?

Che muovendosi spesso in ambienti culturalmente poco limpidi, insieme agli artisti sono quelli che hanno pagato maggiormente l’assenza e il tradimento della critica negli ultimi vent’anni, in cui la maggior parte dei critici ha smesso di pensare e tessere una vera struttura d’idee, accontentandosi di ambire a curare degli eventi più o meno importanti e più o meno remunerativi.

Le tue immagini esili e spesso curve, senza gravità e leggere, talvolta anche umili e smarrite, mi fanno pensare alla forma della Liguria da cui tu vieni, senti di avere delle radici in quella regione? Credi che esista ancora oggi un’identità legata ai territori di provenienza?Sì, i vent’anni che ho vissuto davanti a quel mare hanno lasciato un’impronta fortissima nel mio modo di vedere e di sentire, come ha ben scritto Fossati “noi (i liguri) non ci sappiamo vestire e non ci sappiamo spogliare”.Mi auguro di cuore sia ancora possibile per gli artisti poter mantenere un’identità specifica. L’idea e il tentativo di globalizzare i giovani artisti italiani, promuovendo soprattutto quelli il cui lavoro più si prestava a ciò, per me è stato un errore enorme e goffo da parte di una certa parte del sistema italiano: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ormai in ambito internazionale c’è quasi l’idea che qui non ci sia quasi nulla dopo la transavanguardia, che guarda a caso faceva proprio della sua identità culturale un punto di forza.

Questa mostra a Catanzaro, in quella che fu la casa di Mimmo Rotella ma anche negli spazi della città, mette in relazione il tuo lavoro con il contesto urbano ma le tue opere pur essendo in bronzo non sono certo monumentali, quale relazione vuoi creare con il fruitore che scopre ad esempio una tua figura in bronzo che si poggia con la mano ad una parete come per scaricare la fatica dopo una corsa?Credo che la natura più intima del mio lavoro sia comunque la

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comunicazione, per questo mi sforzo di rimanere in territori in cui i codici siano accessibili: dal fumetto, alle favole, alla figura umana; spero sempre che un po’ tutti trovandosi di fronte a un mio lavoro possano instaurare un dialogo, purtroppo non avendo io verità da enunciare credo di poter soprattutto porre domande a chi guarda.

Ricordo che una ventina di anni fa, in compagnia di Mimmo Rotella, Franco Imbrogno, Francesca Alfano Miglietti, Cesare Fullone e Arcangelo eravamo in un bellissimo agriturismo immerso nella natura in val Seriana e ad un certo punto Mimmo ci disse: amici mi sono rotto le palle di tutta questa noiosa natura, andiamo a Monza, all’autodromo a sentire i rumori dei motori e a respirare l’odore della benzina bruciata! Esporre nella casa che fu di Mimmo Rotella ti emoziona? Ti ha portato a pensare a un allestimento speciale?Certamente, la mostra è pensata nel massimo rispetto del luogo e della sua storia, per questo ho concordato con il presidente della fondazione di lasciare esposti molti lavori di Rotella insieme ad altri contributi del suo percorso, cercherò in questo caso di instaurare un dialogo tra la sua gestualità e la mia materia pensierosa…in più installeremo cinque grandi sculture nelle strade della città, mi piace molto l’idea di andare in giro a dar fastidio senza aspettare che il pubblico venga in galleria.

In una mia recente visita a Catanzaro ho visto in casa di Rocco Guglielmo un tuo lavoro con la corda che sembra essere la balaustra della scala ma in verità è installato a parete e le figure salgono come se fossero in equilibrio instabile. La scala, la corda, l’oscillazione, i volti enigmatici e i corpi sempre stanchi, abbandonati, quasi coscienti del loro destino in continua sospensione, sono certo un evidente segno dell’attenzione che tu rivolgi al racconto; hai mai pensato di fare un video?Sì, ma l’unico modo per me, sarebbe un’animazione a passo uno,

probabilmente non riuscirei a finirla, però è da un po’ che lavoro su un testo e una rappresentazione teatrale, chissà…

Alex… Pensi che oggi abbiamo bisogno di azione, interazione o contemplazione?Insieme alla riflessione che secondo me è il ruolo naturale dell’artista in studio, spero sia arrivato il momento di agire maggiormente anche nel sociale, bisogna aprire le finestre e rinnovare l’aria, da troppo tempo sottostiamo a una classe politica/decisionale formata da gerontocrati, che hanno soprattutto la colpa di aver pressoché eliminato la meritocrazia, hanno quasi spento l’energia e le idee di un paese, che ha sempre avuto cose importanti da dire in tutti i campi culturali.

Cos’è per te la bellezza?Un’idea importante che assume una forma in modo semplice quasi spontaneo.

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Foto di Andrea Corbellini, studio 3GK, Milano

“Alias” 2010, corda annodata e acciaio, misure variabili, collezione privata, Catanzaro

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Ma da quando dipingi i bordi?Sì, questi ultimi lavori sono tutti caratterizzati dal fatto che dipingo anche il bordo e non solo la parte frontale del quadro, non mi piaceva più il lato bianco della tela: usando tele preparate era troppo bianco. In principio ho esitatato, il mio timore era che così facendo la tela diventasse un “oggetto dipinto”, cosa che non mi interessa perchè io tengo al fatto che il quadro sia su tela e telaio, lo considero un supporto che si è nel tempo ottimizzato per ospitare la pittura. Mi piace che un quadro sia il quadro, un supporto perfetto, immediatamenente riconoscibile da tutta la cultura occidentale come il luogo della pittura. Invece dipingere anche i bordi senza andare fino in fondo ha funzionato: lasciare una porzione della tela del bordo non dipinta consente di vedere tutte le varie stratificazioni dalla preparazione fino all’ultima campitura, questo non solo ha reso il quadro più piacevole da vedere ma ha anche introdotto una sorta di registro cronologico...

Certamente si rende più leggibile il processo...Sì, certo… mi sono liberato dal dover spiegare il processo, si chiarisce anche che non realizzo un progetto ma lavoro passo dopo passo

in dialogo dialettico tra me e il dipinto; per questo la realizzazione richiede tanto tempo, perchè il quadro non lo posso pensare prima e poi realizzare. Tutto ciò si autodichiara nel bordo e questo mi sembra un passo importante dell’autonomia dell’opera. Quando le opere si autoidefiniscono...

Si autoenunciano... Tu accennavi al quadro come il luogo della pittura per eccellenza, ma c’è pittura e pittura e la pittura per te da ormai tanto tempo è identificabile con il colore e la riga.Esattamente spazio e colore. Per me la pittura è questo, sono queste due componenti che giocano l’intera partita, non c’è altro. Così come la scultura è spazio e forma, andando proprio all’essenza.

Ma il tuo spazio è gestito da righe.Le righe vengono percepite come porzioni di spazio non come forme. Questa cosa delle righe che è poi diventata una mia peculiarità ha un’origine tecnica: poiché uso I colori acrilici, che asciugano rapidamente, quando dipingevo grandi superfici restavano I segni

Aurelio Sartorio e Grazia Varisco a confrontoUna mostra alla Galleria Fabbri contemporary art, curata da Federico Sardella, pone l’opera dei due artisti in dialogo. Un ex allievo e un’ ex docente di Breraa cura di Elisabetta Longari

Nello studio di Aurelio Sartorio due sono le peculiarità dei “nuovi quadri” che saltano subito agli occhi: i bordi laterali della tela parzialmente dipinti e i colori saturi posati in piccole porzioni strette e lunghe che instaurano tra loro rapporti particolarmente attivi, mercuriali.

Debordante 1, 2011, acrilico su tela, 30 x 40 cm

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confronti

tra una campitura e l’altra che sembravano le “giornate” degli affreschi, erano quasi impercettibili ma non mi piacevano; ho così cominciato a delimitare lo spazio a compartimentarlo; poi, dato che mi piaceva, l’espediente tecnico è diventato elemento costitutivo del mio linguaggio fino ad enfatizzarsi.

E la superficie si è ulteriormente complicata... anche grazie all’accensione maggiore dei colori, molto saluri e contrastanti. Quando e perchè hai iniziato a usare la palette osée di colori “esagerati e esagitati” degli ultimi lavori? Certamente sono i colori che rendono il dipinto più “complesso” non la struttura. Come spesso mi accade questi colori e queste tonalità sono il tentativo (riuscito) di elaborare una nostalgia. Mi spiego meglio: tutto è cominciato con l’invito alla mostra “Vado fuori all’aperto” in quell’occasione ho dovuto pensare un lavoro da installare in un giardino e per la prima volta ho utilizzato i colori fluò. Questi particolari colori, che hanno la caratteristica di emettere una parte della luce che assorbono, sono stati perfetti in quel contesto, erano infatti gli unici in grado di competere con i colori della natura, ma su di me hanno avuto l’effetto di una droga.La faccio breve... non ho potuto usare (se non con parsimonia) le tinte fluorescenti per i quadri perchè non sono resistenti nel tempo alla luce ma sopratutto perchè la loro particolare brillantezza spegne quasi tutti gli altri colori.Per questo motivo ho cominciato ad usare tonalità molto sature e contrastate per ricreare il più possibile con i colori “normali” la stessa immagine brillante e instabile di quelli fluò. Questi colori sono anche responsabili dell’introduzione dell’uso dello scotch per tirare le righe, non tanto per essere più preciso, lo ero anche a mano libera, ma perché rende più tagliente lo stacco, più incisivo e dunque più funzionale alla “cattiveria” di questa tavolozza. L’uso dei nastri adesivi ha anche un risvolto creativo… dato che li uso due volte vengono dipinti in due colori, l’accostamento è casuale

perchè li riutilizzo in base alla loro lunghezza, al’inizio non sapevovo cosa farnmene però mi piacevano e così li appicicavo sui muri per un po’ prima di buttarli, poi ho avuto l’idea di riutilizzarli per realizzare dei lavori su carta, che piano piano si sono strutturati in piccole serie di 20 pezzi con la stessa struttura ma diversi per colore.

Il tuo modo di lavorare per progressivi aggiustamenti dei rapporti tra gli elementi cromatico-spaziali mi ricorda il metodo di lavoro di Matisse, al di là di tutte le vistose differenze sintetizzate da quelle tra arabesco e linea retta.Sì certo… tra l’altro un artista che amava molto il colore. Ci tengo però a chiarire che l’aprogettualità non è quella cosa di mettersi nel fare senza sapere bene dove si andrà a finire ma è un metodo di lavoro serio in cui il momento progettuale coincide (quasi) con la realizzazione, è un metodo che amo perchè permette un dialogo continuo tra artista e opera e in cui il tempo diventa una delle varianti del lavoro. Fino alla fase finale dove diventano importantissime le variazioni minime: le tonalità di uno stesso colore, la qualità materica, la dimensione della riga; anche se devo fare tre righe rosse non posso farle contemporaneamente, devo farne una per una, perchè devo poter vedere...

L’effetto che fa! Parliamo ancora un attimo della tua tavolozza...Cambia nel tempo a seconda degli interessi, ma non ho colori prediletti e colori detestati e banditi: io uso tutti i colori, nessuno escluso e in tutte le possibili varianti, anche se ho un particolare interesse ber quei colori generalmente definiti “difficili”. Il lavoro si basa sulla sfida di tenere insieme istanze cromatiche differenti. Tutti i colori alla fine possono stare assieme se si trova il l’accordo giusto. Alla fine lavoro prorio sulle variazioni di tono, di texture o di consistenza; raramente due campi dello stesso colore sono identici, ci tengo che ognuno abbia una sua specificità.

Debordante 3, 2011, Acrilico su tela, 50 x 70 cm

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2020Hai lavorato spesso anche opere composte da più pezzi, in forma di dittito, di trittico, di polittico.In passato ho lavorato molto su uno spazio frammentato anche del supporto, e in quel caso le tele bianche venivano posizionate l’una accanto all’altra o alle altre e dipinte insieme. In quella stessa posizione dovevano poi essere rimontate una volta terminate e spedite a un’esposizione o venute a qualche collezionista. Adesso invece sto dipingendo i pezzi singolarmente, quando li espongo però posso decidere di raggrupparli temporaneamente o dislocarli in composizioni sulla parete. A volte invece dipingo quadri pensando già che andranno mostrati con accanto i loro piccoli satelliti, magari dislocati in modo eccentrico rispetto al quadro più grande e centrale, ma allora sono uno stesso lavoro e procedo contemporaneamente nella realizzazione di ciascuno.

Affrontiamo adesso il discorso dei maestri, sia le persone reali che hai incontrato che hanno inciso sulla tua idea e pratica dell’arte, sia i maestri ideali, quelli della storia dell’arte e dell’occhio, quelli del fare, quelli della concezione dello spazio e dell’uso del pennello.Quelli storici sono i maestri delle Avanguardie, in particolare Mondrian e Malevic... Ma anche, come dici tu, i manieristi, certamente. Infatti l’atteggiamento con cui mi rapporto alle Avanguardie è simile a quello con cui Lotto o Rosso Fiorentino si riferivano a Raffaello e Michelangelo: come per loro il mio lavoro ha come riferimento il l’opera di altri artisti non la natura, per questo sì che posso definirmi un manierista, e ne sono fiero. Tra i maestri in carne e ossa certamente Carmengloria Morales, mia insegnante al Liceo, mi ha dato un imprinting indelebile rafforzato poi quando sono stato suo assistente di studio, dove ho avuto modo d’imparare proprio il mestiere...

Sì, infatti condividete la concezione del quadro come un campo di forze, anche se da Morales agito per via di pennellate, in modo profondamente diverso dalle tue linee ortogonali, e l’idea che ogni dipinto è un precipitato di fenomeni fisici che si porta la sua storia leggibile nella carne della superficie e la esibisce. Certo, ma anche l’attenzione per ai formati mi derivano da Morales.

Invece dopo, in Accademia a Brera, c’è stato qualche stimolo preciso, più preciso di altri?In realtà ho frequentato il primo anno da Luciano Fabro con cui non sono andato d’accordo perché lui aveva un’idea dell’insegnamento quasi di come di setta esoterica. A me la cosa andava stretta e presto ho capito che, nonostante Fabro fosse un artista di grandissima qualità intellettuale, che non poteva essere d’aiuto a quella che sentivo dovesse essere la mia crescita. Per questo ho smesso di seguirlo per poi passare con Diego Esposito, che ha avuto il grande pregio di lasciarmi la libertà di coltivare e sviluppare quella che volevo fosse la mia direzione, che lui ha riconosciuto e rispettato, con lui ho potuto continuare a dipingere.Non ha influito direttamente sull’impostazione del lavoro ma attraverso un assiduo confronto, mi ha dato spazio e fiducia, mi ha perfino selezionato per esporre i miei lavori di fine corso in un’aula che ricordo ancora perfettamente per la sua bellissima luce e la perfetta cubatura spaziale, insomma, mi ha dato l’opportunità di crescere e consolidarmi. Quell’esposizione a Brera “La stanza di Narciso” è stata la mia prima mostra “seria”, curata da Giovanni M. Accame, mio amato professore di Storia dell’Arte, per me è stato un grande riconoscimento, il titolo che Accame aveva dato alla mostra derivava dal titolo di un mio lavoro “Narciso” appunto e dal’opera di un altro allievo che aveva disseminato il pavimento di specchi. Accame era molto vicino a questa pittura che io andavo facendo e cercando e inoltre era un insegnante con un ottimo metodo didattico, molto serio strutturato. A Brera sono stato anche studente di Grazia Varisco che insegnava Teoria della Percezione e con lei il confronto è stato spesso duro ma utilissimo, i confronti aiutano a crescere. L’unico 29 che ho sul libretto (nel senso che gli altri sono tutti 30) è il voto del suo esame.Tra gli amici artisti che hanno avuto un peso nella mia formazione un ruolo particolare spetta a Franco Pardi.

Parleresti adesso di quegli inciampi che hanno influito magari indirettamente ma profondamente sulla tua idea di pittura o sull’idea di quello che si può fare con la pittura? Qualche suggestione diversa dalla pittura?Una forte suggestione ha esercitato una quindicina d’anni fa la

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Quadri comunicanti, 2008, metallo verniciato e alluminio Alulife, 41x53 cm ciascun elemento.Fotografia di Cesare Chimenti

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21scoperta casuale in una libreria del libro di Michel Pastoreau, “La stoffa del diavolo, una storia delle righe e dei tessuti rigati”. Per me è stato un ritrovamento importante,. Questo piccolo saggio di storia del costume e sui significati simbolici legati alla riga nel tempo e in diversi contesti ha rafforzato e reso maggiormente consapevole la mia istintiva inclinazione verso le righe.Pastoreau ha scritto anche sul colore cose davvero interessanti che ho continuato a seguire, ma l’incontro folgorante è stato proprio con La stoffa del diavolo. Anche i colori della la computer grafica ma anche la logica dei programmi ha lasciato dei segni.Poi anche alcuni film, per esempio Il Mago di Oz o Kill Bill di Tarantino a cui ho anche dedicato un quadro...

Ma perché?Intanto perché anche lui è un “manierista” in un certo senso fa con il cinema quello che io faccio con i quadri, secondo me lui ha usato per la prima volta nel cinema tutti i colori del cinema di genere tipo quelli dei B movie in un film “alto”, ma la sua operazione è estesa a tutti gli aspetti, narrazione compresa, ha smontato e rimontato con maestria tutti questi elementi. Ma quello che mi ha colpito soprattutto, è chiaro, è l’uso del colore in Kill Bill, così innaturali (citano altri film non la natura) e manieristi; non dimenticherò mai la tuta gialla di Uma Turman, pensa che è per quello che dopo anni ho ricominciato ad usare il giallo. Un’altra suggestione proviene da Glenn Gould, dal suo modo così “preciso” di suonare ad esempio Bach, sezionando le note al punto che non sembra neppure più Bach ma un brano di musica contemporanea. Anche a lui avevo dedicato un quadro proprio quando avevo incominciato a separare e rompere maggiormente questi campi attivi contigui sulla superficie e ho cercato di portarli verso un livello di tensione sempre più alto, quasi sul punto di esplodere, tanto che proprio tu una volta hai definito le mie righe “elastici in tensione”. Ed è proprio la musica di Gould, dove ogni nota suonata ha una tensione autonoma, ad avermi indicato la strada. Purtroppo Pur amando molto la musica non l’ho mai studiata non conosco l’alfabeto né la sua intima struttura: non la so leggere e quindi non posso apprezzare fino in fondo le relazioni che le persone che invece la conoscono trovano tra i miei quadri e la musica contemporanea.

Sarebbe bello che avessi anche tu, come Klee, il tuo Boulez che generasse una partitura dalla trascrizione di un tuo dipinto e lo suonasse!Il compositore Marco di Bari aveva in mente di farlo ma fino ad ora non è successo! Chissà….

Speriamo che accada presto!

Nello studio di Grazia Varisco con Aurelio Sartorio. Vediamo insieme i lavori che saranno esposti, una scelta degli ultimi due cicli di esperienze: I quadri comunicanti (2008) e Vibrazioni/Risonanze (2009).

Come d’abitudine, le opere di ciascuna serie nascono e si sviluppano secondo il criterio della variazione all’interno di un diverso insieme di dati essenziali e regole stabilite. Sempre esperienze del rapporto tra il pieno e il vuoto, elementi fondamentali della scultura.

G.V. La composizione a parete dei Quadri comunicanti è variabile, dipende dallo spazio in cui andranno ad “agire”, le opere si possono susseguire con un ritmo scandito regolarmente oppure sistemarsi a gruppi isolati.

E.L. Come sei arrivata a concepire e realizzare questa serie?

G.V. È un’esperienza trattata in Teoria della Percezione... io voglio esaminarne la componente di ambiguità e tentare una versione espressiva che nella didattica-divulgativa sui testi fondamentali viene però illustrata in modo arido; al dunque questa serie è dimostrativa della regola dell’allineamento.Si chiama Quadri comunicanti perché sono portatori di un’ipotesi di disordine che si organizza secondo un taglio che è l’allineamento orizzontale nello spazio.Quando qualche tempo fa Napolitano ha accennato alla metafora

confronti

Dilatazione di spazio. Spazio potenziale, 1974, tavola di legno, chiodi e telai in ferro, dimensioni variabili. Tre elementi, installation view, Rotonda di via Besana, Milano, 2006. Fotografia di Thomas Libis

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2222del sistema dei vasi comunicanti nel parlare di politica, mi è sembrata quasi la conferma nel trattare un argomento valido non solo dal punto di vista visivo ed estetico.In ogni modo questa serie nasce da un lavoro più evanescente e giocoso dal titolo Strappo alla regola, composto da molte buste di carta oleata di formato quadrato, che mi sono procurata dalla galleria Hoffmann di Friedberg dove avevo esposto precedentemente. Ricordo Heidi, la gallerista, curiosa della mia richiesta, e il marito che avevo conosciuto per una mostra di Gianni Colombo, come due persone straordinarie, fuori dal comune, lui era un “filosofo” che mentre svolgeva gesti quotidiani e pratici raramente parlava ma sempre sorprendeva con le sue considerazioni davvero colte e di una profondità rara. Lui adesso purtroppo non c’è più...

E.L. Torniamo alle buste...

G.V. Ho infilato in tante di queste buste un cartoncino di colore diverso, molto intenso e vivace che la carta oleata attutisce, poi ho fatto degli strappi casuali su ogni busta e le ho esposte a parete allineandole tenendo costante la posizione del buco, dello strappo vivace... Così il mio Strappo alla regola è stata la premessa dei Quadri comunicanti.Gli ultimi lavori, Vibrazioni, o anche Vibrazioni/Risonanze, di cui uno è esposto a Roma all’Accademia di San Luca, di cui io sono membro...

E.L. Un riconoscimento davvero importante che pochissime donne possono vantare...

G.V. Si poche purtroppo. Forse sono l’unica scultrice.

E.L. Dici scultrice, ma questi lavori sono tutti a parete!

G.V. Però sono sculture a parete, variazioni sul pieno e il vuoto. E spesso anche sull’ombra. Questa ultima serie richiede ancora qualche accorgimento per risolvere la qualità della vibrazione: non vorrei sentire il rumore del metallo contro la parete, ma solo la vibrazione aerea, sto provando lo spessore giusto di un distanziatore.

A.S. Tra l’altro proprio quest’ultima serie che lavora sulla vibrazione della superficie non è dissimile da ciò che faccio io con il colore in pittura. Con due sensibilità diverse, tu da scultrice e io da pittore...

G.V. Certamente, ecco perché l’abbinata funzionerà.

Sono diversi anni che guardo il tuo lavoro pensando che in fondo mi è affine, o meglio, che partiamo da presupposti simili e operiamo in aree non distanti. Entrambi attraverso le nostre opere facciamo delle riflessioni su come si guarda... sul come si vede e sui meccanismi percettivi che vengono di volta in volta implicati. A.S. Con gli occhi si guarda ma con il cervello si vede.

E.L. Ma ti manca l’insegnamento, Grazia?

G.V. No, perché ormai le mie riserve non riguardavano lo specifico della materia, o il mio metodo di proporre Teoria della Percezione o il mio rapporto con gli studenti interessati ma più diffusamente, mi sentivo inadeguata a comunicare qualcosa di utile ai ragazzi di oggi. Sentivo di parlare un’altra lingua e di essere interessata a cose che magari non avevano più a che fare con i giovani... di oggi. Il mio metodo prevedeva che, proprio perché in una Accademia di Belle Arti, non si studiasse solo la teoria sui libri ma si dovesse fare esperienza pratica di ciò che si studiava, quindi chiedevo un riscontro operativo di quanto acquisito sul piano teorico. Facevamo quindi anche laboratorio.Quando Accame mi invitò, proprio in quanto artista, per il corso di Comunicazione e Didattica, indirizzo di studi da lui impostato, mi sono sentita più che mai convinta del mio metodo e ritrovandomi con 20 - 40 studenti, invece del numero a tre cifre che avevo prima, finalmente ero in grado di seguirli passo per passo e non di trovarmeli agli esami, in molti casi, solo come dei numeri.

E.L. Forse il gap che sentivi a tratti era lo scarto tra il vocabolario modernista che è il tuo e anche di Aurelio, e lo spirito postmoderno che è si è diffuso in questi ultimi vent’anni... Ma non è il caso di addentrarci in queste macro-categorie, torniamo a noi. Abbiamo parlato di te “maestra”, adesso parliamo per favore dei tuoi maestri. Quali sono gli imprimatur nella fase della tua formazione?

G.V. Per quel che riguarda l’apertura mentale il nome è Guido Ballo. Attraverso di lui abbiamo capito che c’era molto altro in giro per il mondo rispetto a quello che avevamo sotto gli occhi. Allora l’informazione artistica e le riviste di settore quasi non esistevano, comunque scarseggiavano ed erano di difficile reperibilità.Ricordo ancora un piccolo opuscolo sull’opera di Klee che trovai a Brera e fu un avvenimento nel nostro corso di studi. Ho fatto con Ballo, nel

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Grazia Varisco alla’Accademia di Brera, nell’aula con Achille Funi, Milano 1959

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1959-60, la tesi d’Accademia sul valore del segno in Kandinskj, Klee e Wols ma non ti dico gli sforzi a reperire materiale. Insomma, Giudo Ballo ci ha aperto la testa, non ci “inculcava” certezze... ci portava a vedere le opere e ci trasmetteva un interesse autentico per la ricerca artistica. Soprattutto ci ha fatto capire che preferiva avere vicino persone pensanti; non gli interessava impartire nozioni e dogmi a soggetti passivi. Voleva un confronto attento e intelligente.Per esempio Funi, il mio professore di Decorazione, con la sua pittura accademica, ci educava alla disciplina nel metodo di lavoro proponendo di esercitarci 6,sì, 6, - mi sembra che anche il sabato si andasse a Brera-, giorni alla settimana sulla copia della modella. Ogni mattina per 4 ore, dal disegno, passando poi all’acquarello o alla tempera, si faceva copia dalla modella, la cui figura a fine anno veniva riprodotta poi nell’affresco su muro. Quella disciplina mi è molto servita. Tra l’altro Funi ci aveva anche preso un po’ nelle sue grazie...

E.L. Ci sta per chi?

G.V. Io, Gianni Colombo e Davide Boriani. Non solo eravamo iscritti insieme da Funi allo stesso anno, ma venivamo insieme anche dallo stesso liceo. Funi nel pomeriggio passava dall’aula, dove noi liberi da lezioni facevamo tentativi materici,e con la pipa in bocca diceva qualcosa che proponeva di seguirlo nel suo studio che era attiguo all’aula, dove ci faceva accomodare in un silenzio di tomba... mentre dipingeva..Mi ha anche ritratto in un suo dipinto... Un giorno ho visto arrivare un topo, mangiare la carta del sapone che era appoggiata sul cavalletto... L’atmosfera della Accademia di Brera di una volta era incredibile e non è più rintracciabile se non attraverso alcune fotografie tra cui ne ricordo una scattata da Cesare Carabelli in cui io sono nell’aula di Funi con il muro pronto per l’intonaco dell’affresco.Funi veniva alle nostre prime mostre alla Galleria Pater...ma separava la sua didattica dai nostri esperimenti. Da Funi ho imparato l’importanza della disciplina nel lavoro. La disciplina, questo fare e rifare per 4 anni tutte le mattine una stessa cosa; lì per lì mi generava dubbi “ma che andrò a fare dopo? non avrò sbocchi da affreschista di chiese, anche perché sono una donna”... Questi pensieri affioravano durante l’Accademia, ma in seguito mi sono resa conto dell’importanza di quella formazione alla disciplina, quando sono passata in Rinascente a lavorare come grafica. In quegli anni, dal 1960 al 1967, in Rinascente la situazione era eccezionale, un periodo fantastico con incontri importanti, formativi, con consulenti esterni, primo fra tutti Bruno Munari, e Bob Norda, oppure interni come Augusto Morello, direttore del nostro settore, Mario Bellini che era al tecnigrafo a fianco al mio, Italo Lupi che coordinava noi grafici. Ero entrata in Rinascente senza quasi avere esperienza, ero stata solo per 6 mesi a Brugherio in una fabbrica di materia plastica dove ricordo che stampavano anche il posacenere di Munari, il tempo sufficiente per capire che la grafica aveva un suo linguaggio di cui io ero completamente digiuna perché in Accademia non venivano affrontati minimamente questi ambiti di comunicazione visiva. L’infinita varietà dei caratteri tipografici, il loro corpo e la composizione... mi si spalancava un mondo affascinante, soprattutto in Rinascente, quando dovevo portare a compimento lavori che dovevano essere risolti dal punto di vista della comunicazione espressiva, dell’ordine e della correttezza grafica; allora mi fu di grande aiuto il bagaglio di disciplina messo insieme con fatica quotidianamente con Funi. In Rinascente lavoravo solo la mattina mentre il pomeriggio trafficavo sui miei cinetici.L’impegno di lavoro alla Rinascente poi alla Kartell, al Piano Intercomunale e sporadicamente per Abitare e aziende private mi hanno fornito esperienze in cui la grafica era l’elemento linguistico portanteIntorno al 1964 maturando questa attività che considero complementare alla formazione accademica ho avvertito concluso il periodo di frequentazione quasi quotidiana con il gruppo T, anche se ho continuato a fare mostre Miriorama, ritenendo importante l’esperienza comune e irrinunciabili i concetti alla base della nostra ricerca. Eravamo “cresciuti” anche individualmente... Nel ‘64 poi, mi sono sposata e ho avuto figli... e gli impegni che ne conseguono si sono moltiplicati. Con Gianni Colombo, che aveva lo studio vicino e amici comuni,

l’amicizia e la frequentazione si è intensificata e impreziosita nel tempo.Munari ci mise in contatto con L’Olivetti, e io, con quell’esperienza sono passata all’uso dei motorini negli oggetti cinetici. Poi voglio ricordare che c’era Fontana, generosissimo e semplice, cordiale nei contatti. A me, come ad altri giovani, ha comprato la prima piccola opera. È stato importante per tutti noi proprio perché lo si incontrava in giro per gallerie e insieme si vedevano e commentavano le mostre viste. Ho anche un ricordo a proposito di Fontana che non so se è un ricordo effettivo o un falso ricordo: sono convinta che siamo stati, noi del Gruppo T, in studio da lui... a un certo punto per un allestimento forse irrealizzato, altrimenti sarebbe documentato, Fontana scarabocchia con penna stilografica su un piccolo foglio una specie di schizzo progettuale e me lo consegna da conservare da qualche parte... l’ho cercato da più di trent’anni senza mai trovarlo. L’avrò perduto o soltanto immaginato? Eppure... era lo schizzo di una parete mossa al cui centro c’era il segno di un grande taglio orizzontate che andava illuminato dall’interno; forse la ragione del nostro coinvolgimento era che avremmo dovuto curarne l’illuminazione variabile?Tengo molto a dire che nel mio lavoro, vedo che la premessa e la matrice sono state esattamente quelle messe a fuoco in quel giro di anni. Il coinvolgimento del pubblico che non è più spettatore, non rimane inerte a contemplare ma è invitato a toccare, a partecipare all’opera che cambia e vive della partecipazione degli altri è tuttora una costante ricorrente nel mio lavoro.

E.L. Il tuo lavoro verte sul rapporto tra vuoto e pieno, ma a volte entra anche del colore, pochi, quando sono tanti sono tre e comunque i primari... Anzi, sono tentata di dire che i tuoi sono per lo più non colori, a parte il rosso che si carica di tutte le valenze del colore...

G.V. In effetti sento il rosso come qualcosa che si oppone... qualche volta ho fatto anche i telai rossi. Lo sento proprio come l’alternativa al non colore dei grigi dei metalli. Spesso c’è il color minio, a volte stranamente fa capolino anche un azzurro, e in Strappo alla regola ci sono molti colori...

E.L. Ma di Strappo alla regola appunto trattasi!

G.V. Le regole, le geometrie segrete, non è importante che vengano rivelate o rilevate.

E.L. Esclusi i presenti, ci sono dei giovani artisti che stimi particolarmente?

G.V. Fammi pensare... Vorrei dire il nome di alcuni che a volte mi sorprendono con prove interessanti ,ma al momento non ricordo...qualche mio ex studente? Salvatore Cuschera (1958), anche lui uscito da Brera, e, di una generazione diversa, Lorenzo Taini (1977), che ha frequentato a Brera il corso di Comunicazione e Didattica dell’arte insieme a Federico Sardella, che curerà la mostra di Aurelio e mia alla Galleria Fabbri contemporary art.

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Di Claudio Cerritelli

Il percorso intellettuale di Giovanni Maria Accame è tra i più limpidi e coerenti che sia dato di conoscere nel contesto della critica degli ultimi cinquant’anni, un viaggio condotto in stretta relazione con gli artisti e con le opere come fonte primaria di conoscenza dell’arte, senza mai perdere il rapporto con la storia, soprattutto quella delle avanguardie della prima metà del ‘900.Inizialmente impegnato in studi musicali, l’avvicinamento di Accame verso le arti visive avviene negli anni Sessanta, sia con la frequentazione delle mostre pubbliche e private in Italia e all’estero, sia attraverso la verifica storica e teorica legata -da un lato- all’apprezzamento delle posizioni teoriche di Giulio Carlo Argan, e dall’altro, alla seduzione esercitata dalla visione storico-critica di Francesco Arcangeli. Si tratta di due modi di intendere il rapporto con le opere sostanzialmente differenti – per non dire contrapposti-, due universi di riflessione che per Accame sono decisivi per comprendere il valore umano dell’arte che oscilla tra il piano ideologico dell’utopia estetica e l’appassionata esplorazione delle idee nel corpo delle opere, dunque nelle poetiche degli artisti.In una recente intervista curata da Gisella Vismara (pubblicata sull’ultimo numero di Nuova Meta) Accame ricorda a proposito degli insegnamenti ricevuti frequentando gli artisti: “Una vera e propria scuola è stata la frequentazione di Enzo Mari, tra il 1968 e il 1969, per un anno consecutivo, nel suo studio di Milano. Ho collaborato con lui (relativamente ai testi) per il libro “Funzione della ricerca estetica”, che stava preparando per le Edizioni di Comunità. Ho compreso cosa significa svolgere una ricerca, cos’è il metodo, la disciplina e la responsabilità del lavoro”.Al ricordo di questa esperienza fondamentale segue la memoria di altri rapporti che hanno segnato nel corso del tempo il dialogo con gli artisti, da Giuseppe Sanfilippo a Emilio Vedova, da Concetto Pozzati

a Lucio Saffaro, incontri che hanno contribuito ha chiarificare il suo complesso arco di scelte.Nei primi anni Settanta gli interessi si amplificano e, oltre alle arti visive specificamente intese, si avvertono interessi legati all’architettura, all’urbanistica e al design, in un fervido intreccio di discipline che dilatano il raggio di riflessione e l’impegno rivolto a testimoniare il fondamentale rapporto tra uomo e ambiente, uomo e società, uomo e trasformazione del linguaggio come tramite di un progetto collettivo.Lontano dal rischio di false o illusorie dialettiche tra arte e politica, Accame va maturando fin dagli anni Settanta l’idea che il lavoro sull’arte è un modo specifico di essere nel presente e di partecipare alla costruzione del futuro, a patto di non snaturare la propria funzione, mai rinunciando alla capacità individuale di selezionare e trasformare i modelli culturali esistenti con nuovi progetti di comportamento capaci di tenere in equilibrio esigenze interiori e bisogni collettivi. Nel 1975, con la mostra “Pittura Museo Città”, organizzata presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna e dedicata a una particolare situazione artistica della città, emerge un tipo di prassi che accomuna artisti e critici in un quotidiano confronto di esperienze. Si afferma soprattutto l’esigenza – sottolineata con puntualità da Accame- “di spezzare la fissità dei ruoli, l’isolamento corporativo che si ritorce e incide come limitazione culturale”.Si tratta di un’iniziativa che punta sull’auteticità di una situazione artistica legata alla cultura di una città, dove “la ricerca artistica non si esaurisce tra le mura di uno studio o di un museo, ma vive e si alimenta negli accadimenti quotidiani. La possibilità di intervenire sul quotidiano anche con gli strumenti specifici della cultura è legata ai problemi di gestione della cultura stessa”.La riflessione sulle modalità degli strumenti artistici è uno dei problemi critici su cui Accame insiste chiarificando il ruolo del fare

Giovanni Maria Accameun intellettuale pluraleRiflessione storica, critica militante, impegno didattico

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ex docenti ed ex studenti

arte all’interno della più generale struttura produttiva della società. Tale orizzonte è affrontato al fine di sperimentare comportamenti che possano incidere coscientemente sul processo globale di trasformazione, anche solo riferito ai limiti ristretti di una città.Successivamente, intorno al 1978, Accame affronta situazioni percettive di fenomeni artistici che si relazionano in modi diversi nello spazio espositivo, indicando quanto complesso e intrigante sia il processo temporale che accompagna la lettura delle opere. Per esempio, nella mostra “Le designazioni del senso” organizzata presso la Pinacoteca di Ravenna, il percorso disseminato dei materiali sollecita un’attenzione che amplifica il rapporto tra lo sguardo, la mente, i sensi e i tempi di ricezione relativi alle operazioni, alle installazioni, alle posizioni anche di una superficie delimitata come è quella della tela dipinta. “La consapevolezza di un diverso rapporto con le cose dell’arte – scrive Accame- permette di ricongiungersi con una sostanza rimasta troppo spesso trascurata, come può essere appunto verificare che la pittura corrisponde più a un’idea di pittura che ad una presenza fisica realizzata secondo certe tecniche e nel rispetto di determinati canoni.”Vengono in tal senso indicate procedure più ampie di quelle con cui si è soliti intendere la pittura, come codice istituzionale in cui viene riconosciuto lo statuto della superficie dipinta come oggetto a se stante. Su questa lunghezza d’onda il pensiero critico di Accame si misura con la complessa presenza del dipingere che va oltre i confini delle tecniche e dei materiali. Per farsi luogo di incontro tra le intenzioni dell’artista e le possibilità di senso che le opere stimolano attraverso indicazioni che scaturiscono dal loro organizzarsi nello spazio. Dopo queste esplorazioni, la consapevolezza critica del fare arte si sviluppa nella visione di Accame verso un orientamento di ricerca che predilige l’astrazione, l’aniconismo, la costruttività, categorie non dogmatiche ma sempre guidate dall’esercizio del dubbio, strumento positivo che consente di cercare il senso e il fondamento delle cose. Se è vero che l’arte aniconica è il terreno più connaturale alle sue attitudini conoscitive, è anche necessario sottolineare che questo tipo di scelta non è mai stata vissuta come campo di verità esclusiva, piuttosto come luogo di conoscenza di problemi più rispondenti al

desiderio di analizzare criticamente i meccanismi del pensiero visivo.Contribuiscono a questa soglia di attenzione anche molteplici riferimenti letterari e filosofici, da Rilke a Montale, da Kafka a Joyce, da Bachelard a Merleau-Ponty, da Wittgenstein a Derrida, da Deleuze a Gargani, senza dimenticare le relazioni con lo scrittore-entomologo Giorgio Celli o, per altri versanti teorici, con il filosofo Mauro Ceruti con il quale dirige – a metà degli anni Ottanta- la rivista “La Casa di Dedalo”.Il raggio d’azione di questi interessi vede Accame in sintonia con un altro critico, Filiberto Menna, con il quale condivide forti interessi teorici e una pratica militante con diversi artisti, da Griffa a Pinelli, da Morales a Verna, da Aricò ad Accardi, fino al più giovane Asdrubali. Si tratta di un viaggio intellettuale parallelo, intessuto di riflessioni che dall’astrattismo storico si aprono verso ampi percorsi dell’attualità, una mappa di saperi costruita all’insegna della pluralità di forme, della molteplicità di processi sospesi tra pittura e scultura, inesauribile soglia d’immaginazione.La superficie è il luogo in cui il pensiero interroga la pittura come superamento di ciò che appare, come rivelazione e svelamento dei processi infiniti legati all’identità della superficie medesima. Una precisa coscienza del differente modo di pensare il futuro della pittura si ricava dalle riflessioni che Accame propone intorno ai termini di ragione e azzardo, di razionalità e inquietudine, attraverso un ripensamento dell’ideologia delle avanguardie non più in grado di reggere la nuova situazione delle arti. Viene in tal senso evidenziato soprattutto “il passaggio dalla dimensione delle idee a quella del pensiero, intendendo con ciò proprio un cambiamento nell’organizzazione concettuale, da un procedere per convinzioni a un procedere per situazioni”.All’interno di questo passaggio acquista un ruolo positivo l’esperienza dell’incertezza come dimensione di un sapere fluttuante e tutto incentrato sulla frammentazione e sulle differenze, un sapere dunque in grado di rivolgersi al futuro come territorio di pluralità, incerto crinale tra ragione e trasgressione.“Nell’universo frammentato delle immagini la forma può costituire oggi non la definizione di un modello, ma l’indicazione di una scelta”. Così dichiara Accame, aggiungendo: “Dalle forme della ragione,

Rodolfo Aricò, courtesy A arte Studio Invernizzi, Milano

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strutturate gerarchicamente e in continua ricerca di una stabilità, passiamo ora alle ragioni della forma, che reclamano non solo ogni possibilità di mutazione, ma anche di rottura”.All’interno di questa complessità di sguardo la pittura vive d’inquietudine, esplora la luce e l’ombra del colore, i dubbi della geometria, gli equilibri incerti della forma, le oscillazioni continue dentro e oltre i perimetri delle opere.Per comprendere più a fondo le ragioni degli artisti Accame tiene in grande considerazione gli scritti di poetica come “altro fonte di conoscenza” per avvicinare altri punti di vista di ricerca, in tal senso pubblica nel 2007 una preziosa antologia intitolata “Parola d’artista” (Ed. Charta) con scritti di artisti italiani che ripercorrono i temi più significativi del dibattito dagli anni Sessanta in avanti (da Bonalumi a Carrino, da Castellani a Massironi, da Pardi a Pozzi, da Spagnulo a Staccioli, da Uncini a Lorenzetti, da Varisco a Verna, ai più giovani Iacchetti, Caracciolo, De Marco, Morganti, Rizzo, Sartorio). L’intento è di confrontare le differenti procedure pratico-teoriche in relazione alla capacità di dare ampio respiro culturale alle specifiche scelte di campo da parte degli artisti, con coerenza metodologica e ricchezza di riferimenti filologici.

Infine, un particolare sentimento è quello che accompagna l’esperienza di insegnamento di Storia dell’arte contemporanea che Accame svolge con crescente passione e rigore (dal 1980 in poi) nelle Accademie di Belle Arti (Urbino, Firenze, Torino, Milano). Il suo particolare modo di intendere l’impegno didattico è vissuto parallelamente all’attività di critico d’arte militante, due versanti complementari che segnano in modo fondamentale la vita di Accame e la sua generosa attitudine a trasmettere ai giovani i fondamenti delle sue tensioni conoscitive condotte sempre con grande qualità di scrittura.Non vi sono parole più adatte ad esprimere il significato del suo insegnamento che quelle espresse nell’intervista già ricordata: “E’ chiaro che nelle mie indicazioni didattiche, l’esperienza diretta ha un posto insostituibile, ma ho anche messo in guardia come questa possa essere ingannevole, se non si è in possesso degli strumenti interpretativi necessari. Ancora una volta, affermo che gli strumenti interpretativi si formano più nella frequentazione dei fatti e delle cose, che tra le pagine dei libri, per altro assolutamente utili, ma non decisivi come l’esperienza diretta”.

ALEX PINNA

Ti guardo, mi guardo

Sede: La Casa della Memoria Fondazione Mimmo RotellaCatanzaro, Vico delle Onde, 7tel +39 0961 745868

Informazioni:[email protected]

inaugurazione SABATO 17 DICEMBRE 2011 ORE 18.00In mostra dal 17 dicembre al 25 febbraio 2012orari 9,30 - 13,00 / 16,30 - 20,00martedì / domenica

Mostra prodotta Con il patrocinio

CALABRIA

REGIONE

PROVINCIA DI CATANZARO

Con il sostegno

A cura di Marco Meneguzzo

Opere in esterno:Corso Giuseppe MazziniChiostro Municipio - Palazzo Santa ChiaraChiostro Presidenza Giunta Regione Calabria - Palazzo AlemanniPiazza Giuseppe Garibaldi - Complesso Monumentale del San Giovanni

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GiuseppeUncini, Cementoarmato, 1960

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27ALEX PINNA

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ALBANO MORANDIA Brescia in varie sedi, una grande antologica dedicata all’opera di Albano Morandi in occasione del traguardo dei trent’anni di carriera. Un percorso artistico, il suo, che è esemplare per la capacità di parlare al mondo, all’internazionalità, ma restando ancorato saldamente alle proprie origini. Una liricità mai esibita, un’ironia lieve, una poesia delle forme e dei colori, degli oggetti e dei significati, una vena di sognante straniamento

La corsa dell’occhio

di Rachele Ferrario

Lago di Garda, sponda lombarda. Albano Morandi vive in un piccolo paese non distante da Salò. Per arrivare nel suo studio si devono attraversare tortuosi e stretti muri in pietra che chiudono fuori un tratto di campagna pura, non ancora deturpata dal minaccioso abusivismo edilizio. L’aria è chiara, l’orizzonte pulito. All’ingresso, ad accogliere, c’è una catasta di legna ordinata, che Albano ha già tagliato e preparato per l’inverno. L’introduzione non appaia retorica: il dove nel suo caso è fondamentale. Lo è ancora di più quando della sua opera si prendono in considerazione le sculture e le carte – straordinarie – che espone allo Spaziotemporaneo di Milano, in quest’occasione “collaterale” alla più ampia antologica di Brescia.Repubblica Ceka, Castello di Klatovy Klenová. Tra l’estate e l’autunno del 2000 si svolge un simposio internazionale con artisti dagli Stati

Uniti, dalla Francia, dal Canada e dai paesi dell’Europa dell’est. Albano Morandi viene scelto tra tutti gli altri per la mostra finale nelle sale del castello che ospita il museo d’arte contemporanea e realizza il ciclo di sculture Il banchetto di Erode: fiori e foglie secche su basi (che a volte evocano sarcofagi, altre busti femminili) o su colonne di carta e gesso, cestini in vimini con un lungo tubo da cui nascono petali rosati o irriverenti grandi piume di uccelli a evocare la passione e la tragedia di Salomé e il Battista... . Impossibile non pensare a una scenografia e allo stesso tempo a una partitura musicale: anche se l’artista dichiara d’essersi ispirato all’affresco con lo stesso soggetto dipinto da Filippo Lippi nella cattedrale di Prato, dove il pittore fiorentino lavora sotto la protezione dei Medici alla metà del Quattrocento. Le sculture del Banchetto di Erode (alcune di esse, Pallidi Gigli che in me sono e Jokanan tornano ad essere esposte qui oggi insieme ad altre più recenti) sono composte da oggetti semplici, che Morandi recupera nelle cantine del castello a Praga (e per le sculture successive in giro tra robivecchi, mercatini, discariche): lampade, brande, pezzi di mobili con motivi a spirale, che

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gli restituiscono quell’idea di movimento e danza consono al tema del San Giovanni Battista e della Salomé.1 Linee e ritmi verticali e orizzontali disposti come nel piano delle ascisse e delle ordinate, come sulle pagine dei quaderni di scuola elementare – una dolce ossessione per Albano Morandi – o, ancora, come nella serie con la tela dei materassi o con i nastri adesivi di colori e misure diverse, come la catasta di legno all’ingresso dello studio. L’artista raccoglie i materiali più disparati – scatole ovali di un noto formaggio che saranno poi il ciclo dei “gesti quotidiani” o opere decorate in modi diversi, cartoni, stampe, vecchie fotografie incorniciate, telai da ricamo comprati a Bangkok e maschere africane – e che prima o poi torneranno utili alla sua ispirazione e al suo immaginario. Stipa tutto sotto i tavoli o in cassettiere lasciandoli in attesa anche dieci anni prima che un’intuizione glieli renda indispensabili. Dopo averli manipolati e trasformati li rinomina Gesti quotidiani, portandoli all’origine. Essi sono parte di una fenomenologia dell’esistenza e per questo esprimono l’idea di gioco, di ironia e dissacrazione. Sono un altro modo di guardare la realtà.2

“Le cose che trovo sono quelle che mi indicano la strada da percorrere – racconta -. Sono un curioso del mondo, quello che vedo lo devo mettere nel lavoro, come emozione e come ricerca di materiali nuovi, da sperimentare. Quando ho scoperto il nastro adesivo è stato quasi per caso, ma stavo cercando una nuova soluzione. Avevo trovato delle vecchie mensole di metallo. Mi piaceva la loro forma, intuivo il ritmo che avrebbero avuto una volta messe in sequenza: le volevo usare a tutti i costi. In quel periodo studiavo le tele astratto geometriche di Mondrian, ma stavo pensando, in realtà, a quale

1 M. Panzera, Albano Morandi: due decenni dopo, in Albano Morandi, Il ban-chetto di Erode, Edizioni Nuovi Strumenti, Brescia, 2002 (catalogo a cura di P. Cavellini), p. 16; F. Lorenzi, Eternamente precario, dall’embrione al gesto quotidiano, in Albano Morandi, Manifesto per un dadaismo lirico, quaderni dell’accademia numero “0”, La compagnia della Stampa, Massetti Rodella Editore, 2006, pp. 97-108; 2 Sui Gesti quotidiani cfr. A. Madesani, Écouter le monde. Note sur le travail d’Albano Morandi, in Albano Morandi, Le 19, Centre Règional d’Art Contem-porain, Montebéliard, 2006, p. 7

sarebbe stato un materiale consono al metallo. Il nastro adesivo era perfetto. È nata così l’idea del Cammino di Santiago, 10 metri di mensole e scotch colorato”.3

Tornando alle sculture: “Sono fatte con le cose che trovo e che assemblo” - spiega Albano - “Il mondo ti mette a disposizione delle cose e tu devi saperle vedere”. Viene in mente il racconto dei carciofi di Cy Twombly, raccontato da Giosetta Fioroni.4 Quando arriva a Roma Twomby non ha denaro, ma è ricco di immaginazione e sa guardare. Vive vicino al Colosseo in una casa che ha finestre, ma senza infissi: invece di andare dal falegname, Cy va al mercato e compra carciofi romani grandi e tondi. Tornato a casa prende un secchio e prepara un composto di gesso e carta. Immerge i carciofi uno a uno e poi li mette sulle finestre come fossero sculture davanti alla quinta scenografica dell’Anfiteatro Flavio. È un colpo di genio.Le sculture bianche di Albano Morandi, solo apparentemente leziose, in realtà lievi e sospese tra ironia e lirismo, cominciano a germinare negli anni Novanta, quando l’artista le espone da Piero Cavellini. All’inizio sono stucchi e grafite, accenni di “maschere” e forme geometriche che somigliano a fossili di fragile pietra. Esse segnano un momento di rottura, delimitano il confine tra una storia già conosciuta e il desiderio di sorprendersi di nuovo. Vale la pena fare un cenno alla sua formazione all’Accademia di Belle di Roma – “figlio unico, volevo andarmene, così scelsi il posto più lontano” – dove c’è ancora Toti Scialoja, che ha saputo parlare a generazioni di giovani artisti. La scenografia è dunque un punto di partenza. A Roma Albano frequenta Ceccobelli, Nunzio, Tirelli, che condividono lo studio messo a disposizione dal gallerista Ugo Ferranti. La vita, però, lo porta da un’altra parte: il terremoto in Irpinia chiama i ragazzi di leva e per un anno lui gira l’Italia prestando servizio nell’esercito. Quando riceve il congedo si ferma vicino a Salò. È il 1983. La musica, la scenografia, il teatro, sono funzionali al suo pensare e al suo agire come artista: per un periodo organizza concerti di Misha Mengelberg, compositore

3 Testimonianza rilasciata all’autore, 3 ottobre 2011.4 G. Fioroni, I nostri giorni felici tra Roma e Sperlonga, in “Alias”, inserto de “Il Manifesto”, 16 luglio 2004, A. 14, n. 28.

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e pianista jazz vicino a Fluxus e alla performance “improvvisativa”, al teatro e con studi di architettura. Ancora oggi Albano è vicino alla musica, tanto che alcuni titoli di sue opere come La passione delicata è ispirata a un brano di Monteverdi, e Ossessiva, si rifà al Jesus blood never failed me yet di Gavin Bryars, il compositore che aveva registrato la voce di un barbone per 73 minuti, mentre ripeteva per centocinquanta volte la stessa strofa di un canto religioso. Negli stessi anni Morandi fonda Il teatro dell’evidenza, che è arte totale, contaminazione tra linguaggi diversi, teatro, musica, danza, arti visive.Vent’anni dopo le prime forme “fossili” in stucco e grafite e dieci dopo Il Banchetto di Erode, le nuove sculture - Servo di scena, Rosa canina a cavallo, Porta di Brandeburgo e Sacra famiglia – evocano una coralità, ma suonano come note sparse di consapevolezza. Esse sono l’altra faccia delle Forme del vuoto, calchi in gesso di oggetti d’uso comune, ma anti pop, che ci raccontano il mondo delle cose come fossero i protagonisti di un bozzetto scenografico. Essi rimandano, però, a ciò che normalmente non si vedrebbe, allo spazio che occupano: ne raffigurano l’anima. Bottiglie dell’acqua Panna, tagliate, rovesciate, modificate e poi sparse sapientemente su una superficie diventano parti di un paesaggio architettonico inventato. Ricordano da una parte la ricerca di Rachel Whiteread – ma con toni meno monumentali -, dall’altra la frammentazione dei “reperti” e delle sagome di Tony Cragg. Ma cosa sono queste creature in gesso compatto, liscio come la plastica che ha dato loro forma? Minareti, ciminiere, grattacieli, paesaggi urbani bloccati nel tempo (e nei nostri rifiuti)? Sono le nostre fantasie, le nostre paure o i nostri tabù? Con un po’ di distaccata ironia e senso del gioco Le forme del vuoto si possono mischiare o si possono fare interagire con altri dettagli; possono diventare reliquiari se Morandi sopra ci mette una cupola di plastica simile a quelle con le Madonne e i Santi nelle cappelle con gli ex voto o sulle credenze delle case in campagna e in città. Come le mensole di metallo con i nastri adesivi queste opere nascono dalla curiosità per materiali nuovi, dalla visione e dalla modifica dello sguardo dell’artista, dalla sua necessità assoluta di giocare con le

immagini e ricollocarle nella realtà. É la corsa dell’occhio che porta Albano Morandi a concepire le sculture-reliquie e i calchi di gesso come luoghi, come isole nel tempo (ecco perché è importante il dove, il silenzio e l’isolamento dello studio, il gesto di spaccare la legna e collocarla con precisione). Si tratta in fondo di un pellegrinaggio della mente e dello spirito.5 Tappe di un cammino intellettuale e pratico allo stesso tempo, queste opere sono un’ora et labora laico che Albano Morandi compie come esperienza di meraviglia in una sorta di autoritratto si se stesso. Perché si fa un pellegrinaggio se non per salvarsi e ritrovare un punto da cui ripartire?C’è un’eleganza e un’intelligenza dello spirito nel suo continuo andare e tornare, nell’uso semplice del gesso, nell’approccio antitecnologico e distaccato degli ultimi lavori, che segnano la maturità e la consapevolezza e un senso di libertà. Per questo Albano non teme le commistioni – “se vedo una mostra di un altro che mi piace, poi metto ciò che ho visto nel mio lavoro” – con altri, Lucio Pozzi o Vincenzo Cecchini, o con compositori come Antonio Giacometti, cui affida il suono, tenendo per sé le “forme”. Il cerchio si chiude, ma la storia potrebbe ripartire dall’inizio, svolgendosi sempre con una trama diversa. Un ultimo dettaglio: “le forme del vuoto” sono nate dalla sperimentazione dei materiali, in un’aula dell’accademia di belle arti, spiegando agli alunni l’importanza del volume e del suo contrario. I nostri corpi, le case, le macchine, i cellulari e i nostri I-pad occupano uno spazio. Il vuoto, come il suono, ha una forma.

5 La suggestione del pellegrinaggio è di Patrizia Serra.

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La mostra antologica di Rosario Genovese (Palazzo della Cultura di Catania), abbraccia un arco di tempo che va dagli anni settanta ad oggi. L’artista presenta un corpus variegato di opere esprimendosi attraverso la fotografia, il disegno, la pittura, l’installazione, la scrittura poetica.

Di Rocco Giudice

L’opera di Rosario Genovese si è sviluppata lungo un itinerario coerente, pur nel mutare di soggetti, referenti, tecniche utilizzate, allargando il proprio campo di osservazione e applicazione a discipline diverse, dalla pittura alla fotografia alla poesia, infine. Come un viaggio nello spazio dell’espressione, spazio analogo e parallelo a quello fisico, entrambi esplorati da Genovese con gli strumenti, rispettivamente, della sperimentazione di materiali e tecniche differenti e dall’altro lato (e in funzione di ciò), con le risorse della conoscenza scientifica: così da integrare, come avveniva in altre epoche, i diversi aspetti del sapere e del fare in un’unica immagine, in cui i vari ambiti di esperienza confluissero e si intrecciassero.Genovese era partito da opere inscrivibili nell’alveo del realismo, seppure originale quanto alla individuazione del referente: certi angoli e scorci delle vie del centro storico della sua città, Catania, i muri delle case visti a altezza di semaforo o di un lampione, scrostati dell’intonaco e ricoperti di scorie e muffe depositate nel tempo. A popolarli, oltre a macchie, sedimentazioni e crepe, erano contatori, cavi e fili elettrici, piastrelle con l’indicazione delle strade o di numeri civici. Una sorta di poesia urbana, anzi, di poeticità, per

meglio dire, che non si può definire quotidiana, ma ai margini dello spettro visivo abituale: talvolta, un effetto da ‘quadro nel quadro’ o fuori del quadro, per le crepe che affioravano percorrendo di sottili incisioni la superficie come si trattasse delle tele e sacchi di Burri e Fontana – però, allo stato ‘naturale’. Palinsesti con la calligrafia del tempo, unico messaggio di esso e insieme, un ritratto dal vivo della città, vista specularmente nel negativo di una fotografia, attraverso due tele accostate: una, col muro e la via prescelti; la seconda, una tela emulsionata in cui era presentato il negativo dell’immagine. In effetti, un realismo così perspicuo trovava un riscontro anche nell’uso dell’immagine fotografica come punto di partenza per il disegno: in maniera tale che il ricorso alla fotografia segnava per Genovese il punto di distacco, non di semplice calco della immagine reale, perché, emulsionando la tela come una pellicola da impressionare, Genovese ritornava sulla stessa immagine replicandola in bianco e nero con i mezzi del disegno e della pittura. La fotografia come pittura; la pittura come negativo fotografico. Pertanto, la riproduzione della realtà data nell’immagine fotografica costituiva l’oggetto della sua esplorazione del visibile, non la realtà letterale di un muro come modello e punto di partenza: benché quella realtà, in definitiva, fosse evocata come risultato di una duplice appropriazione: attraverso il disegno e la pittura, prima; tramite la foto, poi.Al di là delle intenzioni che ne guidavano la ricerca, dunque, Genovese non si limitava a tracciare o a ‘riprendere’ l’immagine tale e quale di un frammento della città e delle sue trasformazioni; non ne offriva di scorcio lo ‘stato di salute’ attraverso la radiografia dei muri di essa: l’interesse per i segni che si intrecciavano, che vi apparivano come su una pagina cancellata o sovrascritta, era prevalente e alla fine, l’impegno dell’artista ne era assorbito totalmente. Quella attenzione su un particolare che acquisiva connotazioni e direi, proporzioni autonome e fisionomia propria, finiva per assumere un valore svincolato da ogni istanza realistica in senso stretto. Erano come ricognizioni a distanza ravvicinata per evidenziare una sorta di mappa astrale di un processo naturale di degrado di cui non si potevano diagnosticare le conseguenze leggendovi la ‘pagina’ di una biografia

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ROSARIO GENOVESE

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anonima della città, il ‘romanzo di formazione’ di una visione della città o di uno dei suoi angoli. Piuttosto, vi si ravvisa la trascrizione di un orizzonte in un altro, senza che ne sia decifrata l’ampiezza: come se ogni ‘lastra’ di una geologia di sole superfici fosse il panorama di un mondo a sé. In questa topografia elementare, il processo di astrazione dell’immagine isolata dal contesto urbano spostava il limite del campo d’osservazione, l’orbita e il ‘centro di gravità’ dello sguardo: i muri, come sostrato dell’immagine di un mondo cui nessun mito sarà richiesto, alludevano o rinviavano alla città come luogo nascosto o perduto. Questo vuoto indicava una strada verso l’altrove – luoghi e paradigmi di luoghi meno circoscrivibili, perché trasfigurati miticamente. Per Genovese, dunque, andare oltre le misure consuete significava ritrovare i suoi vulcani e le sue isole: ma, appunto, come luoghi simbolici, come spazi mitici – fuori del mondo. Infatti, in questa fase, successiva a quella dei muri della città, Genovese si dedica a opere che mettono a tema vulcani e isole, in cui la ‘cosa così com’è’ viene posta in interazione col simbolo; anzi, non è distinta dalla metamorfosi archetipica o mitologica, come risulta evidente dalla stilizzazione o allusività totemica di carattere fallico o nella metafora di una femminilità sublimata e insieme, tanto più tellurica. Qualunque riferimento a luoghi e terre conosciute, insomma, diveniva, per Genovese, un’occasione per interagire con gli spazi del profondo: onirici, psichici, mitici, innanzi tutto; e quindi, senza tralasciare questi orizzonti, la stessa forza di suggestione simbolica proiettava verso gli spazi siderali, a luoghi ignoti e irraggiungibili, quella pulsione fantastica.Pertanto, se, agli inizi, si poteva intravvedere, nella visione e nei principi operativi come nelle modalità di lavoro di Genovese, un qualche influsso derivante dall’Iperrealismo, con il ricorso all’immagine fotografica come input o magari, riflesso di una visione che non si lasciava esaurire nella rappresentazione o nella riproduzione fotografica; col tempo, è venuto chiarendosi e definendosi il rapporto con le esperienze artistiche che Genovese aveva privilegiato o nel cui clima si era formato e con le tendenze artistiche contestuali che, fra la

fine dei Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, Genovese scontava semplicemente trovandosi a vivere in un periodo di sperimentazioni e contaminazioni di ogni genere; fosse pure allo scopo di non sottostare a quegli indici, per prescinderne, non già per consentirvi.Ma anche questo, in definitiva, può essere solo un modo per trovare una spiegazione che vale per tutti e per tutto. Diremo, allora, che il lavoro successivo di Rosario Genovese ci sembra già delineato con chiarezza nei dipinti che prendevano spunto dai muri delle case, dagli angoli delle vie con l’intestazione e le macchie, le incrostazioni, le abrasioni e escoriazioni sulle facciate/facce delle case, sulla pelle della città – butterata come la superficie della luna o di un pianeta sconosciuto. Anche il presupposto tecnico, la fotografia, ha perduto, se mai lo ebbe, il senso di paradigma da cui distanziarsi o da evocare per sottrazione o assimilazione di questo o quel particolare, dell’uno o dell’altro effetto – di distorsione e contrasto, più spesso, che non di adesione a un dato certificato dai sensi.Rosario Genovese ha, insomma, sempre visto il mondo da una certa angolazione e distanza, cercando numero e misura delle cose, fondamento di queste e del rapporto fra di esse nell’ambito della nostra esperienza come negli spazi cosmici. A questo occorre aggiungere un aspetto ulteriore e d’altra parte, intrinseco al suo lavoro di mobilitazione delle diverse strategie e strumenti di indagine e prima ancora, della attitudine conoscitiva e contemplativa che hanno finito per caratterizzare l’opera di Genovese: vale a dire, le relazioni che scaturiscono dall’incontro fra immagine e parola, intesa come mito e come poesia. La sua visione, aperta in direzione dei diversi e concorrenti mezzi in cui esprimersi, dalla foto, al disegno, alla pittura, alla serie numerica di Fibonacci, include, infine, la parola poetica nel passaggio o meglio, nel mutuo implicarsi della cosmologia e della mitologia, impressa nei nomi che designano i principali astri del nostro sistema solare e galattico. Le poesie che accompagnano la mostra antologica di Genovese a Palazzo Platamone, a Catania, sembrano obbedire a questa logica di accumulo quanto più la sua pitto-scultura sembra distanziarsi dalla realtà a portata di mano. Nuovi cieli e nuove terre per le immagini con cui il passato rivestì

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3434di nomi e di parole il firmamento, per lo stupore e lo sgomento di sé proiettati nell’enigma del cielo stellato.Questo ampliarsi della visione comporta che l’opera, adesso, debordi dai limiti del quadro, dalla bidimensionalità propria della pittura, per espandersi in una pitto-scultura che, quanto più sofisticate si fanno le ricognizioni e riproduzioni in scala della volta celeste, tanto più vedono l’artista puntare sul ricorso a materiali ‘poveri’. La tela emulsionata, in una prima fase, era una sorta di passaggio da cui scivolare fuori del quadro e della stessa pittura: verso le strutture lignee a calotta, le ellissoidi e i tondi, ricoperti o meno da carta vetrata catramata come da liste di alluminio anodizzato, che, ritagliato e applicato sul supporto, ricalca la forma dei corpi celesti. La struttura così ottenuta viene dipinta con pigmenti sparsi con una pennellata che screzia la superficie analogamente a quanto le immagini dei satelliti o dei radio-telescopi consentono di rilevare. Altri lavori, dalla struttura a gabbia, vengono fasciati con corde di fibre vegetali o ricoperti di strofinacci sovrapposti alla superficie. Alcune di queste opere sono disposte a terra; altre, a parete o in sospensione: in questi casi, le opere sono modulari, talvolta, in modo che, nel corso di esposizioni diverse, possano riconfigurarsi secondo l’ordine corrispondente in cui, al momento dell’inaugurazione, sono disposte nel firmamento.Genovese recupera, con il volume dello spazio reale, anche oggetti del passato, come le nasse che si ponevano sui bracieri per asciugarvi i panni; o perlomeno, trae spunto da essi, oltre che per costruire, per dare consistenza e familiarità di oggetti d’uso a pianeti e costellazioni: memoria di un vissuto come mondo scomparso e visione di nuovi mondi sono connessi in una continuità che poeticamente promette di non tralasciare o rinnegare il senso, ma solo di accrescere la consapevolezza di appartenenza a una realtà dove la molecola e la supernova, le simbologie mitiche e zodiacali come le nebulose sono inscindibili e perciò, possono suscitare le stesse emozioni, sollecitare l’immaginazione, suggerire accostamenti che Genovese trae dalla pennellata, dal suo incresparsi, addensarsi e balenare in una stesura copiosa o fluida nella levità quasi ‘stenografica’, evanescente dei cromatismi o in un pointillisme che, a volte, nello stesso dipinto, richiamano le onde e la pioggia. Ma la riscoperta di oggetti e consuetudini dimenticate così come del rapporto fra conoscenza scientifica, visione artistica e manualità

di antico artigiano non devono ingannare: nessuna (stucchevole e risaputa) apologia del passato, richiamato in servizio dalle fibre vegetali; e viceversa, nessuna apoteosi della modernità, attraverso il ricorso al fiberglass come all’alluminio anodizzato sono implicate nel lavoro di Genovese. Che, piuttosto, sembra invitare a un viaggio nelle possibilità del presente, di cose da sognare o da realizzare qui, secondo le necessità prescritte dall’articolazione stessa dell’opera.Nei lavori recentemente realizzati, molti dei quali esposti nella mostra catanese a Palazzo della Cultura, Rosario Genovese chiama a interagire, si diceva, tutte le possibilità offerte dai riferimenti moderni e passati, mitici e scientifici, materiali e intellettuali che vi concorrono. Le mie stelle parlanti, come Genovese ha intitolato la silloge poetica pubblicata contestualmente alla mostra Antologica, una specie di libretto d’opera o diario di bordo dell’esplorazione di questo spazio dell’immaginazione, intrecciano un dialogo con l’anima mundi di ogni corpo celeste che si proietta in un teatro della memoria i cui personaggi rinviano a reminiscenze che vanno dai bestiari a Bosch, dalle mappe figurate alle allegorie di continenti e Paesi – che, qui, sono aree dell’immaginario, plaghe oniriche le quali si ergono come paesaggi delineati dalle fattezze di un inafferrabile profilo, da una morfologia in cui è trascritto un processo termodinamico o somatizzata la fatalità che la determina, da metamorfosi dettate dal caso, in cui un volto non è differente da una configurazione astrale o da una caleidoscopica fusione di sfaccettature telluriche impercorribili. Ogni mondo si anima, pertanto, di presenze intersecate alle suggestioni più diverse che ne sono evocate, richiamate in una sorta di eco che trascorre da figuratività a astrazione, l’una sconfinando nell’altra, fra simboli zoomorfi, calcaree effigi satiresche, sfioriti emblemi floreali, arcimboldiane o ariostesche creature beffardamente assemblate da un inganno ottico o da un gioco dell’immaginazione in cui convergono monti e distese di putredine, polvere e vapori, coaguli ondosi con incastonate chimere, l’impronta assiderata di una folgore secolare e fossili tenuti in incubazione fra la palpebra e l’occhio come una lacrima.Genovese fa di ogni suo astro e pianeta una sorta di borgesiano aleph, non dei ricordi che vivono nella luce che emanano nella memoria del mondo, ma del mito come ‘orizzonte degli eventi’ che è luce a sé, del nome come pianeta abitato dai ricordi che evoca.

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Giove e i satelliti Galileiani , 2010, Installazione

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Era così per i nomi delle vie fotografate da Genovese in una personale versione della ripetizione differente della fine anni Settanta, dove il pulsare di energie latenti segnava la fuga dalla superficie della parete e del quadro verso la tridimensionalità delle pitto-sculture. Ora, i segni sulla superficie di un astro irradiano un potenziale immaginativo che percorre le vie celesti lungo cui splendono queste ‘città invisibili’: Alnitak, in cui fluttuano selenitiche sirene idrosolubili e incombono arci-nuvolose posidonie; Mintaka, come una colonia penale in cui sono ammassati incubi che scontano le stesse ansie di cui sono i messi, un incastro in cui si dibattono strenui basilischi e ignei tritoni rassegnati alla fase di raffreddamento cui è avviata la stella giunta allo stadio di gigante blu; Callisto, ribollente fondale o labirinto di lame e gorgo di fauci e rostri acerrimi, incessantemente rigurgitati e risucchiati; il paesaggio desolato e glorioso come contrade andaluse che si affastellano in una cartografia fantastica su Io, che, non a caso, sembra il pianeta più donchisciottesco di tutti.Genovese evoca l’astrofisica per farne epopea, le dimensioni su scala cosmica sono una sfida all’immaginazione di cui anche il mondo che conosciamo ha bisogno per essere tollerato, per sentircene parte. Per l’artista, questa sfida dell’immaginazione si presenta come viaggio. Dove contano i punti fermi: che non sono solo quelli di partenza e di arrivo, anche perché il paesaggio che delimitavano ne ha alterato i contorni, pur senza mutare i connotati di fondo di un’opera di cui

riconosciamo la coerenza, la serietà e qualità. Esse sono attestate dalla critica che si è occupata di Rosario Genovese, che ne ha seguito lo svolgersi lungo un arco di tempo significativo rispetto agli sviluppi dell’arte contemporanea: basterà fare i nomi di Enrico Crispolti, Marisa Vescovo, Giorgio Di Genova, Demetrio Paparoni, Marco Meneguzzo, Carmelo Strano, Piero Montana, Francesco Gallo, Giuseppe Frazzetto fra gli altri.Ma basta, a convincerci della validità di questo lavoro, la capacità, che Rosario Genovese dimostra come dato della sua sensibilità personale e della sua identità di artista, di ‘puntare verso una stella’, di cercare una strada verso l’altrove senza, perciò, rinnegare o dimenticare l’origine terrestre, cioè, la dimensione umana dello spazio di visione e di emozione che spinge lo sguardo allo stesso senso di avventura in cui si ritrovano le figure insuperabili della mitologia e le inesauste ricognizioni della scienza.

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Valentino Vago stesso suggerisce questo breve cenno biografico allo storico Marco Valsecchi nel 1969 per una monografia edita da Vanni Scheiwiller. Un motivo ben chiaro spinge Vago a rilasciare questa dichiarazione, poiché agli albori la sua pittura è spesso accostata per similitudini a quella di Mark Rothko. Il mondo pittorico fatto di silenzi e calme sensazioni, che si cadenzano con una pittura tutta intessuta di luce sommessa che invade le forme geometriche, ha suggerito alla critica il nome di Mark Rothko. Nel 1960 all’interno del testo di presentazione alla personale all’Annunciata, Guido Ballo, ipotizza già il paragone fra Vago e Rothko, cogliendo di Vago di sorpresa, poiché all’epoca ancora non conosce l’opera dell’artista americano. Anche se molti critici hanno scritto nel tempo che questo paragone lo fortificò, in realtà Vago vive subito una profonda crisi e, per un certo periodo, si astiene persino dal proseguire la sua riflessione astratta, spaventato dall’idea che il suo lavoro sia ricondotto a quello di altri, e preferendo tornare alla natura e al paesaggio in piccole guache su carta che tradiscono di fatto suoi dubbi sull’autenticità della propria riflessione. La realtà è che Vago ha imboccato da solo quella strada, perché le premesse di una pittura di luce-colore, sono quelle naturali dell’arte lombarda, o ancora meglio nel caso di Vago, barlassinese. In qualche modo, anche se lontano per stile e concezione Vago sembra raccogliere l’eredità del “compaesano” Emilio Longoni. Facendo riferimento a quei paesaggi ariosi, spesso malinconici della maturità di Longoni per il giovane barlassinese possono essere definiti il naturale approdo da cui partire. Sviluppando poi la sua espressione pittorica verso la profonda sostanza luminosa che dà corpo al colore che si fonde con la spazialità per creare la concretezza delle sue

immagini. Dove lo spazio è un archetipo e la luce è un grado di colore che lo percorre come un suono che si espande lentamente.Visitando l’antologica di Valentino Vago, curata da Paolo Biscottini, in corso fino al 12 febbraio al Museo Diocesano di Milano, è però inevitabile pensare all’arte americana, a Rotko e Newman. Nel percorso allestito nei magnifici spazi del museo, il colore e le dimensioni delle opere di Vago sembrano appartenere al più a Color Field che alla pittura italiana del dopoguerra. La mostra è divisa in due sezioni. La prima sezione parte dalle coloratissime opere datate 1960 e si chiude con il grande polittico intitolato La bellezza dell’invisibile, composto di dodici impalpabili tele datate 2009-2010. Questa sezione secondo il curatore muove “dalla consistenza delle cose al loro smaterializzarsi, fino a divenire spazio e luce, allegoria di una dimensione nuova e altra dell’esistere, capace di attribuire alla bellezza senso relativo, sviluppando una sorta di forma intuitiva della conoscenza capace allo smaterializzarsi degli elementi”. Nella seconda parte la mostra diventa antologica, e si riscopre Vago figurativo. Molte delle opere esposte sono state dipinte a Brera, dove Vago frequenta prima il liceo e poi prosegue iscrivendosi all’accademia in un periodo veramente fortunato. Sono, infatti suoi compagni di corso Aricò, Della Torre, Banchieri, Romagnoni, Azuma, Adami solo per citarne qualcuno. Per Vago l’accademia diventa un luogo speciale, dove confrontarsi e soprattutto sfogare la sua frenesia creativa. Nei primi anni di Brera, la docente di storia dell’arte è Eva Thea, poi sostituita da Guido Ballo, già insegnante di Vago al Liceo che, conoscendone le origini provinciali, sembra nutrire pregiudizi sulle sue capacità. Vago non si lascia intimorire e dimostra il suo amore per la pittura ricorrendo a ogni astuzia pur di dipingere. Con la complicità dei bidelli riesce persino a trascorrere l’ora del pranzo

VALENTINO VAGOSono nato il 16 dicembre 1931 a Barlassina, in Brianza, da una famiglia di artigiani del legno; ho studiato al Liceo artistico e fatto pittura all’Accademia di Brera, diplomandomi nel 1955; vivo a Milano dal 1958; non sono mai stato a New York.Di Ornella Mignone

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Diagonale rossa, 1978, olio su tela, 200x360 cm

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chiuso in aula, benché l’Accademia chiuda regolarmente i battenti. Punto nodale della sezione storica il piccolo quadro Orizzonte Nero del 1965, una vera e propria Icona che apre verso altri, profondi territori dell’anima. La prima tappa del suo lungo viaggio di verso l’infinito. Per Valentino Vago, la sfida alla bellezza sembra essersi compiuta nel segno della riduzione, nell’eliminazione delle linee a favore di zone ampie di colore e nella scelta, a questo punto, di un colore che appartenesse a una dimensione tutt’altro che terrena. A un riferimento più lontano, piuttosto che a Rothko, va allora ricondotta la sua pittura all’opera del suo maestro ideale, il Beato Angelico, padre putativo dei suoi studi profondi, nelle sue austerità spirituali, nella perenne elevazione dell’anima a Dio, così manifesta negli orizzonti ampi e sconfinati delle sue immagini sacre..

La mostra prende inoltre in esame la necessità di Valentino Vago

di trovare spazi sempre più ampi da dipingere. Se negli anni settanta sono tele monumentali di oltre quattro metri, negli anni ottanta diventano vere e proprie opere abitabili come Le stanze in scala tonale di Palazzo Reale a Milano (1980) o la Camera Picta (1987) all’Annunciata. Barilli che cura l’istallazione a Palazzo Reale descrive così questo intervento «Quelle stanze furono per Vago il miglior stimolo per occupare lo spazio, ma pur sempre nel suo modo leggero e aereo. Le pareti di ciascuna di esse si tinsero di uno dei tre colori-base in cui si esprime da sempre la sua sensibilità, l’azzurro, il giallo e il rosa, e fu come riempirla, ciascuna di un etere sottile e penetrante, attuando un “massaggio psichico” quasi alla Yves Klein, ma più umano-terreno, mentre i soliti elementi grafici sferzano lo spazio animandolo». Guido Ballo con lungimiranza nel 1960 anticipa quello che Vago farà con gli anni; definendo la sua arte “da grande pittura murale” dove “la luce ha risonanze e inquietudini di sensibilità emotiva, in vaste superfici che si richiamano e si muovono nella dinamica degli spazi”. A partire dal 1979, infatti, Vago si è dedicato con continuità alla pittura murale, dipingendo ambienti pubblici e privati in Italia e all’estero. Molti di questi interventi sono all’interno di chiese, a partire dalla prima, quella si San Giulio a Barlassina del 1982, a quella di Nostra Signora del Rosario, consacrata nel 2008 a Doha, Qatar. Chiude il percorso espositivo una proiezione video relativa agli interventi murari all’interno di chiese. Le opere abitabili rappresentano per Vago un lavoro pulito, infatti afferma che un muro non si può spostare, vendere e rivendere. All’interno delle opere abitabili da lui ideate il colore genera il creato, affermando – come conferma Caramel nell’intervista all’interno di uno dei video – la contemporaneità in termini desueti, incarnando aspetti dell’arte medioevale.

La mostra, intitolata Valentino Vago. Dal Visibile all’Invisibile: un viaggio verso l’infinito si tiene in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’artista milanese, copre un arco cronologico di sessant’anni e anticipa la pubblicazione del Catalogo Generale delle opere prevista agli inizi di marzo. Il catalogo, in tre volumi, è edito da Skira. I testi sono a cura del comitato scientifico presieduto da Flavio Caroli e costituito da Flavio Arensi, Claudio Cerritelli, Chiara Gatti, Ornella Mignone e Giancarlo Santi.

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Nei cortili di Brera, 1951

E.1, 1973, olio su tela, 260x400 cm

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54th BIENNALE DI VENEZIAPadiglione Accademie

Tese di San Cristoforo, Venezia

di Raffaella Pulejo

Negli edifici delle Tese di San Cristoforo di fronte all’Arsenale, sono presentati 152 artisti diplomati nelle Accademie di Belle Arti negli ultimi dieci anni, segnalati dai direttori e dai docenti delle istituzioni e selezionati da un comitato presieduto da Vittorio Sgarbi, a cui si deve l’iniziativa di presentare a Venezia le istituzioni AFAM nell’ambito del suo progetto di ricognizione nazionale dell’arte contemporanea.Per quel che concerne le Accademie, è un’impresa scoraggiante curare una esposizione con un così alto numero di artisti, senza un tema che faccia da filo conduttore e i cui partecipanti “alla fonte” siano stati indicati dai docenti di 25 diverse istituzioni facenti capo ad altrettanti direttori di gusti e indirizzi artistici disparati! A questo criterio di “dissennata democrazia” ( è d’altra parte la cifra provocatoria impressa da Sgarbi a tutte le sezioni da lui curate) vanno forse imputate molte assenze tra gli artisti usciti dalle Accademie negli ultimi 10 anni, anche già affermati nel sistema dell’arte internazionale, cosicchè la mappa non è certo da considerarsi esaustiva. Per altro verso, a parte le accademie statali, delle 24 accademie legalmente riconosciute, risultano presenti solo artisti provenienti dalle 5 accademie civiche, cosiddette “storiche”, di Bergamo, Genova, Perugia, Ravenna e Verona ( sono escluse quindi le istituzioni private più recenti facenti parte del sistema AFAM). Il panorama che l’esposizione delinea, quindi, nasce da una selezione “istituzionale” ma, a dispetto della premessa, rivela grande qualità

nelle opere e soprattutto nella visione del mondo che mette in scena. Un enorme contributo è dovuto al raffinato allestimento di Carlo Di Raco e dell’Accademia di Venezia. Un allestimento che esprime intelligenza e sensibilità nel mettere ogni opera in condizione di parlare in una polifonia di voci che avrebbe potuto essere frastornante nella Babele dei linguaggi ed è invece armonica, mettendo in relazione 152 anime e visioni. Il suggestivo spazio industriale delle Tese si articola in sezioni entro cui i lavori sono raccolti secondo assonanze linguistiche o affinità di narrativa, accostando modalità espressive e tecniche differenti. Dalla pittura e dalla fotografia, passando per la scultura e l’istallazione, fino al video e alle nuove tecnologie digitali, le opere in mostra declinano tutti i codici del contemporaneo. Pur senza proporre momenti di frattura o di novità eclatanti, le opere selezionate rivelano la genealogia con i protagonisti dello sceanario artistico, senza aspetti di devozione e con l’attitudine di chi “verifica” la tenuta di un metodo sulle proprie personali poetiche. Così il bel video di Luana Perilli (ABA Roma) ricorda Nathalie Djurberg; le proieioni di interni familiari su facciate di palazzi di Elisa La Raia (ABA Bologna) rimandano alle proiezioni su palazzi pubblici di Krzysztof Wodiczko; i cantieri deserti nelle foto di Primoz Bizjak fanno eco agli scenari della Bagdad bombardata di Gabriele Basilico; il collettivo S.O.S. WORKSHOP ( ABA Brera ), formato da artisti di diverse nazionalità, in questo caso Laura Cazzaniga e Elisa Franzoi, rimanda ad interventi artistici militanti sul sociale, richiamandosi alla scultura sociale di Beyus e all’arte relazionale di Nicolas Bourriaud…Si potrebbe continuare a lungo, in una analisi che intreccia i discorsi e i temi degli artisti proposti con la trama di possibili rimandi ad altri protagonisti dell’arte contemporanea. Nella tensione tra tradizione e sensibilità contemporanea, tra novità ed epigonismo, tra accademismo e rottura dei codici si collocano, infatti, gran parte delle opere. Ritengo essere questo un merito della “formazione accademica” poiché mette in rapporto la “volontà individuale” di fare arte con la persistenza, e talvolta con la tirannia, del codice trasformadola nei migliori dei casi in “capacità di relazione” con la storia e con il mondo. Lo slogan che frequentemente definisce le Accademie come il luogo dove il “fare” si unisce al “pensare”, risulta per chi scrive fuorviante, come d’altra parte dimostra questa esposizione, in cui la qualità non

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è sicuramente data dal talento tecnico (che diamo per scontato), ma dal concetto e dall’idea che l’opera porta alla luce. Che in Accademia si apprendano le tecniche artistiche, non costituisce ragione sufficiente a creare né l’artista, né l’opera. Le accademie nascono con una vocazione teorica e solo molto più tardi, nel diciannovesimo secolo inoltrato, la pratiche di bottega entrano a far parte e a prendere sempre più spazio nel curriculum formativo. Il rapporto con la storia dell’arte e le sue icone è un filo rosso che attraversa, secondo modalità diversissime e interessanti la riflessione di molti artisti. Dalla copia virtuosistica della Bete, di Alessio Bogani (ABA Venezia), all’ironia di Laurina Paperina ( ABA “Cignaroli”, Verona) contro il diffuso concettualismo, e che nei suoi fumetti dal segno minimo mostra gli artisti contemporanei uccisi dalle loro stesse opere, a partire da Duchamp che finisce scagliato contro il Grande Vetro da un custode di museo che lo malmena per averlo scoperto a fare i baffi alla Gioconda.Fortunatamente la pratica delle arti se ne infischia delle etichette e non costituisce motivo di stupore che Pittura, Scultura, Decorazione, Grafica, Nuove Tecnologie da più di un secolo non siano ambiti separati dell’arte, mentre tali vincoli ottocenteschi sussistano nella denominazione delle Scuole dell’Accademia, confondendo le tecniche con le poetiche in un ambito del sapere, quello artistico, che oggi assimila qualunque materiale e qualunque tecnica alla legge che di volta in volta l’opera impone. Così il quadro formato francobollo di Flavio De Marco (ABA Bologna) deve alle sue minuscole dimensioni lo scantonamento da ogni definizione, mentre i topi “in love” nella teca su piedistallo

accompagnati da giochi di parole di Dario Agrimi (ABA Bari) stanno stretti nella categoria della scultura.Un tema declinato secondo varie sensibilità è quello che “ mette in scena” il corpo dell’artista/autore/soggetto, secondo una prospettiva ampissima che va dal video ossessivo di Marco Antonecchia (ABA Urbino) , sino al bondage che sadicamente tende le linee della figura femminile sulla grande tela di Melissa Provezza (ABA Brera), o alla autobiografia grottesca delle esilaranti foto di Se si trattava di verificare se l’Alta formazione artistica regge il confronto con il sistema dell’arte la risposta è duplice. Le accademie formano artisti a dispetto dell’indifferenza che, con poche eccezioni, hanno mostrato i governi di tutte le stagioni. La seconda questione riguarda la capacità degli artisti formatisi nelle accademie di confrontarsi nel “sistema dell’arte”. Qui i termini andrebbero capovolti rispetto al tormentone corrente, in particolare sulla stampa di settore, che insiste sull’idea della coincidenza di arte e mercato come se si trattasse di una scoperta rivoluzionaria! Caso mai è vero il contrario: il sistema dell’arte è una delle funzioni (o variabili) dell’arte. Le accademie ne fanno parte, a dispetto di tutto.

(pagina precedente) Marco Maria Giuseppe Scifo, Scala in alluminio, legno, plastica, iceberg in ghiaccio, congelatore a pozzetto, proiettore luce, 84,79 m3

Courtesy Z2O - Galleria di Sara Zanin, Coproduzione - NEONLAURO(sotto) Melissa Provezza, BDSP-Bondage Señorita Pintura, olio, alluminio, cuoio suTela, dimensioni della tela: 242,5 x 167 cm

accademie in biennale

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Silvia Benincasa – Loredana Bertelli - Bordin Davide - Paola Stella Bongar-zoni - Anna Catizone - Cinzia Busto - Fabio Castellano - Silvia Catino - Rob-erto Ciardo - Maria Rosaria Cozza - Angelo Crazyone - Elisabetta Cuccaro - Claudio D’angelo - Francesco Di Traglia - Debora Fella - Alessandro Fenu - Fabio Fidanza - Giulia Forza - Stela Korreshi - Liana Ghukasyan - Annita Nisida Giannieri - Sara Siami Gorji - Cristina Grazioli - Lucia Guadalupe – Francesca Guerini - Noemi Guidi - Guillen - Adi Haxhiaj - Letizia Lanzarotti - Ester Latorre Izquierdo - Anna Lorenzini - Benedetta Macrì - Elvira Maly-sheva - Claudia Mazzola - Silvia Mei - Sara Mofateh - Marta Montin - Serena Morina - Francesca Mussi - Isabella Nazzarri - Juan Eugenio Ochoa Múnera - Gabriella Paloschi - Lorenzo Perin - Sonia Petruccelli - Claudia Piatti - Vin-cenzo Luca Picone - Giorgia Pilozzi - Melissa Pirolo - Mimì Ranalletta - An-tonella Rocca - Marco Romano - Isabella Annamaria Scaringi - Kayo Shi-rato - Maddalena Spina - Morgana Spiriticchio - Yi Sun Jo Taiana - Annibali Tecla - Angela Tedesco - Simona Tolone - Tabita Valsecchi - Elisabeth Wiatr

ELENCO DEI PARTECIPANTI AL PRIMO PREMIO MAIMERI(studenti di varie Accademie d’Italia):

Sul prossimo numero di Academy pubblicheremo i vincitori

sheva - Claudia Mazzola - Silvia Mei - Sara Mofateh - Marta Montin - Serena Morina - Francesca Mussi - Isabella Nazzarri - Juan Eugenio Ochoa Múnera - Gabriella Paloschi - Lorenzo Perin - Sonia Petruccelli - Claudia Piatti - Vin-cenzo Luca Picone - Giorgia Pilozzi - Melissa Pirolo - Mimì Ranalletta - An-tonella Rocca - Marco Romano - Isabella Annamaria Scaringi - Kayo Shi-rato - Maddalena Spina - Morgana Spiriticchio - Yi Sun Jo Taiana - Annibali Tecla - Angela Tedesco - Simona Tolone - Tabita Valsecchi - Elisabeth Wiatr

Sul prossimo numero di Academy pubblicheremo i vincitori

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conf. naz. docenti e studenti

IV ASSEMBLEA NAZIONALEDEI PROFESSORI E DEGLI STUDENTI

DELLE ACCADEMIE STATALI DI BELLE ARTIRoma, 14 dicembre 2011 - Accademia di Belle Arti di Roma

Documento conclusivo

A conclusione della Quarta Assemblea dei Professori del CNPABA e degli Studenti del CNSRUA, svolta in data 14 dicembre 2011 presso l’Aula Colleoni dell’Accademia di Belle Arti di Roma, alla presenza dei rappresentanti sindacali dell’Unams e di CGIL, CISL e UILRUA, assente la Conferenza dei Direttori delle Accademie, tenuto conto delle risultanze positive dello sciopero estivo e del pieno successo della petizione pubblica in favore della Riforma Universitaria delle Accademie Statali di Belle Arti, si è convenuto di elaborare proposte emendative dell’AS 1693, all’indirizzo della Camera dei Deputati, sui seguenti ineludibili principi:

1) attuazione senza se e senza ma dell’articolo 33 della Costituzione;2) istituzione delle Accademie statali di Belle Arti in Facoltà di Arti Visive o Belle Arti, sulla scorta del Regio Decreto 3123 del 1923 e del Real Decreto 988 del 14 aprile 1970, nell’ambito di Politecnici delle Arti o di un ateneo territoriale di riferimento, disciplinate dalla normativauniversitaria per ciò che riguarda autonomia didattica scientifica statutaria e regolamentare,ordinamenti didattici, strutture e rappresentanze, status giuridico ed economico del personaledocente accademico, fondi e progetti di ricerca nazionale e internazionale;3) trasformazione dei Diplomi accademici di primo e di secondo livello e dei Corsi di formazione alla ricerca rispettivamente in Lauree triennali, magistrali e Dottorati di ricerca ex DM 270 del 2004 e successive modiche e integrazioni, nel rispetto del principio costituzionale della parità di trattamento, senza alcun ricorso a complicate e inarrivabili equipollenze/equivalenze/equiparazioni;4) istituzione di nuove Classi dl Laurea e Laurea magistrale per gli ordinamenti didatticiaccademici di I e Il livello che non trovano corrispondenza con le classi di laurea vigenti;5) riconoscimento, a partire da gennaio 2013, dello status giuridico ed economico di Professoreuniversitario Ordinario e Associato per i Docenti di Prima e Seconda fascia delle AccademieStatali di Belle Arti, nel rispetto dei principio costituzionale della parità di trattamento,utilizzando a tal fine anche i risparmi di spesa derivanti dalla soppressione del compartoAFAM;6) procedimenti di chiamata per il nuovo personale accademico ex L 240 del 2010, fatta salva in prima applicazione un’esplicita riserva di posti per i Professori di seconda fascia e per i precari ex L 143 del 2004;7) tutte le modifiche alla Legge 508/99 devono essere prodotte tramite legge primaria, senzaalcun rinvio a decreti e regolamenti attuativi, al fine di evitare gli ostruzionismi e gliimpedimenti in qui verificatisi alla piena e concreta realizzazione della Riforma Universitariadelle Accademie statali di Belle Arti;8) eliminazione di tutti gli articoli dell’AS 1693 che configurano commistioni istruzione superiore universitaria/istruzione secondaria scuola per le Istituzioni di Alta Cultura, in violazione dell’articolo 33 della Costituzione.

Roma, 14 dicembre 2011

Il Consiglio Nazionale Professori Accademie Statali di Belle Arti

Il Consiglio degli Studenti per la Riforma Universitaria delle Accademie

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Dire più delle parole. Mario Dondero in Accademia.A cura di Kevin McManus*

Abbiamo incontrato Mario Dondero in occasione del conferimento del Diploma di II Livello Honoris Causa in Arti Visive. Prima di ricevere il titolo dalle mani del prof. Gastone Mariani, il grande fotografo ci ha concesso una chiaccherata informale sulla sua particolare visione del fare fotografia e sulle possibilità di formazione dei giovani fotografi al giorno d’oggi.

Ascoltare Mario Dondero e guardare le sue fotografie sono quasi la stessa cosa. La scelta delle informazioni, degli aggettivi, dei dettagli che animano i suoi racconti – sempre affascinanti, anche quando si è perso l’inizio e non si sa bene di chi o di cosa si stia parlando – è per molti versi analoga alla scelta degli scatti, delle espressioni, dei particolari che danno vita alle sue foto. Perché forse la fotografia, per Dondero, è proprio questo: suggerire la complessità, la totalità di senso a partire da un dettaglio, senza che chi guarda sia necessariamente informato della relazione tra i due. La fotografia appare in Dondero come una grande sineddoche, e per questo implica tutte le responsabilità che gravano sullo scrittore – o sul narratore – quando costruisce una figura retorica.Dondero è quello che dice di essere. Accoglie tra le sue mani il Diploma di II livello honoris causa dell’Accademia di Brera, e lo fa nella piena consapevolezza che si tratta di un titolo di studio, e non di un banale premio. I ringraziamenti vanno alla realtà e alle persone che popolano quell’ “università alternativa” di cui parla spesso. Non ama parlare per grandi concetti astratti: per lui non c’è pensiero, non c’è filosofia che non sia incarnata in un aneddoto, in un volto o in un luogo. Fotografo fino al midollo, senza smentirsi. Ci avviciniamo a Dondero mentre parla dell’ambiente romano, dei locali che lo animavano ai tempi, delle personalità che era possibile incontrarvi – da Pasolini a Flaiano, da Berto a Moravia, da Monicelli a Scola. Del clima milanese del Bar Jamaica, di Bianciardi e Fusco, di Crippa e Dova, di Manzoni e Lucas, parlerà la sua voce registrata qualche anno fa, nel documentario di RaiSat che ha scelto come vero e proprio “discorso ufficiale” per l’occasione.

Gli faccio notare – chissà quante volte se l’è sentito dire – come sia piacevole e icastica la sua vena narrativa nel parlare; ma come si fa a raccontare così tramite la fotografia?M.D.: Credo che entrambe le cose siano importanti. Quello che conta è la predisposizione e la disponibilità a raccontare e descrivere, a condividere con gli altri la propria esperienza delle persone, dei luoghi e delle cose. Detto questo, la fotografia consente sicuramente di dire cose che a parole non si riescono a comunicare. Prendiamo ad esempio la foto recente di Anne Sinclair, la moglie di Strauss-Kahn, all’uscita dal tribunale: le si vede il pianto nel volto, non piange ma la

foto ci fa capire che sta piangendo dentro. Quante parole ci vogliono a raccontare un’impressione del genere, e quanto ci si avvicina a rendere l’idea? La fotografia arriva molto più in profondità, ma ha una sua etica precisa: Il fotografo deve immortalare ciò che racconta qualcosa, ciò che mostra anche un prima e un dopo. Troppo spesso invece si fanno foto per puro gusto estetico, con l’idea di nobilitare la realtà anziché raccontarla. Io sono per la foto-verità, e in questo senso Robert Capa è sicuramente il mio maestro.Questa capacità di raccontare si vede soprattutto nei suoi ritratti, dai quali s’impara sempre qualcosa sul soggetto, anche il più sconosciuto.Eppure sono fatti nella massima spontaneità, senza un progetto. Il famoso ritratto di Pasolini con la madre, che tutti citano, l’ho fatto in tre secondi. Proprio per questo motivo, ci sono migliaia di foto che non ho mai scattato, o che ho perso l’occasione di scattare; sopravvivono come ricordi, ma sono così squisitamente visivi da essere vere e proprio foto mancate. Faccio un esempio: mi trovavo a Civitavecchia, in un giorno di sciopero delle navi. C’era solamente il ferry-boat delle F.S., con duemila persone che aspettavano innervosite, sudate e stanche; a un certo punto una ragazza alle nostre spalle chiama “Mario!”, e ci giriamo in ottocento, contemporaneamente. Questa girata di teste collettiva non l’ho fotografata, sarebbe stato uno scatto bellissimo. Ma ce ne sono tante così, le chiamo “foto non consumate”. Poi ce ne sono altre non fathte per pietà, nella consapevolezza che con una foto si può rovinare una persona; la tentazione viene, ma è troppo facile giudicare con una foto. In ognuno c’è qualcosa di etico, che casomai si perde o si maschera per una serie di cause. Il fotografo deve innanzitutto rispettare gli altri, al contrario di quanto fanno molti paparazzi di oggi. Quelli di un tempo avevano un loro modo di rispettare i propri soggetti, mentre oggi quell’etica non scritta si è perlopiù persa.A tale proposito, Roland Barthes scrive la famosa frase: “Ciò che devo difendere è il mio diritto politico ad essere un soggetto”. Le nuove tecnologie digitali, che rendono i processi manipolatori accessibili anche all’amatore meno esperto, rischiano di aprire una questione morale sulla fotografia?Certamente. Il fotografo deve sempre essere onesto e moralmente integro, a prescindere dalla tecnologia che usa, cosa che del resto si può dire di qualsiasi artista o letterato. Come dicevo, la fotografia è sempre uno strumento di “giudizio”, e va usata con rispetto. Le nuove tecnologie presentano sicuramente un problema in più, perché la fotografia non è più esclusivamente “foto-grafia”, e quello spazio che rimane aperto è suscettibile di manipolazioni. Ma credo che l’onestà sia sempre necessaria, e sia sempre alla base di questo lavoro, a prescindere da quanto sia tecnicamente facile essere disonesti. Detto questo, il digitale offre molti vantaggi tecnici e qualitativi, oltre che accelerare in modo utile ed efficace il processo comunicativo legato alla foto, che spesso è la ragione principale per cui si fotografa. Se io non lo uso, in fin dei conti, è soprattutto per l’affetto che provo ancora verso le vecchie macchine.Domanda da “neo-dottore”: come può formarsi oggi un fotografo? Cosa si sentirebbe di dire a un giovane che vuole esprimersi tramite la fotografia?Oggi ci sono molte più possibilità di formazione “strutturata” rispetto ai miei tempi. Io allora avevo poco da studiare e molto da imparare sul campo. Credo che il fare, il metodo empirico, sia ancora la risorsa principale, e in questo il digitale aiuta molto, perché libera il fotografo dall’ansia dell’errore. Oggi esistono ad esempio i workshop, nei quali il processo di apprendimento consiste, in pratica, nel guardare un altro fotografo che scatta, prima ancora di rivolgersi alla realtà; può essere utile come avvio, ma è bene che ciascuno impari presto a vedere la propria verità, che è quello che alla fine si vede in una fotografia. Consiglio ai giovani di andare a scuola per imparare la tecnica, per conoscere i materiali e l’aspetto “artigianale” della fotografia. Quello “artistico”, la capacità di dire e raccontare tramite la foto, si impara studiando altro, facendosi una cultura generale, coltivando la propria formazione intellettuale e il proprio interesse verso il mondo.

* Kevin McManus collabora con la cattedra di Storia dell’arte contemporanea dell’Università Cattolica; è docente di “Modern and Contemporary Art” presso la sede milanese dell’Institute for the International Education of Students (IES).

* foto di Eraldo Misserini

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Un libro e una mostra:

MEMENTO MEIFRENOLOGIA E CRANIOSCOPIA DELL’ARTE

Di Alberto Zanchetta

Nelle arti visive esiste una provocazione rivolta a colui che guarda e viene a sua volta osservato: è l’effigie del teschio, che con le sue vuote fosse orbitali ci fissa e non smette di ammonirci dall’oltretomba. Pur incutendo una certa soggezione, il suo sguardo ha la facoltà di unire il mondo di quaggiù con quello di lassù; lungi dal voler urtare la sensibilità e il buon gusto, il teschio non è una scheggia strappata al passato, bensì una scheggia conficcata nell’eterno presente, “volto plurisecolare” che ha saputo disfarsi della carne così come si farebbe con una maschera che cela la sostanza delle persone. Ben più che una semplice terminazione del corpo ossuto, il cranio umano è una vera e propria monade, una reliquia antica quanto l’infanzia dell’uomo.Simbolo per eccellenza della vanitas e del memento mori, la testa di morto racchiude un presagio sulla fatuità della vita e sulla futilità di ogni conoscenza, concetti che sono all’origine del libro “Frenologia della vanitas” pubblicato dalla Johan&Levi (il titolo allude alla pseudoscienza frenologica, metafora della critica d’arte che si trova alle prese con il simbolo per eccellenza della morte, ossia il teschio). La genesi di questo saggio risale agli anni in cui ero ancora un semplice studente. A quei tempi alternavo le visite nelle pinacoteche a quelle nei musei di anatomia comparata, frequentavo i cimiteri monumentali e transitavo dai musei archeologici verso quelli d’arte contemporanea. In questo disinvolto e curioso vagabondare lo sguardo si soffermava spesso sull’emblema del teschio, dapprima in modo passivo, in seguito ricercandolo con sistematicità. Allora

ero solito lamentarmi per la scarsa persistenza dei motivi macabri nell’iconografica più recente, ma, a dispetto delle mie iniziali e ormai datate supposizioni, nella prima decade del Terzo millennio il mio disinganno si è alquanto mitigato. Proprio per questo motivo ho deciso di rimettere mano ai vecchi appunti nel tentativo di ripercorrere le vicissitudini cui il teschio è stato sottoposto negli ultimi anni, sia per comprenderne più a fondo il significato sia per cercare di capire quale fosse il destino che l’attende. La prima stesura del libro risale al 2001, si trattava di una bozza ancora molto acerba che ho ripreso in mano diverse volte nei successivi dieci anni, con continui rimaneggiamenti, approfondimenti, correzioni che ne hanno modificato la forma e la sostanza. L’assiduità di tornare sui miei passi ha influito sullo sviluppo del saggio critico, trasfondendo nella scrittura quello che accadeva durante la ricerca bibliografica e iconografica: inseguendo le connessioni tra la tradizione e la contemporaneità, così come tra gli stili e le epoche, ogni spinta in avanti era controbilanciata da un’altra a ritroso. Creando una simbiosi tra la nostra nevrotica modernità e il gusto per lo scavo nella storia passata, ho preferito non adottare un criterio cronologico né un rigido ordine classificatorio, privilegiando semmai uno sviluppo rizomatico. Lavorando per concetti e cortocircuiti, l’organizzazione testuale ha infatti favorito uno scorrimento (dal generale al particolare) e uno sconfinamento (culturale, geografico, temporale) che mi ha permesso di orchestrare i generi e i simboli macabri secondo gradi di affinità e consanguineità.Nella sua perpetua trasformazione, il teschio mi ha obbligato a riflettere sul senso della vita, e più precisamente sul “senso della morte”, che è uno dei topoi più frequentati dall’uomo. Ben lungi dall’aver perso o esaurito la propria carica dirompente, i teschi hanno riacquistato buona parte del loro officio nel corso del Novecento, ma è soprattutto sul volgere del nuovo millennio che abbiamo assistito a un loro sostanziale incremento demografico. Più onnipresenti che onniscienti, i teschi hanno ripreso a vessare e vezzeggiare le arti visive, prolungando le loro sembianze con un nutrito ventaglio di possibilità; rimestando il sacro nel profano, il rituale della messa a morte è stato dissepolto dall’immaginario collettivo con tanta e tale enfasi da falsarne la genealogia. A causa delle vicissitudini storiche, il teschio corre oggi il rischio di perdere o confondere la sua funzione teologica per diventare un simbolo accessorio, modificando così il nostro stile di vita in uno “stile di morte”. Ciò che una volta conservava la vita, e che a essa rimandava inequivocabilmente, sembra ora inerte, quasi inerme, impossibilitato ad arrecare dolore o a imporre una morale. Suo malgrado, il teschio è diventato un oggetto devitalizzato? È forse stato fossilizzato e privato d’ogni facoltà o qualità? Come mai l’arte contemporanea è stata investita da una psicosi legata al memento mori? A questi e a molti altri interrogativi cerca di rispondere la mia “Frenologia della vanitas”.Il leitmotiv del teschio, divenuto di stringente attualità negli ultimi cinque anni, mi ha inevitabilmente portato a organizzare delle mostre sul tema. Caso a parte è il progetto che ho ideato su invito di Paolo Galli, che è condirettore della sede di Milano della galleria Rubin. Confrontandoci ci siamo posti il problema di adottare un criterio che esulasse dalla comune prassi espositiva. Era nostra intenzione mettere in evidenza un progetto curatoriale che nel momento in cui mostrava (le opere) si mostrasse a sua volta. In altre parole volevamo realizzare una mostra che fosse in grado di interrogare se stessa, e quale migliore simulacro del – proprio – cranio, custode di memorie e di conoscenze che sono più intuite che comprese? Posto che il teschio umano è un grand maître à penser, ci siamo resi conto della necessità di ripensare le dinamiche espositive, sia del curatore che della galleria. La rêverie suggerita dalle teste di morto si è concretizzata quindi in una sorta di autoritratto che aveva il compito di indagare la genesi e le derivazioni del libro. Non quindi una semplice esposizione d’arte bensì un approfondimento e un “accanimento terapeutico” che mi ha permesso di sondare i meandri della mente, o più precisamente del mio cranio. Da questo presupposto è nato il progetto “Cranioscopia”, il cui obiettivo era di mettere in evidenza (più che “in mostra”) uno stile di vita, di lavoro e di ricerca non limitabile alla lettura del libro. In altre parole urgeva mostrare ciò che il testo non dice dell’autore, ossia le sue ossessioni, la sua maniacalità, la sua “affezione” verso gli oggetti. Contrariamente al monito intimato dalle vanitates, che condannano il morboso attaccamento alle cose terrene, il progetto alla galleria Rubin fa leva proprio su questo

un libro, una mostra

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paradosso: se da un lato i lussi e i bisogni materiali non valgono nulla di fronte alla morte, dall’altra è anche vero che ogni uomo ha la facoltà di accumulare esperienze che lo rendano sazio e appagato della propria esistenza.In virtù di ciò, nella galleria sono state esposte opere d’arte provenienti dalla mia collezione privata, tutte collegate ai temi e all’iconografia macabra. Incisioni, xilografie e calcografie di artisti del passato si sono mescolate con una selezione di autori ignoti o di artisti contemporanei. Oltre agli accostamenti tra il passato e il presente, ho creato anche dei tavoli di lavoro – sull’esempio dei tavoli d’obitorio – in cui inanellare reperti, documenti e oggetti che potessero interagire con la mia opera saggistica. Radiografie, teste frenologiche, atlanti d’ossa, vertebre e frammenti di crani umani hanno fatto da corollario ai diciotto Taccuini tanatologici composti da immagini che ho collezionato, ritagliato e incollato su dei quaderni durante la stesura di “Frenologia della vanitas”, quasi fossero una propaggine del mio saggio (ogni taccuino è però

stato pensato come un liber mortuorum cum figures, vale a dire: senza parole). Mantenendomi in bilico tra la nuda documentazione e una libera re-invenzione del materiale a mia disposizione, ho voluto così compiere un’indagine esistenziale, alla maniera di una “cranioscopia sul vivente”, conscio del fatto che non è possibile dire tutto in una volta soltanto.

Alberto Zanchetta è critico d’arte e curatore indipendente. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, attualmente insegna Storia dell’Arte alla LABA di Brescia. Nel 2006 ha pubblicato il pamphlet Antologia del Misogino, nel 2007 il saggio Humpty Dumpty Encomion e nel 2011 il libro Frenologia della vanitas. Scrive per le riviste Flash Art, Exibart.on paper, Espoarte. Ha curato e presentato oltre duecento mostre in spazi pubblici e privati. Paolo Galli si è diplomato in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2002 entra a far parte dell’organico della galleria Rubin, di cui è condirettore dal 2009, seguendo prevalentemente la scultura e le giovani proposte.

“Ascolta il tuo cuore, città”, istallazioni 2010-2011 e sculture degli anni ‘60A proposito della mostra di Fausta Squatriti presso Assab One ex stabilimento GEA, Milano (novembre/dicembre 2011)

Di Claudio Cerritelli

Con un allestimento irripetibile negli spazi dell’Ex stabilimento Gea di Milano, Fausta Squatriti ha proposto un duplice orizzonte di ricerca presente nel suo complesso percorso operativo, da un lato un gruppo di sculture policrome degli anni ’60 e, dall’altro, le opere poli/materiche e pluri/linguistiche della recente stagione creativa.I due periodi distanti nel tempo si mescolano e si confrontano nel primo tratto espositivo giocando con evidenza sulle tensioni espressive contrapposte. Se negli anni sessanta la fantasia plastico-cromatica aleggia nell’atmosfera radiosa di puri valori sensoriali, nel recente decennio sono le contraddizioni drammatiche della vita a condurre il lettore nei meandri del visibile, attraverso correlazioni di immagini che raccontano la solitudine umana e il progressivo straniamento disarmonico tra l’essere e il mondo.Per le opere che occupano l’altro versante dello spazio è l’ingombro dilaniato del presente a essere protagonista, con tutto il carico di memorie, progetti e utopie sinestetiche che la città comporta, soprattutto se è immaginata – come efficacemente avviene nell’arte di Squatriti - come territorio frantumato in molteplici orizzonti di senso, e ricomposto attraverso contaminazioni e ibridazioni che il disagio dell’artista contemporaneo inevitabilmente comporta.Il titolo della mostra (“Ascolta il tuo cuore, città”) è la diretta citazione del romanzo di Alberto Savinio dedicato a Milano (1944), evocazione letteraria di sottili addentramenti nei segreti delle cose, tra fantasmi concreti e figure magiche che precedono i bombardamenti dell’agosto 1943 di cui lo scrittore ha voluto dare testimonianza nelle ultime pagine del libro. Per Squatriti questo riferimento non significa calarsi in quell’ordine di visionarie percezioni, esso diventa uno splendido pretesto per verificare i meccanismi compositivi del suo linguaggio e

mettere in scena la forza delle sue congiunzioni, fotografia, pittura, oggetti trovati e forme costruite.“La sua città è fuori dalla storia – precisa in catalogo Jacqueline Ceresoli - è immobile, metafisica e immanente, rappresentata con fotografie simili a quelle che si trovano sulle tombe dei cimiteri ‘gotici’, dove tutto è ordine, calma, stabilità, e l’atmosfera e di triste e poetica bellezza”.Alternandosi tra spazi aperti e piccole stanze allestite come nicchie dell’inconscio le immagini inconfondibili di Squatriti diventano dispositivi visivi, verbali, tattili e persino olfattivi. Luoghi dell’immaginario urbano regolati dal persistente accostamento di materiali e materie diverse: guanti bitumati, stoffe ritagliate, velluti e sete modellate, utensili di recupero, reperti di natura imbalsamata, fiori, rami, conchiglie, e ancora: corde, filo di ferro, zolle di terra, oggetti di mutevole consistenza formale. Si tratta di un sistema variabile di accostamenti tra foto, pigmento, resina e gesso che si amalgamano con questa varietà di elementi giocando sul filo di un rischioso calcolo immaginativo, come se dal cuore di ogni accostamento potessero determinarsi altre insorgenze espressive, inesplorate misture percettive. Ciò che conta per Squatriti è fermarsi sempre al punto giusto, essere consapevole che l’eccesso è un’arma della ragione che va vissuta senza pentimenti, tanto è vero che la logica dei tre linguaggi simultanei garantisce all’immagine un flusso perpetuo di sensazioni visive e mentali che si sovrappongono anche se possono vivere anche separatamente. Nella costruzione di ogni recente istallazione l’artista sembra ripercorrere le modalità operative della sua storia, con la sapienza del fare e la qualità del pensare ogni immagine come sintesi di una visione attiva, imperterrita. L’identità di ogni opera slitta dal dettaglio fotografico verso l’emozione geometrica del piano pittorico, per poi materializzarsi nelle suggestive teche di legno, costruzioni elementari e artigianali dove le materie diventano tramiti di espansione del pensiero tattile.“In questo ciclo di opere – ha osservato Elisabetta Longari- Squatriti adotta per la prima volta la tecnica di ingessatura degli elementi organici rivestiti di un bianco innaturale, e in questa personale rivisitazione della Natura morta l’artista immobilizza la vita”.Questo significa che a distanza di anni – nel corso di esperienze che oscillano dalla fredda perfezione dell’astrazione formale all’irriducibile drammaticità del realismo critico – l’artista intende rivelare gli stati di permutazione di una diversa idea di bellezza, la bellezza delle contaminazioni, con inevitabili connessioni con l’amata avanguardia dada e surrealista, oltre che con i canoni del costruttivismo. Si rinnova in questo tipo di concezione una dimensione del valore estetico che può nascere dalle scorie della perduta armonia, dai detriti della storia sociale, dagli stati di violenza e di sopraffazione, dagli istinti di sopravvivenza dentro un mondo in sfacelo, finanche sensazioni putride di materie intrise di morte. Infatti, quello che sembra essere nell’arte di Squatriti una visione della vita senza prospettiva e senza scampo indica invece profonde e sconosciute soglie per il riscatto dell’immaginazione, per la presenza di nuovi bagliori emotivi, per prodigiose invenzioni della materia capaci di rigenerare ogni volta il pensiero dell’arte dai suoi stati di depressione creativa.

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PINO DI GENNARO con il suo nuovo “Mmanuale Di Scultura”, un libro che ci insegna a capire e a praticare la scultura dalle forme più basilari ai linguaggi più complessi.

di Gaetano Grillo

Pino Di Gennaro, collega a Brera, scultore con tanta esperienza e tanto impegno profuso per la didattica, ha da poco pubblicato con Hoepli un’edizione aggiornata del Manuale di Scultura che già era stato, negli anni passati, un libro di riferimento per i Licei Artistici e per le Accademie.Una pregevole edizione di 222 pagine che trattano la scultura, le sue tantissime tecniche e la complessità del suo linguaggio, attraversando la storia, l’approccio scientifico, la metodologia, la spazialità, le materie e i materiali, la sapienza e la sensibilità, i temi del primordiale e quelli del primario, gli aspetti tribali e i riti dell’arte contemporanea.Il lettore può trovare numerosissimi spunti e indicazioni, di tale chiarezza che anche un neofita sarebbe stimolato a cimentarsi con la scultura. Un’edizione davvero efficace che ci accompagna per mano spiegandoci tutto con paziente completezza, sia gli aspetti teorici sia quelli pratici, le ragioni delle scelte dei materiali in funzione agli obiettivi, i motivi per cui la scultura spesso sconfina in altri linguaggi soprattutto installativi, oggettuali, performativi e addirittura digitali e virtuali; il tutto con una ricchezza davvero pertinente di materiale iconografico.Si può passare dal Canova a Tony Cragg, dagli egizi a Oldenburg, da Giacometti a Cattelan, dalla terracotta invetriata alla Cattedrale Vegetale di Giuliano Mauri; da Lucio Fontana con il suo Spazialismo alla scultura di paesaggio come il cimitero di Urbino progettato da Arnaldo Pomodoro. Gli antichi filosofi greci parlavano dell’arte come tecné, ovvero come indissolubile rapporto fra teoria e pratica e questo libro risulta utile e piacevole alla lettura soprattutto perché affronta ogni esempio di scultura da entrambi i punti di vista.Pino Di Gennaro è stato mio compagno di corso, nei primi anni ’70 all’Accademia di Brera, iscritti alla mitica Scuola di Scultura di Alik Cavaliere. In quegli anni snobbavamo le tecniche perché privilegiavamo i temi ideali e anche politici dell’arte, il suo ruolo sociale e le sperimentazioni. Ciò nonostante l’esercizio dell’arte ci ha portati anche ad approfondire con percorsi individuali, tutti quegli aspetti del linguaggio che gli artisti conoscono e che la critica d’arte ormai quasi ignora.

Nel processo di desertificazione in corso delle aree tradizionalmente riservate alla “colta manualità”, questo libro sembra essere una panacea.Sento di consigliare a tutti l’acquisto di questo volume, per la propria cultura e curiosità ma anche come guida indispensabile in ogni aula di Accademia e in ogni studio d’artista.

Pino Di Gennaro, Manuale di Scultura, Ulrico Hoepli Editore S.p.a.

recensioni

Di sguardi sognanti risentiti inquietiMaria JannelliSpazio Hajech, Milano

di Francesca Pensa

La produzione artistica di Maria Jannelli si è sempre più orientata, in questi ultimi anni, verso il tema del ritratto: questo antichissimo genere della storia dell’arte trova infatti nei lavori della pittrice una declinazione moderna, che ne dimostra le interessanti possibilità espressive in una dimensione di contemporaneità.La Jannelli: alcune sono le amiche di Maria e rappresentano il suo mondo, mentre altre sono personaggi rilevanti della cultura più recente, come, ad esempio, Virginia Woolf, Frida Kahlo, Patti Smith. E se per ciascuna è evidente la ricerca della fisionomia individuale, che si concretizza nella definizione di una forma originale e unica, per tutte vale quella particolare trasfigurazione che, pur mantenendo salda la riconoscibilità del soggetto, la trasporta in una dimensione particolare, che è quella tipica della pittura dell’artista.Questa idea mostra un evidente approfondimento negli ultimi lavori dell’artista, nei quali i visi delle ritrattate, ripetuti anche più volte sulla stessa tavola, perdono ogni riferimento con il corpo e galleggiano, solitari e metafisici, nello spazio neutro dello sfondo. E tale interessante confronto viene proposto in questa esposizione nella comparazione con i ritratti delle Belle di Villa Ghirlanda Silva di Cinisello Balsamo, presentati, seppur nel lavoro interpretativo degli studenti del Liceo di Brera, nella mostra gemella che nella Biblioteca della sede di via Papa Gregorio affianca la manifestazione dello Spazio Hajech.

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CONTROCORRENTE

L’eterno presente della pittura italianaUn particolare evento espositivo si è presentato a Siracusa, in quell’area del sud-est della Sicilia orientale tutelata dall’UNESCO, quasi una leggera riflessione sulla pittura tra artisti e operatori delle Accademie italiane, da Brera a Foggia, da Reggio Calabria a Noto, secondo la curatela di Maurizio Coccia, docente di Storia dell’arte all’Albertina di Torino.Il file rouge conduttore della manifestazione è quella apparente riflessione sull’unitarietà culturale e tutta italiana della pittura come modello di esportazione internazionale, non a caso Coccia afferma nel suo saggio introduttivo Cielo di stelle, cielo color del mare, che una più intensa indagine sulla relazione tra musica e pittura italiana, tra canzonette e decorazione sono state e saranno probabilmente “…uno strumento privilegiato per interpretare l’identità di un popolo…”.Il connubio tra gi artisti presenti nasce inizialmente da una identità comune, essere Normanni d’origine, dalla Puglia alla Sicilia, da Foggia a Palermo, rivivere questa unitarietà federiciana comune come propulsore di una successiva diversità nella produzione artistica del contemporaneo. In uno spazio, non propriamente ad hoc, nella città della ricostruzione industriale, nei quartieri commerciali suburbani di Siracusa e non più nel ben tutelato centro storico della mitica Ortigia, gli artisti nella loro complessità hanno mostrato una diversità propositiva di segni e riflessioni. Dalla eterea leggerezza cromatica e acerba di Nicola Maria Martino che dedica un frammento della sua cifra pittorica a Tripoli alle simmetrie stellari e della memoria di Letterio Consiglio, come particolare è l’intervento a difesa della natura di Delfo Tinnirello, che istaura un dialogo spaziale con il visitatore, mentre Gaetano Grillo si mostra con dei Palinsesti di cifre culturali dalla policromie mediterranee, partiture di una identità culturale o per chi legge col cuore. Si succedono poi i frammenti di una pittura simbolica nell’opera di Piero Di Terlizzi, oggetti di un’apparente quotidianità che si velano di un’aura quasi sussurrata, affini alle etiche ed intrinseche narrazioni segniche di Angelo Cortese e non per ultimo le particolari tridimensionalità pittorico-luministiche di Sebastiano Altomare.Un’occasione culturale che ha permesso di guardare alla complessità degli operatori cultuali delle Accademie italiane, un evento ideato dal PDA polo didattico accademico Val di Noto con il patrocinio della Provincia Regionale di Siracusa.

Ornella Fazzina (Accademia di Belle Arti di Catania)

E IL TOPOPERIODICO D’ARTISTA EDIZIONI NUOVI STRUMENTI

OPEN CALLE IL TOPO, in collaborazione con CARE OF DOCVA, Milano, e SUPPORTICO LOPEZ, Berlino, indice un concorso per la pubblicazione del numero 12 della rivista, intitolato: “Re-Birth”:

E IL TOPO – rivista d’artista nata da un’idea di Gabriele Di Matteo, Piero Gatto, Franco Silvestro e Vedova Mazzei, pubblicata tra il 1992 e il 1996 assieme a Piero Cavellini e la sua “Edizioni Nuovi Strumenti”, – ha proposto progetti inediti, pensati appositamente per essere fruiti attraverso le pagine della rivista. Con i contributi di artisti quali Art Club 2000, Stefano Arienti, Massimo Bartolini, Maurizio Cattelan Vanessa Beecroft, Mark Dion, Dominique GonzalezFoerster, Eva Marisaldi, Grazia Toderi e molti altri, E IL TOPO ha profeticamente registrato lo spirito e l’attitudine di una generazione di artisti i quali, all’epoca, stavano per ricevere il definitvo riconoscimento da parte di critica e pubblico.

Il numero 12 della rivista verrà realizzato nel 2012, dopo sedici anni dalla pubblicazione dell’ultimo numero, in collaborazione con CARE OF DOCVA e SUPPORTICO LOPEZ. Questo nuovo numero vuole mostrare sin dall’inizio un forte senso di continuità, ma allo stesso tempo di innovazione, nei confronti della precedente edizione.

Il concorso è volto a ricercare materiale fotografico, precisamente ritratti di persone del mondo dell’arte che sono decedute negli ultimi 16 anni, il periodo di tempo in cui E IL TOPO era sparito senza lasciare tracce. Ogni partecipazione deve esplicitare la fonte dalla quale si è reperita l’immagine proposta; si informa che saranno privilegiate per la pubblicazione le immagini di tipo privato, di alta qualità (300 dpi) e mai pubblicate. Il materiale raccolto verrà successivamente selezionato e pubblicato nella rivista, la quale verrà presentata il 27 Marzo dopo un workshop e una serie di eventi della durata di un mese a Milano presso CARE OF DOCVA. A partire dal 29 febbraio, fino al 27 marzo la sede si trasformerà nella redazione di E IL TOPO.

E’ possibile scaricare il regolamento completo del concorso e la domanda di partecipazione sul sito www.careof.orgLe immagini devono essere inviate entro il 26 Febbraio 2012 all’indirizzo e-mail [email protected]

CAREOF è un’organizzazione no profit italiana per la promozione della ricerca artistica contemporanea fondata nel 1987 a Cusano Milanino (MI). Fin dall’inizio l’attività di Careof si è concentrata su due elementi che sono andati a svilupparsi con il passare degli anni. Da una parte Careof si è delineato come uno spazio aperto alla sperimentazione artistico-culturale, dall’altra parte è un centro di archiviazione e documentazione di diversi materiali d’artista disponibili per la consultazione da parte del pubblico presso DOCVA Documentation Center for Visual Arts. Un traguardo molto importante è stato raggiunto nel 2006 quando il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha incluso Careof tra gli Archivi Storici di rilevanza nazionale.Nel 2001 Careof si è spostato presso Fabbrica del Vapore, un centro culturale multidisciplinare a Milano, dove, oltre alle attività di promozione e documentazione dell’arte contemporanea, l’organizzazione ha iniziato un programma di residenze. www.careof.org www.docva.org

Supportico Lopez nasce a Napoli nel 2003 dal progetto di due artisti e un curatore i quali decidono di dedicare una stanza del loro appartamento a mostre pubbliche di artisti internazionali. Negli anni il progetto viene portato avanti da Gigiotto Del Vecchio – uno dei fondatori – e da Stefania Palumbo come uno spazio curatoriale per la diffusione dell’arte, prende il nome dalla via in cui aveva sede a Napoli, in uno dei più vecchi, caratteristici e contraddittori quartieri della città: “la Sanità”. Nel 2008 Supportico Lopez comincia una nuova vita spostandosi a Berlino. Qui, nel nuovo spazio sito in Graefestrasse 9 a Kreuzberg, l’obbiettivo è quello di essere una galleria all’interno della quale le attitudini di entrambi i curatori diventino sempre più peculiari. www.supporticolopez.com.

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RACHELE FERRARIO

David Tremlett. The Thinking in Space.“Stanza d’artista”, Nomos edizioni, 2011.

di Elisabetta Longari

Lo studio, l’atelier, il luogo proprio del fare arte, l’ambiente fisico ma anche e soprattutto lo scenario mentale e metaforico, è l’argomento su cui si basa la collana, ideata e diretta da Rachele Ferrario, che fin qui ha anche firmato ogni titolo uscito. La collana va a colmare un vuoto conoscitivo e a illuminare un risvolto fondamentale della creazione, sondando le fonti, le condizioni e le modalità con cui i diversi protagonisti mettono in movimento il processo creativo. Il primo volume è dedicato a Giulio Paolini, il secondo a David Tremlett, portatori di poetiche e atteggiamenti distanti, in certa maniera si

PNEUMA. Dentro e attorno all’aria. Franco Mazzucchelli.Opere 1964-2011. Galleria Il Milione, Milanodi Melissa Provezza

Pneuma. Dentro e attorno all’aria è il titolo della mostra personale di Franco Mazzucchelli, a cura di Matteo Galbiati, presso la Galleria Il Milione di Milano. L’esposizione propone un’accurata selezione di opere dal 1964 ad oggi, rappresentative delle diverse fasi del percorso dell’artista milanese.Centrali nella ricerca di Mazzucchelli sono l’utilizzo di materiali sintetici non tradizionali della scultura (resina poliestere, poliuretano espanso, termoretraibili, p.v.c. gonfiabile) e la relazione tra l’opera e lo spazio nel quale questa viene inserita.È il materiale plastico – di origine industriale, ma vicino al quotidiano per via dell’uso comune che se ne fa – ad essere privilegiato quale contenitore di aria, di respiro, in definitiva di vita. Prendono corpo volumi talvolta ingombranti, talvolta appena visibili come sottili membrane di memoria organica.

recensioni

potrebbero dire quasi opposti: per comodità riassumendoli in due grandi categorie quali il “classicismo” per l’artista italiano, in cui è l’opera a creare lo spazio attorno a sé, e l’”empirismo” per l’inglese, in cui è l’ambiente a suggerire l’opera. Il prossimo volume della serie in preparazione è su Mimmo Paladino.

Le opere di Mazzucchelli annientano l’idea della monumentale staticità della scultura, per calare quest’ultima nel flusso dell’esistenza, dando vita a forme semplici – piene d’aria, gonfie di vita – che invadono lo spazio invitando lo spettatore ad interagirvi, attivando il contesto che le ospita, sia esso naturale o urbano.In mostra, accanto alla produzione più recente dell’artista, sono visibili fotografie che illustrano installazioni a partire dagli anni Sessanta. Sono di quel periodo e del decennio successivo le serie Abbandoni, A. TO A., Sostituzioni, Riappropriazioni: interventi ambientali e sociali in spazi cittadini o nel paesaggio naturale.Quell’aria prigioniera che negli anni Sessanta veniva abbandonata in tubi di p.v.c. lungo spiagge o sulle acque di un lago, in piazze o parchi, all’interno di gonfiabili su cui adulti e bambini si sedevano, prende oggi la forma di quadro, pezzo da parete, aria da appendere. Gli Abbandoni e le Riappropriazioni di allora diventano nell’ultima produzione dell’artista preziose opere a parete, come preziosa è l’aria, quasi un bene di lusso.Gonfiabili neri, rossi, argentei, trasparenti, respiranti dai muri scompongono e muovono l’immagine riflessa dello spettatore, attirata e risucchiata in vortici sinuosi. Non solo l’occhio viene catturato tra i riflessi, ma il tatto vorrebbe sfiorare le lucide superfici che proteggono l’afflato.Realizzata appositamente per la mostra è Pneuma 2011: grande scultura a parete che ogni dieci minuti lentamente gonfia le tre sezioni di cui è composta. Si tratta di un processo ritmico che culmina dopo cinque minuti, momento dopo il quale inizia a sgonfiarsi per tornare allo stato iniziale.Con ammirevole spirito autoironico Franco Mazzucchelli intitola questi quadri e sculture a parete Bieca decorazione, in contrasto con la monumentalità delle opere che da sempre realizza.

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OPERE SU CARTA DI GIANFILIPPO USELLINI PRESSO LA BIBLIOTECA DELL’ACCADEMIA DI BRERADi Claudio Cerritelli

A quarant’anni dalla sua scomparsa l’Accademia di Belle Arti di Brera ha reso omaggio alla figura di Gianfilippo Usellini (Milano 1903- Arona 1971) con una mostra di opere su carta (1923-1971) che documenta le fasi salienti della sua ricerca, dai primi fogli disegnati nelle aule di Brera (dove si diploma nel 1927) come allievo di Ambrogio Alciati fino agli ultimi cicli della sua attività disegnativa.Nel 1926, a soli ventitré anni, Usellini è invitato alla Biennale di Venezia, dal 1931 al 1941 ha la cattedra di Decorazione Applicata presso la Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano. Nel corso della sua attività artistica è invitato a numerose edizioni della Triennale di Milano, della Quadriennale di Roma e della Biennale di Venezia. Dal 1942 al 1960 insegna al Liceo Artistico di Brera, nel 1961 diventa titolare della cattedra di Decorazione e Affresco all’Accademia di Brera, dove insegna pittura fino al 1971.Le opere di questa esposizione, selezionate in collaborazione con l’Archivio curato dalla figlia Fanny Usellini, si riferiscono a tutti i temi iconografici che il maestro ha distillato nel corso del tempo guardando con lo stesso interesse l’antico e il moderno, attraverso la dimensione classica di uno stile sempre attento alle visioni della contemporaneità. L’arguzia, lo stupore e l’ironia sono tramiti inconfondibili del suo singolare mondo figurale dove i modelli del passato e i legami con le forme del reale si intrecciano nella dimensione onirica e surreale del visibile, come infinita ricerca dei ritmi segreti delle cose.La sapiente misura del disegno è esercitata da Usellini in funzione della pittura, infatti la maggior parte della sua opera grafica è costituita da disegni bozzetti e progetti intesi come prime idee che preludono alle opere pittoriche e ai cicli di affreschi realizzati in diversi luoghi di carattere sacro o civile. Il mondo visionario dell’artista si esprime nella libera scelta di temi che restituiscono all’osservatore

molteplici suggestioni morali e spirituali, dai temi sociali a quelli religiosi, senza mai rinunciare a trasformare la verità dei soggetti nella magia della loro trasfigurazione fantastica, come nella visione della “Biblioteca magica” dove i personaggi della storia vengono incontro al presente.

USELLINI E I SUOI ALLIEVI A BRERADi Fanny Usellini

Insegnare per mio padre includeva molti aspetti positivi che rendevano il suo rapporto con gli allievi particolarmente interessante e piacevole ad un tempo.Nel corso degli anni, nelle mostre a lui dedicate dopo la sua scomparsa, ho avuto modo di incontrare ex-allievi che ancora si commuovono e sorridono nel ricordarlo. Si commuovono per le sue doti di generosa umanità, comprensione, impegno nel porgersi come professore affabile, amico, quasi compagno esperto che offre la sua competenza a parità di livello, senza con questo mai perdere d’autorevolezza; sorridono poi al ricordo di episodi ed aneddoti con cui amava rallegrare le ore di lezione rendendole più piacevoli e coinvolgenti.Come figlia so che non perdeva un giorno di lezione anche se non si sentiva bene; ogni mattina usciva presto di casa per andare a Brera, anche se io stessa lo invitavo a riguardarsi di più. Il suo mondo artistico era là, tra la gioia di dipingere i suoi quadri e il piacere di insegnare. I suoi due studi erano aperti agli allievi, specialmente quello nel sopralzo da lui fatto costruire nella grande aula dove insegnava, a cui si saliva con una comoda scala.Dall’alto della balconata in legno egli poteva osservare l’impegno dei ragazzi che lavoravano e richiamare scherzosamente qualcuno negligente o distratto. A volte invitava anche gli alunni a salire per mostrare i suoi dipinti e per meglio metterli a contatto con la sua raffinata antica tecnica pittorica della tempera grassa all’uovo che egli usava abitualmente. Per l’amico scultore Pietro Coletta ricordare Usellini a Brera significa rivederlo camminare a capo di un seguito di allievi che ricollega alle lunghe file di educande o seminaristi tipiche dei suoi dipinti: anch’io ritengo che questa immagine di Maestro-guida vada figurativamente all’essenza della sua personalità.

PER IL MAESTRO USELLINI

Di Willam Xerra

All’Accademia di Brera, dove ora c’è la biblioteca, ai miei tempi v’era l’aula di copia dal vero. Il Maestro Usellini,che amava molto la cucina, quando entrava per tenere la lezione al mattino, raccontava spesso in modo semplice e simpatico, la cena della sera prima. Nel raccontare era talmente calato nei particolari che riusciva quasi a farci sentire il profumo del cibo. Ci divertiva, poi, improvvisamente, via al lavoro di fronte alla modella nuda. Durante la lezione un giorno mi si avvicina, si ferma, lo sento dietro le mie spalle, sbuffa e mi dice: “Xerra sei bravo, ma... fammi sedere, te la vedet la man? Se fa inscì.” e in silenzio, con particolare applicazione, comincia a correggere la mano della modella che io avevo disegnato...”vedet, la man la se fa inscì.” Nel frattempo un gruppetto di allievi si era avvicinato per osservare la correzione del maestro. A un tratto si leva un coro di voci: “ma professore la mano che sta disegnando ha sei dita!”. La risposta fu: “Sei dita ?... ha sì.... ma la va ben inscì, te vedet la cumpusisiun? “ Che vitalità quel Usellini, con che entusiasmo seguivamo le sue lezioni, ci sentivamo come le sue patate, con gli occhi rivolti all’infinito.

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